Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Massolo:
FILOSOFO SICILIANO, NON ITALIANO -- all’isola -- l’implicatura conversazionale
nelle prime ricerche di Hegel – implicatura idealista di Plathegel e Ariskant –
filosofia siciliana – la scuola di Palermo -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Palermo). Filosofo siciliano. Filosofo italiano.
Palermo, Sicilia. Grice: “If I had to decide on my favourite Massolo, that
would be his ‘historicity of metaphysics,’ way before when I was venturing with
Strawson and Pears to lecture the erudite audience of the BBC third programme
on the topic!” Dopo aver intrapreso gli studi presso il Liceo Classico Vittorio
Emanuele II, si laurea a Palermo con “L’individuo in Rosmini, con Allmayer. Fu
autore di alcuni volumi di poesia. In
seguito ad un periodo di docenza nei licei di Perugia, Catanzaro e Livorno,
insegna a Urbino e 'Pisa. Ha influenzato importanti figure del dibattito
filosofico del secondo Novecento, come Luporini, Badaloni, Sichirollo,
Salvucci, Cazzaniga, Barale, Bodei, Losurdo. Gli scambi epistolari avuti con
numerosi intellettuali (tra cui spiccano i nomi di Gentile, Spirito, Bo,
Fortini, Russo, Capitini, Weil) mostrano l’alta considerazione di cui M. godeva
all’interno del panorama culturale del secondo dopoguerra. Partecipa alla fondazione della rivista
Società, entrando nel comitato di redazione. La rivista, nel primo anno della
sua uscita, ospitò tre importanti saggi di M.: Esistenzialismo e borghesismo, La hegeliana dialettica della quantità, L’essere
e la qualità in Hegel. Idea e fonda la collana «Socrates» dell’editore
Vallecchi, con la quale pubblicò “Filosofia e politica” di Weil, Vita di Hegel
di Rosenkranz e Dialettica e speranza di Bloch. I suoi studi su Hegel, inclini
a valorizzare la filosofia della storia e la dimensione realistica del filosofo
tedesco, contrastano tanto la lettura del neoidealismo italiano (Croce e
Gentile) quanto quella di Volpe. Nell’ambito della sua riflessione Massolo ha
posto le basi teoriche per una nuova ed originale rilettura del rapporto
Hegel-Marx, tanto da essere considerato da alcuni interpreti l’avviatore
dell’hegelo-marxismo in Italia. I suoi interessi teoretici si sono rivolti
principalmente alla filosofia classica tedesca da Kant ad Hegel, della quale ha
studiato, per più di un decennio, i principali momenti storico-teorici. In antitesi all’esegesi del neoidealismo
italiano, che tendeva ad attribuire alle filosofie di Fichte, Schelling ed
Hegel il superamento della finitezza umana che Kant aveva posto a fondamento
della sua filosofia, M. ha proceduto alla rilettura della genesi dell’idealismo
tedesco con l’idea che esso abbia storicizzato i dualismi kantiani in un
processo che si compie nella Fenomenologia dello spirito di Hegel. Nelle fasi più mature della sua riflessione
ha tematizzato in vari saggi la problematica della scissione della coscienza
comune (Filosofia e coscienza comune, oggi), l’idea della completa
politicizzazione del filosofare (Politicità del filosofo, Frammento etico-politico), ed il problema
della storia della filosofia con particolare riferimento al ruolo della
coscienza riflettente del filosofo, nonché al rapporto dialettico tra Pensiero
e Realtà nella città-storia» (La storia della filosofia come problema,). Si dedica alla questione della dialettica
intesa come dialogo, ovvero quell’elemento dialettico-razionale mediante il
quale è possibile conciliare le differenti rappresentazioni dell’oggetto
storico-sociale e le contraddizioni all’interno della comunità. Tramite queste riflessioni, che lo hanno
condotto a porsi in diretta polemica con Nietzsche ed Heidegger, M. ha
contrastato l’idea del sapere come visione solitaria del singolo ed ha
concettualizzato l’idea del sapere come processo essenzialmente dialogico e
comunicativo (La storia della filosofia e il suo significato). Saggi: “Mattutino,” versi (Palermo,
Trimarchi); “Adolescenza” (Palermo); “Convivio; storicità della meta-fisica” (Firenze,
Monnier); “L’analitica di Kant” (Firenze, Sansoni); “Fichte” (Firenze, Sansoni);
“Schelling” (Firenze, Sansoni); “Prime ricerche di Hegel” (Lettere e Filosofia,
Urbino); “La storia della filosofia come problema” – (Firenze, Vallecchi); “Logica
idealista” (Salvucci, Firenze, Giunti-Bemporad, “Della propedeutica filosofica”
e altre pagine sparse, Urbino, Montefeltro, Landucci, M., "Belfagor, Remo
Bodei, Arturo Massolo, "Critica storica", Studi in onore di M.,
Sichirollo, Urbino, Argalia, Badaloni, Ricordo di Arturo Massolo,
"Giornale critico della filosofia italiana", degli scritti di Massolo, Burgio, Urbino, QuattroVenti, “Il
filosofo e la città: studi Domenico e Puglisi, Venezia, Marsilio. La
ricca letteratura critica su M. - tenuta viva da amici ed allievi, ma rivolta
non a celebrare bensì a interpretare l’itinerario
filosofico dell’amico/maestro e il suo modello teoretico, che, da
Heidegger e Kant, lo conduce verso Hegel e Marx, evidenziando così sia
una ‘parabola’ della filosofia italiana (e non solo) del dopoguerra sia
la costruzione di un modello di storicismo connotato in modo assai diverso da
quelli post-crociani o gramsciani, correnti nell’Italia postbellica, e
incardinato su una ontologia storica del soggetto, tale letteratura
critica (che ha coinvolto Landucci e Sichirollo, Bodei e Salvucci, Losurdo
e Badaloni, ecc.), dicevo, ci ha indicato - con precisione - alcuni nuclei
forti di quel pensiero, sottolineandone l’articolazione complessa e la
significativa attualità. Sul primo fronte sono stati il passaggio
dall’esistenzialismo al marxismo, l’interpretazione della filosofia classica
tedesca, il rapporto teoretico fra Hegel e Marx, il nesso fra «il
filosofo e la città» a essere sottolineati; sul secondo, soprattutto, quel
carattere etico-politico del suo storicismo, connesso a un forte e vero
umanesimo» fondato sul dialogo-nella-città e rivolto a una «costruzione
della ragione nel mondo reale, elementi che rendono il suo insegnamento
«ancora fortemente attuale, anche nell’orizzonte del postmoderno
(Salvucci, in Domenico, Puglisi). Proprio per leggere più intimamente il
modello storicistico di M., dobbiamo sottolineare ancora: il
suo passaggio dall’esistenzialismo al marxismo; l’elaborazione del
suo neo-storicismo negli anni Cinquanta; il modello maturo che esso
assume nel lavoro dell’ultimo M., da La storia della filosofia come
problema a Entiusserung, Entfremdung nella Fenomenologia dello
spirito. Lesistenzialismo del primo M., come emerge dagli scritti
dei primi anni Quaranta e culminato in Storicità della metafisica e
in Introduzione all'analitica kantiana, risulta contrassegnato
dalla storicità, ma questa è ancora una struttura ontologica del
soggetto, pro- prio quella che è sfuggita a Kant da trovarsi nella loro
di coscienza tra- [Cambi, Pensiero e tempo: ricerche sullo storicismo
critico: figure, modelli, attualità, Firenze] scendentale e coscienza
sensibile] storicizzazione, nel piano, dunque, della storicità
dell’esistenza umana e di una intelligenza critica dell’uomo - e che va
messa in luce in Heidegger, il quale ci ha evidenziato la «tempora- lità»
dell’uomo (riprendendo e approfondendo Kant, al di là dei razionalismi
idealistici) e la condizione storica (connessa all’esser «il singolo mai
l’aurora», poiché «egli si muove in un mondo già apparso, il cui es- sere
gli è nascosto»? e su cui deve interrogarsi facendo i conti col «passa-
to» che costituisce l’orizzonte di quel mondo) del suo «esserci», in cui è
la «trascendenza pura» del tempo che impone la domanda metafisica,
ma per cui ogni risposta non sarà che condizionata e parziale, poiché è
l’uo- mo che pensa la metafisica, la pensa dalla condizione di
«un’indigenza di essere a cui mai potrà rispondere in toto. Così alla
metafisica spetta una radicale storicità (come domanda/risposta
dell’uomo-nel-tempo), anche perché - inoltre - nel processo di fondazione
metafisica la rivelazione del mondo non significa manifestazione
di qualcosa che rimanga nel suo in sé irrevocabile alla vista, ma il suo
stesso venir pro- dotto all’essere, giacché il suo essere è il suo
apparire. È la storicità stessa dell’uomo che fonda la metafisica
e la ricerca metafisica dovrà porsi il problema della storia perché
unicamente un approfondimento della storicità può permettere di
guardare nella eccezionalità che è la metafisica come azione non del-
l’uomo in generale ma del singolo. Singolo, temporalità, storicità sono
qui gli elementi ontologici su cui si attiva la ricerca di Massolo,
attraversata dalla lezione dello Heidegger degli anni Venti-Trenta (tra
Essere e tempo e Kant e il problema della metafisica), riletto anche
attraverso le indicazioni postgentiliane di Fazio-Allmayer, che nel suo
attualismo critico ha messo al centro sempre più l’uomo e ha guardato a
una umanizzazione del reale. Già Salvucci, nella sua Presentazione al
volume Logica hegeliana e filo- sofia contemporanea, che raccoglie gli
scritti sparsi di M. sottolinea il «faticoso processo» del suo pensiero, che
lo conduce alla «liberazione dal predominio della logica hegeliana» e
verso «il realismo», in cui emerge il ruolo dell’uomo colto nella sua
alienazione, che ne è il contrassegno storicamente primario ed efficace.
Alienazio- ne che è storica, ma di cui la filosofia - da Kant in poi - si
fa testimone e interprete. Con Hegel, invece, la ricomposizione
dell’alienazione si com- [M., Introduzione all’analitica kantiana,
Sansoni, Firenze, Storicità della
metafisica, Le Monnier, Firenze] pie nell’orizzonte dell’assoluto, attraverso
l’artificio della logica e la sua riconsiderazione unitaria e pacificata
dai conflitti e dalla dialettica che essi producono, e che dà luogo alla
costruzione dell’Idea filosoficamente resa trasparente a se stessa e, proprio
per questo, totalmente realizzata. Per liberare Hegel dal primato della
logica, bisogna risalire all'opera più drammatica e aperta di Hegel
stesso, a quella Fenomenologia dello spirito che pone al centro proprio
l’alienazione (e non come sola estraneazione), l’alienazione dell’uomo
colto nel suo statuto tragico. Sarà Marx, poi, a compiere il passo
successivo e decisivo: a riportare nel tempo storico-sociale (nella dimensione
del lavoro e nei sistemi di produzione economi- ca) tale alienazione,
mostrando che essa «non è altro che un prodotto di quella forma storica
di lavoro che è la divisione del lavoro»?. Lasse nuovo e il principio
determinante di questo storicismo realistico e antropologico diviene la
Città («la Città-Storia» già di Hegel, ma qui riportata ai sogget- ti e
alla loro rete di azioni e reazioni nel tempo e sul tempo). Ed è questo
costituirsi nella e relazionarsi alla città che viene a contrassegnare il
filosofare, quale atto di «razionalizzazione» e di «storicizzazione».
Per Salvucci qui sta il senso del lavoro di M., lo stemma del suo
storicismo e la stessa angolazione da cui ricostruisce e interpreta il
marxi- smo. Marxismo come storicismo, ma qui ripensato sulle orme di
Kant, Hegel e Marx e che pone al centro, heideggerianamente, la questione
della temporalità, del tempo storico ovvero della forma antropologica di
vivere la temporalità storica. Che è - appunto - l’alienazione.
I testi raccolti da Salvucci nnel volume citato sono un preciso
résumé di questo itinerario teoretico, in cui i vari tasselli vengono a
com- porre un cammino in ascesa verso il marxismo critico, di cui Marx e
il fondamento della filosofia è l'esempio cruciale. I conti con Hegel
sono fat- ti analiticamente nelle Ricerche sulla logica hegeliana, in cui
è proprio l’oblio del destino del mondo, del «nascere e del morire»
(per valorizzare il puro paradigma logico-ideale) che viene sottolineato
e fis- sato nel suo ruolo, per noi, oggi, di ‘scandalo’. Ma l’idealismo
non muore con Hegel: ritorna anche dopo di lui. Nella tensione cartesiana
del pensiero di Husserl, che riduce l’uomo a mente, la mente a pensiero, il
soggetto a un'isola, caratterizzato dalla ‘solitudine’ della soggettività
trascendentale. Saranno figure come Heidegger, come SPIRITO (si veda), come LUPORINI
(si veda), come FAZIO (si veda)-Allrnayer (con la sua logica della
compossibilità), come BANFI (si veda) a riaprire i confini di questo
storicismo bloccato nella formula idealistica e a ricondurci sul terreno
della esperienza ‘esistenzialmente’ connotata e orientata a un pensiero
che si compie e si legittima nel processo stesso della storicità, intesa
come storia degli uomini, degli uomini concreti, cioè dei produttori.
Allora è Marx che ‘invera’ lo storicismo con la sua «filosofia dell’uomo
alienato». Ma Marx non è un ‘tribunale’ della filosofia: è anco- [Salvucci,
Presentazione a M., Logica hegeliana e filosofia contemporanea,
Giunti-Marzocco, Firenze] ra filosofia, ma è la filosofia del nostro tempo, che
rompe ogni dualismo, che rende l’atto filosofico segno e prodotto
dell’alienazione, che la ricolloca nel suo terreno genetico «il lavoro»
ma da lì fa procedere anche il suo possibile superamento, indicando nei
mutamenti delle condizioni econo- miche il varco stesso per aprire la storia
alla speranza, ovvero alla disalie- nazione. Marx umanizza la filosofia e
umanizza la storia. Allora Massolo può concludere con decisione: Il
rovesciamento che Marx opera del rapporto alienazione-lavoro,
rovesciamento che ha il suo teoretico e storico fondamento nella cri-
tica al concetto hegeliano di lavoro e perciò nella critica alla
divisione di esso, impegna la filosofia che si fa cosciente della propria
origine e della sua radice che è il lavoro, a non cercare la propria
giustificazione nel mondo dell’estraneazione che è per essa il mondo dei
massimi pro- blemi, ma a distruggere questo mondo, nel quale è l’altro di
sé, mondo che non è il suo mondo e del quale non ha bisogno, perché esso
non è il suo fondamento. Il percorso del pensiero maturo di M. è qui
già delineato con precisione: confrontandosi con Marx, riportare lo
storicismo a nutrirsi della lezione di Marx, integrandola però con i
vettori di quell’esi- stenzialismo che pur è stato un ‘raddrizzamento’
antropologico e una re- staurazione di una corretta concezione del tempo.
Si pensi ad Heidegger. M. imposta il lavoro sul suo Marx,
distanziandolo da Feuerbach e dalla sua stessa interpretazione di Hegel
(un Hegel antropologico, appunto), riportandolo verso Hegel e la sua visione
dialettica e real-razionalistica della realtà, non teologica bensì
storicistica del mondo, e un Hegel che sta al centro del Capitale e della
sua riflessione (metodo- logica e contenutistica) sulla forma attuale del
divenire storico. Rispetto a Hegel, però, Marx fa un passo ulteriore:
supera la fenomenologia (che è ancora lettura teoretica) e reclama la
«realtà rivoluzionaria», un mutamen- to prassico, storico;
storico-economico, anzi, poiché la storia è ‘sorretta’ dall’economia.
Così è il lavoro a stare al centro di questo programma e di rilettura di
Hegel e di interpretazione di Marx. Se Hegel legge, però, il lavoro
ancora ‘in assoluto’, sarà Marx a collegarlo storicamente alla divi-
sione del lavoro, ai conflitti sociali, alle prassi rivoluzionarie. Attraverso
le Ricerche sulla logica hegeliana e altri saggi (poi ripubblicato come
Logica hegeliana e filosofia contemporanea con altre aggiunte), si arriva a La
storia della filosofia come problema e altri saggi, e poi all’ importante
Frammento etico-politico. M., Logica hegeliana e filosofia contemporanea. Bene
Sichirollo presentava l’orizzonte del lavoro teorico maturo di M. nella
Premessa alla seconda edizione di La storia della filosofia come problema: lì è
la filosofia e la storia da Hegel a Marx ad essere protagonista, e
contrassegna la stagione della coscienza filosofica nel suo
momento più maturo ed ultimo: il passaggio dal rapporto dialettico al
rapporto storico, dal- la filosofia come speculazione e identità alla
filosofia come storia e differenza, alla filosofia che si fa storica, e
sa la propria genesi dalla non-filosofia-ideologia.” M. stesso
enunciava l’impianto complessivo di quella sua ricerca, che parlando di
storia della filosofia, in realtà, parlava della «filosofia storica, poiché
quella «mette in crisi» questa, le impone di ripensarsi oltre la «sua
pretesa di universalità» e le impone un circolo storico. Qui essa
si fa contraddizione a se stessa: verità e tempo, insieme; verità nel
tempo. Come lucidamente comprendeva Hegel, che risolve tale contraddizio-
ne nella «determinazione dell’Idea nel suo concetto logico», ma per
diversi gradi, come scrive lui stesso. Ogni verità filosofica è verità di
e per queltempo che la produce, ma - retrospettivamente risulta sempre
radicalmente storica. Ma Hegel sottrae il suo sistema a questo principio e fa
della sua filosofia il sapere assoluto. E non solo: è l’autocoscienza che
supera la storicità e si ripropone - come filosofia e filosofia della
filosofia - come Assoluto. Allora gli apporti della sociologia correggono
questo errore: riportano nel relativi- smo storico tutti i sistemi
filosofici, anche quello hegeliano, mostrandone la «condizionatezza».
Condizionatezza che è storicità, è dialogo col tempo, col proprio tempo,
e con un mondo che non è tanto coscienza/autocoscienza quanto socialità,
vita sociale dalla quale dipende e sulla quale agisce. Il filo- sofo
stesso è sempre «uomo della città». Sì, nel suo pensiero «il concetto è
il sistema», ma il suo «dialogo» con la città sta prima e dopo quel
«concetto». La storia della filosofia delinea uno storicismo radicale,
dialettico, aper- to, in cui il gioco tra saperi (filosofia in primis) e
forme sociali si fa deter- minante e che non è mai disponibile a priori.
La stessa storia del pensiero «non si costruisce da sé, anzi
risulta dall’assoluta storicizzazione che di volta in volta la
riflessione filosofica compie, facendosi in tal modo logica e pensabilità
delle di- verse epoche, nelle quali di volta in volta debbono
considerarsi con- cluse ed esaurite le possibilità esistenziali
dell’uomo. Ritornando sul tema (La
storia della filosofia e il suo significato) M. difende lo storicismo dal
nihilismo, si oppone al suo obiettivo [La storia della filosofia come
problema, Vallecchi, Firenze, di catastrofe del pensiero occidentale, e lo fa
valorizzando il «rapporto vivente» che lega le filosofie al tempo
storico-sociale e le rende sue fun- zioni esemplari e rivelative. Dalla
Grecia a noi centrale resta il messaggio di un pensiero che si pensa
«lungo il sentiero degli uomini». Già per Hegel «la filosofia sorge dalla
polis», dalla libera cittadinanza e dall’incontro degli uomini, nello
«spirito etico» e nel conflitto tragico che la polis viene a istituire. La
filosofia porta i segni di quelle origini, e li porta nel suo farsi «lo
sforzo di sapere che cosa è lo spirito», di fissare quel complesso
traguardo condensandolo nel concetto. In realtà, però, la filosofia è
storia, è epoca, è tempo della polis. Dopo Hegel è Marx a illuminare la
dialetti- ca delle forme, riportandole al lavoro concreto e lesgendole
nella matrice dell’economico, posto come «leva» delle dinamiche sociali e
fattore-chiave (ma non esclusivo: c'è anche l’ethos determinante per la
filosofia e, quindi, per il «contesto» storico) della polis. Ed è il Marx
di Per la critica dell’economia politica, con la sua dialettica tra astratto e
concreto, ad essa posto come guida. Lì è, sì, il circolo qualità/quantità
a rivelarsi decisivo, ma lo è anche e ancor di più - la contraddizione,
non una contraddizione che da logica si è fatta storica e sociale, e
proprio perché la storia è fatta dalle società e dal brulichio delle loro
forme. La filosofia è dialogo, e dialogo con la città e nella
città. Tra logos e comunità corre un rapporto simbiotico, se pure fatto di
differenze e oppo- sizioni. Ed «è la comunità stessa che deve decidere
come sola misura della verità. Ma la comunità non è una cosa, ma un
insieme di individui, cia- scuno dei quali è a sua volta un possibile
criterio e misura della verità», ma non sempre e necessariamente. Può
anche assumere il dialogo come forma-di-vita e come forma del logos e
farsi così soggetto-nella comunità, ad essa saldandosi e promuovendone,
con gli altri, le stesse possibilità. Già Socrate aveva posto la sua
filosofia in questa condizione, poi il pensiero moderno l’ha riscoperta.
E oggi si impone come regola, ma regola d’azio- ne. Per noi quella
«coscienza comune» non è un dato ma un compito: Ciò che sinora era stato
il grande presupposto, può oggi semmai essere posto e creduto come
compito»?. Allora la filosofia è politica, è politicità
concettualizzata e impegno eti- co-sociale, poiché tra politica e polis
corre un nesso intimamente efficace, che si sviluppa in tensione tra
pensiero e polis o in loro integrazione, rico- noscendo - però - il loro
intimo legame dialettico, e storico. Il filosofo sa di stare-nella-storia
e che «l’essere è ora la storia stessa», nella quale il filosofo introduce la
«finalità universale», il compito e il traguardo da pensare e volere
sempre nella «città-storia». E da valere in funzione dell’uomo di cui e
per cui nasce la stessa filosofia. Se pure per un uomo che, anche oggi e
sempre di più, sa di essere comunità. È poi nel Frammento etico-politico che
lo storicismo engagé di M. riesce a rispecchiarsi più com- piutamente. Lì
la filosofia, condotta ormai oltre Hegel, se pure attraverso lo stesso
Hegel, posta in luce nel proprio «spettro» profondo da Marx, può
dispiegarsi come radicale storicismo. Di uno storicismo della polis e di
una polis di cui si sottolinea come centrale la lotta di classe. È il
materialismo storico che dispiega al massimo questo storicismo
antispeculativo e non relativistico, uno storicismo degli uomini, per gli
uomini e che antropologizza la storia attraverso il loro operari
rivoluzionario. Solo che ciò im- plica una «coscienza di classe» che non
è spontanea, bensì è e va costruita e si costruisce sulla «coscienza
infelice» dell’uomo, dell’uomo storico e di quello contemporaneo in
particolare. Il disegno di M. è compiuto: fi- losofia e storia si
congiungono, storia e economia/ethos si fondono, la polis è il loro
organismo vivente, in quella polis noi pensiamo e agiamo, oggi la
filosofia si sa come politica e in vista di una polis-comunità fondata a
sua volta sulla non-alienazione. Che è, però, concretamente,
politicamente (con Marx) tutta da costruire. Il quadro è energico e
compatto, sorretto da un suo «principio speranza» che è quello dell’emancipazione. A
riconferma del suo marxismo emancipativo va riletto con preci- sione
proprio l’ultimo testo di M.: «Entiusserung» e «Entfremdung» nella
Fenomenologia dello Spirito, apparso su «aut-aut». È un testo che si colloca
allo sbocco di tutta una rilettura di Hegel. Una lettura sì epocale, ma
che di quel pensiero coglie più integralmente la problematicità e la
ricchezza, ma anche le interne tensioni e la articolazione teoretica più
aperta (e più antropologica) rispetto allo Hegel «del Sistema» (che si
po- ne nell’ottica, sempre e comunque, dell’Idea). L’epocalità va fatta
risalire a Dilthey e al suo studio del 1904 e alle varie interpretazioni
che esso ha, via via, prodotto, fino a Hyppolite, fino a Kojève, fino a
Lukács, passando anche per NEGRI (si veda) Negri e VOLPE (si veda), approdando
a una fitta letteratura europea tipica. È il primo Hegel che va
studiato per capirne sì le radici, ma soprattutto le potenzialità molte e
complesse. Soprattutto, ancora, la sua vocazione antropologica:
descrittiva e inter- pretativa della condizione umana
(quasi-esistenzialistica) e della forma che assume nella coscienza, se
riletta nella sua frontiera fenomenologica, cioè dell’apparire delle sue
«forme» trascendentali. Allora saranno, anche per M., le «prime ricerche»
di Hegel a farsi interessanti, anzi deter- minanti. Ad essere più
squisitamente filosofiche, perché più storiche, ri- spetto allo
Hegel-del-sistema, che assegna il primato alla speculazione e alla sua
assoluta aseità. Qui no, è l'epoca, il tempo stesso e l’uomo di quel
tempo medesimo che parla, e parla in presa diretta. Colto nel suo trava-
glio spirituale, posto da coscienza/storia/spirito/città (per dirla in
termi- ni massoliani) e contrassegnato dalla contraddizione che si fa
coscienza e coscienza vissuta dell’alienazione e della sua
rimozione/superamento. M. ancora si domanda: Come bisogna leggere Hegel? Fissa
sì la dialettica di essere/nulla/divenire come centrale, ma legandola al
concreto pensiero del filosofo che ben distingue, pur intrecciandole,
Alienazione e Estraneazione. Entfremdung è condizione della vita storica,
della stessa vita spirituale, è l’atto costitutivo della nostra stes- sa
umanità. L'uomo è in quanto si oggettiva e crea a se stesso un mondo. Lì,
però, si annida anche l’Entàusserung, che è esser-altro-da-sé, riduzio-
ne del sé ad altro, essere dominati dai fattori storico-sociali. E questa è
la condizione della coscienza storicamente determinata, epocalmente
storica, anche se di una storia che coinvolge tutto l’assetto delle civiltà.
Entiusserung è assolutamente altro da Entfremdung, anzi ne è l'opposto, è
la differenza storica che contrassegna l’uomo così come è divenuto nella
storia stessa, che pur resta sorretta dalla legge dell’Estra- neazione.
L'Alienazione è «contingenza storica» che può essere superata. La stessa
dialettica servo/padrone si fa, qui, fondante e in senso esistenziale e
genetico, sottolinea. Da qui M. deduce due percorsi di indagine. Uno
dentro Hegel, che mostri la funzione sistematica della Fenomenologia dello
Spirito e il riconoscimento del suo ‘punto di crisi’, che la separa dal
sistema. Nel gioco delle figure dell’opera sarà quella dello Spirito
estraneo a se stesso che va valorizzata, come decisiva e ricorrente
nell’opera stessa. La «ripetizione della coscienza lacerata» si di- lata
nel percorso storico e si attua sotto varie forme. La vita spirituale,
per Hegel, resta duplicazione, conflitto, rischio di ‘disgregazione della
coscienza stessa. Ma seguita, come un’ombra, dal bisogno, attesa,
speranza, volontà della ricomposizione nell’«essenza calma delle cose».
Negatività e assoluto stanno intrecciati, ma questo è anche l’attesa di
quel travaglio del negativo. La stessa «intellezione» si fa «rappresenta-
zione», della vuota apparenza del mondo ma anche del suo riscatto,
ri-composizione, salvezza integrale del suo senso. Sotto un altro aspetto
quel saggio di M. si nutre di, e apre a, una filosofa dell’emancipazione
che vede l’alienazione come condizione sto- rica, storicamente
rimuovibile, attraverso quel riscatto della polis, che riesca a farsi
sempre di più città degli uomini e per gli uomini, come già ci ha
indicato l’erede eretico di Hegel, Marx, col suo materialismo storico. Il
materialismo storico è oggi la vera filosofia dell’emancipazione, che eredita
il nocciolo duro della riflessione hegeliana, la storicizza e fa della
storia il regno non della necessità bensì della libertà. Anzi, della
liberazione. E lo stesso M. fissa questo traguardo proprio a conclu-
sione di quel saggio: La coscienza che sorge dall’azione rivoluzionaria
sarà una coscienza che non incontrerà più l'oggetto come un'entità
estranea (ein Fremdes). Un mondo nuovo sorge come sua Entiusserung. Il
saggio su Entfremdung e Entiusserung conclude là dove si apre lo spazio
di quello storicismo attivo e emancipativo descritto proprio nel Frammento
etico-politico, allargando meglio la vista sulla tensione antro- pologica
di quello storicismo e la lettura raffinata (non scolastica, non-riduttiva,
non-oggettivistica) e aperta del materialismo storico, visto come prassi
rivoluzionaria di e per un uomo-della-città, ma anche di e per una
città-dell’-uomo. Per molti aspetti possiamo dire che siamo davanti a uno
storicismo d’epoca, con questo elaborato da M.. Uno storicismo
neostoricista, postmetafisico, critico, antropologico, emancipativo.
Anche uno storici- smo incardinato sul nesso Hegel-Marx, in cui è però
Marx a illuminare i connotati attuali e critici di Hegel. E un Marx che
non si fa ‘tribunale’ della filosofia, ma metodo per pensarla, nella sua
attualità e nella sua storia. Uno storicismo critico e antropologico, ma che
proprio ed è il suo punto di originalità e di onore - nella città (polis)
trova l’asse portante della propria teorizzazione, sottolineando l’aspetto
sociale e politico della storia stessa e quindi la lettura dialettica dei
condizionamenti e supera- menti che ogni filosofia compie in relazione
alla sua città. Per il presente/ futuro solo questo tipo di storicismo
potrà dar corpo a filosofie critiche che sull’emancipazione vengono a
trovare la propria legittimazione e il proprio compito. Tale
aspetto complesso, sfumato, problematico ma anche attuale e pre- gnante,
carico di futuro, dello storicismo di Massolo è stato più volte sot-
tolineato dai suoi interpreti, da Sichirollo a Salvucci, già ricordati, agli
altri che in anni anche più recenti hanno ripensato la speculazione
massoliana nel suo imprinting e nella sua densità storica e teorica. Si
pensi al volume su Il Filosofo e la città e ai richiami ancora di
Salvucci alla «forte attualità» di quel pensiero, proprio per il vero e
forte umanesimo che lo caratterizza e che è il frutto di un incrocio tra
dialogo/città/storia che M. ha teorizzato con vivacità e precisione. Per
questo Massolo, anche nel presente postmoderno, in questa età di
decentramento, pluralizzazione, di a-teleologismo, può fungere da significativo
orientatore. Anche Burgio, nella stessa raccolta di studi, parla di M. e
il nostro interesse per la storia, riflettendo proprio su quello storicismo
mas- soliano della maturità e sul suo statuto teorico. La storia per M.
non è «condizionatezza», è possibilità, ma secondo un senso «posto da
noi» e costruito nel tempo nella e per la città. Il vettore che guida
tale storicismo è quello di una comunità politica che si impegni a vivere
valori e fini col- lettivi, e a realizzarli insieme. Cazzaniga in
Individuo e mondo moderno sottolinea ancora l’attualità di M.
storicista. Lo chiama il filosofo della città e lo vede come
attento interprete e erede di un marxismo dell’emancipazione, da realizzare
dialetticamente nella città. Anche Sichirollo e Losurdo si attestano
sulle stesse tematiche, rimandandoci un'immagine di M. sì ‘d’epoca’, ma ancora
tutta attuale, per la vocazione politico-emancipativa e per l'identità
antropologico-sociale della sua filosofia, che si delinea come uno
storicismo molto avanzato, privato di ogni residuo metafisico e che si lega in
modo squisitamente dialettico a quel nesso storia/prassi che è un po” la
‘croce’ della filosofia moderna e contemporanea e l’osso di seppia su cui
si sono esercitati, ma anche se- parati e contrapposti, i vari
storicismi. Qui, in quello di Massolo, il nesso è di problema e di
equilibrio, è aperto e sottile, ma posto come il nucleo costante da cui
emerge e per cui emerge lo stesso filosofare. Saldando così il pensiero
filosofico alla città, che è il luogo e il simbolo di questo intrec- cio,
ma anche lo spazio in cui l’uomo può e deve realizzare se stesso. Bodei, M.,
Aut Aut, Badaloni, Ricordo di M. Giornale Critico della Filosofia
Italiana, Burgio (cur.), M., Quattroventi, Urbino, Domenico, Puglisi (cur.), Il
filosofo e la città. Studi su M., Marsilio, Venezia, Farulli, L'engagement de
la philosophie selon A. M., Revue de Métaphysique et de Morale, Landucci,
M., Belfagor, M., Storicità della metafisica, Le Monnier, Firenze, Fichte e la
filosofia, Sansoni, Firenze, Introduzione all'analitica kantiana, Sansoni,
Firenze, Il primo Schelling, Sansoni, Firenze, Ricerche sulla logica hegeliana
e altri saggi, Marzocco, Firenze, La storia della filosofia come problema e
altri saggi, Vallecchi, Firenze, Logica hegeliana e filosofia contemporanea e
altri saggi, Giunti-Marzocco, Firenze, Della propedeutica filosofica e altre pagine
sparse, Montefeltro, Urbino, Omaggio a M., Studi urbinati, Ricci Garotti,
Heidegger contro Hegel, Argalia, Urbino, Salvucci, Presentazione a M., Logica
hegeliana e filosofia con- temporanea, Situazione e filosofia in M., in
Omaggio a M., Sichirollo (cur.), Studi in onore di M., Studi Urbinati, Spinella,
recensione a La storia della filosofia come problema, Rinascita, Vacca,
recensione a La storia della filosofia come problema, Paese Sera-Libri, Valentini,
recensione a Frammento etico-politico, Società. Arturo Massolo. Massolo.
Keywords: prime ricerche di Hegel, la logica di Hegel, Gentile, implicatura
idealista, Ariskant and Plathegel. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Massolo” –
The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Mastrofini:
l’implicatura conversazionale e l’implicatura verbale di Romolo – la scuola di
Roma – la scuola di Monte Compatri – filosofia lazia -- filosofia italiana –
Luigi Speranza pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library,
Villa Speranza (Monte Compatri).
Filosofo romano. Filosofo Lazio. Filosofo italiano. Monte Compatri, Roma,
Lazio. Grice: “I like
Mastrofini; for one, he found how old Roman evolves into what we may call new
Roman, or Italian!” – Grice: “And of course as a philosopher, he focused on the
philosophical terminology – it takes a PHILOSOPHER to translate a philosophical
text!” – Grice: “What I like about Mastrofini” is that he mostly kept with the
cognates. La Crusca adores him!” Noto soprattutto
per il volume “Le discussioni sull'usura” in cui sostenne che non è reato far
fruttare il danaro e che né la Sacra Scrittura, né i Vangeli, né la tradizione
ecclesiastica vietavano di ottenere un giusto interesse per danaro dato a
prestito. Questo diede luogo a molte discussioni ma anche apprezzamenti
lusinghieri da economisti dell'epoca e dall'opinione pubblica. In precedenza aveva scritto un'opera di
economia finanziaria, il Piano per riparare la moneta erosa relativa
all'inflazione nello Stato Pontificio, opera largamente utilizzata per la
riforma finanziaria dello Stato, intrapresa da Pio VII. L'edificio del Collegio
Romano ove insegna. Insegna a Frascatii.
Nel pieno della crisi della Repubblica Romana, si trasfere a Roma dove venne
nominato professore di eloquenza presso il Collegio Romano.Torna a a Frascati. Si
trasfere definitivamente a Roma dove assume la carica di consultore della
"Nuova Congregazione cardinalizia per gli affari totius orbis". Produce le traduzioni dei capolavori di Floro,
“Sulle cose romane,” e di Ampelio, “Sulle cose memorabili del mondo e degli
imperi.” Traduce “Le Antichità romane” di Dionigi. Pubblica “Teoria e
prospetto; ossia, dipinto critico dei verbi italiani coniugati, specialmente
degli anomali o mal noti nelle cadenze,” opera che porta un grande contributo
allo studio dell'italiano, utilizzata dall'Accademia della Crusca nella
revisione del dizionario della lingua italiana. Pubblica “Della maniera di
misurare le lesioni enormi nei contratti e uno studio sulla patria potestà e
filiazione, che ha larga eco nei circoli giuridici romani, essendo allora in
corso una causa di riconoscimento di paternità per successione tra i Torlonia e
i Cesarini. Piazza di Monte Citorio. Nell'edificio
dove abita e muore, in piazza di Monte Citorio il Comune di Roma appose una
lapide con il seguente ricordo: Abita in questa casa -- filosofo assai più
grande che celebrato fissa le incerte leggi dei verbi investiga felicemente con
l’uso della ragione i misteri della scienza divina S.P.Q.R.» “Dissertazione
filosofica” (Roma); “Piano per riparare la moneta erosa” (Roma); “Ritratti
poetici, storici, critici dei personaggi più famosi nell'antico e nuovo
Testamento” (Floro); “Sulle cose romane” (Roma, Ampelio); “Sulle cose
memorabili del mondo e degli imperi” (Roma); Dionigi di Alicarnasso “Le
Antichità romane”, Roma, “Dizionario dei verbi italiani” (Roma); “Metaphisica
sublimior de Deo triun et uno,” Roma, Appiano “Storia delle guerre civili dei Romani",
Roma, Arriano “La Storia”, Roma, ristampata da Sonzongo con il titolo “Delle
cose d'Italia” “Le usure,” Roma, “Amplissimi frutti da raccogliere sul
calendario gregoriano,” Roma, “L'anima umana e i suoi stati,” Roma, “Teorica dei nomi,” Roma, “Teorica e
prospetto de' verbi italiani conjgeniti,” Roma. Dizionario Biografico degli
Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Dizionario biografico
degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Il primo fondatore di Roma,
e dell'impero e ROMOLO, generato da MARTE, e da Rea Silvia. Tanto nella sua gravidanza
confessa di sèquesta sacerdotessa: nè la fama ne dubita quando poco appresso il
fanciullo gettato con Remo suo fratello nella corrente per ancenno di Amulio, non
potè soffocarsi. Imperoc chè il padre Tevere ritira dal lido le acque ed una
lupa, lasciati i suoi parti, e seguendo il suono de'vagiti, inboccò li sue
mamelle a' fanciulli, presentando in se stessa una madre. Cosi trovatili un
regio pastore presso di un'arbore, e portatili in casa (2 gli educa. Di que'
giorni Alba, opera di Giulo, e capitale nel Lazio chè avea quegli dispregiata
Lavinia, città del suo padre Amulio. Sopra ttutto sembra inc satto l'intervallo
da Augusto fino a Trajano Eglilo crededi anni duecento ; laddove è di anni
cento due a!l'incircd. Ma forse vi è sbaglio nel testo e dee leggersi cento in
lungo di duecento Rea Silvia figliuola
di Numitore presedeva al sacerdo zio di Vesta Quindi è dettaSacerdotessa. Nel
testo in casam: questa voce può sign'ficare capan Tuttavia par verisimile che
l'abituro di un regio pastore fosse alquanto migliore di una capanna.
L'espressione italiana comprende ogni abitazione fosse capanna o no. av.
Cr av. R. 26. na ENEA dopo finita la guerra con Turno foudo la città cui
chiamò Lavinia dal nome della moglie. Ascanio, ossia Giulo, peròdi luifigliuolo
dopolamortediEneafabbricò A!. ba Lunga la quale tu capitale del regno per
trecento anni Ani. dik. 3.av. Cr. essi viregnava, avendonecacciato il
germane suo Numitore, dalla cui figlia Romolo era n..to. Adunque co stui nel
primi bollore degli anni caccia Imulio suo zio dal principato, el'avoloviri pone.
In tanto egli amante del fiume e de’monti, vicino a'quali era stato educato, meditava
lemura di una nuovacitt). Ma l'unoe l'altro essendo gemelli; p acque loro
consultare gl'ld dj, qual de’due le fondasse e vi dominasse. Per tanto REMO andossene
al monte Aventino, el altro al Palatino. Colui pel primo vide VI avoitoj:
posteriormente videne l'altro, ma XII: e vincitore negli augurji nal Area fin
quì fatto un'ABOZZO di citta, piuttosto che una città; mancandole gli abitanti.
Ma siccome riina neale vicino un bosco;eg! 2feceunasilo; edisubia tovisi adund moltitudine
prodigiosa di uomini, Latini, e Toscani pastori, eGo ancotras marini, sia de '
Frigj venuti con ENEA, sia degl’Arcadi con Evantro. Cosi quasida varii
eleinenti, ne trasse un corpo solo; ed e per lui creato IL POPOLO ROMANO. Vi
quel popolo di uomini e cosa di una sola generazione. Si chiesero dunque
de’matrimoni da'confinanti; e sccome non si otteneano, sono con la forza espugnati.
Imperocchè finti de 'giuochi equestri, le vergini accorse per lo spets 747.
incirca. Finalinente ROMOLO inalza Roma che diverrebbeca. C o. za una città
pieno di speranza, che guerriera diverrebbe; tanto ripromettendogli quegli
uccelli, consueti a 7 LIBio sangue e prede. Sembra che in difesa della puova
cit tá basterebbe un vallo; se non che deridendo Remo le angustie di questo,
anzi condannandole con saltarle, e trucidato; è dubbio se per comando del
fratello; ma certo ei ne fu la prima delle vittime; e CONSACrA COL SANGUE SUO e
fortificazioni della nuova città. Av. Cr. R.2 so 52 7> ro dell'Italia e del
mondo, PRIMO Spoglie opine
eran quelle che un comandante toglie all'imperadore o supremo comandante nemico
uccidendolo di sua mano. Queste sono così rare; che se ne contano appena tre. Le
prime le riporta Romolo contro di Acrone. Le seconde Cornelio Cosso contro di
Tolunnio. E le terza Marco Marcello su Viridomaro. Giove poi e detto Feretrie o
perchè a lui ferebantur si portavano le spoglie opime, o perchè ferisce col
fulmine; o perchè nell'acquistare le spoglie opime un capitano ferisce l'altro
con la spada. E questo un bel mantenere le promesse e intendere di dare alla
donzella gli scudi perchè gli scudi le vibravano opprimendola. Questo metodo di
mantenere le promesse, ras somiglia a quello usato dalla fanciulla per
consegnare una porta creduta da Floro senza inganno o cone noi abbiamo tradotto,
senza malizia, perchè non chiedeva danaro, ma gli scudi o li braccialetti.
Potrà inai persuadere questa ragione? La vergine, che quisi addita, secondo
Valerio Massimo e figliuola di Spur.Tarpejo il quale a tempi di Romolo presede
alla fortezza: c coleiera uscita per prenderc acqua pe’santi riti,
tacolo, furon preda, e cagione immediata di guerre. Furono I Vejentire spinti e
fugati: la città di Cenina fu presae diroccata: inoltre lo stesso monarca ne riporta
con le sue mani a Giove Feretrio le spoglie ooiine del re. Ma le nostre porte
furon date a Sabini per una donzella; nè già con malizia: ma chiesto avendone
la fanciulla in ricompensa ciocchè essi portavano alle sinistre, gli scudi
forse o li braccialetti; coloro e per man tenere a leila promessa e per
vendicarsene la oppressero congli scudi. Ricevuti in tal modo fra le mura i
nemici ne sorse nel foro medesim un'atroce battaglia; tanto che ROMOLO prega
Giove che arrestasse la fuga vi tuperosa de’ suoi. Quindi ha origine il tempio,
e Giove Statore. Finalmente le donzelle in lacere chiome s'intrammisero ad essi
che infierivano. Così fu la pace riordinata, e stabilita l'alleanza con Fazio.
Donde ne.diR. Cr. bandonati i lor domicilj, sen passarono alla nuova città,
consociando co'nuovi generi loro gli aviti beni perdote. Accresciute in poco
tempo le forze da il sapientissimo re quest: forma alla Repubblica. E la
gioventù divisa in tribà con cavalli ed armi perchè sorgesse nelle subire
guerre: fosse il consiglio su pubblici affari ne’ seniori, i quali si chiamano pari
arringando dinanzi la città presso la palude della capra, e di repente levato
di vista. Alcuni pensano che i senatori lo trucidassero per la ferocia
dell'indole di lui. Dopo la morte di ROMOLO il trono resta privo di sovrano per
un'anno, comandando in tanto a vicenda i senatori di cinque in cinque giorni. Quello
spazio e chiamato interregno. Il magistrato a forma d'interregno ha luogo
ancora ne'se. coli posteriori quando I consoli occupati in lontane azioni non
potevano intervenire ai coinızj;o quando erano costretti a depor. 14
LIBRO dir. seguitò, cioc chèè portentoso a dire, che inemiciab 7.av. Cr. diR.
38. l'autorità, ma per la eta S.nuto. Ordinate in tal modo le cose, egli SI
CONDO Tav. 37 av 713 so non che la tempesta e l'oscurarsi del sole
presentaroncincid le imnagini con e di una santa operazione: alla nuale poco
appresso diè credito GIULIO Proculo coll'offermare; che ROMOLO si era a lui
dato a vedere Cr 743. informa più augusta della consueta; e che imponeva che
per Dio se lo prendessero. Piacere a Numi che egli sichiami Virinoin sul cielo.
Con tal mezo Roma conquisterebbe le genti. E' natura del Verbo di esprimere l'afermazione
e la negazione. E siccome Essere e non essere esprimono appunto per se stessi
l'affermazione e la negazione; ne seguita che il verbo Essere preso nudamente,
o preceduto dalla particella “non”, è verbo per natura e per eccellenza.
Comunemente la voce essere è nota col nome di verbo sostantivo, perchè esprime
l'esistere, o L’ESSERE di sostanza. Le qualità che si affermano o negano
possono aversi distinte o no, dall'affermazione,o negazione. Nel primo caso
l'affermazione o negazione si addita col verbo essere, come si è detto. Ma nel
secondo caso risulta un nuovo ordine di verbi più composti; appunto per chè in
essi è riunita l'affermazione o negazione colle qualità che si affermano o
negano: tali sono amare, godere, odiare, piangere et cetera, che significano
essere nell'amore, nel gaudio, tra l'odio, o tra 'l pianto. Questo secondo genere
di verbi ha servito incredibilmente a variare e fecondare il discorso, in somma
alla dolcezza dell’eloquenza, e della Poesia. Chi afferma e nega, o afferma e
nega dise stesso, che si chi a ma persona prima, o di altri a cui parla, che si
chiama persona seconda, o di soggetto a cui non si parla, e si chiama persona
terza. Per altro queste persone possono essere una, o più, cioè possono
riguardarsi in singolare, duale, o plurale. E 'naturale che tanto nella nostra
quanto nella più parte delle lingue s'introducesse l'uso di finire il verbo
diversamente secondo la diversità delle persone,e del numero. E quindi abbiamo
amo ami ama amiamo amate amano. E potendo il discorso riguardare cose presenti,
cose cominciate e non finite, cose passate, più che passate, e future; fubene varia.
Anzi siccome le proprietà si affermano o negano assolutamente, o sotto certi
rapporti e condizioni. Cosi li verbi divennero parole terminate diversamente
secondo la persona, il numero, i tempi, e i modi di affermazioni e negazioni
assolute o relative. S. 1. re il verbo secondo la persona, il numero, e i
tempi. a I 6. Questi modisono cinque: Indicativo, Imperativo,
Ottativo, Congiuntivo, ed Infinito. L'indicativo dimostra assolutamente che una
cosa è, fu, sara; e perd vien detto ancora assoluto e dimostrativo. Cosi Pietro
ama amò amerà. le scienze, forme tutte dell'Indicativo, dichiarano che Pietro
amo, ama, ed amerà, assolutamente. L'Imperativo esprime comando, preghiera, avviso,
consiglio, esortazione di far qualche cosa, e con una sola voce si vuol
esprimere il comando, preghiera et cetera, e l'azion e che deve farsi. Tale
sarebbe ama tu, amerai til, ameremo noi et cetera. Per tanto si esprime
l'azione ed il modo col quale si fa, cioè per comando, preghiera et cetera;
laddove nell'Indicativo mancano questi rapporti. L'Ottativo esprime desiderio
di fare una cosa, giusta i varii tempi; e per questo è detto ancora
desiderativo, e tale sarebbe, “O se amassi, io amerei, O avessi amato, lo
avreiamato et cetera. Il congiuntivo è così detto perché si adopera quando si
vuo le congiungere il discorso con altre cose precedenti, e perd siegue le
particole sebbene, quantunque, conciossiacosache et cetera. Tále è quel di PETRARCA
Italia mia, benchè il parlar sia indarno et c. E talequel di BOCCACCIO. .6.7.n.2.
per l'amore di Dio, come chè il fatto sia et cetera. Tra i Greci l'Ottativo ha
le sue desinenze tutte diverse dal congiuntivo: ma nella lingua latina e nella
nostra L’OTTATIVO ADOPERA LE STESSE VOCI DEL CONGIUNTIVO, se ben si rifletta. Il
verbo si dice di modo finito o determinato finchè si concepisce indicativo, imperativo,
ottativo, congiuntivo. Ma talvolta esprime indeterminatamente qualche proprietà
senz'additare ne persona, nè numero, come amare, leggere, et cetera, ed allora
si chiama di modo infinito cioè indefinito ossia non determinato. La varia
desinenza di un verbo secondo le persone, il numero, i tempi, ed i modi si
chiama conjugazione. Ed i verbi si dicono di una conjugazione medesima o
diversa, secondo che rassomigliano o no nel complesso di queste desinenze. E
siccome queste si diversificano secondo la diversità dell'infinito; e
l'infinito puo terminare in -are, in -ere -lungo e breve --, ed in -ire; cosi III
sono le conjugazioni della nostra lingua. Tutti gl’infiniti terminati in -are
si dicono della prima conjugazione come amare, balzare, danzare. Tutti quelli
terminati in -ere sichiamano della seconda, o l'infinito sia lungo o breve,
come temère,cadère, giacère, et cetera, e come credere, discendere, volgere, ecc..
I latini di queste due desinenze ne faceano II CONGIUGAZIONI diverse, come
docère e legere. Nè mancato è pur tra gl'Italiani chi abbia concepite diverse
le conjugazioni secondo l'infinito lungo o breve. Ma siccome, tolta la
pronunzia lunga e breve dell' infinito, non vi sono altri di vari, parlando
regolarmente; e siccome la pronunzia concerne il modo di significarlo in voce, non
la forma del verbo; così piùra gionevoli sono quelli che rinniscono in una
conjugazione gl'infiniti in -ere, lunghi o brevi. Spettano alla terza tutti i
verbi terminati in -ire, come sentire, uscire ecc. Chi si propone per iscopo
di presentare il prospetto de'verbi italiani dee porre sott'occhio le varie
desinenze di essi giusta i modi, I tempi, il numero, e le persone nelle varie
conjugazioni. E cið ė propriamente che noi cercheremo di eseguire. Per vedere
però più da presso il suggetto, anzi fin dalle origini, ed in tutta l'ampiezza
sua, divideremo quesť opera in due parti. La prima e tutta di Teoria e di Prospetto
generale; ed esporremo in essa come le conjugazioni latine sian si trasformate
e si trasformino nelle presenti d'Italia; la dipendenza comune de' nostri verbi
dall'infinito, e per ogni conjugazione il prospetto di qualche verbo che serve
di norma in tutti i simili e regolari -come del verbo “amare” per la prima, de'verbi
“temere” e “credere” per la seconda, e de’ 'verbi “sentire” ed “aborrire” per
la terza. Anteporremo per altro a tutti il verbo “essere” come principio di
ogni verbo, e quindi il verbo “avere” che prossimo gli succede, esprimendo la
sostanza, che passa ad ottenere in generale delle proprietà. E ciò tanto più
dee farsi; che senza questi due verbi, però detti “ausiliari”, non possono
formarsi le tre conjugazioni divisate degl’altri verbi. Dato cosi principio e
norma al prospetto di tutti i verbi regolari, verremo alla seconda parte ed
esporremo ad uno ad uno per ordine alfabetico i principali tra' verbi anomali
cioè quelli che in qualche tempo escono dalla legge consueta, ed i quali
servono spesso di regola per altri anomali non dissimili. Il prospetto e
distinto in quattro colonne. Nella prima si avranno le voci corrette, nella
seconda le antiche, nella terza le poetiche, e nella quarta le non ben certe, gl'IDIOTISMI
e gl’errori. Si avverta che non tutte le antiche sono affatto dismesse, anzi
talvolta usate a tempo adornano la scrittura: come pur le poetiche non tutte
sono così della poesia che non servano talora alla prosa. Il che si conoscerà dalle
note. GLI ERRORI SON SEMPRE ERRORI. Gl'idiotismi poi sono voci usate nel
parlare e nello scrivere familiare, non però nelle belle scritture, sebbene
talvolta vi scorrano per incuria e per arbitrio degli scrittori che le decidon
per buone, o vogliono nobilitarle con la fama già da essi acquistata. Per
compimento dell'opera spesso porremo in fine del prospetto il participio ed il
gerundio. Il primo é propriamente un nome tratto dal verbo. Dicesi participio
perchè partecipa del nome e del verbo: e come nome si declina, e come tratto
dal verbo esprime un qual che significato di questo. Tali sarebbono “amante” ed
“amato”. Tra’Latini si aveano participii presenti, passati, e future: “amans”,
“amatus” “amatVRVS” (cf. IMPLICATVRVM). Presso
noi, non si hanno che li presenti, e li passati che sono “amante”, “amato,” temente,
temuto. Tra’nostri antichi furono ideati anche i futuri come fatturo, perituro
ecc, ma non ebbero buon successo, nè più vi si pensa. Il participio passato e
descritto per lo più nella formazione de' tempi PIU CHE passati: laddove il
participio presente si troverà nel fine de' prospetti. Un tal participio può
essere messo informa di aggiunto e di attributo come se io dicessi: la virtù
possente, e la virtù a2 3. Il participio si riguarda anzi come adjettivo,
che qual participio. Per chè sia participio con ogni proprietà, dee, quando si
risolva, significare come i participj latini: come se dicesi canto possente a
diletta re: schiere seguenti le altre ecc. E ciò rileva conoscere perchè non di
raro si anno gl’esempj anzi di adjettivi che di participi, e noi pur he useremo
in mancanza di participi, tali per ogni rispetto. Gerundio tra noi e tra'
latini è una voce tratta dal verbo, la qual significa le affezioni di questo,
ma la quale non si declina come il nome, nel che differisce dal participio:
come amando, credenádo, temendo, sentendo. Da'quali esempj risulta che il Gerundio
delle prime conjugazioni finisce in -ando e delle altre in -endo. L'uso di tali
gerundi è frequentissimo nell'italiano in luogo ancora de'participj presenti. Ma
veniamo all'argomento, Come le congiugazioni latine siansi trasformate e si
trasformina nelle conjugazioni presenti d'Italia. TUTTE LE VOCALI LATINE,
FINALI DI PAROLE INTERE, NE SEGUITE DA CONSONANTI, SI CONSERVANO. Così, in AMO
ed AMARE, si conserva l'O di amo, e l'E di amare. Tutte le consonanti finali si
tralasciano o mutano. Le consonanti sono M, S, T, NT, ST. Nel caso di NT si cambia
il T in O, e però non si lascia che il T amant amano, amarunt amarono: ma
talvolta tutto l'NT si muta in RO : amassent amassero: sebbe ne in questo e
simili casi può sempre rimanere la regola di mutare il solo T in o dicendosi
ancora “amassono”. Vedi il prospetto di amare.Tutti gli “U” finali seguiti da M
o da S si cambiano in 0: POSSVM > POSSO. amamus amiamo: ma se gli U sono
seguiti da NT si cambiano in o nei presenti e nei passati, ma nei futuri in AN.
Così da legunt si trae leggono, e da amabunt ameranno. Tutti gli A ovvero gli E
precedenti immediatamente l'S finale SI MUTANO IN “I”: amas > ami; times
temi: e cosi da timeas abbiamo tu temi, e da legas tu legghi. Il che basta a
conservare la regola, ma ora si dice anche “tu tema”, e “tu legga”. Tutti gli
E, ogl'I precedent gli A, oppure gli O finali, si lasciano affatto. Timea temo,
timeam icma. Sentio sento: sentiam io senta, 4 è possente: il fuoco
bruciante, e il fuoco è bruciante: ma in tal caso NOZIONI ARCHEOLOGICHE. Non dee sperar di comprendere il trattato che
qui soggiungo se non chi conosce per le gli altri ne differiscano la lettura.
sue regole l'idioma Latino e l'Italiano: 3. non si $. Tutti gl'I precedenti gli
S finali in singolare si conservano assumendo nel futuro un A precedente: legis
leggi: a ma bisamerai, ed in plurale si mutano in E: legitis leggele. Tutti gl'I
seguiti dal solo T finale subiscono un cambiamento secondo i tempi. Ne'presenti
si cambiano in E, e ne’ futuri in A accentatolegiilegge, creditcrede: amabit ameră,
timebio temerà. Per i preteriti perfetti ne diremo più innanzi. Tutti i B
avantil'afinalene gl'imperfettisi cambiano in “V” consonante, ed avanti l'O, l'I,o
l'U finale del futuro, li B. caratteristichi della conjugazione del tempo si
cambiano in R. Quindi si trae amerò da “amabo”, ma da belabo si forma belerò
senza mutarne il primo B; perchè questo è proprio del verbo, e non della
formazione del futuro. Queste regole sono ordinarie. Vediamolo. LATINO amatis
est amamo reg. 3. e 2, ora amianio sono sono Ed eccone la maniera. Dalle regole
3. e 2. è chiaro che la prima persona debba essere so e l'ultima sono. Ora dee
sapersi che appunto tra gl’antichi si trova non poche volte “so” per “sono” in
prima persona. B. Jacop. Poes. Spirit. Venez. 1617. lib. 4. cant. 28. stanz. 12. sei amamus es еè sumus somo
este credit et c. ama reg. 2 credi reg. 2. amas sentit et c. Amo reg.i. Vedo
reg.4. vedi reg. 4. vede reg. 2. senti reg.2: Amo amat amant amano reg. Dicasi altrettanto
di Video vides videt et c. credo ITALIANO ami reg. 4. e 2. 3. Applichiamo
queste regole al presente del verbo sostantivo : Sum amate reg. 5. e 2, sente
reg.6. credis credo So e finalmente Sono i 5 se, estis semo siamo sunt sete
siete sentio sentis crede reg. 6. sento reg. 4. lo so nulla: ho peccalo: Mi
exalto quantoposso. e cant. 3. st. 2. del lib, stes. A pinger laer
so dato. E GIUSTO de Conti nella bella mano pag. 39. La seconda persona es fu
trasposta e non altro, facendo prece dere l'S. Quindi gl’antichi dicevano
comunissimamente se anche senz'apostrofo per seconda persona: come Petrarca, Boccacci,
Albertano, ed altri: ALBERTAN. ediz. di Fir. cap.23. Selegaloa moglie? non domandare di
scioglierti. Se sciolto da moglie? non domandar di legarti. E più sotto: e sìselenulo
di tanto amarla moglie. PETRARC. canz. 26. v. 77. ediz. Comminiana Spirto
beato, quale 6 Se, quando altrui fai tale? e altrove più e più volte. Il Decamerone
secondo la ediz.1718. col la data di Asterdam ne è pieno. Senza questa origine
che facono scerecheseper seconda persona è voce interae non accorciata, non
s'intenderebbe, perchè gl’antichi spesso non l'apostrofassero. Tutta via per distinguerla
a prima vista da se pronome, e condizionale, convenne in qualche modo
contrassegnarla, e si fece uso dell'apostrofo: e servendo questo a notare le
voci scorciate; si riguardo se persona seconda, come scorciata, quando non era:
e perchè tutte le seconde persone singolari presenti dell'indicativo terminano
in I Reg. 4.e seguendo le leggi generali, tal persona nel verbo sostantivo avrebbe
dovuto essere un I. Così poco a poco si ricongiunse se ed i in sei, ed ora si
crede questa la voce intera di tal persona. E cid supposto quando si scrive se
per indicarla, si apostrofa, quasi fosse uno scorcio di Signor non è giovato
Mostrarmi cortesia: Tanto so slato ingrato ! e altrove spessissimo. E GUIDO
Guinzelli Rime antic. appresso la bel la mano ediz. di Firenz. 1715. Come io so
avvolto nel Lenace visco; e se ne hanno esempj ancora nelle lettere di S. CATERINA,
in Fr. Gi.ROLAMO da Siena nel1. Tom. delle delizie degli eruditi Toscani, ed in
altri: vedi vocab. di S.CATER. alla voce essere: ma so trovasi parimente
persona del verbo sapere, nata da sapio > sapo > sao > so: ovvero da
scio regola 5. scosso so: la prima derivazione è di Menagio: a m e piacerebbe la
seconda. Ma torniamo all'intento: siccomeso era voce ancora del verbo sapere, e
SICCOME IL SAPER VERO E DI TANTO POSTERIORE ALL’ESSERE. Così per togliere ogni
equivoco EQUIVOCO GRICE, si volle piuttosto ridurre il “so” del verbo essere in
sono, che lasciarlo indistinto col “so” del verbo sapere. Chi dunque considera
che il primo verbo italiano “essere” ha la voce “sono” per esprimere la prima singolare
e la terza plurale, sappia che questo è stato UN MALE DI ORIGINE, voglio dire è
provenuto dalla FIGLIOLANZA della Italiana dalla lingua latina, in forza delle
leggi universali, che per tanta combinazione di circostanze cooperarono a trasmutare
l'una nell'altra. s e i : nè chi
procede con tal veduta può riprendersi: ma in origine non vi era bisogno, e più
che apostrofarsi, avrebbe dovuto accentarsi. sero eepere.ALBERTAN. Giud. cap. 51.
Dal savio uomo eeda temere lo nimico. Or cid fecesi per distinguere e del
verbo, dalla congiunzione e, come pure dal pronome ei solito ad apostofrarsi, e
dalla congiunzione e seguita dall'articolo plurale ili quali due e iriunitisi rende
anopere: ma col tempo, la varietà dell'apostrofe e dell'accento pote
contrassegnare e diversificare abbastanza l’e del verbo dagli e di altro valore:
vedi esseren.Trovasi ancora fra gl’antichi este per è ma rarissime volte: vedi
Gradidi S. GIROLAM. ediz. Fir.1729. in fine alla voce este; finchè prevalsero
le regole generali anzidette. Da “sumus” uscirebbe sumo o somo, e non semo. Ma
siccome tutte le prime persone plurali dell'indicativo presente nelle seconde
conjugazioni presero la desinenza in “-emo,” come avemo, tememo, ecc.,così da “sumus”
e tratto semo. Ovvero siccome tutte le persone prime plurali ora pe'rincontri
della forma loro anno rapporto con la seconda persona singolare tanto che sono
un composto di questa con qualche a g giunta, come “amiamo” da ami ed amo, temiamo
da temi ed amo et c;e siccome tal seconda singolare era se nel presente
indicativo di essere, quindi ne uscisemo e poisiamo. Chi conosce gl’antichi sa quanto
è familiare l'uso di “semo”. Ne allego un esempio dalla vita nuova di ALIGHIERI:
Per chè semo noi venuti a queste donne? E Fra Jacop. lib. 1. sat, 5. Uomo pensa
di che semo. Di che fummo, et a che gimo. Vedi il prospetto del verbo Essere In
forza delle regole generali, la seconda plurale sarebbe “estes”. Ma trasponendo
l'savanti l'E come nel singolare per uniformità maggiore con “sono”, “sei”, “siamo”.
Sen'ebbe sele, e questa appunto è la voce degl’antichi: si consulti il verbo essere
not. 5. FINALMENTE SI AGGGIUNSE UN “I” PER DOLCEZZA (“se” > “sei”) o per
distinguere tal voce da alcuni sostantivi e sen ebbe siete, che ora è la voce
più propria di questa persona. Apparisce dunque per quali gradi e per quali
mutamenti siasi formato il presente come ora si usa del verbo essere, La terza
persona si esprime con la voce “e”, che appunto RISPONDE all’ “EST” latino, lasciatene
le consonanti SECONDO LA REGOLA 2. ma gl’antichi, prima che la lingua si
modellasse in tutto, non di raro dis 7 Preferiti Imperfetti Amabam amabas
amabat amabamus amabatis amabant Amaya reg.2.7. amavireg.2.4.7. amava reg.2.7.
amavamo reg.7.3. 2. amavate reg.7.5.2. amayano reg.7. 2. Temeva
&c. legebam leggeva e e da sentiebam lasciatone l’I che è quel di sentio
reg. 4. si ha sen leva com e era nelle origini prime, nelle quali, tutto
risentiva di conjugazione seconda tra gl'italiani ne' verbi provenienti DALLA
QUARTA DE’LATINI. Non è raro che “senteva” si oda anche ora tra' CONTADINI PIU
CORROTI CHE SONO GLI ULTIMI A CORREGGERSI. E finalmente fu detto sentiya
sentivi et c.lasciando l'E per l'I. Per queste regole e questi progressi
apparisce che la prima persona dell'imperfetto doveva terminare in A amava
temeva legge va sentiva. Al presente i filosofi ed i gramatici si meravigliano,
per chè la prima e terza persona singolare combinino, e perchè la prima non
siasi terminata in O. Ma la meraviglia cessa, se riflettasi che al cambiarsi
del latino nell'italiano, si prendevano di netto I vocaboli antichi, nè si
aveano di mira che certe regole, come le indicate di sopra, per contornarli di
nuovo. E siccome tutte le prime singolari degli imperfetti levatane la
terminazione latina in M ; restavano amaba legeba ec; cosi mutato il “B” in “V”
non poté farsi a meno d'incorrere nel lo scoglio anzidetto. Molto più che in
que'tempi non faceasi poco, se le parole non sapevano di latino. Veduto come
siasi introdotto l'equivoco EQUIVOCO GRICE, ora tocca ai filosofi di emendarlo.
Ttanto più che non siamo poi scarsissimi di esempii antichi pe'quali si
compionoin o le persone prime singolari dell'inperfetto: de'quali mi piace
allegarne qui alcuni riserbandone altri ailor verbi nel prospetto. Petrar. Vit.
De Pontef. Ed Imperadori: VITA DI CALIGOLA, lo PREGAVO ogni giorno che Tiberio
morissi. Così pure leggiamo in Fr. Jacop. 1. 4.can. 38. La cagion del mal
FUGGIVO. Cavalc. Epist. di S. Girol. ad Eusloch. cap. 3. ediz. Rom.. E
vedendomi io venir meno quasi ogni rimedio ed esser privato di ogni ajuto, GITTAVOMI
a' piedi di Cristo &c.... iratoame medesimo erigido, solomi mettevo per li
diserti, e dove io trovavo più oscure e aspre e profonde valli, e aspri monti o
scogli pungenti o luoghi più aspri e spinosi; ivi mi ponevo in orazione. Pulci.
Morg. c. 3. 62. lo mi posavo in queste selve strane. Da Timebam così pure
si ebbe C. XI. 83. Tal ch'io pensavo d'aver acquistato. 8 ec.16.44 Per Dio, cugin,
ch'i'sognavo al presente, Che un gran lion mi veniva assalire. Onď io gridavo,
echiamavo altra gente E però E con Frusberta il volevo ferire. e altrove più
volte. Letter. San. CATER. di Sien. ediz. di Aldo pag. 14. a tergo. Dicevo:
Signor mio io ti priego et c. e pag. 20. vi aggiunsi anzi che io volevo in voi
la perfezione della carità pag. 92.
desideravo divedervi: anzi tal voce desideravo si legge molte volte
inquelle lettere. Vita B. COLOMBIN. ediz. di Roma pag.9. lo gode voé voi non mi
lascia testare, e pag. 96. ad irviilveroio andavo a posarmi; pag.167. 0
figliuoli, e fratelli miei io non meritavo di es ser padre di tanta buona
gente; pag. 174. E questa la compagnia che io dal e speravo, e pag. 299. Pensavo
che quanto è maggiore la soggezione e l'unità ; tanto si vien piuttosto ad aver
libertà : Vedi ero n.6. verbo essere:e n. 6. avere. Eram Erant Erate reg. 5. e
2. e quindi Eravate avevano reg. 7. 2. Imperocchè ben è facilissimo concepire,
che se cambiavasi in questo tempo in V il B precedente l'A finale, potevasi
cambiare in V parimente anche l'altro B: anzi parea troppo ragionevole, perchè
non si notasse tanto di variodi usi in parole medesime, e si familiari. E' poi
noto, che tutto il verbo “avere” si scrivea ne’ principi, e si scrisse a n cor
dopo per lunghissimo tempo con l’ “H”” precedente: ed ora per un progresso, non
saprei quanto considerato, si tralascia ancora nelle vo ci, che forse ne
abbisognano. Ma giova esaminare ancora come siansi trasformati
gl'imperfetti de'verbi ausiliari: Eccolo 9. Si possono da tutto ciò comprendere
le cause de'cambiamenti prodotti nel presente di habco: seguiamoli via via,
che'non sarà inutile la ricerca Lasciato l'E di habeo reg. 4, e le altre
consonanti, e cambiatele giusta le altre regole, risulta 9 Era reg. 2. Eramo ed
erale presentano Erano reg. 2. le voci come si traevano dal latino in ottima
forma. Ma il va inserito eramus ed eratis Eras Era reg. 2. in eravamo, ed
eravate negli altri verbi, mentre in suppongono il B cambiato in V, come dunque
di vainera questa consonante. Tale aggiunta affatto manca la origine, nè fu,
che una intrusione vamo ed eravate è contro per di altri verbi, che usciva,
nato dal sentire le voci consimili isbaglio amayate &c. Il peggio no in
quel modo, come amavamo, non dandosi quell'aggiunta fu che si anche alle voci
era tolse la uniformità tiranno delle lingue, autorizza erano et c. Non dimeno
l'uso, quel, più che le semplicie naturali vamoederavale essere, n. 6. Ma
diciamo si trovino pur queste. Vedi que risultasse. Eccone la maniera fetto di
avere, è come Haveva 8. Habebam habebas Habeva habevi era eramo erate, quantun
dell'imper Aveva reg.7. 2. habebamus aveva reg. 7. 2. habebat habeva habevamo
habevate habevano haveva havevamo avevamo reg.7.3.2. avevate reg. 7. 5. 2.
habebatis habebant havevate havevano Erat Eramus Eratis Eri reg. 4. e 2. Eramo
reg.3. e 2.e quindi Eravamo havevi avevireg.7. 4. 2. b abbemo
abbiamo &c. Forseil B fu raddoppiato per compensare la perdita dell'E nell’
“habeo.” Sia comunque, abbosi legge ancora in ALIGHIER, Infer. 25. E quanto io
l'ABBO ingrado mentre io viva: E negl iAMMAESTRAMENTI degl’antichi certamente
abbo provato; e più sotto: ripenso la seraa quello che iolo di abbo detto.E
nelle Vite de’ SS.PP.e diz. Man.Fir, 1731., nella VITA DI GIOSAFATTE ediz. Rom.,
e nelle Noyelle antiche Fir, 1572 l'uso di “ABBO” è comune. Abbi è rimaso nel
Congiuntivo. E 'poi noto, che gl’antichi usavano la seconda singolare presente
dell'Indicativo ancora nel Congiuntivo, come resta tuttora in molti verbi, Così
ami serve in tutti due i tempi alle due seconde persone singolari,e cosi temi
può servire ancora, sebbene ora vi siano dei divarj. Sopravvanza nell'uso
comune abbiamo; e siccome gl’antichi finivano le voci per tali persone in eino,
cosi non vi è dubbio che ne'principj si dicesse “ABBEMO,” quantunque negli
scritti forse non si trovi, per la rapidità di altri cambiamenti succeduti.
Certamente l'uso di scambiare tutti i B nell'imperfetto di “HABERE,” di buon
pra scorse in alcune, o in tutte le voci del presente, e si trasse da Habo Avo
habi ave avemo avete habono avono ave resta tuttora tra’ poeti, e fu non meno
della prosa. Vedi questa voce nel prospetto di avere. Avemo é comunissima tra
gli’antichi. Avete rimane per ogni scrittura. Le altre tre voci presto furono
cambiate: perchè siccome l'V consonante ha un suono come di vi, o di un i
sibiloso; così specialmente se l'V sia doppio, l'avo, oppure avvo per abbo, fe
sentire nella pronunzia questo i quasi doppio.E quindi è che il B. JACOPONE
lib. 1. satir. 9. scrive Nè ferma fede per esempio ch'AJA; Franc. BARBERINI
edizion. Roman. pag.189. Non veggio ancor chi contento AJA il core. E Francesco
SACCHBTTI disse ajolo per lo ajo, cioè per lohu. S'insinud tal cambiamento
nella seconda persona avi, é mutato l'V in I, se ne habet abbi 1 habemus
habe habemo habete abbe avi da Habeo Abbo habes Ch'io n'ajo una si dura e più
sotto: ajo portato in core et c, ed altrove più volte: anzi usa “AJA” per
abbia:lib.1.sat. 12.3. 10 Illuminato mostromi fore, E ch'AJA umilitate nel
core. ALIGHIERI, Parad,17. fece huii, e col tempo hai. E questa è
la causa, per la quale ora ci troviamo con “hai”, seconda persona del presente
dell'Indicativo, senza che volgarmente se ne intenda la origine. Può notarsi
però che in forza della provenienza di hai l’i finale è risultato da un doppio
i; e quindi seguendo le origini, avrebbe dovuto scriversi “haj”: e ciò sa rebbe
stato opportunissimo pe' giorni nostri, ne'quali vuolsi lasciare anche l'h
precedente. Imperciocchè chiarissimamente si distinguerebbe che “aj” è del
verbo, senza pericolo alcuno che si confondesse con l'articolo plurale “ai.” La
mutazione del doppio B in V ed in I doppio o lungo, al meno quanto al suono,
porto l'altro cambiamento in aggio, aggi, aggiamo, aggia, aggiano: essendonoto
che l'J lungo si cambia spessissimo in tal modo:e questa è la causa parimente, per
cui si dice veg go veggiamo et c. Imperciocchè nelle prime origini si disse
ancora vejo vej veje per vedo vedivede: si consulti il prospetto di vedere.
Quindi 'Imperador Feder. Rim. ant. 114. Rispondimi Signor ch'altro non chiejo.
Da crejo è propriamente quello scorcio, che pur si usd tra'poeti di cre' per “credo”,
quasi crejo fosse cre io. Vedi il prospetto di credere. Ant. Pucci nel suo
Centiloquio can. XI. terz. 27. scrive: Gli comandò che giù sedesse al piano.
L'ultimo verso assai dimostra, che sie fu detto per siedi: E siccome in ALIGHIERI
Inf. 27.53. si trovasi e'per siede; parchiaro che ambedue de rivino da sejo.
Allego un esempio di “trajamo”: BOCCACCIO: g.8. n.5. lo voglio che noi gli TRAJAMO
quelle brache del tutto: da ciò ben apparisce la origine di traggiamo &c.
12. Ridotto havi ad hai; dovea sembrare che fosse di netto stato levato l'V
consonante, quando erasi inviscerato nell'j: e cið comparendo, era facile di
lasciarlo pure nella terza persona have, e formar ne hae come si trova in Fr.
Jacop., in Guid. Giud., in ALBERTANO, Di voi,chiaritaspera. Rim .Allac.
408 Ciulo dal Camo Cose da non parlare. anzi avverto, che tra gl’antichi si
trova ancora crejo, chiejo, sejo, trajamo, donde sono creggio, chieggio, seggo,
lraggiamo &c,enon dalla mutazione del D in G come si tiene, forse meno propriamente
dai Grammatici. Cosi Fr. Jac. lib. 5. c.3.12. secondo che io crejo: e nelleno
te vi si legge: crejo,creggio,credo, e lib. 5. can.25. 12. II E vejo li
sembjanti Quando ci passo e vejoti. F. Jac. lib. sat. 3.9. la sera il vei
seccato. lib. 6. can. 45. 4. Che vee con vista acuda disse l'anziano: Sie giù a
pena di cento fiorini: E volendo pagare a mano a mano, E l'anziano a pena di
dugento b2 12 e generalmente negl’antichi. Cost Albertan. al càp.
12. L'avar7 sempre ha e le mani di stesepertorre. ..ivi l'avaronon haesicura
vita. I Grammatici han creduto che quell 'E sia stato sopraggiunto all'ha per
genio della lingua, che non amava finire le parole in accento. Ma questo sarebbevero,
quando la parola originale della terza persona fosseha, ciòche è falso; essendo
questa habet, habe, have. Hae dun que non èche have, toltone ”v per simiglianza
di quanto era accaduto in hai, ed in hajo. 13. A questo proposito avverte, che
non di raro fra gl’antichi si legge dae, fae, slae per dà, fa, sta, come
leggesi trae, e come hne per ha. Anche gli E di dae, fae,stae, si credono
aggiunti per la ragione medesima: ma egli è FALSO UGUALMENTE; perchè dai ruderi antichi della lingua può
concludersi ta esistenza degl'infiniti, daire, faire, staire, come esiste
traire. Ora da quegl' infiniti daire et c. sorge naturalissimamente dae, fae, stae,
cometrae, che ancorc irimane da trai re:vedi S. III. di questa Prima Parte
sotto il titolo Dipendenza delle conjugazioni italiane dall'infinito, n.2.E
quindi pure sono le voci dai, fai, stai, come trai, che altronde sono
inesplicabili. A dichiarare quanto dico sappiasi, che Fr. Jacop. lib.6.c.10.st.
20.scrive A chi gli dice villania et c. Fra duo ladri allo staia. e lib. 4. c.
1o. E che al povero dala. elib.6.c.43.5. Ch'egli è il daenteeti il ricevitore:
e lib.7. c.9. II. Staendo in quest'altura dello mare: Vita S.Maria Mad. É
cosistaendola poverettasì per l'amore che gid ave v a con celto di Gesù Cristo,
si per la doglia ; cominciò a piangere. Parimente in Fr. Guitt. si legge più volte
faite alla pag. 36, e faie alla pag.54. E nel TESORETTO: ponelemente al beneche
faite per usaggio: e Franc. BARBERINO pag. 17. Faesselei di quel pregio degnare.
Nei GRADI di S. Girolamo alla voce Fa il e nell'indice si dichiara, chel’idi faiteè
un aggiunto,e non più:ma faie, faesse, e le voci slaca, daia &c. ne'verbi
simili palesano il contrario: e Traire si legge in Fr. Guit. lett.2. pag.9, ma
traers spiega ugualmente la origine di trae, come fae sorgerebbe ancora da
faere, del quale fece uso Franc. BARBERINO nel verso allegato. Per tanto gli E
di dae, fae, stae NON SONO AGGIUNTI, come si pensa, MA SONO NATURALI; ed ora
non si è cessato diaggiungerli, ma sono stati tolti. Tornando alle voci hai ed
hae, siccome in queste era perito \'u consonante; così poco a poco si tento,ma
non riusci, di farlo pe rire nelle vociavemo, avete: e non è infrequente di
udire aemo, aele; e nel futuro dell'Indicativo, e negl'imperfetti dell'Ottativo
trovasi scritto arò, arai, arei, aresti' &c.come vedremo. Non prevalendo
pero quel tentativo, siri serbarono le voci avemo, avete, e talvolta aviamo,
aviate, aggiamo, aggiate. Essendosi creduto, che l’E di hae fosse ag giunto;
presto fu stabilita ha per terza persona; talchè le prime tre fossero ho, hai, ha.
La terza plurale divenne harno; perchè dall’ “habent” sifece haveno, haeno,
hano, hanno,ed esistono ancora'esempi di dano, fano et c. per danno e fanno,
voci similissime nella origine, com me è chiaro: vedi S. III. 12. 15. Ma
passiamo ad esaminare come dai perfetti de'verbi latini si traessero quelli
presenti d'Italia. Potrà ciò conoscersi ne'verbi comuni ad ambe le lingue, ma
terminati secondo i metodi di ciascuna: E noi su questi rifletteremo. I Latini
sincopizzavano il perfetto in più voci, togliendone il VI, o il Ve. Per avere
dai perfetti latini l’italiano corrispondente, silasciil VI, o Ve in tutte
lepersone per quanto si può senza contradire alle regole generali del s. I.
Quindi nel la persona prima singolare dee lasciarsi il solo V, non potendosi
togliere l'I finale, secondo la regola prima. Si noti, che la terza singolare
risulterebbe simile ad alcuna voce del presente, e quindi nelle origini si
accentava: ma ora se la voce finisce in A, si muta in O accentato. La prima
plurale sarebbe amamo come nel presente, e quin di I'M si è raddoppiato. Del
resto in Gio. VILLANI nella edizione fatta procurare da Remigio Fiorentino in
Venezia si vede gran quan tità di persone prime plurali dei perfetti, scritte
con un semplice M : come tememo per tememmo. Altrettanto si osserva in Fazzo
degli Uber ti, nel Cavaliere Jacopo SALVIATI Tom. 18. Delizie degli eruditi
Toscani, nella Cronica del Pitti, ed in altr’antichi; indizio che per tali vie
si passava dal latino all'italiano in questo tempo. Anzi Celso CITTAD I ninelle
sue Origini della Toscana favella osserva al cap. 6. che i Sanesi in tali
persone non davano asentire che un M, quasi pronunziando facemo, dicemo &c,
ed egli con pari ortografia scrisse tali voci. Ma Girolamo Gigli nel suo
Vocabolario di S. Caterina noto alla lettera M, che a'suoi tempi (vuol dire un
secolo dopo il Cittadini) quell'uso era perduto. Serbate dunque anche le regole
generali del n. primo, avre di Ama(v)i ama (viisti ama(vit) ama(vi)mus
ama(vi)stis ama (verunt Amai amasti amd amamo amammo amaste amarono. Dai Latini
si disse ancora amávere: toltone il ve, si ebbe Vita Lano amare, e perché non
si confondesse con l'Infinito, si muto l'E i n o, e si ebbe amaro per altra
terza persona plurale. I Grammatici han ereduto che amaro sia precisamente una
sincope di amarono, toltone il no. Á me però sembra che amaro sia voce intera in
sestessa, e provenuta altronde, come ho dichiarato. E questa è la ragione, per
cui amaro può troncarsi ancora, e dirsi amàr per amaro, laddove le troncature
delle troncature non sono consuete, almeno nella lingua, come ora si
trova. 13 mo 17. II P. Bartoli nella sua Ortografia riguarda come un
incanto che le terze plurali del Perfetto indicativo scorciate tre volte s e
m 14 pre significhino lo stesso con quadrupla desinenza: amarono, amaron,
amaro, amàr. Ma l'incanto, se ben si consideri, non è che un caro abbaglio di un
animo, che al veder primo si appaga, stanco delle molestie di riflettere. Imperocchè
da amarono sitragge amaron, e qui cesserebbe la troncatura: ma perchè levato
anche l'N ci troviamo da amaron in amaro, desinenza ancor buona; si è creduto,
che tal bontà risulti in forza di uno scorcio: laddove amaro già era legittima
desinenza in se stessa: e perchè tale, ammettevasi; non perchè nata da amaron, levatone
l'N. A parlar dunque propriamente si hanno due desinenze, amaro, ed amarono, ed
ognuna ammette uno scorcio, ama rono porgendo amaron, ed amaro la voce amar, col
vago incidente, che se da amaron si spicca l'N finale; ci troviamo alla desinenza
seconda, la quale è amaro. E siccome amaro è desinenza intera in se stessa; di
qui nasce che gli scrittori del buon secolo, ed alcuni ancora del cinquecento,
come il DAVANZATI ne fecero tanto uso: laddove le altre sincopi amar ed amaron
sono assai più rare, spacialmente in prosa. Anzi si noti, che nelle NOVELLE
'ANTICHE la desinenza in aro è quasi la comune, laddove l'altra in arono vi è
scarsa, e meno pregiata. Ma proseguiamo l'esame de perfetti: e prima nella
terza conjugazione. Audi(vi audi(ve)runt Audii audisti audi audimmo audirono
udiste udiro. proviene udiro dall'audivere, come amaro dall'amavere. E'poi noto,
che nelle origini della lingua si disse in italiano anche “audire” finchè l' “au”
si chiuse in “o”, cone nelle voci aurum, tesaurus,dalle quali si trasse “oro”, “tesoro”
&c, e se n’ebbe udii, udisti &c.Vedi questo verbo nel prospetto. Debui
debuimus debuerunt Devei,. Pertanto abbiamo da dové doveste udisti
audi(vi)t udi audi(vi)mus udimm o audi(vi)stis. Riguardo alle seconde
conjugazioni, avanti l'I finale vi è l'U vocale, e non consonante, quindi
regolarmente parlando tutto l'UI o l'UE si muta in E semplice, avvertendo, che
l'1 finale nella prima persona dee conservarsi secondo i canoni generali
debuisti Dovei deve, audiro devemmo, deveste, deverono, audi(vi)sti audi(vere)
debuit debuistis debuere doverono dovero. audiste devesti, dovesti devero,
Siccomel'U fu cambiato in E(dovei) gravato di accento, quindi nella terza
persona non potea non dirsi se non dovè seguendo le regole ge Udii udirono
dovemmo nerali, o “dovèt”, trascurando la regola sulle consonanti
finali; e da que. sto nacque che per istrascico di pronunzia fu detto ancora
dovette, come dalla voce Giudit PETRARC. Trionf. fam. c. 2. v. 119. Non fia
Guidit la vedovellaardita, si è fatto Giuditta, e come da Josafat, DANTE Infer.
10.v. 8.Quando da Josafat qui torneranno, si è prodotto Giosafalte comunemente.
Fattosi dovei, dovė, o davèt, fecesi quindi per coerenza doveltero e dovelti: e
cosi questi preteriti ebbero doppia desinenza: e si disse temci e temetti, teme
e temette, temerono e temettero. E' poi tanto vero, che questa è la origine di
temetti, tèmel te et c, che siccome lo stesso argomento vale per le terze
conjugazioni; così talvolta si scontra ancor questa desinenza applicata alle
medesime. Ond'è che trovasi fuggi, fuggi et c; e nelle Vire de SS.PP. ediz. Man.tom.1.pag.20.
fuggitte,e nella pag.125 salitlepersa li: una nolle, essendo questi ito, alla
casa di una vergine Cristiana o per rubare, o per altromalfare, salitte con
certi ingegni il tetto della casa. Anzi questa ragione è sì certa che
spessissimo le desinenze in ilte come salitle et c. furono modellate affatto a
norma delle altre in elle, cioè di temelle,credette et c. Quindi è che nel
medesimo tom. 1. delle Vit.deSS.PP. se in alcuni esemplarisi legge fuggitte, in
altri, sihafuggelte: allapag. 101 ediz. citat. Vi è fuggetti per fuggii: nella
62, uscite per uscì, nella 71 irrigi delle per irrigidi, nella 73 finette per
fini, ed Pucci versificatore famoso del trecento nel suo Centiloquio al can. 2.
st. 69 ha sentelle per senti; ed Oito impe rador che ciò sentette, e così altre
se ne veggono in altre pagine ed opere. Simile terminazione non potevaaver
luogo nella prima conjugazione, perchè l'amavit, secondol'uso di cavarne il volgare,
cessadove è il secondo a, dicendosi amo,e non cessanell'I con farsentire un
amavit: il che direttamente gli avrebbe causato la uniformità, che'mai non
ottenne: ora la desinenza in illi ed etti et c.è del tutto abolita per le terze
conjugazioni: rimane ancora la cadenza in etti e dette, &c. per le seconde
conjugazioni; ma forse, almeno in più verbi,è men cara che nelle origini della
lingua, come potrà rilevarsi dal prospetto de' verbi, che soggiungeremo. E
giacchè consideriamo il rapporto fra le desinenze delle terze persone de’ preteriti
dell'indicativo, piacemi dilatare ancor più la serie delle riflessioni, picciole
sì, ma pur necessarie per chi brami co noscere intimamente la lingua, e suoi
movimenti. Ho detto di sopra, che dall'amavit, debuit, audivit si tragge amò, dove,
udi, abolendoin tutto, quel vit finale: ma questa è piuttostola regola, che ora
predo, mina. Del resto quando la lingua pendeva incerta sul fissare le sue
desinenze, talvolta tentò rendere queste, tutte simili alla cadenza del. la
prima conjugazione, e tal altra a quella della seconda. E certo quell'amavit
ebbe talorauna desinenza come amao: di che produco un esempio luminoso di FR. Jacop.
lib. 2.can. 2. Quando che in prima l'uomo peccdo Si guastò l'ordin lullo
dell'amore: E questa è la causa, per la quale ora diciamo “amarono”,
lassaro no, e non “amorono”, lassorono et c. vuol dire questa è la causa, per
la quale la sillaba antipenultima è un a, e non un o. Tutte le terze plurali
nascono nel preterito con aggiungere alla terza singolare un rono, o un
semplice ro, ne'perfettianomali, o simili aglianoma li. Così diciamo sentirono,
temèrono, crederono, sparsero, videro et c. Pardunque la original terza persona
quella de'contadini “amà,” “lassà”, et c.
e quindi sen ebbe amarono, lassarono, e non amorono, las sorono
&c.desinenza che leggesi in molti antichi: Così nelle Vite de’ Pontefici di
PETRARCA visileggeandorono, seccorono, e
simili ordinariamente. Venturi traduttore di Dionigi di Alicarnasso è pie no di
tali cadenze. Forse a dire amarono, lassarono &c.vi contribui pur LA
DOLCEZZA per non avere insieme tre o finali amorono, lasso rono et c. Nel modo
poi che il vit era supplito da un o nella prima conjugazione; lo fi pure nelle seconde
e nelle terze: e quindi sono le voci temeo, credeo, poteo, aprio, finio, udio,
e simili, tanto frequenti ne gli Scrittori. Ora queste desinenze, per le prime
conjugazioni sono spente in tutto: ma nelle altre conjugazioni rimangono
tuttavia per li poeti, e l'uso moderato può riuscire utile non meno che
dilettevole. Chi non bene conosce le primizie della lingua, meravigliasi che
imo di poteo, lemeo, udio &c. fossero comunissimi. I Grammatici dissero che
l'o finale SI AGGUNSE PER LICENZA POETICA. Ma cið non ispiega perchè voci di
questo conio abbiansi frequentissime ne'vecchi prosatori, come nelle Storie dei
Villani, nel Davanzati, ed in altri. Dir finalmente che l’o si accresceva per
non finire in accento, era un luogo comune, un parlar di abitudine, e nulla più.
Si doveva avvertire, che quest'ori ceveasi da tutte le conjugazioni nelle terze
persone singolari de'pre 16 Nell'amor proprio tanto l'abbracciao ; Che
n'antepose se al creatore. E la Giustizia tanto s'indignao; Che la spogliò di
tutto suo onore: Ciascheduna virtù l'abbandonao, Gli fu il demonio dato
possessore: Nel tom. 12 degli Scrittor. Ital. Del MURATORI trovasi inserita la Memoria
di Messer Lodovico di Buon Conto Monaldesti su la coronazione del Petrarca: costui,
che lavidediperse, cosìscrive:Poi comparve lo Sena tore in mezzo a muti
(molti)cittadini, e portao allo capo soio (suo) na corona di lauro,ese assettao
alla sedia, e poi s'inginocchiaoallo senatore et c. Si vede in questi esempi,
che si accento l a preceden te il vit,e questo vit fu supplito con un o.Più
volteho notato, che presso alcuni contadini appunto ne'dintorni di Roma dicesi
difforme mente amà,lassà,&c.per amò, lasciò come ora è laregola: Tocca al
filologo accorto di rintracciarne le provenienze:esse non sono che per lo
scorcio naturale,che si faceva della lingua parlata sotto questo cie lo
da'nostri antenati. teriti, e la uniformità medesima avrebbe fatto
conoscere, che era un supplemento del vil, risecato dalle voci
latinecorrispondenti, o pure una proprietàdi cadenza;e con cið sarebbesi
dichiarato perchégliAn tichiusassero temeo, udio,e simili,promiscuamente in
ogni scrittura, senzascrupolodiriprensioni. E'poitantomanifestochequell'O non
si aggiungeva per non finire in accento, che nel Dittamondo si tro va unito
anche alle prime persone della terza conjugazione, leggen dovisi nel 3 lib.
cap. 15 udio per udii : 22. Tornando al nostro principio, apparisce dal fin qui
detto che sitento chiudere in tutte le conjugazioni con desinenza simile
allaprima:ma perchè l'uso non eraancora ben fissoe comune, si tento per eguale
maniera terminare tutte le terze singolari d e' prete ritiinE,comein E finisce la
terza singolare nella seconda conjugazione. Quindi è che troviamo amoe, teme, finie,
e similicon tan ta abbondanza di esempj. Faz. Dittam. lib. 4 cap. 20 23. La chiusa
delle terze persone tutteinO,ovverotutteinE,de riyava dallevoci corrispondenti
latine, finite tutte in un modoamavil, timuit,audivit.Era difficile abbandonare
ogni somiglianza nell'italiano,с 17 Passato poi Suasina, io udio et c. e
cap. 16 Secondo ch'io udio, e'l nome prese e cosi nel lib. 4 cap. 4 vi si legge
sentiu per io sentii, e nella Vin LadiGiosaf.pag.31 uno essemplo tidico chel'udio
direa uno molto savio uomo : e pag. 34 lo ritornerò nella mia casa onde io
uscio. Novell.ANTIC. Firenz.1572 novel. 20 lo poi che mi partio,abbo avuto
moglie efigliuoli. Etic.di Arist. compend. da Ser BRUNET.ediz. Lion. pag. 100 quando
io udio le loro parole, non mido lea &c. Gli o dunque di udio,finio, lemeo
et c. in terza persona, non sono licenze di poeti,non aggiunteper iscansare
gliaccenti,ma regole o modi di terminazione, e risultati di una lingua, che in
altra si trasmutava,come or ora meglio dichiareremo. Che amoe si;che'lsipuò dir
percerto. e . Che rifutoe l'onor di tanta manna. Vit. de S S. P P. inciampo e in una pietra, e fece alcuno
strepito: pag.10 con molte lagrime cantoe salmi, e pag.6 ľani male si levoe a
corsa, e fuggie:pag. 43 per la sele l'uno morie,e pag. 47 udie una voce che gli
disse et c.'Or questa uniformità fa vede re,come dianzi ho pur detto,una
proprietà di cadenza nelle terze persone singolari del preterito in su le
origini della lingua, e quin di è che se ne abbiatanta copia ancora
ne'prosatori;e tanto èlun gi che l'E si aggiungesse perevitare l'accento,che ci
è facile tro yare temè,ma non temee; se non forse per la rima.Cosl Dante dis
sePurg.3212 senza la vista al quanto essermife e permife,voce interain
sestessa,come vedremo nella seconda parte al num.6 del verbo Fare. dopo che le altre persone omologhe del
preterito si erano concordate nella desinenza.Così tutte le prime escono in
I,amai, temei,udii, tutte le seconde in sti, amasti,temesti,udisti:e
tuttelepluralihan pari concordia di finale. Or come poteasi tralasciare quesť
armonia nelle sole terze del singolare? Questa è la origine vera degli O e
degli E che si aggiungevano, e non le sognate fra le minuzie di una grammatica,
che inaridisce. Col progressodel tempo sivolle trascurare
quellaparitàdicadenza, e le voci sichiuseroin 0, in E, inI,ac centandole
finalmente, sebbene quelle chiuse in O si trovino spesso tra gli Antichi
senz'accento comeinFazio degli UBERTI, e nelle NoVELLE ANTICHE.Ed
oranoi,lucidiesseridi unsecolointelligente, go diamo su la idea dolcissima di
una lingua perfezionata. Ma i gravis simiAntichi,colle mire ch'essi
aveano,questi Antichi io dico, risor gendo,ne sarebbero in tutto persuasi? E cid su le terze persone singolari de'preteriti:
ora torniamo al verbo temere o dovere, dalle considerazioni del quale siamo qui
per venuti. Si noti che doverono e temerono ammettono le tre solite scor
ciature Lemeron, temero,temer,come amaron, amaro, amàr,perchè da lemeron ci
troviamo all'altra desinenza intera temèro prodotta da ti muere,come dovèro dadebuere:
laddovedovellerononsopportacheuna scorciatura appena,potendosi faredovetter, ma
non proceder più oltre; perchè le nuove scorciature non ci fanno casualmente
trovare in altra desinenza compiuta in se stessa.Tanto è vero quelloche
siadditonel 3. 17. E'certo che ne'perfetti delle seconde conjugazioni
italianeso no le irregolarità più grandi: ma non ho veduto che altri notasse in
esse un incontro curioso: cioè la irregolarità non concerne mai se non la prima
persona singolare,e le dueterze singolare e plurale,mentre tutte le altre
persone si trovan sempre comela regola chiederebbe. Cosi nel preterito rompere
abbiamo ruppi, ruppe, ruppero anomale; e le altrevocisono
rompesti,rompemmo,rompeste,come vorrebbe la indo le di un perfetto italiano
regolare rompei, rompè et c. Tal cosa è so vente osservata e confermata con
esempj nel prospetto. E m m i più vol. te nato il prurito d'indovinare onde sia
talearcano di lingua. A me ne sembra la origine dall'avere le terze persone
plurali una seconda desinenza derivatadal latino,per esempio rupere
ond'èruppero,enon daruperunton d'èrupperono, oromperonoBo'i reg.2, chepursitro
ya negli Antichi: vedi ilprospetto di questo verbo. Romperono ha l'ac cento,che
riposa in su l’E: e quindila terza singolare non può es. sereche rompe, e la prima
rompei; laddo veruppero hal'accento nell'U, restandobrevelaE.Quindi
perleggedicorrispondenzalaterzasin golaredee tenere l'accento anch'essa nella
vocale precedente, e non nella finale; altrettanto dee succedere nella prima
singolare: e per ciddeemancarel'E diEInella desinenza, giacchèl'E diEIintutte
le conjugazioni seconde è gravato di accento; efinalmentedee cavar seneruppi, ruppe,ruppero.
Ma rompesti, rompeste,rompemmo non pos. 18 già 26. Ma diciamo
qualchecosa de'perfetti de'verbiausiliari.Nascono fuit fusti fosti C2
sono non avere l'accento sull'E in forza dellaformazione loro,essen do in esse
la E seguitata dalla doppia consonante S T, M M. Quindi non possono non esser
tali come romperono, quantunque poco o nulla usate, come avviene in molti se
provenissero da rompei, rompe, verbi irregolari. E per cið l'anomalia
de'preteriti non può concer nere se non la prima singolare, e le due terze
persone singolare e plurale de'perfetti. Questo discorso vale eziandio ne'verbi
ano mali di terza conjugazione ; dicendo dell'I quanto si è detto dell'E. Potremo
da ciðtantomeglio persuadersi, cheamaro, temero,&c. sono desinenze piene in
se stesse, e non sincopi di amarono merono et c. fuisti Fui da Fui fuistis
fuerunt fuere fummo fuste foste furono 19 fuimus furo Questo tempo somiglia in
tutto al preterito debui o timui della se conda conjugazione latina,alla quale
appartiene ilverbo esse,o pure essere secondo che leggesi in Plauto. Pure esso
nelle persone non ha subito la legge di mutare l'UI:ma ciò non è stato senza
una ragio ne: Imperocchè dando luogo a tal mutazione, sarebbe risultato
fei, fe sti,fe et c, e questo è il preterito appunto del verbo fare: purtroppo
si osservano tra gli Antichi talvolta le voci del preterito del verbo
sostantivo piegate in quelle del verbo fare: Cosi Fazio degli UBERTI nelsuo Ditcam.1.4c.8
dissefoperfu. Per il diluvio chefositene broso:Filip.Vil,nelprologo
allesueStorie:con lo stile che aluifo possibile:e Faz. Nel Ditlam. lib.3 cap.22
infinescrivefonno perfurono,e Fr.Guitt.let.12, scrivefoe per fu:e Fra Jacop.1.2
can.172 scrive fom per fummo.Per nonconfondere dunque una cosa con lealtre,non
doveasi praticarela legge anzidetta: nei tempi debui,debuisti periva in.
tuttele persone l'UI,eccetto l'Ifinalenellaprima perfareil cambiamen
toindicato. Infuisti, fuimus &c. sièritenuto l'U, edèperitol'I:edin fuerunt
è peritol'E. Si noti cheil fuit dagli Antichi si rendeva,e nesonopienii libri, perfue.
Igrammaticihancreduto l'Edifue come una giunta per non terminare quell'E non è
che la E nella quale dovea mutarsi l'UI, supplita in questo luogo per dare alla
terza singolare del perfetto la desinenza in E,comune a tutte le persone simili
di altri verbi di questa con jugazione, dicendosi lemè, iemelte, crede, ruppe
et c. Tanto siam dunque lontani che l'e di fue siasi una giunta, che anzi era
lettera distinti va della persona, ed una conseguenza dellamutazione, che
aveasi a faredelUI in E, come più si poteva. E quando sparì quell'E, sitol fue
fu in accento la semplicefu:mą serealmente,non si cesso di
aggiungerla.Ed ora ci rimane il sem plice fu, voce cheesce affatto da ogni
regola di terminazione. da Habui E le voci avesti, aveste, avemmo sono
comunissime: delle altre avei, avè, averono, se pur furono in uso, non ho
presente nemmeno un esempio; e solamente mi ricordo che in Fr. Jacop.si legge
avi per ebbi, ed avvero per ebbero. Di buon ora s'introdusse la irregolarità,
la qua le concerne, come ho detto, la sola prima singolare, e le due terze
singolare e plurale, e si fece ebbi, ebbe, ebbero; presa la occasione c o m e
s'intende pel S. 17 dal habuere: perché se ne dovea cavare ha. bero,con
lapenultima breve,donde ne seguitava habe per terza sin golare, ed habi per
prima; e somigliando queste due voci ad altre dell'antico presente abbo, abb i
et c, non potè non cambiarsi l’A in E, condirsiebi,ebe,ebero,ebbi,ebbe
ebbero.IPoetitalvoltaco me PETRARCA Trionfo Fam.cap. : ora investighiamo, come
da’pre teriti più che perfetti latini ne derivassero gl'italiani, che tanto sem
brano differenti. E certamente i Latini esprimevano col tempo la qua lità che
si affermava, ossia la cosa che siera fatta: e tali erano a m a
yeram,fueram,habueram.Ma negliitaliani sidecomposero gliattri buti, e si disse
io aveva amato,io aveva avuto,io era stato.Possiamo però conoscere che
tra'Latini medesimi si aveano i semi di simili riso. luzioni. Cosi Cic. nel 15
Fam. 20 disse, quantum ex tuis litteris h a beo cognitum per cognovi:od in
Verr.7 63 hodie sic homines ha bent persuasum: cosìnel 4 Ac. comprehensum animo
habere atque perceptum; ed altrove assai volte. Pertanto nel passare
da'preteriti più che perfetti latini agliitaliani,nonsifeceche ampliareciocchè
giàsi usavadai Latinimedesimi. Abbiamopiù voltenotato,che 20 per la rima
scrivo. no ebe con un b solo:qualche Antico ciò praticava quasi per abitu dine,
come può vedersi nel Dittamondo di Fazio degli UBERTI l'uso finalmente ha
stabilito ebbi, ebbe : ma,ebbero:vociche varianonel principio e nel fine come
appunto i preteriti greci. 28.Ma bastisu'preteritisemplici avesti ayè avemmo
aveste averono avero. 27.Seguendo le leggi descritte dovea nascere ancora
Habuisti Habuit Habuimus Habuistis Habuerunt Habuere I Ayei v.92, li che
incominciano ad imparare il latino quel lo scordano, facilmente,o che per
disusoin parte esprimono le azioni trapassate col verbo habe re,e col
participiopassato latino. va linguagl'Italiani erano Or siccome nelle
originidella in rispetto della lingua latina nuo punto chi principia ad apprenderla
come ap, o chi per disuso l'ha quasi di menticata; così l'analogia e
la voglia di esprimersi inqualche modo gl'indusseade comporre,edireioavevaamato,io
avevaavuto. &c; lasciando in amalus ed habitus gli S finali, e mutando gli
U in 0 secondoleleggidelş ireg:2e3, dalle qualiappuntorisultaamalo ed ayuto con
i cambiamenti suggeriti appresso dall'uso. 29. Quanto al verbo essere:il più
che perfetto latino è fu -eram, fu-eras,fu-erat&c:t alivocisonocompostedi
eram,eras,erat,e fuo fuit: quasi dicasi io erafu:tu eri fu &c.Seguendo
pertanto l'indole del tempo aveasi ad indicare tal nozione che spontanea si
presenta: cioè dovevasi indicare che questo era spettante alfueram; non era
indeterminato,e pendente come chiamano i Grammaticil'imperfetto, ma era
piuttosto di un tempo definito e certo. E'noto che i Latini appuntocon la voce
status, stata, statum upita al giorno o tempo accennavano i giorni e tempi
definiti. Cic. Offic.37 status diessit cum hoste:o come Plinio disse stato tempore.
Quindiin tempo che la lingua degenerava o si decomponeva si disse io era
stato,cioè in tempogiàfisso, giàpassato,e non pendente:tueristalo,cioèintempo
fisso et c, egli era stato, &c. La voce stato fu dunque come una giunta o
segno di cosa passata, e non altro:ed in seguito si aggiunse a tutti itempi,che
lo richiedevano nel verbo essere.I Grammatici han creduto, che stato sia il
participio del verbo stare applicato al verbo essere. M a non dee presumersi
che la formazione del verbo stare pre ceda quella di essere, che èil primo
de’verbi,e verbo per essenza: edaggiungo che sto,stas tra'Latini,da'quali
derivava in gran parte la lingua,se non è privo diparticipio, certamente ne
somministrava un uso ben raro, come può intendersi, consultando il Forcellini
sul verbo sto sta.Per taliriflessièda concepire,cheilverbo esserenon abbia
participio se non quello dedotto da stalus, stala et c. usato in principio come
segno e non più, di cose precedenti e consumate. 30. E da ciò nacque, che a
poco a poco si tentò creare un par ticipio proprio di essere,facendosi
essuto,issulo, o suto. Quindi AlBERTAN. Giud.cap.44pag.100 ediz.Fir.1610maggioronoreglisareb
be essuto s'egli se ne fosse rimaso. Amm AESTRAM. degli Antic.pag.93 Nella
Grecia la Filosofia non sarebbe stata in tanto onore s'ellanon fosse essuta
invigorita per contenzione. Collaz. Ab. Isac. pag. 59 E se l'uomo
avesseconosciuto lasua infermilate nelprincipio e avessela veduta ; non sarebbe
essuto negligente. Questo participio pareva il più naturale: pur si disse anche
issuto; ma più di raro: AMMAESTRAM.de gli Antic. pag. 303 la nuora il seguente
di che è issuta menata, di. manda &c.Ma più di tutti fu in uso ilparticipio
sutopiùanalogo a sono,sei &c,e molti nesonogliesempj in Boccaccio,nelle
Croniche diLionardo MORELLI, nelMorgante del Pulci, nell'ARIOSTO, ed in altri:
ne allego un solo tratto da' FIORETTI di S. Francesco cap. 38 a.me si è suto
rivelato che tu et c. A fronte di tali sforzi non irragionevoli lavocestato, laquale
nonera che unsegno,divenneilparticipio legittimo, esclusone ogni altro,
21 Ed eccone gli esempj. Fra JACOP. Poes, Spirit. lib.1satir.i
averanno reg.2, 3,7 perchè se nell'habebo si cambiavano i due B in Vrisultava
havevo e quindi havevi,haveva &c.come nell'imperfetto:nonvolendosi dun que
ritenere il secondo B, fu necessità cambiarlo in altra consonante, e fu questa
la R, e se n'ebbe averò, averai, averà et c. in forza delle regole generali citate:
mapresto sitolseanchel'Eintermedio,esi fece Ayrd Avremo ayrai 22 Sempre
serai in tenebria Ditlamon.lib.icap,25 eris erit erimus eritis erunt avrete
ayrà avranno serai sera seremo Serete seranno. LATINO habebis AveròS.Ireg.7 31.
Venendo ai futuri dirò prima come derivassero quelli de’ver bi ausiliari. Nel
verbo essere è il futuro Ben serai crudo se gli occhi non bagni. FBA Guit, let.
3_pag. 13,e anche sera di molti. Dittamon. 1.2 c.31 L'ITALIANO nelle origini
Sero Le cose quivi ne seran più conte. Novell,ANTIC,99 seranno queste le novelle
che io porterò. Chileg. gegli Antichi trova questeésimili vocinon
infrequenti.Manifesta mente dunque derivano dalle latine con la giunta di un S
in prin cipio per uniformarle con sono, sei, siamo et c. Del resto eris,erit,
giusta le regole, danno erai, erà,S. 1, e quindi serai, serà. Presso al cuni
popoli ancora si ode ladesinenza serimo, serile, che presto fu ridotta in
seremo, serețe et c. Al presente si trova cangiato anche il pri mo
E,dicendosisarò,sarai.Questo cambiamento è1'usuale,ma non forse il migliore,
secondo le regole. Vedi il verbo essere n. 13. Quanto al futuro di avere era il
habebit averaiS.Ireg.5,e7 averemo reg.2, 3 habebitis LATINO Ero Habebo habebimus
avera S. i reg 6, 7 averete reg. 2,5, 7 habebunt L'ITALIANO e
talvolta a simiglianza delle mutazioni occorse nel presente si tolse anche
l'V,esen'ebbe Aremo arai arete arà E stabilita una volta la cadenza de'futuri
ne’primi verbiessereed avere inserò, sarò, arò per continuadiscendenza
dallatino;qualmeravi. glia che siestendesseposcia ai futuri di ogni verbo, esi
dicesse amar),amerò,temerò&c. 32. Può nondimeno assegnarsi altra origine
dei nostri futuri, sem-" plice al paro che universale. Nel nascere della
lingua si scrisse raggioper amarò,faraggio per farò come leggonel B.Jacop. lib.2c.15,
elio faraggio questa convenenza: edice raggio per dirò come lostesso autore
scriye lib. 2.c. 25 or m 'udite in cortesia Però crudele, villano, e nemico
Sarabbo, amor,sempre ver te se vale &c. In alcuni villaggi d'intorno a Roma
si ode anch'oggi la desinenza in ajo, come farajo, amerajo et c. A ben
riflettervi tali voci non senoncheamar-aggio, dicer-aggio,far-aggio
&c:vuoldire aggioa fare,aggio a dire,aggio adamare:formole intutto del
futuro:per chè colui,il quale ha afare, non ha fatto, nè fa, ma riserbasia
fare: cioè dichiara l'azione sua come futura. E perché in luogo di aggio si
disse ancora ajo; quindi è che si hanno pur le cadenze amerajo, farajo&c.Ma
siccome in progresso abbo, aggio, ajo degenerarono nelle più semplici ho, hai,
ha, avemo, ayete, e per sincope aemo, aele, han no;cosìda ultimosifeceaver-ho, aver-hai,aver-ha,
enelpluraleaver emo, averele, lasciato l'a del dittongo in aemo, ed aete, e
finalmente aver-hanno:ed eposto l'hozioso nel mezzo di tali composizioni,sieb
be aver-o,aver-ai&c.Ma perchèho, ha,come monosillabe han suono tutto
raccolto in esse,e grave come per accento; quindi è che poco a poco simise ancorl'accentonelleprimee
terzesingolari,dicendo si averò, averà et c. Pari è la origine di serò, serai,
serà et c.voci del futuro del verbo sostantivo, quali usarono da principio per
sarò, sarai, sarà et c. Risultavano dall'infinito essere,troncatene le due
prime let tereES,come insono, sei &c, tanto che se ne avessesere,equindi
aranno, come si scorge ne'libri degli Antichi: Così Lell. 5 tra quelle del B.
GIOVANNI delle Celle: solo tanto l'arò a immutare, e nella letter. XI a Guido,
arai Dio teco, e più sotto, dove arai a stare in eterno, e lett. 13, che mai
non arannofine. FR. JACOP. lib. 2. cant. 3 pianto harete é dolore: tali yoci si
hanno pure ne' GRADI di S. Girolamo nell'Eneida di Annibal Ca'Ro, e nel
Cavalca, e comunissimamente nell'Orlando del BERNI. Diceraggiovi via via.
FraGuit. ediz.Rom.1745lett,3 lamoremioparteraggio,elett.16 folle acquisto far
mi guarderaggio: e tal volta ne'scuri principj della lingua s'incontra la
desinenzain abbo,farabbo,amerabbo et c.per il futuro. GUITTON. d'Arez.Son. ame
23 Ard sono ser-ho, ser-lai, ser-ha, ser-emo, ser-ete, ser-hanno:e
finalmente sarò, sa rai,sarà&c.Siapplichi lateoria dichiarata ancheagli altriverbi,
ed avremo amar-ò,amar-ai,amar-à,amar-emo,amar-ele,amai-anno, comesidisse
originalmente: le Letteredi $.Caterina di Siena ediz. di Aldo son piene di questa
desinenza,ed ilVarchi,egregio maestro di lingua, ne fa uso ben grande nelle
opere sue.Ora l'A precedente l'R fina. lesicambia inE,non sapreiperqual
vezzoirragionevole(vediama re nel futuro del prospetto:) e siè prodotto
amer-ò,amer-ai,amer-à, amer-emo &c. Dicasi cid proporzionatamente di
temerò,temer-ai,sentir-ò,sentir-ai et c. 33. Si noti, che la terza singolare
del presente di avere era have, hae, ha. Spesso inluogodiadoperarehanelcomporre
ilfuturo,fu adoperata la voce hae,con dire aver-lae, aver-ae, amer-hae, amer
-ae, far-hae,far-ae. Questadesinenzaè frequentissimain alcuniantichi Scrittori.
I nostri Grammatici han creduto che l'Ediaverae,farae &c. fosse un
aggiunta, per genio della lingua, che non soffriva di termi nareinaccento:ma
essa non èchelaE dihave,hae; etantoèlun gichefosseun'aggiunta,che
anzidicendosiora averà,amerà,non già si è cessato di aggiungerla,ma si è tolta
propriamente laE spet tante all'have,hae.Siapplichi quanto ho detto alla
desinenzaameroe per amerò lemeroe,per temerò et c. E'difficile trovar parola
italiana terminata in anno,la quale si scorci,eccetto le terze persone hanno, danno,
fanno, stanno,vanno, formate tutte a simiglianza di hanno. Quindi le terze
plurali avran no, ameranno &c.non si dovrebbero troncare;ma perchèson
esseun composto di aver-hanno,amar-hanno;cosi queste voci non han po tuto
perdere lo scorciamento particolare di hanno, e degli altri dan no, fanno et c.
foggiati a simiglianza di esso, come si vedrà nel trat tare partitamente
de'verbi.Anzi aggiungo,che hanno, fanno, slan no &c.intanto si scorciano
perchè nelle origini si diceva fano,stano, e così forse hano:voci idonee tutte
agli scorci,restando han, fan, dan:e siccome pur queste sirinvengono mozzando
hanno,fanno&c, perciò sono ricevute. Chi volesse notomizzare più
sottilmente questa materia, potrebbe trovare forse le tracce del futuro del presente
nel futuro del congiuntivo. Cosi lasciato da amavero, celavero &c. ilve per
simiglianza di quan to si pratico nel fissare la derivazione dei preteriti, si
avrebbe ed accentandoli celaro 24 54. Riguardando a tal seconda
spiegazione,i nostri futuri non sa rebbero quei de'Latini trasmutati:ma solo
deriverebbero quanto ne derivano gl'infiniti de'verbi,ed il presente del verbo
ave re, che ne sono gli elementi componenti. dal latino da Ama(ve)ro cela(ve)ro
amaro et c. 55. Quanto agl'imperativi ognun vede che l'amato, il timelo, il
legito, el'auditode'Latini,altrononèche l'amatu,temitu,leggi Amaro
lu,odi lu degl'Italiani. Le altre voci italiane sono pur le latine tra
dotte:ma perchè questesono lestessedei presenti,partedelcongiuntivo, eparte
dell'indicativo,overo del futuro dell'indicativo; cosìnon bi sogna se non
investigare come que'tempi si diramino dal latino,cioc chè si è fatto, e si
farà tuttavia. 36. Eccomi pertanto ad esaminare il congiuntivo de'Latini,dal
quale hanno origine tutte le voci del nostro ottativo e congiuntivo. Ames Amet
Amemus Ametis Ament Nelle voci amemus, ametis l’E si volge in IA, perchè nel
tradurle si riguardanotalivocicomedipendenti dalla seconda singolare conlagiun
t a d i a m o o diate, ami amo, ami -a l e. Del resto sebbene l ’ E finale
avanti la S dovea mutarsi in I; e la E di amem o di amet dovea secondo leregole
conservarsi; pure ne'principj non erano questi limiti abbastanza riconosciuti:
e diceasi promiscuamente io ame,tu ame, que gliame:desinenza era questa
originale, perchè meno distante dalla latina, taciutene le consonanti in fine,
e resta tuttavia tra’ Poeti, spe cialmente per la rima: nondimeno si crede che
questa sia termina zione di licenza, e non primitiva e spontanea. Tale è
ilprogresso delle cose,c h e dimentichiamo gli usi più naturali, sostituendone
altri men proprj,che poscia il tempo caratterizza come legittimi!Vedi amare
num. 14. Nelle altre conjugazioni, lasciate o mutate le consonanti finali se
condo le regole S. 1, e lasciato l'E, o l'I precedente l’A finale, S. I
reg.4,risulta dal LATINO Timeas Timeat Timeamus Timeatis Timeant Tema Temi, e
poi tema Tema Temiamo Temiate Creda d 25 1 Timeam ITALIANO Ame,ed ora ami
L'ITALIANO LATINO Amem Credam Temano Credi, e poi creda Creda Crediamo Crediate
Credano Credas Credat Credamus Credatis Credant Ami Reg. 4 e 2 Ame,ed ora ami
Amiamo Amiate Amino. E ne verbi ausiliari. Nel qual mutamento
l'EdiHabeam et c.èdivenuta per eccezione o dolcez. za un I, ed ilB siè
raddoppiato, osservate ancora le regole generali. Quanto alsim, sis, sit, simus,
sitis, sint, siccome il verbo essereè di seconda conjugazione, e tutte le
seconde conjugazioni anno il presente del congiuntivo terminato in A nel
singolare, almeno nella prima e terza persona; quindiè che si fece iosia, tusia,o
sii,quegli sia, noi siamo, siate, siano. 37. Ma perchè nelle origini della
lingua non era ben decisa la terminazione, con cui chiudere levocidel presente
nel congiunti vo, si tento talvolta, o si dubito modificarle in tutte le
conjugazioni, come nella prima. E siccome la prima era terminata in io ame
ovvero 38. Così pure essendosi terminata la prima conjugazione in I nel
presente del congiuntivo,siterminarono talvoltain Ipurlevoci delle altre: e si
trova abbi per abbia, giunghi per giunga, vadi per vada &c,in terzapersona:
Lett.S. Cat.pag.31. Deh!nonsirendi più il cuor nostro ambiguo,cieco, e
negligente.E quindi è che tra'Cin quecentisti generalmente le terze plurali
abbiano,temano,leggano fu Abbia Habeam 26 tu ame Ilabeas Habeat Habeamus
Habeatis Habeant Abbi ed abbia Abbia Abbiamo Abbiate Abbiano io ami quegli ame
quindi èche si quegli ami; trovano anche i verbi di altreconjugazioni figurati.
Così AB. Isac. Collaz. cap.2. cosi con scrive,abbie preziosa operazione: e cap.
12 abbie paura della superbia, ed ALBERTANO Giudice l'uno de Scrittori più
antichi assegnato all' anno 1260 in circa, scrive vece diabbia al principio del
cap. in 6 tu abbie: e si dice abbie cari tade e fa ciò che tu vuoi, e cap.9 dci
render lo beneficio all'amico con usura se puoi:e se no; abbie spesso lo
beneficio a te dato memoria: e cosi nel cap. 3 usa in pieper diche per dichi,
enel 5 in finesap sappi: e nel cap. 9 sie per sia. Sie largo di dar mangiare
Tuoi conti ecari amici,e nel alli cap• 38 de'tuoi beni e dello stato che Dio
l'ha dato ţi stie contento.Tali formole parrebbono a chi non guarda alle
origini, tutte licenziose, laddove ri naturali,quando erano modi primitivi e la
lingua pendeva ancora indecisa circa la desinen za.Ora eccettosie efie,le quali
pur vogliono gran parsimonia piùnon siuserebbono talivoci. Vediesserenot.17,
avverto che tali voci abbie Del resto io non all'imperativo,sie&c.spettano
al congiuntivo come. tu amirono abbino, temino, leggh i n o et c ., che poi
l'uso ragionevolmente 27 ha ri pudiate, perchè rimanesse un divario tra le
cadenze, onde riconoscer ne le conjugazioni. ec.1491. Are ( avrebbe) quelcolpo
gillatigiù mille. E qual sare'colei che nol facessi? In questo esempio il primo
sare sta per sarei, e l'altro per sarebbe. Eguali manieresiscontranoancora,ma
più rare assai,nell'Orlanda del BERNI:così nel c.5.16 39. Quanto all'imperfetto amarem,amares,amaret;
taciutene le consonanti finali risultava amare, voce non distinta
dall'infinito: si aggiunse per cið un I finale, e si fece amerei:e siccome il
per fetto dell'indicativo termina in I, dicendosi amai, temei, sentii, e da
questa si ebbe per seconda persona amasti, temesli, sentisti; cosi fu con
progresso consimile terminata la seconda di questo tempo, dicen dosiameresti, temeresti,
sentirestiaggiunto un TI ad amares,timeres, sentires,il quale in origine non
era che un lu, e perciò trovasi tal volta ameres-tu, vederes-tu per amaresti,
vederesti &c.Cosi PASSAVAN ti nel suoSpecchio di Penitenza pag.107. Avrestuoffeso
intaleolal cosa?&c.Laterzaamaret,gittatoilT,divenneamare nuovamente, e per
distinguerla si fece amerie,ovvero ameria per essere ne' prin cipii non ben
precisa la vocale distintiva da aggiungersi. Quindi in FRA Jacop.lib.4
cantic.30 silegge fariemiconsumare,permifaria consumare;e nellib.5can.27 si ha
vorrielo perlo vorria,eDan.Par. 29: 49 usa giungeriesi per sigiungeria. Nel
Morgante del Pulci s’in contra un uso speciale, ma certo molto analogo a
dimostrare la ori gine di questa persona.Egli più volte in vece di modificare
diver samente la voce, o desinenza amare, aggiunge un apostrofe,e scrive
amere',sare',potre'perameria,saria,potria.Vedi c.12,13,c.13, 13 e 38. E son qui
per provarquelchel'hodetto. 'Amaremus diede ameremo mutatol'us in mo secondo le
regole generali: ma perchè ameremo è pur del futuro, si aggiunse un'M,
facendosiameremmo:amaretisdiedeamereste,come da amarespro viene ameresti; o
come da amasti proviene amaste. amerieno da amerie; ovvero mutato il T di
amarent in secondo le regole,siccomerisultaamereno;cosi
coll'inserirviun'I,sen'ebbe amerieno. Amerie, ovvero ameria, ecostamerienosonodunque
desi nenze originali:e questa è laragione, per cui ne' Prosatori antichi, come
ne'Poeti, si trova tante volte la cadenza inieno,amarieno,te merieno,farieno:
la quale ora è mutata in iano, ameriano, temeria AO et c.da ameria, cemeria,
che prevalse sopra di amerie, temerie E disse sare'io, ch'era pursaggia, Che a
cosi degno amante non piacessi, Purchè mai tempo e luogo accaggia; Ancormi dare
il cord'uscirne nello, ipo d2 chissimo usate fin da principio.I
Poeti,sovrani conoscitoridella dol cezza degl'idiomi, ritengono tuttora,
usandola amplissimamente,la terminazione in ia ed iano. I Prosatori l'hanno
quasi dismessa: nè io credo che ciò seguisse con piena ragione: giacchè si
allontanarono davoci, le quali presentano laoriginelorodallalingualatina che ne
era lamadre:e potevano variare con ogni dolcezza il discorso. Inluogo di
ameria,ameriano sottentraronole altre amerebbe,ame rebbero, ovvero amerebbono.
Queste voci a somiglianza di quelle del futuro sono composte ancor esse, ma dall'infinito
e dalle terze del perfetto diavere, amar-ebbe, amar-ebbero,ovvero
amar-ebbono.Può no tarsilamarciaincostantedegli uomini:mentre sonostatiesclusi
tantiB dagl'imperfetti, e dai futuri,qui ne sono stati riprodotti con usura: la
desinenza è divenuta più lunga, e talvolta quasi indistinta, essen dovi alcune
terze. Resta a dire qualche cosa intorno la desinenza amassi, temes
si&c.laqualeesprimeilpresentedell'ottativo,e l'imperfetto del congiuntivo.
E 'manisesto che questo tempo è tratto dalle voci sincopizzate del più ch perfetto de’ latini nel CONGIUNTIVO, tolto n
e il v i come nel perfetto dell'indicativo, e serbate leregole generiche delle
vocali finali, lasciato l'M, e mutata l'E in I et c. Amassi Amasse Amassimo
Amaste Amasseno. del perfetto, che
somigliano, come crebbe, increbbe, bebbe, ecc. E poco vedo cosa abbia a fare ebbe
e debbero, vocidel perfetto, convocidel soggiuntivo, lequalihannodell'imperfet
persone to, cioè che resta da fare. Possono osservarsi al verbo amare, dove
trattasi della desinenza in ia, ed iano, altre incongruenze. Ma l’uso ha già
prevaluto, e chi parla dee parlare conl'uso. Tale appunto sorse la terza
plurale: ed ancora n e restano degli esempj Fra Guit. let.I pag.8 se'reiabitasseno,elett.2ev'entrassenoalcore.
PETRAR. son. 154 che andassen sempre lei sola cantando&c.Ma posteriormente
di “amasseno” si fa “amassono”, ed ora dicesi “amassero’ co munissimamente. Si
noti che la seconda plurale amaste involge una mancanza di lingua: perchè non
più vi resta il ssi o sse, caratteristi co di questo tempo, e perché amaste è
voce plurale ancora nel perfetto dell'INDICATIVO. Ed è certo un difetto con una
voce stessa esprimere tempi, emodi tanto differenti. Forse è natodaciòchetalvolta
s'in contra voi avessi per voi aveste, come in Antonio Pucci Centiloquio
cant.69 terz.58. Se voi in qua non m'avessi menato. Anzi ho notato che
MACCHIAVELLI tanto conoscitore della sua lin Amassi nel suo 28 Ama (vi)ssem Ama
(vi)sses Ama (vi)sset Ama (vi)ssemus Ama (vi)ssetis Ama (vi)ssent
Ma primach'iosentissetalruina&c. FRA JACOP.lib.6 c. 18. 28. 42. E
siccome questo tempo nell'italiano esprime il presente dell'OTTATIVO, e
l'imperfetto del congiuntivo, i quali non E cosìnella Gerus.: "Quel
partissi addita azione già fatta. 29 gua, spesso in tal tempo usa la
seconda singolare per la plurale con premettervi il pronome.Cosi nell'Arle
della guerra ediz. Cosmopoli Far este voi differenza di qual arte voi li scegliessi,
e pag.63 iodcsiderereichevoivenissiaqualcheesempio,pag.233.so lovorrei che
voimi solvessiquesti dubbj,e 236 vorrei chemi dices si&c.Un tale scriveresidirebbeartifiziosoonegli
gente?Glieru diti decideranno se forse era meno male così scrivere. Certo se
replichiamo nel singolare io amassi, tu amassi,perchè non farlo nel plurale?
Amassetesarebbestata,parmi,lavoce idoneae conseguente:ma sealtri la dicesse ora,
sarebbe uno sgraziato, un imperito. Tanta è la prepon deranza degl’abusi, resi
venerandi per vecchiezza. L'origine di questo tempo è similissima in tutti gli
altri verbi.Così da timuissem è temessi, da legissem è leggessi, da audivissem
udissi, &c.e nezliausiliaridafuissemfossi,dahabuissem avessi,mu tato al
solito il B in V, e ľ U I in É come in “timuissem”, timui ecc. e tutti
soggiacciono all'inconveniente anzidetto.Del resto ne'principj della lingua
pendette incerto alcun poco se avesse a farsi amassio amasse di amassem, e così
sentissi o sentisse di sensissem. Quindi Fazio nel Dittam. lib. 1 loro
discordano, ma PROVIENE DAL LATINO, che era un più che passato. Così le di lui
voci medesime scorrono a significare cose passate non senza un pocodi
confusione:ma egliè male di origine, esivuol condonare:peress.SEGNERI
Predic.358.10Visovviend'altroreo,che mai tollerasse una o più tragica o più tirannica
forma di tribunale? E'chiaro che quel collerasse esprime cosa passata:tale è
pur quello nelle Vit. De'SS.PP. tom.1pag.83.E allora conosceretechefuil meglio
per m e ch' io m i partissi molto fra D'amarli e di servir, quant'io potesse.
BARBER ch'io gli mandasse a quello. Giosafat ed io non sarei savio se io tale
cosa manifestasse. Novell. ANTIC.37 s'iovolesse dire una mia novella&c.Nel
primo tom.delle Delizie degli Erudili Toscani pag. CL.sinotanoaltriesempj disi
mili desinenze. E se piaciuto pur fosse là sopra ch'iovi morissi, il meritai
coll'opra. Quanto agli altri tempi amaverim, amavero et c. sono decom posti
negl'italiani,che io abbia amato, o io avrò amato et c. Sicchè non vi resta
presso a poco da osservare, se non quanto si disse in torno di habueram, fueram
ecc DIPENDENZA delle conjugazioni italiane dall'infinito, e loro somiglianza
generalissima. Conjugare i verbi italiani non èchevariarediversamentel'in
finito,secondoimodi,itempi,lepersone,inumeri,come altrove si è detto. Or
volendo conoscere queste variazioni e somiglianza loro generale, si avverta. Ogni
infinito termina in “-RE”: “amare”, “lemere”, “credere”, “sentire”; e quasi
tutte le variazioni succedono appunto in questo RE finale:solamente talvolta
subisce de cambiamenti anche la vocale precedenteilRE.Cos)per avere I participj
presenti, il “-RE” si muta in “-NTE” nelle prime e seconde conjugazioni: “amante”,
“credente” &c.E nelle terze tutto l'IRE, per ess. di sent-ire si muta in
ente, sentente; ovveroilREsimuta inENTE;obedi-re,obedi-ente.Per avereil par
ticipio passato,aparlar generalmente, basta nella prima e terza con jugazione mutare
il “-RE” in “-TO”: “ama-re” > “ama-to”,senti-re,senti-lo.nelle
altreconjugazionisicambiatuttol'EREinUTO lem-ere,tem-ulo, cred-ere, cred-uto.
2. Quanto ai tempi per avere il presente singolare si lascia il RE
dell'infinito, e lavocale precedente il “-RE” simuta in “-O” per le prime persone,
e dove bisogna in Iperleseconde;ma perle ter ze persone, tolto ilRE, I'lsicambiainE
nelleterzeconiugazioni: nelle altre non bisogna variazione ulteriore. Ama-re
teme-re Crede-re a m a teme crede senti ne’plurali il “-RE” dell'infinito si muta
in “-MO”, “-TE”, e “-NO”, per le prime seconde,e terze persone. Ama-mo Teme-mo
Crede-mo ama-te teme-te crede-te senti-te a m a -n o teme-no crede-no
Senti-mo 30 E cosi trovansi presso gli Antichi terminate le prime e terze
plurali. E per dare qui un qual ch'esempio su le terze plurali, CASTIGLIONE nel
suo perfetto cortigiano usa commoveno, rivesteno, discerneno, occorreno,
cadeno, moveno, serveno, ed altre moltissime. Nell’archisihagiaceno,
soggiaceno,ed altre. Ma ora l'uso porta che anche le vocali precedenti il “-RE”
hanno subito de'cambiamenti, dicendosi tutte le prime persone amiamo, temiamo, crediamo,
sentiamo:enelleultimedue conjugazioni terminandosi le terze persone plurali in
ono, temono, cre sente -n o 1 S. III. 1. amo temo credo sento ami temi credi
Senti-re sente. Quanto ai verbi della terza conjugazione, ne’’ qualivi è la
doppia cadenzacome abborroeabborrisco (vediquestoverboinfine della prima parte
) sappiasi che la cadenza in isco esce di regola nei pre senti dell'indicativo,
imperativo,e congiuntivo. Tutto il divario è che in questi presenti le persone,
prima, seconda, e terza singolare, si formano come prima secondo le regole, e
che poi alla vocale fi nale si antepone la sillaba ISC in ognuna di queste solamente,
on de si abbia: la terza plurale si trae dalla prima così mutata, aggiuntole il
“-N O”, segno della pluralità ne'verbi. “Abborrisco-no.” Ossia all'infinito
abborri re, tolto il R E si congiunge sco, sci, sce, scono, abborri-sco, abbor
ri-sci, abborri-sce,abborri-scono. 4. Il Re dell'infinito si muta in VA VI VA
pel singolare a m a -re teme-re crede-re senti-re ama-va teme-va crede-va
sentiva Ne plurali alla prima, o terza di ciascun singolare si aggiungono le
distintive dette di sopra MO,TE,NO. amaya-mo temeva-mo sentiva-mo amava -te
temeva-te credeva-te credeva-no sentiva.no Perfetti dell'indicativo per la terza
persona l'ultimo “A” di “amasi” muta in “-O” accentato. Nelle altre
conjugazioni si accentuano la E o l'I; masiaggiunge MMO 31 dono,sentono
&c, come se aggiungasi ilNO alle prime persone, temo, temono,credo,credono,sento,sentono,laddove
essendole terze plurali un multiplo di terza e non di prima persona singolare, non
dove asiaggiungere il NO, segnodipluralità,senonallaterza sin golare, come
dicesi ama, amano, e non amono. amava-no temeya -no STE 1) sentiva -te ama-vi
ama -va t e m e -vi teme-ya “senti-va” credevi sentivi Imperfetti
dell'Indicativo 2 ) personeplurali, RONO 3 crede-va credeva -m o abborr (isco
abborr(isc)i abborr(isc)e 5.ToltoilRe
dell'infinitosiaggiungeIperlaprima,eSTIper laseconda persona: per le
senti-sti senti ama-mmo teme-mmo crede-mmo senti. mmo amo teme crede
ama-ste teme.ste crede-ste a m a -rono teme-rono 6.Ma nelle seconde
conjugazioni,come in temere e credere, ol tre la legge universale,il RE
dell'infinito spesso si muta per le pri m e in singolari in T T I; per le terze
singolari in T T E, e per le terze plurali in TTERO ovvero in TTONO dicendosi
Temei temetti Credei credetti Temė Futuri dell'Indicativo 7. Il solo E finale
dell'infinito si muta, o cresce in O accentato 1 ) A I nelle amar-o temer-6
sentire amar-ete creder-emo sentir-emo Presenti dell'Ottativo IIRE si muta in “senti-ste”
crede-rono senti-rono creder-o 33 ama-re tem e re cred e -r e ama-sti
teme-sti crede-sti amar-emo temer-emo temer-ete creder -ete sentir-ete
amar-anno temer-anno I SSI SSI SSIMO SSE. STE SSERO SSONO sentir-à senti i
amar-ai temer-ai creder-ai sentir-ó amar-a temer-à creder-à sentir-ai ama-i
teme-i crede-i amar-e temer-e creder-e Credé Temerono temettero temettono
Crederono credettero credettono 2 ) del singolare A accentato 3 EMO ETE nelle2)
delplur. ANNO 3) temette credette Si noti che ora si volge in E anche l'ultimo
A di amare, almeno dagli Scrittori, non senza equivoco EQUIVOCO GRICE. Vedi
amare nel prospetto not. 9. crederanno sentiranno sentire ama-re teme-re
crede-re a m a -sse teme-sse crede-sse crede-ssimo ama-ste teme-ste senti-ssi
serti-ssimocic. BBERO solamente nella prima conjugazione si è preso il COSTUME
– forse NON RAGIONEVOLE – di cambiare 1A precedenteilRE dell'infinitoinE.
sentire sentire-i credere-sti credere -bbe credere-mmo sentire-mmo credere-ste
sentire -ste credere-bbero sentire-bbero credere-bbono sentire-bbono Si noti
che le aggiunte che qui si fanno per le due prime per sone singolari eplurali
sonole stesse dei perfettie che quelle che si fanno per le terze sono, direi,
le terze del perfetto di avere, ebbe, ebbero,ciocchè facilita di molto la
formazione di questo tempo, presente del congiuntivo AMO ATE credere credere -i
sentire-sti sentire-bbe ama-ssi a m a -ssi teme-ssi teme-ssi crede-ssi
crede-ssi senti-re senti-ssi ama-ssimo teme-ssimo Amare Io ami Imperfetto
dell'Ottativo Conjugazione 1." Si toglie il RE dell'infinito, e la vocale precedente
il “-RE” si muta in I, e nel plurale si aggiunge 3 1 sentisse credeste, amassero
amassono temessero temessono credessero credessono 33 I alla 1) S T I 2 ) del
singolare BBE 3) MMO I) STE 2)delplurale amare amere-i amere-sti amere-bbe
amere-m m o “amere-ste” amere-bbero amere -bbono 9. L'infinito resta immutabile
e si aggiungono Tu ami Colui ami Ami-amo Ami-ate Ami-no temere temere -i
temere-sti temere -bbe temere-m m o temere-ste temere -bbero temerebbono NO 2
person. La vocale precedente il -re
dell'infinito si muta in “a” in tutto il singolare, e nella terza plurale. Il
resto è come nella prima :anzilla seconda singolare può terminare come nella prima
conjugazione; i che sarà considerato ne verbi rispettivi. Credere Creda Creda o
Credi Creda Crediamo Crediate Credano. Queste sono le variazioni. Gl’altri
tempi composti risultano da alcuno de' tempi già esposti, presi da'verbi essere
ed avere, e dal participio passato del verbo particolare, il quale si usa; e
però non occorrono nuovi cambiamenti nell'infinito. Quindi si dovranno cercare
nel prospetto. Intanto si potranno raccogliere alcune regole, e sono: Tutte le
prime persone singolari dell'indicativo eccetto il perfetto e l'imperfetto
finiscono in 0. Tutte le seconde in I in ogni tempo. Tutte le prime plurali in
ogni tempo e modo in “-mo”, e le seconde in “-te”, e le terzein “-no” o “-ro” in
alcuni tempi. Ma in tutte le prime plurali dei presenti di ogni modo, degl'imperfetti,
e futuri dell'indicativola Mè semplice: amiamo, amassimo, amavamo, ameremo, temiamo,
temessimo, temevamo, temeremo, &c. Ma ne'perfetti dell'indicativo e
negl'imperfetti dell'ottativo la “m” è doppia: “amammo”, ameremmo, temeremmo, crederemmo,
&c., e cosi le seconde plurali in que stid u e tempi ed anche nel presente
dell'ottativo anno la “s” avanti ilTe finale dicendo siamásle amereste &c.!,le
altre anno il semplice “-te.” Parimente, questi tre tempi possono finire in “-no”
ed in “-ro” nelle terze plurali: amaro, amarono, amerebbero amerebbono, amas, amaranno,
amarino. Gli. BIBLIOTECALVCCHESI -PALLIBIBLIOTECA LUCCHESI • PALLI III. SALA
Scaffale. Pluteo. N. CATENA. h Digitized by Google Digitized by Gopgle COLLANA
DEGLI ANTICHI STORICI GRECI VOLGARIZZATI. Digitized by Google Digitized by
Google Dìgitized by Google Digit zec! ov \Vo3^ LE ANTICHITÀ ROMANE I DI DIONIGI
D’ALIGARNASSO VOLGARIZZATE DALL’ AB. MARCO MASTROFINI già’ frofessore di
matematica e di filosofia NEL SEMINARIO DI FRASCATI MtmOKX KOrJMMKTt USCOKTIUTÀ
COI TM3T0 BAh TKÀBVTTOBt TOMO PRIMO MILANO DALLA TIPOGRAFIA De’ FRATELLI
SONZOCMO M. Dionigi di Alessandro fu d’Alicarnasso, reggia un tempo della Caria,
della quale pur furono Eraclito il poeta ed Erodoto di gr^ca istoria padre come
Petrarca lo intitola nel terzo de' capitoli sul trionfo della Fama. E difficile
determinare V anno, non che il giorno della sua nascita. Fozio nella sua
Biblioteca (cod. ^4) dice che egli precedette Dione Cassio, ed Appiano
Alessandrino, espositori aneli essi di Storie Romane. Errico Dodwello che
meditò gravemente quelt argomento non seppe ristringersi ad altra particolarità,
se non a questa, che Dionigi debbo essere nato fra t anno (i"G e ^oo di
Roma calcolali alla maniera di V airone. DIOyiGI, toma ^ ‘, X / 2 I(. Dionigi
sentiva in sè la nobiltà del cor suo] c si mosse verso la capitale del mondo, e
venne a Roma nelt anno F^arroniano ja5, cioè finita la guerra interna di
Augusto contro di Antonio ; domd è che egli non vi giunse prima dell' anno suo
venticinquesimo. Fi si trattenne 22 anni: vi compose le opere critiche, e vi
apprese intanto diligentemente C idioma del popolo vincitore su la mira di
leggerne gli antichi monumenti nazionali, e di scriverne infine con greco stile
una stona per uso de’ Greci suoi che troppo la ignoravano. Egli riusci nell
intento, e la scrisse, e la divulgò nell anno Fcu roniano y47 sotto il nome di
Antichità Romane come l ebreo Giuseppe Jion molto dipoi, forse ad imitazione di
lui, e certo con più proprietà, pubblicò sotto il titolo di Antichità Giudaiche
la storia del popolo ebreo, la quale era insieme la storia della origine stessa
del mondo. III. Par che Dionigi delineasse la storia col disegno stesso con cui
Firgilio cantava la Eneida: vuol dire l uno e l altro spargevano fiori appiè
de’ trionfatori non senza il lusinghevole desiderio di guadagnarne la grazia :
non leggera conquista per uomini inermi, autorevoli solo per sillabe, per
parole, e per periodi ! 'Dionigi fece sapere a’ suoi che il popolo del
Campidoglio non era poi barbaro ; anzi che era pur esso greco di origine, e che
assai conosceva leggi e costumi ; e ciò perchè riuscisse il comando romano, se
non pregevole, certo men duro nella Grecia d’ Asia e di Europa, paesi che una
volta orati patria e tempio di fortezza e di libertà. Egli distese il suo
scrino in venti liLri ; ma non sopravanzano che i primi dieci e parte dell’
undecimo; tutto il resto perì per la ingiuria de' tempi. Per quanto ci racconta
Fozio che aveala letta per intero,
scorre ane la narrazione dagli Aborigeni e dalla venuta di Enea nella Italia
fino alla guerra de’ liomani con Pirro, monarca degli Epiroti ; perchè ivi
appunto comincia la storia Romana deli altro greco scriuor precedente, Polibio
da Megalopoli. Quest ordine di storie si consideri diligentemente ; perchè da
indi apparisce che Dionigi dee precedere c non seguire Polibio, come parve al
primo che dispose la Collana Greca, e come trovo fatto pur questa volta
irreparabilmente su Cantico disegno. Siccome un estero per la novità che v
incontra, può notare ì. costumi varj de' popoli meglio che il nazionale che
cresce e invecchia con essi ; così questi due Greci conversando co’ Romani
seppero distinguervi e descriver più cose che i Romani stessi non han descritto
e trasmesso con la successione de’ tempi ai tardi nipoti. Or ciò dovea tanto
più seguitarne quanto che scrivean quelli pel greco il quale non avrebbe
gustata nè intesa la loro narrazione se non esponevano minatamente le cose
notissime tra Romani. E quindi è che Polibio delincò su la milizia romana
quello che non si legge in niuno de’ romani scrittori medesimi: e Dionigi toccò
tante picciole circostanze che meglio dichiarano le ori-,gmi, il complesso, ed
il termine degli eventi: cioc Bihiiotre. cod. 8f>. ( 1 ) Ediz. romana di
Vinccoio Pojryiuli delT anno che ne ha rendalo, e ne renderà sempre, preziosissimo
quanto sopravanza delle storie di lui. V. Livio rimpelto a Dionigi è come il
compendio rimpello all' opera estesa ; tanto che il primo raccoglie in tre
libri ciocché l’altro dilata in undici. Nè io saprei dolermi su tanta
espansione quando le cose vi fossero state moltiplicale in proporzione. Ma per
dirne ciocché io ne penso, e dare intanto il paragone degli autori fin qui da
me volgarizzati che sono Sallustio, Quinto Curzio, Lucio Floro, e Dionigi ; mi
è sempre parato che in Sallustio non capano i sentimenti dentro le parole, che
in Curzio si pareggino compiutamente gli uni alle altre, che in Floro le parole
superino alquanto i sentimenti, e che in Dionigi fincdmente( siami cosi lecito
di esprimermi) le sentenze galleggino affatto tra le parole. Sallustio é come
il fior vivo, che di sé promette gran cose, ma stretto in parte ancora dalla
sua buccia : Curzio è il fior copioso, odoralo, aperto graziosamente al sole
che 10 vagheggia ; Floro è il fior vago, ma tutto spampanato con molte le f
rendette e poco t odore; e Dionigi finalmente è il fiore delle ampie e libere
frondi 11 quale sot^ di sé nasconde il picciolo guscio che ravvolgevalo, e par
sorgere pomposo e vario tra le aure che lo investono, ma troppo, se lo stringi,
è minore delle belle apparenze. Dionigi era un greco dell jfsia, e fa sentire
in sé la prolissità propria di quella vastissima parte del globo. Le parlate in
lui sono lunghissime, e per ordinario non ripetono se non ciò che presentano le
storiche narrazioni ; laddoue in,Tilo Livio sono lampi e folgori, sentenze e
risultati. V ultimo lascia a pensare, il primo li lascia senza pensieri prima
che finisca di parlare ; nelV uno senti il capitano ed il console, nell altro
lo storico d il declamatore : quegli è pieno di entusiasmo e di fuoco su gt
interessi della sua nazione, /’ altro vi si spazia sopra come il panegirista
che loda non per affetto, ma in vista di ricompense, o per moda. Forse tanta
loquacità non piacque nemmeno tra' suoi nazionali; e Dionigi voglioso di essere
letto, s’indusse a ristringere in un compendio di cinque libri quanto avea
steso in venti. Fozio nella sua Biblioteca [cod. ^4) parla eziandio di un tale
compendio ; e lo dice più utile per questo, che non contiene se non le cose
necessarie alla storia. Egli paragona Dionigi in quel nuovo scritto ad un re
che giudica e tiene intanto in mano lo scettro; e sentenzia ma con la
precisione e col tuono di chi comanda. Vr. Quanto allo stile i giudizj ne sono
difformi : vi è chi lo chiama scrittor soave, scrittore elegante ; e non vi è
dubbio che e"li abbia de' bei tratti, dei pellegrini concetti, e
gravissimi documenti. Nondimeno vi è chi dice risolutamente che Dionigi
rimpetlo a Senofonte è come il duro e licenzioso jépulejo rimpclto alle maniere
delicate e spontanee di Livio. Dionigi fa pur troppo conoscervi che egli non
era nativo deir Attica. Fra le sue formole ne occorrono alcune La prcsealc versione fu stampala in Roma
l’anno i8ia. Dopo quest’ anno il Compendio fu creduto rilrovato in Milano. Se
ne patterà nel tomo quarlo là dove sono i fiammcnli. Digitized by Google G
nuove, Ialine (T indole, o certo non abbastanza monde da solecismo ; tantoché
vi si violano le regole pròposte da esso medesimo nelle opere sue critiche per
gli storici e per gli oratori. Ad ogni modo Dionigi é come la miniera ampia di
oro, e come V archivio ricco di monumenti preziosi in mezzo di altri che sono
anzi un ingombro ; dond è che un tale scrittore, come ho toccato dianzi, sarà
caro finché saran care le storie. Ora diciamo qualche cosa delle versioni del
nostro Autore. VII. Lapo lìira^o fiorentino il primo diede una versione latina
di Dionigi. Questa fu pubblicata la prima volta in Trevigi Hanno i48o, e poi di
nuovo in Basilea nel i53a. Il Glareano ebbe cura di tal seconda edizione e la
purificò da sei mila errori coni egli dice. Boberto Stefano vedendo pubblicato
Dionigi nella lingua non sua, trasse il greco originalo dalla Biblioteca dei re
di Francia, e lo mise in luce l’anno ì5^(i. Il Gelenio divulgò colle stampe in
Basilea [ anno iS/fg una nuova versione latina de’ dieci primi libri. Silburgio
rettificò con critica squisitezza le tante lezioni non sane che ci aveano nel
greco dello Stefano, e nel latino del Gelenio, e congiunse i due testi e li
stampò V anno i586 in Francfort. In questa edizione vi é la traduzione dell’
undecimo libro fattu da Silburgio medesimo, li frammenti ricorielti delle
Legazioni già pubblicale da Fulvio Ursino, ed un libro di annotazioni in fine.
Mentre apparecchiavasi o compivasi da Silburgio questa edizione ; Emilio Porto
diede su t originale dello Stefano una nuova Dìgilized by Googlc 7 traduzione
latina delle antichità con amplissime annotazioni, imprimendo anche il libro
delle legazioni con la trina interpretazione dì Stefano, di Sitburgio e di
Porto. JSel 1704 si ebbe la vaghissima edizione fatta in Oxford la quale
comprende il testo greco di Dionigi colla versione di Porto, emendata dove nera
il bisogno, e le legazioni secondo la impressione fattane da falesie riunite a
quelle già pubblicate da Ursino. Si cominciò finalmente nel 1774 ^ ^i compiè
nel 1777 lO' edizione riputata la più corretta di Lipsia colle note varie di
Errico Stefano, di Silburgio, di Porto, di Casaubono, di Fulvio Ursino, e di
Giangiacomo Peiscke. Vili. Francesco Venturi fiorentino ci diede nel 1545 colle
stampe venete la prima versione italiana delle sole antichità di Dionigi. In
quell'epoca il testo greco non era nè stampato nè rettificato, e quindi avendo
egli lavorato su di ^un manoscritto, frequentissime sono le aberrazioni dcd
vero senso. Aggiungasi che lo stile è contorto, implicato, nè sempre regolare:
in somma risente tutte le imperfezioni del primo traduttore latino Lapo Birago
: nè questi potè sempre capire il senso del testo, ma dove ciò non potè fu
contento di volgarizzare le parole greche, appunto come significavano, una per
una. Il signor Desiderj nel continuare in Roma V anno 1 794 la edizion sua
della Collana Greca ideava, parmi, riprodurre la versione stessa del Venturi;
ed il primo periodo di questa è del V snturi in gran parte ; ma fatto accorto
che grande ne era la oscurità, e poca la naturalezza. \ .Dìgitized by Google 8
continuò a pubblicare non il resto del Venturi, ma una traduzione di
traduzione; t'uol dire, diede alla Italia un Dionigi tradotto, forse non sempre
adeguatamente, e certo non sempre con purità di stile, sopra la traduzione
francese, e non sid greco originale. Al primo leggere il Dionigi del Desiderj
mi parve ravvisarvi una fisionomia anzi francese che greca. Adunque paragonai
la versione framese del padre Francesco la Jai Gesuita con la produzione del
Desiderj a luogo a luogo, e fui convinto che era ciò veramente che io
sospettava. Questa immagine éT immagine, questa eco di eco che scolora le
fattezze, e deprime sempre più la energia dell originale, questa stampa non
greca, non francese, e forse non italiana, non dee numerarsi tra le versioni,
degna almeno di un tal nome ; tanto più che quella versione frarucese essa
stessa non lascia gustare la vena ampia, continua, maestosa del greco originale,
ma presenta la inquietudine, lo scintillamento, e come la spezi satura consueta
delle parli. IX. Che io sappia niun altro ha poi volgarizzalo tra noi Dionigi.
La mia versione è diretta su la edizione di quest' autore intrapresa in Lipsia
nel i Chi vuol ragione di ciascuna delle mie interpretazioni dee consultare il
testo greco, la versione latina, le note in piè di pagina, ed in fine de’ tomi.
Spesso a fissare i sensi ho consideralo anche la versione francese, supplitami
dalla Biblioteca del Collegio Romano nella nuova mia dolcissima dimora in quel
luogo nell’ anno 1 8 1 1, la quale mi concedè calma profondissima da compiervi
quasi per intero la traduzione che ora presento. Sarebbemi piaciuto ugualmente
di consultale la traduzione inglese di Eduard Spelman impressa in Londra t anno
1759; ma per quanto la ricercassi tra le Biblioteche, tra i libraj e tra gli
amatori di libri, non mi venne fatto di rinvenirla in Roma. Aveva io già presso
che terminato questo mio travaglio quando mi ju significalo che in Francia si
pubblica una nuova versione di Dionigi: ho il piacere che l'Italia he veda
contemporaneamente un altra sua, lavorata quasi tutta in Roma, ove lo storico
di Ali-, carnasso stendevano già t originale. Roma i8ia. 1 1 I. UANTU^QUE
alieno io ne sia, pur sono astretlo ad una prefazione, com’ usa nelle storie, e
sopra di mfe ; non già per diffondermi nelle lodi mie proprie, che so quanto,
udite, dispiacciano, o nelle accuse di altri scrittori, come fecero Teopompo ed
Anassilao gli storici, ne’ prologhi loro ; ma solo per dichiarare le cagioni
per le quali mi diedi a .quest’opera, e per dire de’ mezzi, onde io seppi
ciocché son per iscrivere. E certamente chi risolve lasciare a’ posteri
monumenti d’ ingegno, i quali, come i corpi, non vengano meno per anni, e molto
più chi scrive le istorie, nelle quali, tutti concepiamo che siavi la verità,
principio del sapere e della prudenza ; costui dee per mio sentimento,
scegliere argomenti vaghi e magnifici, come bene fruttuosi a chi legge ; e poi
dee preparare le materie opportune al subjelto con assai previdenza e lavoro.
Imperocché chi ponesi a trattare di cose vili, abominate, indegne delle cure di
una storia, sia che brami rendersi chiaro, ed acquistare comunque una fama, sia
che voglia manifestare la idoneità sua nell’ arte del dire, non sarà mai da’
posteri né invidiato per la fama sua, né per 1’ arte encomialo ; lasciando a
chi leggelo da sospettare che egli amasse nel vivere le maniere appunto che
descrisse ; per essere gli scritti la immagine de’ cuori, come da tutti si
giudica. Colui ^ poi che ottimo sceglie l’argomento; ma ne scrive
scioperatamente, e come per caso, seguendo i ronoorl del volgo, nemmen’ esso ne
ottiene lode niuna ; imperocché si spregiano, se negligenti sleno e confuse le
storie delle città famose e de’ principi. Or pensando Io per uno storico esser
questi I canoni sommi ed inviolabili, ed avendone tenuto cura gelosa ; non
volli nè trasandare il discorso su di essi, nè compartirlo altrove, che nel
proemio. II. £ che io scelsi argomento, bello, grandioso, uti-' lissimo; non
bisognano, credo, molte parole a convincerne chi non affatto Ignora la storia
comune. Imperocché se alcuno recando 41 pensiero su’ governi antichissimi delle
città e delle genti e contemplandoli, parte a parte, o nel paragone dell’ uno
coll’ altro, voglia saperne qual di esse fondasse principato più grande, o che
più splendesse per azioni belle, in guerra ed in pace; vedrà che la signoria di
Roma sorpassò di gran lunga quante prima di lei se ne additano, non solo jper
grandezza d’impero e per luce d’imprese, cui niuno mai lodò' quanto basta, ma
per la durazione ancora del tempo che abbraccia, 6no al presente. Fu pur antica
la signoria degli Assirj, e ne chiama fino ai secoli favolosi ; ma non comandò
che su picciola parte dell’Asia. Abbattè la monarchia de’ Medi quella degli
Assiri, e crebbe a potenza maggiore sì, non però molto diuturna, cadendo alla
quarta successione. I Persiani fiacca t ono il Medo, e dominarono infine quasi
per tutto nel r Asia ; ben si gettarono poi su gli Europei, ma noti molto vi
profittarono, e tennero poco più che dugent’ anqi II comando. Il Macedone,
vinti li Persiani, superò colla sua tutte le dominazioni che precederono : Don
però fiorì lungo tempo, comiuciaiido a declinare alla morte appunto di
Alessandro : imperocché smembrato da’ successori il potere in molti principi,
sostennesi la monarchia fino alla terza o quarta generazione ; ma resa debole
per sé stessa, fu distrutta finalmente dai Romani : nou tenne poi mai servi
tutti i mari e le ter re : che non vinse in Africa se non l’ Egitto, il quale
non è vasto, nè sottomise tutta l’Europa ; ma nel settentrione di questa si
estese alla Tracia, e nell’ occaso fino all’ Adriatico. III. Pertanto i più
famosi degl’ imperj che precederono, giunti, come sappiam dalla storia, a tanta
forza e grandezza, rovinarono. Con essi non sono poi da paragonare le Greche
potenze le quali nè spiegarono mai si ampia la signoria, nè lo splendore si
diuturno. Gii Ateniesi quando più poterono in mare, ne dominarono per anni
sessantotto la spiaggia, e non tutta, ma quella solamente tra l’ Eusino ed il
mar di Pamfilìa. E gli Spartani impadronitisi del Peloponneso e del resto della
Grecia stesero fino alla Macedonia le leggi; ma non prevalsero che per quarant’
anni nemmeno interi, e trovarono
ne’Tebani chi li depresse. Ma la Repubblica romana signoreggia tutta la terra,
non già la testa uri o?ici in TpmiccfTx:
cioè nemmeuo iuteri treot’aimi. Isacco Casaubono vi saslilui rinrxfxi'oyTX cioè
quaranta. Pur questa emenda fu tolta, nè so perchè : concedendosi comunemente
che gli Spartani dopo vinti gli .Ateniesi al fìuinc Egio furono gli arbitri più
che 33 anni. Ciò stando non può dirsi nel testo m-mmeno interi treni’ anni, ma
usando un numero rotondo, dovremo leggere quaranta come il Casaubono. l4
PROEMIO, deserta, ma quanta ne è 1’ abitata : signoreggia tutto il mare non
solo nai mente Oenotro diciassette
generazioni avanti che a Troja si combattesse. E questa è l’epoca nella quale
mandarono i Greci nella Italia una colonia. Oenotro poi si levò di Grecia ;
perché non pago della sua parte : giacché nati essendo a Licaone ventidue
figli; aveasi l’Ai^ cidia a dividere in altrettanti. Per tale cagione lasciando
OcDOiro il Peloponneso, passò con fiotta gié preparata il mar Ionio, e
passavalo teco Peucezio l’uno de' fratelli di lui. Navigavano con essi molti
della sua gente, po^ pelosissima, come si dice, nelle origini ; e quanti altri
de’ Greci non aveano terreno ^he loro bastasse. Peucezio pigliò sede in sul
promontorio Japigio, appunto ove prima sbarcò nella Italia, cacciando chi v’
era, e da lui furono Pcucezj chiamati quanti abitarono que’ luoghi. Oenotro
guidando seco il più dell’ esercito, venne ad altro seno più occidentale
d’Italia, Ausonio allora chiamato dagli Ausonj, che la spiaggia nc popolavano.
Ma quando i Tirreni diventarono i padroni de' mari prese il nome che tien di
presente. IV. E trovando la regione bonissima da pascolarvi o da ararvi, ma
deserta in moltissimi tratti, anzi con poco popolo ov’ era abitata j dìé la
caccia a’ barbari in tina parte della medesima, e fondò citt.ì non grandi si,
ma frequenti in sui mouli ; com’era stile antichissi> mo, di situarsi. Così
tutta la regione fu detta Oenotria, essendone amplissimo lo spazio occupalo ;
ed Oeuotr) pure si dissero gli uomini tutti a’quali comandava, mutando nome per
la terza volta ; mentre Ezei si chiamavano dominandoli Ezeo, e poi subito
Licaonj quando al governo succedè Ligaone. Menati però nella Italia da Oenotro,
Oenotrj si nominarono per un tempo : nel che Sofocle il tragico mi è testimonio
net suo TriptoIcmo : perciocché vi s’ inU'oduce la madre degli Dei che dimostra
a Triptolcmo quanto spazio debba trascorrere per seminare i semi eh’ ella dati
gli aveva. Or ella, mentovato prima l’ oriente d’Italia dal promontorio
J.ipigio 6uo allo stretto Siciliano, e poscia additata la Sicilia che sta
dirimpetto; volgasi tosto alla Italia occidentale, e numera i popoli più grandi
della spiaggia, cominciando dagli Oenotrj: ma bastino le sole cose da lei dette
ne’ jambj, percl)è dice : Questo é do tergo ; a destra siegue tutto La Oenotrìa,
il mar Tirreno, e la Liguria. Antioco di Siracusa, scrittore antichissimo,
annoverando i primi ad abitare la Italia e le parli occupale da ognuno, afferma
che gli Oenotri in questo precederono ogni altro di cui s’abbia ricordo,
dicendo: jéntioco il figliuolo di Zenofanle compilò su la Italia queste cose,
le più credibili e più manifeste ira vecchi monumenti', la terra che ora Italia
dimandasi la ebbero antkhism simamente gli Oenotri : poi discorre in qual modo
la governassero, e come Italo un tempo divenisse re loro. 35 cd Itali ue
fossero oomioati : e poi Morgili per essere a Morgite venato quel principato. E
siccome stando Sicolo per ospite presso Morgite, e tentando appropriarsene la
signoria, ne divise le genti ; conclude : cosi gli Oenotri divennero e Sicoli e
Morgiti ed Italiani. V. Ora dichiareremo quanta fosse la gente degli Oenotri
allegando per testimonio nn altro vecchissimo autore, io dico Ferecide, non
secondo a niuno degK Ateniesi che trattasse delie genealogie. Egli fa su quelli
che dominaron 1’ Arcadia questo discorso: nacque Licaoue da Pelasgo e Dejanira
e sposò Cillene, una ninfa dell Najadi dalla quale ebbe nome il monte Cillene:
poi divisando i generati da questi e quai luoghi ciascuno abitasse, fa menzione
di Oenotro, e di Peucezio dicendo : Oenotro, donde Oenolrj son detti gli
abitatori Italia ; e Peucezio onde sono i Peucezj lungo il golfo Ionio. Tali
sono le cose dette da’ vècchj poeti e mitologi sul popolarsi d’Italia, e su la
origine degli Oenotri. In forza di che, se greca veramente è la stirpe degli
Aborigeni, come disse Catone, e Sempronio e molti altri ; io penso che
provenisse da questi Oenotrj : perocché trovo e Pelasgbi e Cretesi, e quanti
altri abitaron l’ Italia, venuti in tempi di poi : nè so vedere spedizione più
antica di questa, che si recasse dalla Qrecia alle parti occidentali di Europa.
Giudico poi che gli Oenotri occupassero molti luoghi d’Italia, o deserti, o
poco popolati, e parte smembrati ancora dalle terre degli Umbri, e che
Aborigeni si chiamassero per le abitazioni, come gli antichi le amavano, prese
ne’ monti: cosi pur v’ ebbero in Atene que’ della spiaggia e dd monti. Che ie
alcuni per indole non ricevono di subito senza prove quanto si afferma su cose
antiche, nemmen subito decidano esser questi, o Liguri ovvero Umbri, o tali
altri de’ barbari : ma sospendendo finché apprendano le cose che restano,
giudichino poi da tutte qual ne sia la più verìsimile. VI. Delie città che
furono degli Aborigeni, poche ora ne sopravanzano : perocché premute la maggior
parte dalle guerre, o da altri mali che straziano, finirono in solitudini. E
secoudo che Terrenzio Varrone scrisse nelle anlichilà, ve ne erano nell’ agro
Reatino non lungi dagli Appennini ; e le meno disgiunte da Roma, ne disiavano
per lo viaggio di un giorno. Di esse io ridirò le più celebri secondo la storia
di lui. Palazio è l’ una, lontana venticinque stadj da Rieti, cittade abitata
da’ Romani fino a miei giorni, presso la strada Quinzia. Siede Trebula a
sessanta stadj pur da Rieti, su dolce collina : e da Trebula con pari
intervallo disgiungesi Vesbola dicontro a’ monti CerauBj: laddove quaranta
stadj ne è lungi Soana, città famosa con antichissimo tempio di Marte.
Discostavasi Mifula da Soana per trenta stadj, e se ne additano ancora le ror
vine, e le vestigia de’ muri. A quaranta stadj da Mifula elevavasi Orvinio,
città, quanto altra mai, chiara e grande in que’ luoghi : e segno ancora ne
sono i fondamenti delle mura di lei come le tombe di antica struttura, e li
recinti pe’ cimiterj comuni su’ monti altissimi : e là pure vedessi nella
sommità di lei 1’ antico tempio di Minerva : lungi dieci miglia da Rieti,
procedendo per la strada Giulia, là presso il monte Corito v’ era Cararbari, e
soprattutto ai Sicoli, loro conGnanti. E sa le prime pochi bravi, quasi giovani
sacri mandati da genitori in traccia de’ bisogni della vita, nscirono seguendo
un primitivo costume, che pur vedo seguito da molti de’ Barbari e de’ Greci.
Imperocché quante volte le città moltiplicavano tanto in popolo che non più
bastassero ad esse i proprj viveri ; quante volte fa terra danneggiata dalle
mutazioni del cielo rendea meno dell’usato; e quante volte altro caso non
dissimile buono o rio le necessitava a minorarsi di gente ; consacrando allora
agl’ Idd^ d’anno in anno una serie di discendeuti Digitized by Google libro I.
2g gii armavano, e li congedavano. E con fausti augurii gli accompagnavano se
giusta le patrie leggi sacrificando, rendevano grazie ai cieli per la
generazione copiosa, o per le vittorie tra Tarmi : laddove se pregavano i Numi
irati a rimovere da loro i mali che tolleravano ; li dimettevano pure
slmilmente, ma rattristandosi, e chiedendo die loro si perdonasse. E quei sen
partivano quasi non più avendo una patria, se pure altra non sen facevano che
li raccogliesse o per amicizia, o combattendo, e vincendo ; ed il Nume al quale
i congedati eran sacri parca per lo più cooperare con essi, ed alzarne sopra la
espettazione le colonie. Su tale consuetudine gli Aborigeni, floridi allora in
popolazione, e schivi, perchè noi credeano il meno de mali, di uccidete alcuno
de’ posteri, consacravano agl’ Iddii d’ anno io anno le generazioni, e via via
dimetteano gli allievi, già grandi fatti, dalla patria. Uscitine questi non
desisterono di far contro i Sicoli, e derubarli. Ma non si tosto conquistarono
alcuna delle contrade inimiche ; divenutine ornai più sicuri ancora gli altri
Aborigeni i quali bisognavano di terreno, insorsero parte a parte su’
confinanti : e fondarono alcune città, e quelle, abitate ancor di presente,
degli Antemnati, de’ Tellenesi, e de’ Ficolesi presso i monti Cornicli nominati,
e dei Tiburtini finalmente, tra’ quali evvi un luogo della città che pure a dì
nostri si chiama Siciliano. Nè furono ad altro vicino più molesti che incontro
de’ Sicoli. Sorse da tali contrasti guerra con tutte le genti ; talché mai non
fu per addietro la più grande in Italia, e v’ infierì lungo tempo. Dopo questo
alcuni de’ Pelasgbi che abitavano la regione ora detta Tessaglia costretti di
trasmigrarne, divenuei'o gli ospiti degli Aborigeni ; ed i compagni di arme,
contro de’SicoIi. Gli accolsero gli Aborigeni forse {icr la speranza, io penso,
di un utile, ma più per la comunanza di origine: perocché son pure i Pelasgbi
un greco lignaggio, antichissimo del Peloponneso : quan tunque sciaurati per
molte cose e principalmente per la vita errante, nè mai stabile in sede ninna.
E certo, come molli affermano su di essi, abitarono su le prime la città che
ora chiamasi Argo di Acaja ; traendo il nome di Pelasgbi da Pelasgo, loro
sovrano, generato da Giove e da Niobe la figlia di F oroneo, quando il Dio si
congiunse la prima volta con donna mortale, come è ndle favole. Poi nella sesta
generazione lasciato il Peloponneso, passarono nella Emonia che ora Tessa glia
si nomina ; e duci furono del passaggio Acheo e F tio, e Pelasgo, figli di
Larissa e di Nettuno. Giunti nella Emonia ne cacciarono i barbari che 1’
abitavano, e la divisero in tre regioni cognominandole da’ condot tieri, F
liotide, Acaja, e Pelasgiote. Fissi colà da cinque generazioni, lungamente vi
prosperavano, profittando pur de’ campi migliori della Tessaglia: ma intorno la
sesta generazione ne furono espulsi da Cureti, e da Lelegi che ora sono gli
Eioli ed i Locri, e da più altri che abitavano intorno del Parnasso, guidando i
nemici Dencalione il figlio di Prometeo e di Glimene nata dall’ Oceano. ' X.
Dispersi nella fuga, altri vennero io Creta, altri ottennero alcune deile
Cicladi. Alcuni abitarono la regione intorno di Olimpo e di Ossa, ora detta
Estiotidc: ed altri furon portati nella Beozia, nella Focide e nella Eiubea :
alcuni tragittandosi in Asia occuparono molte delle spiagge deli’ Ellesponto e
molte delle isole dirim> petto, e quella che ora Lesbo si chiama,
mescolatisi alla colonia che prima andavaci dalla Grecia sotto gU auspizj di
Macaro Gglio di Criaso. La maggior parte però dirigeudosi entro terra a’ loro
parenti i quali albergavano in Dodona, ed a' quali, come sacri, niuno facea
guerra, abitarono quivi alcun tempo : ma poiché si avvidero che eran di
aggravio, non bastando la terra a nutrire tutti in comune, se ne involarono,
mossi dalr oracolo che ordinava loro di navigare in verso la Italia, allora
chiamata Saturnia. E fatto apparecchio in copia di navi, passarono il mar
Jonio, procurando giungere in parti presso la Italia. Ma pel vento di
mezzogiorno, e per la imperizia de’ luoghi, portati più oltre capitarono ad una
delle bocche del Pò chiamata Spi” itelo e quivi lasciarono le navi, e la turba
meno idonea ai travagli con un presidio, per avervi una ritirata, se i disegni
non riuscivano. Or questi rimanendo in quella regione circondarono di muro il
campo dell’ esercito, cd introdussero colle navi copia di vettovaglie. E poi
che videro succedere loro le cose come voleano, fabbricarono una città coLnome
appunto dellabocca del fiume. Quindi prosperando più che tutti su le spiagge
dell’ Jonio, e prevalendo lungo tempo sulle onde, portarono quant’ altri mai,
decime vistosissime in Delfo alla Divinità, de’ beni tratti dal mare. Da ultimo
però venendo amplissima guerra su loro da’ barbari intorno, ' losciarono la
città, donde anche i barbari furono dopo nn tempo cacciati da’ Romani. Cosi
mancarono i Pela minandola da Larissa, metropoli loro nel Peloponneso. Delle
altre città ne resta pure alcuna fino a miei giorni, quantunque variati spesso
gli abitatori: ma Larissa è distrutta già (la gran tempo : nè presenta dell’
antica esistenza altro segno più manifesto che il nome, e nemmeno questo è noto
a moltissimi. Era non lontana dal foro chiamato Popilio. Finalmente possederono,
togliendoli a Sicoli, molti altri luoghi entro terra, o lungo la spiaggia.
XIII. I Sicoli ornai non più valevoli a resistere ai Pelasghi ed agli
Aborigeni, riunendo i figli e le mogli e quanto aveano di moneta in oro ed
argento, si levarono in tutto da quella terra. Ripiegatisi a’ monti verso del
mezzogiorno, e trascorsa tutta l’ Italia inferiore, siccome dovunque erano
discacciati, apparecchiarono in fine delle barche nello stretto, e notandovi il
flusso e (piando era fausto, passarono dalla Italia in su l’ isola vicina.
Allora i Sicani, Spagnuoli di origine, la pouedevano, nè da gran tempo vi erano
stati ammessi, cercando uno scampo dai Liguri; e già per essi era detta Sicania
l’isola un tempo chiamata Trinacria^ per la figura sua di triangolo. Non molti
erano in questa grand’isola gli abitatori; ma la più gran parte vedeasi ancora
deserta. Giunti i Sicoli ad essa, ne abitarono su le prime i luoghi occidentali,
e mano a mano più altri, talché l’isola ne fu detta Sicilia. Cosi la gente de’
Sicoli abbandonò la Italia ', tre generazioni, come Ellanico di Lesbo scrive,
prima delle cose trojane, correndo in Argo r anno vigesimo sesto del sacerdozio
di Alcione. Perciocché stabilisce due passaggi fatti dalla Italia nella Sicilia
il primo degli Elimei cacciati dagli Oenotri, e l’altro dopo cinque anni degli
Ausoni, che fuggivano i Japigi. Dice che re di questi fu Sicolo, donde ebbero
il nome gli uomini e 1’ isola. Filisto però di Siracusa scrisse che 1’ anno di
quella discesa fu 1’ otuntesimo innanzi la guerra trojana: e che non Sicoli,
non Ausonj, non Elimei, ma Liguri furono gli uomini trasportati dalla Italia,
conducendoli Sicolo, figliuolo di Italo, e che dalla signoria di quello furono
Sicoli nominati. Lasciavano i Liguri le patrie terre, astrettivi dagli Umbri e
da’ Pelasghi. Antioco di Siracusa non distingue il tempo del tragitto; ma
Sicoli dichiara quelli che tragittarono, premuti dagli Oenotrj e dagli Umbri,
pigliatosi nel trasmigrare Sicolo per condottiero. Tucidide scrive che Sicoli
furono i profughi, e Opici quelli che li fugavano, per altro molti anni dopo la
guerra di Troja. E queste sono le cose che affermansi da uomini riguardevoli
intorno de’ Sicoli, passati dalla Italia nella Sicilia. XIV. Impadronitisi i
Pelasghi di una regione ampia e bella, ne ebbero pur le città ; poi fondandone
altre ancor essi, crebbero presto e molto in forze, in ricchezze, ed altri beni
; non però ne goderono lungo tempo. Ma sembrando floridi troppo per ogni parte
furono sbattuti dall’ ira de’ celesti, e quali ne perirono per divine calamità,
quali pe’ barbari confinanti : e la parte più grande ne fu dispersa tra’
barbari, o nuovamente Ira’ Greci, e lungo ne sarebbe il discorso se per
Digitized by Coogle tninuto seguissi un tal fatto. Pochi ne sopravanzaronc
nella Italia per cura degli Aborigeni. Parve alle città che la origine prima di
un tale struggersi di famiglie fosse la siccità che intristiva la terra, talché
non restava frutto alcuno Gno al maturarsi negli arbori; ma innanzi tempo
cadevano 5 nè i semi che sbucciavano in germi, vegetavano Gnchè le spighe
floride si empiessero nei tempi naturali, nè bastavano i pascoli alle greggio.
Non più le fonti eran atte a toglier la sete, guaste, impicciolite o spente
dagli estivi calori. Consentivano con ciò le vicende delle bestie e delle donne
nel generare : e quale sconciavasi in aborti, e quale dava Agli, morenti nel
parto, o fatali nell’ utero ancora alle madri. Se scampavano 1 pericoli del
parto, mutili, o storpi, o manchevoli per altro disagio, non eran’ utili, onde
si allevassero. L’ altra moltitudine poi, specialmente la più vegeta era colta
da mali, e da morti frequenti più delr usato. E consultando l’ oracolo per
quale violazione di genj o di Nomi questo patissero, e per quali pratiche mai
fosse da sperare una calma in tanti orrori, udirono ciò essere perchè esauditi
ne’ loro desiderj, non aveano penduto quanto promisero ; ma dovevano ancora
agli Dei cose preziosissime. Imperocché li Pelasghi l’idotti a penuria di ogni
cosa nelle loro terre, si votarono a Giove, ad Apollo, ed ai Cabiri di santiGcare ad essi le decime di ogni
prodotto. Appagati nella preghiera presero ed offerirono agli Dei parte delle
messi e de' frutti, quasi votati si fossero per questo soltanto. Forte Castore e Polluce. E certo che erano
Dei di Sanietracia. Digilized by Google 38 DELLE Antichità’ romane Mii'silo di
Le$bo scrive ciò quasi con le parole medesime, toltone, che egli chiama Tirreni
e non Pelasghi quegli uomini, di che dirò più sotto le cause. XV. Ascoltato 1’
oracolo non sapevano interpretarlo. Fra dubbj loro un più vecchio,
raccogliendone i sensi, disse che erravano affatto, se credevano che gli Dei li
punissero a torto : volere il diritto ed il giusto, che si desse loro la
primizia di tutto : nondimeno aspettavano ancora parte della generazione degli
uomini, cosa più che tutte ad essi accettissima: se avessero questa, l’oracolo
sarebbe adempito. Parve ad altri che costui parlasse rettamente ; ad altri che
tendesse delle insidie. E proponendo un tale che s’ interrogasse il Dio se
gradiva che si facessero per lui le decime, ancora degli uomini ; inandarono i
sacri vati per questo, e rispose che si facessero. Quand’ecco sedizione fra
loro sul modo di decimarsi : e prima surse a vicenda tra’ capi della città ;
poi l’altra moltitudine prese i suoi magistrati io sospetto: nè già
sollevavansi con regola alcuna, ma come per entusiasmo e per divino furore.
Cosi molte case furono abbandonate, trasmigrandosi parte di essi, nè sostenendo
gli attenenti di essere abbandonati dai loro carissimi, e restarsene tra i più
crudi nemici. Primi questi levandosi dall’ Italia errarono per la Grecia, e
molto tra’ barbari: quindi ancor altri incorsero ne’ mali medesimi, continuandosi
ogni anno la decima. Nè i magistrati la sospendevano, ma sceglievano le
primizie de’ giovani più robusti pe’Numi, quantunque nel proposito di
soddisfare agli Dei, temessero i moti di chiusciva a sorte per vittima. Erano
ancora non pochi espulsi dagli avversar). 3^ per nimiclzia, lutto che sotto
specie di oneste cagioni. Laonde spessissime furono la partenze ; e la gente
Pelasga errò dispersa in più terre. XVI. Erano i Pelasghi, vivendo in mezzo a
genti bellicose tra cure e pericoli, divenuti assai buoni nelle armi, e più
ancora nella nautica per avere coabitato co’ Tirreni. La necessiti che ne’
stenti della vita ispira coraggio, fu loro maestra e direttrice in tutti i
cimenti. Perciò non difUcilmente dovunque ne andavano vincevano. Erano chiamati
ad un tempo Pelasghi e Tirreni dagli altri uomini si pel nome delia regione
donde par ti vano, come in memoria della origine antica. Ora io dico ciò perchè
alcuno udendoli chiamati Pelasghi e Tirreni da’ poeti e dagli storici, non
meraviglisi come abbiano ambedue le denominazioni. Tucidide in Atte di Tracia
fa menzione di loro e delle città che vi era no, abitate da uomini bilingui : e
questo è il dir suo su’ Pelasghi. Ivi sono de Calcidesi, ma i più sono Pelasghi,
cioè que’ Tirreni che abilarono un tempo Lemno ed Atene. E Sofocle nel dramma
suo dell’ Inaco fa questi versi detti dal coro : Inaco genitor, figlio de'
fonti Bel padre Oceano, assai splendendo, reggi Le terre d’ Argo e di Giunone i
colli E i Tirreni Pelasghi. Quindi il nome de’Tirreni risuonava in que’ tempi
nella Grecia : e tutta la Italia occidentale lo assunse ancora per sé,
lasciando i nomi speciali de’ suoi popoli. Occorse già pari vicenda nella
Grecia e nella regione ora detta Peloponneso: giacché dagli Achei, che eran
Tuno de popoli che v’ abitavano, fu detta Acaja tutta la Pe nisola ov’ erano
gli Arcadj, c li Jonj, ed altre nazioni non poche. XVII. L' epoca nella quale
cominciarono i Pelasghi a decadere fu quasi nella seconda generazione innanzi
la guerra di Troja, e durarono, direi, dopo ancora di questa 6nchè si ridussero
ad un gruppo di gente. E, salvo la città di Crotone, famosa nell’ Umbria, e
tale altra, se pur v’ ebbe, data loro ad abitare dagli Aborigeni, perirono
tutte le rimanenti de’ Pelasghi. Crotone serbò lungo tempo l’antica sua forma,
ora non è molto, ha mutato nome ed abitatori, e divenuta colonia romana, si
chiama Cortona. Varj poi furono c molti che occuparono le sedi abbandonate da’
Pelasghi secondo che ciascuno vi confinava ; ma le migliori e le più si
rimasero pe’ Tirreni. Quanto ai Tirreni v’ è chi li dice naturali d’ Italia e
chi forestieri. E quei che li stimano propri della regione, affermano che si
diè loro quel nome per gli edifizj sicuri, che essi i primi di quanti vi erano,
si fabbricarono : imperocché le abitazioni con muri e con tetto son tirseis
chiamate dai Tirreni come da’ Greci. Cosi pensano imposto loro quel nome per
accidente come nell’ Asia ai MosinIcI dalle mosine che sono le case di legno
abitate da essi, altissime in forma di torri. XVIII. Ma quelli che favoleggiano
che i Tiireni sono stranieri, additano un tale, detto Tirreno, che fa Ssronito altri Cotorni'n. 4 1 duce della
colonia, e dal quale ebbe nome la nazione. Dicono che originario fosse di Lidia,
chiamata già Meonia; e che da indi antichissimamente si trasmigrasse; e che
egli fosse il quinto dopo di Giove. Imperocché narrano che da Giove e dalla
terra nacque Mani, il primo a regnare in que’ luoghi : che da questo e da
Calliroe. figlia dell’ Oceano nascesse Coti ; che da Coti sposatosi con Alle,
figlia di Tulio, uomo paesano, germinassero due figli Adie ed Ati : che da Ati
e da Callitea figliuola di Coreo sorgessero Lido e Tirreno : e che Lido
rimastosi in que’ luoghi succedesse al regno paterno, e Lidia lo denominasse
dal suo nome ; ma che Tirreno fattosi duce di una colonia occupò gran parte
d’Italia, Tirreni chiamando il luogo, e quanti lo seguitarono. Erodoto però
dice che Tirreno nacque da Ati figlio di Manco, e che P andarsene de’ Meonj
nelr Italia non fu volontario. Imperciocché narra che regnando Ati si mise la
penuria tra Meonj : che gli uomini ritenuti dall’ amore della regione si
argomentarono in più modi a vincer quel male, taluni di colla parsimonia, e tal
altri con 1’ astinenza : ma che prorogandosi la sciagura, tutto il popolo
diviso in due, decise per le sorti chi dovesse di là trasmigrarsi, e chi
rimanere y e che perciò 1’ un figlio di Ati si stette, partendosi r altro : la
moltitudine che pendeva da Lido trasse colle sorti il suo meglio, e si stette ;
ma 1’ altra pigliando quanto le si dovea per le sorti in danaro, navigò verso r
occidente d’ Italia, e postasi dove erano gli Umbri, vi fondò città che
duravano ancora al suo tempo. Ben so che altri non pochi scrissero, appunto
come io scrissi, della origine de’ Tirreni ; ma che altri ne variano il
fondatore ed il tempo. Imperocché dissero alcuni che Tirreno era figlio di
Ercole e di Onfale Lidia : che venuto questo in Italia, espuke i Pelasghi dalle
loro città, non però da tutte, ma da qnelle poste di là del Tevere su le parti
boreali. Altri però ci fan vedere in Tirreno un figliuolo di Telefo venuto in
Italia dopo la rovina di Troja. Zanto lidio perito quant’ altri mai delle
storie antiche, e creduto nelle patrie non inferiore a niuno, nè mentova in
parte alcuna de’ suoi scritti un tirreno signore de’ Lidj, nè conosce passaggio
alcuno de’Meonj nella Italia, nè parla mai de’ Tirreni come di Lipia colonia,
sebbene parlasse di cose ancora bassissime. Dice che Ati generò Lido e Toribo,
che dividendosi il regno paterno si rimasero ambedue nell’ Asia, c che diedero
il nome loro a’ popoli su’ quali comandavano. Imperocché scrive: da Lido si
fecero i Lidj, e da Toriho i Toribi 5 poco d’ ambedue differisce l’ idioma, e
gii uni, come li Jonj e li Doriesi, usano a vicenda le parole degli altri :
Ellanico di Lesbo dice che i Tirreni chiamati già Pelasghi assunsero il nome
che or hanno, quando abitarono la Italia ; imperocché nel suo Foronide scrive, da Pelasgo re loro, e da Menippe
figliuola di Peneo nacque Fraslore, da questo surse Amintore, che diede
Teutamide, e da Teutamide ebbesi Nanas j regnando il quale i Pelasghi, profughi
dalla Grecia Opaieolo di Ellaaieo; ne fa
meniione Ateneo nel lib. 9.. 4^ lasciarono le navi dove il fiume Spineto esce
nel mare Ionio , ed invasero entro terra la città di Crotone; e di là movendosi
fondarono quella che Tirrenia ora si chiama. Mirsilo sponendo come Ellauico le
altre cose, dice tuttavia che i Tirreni quando erravano profughi dalla patria,
furono detti Pelasghi per certa somiglianza loro con le cicogne, pelarghi
chiamate; giacché passavano in truppa per le terre de’ Greci e de’ barbari:
aggiunge che essi alzarono il muro detto Pelargico intorno la rocca di Atene.
XX. A me però sembra che s’ ingannino quanti si persuasero che i Tirreni e i
Pelasghi non sieno che una gente ; perciocché non è meraviglia che alcuni
abbian talvolta il nome di altri, mentre in pari vicenda incorsero ancora altri
popoli greci o barbari come i Trojani ed i F rigi, perchè prossimi di regione.
Eppure molti fanno di questi due popoli Un solo, quasi distinti di nomi, non di
lignaggio. I popoli poi d’Italia, nom meno che quei d’altri luoghi, furono
confusi ne’ nomi. E v’ ebbe un tempo quando Latini, Umbri, Ausoni, e molti altri
si chiamavano Tirreni da’ Greci ; riuscendo ogni ricerca di questi men chiara
per la lontananza di que’ popoli : anzi molti degli scrittori pigliarono Roma
ancora per città de’ Tirreni. Io dunque penso che queste genti mutassero il
nome, variandosi fino il vivere : non penso però che una fosse la origine di
ambedue, per molte cagioni, e più per le voci loro non simili, Qui si estende il nome di ionio all’interno
dell’ Adriatico. Spesso gli storici antichi cosi praticarono contro 1’ uso de’
geografi che distinguono 1’ uno dall’ altro mare. ma diversissime. Imperciocché
nè li Crotoniati come scrive Erodoto, nè
li Piaciani ne’ proprj luoghi parlan la lingua dei circonvicini ; ma una ne
parlano tutta lor propria; donde è manifesto che serbano i caratteri delr
idioma che aveano quando in que’ luoghi si traslatarono. Meraviglisi poscia chi
può che li Crotonlati somiglino nell’ idioma al Piaciani, popoli ne’ lidi dell’
Ellesponto, nè somiglino intanto a’ vicini Tirreni. Erano que’ primi ambedue
Pelasghl ne’ principj loro : e se la unità di origine prendesi per causa della
uniformità nei linguaggi ; dunque la differenza di origine è pur causa del
divario di essi ; non dando un principio medesimo contrarj gli effetti.
Certamente, se avvenga, ben è ragionevole quello, cioè che uomini di una gente
medesima domiciliatisi lontani fra loro non conservino i caratteri de’ proprj
idiomi per lo conversar col vicini; ma che poi negl’idiomi non somiglino popoli
di una origine istessa, e d’ istesse contrade, ciò non è ragionevole per ninna
maniera. Seguendo tali indizj convincomi che differiscono i Pelasghi dai
Tirreni ; nè credo i Tireeni un tralcio de’ Lidj ; perocché nè parlano la
lingua medesima, nè può dirsi che se non la parlano, ritengono almeno alcuni
vestigi della teiTa materna, nè tengono per IdJj que’ che da’ Lidj si tengono ;
nè li somigliano per leggi o per abitudini, ma in ciò dai Lidj si diversificano
più, che da’ Pelasghi. Pertanto sembrano più verisimili quelli, che dicono un
tal popolo, naturale Cortoncsi. della
contrada, non venutovi altronde : pérciocchè si rinviene antico in tutto ; nè
simile ad altri nel parlare, o nel vivere : e niente ripugna che avesse un tal
nome da’Greci o per le abitazioni fortissime
o per l’uomo ancora che li dominava. Ma i Romani con altri nomi li
chiamano Etruschi dalla Etruria, regione dove un tempo abitarono : ed ora li
dicono Toschi men propriamente, avendoli come i Greci, nominali prima con più
verità Tioscovi per lo magistero nelle cerimonie del culto divino, nelle quali
sorpassano lutti, Que’ popoli inoltre distinguono sè stessi dal nome di Rasenna
r uno già de’ loro comandanti. Sarà poi dichiarato in altro libro quali città
fossero abitate dai Tirreni e con / quali forme di governo, quanta fosse di
tutti insieme la potenza, e quali, se pur degne ne ebbero di ricordanza, le
azioni ne fossero, e le vicende. 1 Pelasghi che non perirono, nè si disgiunsero
per fare colonie, si rimasero, pochi di molti, con gli Aborigeni, sotto le
leggi de’ luoghi ne’ quali si lasciavano, e ne’ quali col volger degli anui i
posteri loro fondarono Roma. E tali sono le novelle intorno de’ Pelasghi. Dopo
non molto tempo, nell’ anno, al più, sessantesimo come narrano i Romani, prima
della guerra trojana, capitò ne’ luoghi medesimi un’ altra spedizione di Greci
la quale abbandonava il Pallanteo, città delr Arcadia. Il duce erane Evandro,
figlio di Mercurio, e di una ninfa, abitatrice di Arcadia. I Greci la tengono
per ispirata da’ Numi, e la chiamano Temide ;
Tirseis delle di opa J xvii. ma Carmeiita è delta nella patria lingua
da’ romani che scrissero le antichità di Roma: perocché la ninfa avrebbesi a
dir propriamente Tespi-ode con greca parola : ma le odi chiamansi carmi da’
Romani, e quindi è Carmenta : si consente poi che tal donna presa dallo spirito
divino presagisse, cantandole, le cose avvenire ai popoli. Non venne quella
spedizione di comun sentimento; ma nata sedizione del popolo, la parte
inferiore, di voler suo si spatriò. Dominava di que’ tempi su gli Aborigeni
Fauno, un discendente come dicono di Marte, uomo di azione e di prudenza, e
riverito da’ Romani con sagrifìzj e con inni come un genio del loco. Ricevè'
costui con assai benevolenza gli Arcadi che erano pochi, e diede loro della sua
terra, quanta ne vollero ; ed essi, come Temide gli avea, vaticinando,
ammaestrati, presero un colle poco lontano dal Tevere, il quale ora è nel mezzo
di Roma, e tanto vi fabbricarono, che bastasse alle genti venute con le due
navi dalla Grecia. Era questo il principio segnato dai. destini per formare col
volger degli anni una città, non pareggiala mai da greca o barbara città per
grandezza di abitazioni, di comando, e di ogni bene, e certamente memorabile
soprattutto finché dureranno i mortali. Pallanteo chiamarono quel fabbricato
come la metropoli loro in Arcadia: ora Palagio è detto da’ Romani per la
confusione che inducono i tempi ; e ciò diede a molti la occasione di stolte
etimologie. Dicono molti, e tra questi Polibio di Megalopoli, che quel nome
viene da Pallante, un giovinetto ivi morto, nato da Ercole e da Cauna la
6glia di Evandro: perchè facendogli
questo avolo materno in quel colle un sepolcro, chiamò ' Pallanteo, quel luogo
dal giovinetto. Io nè mirai in Roma la tomba di Fallante, nè conobbi che vi si
praticassero funebri onori, nè potei conoscere nulla di slmile : quantunque la
famiglia di lui non sia dimenticata, nè priva del culto col quale i semidei
sono venerali dagli uomini. Perocché vidi che i Romani faceano gelosamente ogni
anno pubblici sacriGzj ad Evandro e a Carmenta, come agli altri genj ed eroi :
e vidi gli altari dedicali a Carmenta appiè del Campidoglio presso la porta
carmentale, e quelli dedicali ad Evandro appiè dell’ altro colle detto Aventino,
non lungi dalla porta trigemina ; nè vidi intanto cosa ninna di queste latta
inverso Fallante. Gli Arcadi i quali coabitavano appiè del colle, eressero pure
altri monumenti nelle forme della patria, e santi riti v’ istituirono ; ma per
ispirazione di Temide, innanzi lutti a Pane Liceo, Nume il più antico e più
riverito tra quelli di Arcadia, in sito idoneo, che i Romani chiamano Lupercale,
e noi diremmo Liceo. Ora empiuto essendosi di abitazioni il suolo intorno ; non
è facile rintracciarne la natura del luogo. Era questo, come dicono, appiè del
colle, una spelonca, vetusta, grande, coperta da una querce, ramosa qual bosco
: profonde bulicavano le fonti abbasso delle pietre ; e lo spazio appresso ai
dirupi era opaco per arbori, altissime e folte. Qui collocando un altare a quel
Nume compierono il patrio sagriGzio, che i Romani, non mutando cosa alcuna
delle antiche allora fatte, ripetono ancora di presente dopo il solstizio d’
inverno nel mese di febbrajo. La maniera del sagrìGzio sarà detta più innanzi.
Ergendo poi su le cime del colle un tempio alla Vittoria, stabilirono in questo
ancora annui sagriGzj che i Romani tributano ancora. Gli Arcadi favoleggiano
che questa sia figlia di Fallante generata da Licaone : e Minerva, fece, che
ricevesse da’ mortali gli onori che le si rendono ; imperocché fu essa educata
colla Dea, giacché la Dea nata appena fu consegnata da Giove a Fallante, e
presso lui fu nudrita finché ascese alle stelle. Fondaronoancora un tempio a
Cerere ed il sagrifizio, che faceano le donne ma non usate al vino, com' era la
pratica de' Greci : nel che 1’ andare del tempo non ha cagionato mutazioni,
fino a miei giorni. E Nettuno Ippio ebbe pure il suo tempio e le feste, dette
Ippocratie da’ Greci, ma ConsucUi da' Romani: e Roma in esse libera per uso dal
travaglio cavalli e muli, e ne incorona le teste di fiori. Consecraronu
similmente altri tempj, altri altari, altri simulacri, costituendo
purificazioni e sacrifici, ritenuti ancora ne’ modi medesimi. Né già sarei
meravigliato se alcune di queste cose neglette, come antiche troppo, non
avessero più ricordanza tra’ posteri : nondimeno le consuetudini presenti danno
ancora assai da congetturare su’ riti arcadici d’ allora, de’ quali diremo
altrove più pienamente. Dicesi che gli Arcadi recassero i primi nella Italia 1’
uso delle lettere greche, note ad essi da poco, e la musica della lira, della
tibia e del trigono, non sonandosi ivi altri armonici stromenti che le sampogne
de’ pastori : e dicesi che vi introducessero le leggi, vi raddolcissero le
maniere del vivere, 6ere in gran parte, e che vi diflondessero le arti, e le
istruzioni, ed altre utili cose in gran nume ro onde assai ne furono rispettati
dagli ospiti. Questa greca moltitudine, seuouda dopo i Pelasghi, giunta nella
Italia ebbe comune 1’ abitazione con gli Aborigeni in uno de’ bonissimi luoghi
di Roma. Pochi anni dopo degli Arcadi vennero nella Italia altri Greci, guidati
da Ercole il quale avea domato la Spagna, e le parti, fiu dove il sole
tramonta. Alcuni di loro, implorato da Ercole il congedo dalla milizia, si
fermarono in questi luoghi ; e trovando un colle opportuno, lontano al più tre
sladj dal Pallanteo, vi si accasarono : chiamalo alloca Saturnio, o Crònio come
i greci direbbono, ora si chiama Capitolino. Erano quei che rimasero per la più
parte del Peloponneso, io dico i F enueati, e gli Epei della EUide, disamorati
di viaggiare in verso la patria, perchè devastata nella guerra con Ercole.
Mescolavansi ad essi alcuni de’ Trojani &tti prigionieri quando Èrcole
prese già Troja, regnandovi Laomedonte. E pormi che in quei luogo si
annidassero ancora tutti di quell’esercito, quanti o stanchi dalla fatica, o
dal rigirarsi ottennero levarsi dalla milizia. Alcuni, come ho detto, stimano
antico il nome del colle ; tanto che gli Epei gli si affezionarono nommeno in
memoria del colle, Gronio chiamato nella Elide in su le terre di Pisa lungo le
rive dell’ Alfeo. Gii Elicsi riputando quel poggio loro sacro a Saturno vi si
adunano in fìssi tempi, e l’onorano con sacriGzj e con altro colto. Nondimeno
Eusseno, ed altri mitologi VIOlfJGT, tomo I. i 5o nr.Italiani pensano che i
Pisani per la simiglianza del Cromo loro dessero il nome anche all’ altro : che
gli Epei con Ercole erigessero a Saturno l’ altare che trovasi alle falde del
colle presso la via che mena dal Foro al Campidoglio : e che essi istituissero
il sagriCzio che i Romani v’ immolano ancora con greche cerimonie. Ma io,
paragonando, trovo che prima della
venuta di Ercole nella Italia quel luogo era sacro a Saturno, e Saturnio
chiamavasi da’ terrazzani : e che tutta 1’ altra regione, che ora dimandasi
Italia, era dedicata ancor essa a quel Nume, e Saturnia nominavasi dagli
abitanti, come trovasi detto nelle risposte date dalle sibille o da altri
Iddii. Eid in molti luoghi di questa sonovi de’tempj alzati a quel Nume, ed
alcune città da lui si denominano, come allora tutta la Italia: e portano
ancora il nome del Dio molti luoghi, singolarmente i monti e le rupi. Col
volger degli anni fu detta Italia per un uom potentissimo, Italo nominato.
Antioco di Siracusa lo dipinge per uomo destro e filosofo, il quale convincendo
molti popoli col dire e molti colla forza, ridusse in poter suo quanto v’ è tra
’l golfo Napitino e quello di Scilla : e
quel tratto fu il primo che Italia da Italo si dicesse. Dopo ciò scrive che
divenuto più forte, fece che molti altri gli ubbidissero; perocché mise il
cuore su’confinanti, e ne prese molte città: e scrive finalmente eh’ egli era
Qenotro di nazione. Ella(l) Cluverio in tini. Aniiq. I. IV crede die deliba
Irgf’ersi Lame/in in Tece di IVrpitino. Filoguno k di parere die Lamet città di
Lucania desse nome a questo golfo.. !) I iiko di Lesbo narra die Ercole
coiiJucevasi i bovi di Gerione alia volta di Argo, ma che essendo già nell'
Italia il tenero figlio di una vacca spiccossegli dall’ armento, e profugo vi
errò da per tutto ; finché solcalo il mare interpostp giunse nella Sicilia :
che cercando Ercole quell’ animale, e chiedendo ovunque capitava, se alcuno lo
avesse veduto de’ paesani, siccome poco intendevano il greco, e da’ segni lo
chiamavano come aneli’ oggi si chiama nella patria lingua vitello ; cosi
Vilalia chiamò tutta la regione da questo percorsa. Non è poi meraviglia che uu
tal nome si tramutasse com' è di presente ; mentre tanti greci nomi eziandio
subirono pari vicende. Ma, sia che prendesse quel nome, come dice Antioco, dal
condottiero, il che forse è più probabile, sia ebe dal vitello come pensa
Ellanico ; raccogliesi da ambedue che lo prese intorno ai tempi di Ercole, o
poco prima ; essendo chiamala iunanzi Esperia ed Ausonia dai Greci, e Saturnia
da [laesani, come di sopra fu detto. Coutasi ancora tra qne’ popoli la novella
ebe innanzi al principato di Giove ivi Saturno regnasse: e che tra loro più che
altrove si avesse quella vita sì famosa, beata per tutti i beni, quanti le
stagioni ne apportano. Ma se alcuno risecando ciocch’è di favoloso nel discorso,
vaglia Intenderne la bontà di quella gioite, dalla quale il genere umano, sorto
di recente dalla terra, come è vecchia fama, o d’ altronde, ne raccolse vantaggi
moitissiini, e giocondissimi ; non troverà [>cr tal fine suolo pili acconcio
di questo. Iiiiperocciiè se paragonisi una terra con altra di eguale granàezza,
T Italia pei mio giudizio è la migliore neU' Europa, e dovunque. Non ignoro
clie io sembrerò dir cose incredibili a molti, i quali risguardano l’Egitto, la
Libia, e Babilonia, e quante altre vi sono beate contrade: ma io non pongo la
ricchezza della terra in una specie sola di prodotti, nè invidierei di abitare
dove pingui sono le campagne, nè vi si scorge altro bene se non tenuissimo: ma
quella regione chiamo la migliore la ^ale sia bastantissima a sé Stessa, e che
meno abbisogni deir altrui. Sono poi persuaso che la Italia paragonata con
altra qualunque, appunto sia la terra datrice di ogni frutto, e di ogni utile. E
certamente, se comprende campagne felici e molte, non perchè madre è di messi,
è men propizia per gli arbori : e se vale assai per ogni genere di alberi, non
perchè tale, è poco ubertosa^ nel seminarvi: o s’ è bonissima per ambedue questi
usi, non per questo è men propria pe’ bestiami : nè perchè varia si dimostri
ne’ prodotti e ne’ pascoli è disamena poi se vi si abita. Ma direi che di ogni
agio soprabbonda e di ogni diletto. E qual terra mai frumentaria vince le terre
dette della Campania, bagnate dalle acque non de’fiumi, ma del cielo f Io vi
contemplai campagne che davano tre raccolte nudrendo dopo i semi del verno,
quelli per la state, e dopo gli estivi, gli altri in 6ne per 1' autunno. Quale
coltivazione supera in olio quella dei Messapj, de’ Daunj, de’ Sabini e di
altri? Qual mai suolo con vigne sorp rende più che il Tirreno, l’Albano e il
Falerno 7 il quale ama così le viti, che ne porge col tnen di lavoro amplissimi
frutti e bonissimi. Ma oltre le terre che si lavorano, ivi molte pur se ue
trovano, riservate per le capre e per le pecore ; ma più mirabili ancora sono
quelle da pascervi le mandre dei cavalli e de’ bovi: imperocché
soprabbondandovi l’erba palustre c dei prati, e riuscendovi fresca e rugiadosa
nelle parti che si coltivano, dan pascoli senza limite in tutta l’estate, e
mantengono in fiore gli armenti. Qual dolce spettacolo ivi sono le selve per
balze, per valli, per colli non culti, e di qnale e quanto niateriale per le
navi e per altre operazioni ì Nè già cosa alcuna di queste è dilTìcile ad
ottenerla, nè rimota dall’uso degli ^ uomic : ma tutte sono pianissime, e tutte
facili a trasmettersi per la moltitudine de’ fiumi, i quali scorrono tutta la
regione : e li quali con utile vi agevolano i trasporti e le permute dei
prodotti della terra. Vi si trovano ancora in più luoghi delie acque calde,
propriissime a’ bagni, e bonissime per le cure di mali diuturni. E metalli vi
sono d‘ ogni genere, e cacce d’animali in copia, e mari fecondissimi, come pure
altre cose moltissime ; e più utili e più meravigliose. Benissimo soprattutto
ne è 1’ aere per la dolce sua temperie secondo le stagioni, e poco opponesi con
calori o freddi eccessivi al formarsi de’ fratti, ed al vivere degli animali. Non
è dunque da meravigliarsi che gli antichi prendessero quella terra per sacra a
Crono, o Saturno; concependo che questo Dio vi fornisse, e saziasse i mortali
d’ogni bene. Ma sia che chiamisi Crono come da’ Greci, sia che Saturno come da’Romaui; Stefano r fiasaubono credono ebr qui fosse
nel testo K^ac Digilìzed by Google ìy!^ dkt.i.t; Antichità’ koma^e
•omprenJeitilo ciascuno di essi la natura tutta delle cose ; tu lo nomina come
più vuoi. Nemmeno è da meravigliarsi cbe contemplando in quella ogni abbondanza
e delizia, commoventissime cose, ne credessero ogni luogo più acconcio, degno
degli Dei, com' era de’ mortali ; e li monti e le selve si ascrivessero a Pane,
i prati e floridi luoghi alle ninfe, e le rive e le isole ai geuj marini, ed
ogni altra parte ad un genio o a un Dio, come più couvenivagli. È fama che gli
antichi immolassero a Crono umane vittime, come in Cartagine, ^ mentre esistè,
come tra’ Celti, e come in mezzo di altri occidentali ; e che Ercole volendo
precludere U barbarie di quel sacrificio, innalzasse l’ altare nel colle
Saturnio, e facesse che vittime pure vi si ardessero con puro fuoco. E perchè
que' popoli non sen corucciassero quasi spregiasse i patrj sacrifizj, è fama
die gli ammonisse a placare l’ira di quel Nume; e piuttosto che gli uomini
gettare nel Tevere legati nelle mani e ne’piedi, a gettarvi i simulacri loro,
vestiti appunto com’ essi. Egli serbava una immagine degli antichi costumi,
perchè si sterpasse alfine, quanta superstizione, ' restava ancora ne’ cuori.
Conservavano i Romani tal pratica ancor ucl mio tempo, rlnovandola poco
appresso all’equinozio di primavera nel mese di maggio nelle idi che chiamano,
le quali vogliono che ricorrano il giorno aj>punto, cbe è il ipezzo del mese
della luna. In questo il che linde > azieti, e bcDÌssiraa corrisponde alla
parola Ialina di Saturno i e perh di sopra abbiamo usala il verbo saziata.
Crono poi non h che il tempo ; cd il tempo lutto prepara, a di tallo ioruiicc
^li iiooiini col suo corso. 1 fiamapi
Inp \nraa regolavano l’anuo sul corsa delia Urna,. DD i ponteGci, vale a dire i
primi tra’ sacerdoti, come le vérgini, custodi del fuoco inestinguibile, i
pretori, e gli altri che esser possono all’ opera santa, dopo avere compiuti
secondo la legge il sagriGzio, gettano del ponte sublicio nel Tevere, trenta
simulacri in forma umana Argei nominati.
Ma de’ sagriGzj e delle altre divine cerimonie^di Roma, nazionali o greche di
maniere, diremo in altro libro ; richiedendo ora il subjetto che più
riposatamente seguitiamo Ercole nella sua venuta in Italia, nè trasandiamo cosa
da lui fattavi, degna di lode. ! XXX. E su questo Dio diconsi delle cose, quali
più vere e quali più favolose : e cosi stanno le favolose. Ercole, oltre gli
altri travagli, comandato da Eurisleo di condurgli da Eritea li bon di Gerione
in Argo, tornando dalla impresa in sua casa, venne in molte parti d’ Italia e
della terra degli Aborigeni, prossima ai Pallanteo. E trovandovi copioso e buon
pascolo, vi addusse i bovi, ed egli, quasi stanco dalle fatiche, die desi al
sonno. Intanto un ladro paesano, Caco di nome, capitò tra’ bovi, pascolanti
senza custòde, e se ne in-' vaghi. Ben conobbe che Ercole si riposava ; ma vide
che> nè puteali tutti involare occultamente, nè facile ne sarebbe la
impresa. Quindi ne ascose pochi solamente ed il principio della nuora luna era
principio insieme del nnoT mete. Di qui nasce che faceano combinare te idi di
maggia cl plenilunio o col mezzo del mese lunare. Queste figure erauo di giuoco: si chiamavano
Argei, qnsai rappreseiilasscro tanti Argivi che si slarmioavann come nemici
degli Arcadi. nell’ antro vicino, dov’ egli vivea, traendoveli via via
retrogradi per la coda, perché vedendovisi le pedate contrarie all’ ingresso,
potesse render vano ogni argomento sa di essi. Ma levatosi Ercole poco appresso,
e numerati i suoi bovi ; come vide che ne mancavano, dubitò su le prime, ove
fossero andati, e li cercò mano a a mano come erranti da’pascoli. Nè
raggiungendoli ancora ; venne alla spelonca sebbene sconsigliatovi dalle pedate,
niente meno pensando, quanto che ivi ne ritroverebbe il covile. Standone Caco
dinanzi l’entrata, e richiestone, dicendo non averle vedute, nè volere che ivi
più si cercassero ; anzi convocando clamorosamente i vicini, quasi patisse
violenza dal forestiero ; Ercole, dubbioso in prima come istrigarsela, prende
in fine a ' dirigere all’ antro ancor gli altri bovi. Ma non sì tosto quegli da
entro sentirono la nota voce e 1’ odore, lasciarono verso gli altri di fnora un
muggito, e fu quel muggito r accusatore del furto. Caco, vedutosi reo
manifestamente, ricone alla forza convocando tutti i suoi compastori. Ecco
Alcide investirlo colla clava, ed ucciderlo e sprigionarne i suoi bovi: poi
vedendo, com’era la spelonca un refugio opportuno pe’ rubatori, la dirupò.
Quindi, parificatosi con Tonde del fiume dalla strage, inalzò presso quel luogo
a Giove ritrovatore un altare, ora visibile in Roma nella porta trigemina ;
sacrificandovi un vitello al Nume onde ringraziarlo su’ bovi ricu-, perati.
Roma porge ancora quel sacrificio, tutto con greci riti, come Ercole lo
istituì. Gli Aborigeni e quegli Arcadi che abitavano il Pallanteo come seppero
della morte di Caco, c mirarono Èrcole, nemici già del primo per le rapine,
siu> pirano all’ aspetto del secondo, credendo non so che divino in lui per
la grande avventura sua nella vittoria. I poveri tra loro spiccando ramnscelli
di alloro, copioso in que’luoghi, ne coronarono Ercole e sè stessi ; ed
accorrendo i loro monarchi lo invitarono ad ospizio. Come poi dal dir suo ne
conobbero il nome, il lignaggio, e le imprese ; prolferivano a lui per
benevolenza il i-egno e sé stessi. Ed Evandro che anticamente udito avea da
Temide stessa, volere il destino che Erctde, il figlio di Giove e di Alcmena,
cambiasse per la virtù la natura mortale colla immortale, appena ravvisò chi
egli fosse, ansioso di prevenire tutti e di rendersi propizio l’eroe con gli
onori de’ Numi, alzò di repente con assai cura un alure, sacrificandogli dove
l' oracolo avea già significato, un giovenco, intatto ancora di giogo, e
supplicandolo a ricevere da lui le primizie di un culto. Meravigliatosi Ercole
delle accoglienze, tenne il popolo a convito, immolando parte de bovi, e
separando per ciò le decime delle altre prede : poi donò a quei re che assai Io
bramavano, molte delle terre de’ Liguri ^ e di altri confinanti, cacciando da
esse alquanti ribaldi. Dicesi ancora che egli fe’ la ricerca, giacché i primi
de’ paesani lo tenevano per un’ Iddio, che gli perpetuassero quegli onori,
sagrificandogli ciascun anno un giovenco non domo, e santificandone l’azione
con greche cerimonie : e dicesi che insegnasse queste a due famiglie le più
riguardevoli perchè vittime in tutto accette gli si offerissero: essere poi
quelle de’Potizj e dei Pinarj, le famiglie allora istruite del greco rito, e le
loro generaziout aver lungo tempo continuata la cam de’ sagriiìzj, come v’
erano da colui depuute : talché i Potizj erano i capi nella santa operazione,
ed aveano le primizie al bruciarsi delle vittime; laddove i Pinarj non
ammetteansi a parte delle viscere, e teneano sempre i secondi onori nelle cose
comuni ad ambedue. E cagione a questi della onorificenza minore fu la tardanza
loro nel presentarsi; giacché comandati di venire sul far del mattino, giunsero
essendo già consumate le viscere. Ora r incarico del santo ministero non è più
de’ posteri loro: ma di servi comperali dal pubblico. Dirò poi nel suo luogo le
cause per le quali il costume fu varialo, e le significazioni del Dio quando i
santi ministri si permutarono. L’ara ov’ Ercole offerì le sue decime, chiamasi
Massima da’ Romani, e trovasi presso al foro detto boario, veneratissima,
quanto altra mai, da’ paesani : imperocché su questa fa patti e giuramenti
chiunque vuole stabilità negli accordi ; e su questa si offrono spesso ancora
le decime a compimento de’ voti. Nondimeno un tale altare nelle fattezze è
minore della sua gloria. Vi ha de’ tempj di questo Nume altrove ancora in più
luoghi d’ Italia ; e gli'altari ne sono per le città e per le strade: e
diffìcilmente trovcrebbesi una popolazione che non lo adorasse. E questo ci
tramandan le favole intorno di Ercole.
Il testo ove DioDÌp spiegava tali cose è perito. Potrà vederseue ciocché
ne scrive Livio oel libro nouo. Egli dice occorsa la mutaiioDc quando Appio
Claudio esercitava le funxinni di censore. Allora in un anno perirono dei
Potizj trenta tnaschj abili a rinovaro le famiglie, a cosi la stirpe virile
corse al suo termine. Ma il più vero è quest’ altro : e molti die scrissero le
imprese di lui, cosi nella storia lo delincarono. Ercole divenuto potentissimo
in arme tra tutti dei suo tempo, e postosi con esercito numeroso scorse tutta
la terra cinta dall’ Oceano, levando, se ce ne aveano, qualunque tirannide,
grave e molesta ai sudditi, e qualunque impero di città contumelioso e nocevole
agli altri vicini colla condotta dura e colle uccisioni ingiuste degli ospiti,
e stabilendo monarchi onesti, governi savj, c costumi socievoli ed umani.
Scorse ancora tra’ Greci e tra’barbari, neirinterno de’ mari e delle terre, in
mezzo popoli infidi, intrattabili : fondò città .su luoghi deserti, diresse
fiumi che inondavano i campi, aprì vie su monti impraticabili, e mille cose
fece onde i mari tutti e le terre si comunicassero ogni vantaggio. Giunse
finalmente in Italia ma non già solo, nè con mandre di bovi ; perocché non è
questa regione in senti‘o per chi viene dalle Spagne in Argo, nè conseguito ci
avrebbe tanti onori per causa di un passaggio. Egli vi giungea dalle Spagne
conquistate, ma con esercito amplissimo per sottoporsela, e dominarvi. Se non
che fu costretto a consumarvi gran tempo, e perchè lontana era la sua fiotta,
stanti le bnrrasche ree dell’ inverno, e perchè le genti d’ Italia, non tutte
spontanee gli si abbassavano. E per non dire di altri barbari, i Liguri, popolo
numeroso e guerriero, posto ne’ passi delle Alpi, tentarono d’impedirgli colle
arme 1’ ingresso nella Italia, e là s’ ebbero i Greci battaglia fierissima,
esaurendovi tutti gli strali. Eschilo, poeta antichissimo, menziona questa
battaglia nel suo Prometeo disciolto. Ivi inducesi Prometeo (he presagisce ad
Ercole non che le altre vicende, quelle che gli sovrastavano nella spedizione
contro di Gerione, e nella guerra co’ Liguri, certamente non focile : e questi
ne sono li versi : À fronte là de" Liguri starai. Imperterrita gente :
onta e rammarco Non ti fa guerreggiarli, e per destino, Pugnanda, ti vedrai
mancar gli strali. Ma poiché, vincendo, s’ impadronì di quei passi ; alcuni,
specialmente se greci di origine, o non valevoli a resistere, sottomisero
volontai^' le loro città ; ma i più vi furono astretti con le arme e con gli
assedj. Quanto ai vinti in battaglia, dicesi che Caco, quel si noto per le favole
de’ Romani, barbaro principe di barbara gente, gli si opponesse perchè dominava
luoghi assai forti, il che lo rendeva molesto ancora ai vicini. Costui poiché
seppe che Ercole si accampava ne’ piani contigui apparecchiatosi all’ uso de’
ladroni, appari con subita scorreria su 1' esercito di lui che dormiva, e ne
involò le prede, quante ne erano senza guardia. i Ma rinchiuso poscia per
assedio da’ Greci che ne espugnavano le fortezze, finalmente anch’ egli
soggiacque, e nel mezzo de’ suoi baluardi. 1 suoi castelli furono rovesciati;
ed i compagni di Ercole, Evandro con gli Arcadi,. c Fauno con gli Aborigeni
suoi pigliarono ciascuno per Eboliìlo
sdisse il suo Proiueleo ignìfera, il suo Promeleo legato, ed il Prometeo
seioUo. Strabono nel lib. i, Ateneo nel 14 liarlarono dell’ ultimo. Il secondo
ci resta ancora. I.' 6l 9Ò parte delle
terre del vinto. Ma ben può taluno immagnare che i Greci rimasti in quella
regione furono gli Epei, e gli Arcadi originar) della città di Feneo, e li
Trojani, lasciativi a presidiarla. Perocché tra le arti imperiali di Ercole fu
pur quella nommeno sorprendente che le altre, di sospingere tra le sue milizie
uomini divelti a forza dalle città conquistate, e di metterli alfine, se
animosi combattessero, ad abitare le terre invase, arricchendoli dell’ altrui.
Per tali cagioni, e non per II viaggio che niente area di rispettabile, il nome
e la fama di Ercole divenne grandissima nell’ Italia. Aggiungono alcuni, che
ne’ luoghi ora abitati ^a’Komani egli vi lasciasse due suoi figliuoli gen^
retigli da due donne. Pallente era 1’ uno natogli da Launa la figlia di Evandro: Latino è l’altro,
natogli da una donzella boreale. Egli la conduceva seco dataci dal padre in
ostaggio, e custodivaia finché candida si maritasse ; navigando però verso 1’
Italia ne fu vinto dall’ amore, e la fecondò. Ma essendo egli ornai per
tornarsene in Argo concedè che si restasse sposa di F anno, re degli Aborigeni
; e per tale cagione molti tengono Latino per figlio di Fauno, e non di
Elrcole. Narrano che PaUante morisse nel fiore primo degli anni: ma che Latino,
adulto fatto, succedesse al comando degli Aborigeni : e che venuto lui meno
senza stirpe virile, il regno, per la battaglia co’Rutòli confinanti, restasse
al figlio di Anchise, vale a dire ad Enea, che
Quesu nel S Zini, precedeatemente è chiamata Canna, ed ora chiama Launa. Forse non k che la tanto nota
Lavinia detta da Greci Launa, Labina, Laiinia, o Laouinia. iliveuae suo genero'; ma queste cose
accaddero in altro tempo. Ercole, ordinate come volea, le cose tutte d’Italia,
e giuntagli la flotta, salva dalle Spagne, ofTerl con sagrifizio agl’ Iddii le
dècime delle sue prede, e là, dove alloggiavasi la milizia navale, eresse una
piccola città, dandole il nome di sè stesso , la quale ora albergaci Romani, e
giace tra Pompeiano e tra Napoli con porto sicurissimo per ogni tempo. Cosi
divenuto tra gl’ Italiani simile ad un Dio per gloria, per emu> lazione, per
onori, fece vela per la Sicilia. Gli uomini lasciali custodi ed abitatori dell’
Italia, là, d’ intorno al colle di Saturno, si ressero un tempo da sè stessi :
ma non molto dopo compartendo i proprj costumi, le leggi, i santi riti agii
Aborigeni, come già fecero gli Arcadi, e prima i Pelasgbi, divennero
coudttadini degli Aborigeni, talché sembrarono in (ine una gente medesima. E
questo sia dettò su la spedizione di Ercole nella Italia, e su quei del
Peloponneso che vi restarono. Nella seconda generazione dopo la partenza di
Ercole, nelr anno cinquautesimoquinto al più regnava su gli Aborigeni ornai da
trentacinque anni Latino il Aglio di Fauno il discendente di quel magnanimo. In
quel tempo i Trojani fuggendo con Enea da Ilio già debellata approdarono a
Laurento, .spiaggia degli Aborigeni in sul mare Tirreno non lontano dalle
bocche del Tevere. Ed avendo da’ paesani'uu luogo per abitarvi, c quanto
chiedevano, alzarono poco (^uMia citi à
di Ercole, si crede dorè ora è la torre del Grt-cu nel gulfe di lungi dal mare
in un colie uqa città cui chiamarono Lavinia. Ma da indi ’ a non molto, cedendo
1’ antico nome, ebbero quello di Latini dal re di que’ luoghi ; e levandosi da
Lavinia insieme co’ terrazzani fondarono una città più grande, Alba denominata.
Donde uscendo di tempo io tempo fabbricarono molte e molte delle città
de’vecchj Latini, abitate in grandissima parte ancor di presente. Sedici
generazioni 'dopo la presa di Troja spedironouna colonia nel Pallanteo, e nella
Saturnia, dove già fabbricato avcano i Pelopounesj e gli Arcadi, e dove erano
pur le reliquie di essi, e fecero che vi ^ abitasse. Allora cinto di mura il
Pallanteo prese la prima volta la forma di una città. Allora ebbe il nome di
Roma dal duce della colonia, io dico da Romolo, diciassettesimo tra’ posteri di
Enea. Ma, perciocché gli scrittori, parte ignorano, e parte ricordano
variamente quanto è della venuta di Enea nella Italia, non io vo' trattarne
come di fuga, ma prendendo ciò dalle storie, almeno più accreditate de’ Greci e
de’ Romani. Ora tali sono le cose narrate su quell’ argomento. Espugnato ilio
da’ Greci .sia per l’ inganno del cavallo di legno, come è presso di Omero, sia
pel tradimento degli Aulcnoridi, o per altra maniera, perirono in città la
popolazione, e gli alleati, sorpresi ancora nelle camere loro ; sembrando che
la sciagura gii assalisse, non guardandosene, tra la notte. Enea e con esso i
Trojani venuti da Dardano c da Olrinio a soccorrere gl’lliesi, c quanti altri
conobbero in tempo la sciagura, che era preso il basso della città, fuggendo a
luoghi più forti di Pergamo occuparono il castello, difeso da proprj muri, ove, come ia
saldissima parte, erano le sante cose di Troja, e danaro in copia, insieme col
fior dell’ esercito. Standosi colà respingevano chi tentava di espugnarveli; ma
per la perizia ne’ sotterranei vi riceveano chi vi si riparava dalia città già
pigliata. Così più furono quelli che ne scamparono, che non quelli che caddero
prigionieri. Con tal metodo Enea conseguì che l' impeto col quale i nemici
ovunque infuriavano, non comprendesse in un tempo ogni cosa. Poi calcolando
nelle sue probabilità l’avvenire, siccome era impossibile conservare la città,
perdutane già la più gran parte, si rivolse al partito di cedere le mura ai
nemici, e di salvare almeno le persone, e le sante cose della patria, e quanto
potea trasportarsi di danaro. Così deliberato, comandò che fanciulli, e donne,
e vecchj, e quanti abbisognavano di pausa nel fuggire, s’ incamminassero
intanto verso le cime dell’ Ida ; mentre ~gli Achei tra T ardore di espugnar la
fortezza non curerebbero d’insegnire la moltitudine che levavasi dalla città:
destinò parte di milizie in guardia di ehi si avviava perchè la fuga riuscisse più
certa, e nello stato presente men dura; avvertendoli insieme che occupassero i
luoghi più forti dell’ Ida. Intanto ( col resto dell’ esercito, ed era il più
rilevante ) egli persistendo su le mura, teneavi dis’ ratti i nemici che le
attaccavano, e rendeva meno disagiato lo scampo ai suoi, che sfilavano : se non
che salendo poi Neptolemo co’ suoi la fortezza, e convocandovi d’ ogn’ intorno
i Greci perchè lo ajutassero; Enea finalmente si ritirò. Spalancate le porte,. 6
!) deuominate perla fuga di tanti , anch’egli uscì per esse, ma in ordine di
batiaglia tra quelli che gli restavano, portando su di ottime bighe il genitore,
i patrj Dei, la sua donna, i figli, e quante v’ erano persone, o suppellettili
più riguardevoli. Intanto gli Achei, presa di for/.a la città, spaziandosi
intorno la preda, lasciavano ai fuggitivi grande comodità di salvarsi. Enea
raggiungeva via via gli altri suoi, finché raccoltisi tutti in un corpo,
occuparono i luoghi più forti deir Ida. Sopravvennero ivi ancora quelli che
abitavano in Cardano ; perocché vedendo lanciarsi da Ilio fiamme copiose fuor
dell' usato, abbandonarono tra la notte insieme la loro città, levatine gli
altri, i quali partirono prima coti Elimo ed Egesto, avendosi apparecchiate
delle navi. Poi vi giunse tutto il popolo della città di Ofrinio, e vi giunsero
dalle altre città Trojane quanti aveansi cara la libertà, sicché in poco tempo
la milizia vi divenne grandissima. Ora questi', fuggiti con Enea dal cader
prigionieri, tenendosi in quei luoghi sperarono di rendersi dopo non molto alle
patrie, appena i Greui via navigherebbero : ma i Greci sottomettendo Troja e le
adjacenze, e devastandone le fortezze, apparecchiavansi a porre sotto giogo ì
rifuggiti ancora ne’ monti. E mandando questi gli araldi perchè desistessero,
nè li necessitassero alla guerra, si venne per le suppliche a trattative, e
tali ne furono gli accordi. Enea e li suoi recandosi tjuanlQ ni/Asf ^vyciéits, porle de' fu(;giiÌTÌ. s
DIOAIGI t l. aveano salvalo nella fuga partissero in dato tempo dalla Traode, e
consegnassero le fortezze : i Greci in apposito ovunque dominavano in mare ed
in terra, vi procurassero la sicurezza à Trojani che viag~ giovano a norma de’
patti. Enea consentendo a lai leggi, anzi bonissime riputandole per le
circostanze ; manda Ascaiiio il più grande de’ figli con banda di milizie per
10 più frigie, alla terra detta Dascilite ove ora è il lago uiscanio, perchè
invitatovi da’ paesani a prendervi 11 comando. Ascanio andò, e vi stette ; ma
non molto : perocché giugneudogli dalla Grecia Scamandrio e gli altri Ettoridi,
rilasciativi da Necptolemo, egli guidandoli ne’ regni paterni, si rimise in
Troja. E tanto è quello che si narra di Ascanio. Enea però com’ ebbe pronta la
flotta, vj assunse gli altri figli, il padre, le cose auguste de’ Numi, e
navigò su 1’ Ellesponto alla penisola vicina, chiamata Pallene, la quale giace
dirim petto di Europia. Ivi un popolo ci avea, di Traci si, detto Cruseo, ma
bellicoso e fidissimo tra quanti erano gli alleati de’ Trojani nella guerra. Tale
è il racconto il più verisimile fatto da Ellanico, scrittore antichissimo,
intorno la fuga di Enea 1 Nel teilo si
legge: ZufUTns Europa: ciocebè ha prodotto degli equivoci: la vera lezione deve
essere cioè di Europia la quale h regione della Macedonia che prende nn tal
nome dal fiume Europo. Pailene talvolta è detta ancora città di Tracia, perchè
li Traci vi comandarono. Del resto essa è pib distante che la Tracia a quelli
che navigano dall’ Asia per 1’ Ellesponto. E Dionigi Den propriamente 1’ ha
chiamala vicinissima per questi, essendo tale pinitesto la Tracia. là dove tratta delle cose Trojane. Se ne
hanno ancora degli altri e non simili in altre leggende, ma non si, come io
penso, persuasivi. Decidane chi gli ode, come più vuole. Sofocle il tragico nel
suo dramma su Lao coonte, esseudo già Troja in sul termine, rappresenta Enea che
va con le sue robe in sull’ Ida, seguendo i voleri del padre Anchise, pieno dei
ricordi di Venere, e mirando la distruzione ornai della patria ne’ freschi
portenti avvenuti su’ figli di Laomedonte. E tali souo i versi di lui ma
pronunziati da altra persona : £cco il fgliuol di tenere alle porte ; In dorso
ha il padre, a cui di [bisso pende Cerulea veste dalle spalle, tocche Dalla
folgore un tempo ; intorno intorno Gli fin turba i domestici, e le schiere Non
si grande però, come tu pensi, De‘ Frigi, amanti d’ aver sede altrove.
Menecrate di Zante fa saperci che Enea mise la patria nelle mani de’ Greci,
tradendola per l’odio suo contro di Alessandro, e che gli Achei per tal merito
gli con cederono che salvasse la sua casa. Egli comincia la sua storia dalla
sepoltura di Achille in tal modo. Erano gli Achei liete afflizione, sembrando a
sè stessi come privi del capo della milizia. Nondimeno ergendogli una tomba
guerreggiavano di tutta lena ; finché Ti'P]a fu presa per tradimento di Enea.
Quest’ uomo, perche spregiato da Alessando, ed escluso dagli onori Piccolo dooo aozi nullo: raentte Enea aveva
luLio questo, c più ancora, sema il iradìmento: yorrei dire che Meuecraie non è
savio, uel tulio aluaeuo de’iUCt;outì, e quindi cUc poco stm da aiifudarsi.
sacerdolali, rovesciò la reggia di Priamo, e divenne per tali opere come uno
de' Greci. Altri però narrano eh’ Enea di quel tempo si trovava dove ferme si
stavano le inavi trojane, ed altri che nella Frigia, speditovi da Priamo con
soldatesca pe’ bisogni della guerra ; anzi evvi pure chi; assai piò favoleggia
su la partenza di Enea : ma ne senta ognuno come vien persuaso. XL. Le vicende
di lui dopo la partenza mettono più incertezza ancora in molti; perciocché
taluni guidandolo in Tracia dicono che ivi compiesse la vita ; e tra questi
sono Cefalone Gergitio, ed Egesippo il quale scrìsse intorno Pelleiie, antichi
entrambi e rispettabili. Altri ripigliandolo dalla Tracia lo sieguono 6no all’
Arcadia ; e dicono che abitasse in Orcomeno di Arcadia, e nel luogo, che,
sebbene entro terra, cangiossi in isola, per le paludi e pel fiume, che le
colonie che ora chiamansi Cafie sursero per Enea e pe’ compagni, ma Gamie
nominandosi allora da Capi trojano. Sono questi racconti di varj e di Aristo
che scrisse le cose degli Arcadi. Novelleggiasi ancora eh’ Enea capitasse
veramente in que’ luoghi, non però che in essi morisse, ma nell’ Italia : e ciò
da molti attestali, come da Agatillo, Arcade poeta, nelle elegie scrivendo :
Feline in Arcadia e generò nell’ isola Con le due donne Antèmone e Codone, Due,/iglie ; e scorse nell' Italia, e quivi
Del gran Romolo suo padre divenne. La venuta di Enea e de’ Trojani nella Italia
la sostengono tutti i Romani ; e monumento ne sono le pratiche nelle feste e
ne’ sagi'ifizj, i libri sibillini, gli oracoli Pitici, e ben altre cose, le
quali niuno trascurerà, quasi aggiunte per ornamento. In Grecia ne restano
tuttora molti indizj notissimi, come il porto nel quale approdarono, ed i
luoghi ne’ quali si. trattennero, non essendo il mare navigabile. Siccome
dunque sono tanti, io ne farò come posso menzione, ma breve. Primieramente
dunque vennero in Tracia approdando alla penisola detta Pailene, tenuta, come
indicai, da’ barbari chiamati Crusei, e v’ ebbero ospizio sicuro. Passando ivi
r inverno edificarono in un promontorio un tempio a Venere, e fondarono la
città di Enea, dove lascia rono quanti non poteano pe’ disagi più navigare, o
quanti voleano rimanere, vivendovisi come nella patria. Questa durò fino al
regno de’ successori di. Alessapdro, ma nel regno poi di Cassandro fu
distrutta, quando sorse Tes.salonica : e gli Eneati e molti altri passarono
alla nuova città., ; XLI. Salpando da Pailene vennero i Trojani a Deio, ove
Anio signoreggiava. E, finché Deio fu popolata r e (lorida, molti erano gl’
indizj della venuta di • Enea, e de’ compagni nell’ isola. Dalla quale
navigando a Citerà aUra isola incontro
del Peloponneso ’ vi edificarono un tempio a Venere. Da Citerà tornandosi al
mare e trovando morto non lungi varono i Trojani con Eleno. Ottenuto l’ oracolo
sulla nuova loro sede, offersero al Dio cose trojane, e tra queste crateri di
bronzo, de’ quali alcuni manifestano ancora con iscrizioni antichissime gli
oblatori : e quindi si ricondussero camminando quattro giorni alle navi. Intendesi
la venuta de’ Trojani a Butrinlo da un colle ove accamparono, che ancora
chiamasi Troja. Da Bu> trinto sospinti lido lido Gno al porto detto, dopo un
tal fatto, di uincitise ed ora chiamato con nome men chia ro (a), eressero
ancor ivi un tempio di Venere : e passarono il mar Ionio avendo per guida della
navigazione molli, che volontari li seguitavano, e li quali menavano con sé
Patrone da Turi con la sua genie ; ma li più di questi, giunta l’ armata nell’
Italia, tornaronsi alle patrie : rimasero però nella flotta Patrone ed alquanti
de’ suoi mossi a far causa con Enea, nel cercar nuove sedi ; quantunque alcuni
dicano che il domicilio mettessero in Alunzio di Sicilia. In memoria di tal
beneGzio col volger del tempo i Romani donarono agli Acarnani Leucade ed
Auaitorio, togliendole ai Corintii ; e permisero ad essi che lo bramavano, di
rimettere ne’ pro Regia dirimpetto a Corfb dalla qnale è lontana 13 miglia. (a)
Il Casaubono crede questo porto quello che da Tolomeo h chiamato Onchesmo, e da
Strabone Oochismo ; il quale incontraTasi dopo Butriuto e Cassiope ( ora Januia
); crede che in principio si chiamasse di Anchise, poi di Anchesmo, o d^i
Anchismo, e quindi men chiaramente, di Onchesmo, o di Oncbismo. Digilìzed by
Google 7^ nm.LE antichità’ romane prj averi gli Oniadi, e di godere in comune
con gli Etoli il frutto delle isole Ecliioadi. Calarono i compagni di Enea, ma
non tutti in un luogo a terra ; approdando coi più delle navi al capo japigio,
detto allora dei SalenUni ; e con le altre al lido, prossimo a quello cliiamato
di Minerva nel quale Enea stesso sbarcò. Era questo sito ancora un promontorio
ma con porto estivo denominato di Venere, appunto dopo quel giorno. Poi
navigarono, quasi col piè sulla terra, fino allo stretto di Sicilia, lasciando,
ovunque andavano, de’ monumenti, e tra questi là nel tempio di Giunone, la
caraffa me fallica, la quale con antichissimo scritto manifesta 4I nome di Enea
che porgevala in dono alla Diva. XLIII. Fattisi ornai vicini, eccoli nella
Sicilia finalmente a Drepano, dir non saprei, se portativi per disegno di
sbarcare, o se per le burrasche de’ venti, consuete in quel mare. Qui
s’imbatterono coi compagni di Elimo e di Egesto fuggiti prima di loro da Troja.
Favoriti questi da’ venti propizj e dalla sorte, nè gi'avati di molte bagaglio,
erano in poco tempo approdati in Sicilia, e fabbricato aveano intorno al fiume
Crimiso in una terra che i Sicani aveano amorevolmente ad essi ceduta, per
essere Egeste nodrito già nella Sicilia e congiunto col sangue di loro per questo
Caso. Uno dei maggiori suoi, famoso trojano, cadde nell’ ira di Laomedonte, e
quel re pigliandolo, certo per una incolpazione, lo uccise, uccidendo nemmeno
tutta la stirpe virile di lui perchè alfine non • sen vendicasse ; ma le
vergini figlie giudicò bensì cosa non degna lo ucciderle, ma uon sicura nemmeno
a permettersi che si accasassero. 73 eoa Trujani. Pertanto le diede a
mercadanti con ordine che lontanissime le portassero. Or queste rimovendosi
navigò con esse un cospicno garzone, il quale preso già dall’amore di una
maritollasi, e trassela nella Sicilia; e là dimorandosi nacque di loro il
fanciullo Egesle nominato. Apprese i costumi e la lingua del loco : infine
morendogli i genitori, e dominando Priamo in Troja, brigossi per lo ritorno. E
militò pur egli contro gli Achei ; ma prendendosi ornai la città, navigò di
nuovo per la Sicilia, fuggendo con Elimo su tre navi, usate già da Achille
quando saccheggiava la Troade, e poi da esso abbandonale perché portn bello ^ o buono, ma nel codice Valicano
ai La porto cattivo: il che varia la àeuicuta quali finge Nettuno che
presagisca la grandezza avvenire li Enea, come de’ posteri, con tali maniere :
Ifo, non i dubbio ; la virtù di Enea /leggerà li Troiani, e re^ranli Be’ figli
i fgli, e chi verrà da loro. G^ncependo da ciò, che Omero conosciuto avesse che
questi regnavano nella Frigia ; inventarono qnel ritorno di Enea, quasi fosse
impossibile che abitando nella Italia dominassero genti trojaue. Eppure ben
poteano comandare a Trojani già diretti nei viaggio e stabilitisi altrove: vi
saranno forse altre cause per le quali diasi a vedere r inganno. XLY. Che se
alcuni sien turbati da questo : che la tomba di Enea si dica e si additi in più
luoghi, non potendo in più luoghi esser lui tumulato ; riflettano esser tal
dubbio comune su molti uomini, specialmente su gli insigni per sorte, e vivuti
sotto cielo ognor vario : e sappiano che una è 1’ urna che accoglie i loro
cadaveri, ma molti tra le nazioni li monumenti per gratitudine sul bene che vi
operarono, massimamente se tra quelle esistano stirpe o città che da essi
provengano, o se lungo vi fecero ed amorevol soggiorno. Or tali appunto
conosciamo che furono i casi che del nostro eroe si novelleggiano. Costui dopo
aver operato che Ilio nelr esser preso non fosse totalmente distrutto, dopo
aver operato che gli alleati si ritirassero salvi in Bebricia che chiamano;
lasciò sovrano della Frigia 'Ascanio suo figlio, eresse in Pailene una città
col nome di sé medesimo, maritò la figlia nell’ Arcadia, e fissò parte de’suoi
nella Sicilia : e sembrando che segnalato avesse la sua dimora in più altre
parti, beneficandovi ; ne acquistò la benevola propensione per la quale gli
eroi quando cessano la vita dell' uomo si onorano, e con pompa di monumenti in
più luoghi. £ veramente quali altre cause mai potrebbe alcuno ideare de’
monumenti di lui nell’ Italia ? Ma di ciò sarà detto nuovamente secondo che le
materie de’ subjetti si dorran rischiarare. Che poi l’armata trojana non veleggiasse
verso parti più remote di Europa, ne furono cagione gli oracoli, i quali
prendéano compimento appunto in quei luoghi, e la divinità che tante volte avea
rivelato, ciocché si volesse. Laonde approdati a Laurento alzarono le tende in
sul lido. Ma stentandovi su le prime per la sete, perchè il luogo mancava di
acque ; ecco vedonsi, ( dico ciò che ne udii tra’ paesani ) prorompere dalla
terra spontanei rampolli di acque dolci, dalle quali fu tutto abbeverato 1’
esercito, ed irriguo ne divenne quel campo, scorrendo co’ rivoli loro dalle
sorgenti fino a gettarsi nel mare. Ora però non si le acque abbondano che ne
trascorrano, ma scarsissime, si restano in un cavo luogo, credute da’ paesani
sacre al sole : e presso queste si additano due altari, trojani monumenti,
rivolto r nno all’oriente l’altro all’occaso, ove favoleggiano che Enea facesse
il primo sagrifizio in ringraziamento al Nume per le fonti che scaturirono. Poi
sedutisi in terra per desinarvi, posero i cibi secondo molti su degli strati di
appio come su le tavole ; ma secondo altri, per mondezza maggiore, li posero su
focacce di farina : se non che finitisi i cibi apparecchiati, prima 1’ urto,
indi r altro mangiava già 1’ appio o le focacce sottoposte ; quando com’ è fama,
uno de’ Ggli, o certo della tenda slessa di Enea disse : oh ! Gn le tavole ci
divoriamo. Destossi all’ udir ciò fra tutti un entusiasmo, uno strepito, come
allora si compiessero i primi oracoli che riceverono : essendo già fatto ad
essi un presagio, in Dodona secondo alcuni, o come altri dicono in Entra nelle vicinanze dell’Ida ove sta la Sibilla,
fatidica ninfa di que’luoghi. Questa annunziò loro che navigassero verso /’
occidente, finché giungevano in luogo, dove sarebbero mangiale le mense : e che
prendessero, quando vedeano ciò verificaio, per guida un quadrupede, e dove
stanco del viaggio sdrajavasi, ivi fondassero una città. Ricordevoli di
quest’oracolo, chi per comando di Enea portava custoditi com’ erano i simulacri
de’ Numi dalle uavi a luogo destinalo, e chi preparava basi ed altari per essi.
Le donne accompagnavano le sante cose con ululati e con danze. InGne essendo
già tutto pronto pei sacriGzio, i compagni di Enea stavano coronati intorno l’
altare.E già questi facevano de’ voti, quando la porca già pronta pel sagriGzio,gravida
nè lontana dal parto, dibattendosi tra le mani de’ sacri ministri che la
tenevano, fuggissene in parti più remote del mare. Enea concependo esser questa
il quadrupede di cui 1’ oracolo signiGcò che sarebbe loro di guida le tiene
dietro, non Vi ebbero pià Lrilre ; I’
una in Beoiia l’altra in Tessaglia; (jui si parla della terza nella Jooia tra
Llazomcns c Teon. Ma questa Krilra non era poi cosi vicina dell’ Ida : il che
fa vedere che il testo non è puro abbastanza : seppure la idea di vicinanza non
è qui relativa a distanze beo grandi. Digitized by Google legni e cose di rustico apparecchio su le
quali appariva che dolentissimo ne sarebbe chi ne era privato. In quel tempo
Latino re guerreggiava co’ Rutoli, suoi vicini, ma con poca prosperità nelle
battaglie. In tale suo stato gli annunziano, esagerando le imprese di Enea :
che un esercito di forestieri gli devastava tutto il litlorale: che se non
davasi presto a riutuzzarlo, avrebbe poi manifestamente guerra più aspra con
essi, che non co’ vicini. Temè Latino a tal nuova, e ben tosto, sospesa la
guerra presente, mosse con esercito poderoso contro a’ Trojani. Ma vedeudoli
armali alla greca, intrepidi, in buon ordine, aspettare il cimento, si arrestò,
difGdando di poterli sottomettere in un colpo, come avea già speralo nel
moversi contro di essi. Ed accampatosi in un colle pensò che dovevaiuuanzi
tutto ricrear le milizie dalla molta fatica, sostenuta nel lungo e coutinuo
travaglio. Adunque ivi riposò quella notte; ma disegnò di lanciarsi al fare del
giorno sul nemico. Fra tali risoluzioni un genio del loco venne a lui tra ’l
sonno, e gl’ impose di ammettere i Greci che venivano a grande utilità di
Latino, e bene comune degli Aborìgeni. Parimenti i Dei patrii, svelandosi tra
la notte ad Enea, suggerivano che inducesse Latino a concedergli spontaneamente
una sede nel luogo che bramava, e rendersi i Greci alleati, e non competitori
nelle arme. Tal sogno contenne l’uno e r altro dal cominciar la battaglia. E
non si tosto fu giorno, elle milizie mossero in campo; ecco gli araldi venire
da ambe le parti ai capitani per chiedere un vicendevole parlamento; e si
tenne. Latino il primo querelatosi della guerra improvisa e non intimata,
chiedeva ad Enea che dicesse chi fosse, e con quale disegno invadeva e derubava
que’ luoghi, non avendone mai ricevuto alcun danno, e non ignorando che gli
assaliti rispingono gli autori della guerra. E laddove tutto esibivasi a lui se
moderate ne erano le dimande, e potea rinvenire tutto nella cortesia degli
abitanti ; egli violando la giustizia comune degli uomini, voile impudentemente
anzi che da onorato, arrogarsi ogni cosa colla forza. Enea rispose : Noi siamo
Trojani di lignaggio, e veniamo da una città non ignota affatto tra Greci. Essi
espugnandola con gueira di dieci anni ce la tolsero ; ed ora vagabondi ci
rigiriamo, sema città, senza regione, ove prendere sede finalmente. Siamo qui
venuti seguendo i voleri de' Numi ; annunziandoci gli oracoli che que- ta è la
tota terra che ci lascia come requie da tanti errori, Abbiam preso dalle wstre
terre quanto ri era bisogno ; Noi provvedevamo anzi alla nostra infelicità che
al decoro, lutto che non volessimo far cosa meno di questa, come novizj in tai
luoghi. Ma ne daremo copiose e buone ricompense. Vi offeriamo i nostri corpi,
le nostre anime, costumati ahbaslanza ai travagli. Comunque usar ne vogliale ;
noi custodiremo come inviolabili le vostre tene, noi ci lanceremo ad
acquistarvi quelle de' nemici. Noi vi supplichiamo che non ascriviate ad odio
le cose operate; non avendole noi fatte per ingiuriarvi ma dalla necessità
violentati; e ciò che non è volontario è pur degno di scusa. E se ora ce ne
scusiamo, se ne imploriamo voi stendendovi le mani supplichevoli; già non si
conviene che ci destiniate alcun male, Altrimente invocheremo gli Dei,
invocheremo gli Genj di queste terre perchè ci condonino quanto abbiamo fatto o
necessitati faremo. Noi tenteremo respingervi la guerra se ce la incominciate ;
chè non è questa la prima nè la massima di quante ne abbiamo sostenute. Latino
ciò udendo soggiunse : Io sono propenso inverso di tutti i Greci e mi struggono
il cuore i mali necessarj degli uomini. E pregerei moltissimo di salvarvi se
poteste mai farmi chiaro che qua venite bisognosi di una sede, per aver parte
nelle nostre terre e su quanto vi sarà dato per amicizia, non per involarmi
colle armi il comando. Se questo dir vostro è vero ; se ne dia, chiedo, la
vostra fede e se ne riceva la nostra : e saranno queste le mallevadrici pure
de' patii. Dtomet, Hmt r. s L. Enea
encomiò quel parlare ; e si giurarono tali patti tra i due popoli : Darebbero
gli Aboiigeiti ai Trojani quanta terra volessero in qualunque parte del colle,
dentro il giro di cinque miglia da questo. Li Trojani entrerebbero a parte
della guerra che gli Aborigeni aveano tra le mani, e militerebbero con essi in
qualunque altra li chiamerebbero. Farebbero in comune ambedue col senno e colla
mano t utile vicendevole. Stabiliti tali patti, e confermatili con gli ostaggi,
combatterono insieme contro le città dei Rutoli : e soggiogando in brevissimo
tempo ogni cosa, presentaronsi ad ultimare la trojana città non compiuta, e
tutti con un ardore vi fabbricavano. Enea le diè nome di Lavinia, come dicono i
romani scrittori, dalla figlia di Latino, chiamata anch’ essa Lavinia; e
secondo alcuni de' greci mitologi dalla figlia di Anio re tra Deliesi, Lavinia
nominata ugualmente : perchè morendo questa nel primo costruirsi degli edifizj,
e datale sepoltura appunto nello spazio dove Enea fabbricava , la città ne era
il monumento. Dicesi che navigasse co’ Trojani conceduta dal padre alle istanze
di Enea, come donna di senno e di profezie. È fama che i Trojani nel fabbricare
Lavinia ne avessero questi segni. Accesosi jl fuoco da sè stesso in una valle,
narrano che un lupo vi traesse colla bocca e gittassevi aride materie ; e che si spiega per infermarsi, travagliarsi, quasi
Dionigi dica che la donna fu sepolta dove infermava ; ma tal voce significa
ancora fabbricare e rende il senso pib acconcio e concorde. Altronde non è
facile che uno seppeliscasi nel luogo appunto o aiansa. o tenda dove si ammala.
Digitized by Gopgle LIBKO I. 83 no’ aquila volaado, Vi eccitasse le (ìamtue col
battere delb ale ; ma che una volpe in contrario si desse ad estinguerle colla
coda, bagnatala iu un Hume : e die ora vincendo chi accendeva ed ora chi
ammorzava, al> fine, prevalessero le due ale, partendosi la volpe senza che
nulla più vi potesse: che Enea da quello spettacolo conchiudessc, come la
colonia diverrebbe magniCca, meravigliosa, celeberrima ; darebbe il crescere di
essa invidia ed affanno ai vicini ; ma ne vincerebbe ogni ostacolo, ricevendo
dagl’ Idùii fortuna più potente dell’odio de’ mortali in combatterla. Questi
sono i portenti famosi, nati colla città : e per memoria se ne custodiscono
ancora da tempo antichissimo in mezzo al foro di Lavinia le immagini metalliche
di quegli animali. LI. Poiché fu compiuta la città de’ Trojani entrò desiderio
in tutti di giovarsi a vicenda ; e primi ne diedero r esempio i monarchi
accomunando pe’ matriinonj il grado de paesani e de’ forestieri, e sposando
Latino la sua figlia Lavinia ad Enea. Quindi presi ancor gli altri da brama
eguale, dandosi in breve a gara 1’ uno all’altro leggi, costumi, sacrifici,
congiungendosi in città di cure e di consorzio, e divenendone tutti un corpo e
chiamandosene Latini dal re degli Aborigeni, osservarono con tal fermezza gli
accordi, che uiun tempo mai più li divise. .Tali sono le genti che vennero e si
congiunsero, e dalle quali è la stirpe de’ Romani, prima che si fondasse la
città che otn gli alberga. Erano i primi gli Aborigeni, i quali cacciarono
dalle proprie .sedi i Sicoli 4 greci antichissimi del Peloponneso, di quelli,
io credo, spatriatisi con Eouotro dalle terre ora dette di Arcadia. erano
secondi ì Pelasghi, usciti dal>' r Emonia, ora chiamata Tessaglia : ed erano
terzi quei che vennero con Evandro nell’ Italia dalla città del Pallanteo. Si
ebbero dopo questi gli Epei ed i Feneati del Peloponneso, militari di Ercole, a
quali si mescolavano alquanti Trojani; e gli ultimi furono i Trojani scampati
con Enea da Ilio, da Cardano e da altre loro città. LII. Che poi li Trojani
ancora fossero Greci, principalmente di orìgine, usciti un tempo dal
Peloponneso fu già detto da molti, ed io pure lo dirò brevemente: e cosi stà
quel racconto. Atlante divenuto primo re dell Arcadia che ora chiamano, abitava
intorno al monte detto Taumasio. Sette erano le figlie di questo ora trasferite,
dicesi, nel cielo col nome di Plejadi. Giove sposandosi 1’ una di esse vi
generò Giasone e Cardano: Glasoue si tenne celibe, ma Cardano sposò Crise la
figlia di Palante, e gli nacquero Ideo e Cimante, i quali due regnarono
nell’Arcadia, succedendo al trono di Atlante. Poscia avvenendo il gran diluvio
in Arcadia ; i campi ne divennero paludosi, nò più coltivabili per lungo tempo.
Gli uomini ridottisi ad abitare nei monti, e con scarsi viveri, consentendo ad
una voce che le terre intorno non erano più bastanti a nutrirli, si divisero in
due. Rimastisi gli uni nell’Arcadia crearono sovrano Cimante il figlio di
Cardano > gli arltri partirono su gran flotta dal Peloponneso ; e direttisi
in verso di Europia giunsero al golfo detto di Me lane, recandosi ad un isola
della Tracia, non saprei se abitata allora o deserta, cui chiamarono Samo
Tracia con nome composto dal duce e dal luogo, per essere questo nella
Digilized by Google usno I. 85 Tracia, e Samone 1’ altro, figlio di Mercurio e
di Rene, ninfa Gillenide. Ma non a lungo vi dimorarono ; cbé non era ivi una
facile cosa la vita, avendosi a lot tare con terre ingrate e mare disastroso.
Adunque lasciando un gruppo di loro nell’ isola, li più se ne mossero
nuovamente inverso dell’ Asia sotto gli Auspicj di Bardano ; perocché Giasone
era morto fulminato nell’ isola per avervi appetito il concubito con Cerere.
Venuti al mare chiamato Ellesponto, e sbarcatine, abitarono la terra detta poi
di Frigia. Ideo con la parte da lui retta della milizia di Bardano, abitò ne’
monti che • Idei si appellano da lui, ne’ quali ergendo un tempio alla madre
degl’ Iddii v’ istituì misteri e sacrifici, durevoli ancora in tutta la Frigia:
e Bardano nella Troade che dicono, fondandovi la città coi nome di sé medesimo,
e ricevendone delle campagne da Teucro re, dal quale Teucria fu nominata la
terra. Molti, tra’ quali Faiiodimo che scrisse delle antichità dell’ Attica,
narrano che Teucro ancora passasse dall’ Attica nell’ Asia, e regnasse in sul
popolo di Zipeta ; allegando su ciò molti argomenti. Quivi dominando egli
campagna ampia p buona, ma non molto popolata, desiderò di vedere Bardano, e li
Greci con esso venuti, si per avergli alleati nelle guerre co’ barbari, sì
perchè la sua terra non giacesse deserta. LIU. Ora porta il subjetto eh’
espongasi da quali Enea discendesse : ed io ciò laro ; ma brevemente. Bardano
morendogli Crise la figlia dL Fallante dalla quale avea due fanciulli, si sposò
òon Batia la figlia di Teucro. Di lei nacqn^li Elrittooio, creduto tra’ mortali
felidssif Digitized by Gopglc 86 dt:lle antichità’ eomane mo per lacloppia
eredità della signoria paterna, come deli’ altra fondata dall’avo materno. Da
Erittonio e de Callii’oe figlia di Scamandro nacque Troe dal quale ebbe nome la
nazione. Da Troe e da Acalide fisiia di O Euniida sorse Assaraco : e da questo
e da Glitodora figlia di Laomedonte ebbes! Capi. Poi questo e la ninfa, Kaide
chiamata, generarono Anchise: e di Anchise e di Venere è figlio Enea. Cosi avrò
dichiarato che i Troiani siano Greci di origine. LIV. Su 1’ epoca della
fondazione di Lavinia scrivesi variamente : a me sembrano piò verisimiii quelli
che r assegnano all’ anno secondo dopo la partenza da Troja. Imperocché Ilio fu
preso nel fine della primavera, il giorno diciassettesimo prima del solstizio
estivo, mancandovi otto giorni a compiersi il mese Targhilione secondo la
cronologia di Atene: e dopo il solstizio rimaneanci venti giorni a terminare
quel giro di anno. Pertanto nei trentasette giorni decorsi dopo quella presa io
stimo che gli Achei provvedessero su le cose della città, che ricevessero le
ambascerie di quelli che erano usciti, e giurassero dei patti con essi. Nell’
anno seguente e primo dopo la espugnazione, i Trojani salpando da quella terra
circa l’ equinozio autunnale passarono 1’ Ellesponto: e portati nella Tracia
ivi dimorarono quell’ inverno, rac^ cogliendo gli altri che giungevano ancora
dalla fuga, e preparando la navigazione. Levandosi dalla Tracia in sul fare
biella primavera tragittarono fino alla Sicilia dove riparatisi spirò intanto
quell’ anno : ivi spesero il secondo inverno fabbricando città con gli Elimi.
Ma divenuto il pela^ navigabile fecero vela dall’ isola, e Digitized by
GoogieLIBRO I. 87 valicando il mare Tirreno vennero finalmente sul mezzo della
estate a Laurento, spiaggia marittima degli Aborigeni, e presavi terra, vi
fabbricarono Lavinia mentre compievano 1’ anno secondo dopo la invasione di
Troja. Per tali detti sarà chiaro quanto io su ciò concepisco. LV. Enea
fornendo la nuova città di tempj e di altri edifizj i più de’ quali
persistevano ancora a’ miei giorni, alfine nell' anno seguente, terzo della sua
emigrazione, regnò ma su’ Trojani solamente. Morendo però Latino nel quarto,
ebbe anche il regno di questo si per 1’ affinità sua con esso, di cui Lavinia
era la erede, si per essere lui già duce degli eserciti nella guerra coi
vicini. Imperocché li Rutoli si erano di bel nuovo ribellati da Latino
scegliendosi per capitano Turno un disertore di Latino, e cugino di Amata,
regia moglie di lui. Questo giovine alle nozze di Lavinia comcciatosi dell’
affine suo che tenesse anzi cura degli esteri che de’ parenti, e sospinto da
Amata e da altri, andò cM>lle milizie delle quali era capo, e si congiunse
coi Rutoli. E mossasi per tali richiami la guerra perirono in battaglia
vivissima Latino e Turno e molli altri ; trionfandone Enea. Da quell’ epoca
ebbe questi lo scettro del suocero, e regnò dopo la morte di lui tre anni
ancora ; ma nel quarto morì combattendo : perocché gli uscirono contro dalle
loro città tutti in arme li Rutoli e Mezenzio re de’ Tirreni che per le sue
regioni temeva, conturbato al vedere che la greca poteuza via via si ampliava.
Si dié la battaglia, ma fortissima non lungi da Lavinia; soccombendone molti da
ambe le parti, finché la notte sopravvenendo, divise gli eserciti. ENEA più non
apparve ; e chi lo disse trasferito Ira’ Numi, chi perito nel fiume, presso cui
fu la pugna. I Latini gli eressero un tempietto iscrivendolo : del Padre e Dio
del loco il quale regge il corso del Jiume Numicio. Pur vi è chi dice edificato
il tempio da Enea per An chise, morto P anno avanti tal guerra. L’ edifizio è
non grande : ma tiene arbori ordinatamente intorno degne da vedersi. LVI.
Passando Enea da questa vita, al più I’ anno settimo dopo la presa di Troja,
assunse il comando su’ Latini Eurileone, quegli che. nella fuga intitolavasi
Ascanio. Erano allora i Trojan! chiusi tra le mora, e la forza nemica ognora
più spaventava ; nè bastavano i Latini a soccorrere gli assediati a Lavinia.
Ascanio dun que il primo chiese pace e condizioni onorate ai ne mici : ma non
giovando la inchiesta, fu costretto ren dersi pienamente, e finire la guerra
come il vincitore ne giudicasse. Ma siccome il monarca de’ Tirreni oltre le
tante cose intollerabili comandava come agli schiavi che si recasse ogni anno
ai Tirreni quanto vino producerasi dalla campagna latina ; cosi per la
ìndegnissi ma condizione Ascanio prima, e dopo lui li Trojani dichiararono co’
decreti loro sacro' a Giove ogni frutto della vite. E confortandosi gli uni gli
altri ad imprendere da valentuomini, e chiamando i Numi a parte dei loro
pericoli, si mossero di città ma tra notte non chiara per luna. E sopravvenendo
improvvisamente, presero in un subito il campo nemico il più vicino alla città,
riputato antemurale ancora delle altre milizie, perchè tenuto su luogo forte e
difeso dal fiore de’ giovani tirreni, comandati da Lauso, figlio di Mezenzio,
Intanto che questo luogo espugnavasi le soldatesche attendate nei piani vedendo
la luce insolita, ed ascoltando le voci degli oppressi fuggirono ai monti. Ivi
sorse fra loro paura e strepito grande qual suole tra schiere mosse di notte,
che apprendano già già di essere assalite, ma nè ordinate uè provvedute
abbastanza. I Latini all’ opposito poiché vinsero per assalto quel presidio, e
conobbero lo scompiglio deir altra milizia, le furon sopra incalzando e
trucidando : e questa non potea nemmeno sapere i suoi mali; non che pensasse
ricorrere alla forza. Quindi confusi, incerti che fare chi s’ avvia tra .dirupi
e ne soccombe, chi tra luoghi cavi ma senza esito, ed è preso. Li più non
distinguendosi tra loro si trattarono ira le tenebre a vicenda come uemicì ; e
ben fu la sciagi>ra micidialissima. Mezenzio occupato un colle con pochi,
poiché vi seppe la morte del figlio, quanto esetcito gli fosse perito, ed in
quai luoghi ora si fosse iin tempo in cui fu costrutta la città, signora al
presente delle cose. Ma quali ne fossero i fondatori, con quali vicende
recassero la colonia, o le fondassero la città, molti già lo narrarono,
discordandone alcuni in più casi. Io sceglierò da' monumenti le cose più
persuadevoli ; te quali sqn queste. LXYIl. Dopo che Amulio usurpò colla forza
la reggia di Alba eliminando dagli onori paterni Numitore il fratello. più
grande, scorse ad altre infamie col molto abuso dei diritti, macchinando
all’ultimo distruggere la stirpe di Numitore per timore di subirne la vendetta,
e per desideri^ di perpetuarsene il principato. E macchinando ciò da gran tempo,
notò primieramente dove recavasi alla caccia Egeste il figlio già pubescente di
Numitore, e, fattegli delle insidie nel meno visibile di que’luoghi, lo uccisse
appunto che inseguiva le fiere, dando opera che si dicesse poi, che il giovine
fu vittima de’ladroni. Ma tal voce artificiosa uon potè soffocare la verità che.
lacevasi; perocché molli ebbero cuore di palesarla, con pericolo ancora. Ben
conobbe Nunillore il successo ; ma tollerando con saviezza bonissima fìnse non
conoscerlo per differirne i risentimenti a tempo meno pericoloso. Amulio
tenendo la vicenda per occulta, fece ancora, che la figlia di IVumitore detta
Rea secondo alcuni, e poscia Ilia quando fu matura per le nozze, si dedicasse
al sacerdozio di Vesta perchè andando subito a marito noti partorisse un
vindice della sua gente. Dee irenl’anni, e nommeuo rimanersi candida da cose
maritali lina donzella messa alla cura del fuoco inestinguibile, o per altro
religioso ministero serbato per legge alle sue pari. Compieva Amulio tutto ciò
co’ bei nomi di onorare c distinguere il parentado : perchè non avevane egli
introdotto la legge : anzi essendo già praticata non astringeva il fratello,
sicché la prima volta esso tra’ nobili si valettse di quelli onori. E
pregiavasi tra g]i Albani che le donzelle più nobili ministrassero a\^esia. Ben
vedea Numitorc che il fratello non facea Ciò per amore del meglio: tuttavia non
espresse l’ira sua, ma tacque profondamente ancora su questa ingiuria per .non
esserne malmenato dal popolo. Dopo quattro anni Ilia recatasi al bosco sacro di
Marte ad attingervi limpide acque pc’ sacriGzj vi fu violentala da uno, dicono,
de’ giovani innamorato della donzella : o da Amulio non si per amori che per
inganni, tutto in arme, e travisatosi quanto poteva, onde essere terribilissimo
a vedere. Molli però novelleggiano che fu in persona il Nume del loco,
acconciando a tal fatto varie circostanze divine, e che il sole se ne
ascose. I()3 e le tenebre si spnrsero in
cielo. Essersi,la immagine di quel Dio presentata augusta più che la umana per
la mole e per la bellezza. Aggiungono che colui che aveala violata ( e da ciò
conchiudono che fosse un Iddio) dicesse alla fanciulla che si consolasse, non
si affliggesse per la vicenda essere a lei fatte le cose de’matrimonj dall’
unirsele del genio del loco : ne partorirebbe due figli y potentissimi in arme.
Narrano che, ciò dicendo, nna nuvola lo circondasse, e che spiccatosi di terra,
si elevasse per 1’ aere. Non è poi questo il luogo, ma bastino i detti de’
filosofi, per discutere la sentenza da aversi su queste cose, cioè se debbano
dispregiarsi come opere umane imputate agli Dei, la natura de’quali felice nè
corruttibile non subisce niente d’ indegno ; o se debbano riceversene le
narrazioni, perchè 1’ universo è un composto di tutte le sostanze, tra le quali
haccene pure una intermedia tra la umana e divina, che ora mescendosi agli
uomini, ora ai Numi, genera la stirpe degli eroi. La donzella dopo la violenza
si diè per inferma : consigliatavi dalla madre per la sicurezza di lei, come
per la riverenza de’ Numi : nè più andava alle sante cose,' ma se dovea
porgervi l’ opera sua, supplivano le vergini, compagne nel ministero. LXIX.
Amulio, sia che mosso dalla coscienza, sia che da’ concetti del verisimile,
spiava attentissimo le ca gioni per le quali tcneasi tanto tempo lontana da’
riti divini. E mandò de’ medici su’ quali fidava moltissimo : ma pretestando le
donne non essere un tal male da presentarsi ai maschj, mise la moglie sua per
guardia della fanciulla. Ma non si tosto colei gli accusò la in(loie del male,
conghietlurando da indizj muliebri, ignoti alle altre ; egli fe’ custodire co’
soldati la donzella: perchè il parto, ornai prossimo, non si occultasse. £
chiamando a collocjuio il fratello, disse la violazione recondita, dolendosi
che i genitori vi stessero a parte con la fanciulla, e comandò che non
tacessero, anzi pubblicassero il fatto. Asseriva Numitore eh’ egli udiva cosa
incredibile: ma che egli era innocente in tutto, e chiedea tempo per chiarire
la verità. £d ottenutolo a stento, poiché seppe dalla moglie la cosa come erale
narrata in principio dalla fanciulla, gli riferì la violenza fatta dal Nume, e
le cose dette su’ due gemelli, e dimandò che si prestasse fede a tanto, se da
quel parto nasceane la ]>role cora’ era presagita dal Nume. Non essendo
ornai lontano il parto ; egli non sarebbene deluso lungamente : intanto esibiva
donne in custodia della figlia, nè ricusavasi a prova ninna. Acconsentivano
quanti erano in parlamento: Amiilio però diceva che non aveaci punto di buono
in que’ detti, e diedesi per ogni guisa a pci^ dere la lànciulla. Intanto
presentansi gl’ incaricati per invigilare su quel parto, e narrano aver lei
dato in luce due maschi. Insistè Numitore ben tosto in dimostrare che a'veaci.
r opera del Nume, e richiedÈva che oltraggio non si facesse alla vergine
incolpabile. Amulio nondimeno concepiva che ci avesse della cabala umana anche
nel parto mer desimo, con essersi procurato 1’ uno de’ fanciulli da altra donua,
ignorandolo o cooperandovi le custodi ; e molto su ciò fu disputato. Come i
consiglieri videro che il re piegavasi ad ira inesorabile, sentenziarono aneh’
essi, com’ egli volea ; che si applicasse la legge, la quale ordina che
uccidasi, battuta con verghe, la ver gine profanata nel corpo, e gettisi ciò
che è nato da lei ndla corrente del fiume. Ora però le leggi per le sacre cose
prescrivono che tali donne seppelliscansi vive. LXX. Fin qui la più parte degli
scrittori narrano le cose medesime o con picciolo divario, altri seguendo più
la favola, ed altri la verisimiglianza. Ben però discordano su ciò che vi
rimane ; dicendo altri che la condannata fu tolta immantinente di mezzo, ed
altri che serbata in carcere oscura fe’ nascere nel volgo la idea della occulta
morte di lei. Scrivono che Amulio a ciò s’inducesse vinto dalla figlia
supplichevole che chiedevagli in dono la cugina ; già nudrite insieme, e pari
di età voleansi il bene di sorelle. Amulio che non avea se non quella figlia,
gliela concedette ; nè più compiè la morte di Ilia, ma tennela rinchiusa, nè
visibile; finché fu liberata col morir del medesimo. Cosi le antiche scritture
discordano intorno di Ilia, ma tutte presentano un apparenza di vero ; e perciò
ne ho fatta menzione. Chi legge intenderà da sè stesso quale sia più credibile.
Quanto ai figli d’Ilia cosi scrive Fabio detto il Pittore, cui seguirono Lucio
Cincio, Porcio Catone, Calpurnio Pisone, e la più degli storici. Alcuni de’ ministri prendendo per comando di
Amulio i fanciulli, posti in un cestello, ve li U'asportavano per gettarli nel
fiume, lontano quasi cento venti stadii dalla città. Ma come vi si
approssimarono e videro che il Tevere per le pioggie incessanti usciva dall’
alveo suo naturale in su i campi, discesero dalle cime del Pallanteo fino alle
acque più vicine ; uè polendo avanzarsi più oltre, deposero il cestello appunto
ove il fiume toccava, inondando le falde del monte. Ondeggiò quello alcun tempo
] ma poi ritirandosi la fiumana dalle parti più ester> ne, il vasello
percosse in un sasso, e deviatone, travolse i fanciulli ^ che vagendo in sol
fango si dimenavano. Quando apparendo una lupa, fresca di parto e gonfie le
mammelle di latte ne porse i capi alle tenere bocche de’ medesimi, tergendoli
via via colla lingua dal loto onde erano intrisi. Frattanto sopravvengono dei
pastori che guidavano le greggi ai pascoli ; potendosi già per que’ luoghi
camminare. Al vedere 1’ uno di essi come la bestia carezzava que’ pargoletti,
restossi estatico per lo spavento e per la incredibilità dello spettacolo.
Quindi ( perciocché non era col solo dire creduto ) andando, e raccogliendo
quanti potea de’ vicini pastori, li con duce a mirare il portento.
Approssimatisi questi, e vedendo come la bestia molcea que’ pargoletti, e come
i pargoletti usavano colla bestia quasi colla madre, parvero a sé stsi presenti
a celeste meraviglia : ma congregatisi e proceduti ancora più oltre tentarono
col tuonare delle grida impaurire la lupa. E questa non incrudita affatto dal
giungere degli uomini, ma quasi domestica fosse, ritirandosi passo passo da’
fanciulli, si levò ( mutoli restandone ) dalla vista de’ pastori, essendovi non
lungi un luogo sacro, opaco per selva profonda, ove le fonti sgorgavano da
pietre cave. Dicesi che quello fosse il bosco di Pane ; ed un allare’per lui vi
sorgeva. In questo venne la fiera e si ascose. Ora il bosco non è più: ma ben
additasi 1’ antro dal quale scorrevano le acque, in vicinanza del Pallanteo,
lungo la via che mena al} 107 r
Ippodromo ( 1 ) : scorgesi ivi prossimo un tempietto ov’ è j come effigie del
fatto, una lupa che offre a due fànciullini le poppe ; metallico e di antico
lavoro è quel monumento. Era questo luogo, com’ è fama, sacro per gli Ai'^ cadi
che vi si accasarono con Evandro. Allontanatasi la fiera, i pastori presero i
fanciulletti provvedendo che si allevassero appunto, come se volessero gli Dèi
che si conservassero. Era tra questi un placido uomo, il capo de’ regj pastori,
F austolo nominato, il quale trovavasi in città per alcun suo bisogno, nel
tempo che lo stupro vi si riprendeva ed il parto d' Ilia.' Dopo ciò mentre
erano que’ teneri putti portati al fiume, egli nel tornare ài Pallanteo, tenne
per incontro divino la strada medesima di quelli che li portavano. E non dando
vista di sapere principio alcuno del fatto, dimandò per sè que’ miserelli, e
presili con voto comune, e recandoseli, venne alla moglie. E trovatala che avea
partorito, e dolente, che il parto erale morto, la racconsolò, e le diede que’
fanciulli da sostituirsi ; contandole dalle origini la vicenda che li
riguardava. Poi crescendo, chiamò r uno di essi Romolo e Remo 1’ altro. Fatti
adulti / non somigliavano per la bellezza dell’ aspetto e della prudenza a
pastore niuno di gregge immonde o di bovi, ma chiunque numerati li avrebbe tra’
regj figli, specialmente tra quelli creduti di generazione divina, come in Roma
cantano ancora nelle patrie canzoni. Era la vita loro fra’ pastori, e col
travaglio la sostenevano, Cirro oTc
-garrpgiavasi col corso Je’ cavalli.
fissando per lo più su’ monti e legni e canne in guisa che dessero in un
tempo alloggio e tetto. Ed ancora nel lato che dal Pallanteo piegasi verso l’
Ippodromo V sopravanza 1’ uno di questi abituri, detto di Romolo > cui
guardano come sacro, ma nulla vi aggiungono on-, de renderlo più venerando. Che
se parte alcuna ne vi6a meno per anni o tempeste, la suppliscono, riparandola,
quanto possono con simiglianza. Giunti a’ diciotto anni ebbero dispute su de’
pascoli co’ pastori di Numitore i quali tenevano i loro bovili sull’ Aventino,
colle situato rimpetto del Pallanteo. Ricbiamavansi spesso gli uni su gli
altri, che pascessero i campi non proprj, o soli si tenessero i campi comuni, o
per cose altrettali, se ne avvenivano. Davansi per tali dissidj colpfdi mani e
di armi ; e ricevendone da’ giovani assai li servi di Numitore, e perdendovi
alcuni di loro, ed essendone esclusi a forza dalle campagne, cosi macchinarono.
Disposero in valle occulta le insidie su’ giovani, e concordato con quei che le
disponevano il tempo di eseguirle, gli altri intanto andarono in folla alle
roandre de’ medesimi. Romolo di quel tempo crasi co’ paesani più riguardevoii
recato alla città detta Genina per farvi a no^ me della comune i patrj
sacrifizj. Avvedutosi Remo della incursione volò per la difesa, prendendo in un
subito le armi, e li pochi venuti a lui per unirsegli dal villaggio. Non
aspettarono quelli, ma fuggirono per tirarseli dietro, dove rivolgendosi a
proposito gli assalissero. Ignaro della trama, seguitandoli Remo lungamente, si
ingolfò nel luogo delle insidie ; e le insidie proruppero e li fuggitivi si
rivolsero ; e circondando lui co’ seguaci. 1 09 e tempestando co’ sassi, gli
arrestarono, com’ era il comando de’ loro padroni che volevano vivi que’
giovani nelle mani. Cosi 'fu Remo condotto prigioniero.Ma Elio Tuberone uomo
grave, e ben cauto nel tessere le istorie scrìve : che avendo que’ di Numitore
preveduto che i due garzoncelli erano per ofTerire a Pane ne’ lupercali 1’
arcade sagriGzio come era istituito da Evandro, tesero gli agguati pel tempo
appunto del santo ministero, quando bisognava che I giovani, abitanti il
Pallanteo, correswro dopo le oblazioni nudi per la terra, e velati solo nel
sesso con le pelli recenti delle vittime. Era questo un tal rito patrio di
espiazio^ ne, praticato ancora di presente. Standosi nel più angusto de’
sentieri i nemici a tempo per le insidie su quei facitori di sante cose, ecco
venirsene ad essi la prima banda con Remo, seguitando più tarda 1’ altra con
Romolo per essersi la gente loro divisa in tre masse, e distanze. Non
aspettando quelli il giungere degli altri, dato un grido, uscirono in folla sa’
primi, e circondatili, gl’ investirono > chi con dardi e chi con sassi o con
altro, comunque gli era alle mani. Sbalorditi questi dall’ inaspettato assalto,
e mal sapendo che fare, inermi contro gli armati, furono assai facilmente
arrestati. Con tal modo, o con quello tramandatoci da Fabio, divenuto Remo il
prigioniero de’ nemici, fu tratto in Alba. Romolo, al conoscere le ingiurie sul
fratello, pensò dover subito tenergli dietro col Bore de’ suoi pastori, quasi a
ricuperarselo ancora tra via : ma ne fu distolto da Faustolo che vedea la
insania del disegno. Era F austolo ancora tenuto come padre, avendo sempre
occultato ai due garzoacelli i loro primi tempi, perchè non si mettessero di
slancio a’ pericoli, prima della robustezza degli anni. Allora peiTò vinto
dalla necessità rivela, solo a solo, a Romolo ogni cosa. E Romolo in udire
tutta la sciagura che areali involti 6n dalla nascita, impietosito per la madre
venne in grande ansietà verso di Nnmitore. E molto consultandosi con Faustolo
conchiuse che doveva allora contenersi da ogni impeto ; sorgere poi con
apparato più grande di forze a redimere la sua famiglia dalle ingiustizie di
Amulio, e subire fin 1’ ultimo rischio in vista de’ grandi risultati, operando
col padre della madre, quanto egli nc risolvesse. LXXII. Stabilito ciò per lo
m^lio, Romolo convocando i paesani, e pregandoli a recarsi di subito in Alba,
non però tutti io folla, nè ad una porta perchè non si eccitasse in città
sospetto di loro, c a tenersi nel foro, pronti per eseguire, s’ incamminò per
il primo verso di quella. Intanto quei che menavano Remo presentatolo ai regj
tribunali, ve lo accusavano delle ingiurie, quante ne aveano da lui ricevute, e
vi addita.vano le ferite dei loro protestando che abbandonerebbero tutte le
manche, se non erano vendicati. Amulio volendo fare cosa grata alla moltitudine
accorsa, come a Numitore, forse presente ad incolparlo per altri , volendo la
tranquillità del paese, e stimando insieme sospetta la baldanza del giovane,
imperterrito in sue parole ; lo ( i) Secondo Dionigi, Numitorc ignaro della
condiziona di lìcmti, lo accusava a nome de’ suoi clienti.. Ili .condannò con
rendere Numitore 1’ arbitro del castigo, e con dire che chi fa ree cose, non
dee rintuzzarsene da altri quanto da chi le ha sostenute. Intanto che Remo era
condotto con le mani addietro legate, ed erane vilipeso da’ pastori che sei conducevano Numitore postoglisi
appresso ne ammirava la bellezza delle forme che aveano molto del regio, e ne
contemplava la nobiltà de’ sentimenti, che egli conservava in mezzo ancora a
terribili cose, non volgendosi a far compassione nè importunando, come tutti
fanno in simili casi, ma procedendo con silenzio maestoso al suo termine.
Giunto in sua casa, Numitore fece che gli altri si ritirassero, ed egli, solo
con solo, chiese a Remo chi fosse, e da quali parenti ; non potendo lui, :
ootal giovine, essere da ignobile stirpe. E soggiungendo Remo quanto ne sapea
dal suo nutritore., come dopo la nascita era stato esposto bambino nella selva
col germano, gemello di lui, come raccolto da’ pastori fosse poi stato allevato
; colui, sospesone alcun tempo, alfine, sia che in ciò vedesse vole sospettando che egli non pensasse come
parlava, cosi rispose : I giovani, come è loro mestieri, vanno pasturando de'
bovi pe' monti. Io men veniva in nome di essi cdla madre per dichiararle come
stieno i loro fatti. Ma udendo come tu fai guardare questa donna, io dirigevami
a supplicare la figlia tua perché a lei m' introducesse. E questo cestello, io
recavalo meco per certificare i miei detti. Ora poiché tur sei fermo di
ricondurre qua li garzoncelli, ne esulto ; e manda con me chi vuoi, che io
dimostreroUi, perchè loro si annunzino gli ordini tuoi. Cosi dunque diceva per
allontanare la morte de’ giovani, e sperando egli insieme fuggire da quelli che
sei menavano, quando sarebbe ne’ monti. Amulio immantinente invia con esso i
più fidi tra’ suoi militari, ordinando però segretamente che afferrino, e gli
rechino quelli che il pastore dimostrerebbe. Intanto deliberò chiamare il
fratello e farlo custodire, ma senza catene finché 1’ affare presente se gli
acconciasse. Lo chiamò dunque ma in vista ben di altre cose. Mosso l’ araldo
speditogli, dalla benevolenza e dalia compassione de’ mali di lui che pericolava
non tacque i disegni di Amulio a Numitore : e questo manifestando a’ giovani l’
infortunio che pendeva su loro, e confortandoli a farla da valentuomini, -andò
alla reg già tra le arme di clienti, di amici, e di non pochi servi fedeli ; e
lasciato il mercato pel qual erano venuti in città, vi andarono ancora co’
pugnali sotto degli abiti i contadini, gente robustissima. £ forzando tutti con
impeto comune l’ ingressa, non presidiato da molli, I. I l5 bea tosto uccisero Amulio, e presero
poi la fortezza. Cosi Fabio ne racconta su ciò. ' LXXV. Altri però giudicando
non convenirsi punto di favoloso alla storia dicono inverisimile che la
proje> zione de’ fanciulli non seguisse com’ era ordinata ; e dicono che
l’amorevolezza della lupa che porge lemammelle ai fanciulli è piena di comiche
incoerenze. Raccontano invece che Nnmitore al conoscere la gravidanza d’ Uia,
ne tramutasse poi nel parto i figliuoletti, supplendovene altri nati di fresco
; e dandoli in fine ai custodi della parturieute, perchè al re li recassero.
Sia che la fedeltà di questi fosse comperata con oro, sia che la sostituzione
fosse compiuta per mezzo di femmine ; ad ogni modo Amulio prese ed uccise gli
spurj; laddove i figli d’ llia cari più che ogni cosa a Numitore, furono da lui
salvati, e consegnati a Faustolo. Asseriscono che un tal F austolo era un
Arcade, originato da’ compagni di Evandro, alloggiato in sul Pallanteo colla
cura degli armenti di Amulio ; e che condiscendesse di allevare i figli di
Numitore, indottovi da Faustino , fratello sno, presidente de’ bestiami di
]Vnmitore i quali pascolavano per 1’ Aventino : essere stata la nudrice, la
esibitrice delle poppe sue, non la lupa, ma com’^ verisimile la moglie di
Faustino detta Laurenza, e Lupa con soprannome da quei del Pallanteo perchè
prostituiva il suo corpo. Certamente era questo
Questo nome si legge Tariaroenle. Plutarco io Rumalo Io chiama PUiacino.
Altri Io ha chiamalo Fausto: perchè tra Faustolo e Fausto siavi somiglianza
come tra Romolo e Remo : ed altri con molla confusione lo chiama Faustolo come
il fratello. il greco aatico ^ soprannome per le femmine le quali si vendono
ne’ riti di amore, e le quali ora con più gentil nome, amiche si appellano. E
quindi alcuni che ciò non sapevano ne tesserono la fàvola della Lupa, cosi
chiamandosi quella bestia tra’ Latini. Aggiungono che i fanciulli slattati
appena, filrono dagli aj loro mandati a Gabio città non lontana dal Pallanteo
perchè vi prendessero greca istruzione ; e che nudriti colà presso gli ospiti
di Faustolo Gno alla pubertà furono ammaestrati nelle lettere, nel canto, e
nell’ uso greco delle armi ; che rivenendo poscia ai padri loro putativi
brigaronsi co’ pastori di Numitore intorno de' pascoli comuni, e li percossero,
e gli allontanarono colle greggie : essere tali cose state fatte col volere di
Numitore perché si avesse un principio di ridami, ed una causa onde la turba
de’ pastori in città si recasse : che dopo dò Numitore fe’ lamentanze contro di
Amulio, quasi per grave danno e ruberie de’ pastori di lui ; dimandando che se
egli non avead parte, gli desse nelle mani il porcajo, reo delia lite, e li
Ggli di quello : che Amulio a rimuovere da sè quella. incolpazione, ordinasse a
tutti gli accusati, ed a quanti si dicevano essere stati presenti al successo
di comparire in giudizio per Numitore : che insieme concorrendo molti altri sul
pretesto di quella causa, Numitore dicesse a’ nipoti quanta, sciagura gli avea
perseguitali : e dimostrando^ lui che quella, se altra mai ve ne fu, quella
appunto era 1’ ora della vendetta, iramautiuenle volarono colla turba de’
pastori all’ assalto. E queste sono le memorie su la origine e su la educaziouc
de’ fondatori di Roma. Ecco poi le cose avvenute nella fondazione: ciò clic mi
resta anche a scrivere, ed ora mi vi accingo. Poiché Numitore col morirsi di
Amulio riebbe il principato ; spese breve tempo a riordinare su le antiche
maniere la città, già premuta colla tirannide, e ben tosto fabbricandone un’
altra, meditava di crearvi anche un regno pe’ figli. Pareagli bello, essendosi
il popolo suo troppo moltiplicato, levarne totalmente la parte almeno già sua
contraria, per non più sospettarne. E comunicatosi co’ figli, ed essendone
questi dilettati ; diè loro, perchè vi regnassero, le terre dove erano stali
allevati, e la parte del popolo divenuta a lui sospetta, e disposta ancora per
fare innovazioni, e quanti voleano spontaneamente mutar sede. Ci avca tra
questi, come per una città che si mova, molti della plebe, e buon numero de’
più potenti, anzi pure dei Trojani reputati più nobili, de’ quali esistevano
ancora a’ miei giorni, almeno cinquanta famiglie. Diede a’ giovani danaro, arme,
frumento, schiavi, bestie pe’ trasporti, è quanto ricercasi per la fondazione
di una città. Poiché questi ebbero cavato da Alba il popolo loro, aggregarono
ad esso quanti rimaneano nel Pallanteo e nella Saturnia, e ne divisero tutta la
massa in due parti. Sembrava loro che ciò desterebbe dell’ ardore nella gara di
compiere più speditamente un lavoro ; quando fu causa del pessimo de’ mali,
cioè di una sedizione. Imperocché celebrando le due parli il suo capo, ciascuna
lo inalzava come il più idoneo al comando di tutti: al-tronde li due capi non
più avendo una mente e non quella di fratelli, ma di soprastanti 1’ uno su 1’
altro, ornai non curavano 1’ eguaglianza, e moltissimo ambi'^ hivano. Celatasi
fin qui, proruppe finalmente la loro ambizione per questo incontro. Non piaceva
ugualmente a ciascun d'essi il luogo per fabbricarvi la città : vdleala Romolo
sul Pallanteo per più cause, e per la prosperità del luogo, essendovi stati
salvati e nudriti : ma sembrava a Remo da edificarsi nella sponda che ora da
lui lìomoria si addi manda. Ben erane il luogo acconcio per una città, su di un
colle non lontano dal Tevere, in distanza di circa trenta stadj da Roma. Da tal
gara appalesaronsi ben tosto le voglie di soprastarsi; apparendo assai chiaro
che qual, di essi prevaleva sulr altro dominerebbe ancora su tutti. Passato
intanto alcun tempo, nè sceman. dosi punto il dissidio, parve ad ambedue da
rimettersene all’ avo materno, e si recarono in Alba. E colui suggerì che
lasciassero giudicare agli Dei, quale di loro due desse nome e comandi alia
colonia. E predestinan do ad essi il giorno, ordinò che si trovasserò di buon
mattino separatamente ciascuno nel luogo ove 'bramava porre la sede : e che
sagrificandovi prima secondo le usanze agl’ Iddii vi osservassero gli uccelli
propizj : e qudlo di loro due per cui sarebbero gli uccelli più fausti, quello
comandasse la colonia. •! giovani lodato il consiglio partirono, e trovaronsi
poi nel giorno decisivo, appunto come avevano convenuto. Prendeva Romolo gli
augurj sui Pallanteo dove ujeditava fissare la
Pesto con altri colloca Komeria nelle cime dell’ Arentino : ma Dionigi
sembra collocarla più lontana. Sarebbero mai state due queste Romnrie, o
Remurie t colonia : ma Remo nel colle contiguo, detto Aventino, o Romoria, come
altri raccontano. Erano con essi le guardie, perchè non permettessero che
alcuno de’ due dicesse altre cose che le vedute. Postisi ambedue nei luoghi
convenienti ; Romolo dopo un poco, per ansia, -e per invidia del fratello, e
più che per invidia, per impulso forse di un qualche Nume, innanzi di avere
osservato alcun segno, quasi il primo avesse veduto lo augurio lieto, spedi
messaggeri al fratello, perchè a lui ne 'venisse prontamente. Ma non
accellerandosi questi, perchè vergognosi di portare un inganno p intanto sei
avvoltoi, volandogli a destra, apparirono a Remo. Era costui lietissimo delia
veduta, ma dopo non molto gli inviati da Romolo, movendolo, sei menarono al
Pallaa" teo. Dove giunti, Remo chiedeva da Romolo, quali uccelli avesse
veduto : e dubitando Romolo come rispondere ; ecco dodici avvoltoi, propizj col
volo gli si mostrarono. Inanimato al vederli disse, addiundoii a Remo: che
cerchi tu s pel tempio, e per gli usi del comune. Tale era la partizione fatta
da Romolo ne’ terreni e negli uo mini diretta alla massima eguaglianza comune.
Vili. Ora dirò della partizione degli uomini per concedere privilegi ed onori
secondo la dignità di ciascuno. Scevrò gli uomini cospicui per nascita, o
lodati per virtù, o comodi secondo quel tempo per danaro, purché avessero prole,
dagl’ ignobili, dagli abietti e dai bisognosi. E plebei nominò quelli di sorte
deteriore, che il greco appellerebbe dimolici ; ma intitolò padri quei di
fortuna migliore sia che per la età maggioreggiassero su gli altri, sia perchè
avessero figli, sia per la chiarezza della prosapia, sia per tutte queste
cagioni ; pigliando, come può congetturarsi, 1’ esempio dalla repubblica degli
Ateniesi, quale esisteva in quel tempo. Imperocché questi chiamavano Eupatridi
principalmente o patrizj li più distinti per nascita, e più potenti per danaro,
a’ quali afQdavasi la cura della repubblica : e chiamavano agrici, o rustici
gli altri che di niente eran arbitri sul comune: ma col volger degli anni
furono ancor essi elevati agli onori. Per tali cagioni dicono gli scrittori più
credibili delle cose romane che Padri fossero nominati que’ valentuomini, e
patrizj i squadre de cavalieri erano divise in decurie come i chiaro da Varrooe
e da Polibio. li. i35 loro discendenti.
Ma coloro che guardano 1’ affare con occhio d’ invidia, e malignano su le
origini vili di Ror ma, non dicono che i patrizj avessero questo nome per tali
cagioni, ma perchè soli potevano additare gli autori della loro generazione ;
quasi gli altri non fossero che vagabondi, o senza liberi padri. E davano per
sicuro argomento di ciò, che quando piaceva al re di convo> care i patrizj,
gli araldi gl’ intimavano pel nome loro e per quello ancora de’ padri ; laddove
pochi banditori invitavano alle adunanze i plebei rinfusamente col buccinare
de’ corni da bove : ma nè la intimazione per mezzo di araldi è buon segno degl’
ingenui natali, nè il snon della buccina è simbolo della ignobilità de’plebei:
ma la prima recavasi per onorificenza ; spandevasi l’altro per compendio ; non
riuscendo invitare in poco tempo a nome tutta la moltitudine. IX. Poiché Romolo
segregò li più degni dai men riguardevoli, ordinò per leggi le incombenze degli
uni e degli altri. Adunque stabili che i patrizj intenti con esso alle cure
pubbliche fossero i sacerdoti, i magistrati, i giudici, ma che li plebei,
liberi da tali sollecitudini per la imperizia e per la penuria, lavorassero le
terre, allevassero i bestiami, ed esercitassero le arti mercenarie, perchè non
sorgesse fra loro sedizione, come in altre città, quando gli uomini di grado
spregiano gli ignobili, o quando i vili c poveri invidiano la preminenza degli
altri. Affidò, qual deposito, a’ patrizj i plebei, concedendo a ciascuno di
questi di eleggersi liberamente tra quelli un patrono. Greca antica
consuetudine era questa ritenuta lungamente da’ Tessali, e dagli Ateniesi quando ancora conoscevano il meglio : ma poi
declina rono al peggio, ed insolentirono su’ clienti; comandando loro cose non
degne di uomini ingenui, minacciandoli di battiture se non ubbidivano, ed
abusandoli con altre maniere, quasi schiavi comperatiGli Ateniesi chiamavano
Thitas pe’ servigi che rendevano, i Clienti, ed i Tessali li chiamavano
Ponesti vituperandone fin col nome
stesso la condizione. Ma Romolo fregiò con nome conveniente, chiamandola
patronato, la garanzia de’ bisognosi e degl’ infimi : e date all’ uno ed all’
altro utili cure, ne rendè la congiunzione benevola veramente e cittadina. X.
Le obbligazioni stabilite da lui sul patronato e conservatesi lungo tempo tra’
Romani erano queste: doveano i patrizj informare i clienti della legge che
ignoravano, doveano prender cura di loro ugualmente, fossero o no presenti, e
far su di essi come i padri su’ figli, quanto alla roba, ed ai contratti su la
medesima ; movendo liti pe’ clienti se altri ne era danneggialo, su contratti,
e subendola, se altri la moveano. E per dir molto in poco, doveano proctware.
ad essi tutta la ti'anquillità della quale abbisognavano nelle cose domestiche
e nelle pubbliche. I clienti a vicenda se i patroni scarseggiavano di beni
doveano coadiuvarli, maritandosene le figlie : doveano riscattarli da’ nemici
se alcuno di essi Diouigi qui paragona i
clienii Romani, i TMti drgli Ateniesi ed i Penesti dei Tessali : ma i Thili
erano almeno liberi, e servivano per la miseria o pe' debiti. 1 Penesù dei
Tessali erano un intermedio tra gli schiavi e gli uomini liberi. Non era cosi
de’ c.ieuti Romani. Questi non di raro parteggiavano o superavano la fortuna
dc'pauoui. ir. 187 o de’ figli rtmaDeva
prigioniero : pagare del proprio per loro non a titolo di prestito, ma di
gratitudine le liù perdute, e le pubbliche multe tassate in moneta : e
concorrere quasi ne spettassero alle famiglie, nelle spese di essi per le
magistrature, per gli onori, e per le altre pubbliche dimostrazioni. Quanto ad
ambedue poi non era lecito o giusto pe’ clienti o patroni che gli uni
accusassero gli altri ; che si dessero testimonianze e voti contrari ; o si
lasciassero cercare gli uni per nemici degli altri. E se alcuno era convinto di
aver fatto l’opposito, soggiaceva alle leggi di tradigione promulgate da Romolo
: ed era per chiunque santa cosa lo ucciderlo, come vittima a Dite ; costumando
i Romani di consagrare agl’Iddj, spezialmente infernali, le persone alle quali
volevano impunemente dare la morte, come fece allora anche Romolo. Adunque
perseverarono per molto tempo tramandandosi da figlio Jn figlio le congiunzioni
dei patroni e dei clienti, senza che niente differissero dai ligami strettissimi
di parentela. Ed era gran lode per uomini d’ inclita stirpe aver clienti in più
numero, custodendo i patrocini lasciati loro dagli antenati, ed acquistandone
altri ancora colla propria virtù. E meravigliosa era la gara di ambedue per non
lasciarsi vincere gli uni dagli altri nella benevolenza ; proferendosi li
clienti a far quanto potevano verso de’ patroni ; nè volendo i patrizi dar loro
molestia con riceverne danari in dono. Così era tra loro il vivere condito con
ogni diletto ; e. la virtù non la sorte era la misura della felicità. XI. Non
solamente poi vivea sotto l’ ombra de’ patrizi i38 la plebe di Roma; ma quella
delle colonie di lei, quella delle città confederate ed amiche, e quella ancora
delie conquistate colle armi tenevasi per custode e protettore qual più voleva
de' Romani. E più volte il senato rimettendo ai protettori le controversie di
città e di nazioni confermò le sentenze date da essi. Anzi era tanta la
concordia de’ Romani cominciando dall’ ora che Romolo ne fondava i costumi, che
mai per secento venti anni tumultuarono con stragi e sangue, sebbene nasces
sero intorno del comune molte e gravi dispute tra la plebe e li magistrati,
come nascono in tutte le città, picciole o popolose : ma illuminandosi, e
persuadendosi a vicenda, e parte concedendo, parte ottenendo racchetavano le
interne dissensioni. Dacché però Cajo Gracco, divenuto tribuno, sconvolse 1’
armonia della città, non cessano dal sopraffarsi colle stragi e con gli esilj ;
nè risparmiano misfatto per vincersi. Ma per dir tanti mali avrem poi luogo più
acconcio. XII. Ordinate tali cose, ben tosto Romolo deliberò di creare i
consiglieri co’ quali dividere le pubbliche cure, e trascelse cento de’ patrizj
cosi facendone la separazione. Prima nominò fra tutti il più idoneo, a cui si
afBdasse lo stato, quando egli coll’ esercito uscirebbene dai confini. Quindi
prescrisse a ciascuna tribù di scegliersi tre uomini, savissimi per età come
insigni per nascita. Fissati questi nove impose ancora che ciascuna delle curie
eleggesse tre li più opportuni fra li patrizj. Infine unendo ai primi nove
dichiarati dalle tribù li novanta determinati col voto delle curie, e facendo
presidente di tutti quell’unico prescelto da lui ; compiè la serie di cento
consiglieri. Potrebbe il consesso di pesti signiBcare tra’ Greci un senato, e
con tal nome chiamasi appunto tra’ Romani. Nè io saprei deGnire se un tal nome
se lo acquistasse per la età senile, o per la virtù dei membri che vi furono
incorporati. Certo solcano gli antichi dir seniori i più maturi negli anni e
nelle opere. Quanti ebbero luogo in senato furono chiamati e si chiamano ancora
Padri Coscritti. Greca isti-tuzione era questa : perocché quanti regnavano, sia
pei^ chè succeduti a’ diritti paterni, sia perchè nominati capi dalla
moltitudine, aveano un consiglio di ottimi uomini, come attestalo Omero, e
poeti antichissimi : nè le monarchie primitive de’ principi erano, come ora,
assolute, e Gsse agli arbitrj di un solo. XIII. Ordinato il consiglio de’ cento
seniori, vedendo che egli avea bisogno di una gioventù regolata da usarla in
guardia del corpo suo, come per incumbenze di affari pressanti, unì trecento i
più robusti delle più insigni famiglie. Le curie nominarono ciascuna dieci di
questi giovani come aveano nominato li senatori ; ed egli tenea sempre con sè
tali uomini. E tutti, panti erano stabiliti in quella schiera, aveano il nome
di Celeri, come dai più si scrive, per la speditezza ne’ loro servizj ;
chiamandosi Celeri dai Romani gli uomini pronti e spedili nell’ operare. Ma
Valerio Anziate dice che lo derivarono dal duce loro, Celere nominato. Era un
tal duce riguardevolissimo nel suo grado ; ed a lui ubbidivano tre centurioni,
ed a’ centurioni altri capitani minori. Questi lo accompagnavano per la città
colle aste, pronù ai suoi cenni: ma nel campo erano propugnatori e custodi : e
spesso dirigevano a buon fine ia battaglia,primi a cominciarla, ed ultimi a
levarsene. Combattevano, dove il luogo consenti vaio, a. cavallo; ma appiè,
dove era aspro, nè proprio da cavalcarvi. Sembrami cbe un tal uso lo derivasse
da’Lacedemoni coll’intendere die tra quelli vegliavano alla custodia dei re, e
li proteggevano nelle guerre giovani generosissimi, buoni per militare a
cavallo ed appiede. XIV. Composte in tal modo le cose, comparti gli onori ed i
poteri cbe volevano in ciascuno ; prescegliendone tali primizie pe’ monarchi.
Volle dunque cbe avesse il -re primieramente la presidenza de’ templi e de’
sagrifizj, e che tutte per lui si compiessero le sante cose in verso de’ Numi :
cbe fosse il custode delle leggi e dei patrj costumi: che avesse cura dei
diritti provenienti dalla natura o dai patti : che esso giudicasse delle
ingiustizie capitali ; ma rimettesse il giudizio su le altre ai senatori, e
provvedesse che niente si peccasse ne’ tribunali: cannasse il Senato,
convocasse il popolo, e primo vi dicesse il parer suo, ma seguitasse quello dei
più. Tali sono le prerogative che egli riservò pe’ monarchi, oltre quella di un
comando indipendente nelle guerre. Al consesso poi de’ senatori attribuì questi
onori, e questa autorità : cioè, che esaminassero le cose che il re proporrebbe,
e ne votassero, ma vi prevalesse la sentenza dei più. Trasse quest’ uso ancora
da' Lacedemoni : perciocché li re de’ Lacedemoni non si preponderavano da fare
a lor modo, ma l’ autorità su-t prema terminavasi nel senato. Lasciò da ultimo
al popolo il potere di eleggere i magistrali, di appro-, l4l Tare le leggi e
discutere intorno la guerra quando al re ne paresse, non però deOnitivamcnte se
contrario tosse il senato. Il popolo dava i sufTragj non tutto in un corpo, ma
convocato per curie ; e riferivasi poscia al senato ciocché le più
sentenziavano. Ora cangiata è la consuetudine ; imperocché non è il senato che
ratifica le sentenze del popolo ; ma il popolo è 1’ arbitro delle sentenze, del
senato. Io lascio, che chi vuole esamini quale di queste due consuetudini sia
la migliore. Con tali scompartimenti le cose civili prendeano marcia savia e
regolata, e le militari altresì la prendeano docile e pronta. Imperocché quando
fosse piaciuto al re di muover l’ esercito, non aveansi a creare i tribuni
dalle tribù, nè li centurioni dalle centurie, nè li maestri dai cavalieri ; nè
restava àd alcuno di essere coscritto, o scelto, o di ricevere il posto che gli
conveniva. Ma il re intimava i tribuni, e li tribuni i centurioni. All’ avviso
di questi ciascuno dei decurioni cavava i soldati, subordinati a sé stesso.
Così per un solo comando la milizia, secondo che era chiamata, in parte o del
tutto, presentavasi colle arme al luogo destinato. Xy. Romolo abilitando la
città pienamente per la pace e per la guerra con tali istituzioni, la rendè con
esse grande e popolosa : obbligò primieramente gli abitanti ad allevare tutta
la prole virile, e le primogenite delle femmine, con ordine che non uccidessero
niun infante più recente di tre anni, se pure non era storpio, o mostruoso fin
dalia nascita. Tali sconci bambini non proibì che via si esponessero, se
presentatigli a cinque uomini dei più vicini, vi consentissero. E per chi
vioDigitized by Google i43 delle Antichità’ romane lasse questa legge stabili
fra le altre pene la con6sca di una metà delle loro sostanze. Considerando poi
che molle delle città d’ Italia erano miseramente premute dalla tirannide di
uno o di pochi; procurò di ricevere e di tirare a sè li tanti che ^ne fuggivano,
purché fossero liberi, senza esaminarne i pregiudizi, o la sorte, e tutto per
ampliare la potenza romana, e diminuire quella de’ vicini. Adunque fe’ ciò
cogliendone una bella occasione su le apparenze di onorare gl’ Iddi!. Fondatovi
un tempio, non saprei deci ferace a quale de’ Numi, o dei genj, dichiarò come
asilo per chi ricorrevaci il luogo tra ’l Campidoglio e la fortezza, ora detto
nell’ idioma de’ Romani il basso tra le due selve, e nominato allora cosi, per
essere quinci e quindi coperto dalle ombre delle piante amplissime delle terre
contigue ai due colli. Inoltre per la riverenza de’ Numi, promise a chi
rifuggivasi al santo luogo che non ci avrebbe molestie dai nemici, anzi, che se
voleva albergare presso di lui, parteciperebbe ai diritti sociali, ed alle
terre che leverebbe altrui guerreggiando. Pertanto vi si affollavano d’ ogn’
intorno uomini che fuggivano i mali domestici ; nè altrove poi si trasferivano
allettati dai colloquj, e dalle cortesi maniere di lui. XVI. La terza
istituzione di Romolo, degna soprattutto che i Greci la osservassero, e certo
la migliore, come io penso di tutte, la quale fu principio della libertà
stabile de’ Romani, nè poco contribuì per la formazione dell’ impero, la terza
istituzione fu di non uccidere tutta la pubertà delie città debellate, nè di
ridurre queste come terre da pascervi, ma di mandare \ li: 1 43 in esse chi se
ne avesse in parte i campi, e di renderle, quando erano vinte, colonie de’
Romani, e talvolta ancora di ammetterle ai diritti stessi di Roma. Introducendo
queste e simili pratiche fe' grande la colonia sua di picciola, come la cosa
stessa dichiaralo. Imperocché quelli che fondarono Roma con esso, erano non più
che tremila fanti nè meno che trecento cavalieri ; laddove quando egli spari
dagli uomini vi lasciò quarantaseimila fanti, e poco meno che mille cavalieri.
Ma se egli basò tali regole, le custodirono poscia i re die gli succederono, e
dopo i re li magistrali che pigliavano di anno in anno il comando,
aggiungendone altre per modo, che il popolo romano trovasi non inferiore a
niuno tra quanti sembrano i più numerosi. XVII. Ora paragonando con questi i
Greci costumi, non so come lodare le pratiche de’ Lacedemoni, dei Tebani, e
degli Ateniesi che tanto pregiano sé stessi per sapere. Essi gelosi troppo
dell’ incorrotto loro lignaggio, non comunicarono se non a pochi i diritti
della propria repubblica, per non dire che taluni ripudiavano anche gli ospiti.
Da tale arroganza però non solo non raccolsero alcun bene, ma gravissimamente
ne scapitarono. Cosi gli Spartani battuti nella pugna di Leuttra con perdervi
mille settecento de’ suoi : non solo non poterono mai più rilevarsi da quel
danno, ma deposero turpemente il comando : e cosi li Tebani, e gli Ateniesi per
la sola sconfitta riportata in Cberonea furono in un tempo spogliati da’
Macedoni e della preminenza su la Grecia, e della libertà. Ma Roma, brigata in
guerre gravissime nella Spagna e nella Italia, brigata a i44 ricuperare la Sicilia e la Sardegna che le si
erano ribel-' late, quando ardevano tutte in arme contro lei la Grecia e la
Macedonia, quando Cartagine eie varasi novamente a disputarle il comando,
quando l’ Italia, non che essere quasi tutta in rivolta, trae vale addosso la
guerra detta di Annibaie ; Roma in mezzo a tanti pericoli, quasi contemporanei,
non solo non si abbattè ; ma ne raccolse forze maggiori che dianzi,
proporzionandosi fino per contrapporle a tutti i mali. Ne consegui già questo
per favore di sorte propizia come alcuni sospettano ; mentre per conto della
sorte sarebbe andata in rovina con la sola sciagura di Canne ^ quando di sei
mila suoi cavalieri ne rimasero appena trecentosettanta, e di ottanta mila
soldati ne scamparono pochi più che tre mila. Ora queste e le cose che io son
per aggiungerne fanno che io prenda meraviglia su Romolo. Imperocché avendo
concepito che le cause dello stato florido di una città sono quelle che tutti
decantano, ma pochi seguitano, cioè primieramente la carità verso gli Iddii,
colla quale tutte le cose degli uomini si risolvono in bene, e secondariamente
la temperanza e la giustizia, per la quale men si offendono e più concordano
fra loro, nè misurano la felicità co’ sozzi piaceri, ma colla rettitudine, e
finalmente la fortezza nel combattere, la quale rende utili a chi le possiede
anche le altre virtù ; ciò, dico, avendo Romolo concepito, non pensò che tali
perfezioni provenissero per sè stesse, ma conobbe che le leggi provvide, e la
bella emulazione nel disciplinarsi, formano appunto una città pia, prudente,
giusta, bellicosa. Adunque molto in ciò vigilando, cominciò dal cullo de’ genj
e de’ Numi : e seguendo le leggi migliori de’ Greci mise in pregio le sanie
cose, io dico i templi, gli altari, le statue, le immagini, i simboli, le
forze, i doni co’ quali gli Dei ci beneGcano, e le feste convenevoli per ogni
genio o Nume; e li sacriGzj coi quali gradiscono essere venerati dagli uomini,
e le cessazioni dalle arme, e li concorsi, e li riposi dalle fatiche, e quanto
si addita di simile. Ripudiò le favole che sen divulgano, sparse di bestemmie e
di accuse contro di loro, giudicandole ree, dannevoH, obbrobriose, indegne di
un uomo dabbene non che de’ Numi ; e ridusse gli uomini a dire e sentire
magniGcamente su’Nu^ mi, non a gravarli di cure aliene da una natura beata.
XIX. Già non si ode tra’ Romani nè Gelo castrato da' Agli, nè Crono che
stermina i figli per timore di essere da loro assalito, nè Giove che scioglie
il regno di Crono, e rinchiude il suo genitore nella prigione del Tartaro. Non
le guerre vi si odono, non le ferite, e le catene e le servitù degli Dei presso
gli uomini : non feste vi si usano atre e dolorose per gli cluiaii e per il
lituo di femmine che piangono gli Dei levati loro, come in Grecia il ratto si
piange di Proserpina, e le avventure di Bacco, e cose altrettali. E quantunque
ornai li costumi vi si corrompano, niuno ravvisa colà nè uomini invasali da’
Numi, nè furie di coribanti, nè baccanali, nè misteri iuelfjbili, nè veglie
notturne di femmine e raaschj nei templi, nè osservanze consimili, ma ravvisa
tutto praticarvisi e dirvisi verso gli Dei con tanta pietà con quanta non si
pratica o dice BIONICI, tomo I. tra’
Greci o tra’ Barbari. Eid io vi ho soprattutto ammirato, che sebbene sieno
venute a Roma tante migllaja di esteri necessitati a venerare ciascuno i suoi
Dii coi riti delle patrie loro ; pure mai questa, come pur troppo succedette ad
altre città, non venne in desiderio di riceverne pubblicamente il culto
peregrino : e seper le risposte degli oracoli introdusse talvolta sante cose
come quelle della madre Idea, le onorò co’ riti suoi propri!, escludendone
quanto ci avea di superstizione e di favola. Quindi i pretori ogni anno
apprestano alla diva Idea sagrifizj e giuochi secondo le leggi romane : ma un
frigio, ed una donna, fHgia ancor essa, le immolano il sacriGzio. Questi la
recano in giro per la città questuando per la dea come è loro costume, fregiati
di immaginette ne’ petti, movendo il passo, e percotendo i timpani intanto che
altri gli accompagnano col suono delle tibie, e cantano gl’ inni della gran
madre : ma ninuo de’ Romani nativi ornato con veste di vario colore va per la
città questuando o sonando di tibia, o venerando con frigie adorazioni la
diva ; e tutto è secondo le leggi ed il
voto del senato. Tanto è cauta la città su gli usi forestieri interno de’ Numi
; e tanto ne ripudia le osservanze vane nè decorose ! Questo (ratto su la madre Idea non è ben
chiaro. Sembra che il culto de lei fosse ricerulo ed eseguito in una parte
solamente colle leggi romane. Quei riti che non erano ricevati non poteano
esercitarsi dai Romani. Dei resto Dionigi forse afferma senza verità che gli
Dei forestieri adottati in Roma non si veneravano co' riti ancora de'
forestieri. Arnob. lib. a e Valerio Massimo lib. primo possono dimostrare il
contrario. Nè credasi che io non sappia che alcune delle favole greche sono
utili agli uomini. Certamente talune dimostrano allegoricamente le opere della
natura : e talune furono simboleggiate per confortarci ne’mali; altre levano i
'turbamenti ed i terrori dell’ animo, e lo purgano dalle opinioni non sane, ed
altre ancora per altro buon termine furono immaginate. Ma quantunque io nommeno
che gli altri, conosca tali cose, pure vi sono assai cauto, ed ammetto piuttosto
la teologia de’ Romani; considerando che tenui sono i beni derivati dalle
favole greche e che non possono far utile se non a pochi, a quelli cioè che
investigano le cagioni per le quali furono inventate. Ora ben rari possiedono
questa fìloso6a ; ma la moltitudine ignorante suole rivolgere al peggio i
discorsi che se ne fanno, e patirne 1’ una o l’altra miseria, cioè di spregiare
gl’ Iddii come implicati in 'tanto malfare, o di non contenersi m.ii più da
ingiustizie e da vituperi, vedendo die sono questi gli esercizi de’ Numi. Ma
lascisi ciò da contemplare a quelli che que sta parte sola si appropriano di
filosofia. Quanto al governo istituito da Romolo io reputo degne della storia
queste cose ancora : e primieramente il numero delle persone che egli deputò
per le cure religiose. Certo niuno potrebbe additare in altra nuova città
stabilitovi fin da’, principi .tanto sacerdozio e tanto ministero dei Numi. Per
non dire de’ sacerdoti gentilizi, furono sotto il regno di lui creafi sessanta
'sacerdoti che fornissero le pubbliche divine funzioni delle curie e delle
tribù. Nè io qui ridico non le cose che descrisse nelle sue antichità t
Terrenzio Varrone, peritissimo tra quanti Borirono ai suoi tempi. Poi siccome
altri per lo più fanno ineonsideratamente, e malamente la scelta de’ sacri
ministri ; siccome altri ne mettono a prezzo le dignità per la voce de’
banditori; e siccome altri infine le compartono a sorte; egli non volle che
fossero il premio dell’argento, o della sorte, ma decretò che si nominassero da
' ogni curia due uomini, maggiori di cinquanta anni -, pteeminenti di lignaggio,
insigni pe’ meriti, agiati abbastanza di averi, nè difettosi in parte della
persona. E comandò che questi avessero quegli onori non a tempo ma durante la
vita, e che essendo per la età già liberi dalle cure militari, lo fossero per
legge dalle politiche. E siccome alcuni sagrifizj si aveano a fare dalle
femmine, ed altri da’ giovani, aventi tuttavia padre e madre ; cosi perchè
questi ancora degnamente si amministrassero, ordinò che le donne de’ sacerdoti
fossero le compagne de’ mariti ancora nel sacerdozio ; che esse compiessero le
sante cose che le leggi della patria non permettevano agli uomini, ed i figli
loro prestassero il servigio, proprio de’ giovani: Che se non avevano prole
scegliessero dalle altre case nella curia loro i più graziosi tra’ fanciulli e
fanciulle, perchè ministrassero, quelli fino alla pubertà, queste finché erano
pure senza le nozze. Io credo che Romolo derivasse questé pratiche ancora da’
Greci ; mentre ciò che ne’ Greci sacri Qnesii fanciulli cosi eleni anche dalle
altrui case erano chiamati Camillì e Camille. Plutarco nella vita di Numa
accenna elio cosi chiamavansi que’giovinelti che ministravano 1 sacerdote di
Giove,. 1 49 ficj forniscono quelle che Canifore si domandano, lo compiono tra’
Romani quelle che Camille son dette,
cinte di ghirlande la testa, come da’ Greci la testa inghirlandasi delle statue
di Diana Efesina. E quanto èseguivano un tempo fra’ Tirreni e prima già fra’
Pelasghi i Cadolj nelle adorazioni dei Cnreti e degli Dei Grandi, lo
ministravano nel modo medesimo ai sacerdoti i garzon celli nominati Camilli
tra’ Romani. Prescrisse inoltre che intervenisse da ciascuna tribù ne’ sagriGzj
un indovino, che noi chiameremmo Jeroscopo, ed i Romani chiamano aruspice,
serbando in qualche tenue parte la denominazione primitiva ; e statuì, che li
sacerdoti ed i ministri loro fossero tutti nominati dalle curie, ma confermati
da quelli che interpretavano i voleri de’ Numi colla divinazione. XX [II.
Ordinate tali cose intorno al servigio divino, divise ancora, secondo che era
per cosi dire opportuno, alle curie le sante cose, destinando a ciascuna i Numi
ed i genj che in perpetuo adorerebbe ; e tassò per le sante cose le spese che
aveansi a supplire dal pubblico. Celebravano coi sacerdoti le curie i sagriGzj
a loro assegna ti. facendo per le feste il convito nelle case delle curie.'
Perocché vi era in ciascuna curia un cenacolo, ed insieme vi era un’ edifizio
comune, consacrato per tutte ; -.come i Pritanei tra’ Greci. Que’ cenacoli,
quegli edifizj, curie si, chiamavano, e si chiamano, come le partizioni stesse
del popolo (a). E tale istituzione sem. (j) La voce Camille manca nel tetto :
ma par troppo coerente colla totalità del senso, Canifore vai quanto portatrici
de' canestri. (a) Varroiie uellil>. 4 della lingua latina diceche gli
edirizj ciitabrami che Romolo se l’ avesse dalla disciplina che fioriva allora tra’
Lacedemoni ne’ riti sociali. Licurgo avea ciò, fluttua quella fra le tempeste ;
e che però debbe un uomo savio di stato, legislatore o sovrano che sia dar
leggi che rendano i privati prudenti e giusti nei vivere; Ma qon tutti mi
sembra che vedessero egxialmente còn quali industrie e leggi si rendessero tali,
e sembrami che alcuni assai, per non dire interamente, mancassero, nelle parti
essenziali e primarie della legi.slazione.; come subito ne’sposalizj e nel
convivere colle femmine, donde un legislatore dee cominciare, come ne cominciò
la natura l’ ordine armonioso di noi tutti. Imperciocché taluni pigliando
esempio dalle bestie vollero i congiungimenti del maschio colla femmina
promiscui e liberi, quasi fossero cosi per liberare la vita dalle furie
amorose, e preservarla dalie gelosie che uc> cidono, e rimoverla dai tanti
mali che per causa delie femmine invadono le intere città, non che le famiglie.
Altri esclusero dalla città tali silvestri e ferali eoocu bili accordando un
uomo per una donna : in custodia però delle nozze, e della moderazione delle
mogli, non tentarono più o meno far leggi, ma se ne astennero; quasi
impossibile fosse il contrario. Aluri nè lasciarono, come taluni de' barbari,
le cose amorose senza leggi, nè le mogli senza premunirle come i Lacedenàoni,
ma vi promulgarono molte e castissime regole. E vi furono pur quelli che
fondarono un magistrato che invigilasse intorno la purità femminile : ma non
bastarono tali provvidenze alla cura. Fu quel magistrato languido più del
dovere, nè potè ridurre a pudicizia chi mal ci avea contemperata la natura.
XXV. Ma Romolo non dando azione all’uomo contro donna se adulterava, o se
abbandonavagli la casa ; nè dandola alla femmina che accusava l’uomo di pessima
amministrazione o d’ ingiusto ripudio ; non formando leggi sul ricevere e sul
restituirsi della dote, nè definendo altra cosa qualunque, consimili a queste;
ne stabilì solamente una, migliore assai ( come il fatto dichiarò) delle altre,
colla quale fe’ le donne' savie e pudiche e di ogni onoralo contegno. E la
legge fu: che la femmina maritala la quale secondo le sacre leggi recavasi alt
uomo, divenisse partecipe de’ beni e delle sacre cose di lui. Gli antichi
chiamavano con formola romana nozze sacre e legittime la confarreazioiie per
l’uso conume del farro .che. noi Zea chia. I 53 nilamo. E come noi Greci
tenendo l’orzo per antichissimo diam principio con esso a’ sagrifìzj ; ed
questo. cliiamiamo: cosi li Romani giudicando cibo primitivo e pregevolissimo
il farro; incomincian col farro, quante volte una vittima si abbruci. E ul rito
persiste, nè si compensò con altre squisite primizie. L’ essere le donne fatte
partecipi con gli uomini di un cibo il più sacro e primitivo, e della sorte di
essi, qualunque fosse, aveva un nome dalla comunanza del farro, e ciò portava
un ligame indissolubile di appropriazione, e niente polca disfare quel
matrimonio. Questa legge necessitava le mogli eome prive d' altro rifugio a
vivere co’ modi di chi aveasele maritate, e faceva agli uomini tenere le donne
come cose proprie nè separabili. Quindi una moglie pudica e docile in tutto al
marito, era appunto come r.uorao, l’ arbitra della casa. Morendo 1' uomo, ne
era la erede, come la figlia del padre : se moriva senza figli e senza
testamento, essa era la padrona di ogqi cosa lasciata da lui, ma se avea de’
figli essa era coerede di parte eguali con questi. Che se colei peccava, avealo
giudice della delinquenza, cd arbitro della grandezza della .pena : se non che
li parenti ancora insieme coir uomo la giudicavano fra le altre reità, se avea
contaminato il suo corpo, o se bevuto del vino, mancanza certo nel parere de’
Greci tenuissima. Ambedue queste colpe, come le estreme delle colpe femminili,
ordinò Romolo che si -castigassero : la contaminazione qual priimipio d’
insania, e la briachezza qual principio della contaminazione. E lungo tempo
seguirono ambedue queste colpe ad avere odio implacabile tra’Romani. Ora che
buona fosse questa legge su le donne; lo at> testa la esistenza lunga di
essa ; consentendosi che per dnquecento venti anni non si sciolse in Roma niun
matrimonio. Solamente narrasi, che sotto il consolato di Marco Pomponio, e di
Cajo Papinio, nella olimpiade centesima trentesima settima Spurio Garvilio,
uomo non ignobile, il primo lasciasse la moglie, costretto Innanzi però dai
censori di giurare, che la donna sua non abitava in sua casa per generare con
esso. Certamente la sua donna era sterile: ma egli per quest’ opera, quantunque
la necessità ve lo' inducesse, ne ‘incorse r odio perpetuo del popolo. Tali
sono le leggi egregie di Romolo colle quali rendè le donne piu disposte inverso
de’ -mariti. Assai più gravi e più convenienti di queste e molto diverse dalle
nostre sono le leggi sul rispetto e su la corrispondenza de’ 6gli, perchè
onorino I genitori col dire e col fare quanto comandano. Coloro che ordinarono
i governi de’ Greci, istituirono che i' figli rimanessero un tempo, troppo
breve, sotto la potestà dei loro padri: vuol dire istituirono alcuni che vi
restassero tre anni dopo la pubertà ; altri, fin che erano celibi ; ed altri
finché non erano scritti nelle curie pubbliche: e questo a norma della
legislazione appresa da Soloné, da Pittaco, da Caronda, uomini di sapienza
riconosciuta. Preordinarono ancora delle pene ; ma non gravi su'figli indocili,
permettendo ai padri di espellerli e diseredarli e non altro. Ma le pene miti
uon bastano a correggere la precipitanza e la caparbietà de’ gióvani, nè a
renderli nel bene attenti di trascurati. Dond’ è che assai. l55 vlluperii si
commettono da’ Ogli contro de’ padri nella Grecia. Ma il legislatore di Roma
diede a’ padri sul • figlio per tutta la vita autorità compiuta di escluderlo,
di batterlo, di vincolarlo a’ lavori campestri, e di ucciderlo ancora se cosi
volessero, quantunque il figlio già trattasse le cose pubbliche, già sedesse
tra’ magistrati supremi, e già si avesse gli applausi per lo zelo suo verso del
popolo. In forza di questa legge uomini ragguardevoli concionando da’ rostri su
cose contrarie al ' senato', e care al popolo e divenuti perciò famosi, furòno
di là staccati e rapiti altrove da’ padri, perchè subissero la pena che iie
voleano ; e traendoseli per lo foro, ninno potea liberarli non il console, non
il tribuno, e non la plebe da essi adulata, sebbene questa valutasse tutti men che sé stessa in potere.
Ometto di dire quanto i padri uccidessero de’ valentuomini, spintisi per virtù
e per ardore a far magnanime imprese ma diverse da quelle prescritte dai padri,
come abbiamo di Mallio Torquato e di altri, de’ qnali diremo a suo tempo. Né il
legislatore di Roma ristrinse a questo soltanto i padri; ma permise loro anche
di vendere i figli, niente attendendo che altri vinto dalla sua tenerezza
riprendesse la concessione come dura e gravosa. SopratUttto, chi fu allevato
colle maniere molli de’Greci riguarderà come a(Cerbo e tirannico, che lasciasse
i padri utilizzare su’ figli eoi venderli fino a tre volte, dando licenza più
grande a’ padri sn’ figli che non a’ padroni su gli schiavi. -.Perocché il
servo venduto una volta se riacquista poi la libertà rimane in seguito padrone
di sè : ma il figlio venduto dal padre se diviene libero ri-' cade di nuovo
sotto il padre: e quantunque rivenduto e liberatosi per la seconda volta; pur
trovavasi ancora servo del padre come in principio ; ma dopo la terza vendita
più non era del padre. Osservavano da principio i re questa legge stimandola
rilevantissima, scritta o non scritta che fosse, ciocché non posso decidere.
Disciolta poi la monarchia, quando piacque ai Romani che si affiggessero nel
foro, manifeste ad ogni cittadino., tutte le leggi e le consuetudini patrie e
quelle ricevute di fuori, perchè il diritto comune non finisse col potere de’
magistrati ; i Decemviri che erano incaricati dal ' popolo di compilarle, e
distenderle, scrissero ancora questa legge colle altre: e trovasi nella quarta
delle dodici tavole, che chiamano, che essi esposero nel .fòro. Che poi li decemviri, eletti trecento t^nni
appresso per la ordinazione delle leggi, non diedero essi i primi questa legge
ai Romani, ma che ricevutala come antica molto, non osarono toglierla, lo
deduciamo da molle fonti,e principalmente dai decreti di Numa tra’quali era
scritto; Se un padre conceda al figlio di prender moglie la quale secondo le
leggi sia partecipe delle cose sacre e de' beni, questo padre non avrà fin dt.
allora più facoltà di vendere il figlio. Or ciò non avrebbe., cosi scritto, se
per le leggi antecedenti non era permesso af padri di vendere i figli. Ma basti
su 'ciò : frattanto voglio dcllneare come in compendio la. bella istituzione
colla quale Romolo ordinò la vita de’ privati. Vedendo che le adunanze
politiche, ove i più sono indocili, non si riJucouo con magistero di. iSj
parole a vivere temperantemente, a preferire il giusto all’ utile, a dumr la
fatica, nè riputare cosa alcuna più onorata del retto procedere ; ma che
piuttosto si dirigono ad ogni virtù colle consuetudini buone ; e vedendo che
quelli ohe si disciplinano anzi di forza che spontaneamente, ben presto, se
niente impediscali, ritornano ai geiij loro; non concedette che ai servi ed a’
forestieri di esercitare le arti sedentarie, illiberali, fautrici dei turpi
desideri, come quelle che guastano e profanano i corpi e le anime di chi vi si
applica. E lungo tempo rimasero queste ingloriose tra’ Romani, e ninno che
nativo fosse di que’ luoghi, vi rivolse le industrie sue. Lasciò solamente per
gl’ ingenui le due cure della cam> pagna e delle armi ; perocché vide che
con tali maniere di vivere gli uomini signoreggiano il ventre, e meno
languiscono tra gli estri amorosi, nè sieguono quella voglia di arricchire che
dissocia i cittadini a vicenda, ma quella che trae 1’ utile dalle terre o da’
nemici. Riputando imperfette, anzi litigiose queste vite se disgiunte, non
ordinò già che una parte si desse ai lavori del campi, e 1’ altra andasse e
derubasse i nemici come la legge disponeva tra’ Lacedemoni; ma prescrisse in
comune li rustici e li militari travagli. Se godea pace, ; costumavali a star
tutti intenti per le campagne, salvo il giorno ( ed erari da lui destinato ogni
nono giorno ) • in cui faceano mercato ; perchè allora amava che accorrendo iu
città vi commerciassero. Ma se prorompeva la guerra, addestravali a farla, e
non cedere gli uni agli altri nel faticarvi o lucrarvi; pèrocchè divideva tra
loro ugualmente, quanto involava al nemico, campi, schiavi, danari, e xciidcali
con ciò volenterosi ad imprendere. Spediva, non prolungava i giudizj su le
offese scambievoli ; c quando giudicavale da sé medesimo e quando per mezzo di
altri: e proporzionava ai delitti le pene. Considerando che la paura più che
tutto respinge gli uomini dalle scelleraggini, coordinò più cose per incuterla,
come un tribunale, ove sedea giudicando, nel più visibile luogo del foro,
imponentissimo l’ apparato de’ soldati, trecento di numero, che lo seguivano, e
le verghe e le scuri portate da dodici uomini li quali nel foro stesso batteano
chi avea colpe degne di battiture, o nella' pubblica luce lo decapitavano, se
altri ne avesse più grandi. Tale fu l’ ordine del governo indotto da Romolo, e
da queste cose ben si può conghietturare su le altre. XXX. Quanto alle altre
opere civili o beUiche di un tal uomo, queste ne furono tramandate, degne che
si intessano ad una storia. Siccome i popoli circonvicini a Roma erano molti, e
grandi, e bellicosi, nè punto amici di essa ; deliberò conciliarseli co’
matrimoni, mezzo gii> dicato dagli antichi saldissimo di procacciar le
amicizie. Considerando però che tali genti non si unirebbero spontaneamente con
loro, nuovi di colonia, impotenti per danaro, e privi d’ ogni gloria di belle
operazioni, e che altronde cederebbero violentati, se oltraggiosa non fosse la
violenza; risolvè, (ciocché avea NumitOre l’avo suo materno già suggerito) di
faré, ed in copia, i 'matrimòni col ratto delle vergini. Cosi risoluto, fe’
Voti al Dio guidatore dei disegni reconditi, che se la prova gli riusciva
appunto come la ideava, gli tributereUie ogni anno e feste e sagrifizj. Quindi
riferito il .disegno in li. 1 5() senato,
e comprovatovi, propose di celebrare giuochi solenni a Nettuno, e ne sparse la
nuova per le città vicine ; invitando chiunque al concorso ed ai giuochi, che
giuochi sarebbero moltiplici di cavalli e di uomini. iVenuii forestieri in
copia alla festa insieme colle mogli e co’ figli, e compiti già li sagriCzj a
Nettuno e li giuochi, infine nell’ ultimo giorno quando era per dimettere la
moltitudine fe’ intendere ai giovini che al dare di un segno certo, tutti
involassero quante a loro ne capitavano, le vergine accorse agli spettacoli, le
custodissero però quella notte inviolate, ed a lui le recassero nel prossimo
giorno. Compartitisi i giovani in truppe non si tosto videro elevato il segno
convenuto ; si volsero a far preda di vergini. Sorgene un tumulto un damore de’
forestieri che maggiore ne sospettavano il male. Condottegli nel prossimo
giorno le vergini, Romolo consolavale disanimate, con dire che tendea quel
ratto a maritarle non a vilipenderle. £ dichiarando che Greco, e primitivo, e
nobilissimo era il modo tenuto da lui tra tutti i modi co’ quali si procurano
le nozze alle femmine ; invitavale ad amare gli uomini che la sorte ad essi
offeriva. Dopo ciò numerando le donzelle e trovandole secenlo ottantalrè ;
scelse bentosto altrettanti de’ suoi non maritati, e con essi congiunsele. Egli
legandole colle nozze secondo il rito della patria, rendeale partecipi dell’
acqua stessa, e del foco ; e quel rito mantienesi ancora. Alquanti scrivono che
avvenne un tal fatto nell’ anno primo del regno di Romolo : Gneo Gellio lo
assegna nell’ anno terzo, e ciò pare più verisimile. Imperocché non èprobabile
che il capo di una città uascente si accingesse a tal opera prima clic ne
avesse costituito il governo. Altri stimano cagione di quel rapimento la
scarsità delle femmine, altri l'impulso a far guerra; ed altri più persuasivi,
a’ quali io m’attengo, la necessità di aver amicizia cogli abitanti vicini.
Ripetevano i Romani anche al mio tempo la festa allora consacrata da Romolo
chiamandola Consuali (t). In essa un altare sotterraneo, scalzato intorno
intorno di terra,, posto vicino al circo massimo, onorasi con sagriOzj, e
primizie che bruciansi. Evvi corsa di cavalli sciolti, o congiunti ai carri.
Conso chiamasi da’ Romani il Nume a cui tributano questi onori : e taluni con
greca interpretazione dicono che sia Nettuno, scotitore della terra, e che si
venera appunto in altari sotterranei, perchè questo Dio possiede la terra : ma
io ne so’ pure altra origine perchè udii che la festa era celebrata per Nettuno,
e per Nettuno li s giuochi equestri; ma che r altare sotterraneo era stato
consecrato infine ad un genio ineffabile, guidatore e custode de’ segreti
disegni. E certamente Nettuno in niun luogo tiene altari invisibili inalzatigli
da’ Greci o da’ barbai'i. Pure è difficile a diffinire come stiasi la verità.
Come la fama del rapimento delle vergini e gli eventi de’ giuochi si sparsero
per le città vicine; altre si corucciaron su 1’ opera, ed altre invesugando 1’
affetto ed il fine ond’era avvenuta, la sopporlavanu in I giuochi isliluili da Romolo nel ratto delle
Sabine furono chiamali Consuali perchè fatti in onore del Dio Conso. Appresso
furono detti Circensi quando Tarquinio Prisco fece il circo massimo. Sembra che
la prima volta fossero celebrali nel campo Marso.. l6l pace. In fine però ne
proruppero delle guerre, alcune sicuriiniente ben facili ; ma grave e
disastrosa fu cjuella co’ Sabini. Felice fu l’esito di tutte, come prima che si
cominciassero ne aveano presagito gli oracoli, i quali significavano che grandi
ne sarebbero i travagli, ed i pericoli, ina lietissimo il fine. Le città che
prime si misero a tal guerra furono Genina, ed Ànlemna, e Crustumero, in
apparenza pel ratto delle vergini e jicr vendicarsene ; ma la cagione vera che
ve le spingeva era la fondazione, era il créscere di Roma divenuta grande in
poco tempo, e la voglia di non trascurare che più si estendesse quel male,
comune a tutti i vicini. Ben tosto dunque spedendo ambasciatori ai Sabini gl’
invitarono perchè fossero i capi nella guerra, essi che erano i più polenti di
arme e di danaro, degni di comandare ai vicini, nè oltraggiali menu degli
altri; essendo le vergini rapite per la maggior parte Sabine. Ma poiché niente
profittavano, pere he gli ambasciadori di Romolo contrariavano, ed
appiacevolivano con parole e con opere quella gente ; stanche alfine di perdere
più tempo coi Sabini i quali esitavano c rimettevano ognora a tempo più rinioto
il consiglio di guerra, destinarono fra loro di combattere esse i Romani;
pensando che avrebbono suificieiiza in sè stesse di forza, se univansi tutte
tre, per invadere una città sola, nè grande. Così dunque si coiicerlarouo ; ma
non si espedirono già per concentrarsi tutti in un esercito ; insorgendo
innanzi gli altri i Ceuiuesl, pi'imarj già nel volere la guerra. Ora avendo
questi mossa l’ armata, e devastando il campo contiguo, Romolo usci colle sue
truppe : e piombando repentinamente su' nemici che non seu guardavano ; ben
presto ne espugnò gli alloggiamenti, che appena erano formati. Poi gettatosi
appressa quelli i quali si rifuggivano nella città, dove non crasi udita ancora
la sciagura dei suoi, non trovandovi nè guardate le mura, nè chiuse le porle ;
la invase a primo impeto, ed uccise, combattendo, e spogliò colle sue mani
delle arme il re di essa venutogli incontro con forz^ poderosa, Cosi prendendo
e comandando la città che gli consegnasse le armi, e togliendosene per ostaggio,
que’ gioviui che più volle; marciò contro gli Antemnati. Rendutosj colla subita
incursione padrone delle milizie di questi, sbandate ancora a far preda, come
crasi padrone renduto delle precedenti, e trattati i vinti nella maniera
medesima; ricondusse a casa l'esercito, recando le spoglie degli oppressi in
battaglia, e le pripiizie delle prede ai Numi i quali onorò con assai sagriSzj.
Andava-, massimo della pompa egli stesso in veste di porpora, e coronato di
alloro le tempie, ma su di una quadriga
per serbare la dignità di monarca. Seguivano Plutarco scrive c>;e Dipoigi uon dice bene
quando afferma che Romolo veniva su di un carro. FwyueAer it vac piia-tt
Aisrue-rur. Tito Livio scrive che Roipolo spolia ducis hostiunt cacti tuspensa,
fabrieato ad id apté ferculo, gerent, i/t capholium asce/idit. Il Casaubono
pensa che Dionigi per la non piena peiizia delia lingua latiua interpretasse
quel ferculum di ^vio, dal quale derivava tali racconti, per cocchio;' quando
eia ir. ' i63 le milizie de’ fanti e de’ cavalieri, ornate secondo i loro gradi,
magnifìcando gl’ Iddii colle patrie canzoni, ed il capitano con gli slanci di
versi improvvisi. Quelli della citii recatisi loro incontro colie mogli e co’
figli, e schierai isi quinci e quindi per le vie si congraiulavano con essi per
la vittoria, e davano ogni altro segno di ami^ cizia. Entrata la truppa in
città trovò crateri spumanti di vino e mense colme di ogni varieià di cibi
appiè delle case più riguardev.oli pei’chè a piacere vi sì saziasse. Cosi
andava con trofei e sagrifizj la pompa della vittoria istituita la prima volta
da Koniolo, e chiamata dai Romani trionfo : ma ora, trascendendo ogni antica
semplicità, spiegasi magnifica e clamorosa come in tragico rito, anzi per gala
di ricchezze che in prova di virtù. Dopo la pompa e dopo i sagrificj Romolo
edificò su le cime del cimpidoglio un tempio a Giove detto Fé-, retilo da’
Romani : Non era grande il sàiito edificio ; apparendone ancora i primi vestigi,
e vedendosene! iati maggiori meno lunghi oi dal vero chi voglia questo (jiove
Feretrio a cui Romolo offerse le anni, chiamarlo il Dio che tiene i trofei, o
che porge come altri dicono, le spoglie de’ nemici, o il Dio preeminente,
perché supera ed abbraccia tutta intorno la natura ed il movimento degli
Esseri. piutlo.s(o come iuterprela Plulaico ciocché ni direbbe trnfeo. Lo
stesso Plutarco ìoscgiia che Lucio Taripiaio Piiscu fu il (irinio che
tiiuufasse sul cairu. Poiché Romolo ebbe tributalo agl’ Iddìi le primizie ed i
sagrifìzj di ringraziamento, deliberò, prima di far al irò, col senato,
com’erano da trattarsi le città debellate ; ed esso il primo ne dichiarò la
sentenza che ottima riputava. E piaciuta questa come la più sicura e la più
luminosa a quanti erano in quel consesso, ed encomiatone pe’ vantaggi che a
Roma ne risultavano non pur di presente, ma in ogni avvenire; comandò che
venissero a lui le donne di Cenina e di Antemna cadute prigioniere con altre.
Riunitesi sconsolaté^, e prostratesi, e piangendo esse la sorte della patria;
accennò che frenassero i pianti e tacessero e poi disse: hen dovrebbero i
vostri padri, i vostri fratelli, e le intere vostre città subire ogni male,
perchè scelsero anzi che r amicizia la guerra, e guerra non necessaria nè
onesta. Nondimeno abbiamo noi deliberato di essere clementi con essi per molle
cagioni, e perchè apprendiamo la vendetta de' Numi, pronta contro i superbi, e
perchè temiamo la indignazione degli uomini, e perchè giudichiamo essere la
compassione compenso non lieve de' mali comuni, noi che già la dimandavamo dagt
altri : e finalmente perchè pensiamo che ciò non sarà caro e grazioso poco per
voi, congiunte finquì co' vostri mariti senza che possano querelarsene.
Condoniamo questo delitto, nè togliamo a’ vostri cittadini non la libertà, non
i poderi, non altro bene qualunque. Lasciamo noi dunque ( nè già se ne avranno
a pentire) lasciamo libera a tutti la scelta di rimanere in patria se il
vogliono, o di traslatarsene. Ala perchè niente pià faccia abberrare le
vostre città, perchè niente più trovisi
in esse che possa ridividerle dcdla nostra amicizia’, rìputianio
espedientissimo e saluberrimo per la concordia e sicurezza di ambedue se le
rendiamo colonie di Roma, e se da Roma vi mandiamo abitanti che bastino. Àndcde
: statevi di buon animo : moltiplicatevi nelt ossequio e nella benevolenza de’
vostri mariti; tra’l dolce sentimento che liberi per voi sono i vostri figli,
liberi i vostri fratelli, libere le patrie vostre finalmente. Ti-ipudiando in
udir questo le donne e lagrimando viva^ niente di gioja partirono dal Foro.
Romolo mandò in ciascuna città trecento uomini e le città cederono ad essi,
dividendolo a sorte, il terzo de’ loro terreni. In opposito menò in Roma quanti
Antemnati e Ceninesi vollero trasferirvisi, e raeuovveli colle mogli e co’
figli mentre ritenevano in que’ luoghi i campi ad essi toccati, e portavano
seco il danaro che possedevano. Li descrisse il re ben tosto nelle curie e
nelle tribù ; nè furono men di tre mila : tanto che ne’ cata-^ loghi romani si
numerarono allora la prima volta sei mila fanti. Genina ed Antemna città non
ignobili avean greco lignaggio : imperocché tolte ai Sicoli caddero in potere
degli Aborigeni, i quali erano una parte degli Oeijoirj, venuti già dall’
Arcadia, come nel primo libro fu detto, ma ora finita la guerra divennero
colonie romane. Romolo dopo ciò condusse
Tesercito incontro de’ Crustumerini, apparecchiati meglio che i primi : e
vintili, quautiinque stati fortissimi , nella battaglia Qui Dionigi è contrario a Livio il qnale
scrive:' Poi t’in \ in campo e su’ muri, non volle che patissero più oltre; ma
fece della città, come delie altre una colonia romana. Era Cruslumero colonia
degli Albani speditavi mollo tempo innanzi di Roma. Divulgando la fama in molte
città la fortezza militare del capitano e la clemenza in verso de’ vinti; si
congiunsero ad esso ancora non pochi valentuomini ; i quali con tutte le
famiglie a lui trasferendosi, gli recarono forze non dispregevoll. Ed uno de’
colli di Roma ancora chiamasi Celio, da Celio che uno fu di que’capi venuti
dalla Etruria. Anzi a lui si diedero Intere città, cominciando dalla città dei
Medullini, le quali divennero colonie romane. I Sabini al veder ciò se ne
conturbarono, accusandosi a vicenda che non avessero messo iiu argine alla
monarchia dei Romani in sul nascere, o che si avessero a brigare con lei fatta
già grande. Nondimeno parve ad essi che fosse da correggere il primo errore
collo spedire un esercito rispettabile. E riunitisi a congresso In Curi la più
cospicua e la più imponente delle loro città, vi decisero co’ loro voti la guerra
; creaudone generalissimo Tito Tazio re dei Cureli. Deliberato ciò
ripatiiaronsl e prepararono i Sabini la guerra per marciate In su la nuova
stagione con esercito poderoso contra Roma. Intanto Romolo si apparecchiò
fortlsslmamente onde jìsosplugere uomini fiorentissimi in arme. Elevando le
mura del Palatino e torrioni più alti di camminò contro de Crustomenesi g i
quali portavano la guerra z ftia qui ci ebbe men di contrasto perchè già gli
animi erano abbaia tuli per le sconfitte degli altri 1 67 esse perché dentro vi si stessè con
sicurezza, e circondando con fossi e irincere 1’ Avventino, ed il Campidoglio
che ora chiamano, colli ambedue dirimpetto dei primo, e presidiandone l’uno e
l’altro con salda guarnigione; ordinò che nella notte vi si riparassero e
greggio e villani. Munì similmente con fossi e palizzate, e guardie ogni altro
luogo opportuno per la loro salvezza. Intanto Lucumone, divenuto amico suo non
molto di prima, Lucumone uomo operoso ed insigne nelle arme, venne a lui con
buon sussidiodi Toscani da Vetulonia ; e vennero pure da Albano in copia, ( e
mandavagli 1’ avo materno ) combattitori. commissari, arteBci di militari
stromenti. Diè loro frumento ed arme e quanto facea di mestieri, e largamente
ne diede per ogni vicenda. Poiché furono apparecchiati ambedue per r impresa, i
Sabini al sorgere della primavera, ornai sul pnnto di cavar le milizie,
deliberarono di spedire, e spedirono prima a’ nemici un ambasceria la quale
esigesse le donne e la soddisfazione della rapinà di esse ; perchè se ’l giusto
non ottenevano, apparisse che spinti dalla necessità davano alle arme. Romolo
pregò in opposito che si permettesse alle donne rimanersene con quelli a’ quali
si erano maritate giacché restie non ci convivevano: che se abbisognavano di
altra cosa, volessero da lui riceverla come da un amico, non lo investissero
colla guerra. I Sabini non contentati in alcuna dimanda menarono in campo
venticinque mila pedoni e quasi mille cavalli. Non molto differiva dalla
milizia sabina la romana ; numerosa di ventimila fanti, e di ottocenfp
cavalieri, ed accampatasi divisa in due parli dinanzi la città, teneva con una
parte il colle Esquilino sotto gli auspicj di Romolo, e con l’altra il
Quirinale ( che allora non avea questo nome ), e Lucumone il Tin'eiio erane il
capitano. Al conoscere tali disposizioni Tazio re dei Sabini levandosi di notte,
traversò coll’ esercito la campagna, non già per danneggiarla, ina per mettersi
prima del nascer del sole in sul campo tra ’l Quirinale ed il Campidoglio. Ma
vedendo che tutto era custodito dalle guardie vigili de’ nemici, e che non ci
avea luogo sicuro per lui, cadde in gravi dubitazioni senza rinvenire intanto
come avea da usare quel tempo. Fra tante dubitazioni sorsegli una prosperità
non pensata ; essendogli consegnato un de’ luoghi fortissimi con questo
successo. Rigirandosi appiè del colle Capitolino i Sabini per esplorare se ci
avea parte niuua, donde potesse espugnarsi con sorpresa, o di forza ; videli
dall’ alto Tarpeja, una vergine cosi nominata, figlia del valente uomo al quale
era la cura hdata di que’ luoghi : s’ invaghì la donzella, come scrive Fabio e
Ciucio, dei braccialetti che que’ Sabini s’ aveano intorno la sinistra, e s’
invaghì degli anelli. Brillavano allora di oro i Sabini, molli nommen che i
Tirreni nel vivere. Ma Lucio pisone il censore narra che la fanciulla ciò fece
sul bel desiderio di esporre ai cittadini i nemici, nudi delle arme colle quali
si difendevano. Ben può da quel che siegue raccogliersi qual sia di queste due
cose la più verisimile. Mandando fuora una serva per una tal porticina che niun
si avvide che fosse aperta, fe’ richiedere il monarca Sabino che venisse a lei
senza compagni per nn colloquio ; ed essa parlerebbegli di cosa grande e
necessaria. Accettò Tazio l’ invito su la speranza di un tradimento, e recatosi
al luogo additatogli, e venutavi ( che ben lo potè ) la donzella, disse che il
padre suo quella notte si era allontanato per un tal bisogno dalla fortezza, e
che le chiavi delle portò erano presso di lei : consegnerebbele se a lei
venissero quella notte, e se in premio della consegna le si dessero quelle
fulgide cose che ì Sabini portavano tutti nella sinistra. Piacque a Tazio 11
partito, e contraccambiatasi ambedue la promessa con giuramento di non
illudersi ne’ patti ; la vergine distinse la parte per la quale avrebbero a
venire a quel fortissimo luogo, e distinse 1’ ora della notte in che meno s'
invigila ; e poi ritornossene, nè quelli che eran dentro ne seppero. Concordano
Gn qui ma non già nel resto gli storici romani. Pisone il censorino del quale
abbiam detto di sopra scrive che Tarpeja spedì quella notte un messaggiero che
signiGcasse a Romolo gli accordi fatti tra i Sabini e tra lei ; e come ella
esigerebbe le arme difensive di essi, deludendoli coll’ ambiguità de’ trattati
: egli dunque mandasse altra milizia nella fortezza, e vi sorprenderebbe i
nemici col capitano spogliati di arme. Aggiunge però che il messaggero
fuggendosi presso il re de’ Sabini gii accusasse i disegni di Tarpeja. Ma nè F
abio nè Cincio dicono che ciò avvenisse, e sostengono che la donzella
mantenesse i patti del tradimento. Dopo ciò continuano tutti la storia con
slmiglianza. Imperciocché narrano che avvicinatosi il re dei Sabini col Gor
dell’ esercito colei per adempiere le promesse aprisse a’ nemici la piccola
porla concordata, e che destate le guardie del luogo le stimolasse a scampare
sollecitamente per tragitti ignoti ai Sabini che ornai possedeano la fortezza.
Narrano inoltre che i Sabini al fuggire di quelli, trovatene le porte aperte,
occupassero la fortezza abbandonata ; e che la donna avendo prestato i servigi
pattuiti, ne chiedesse il premio secondo i giuramenti. XL. Dopo ciò scrive
Pisene che essendo i Sabini pronti di dare l’oro di che riluceano ne’bracci
sinistri; Tarpeja la donzella ue pretendesse non i fregi ma gli scudi : che
Tazio andasse in collera per l’inganno, ma pur si guardasse dal violare i
trattati : che era a lui sembrato perciò che si dessero alla vergine le arme
richieste ma per modo, che ricevutele non potesse valersene : che ben tosto
dunque, comandando di essere imitato dagli altri, lanciasse lo scudo con quanta
avea forza contro Tarpeja : la quale investita d’ ogn’ intorno e sopraffatta da
tanti colpi e si gravi succumbè sotto delia tempesta. Ma Fabio ascrive a’
Sabini la frodolenza su’ trattati. Perocché dovendo secondo i patti dare a
Tarpeja le auree cose che dimandava, rattristatine per la grandezza di esse,
scagliarono su lei le arme colle quali si difendevano, quasi scagliar le
medesime fosse un darle come aveano promesso quanto giurarono. Se non che
sembra che i fatti consecutivi rendano più verisimile il giudizio ultimo di
Pisone. Certamente fu la giovine, dove cadde, onorata di tomba, e la tomba sta
nel più augusto de’ sette colli, e Roma ivi le replica ogni anno sacre
libagioni. Io dico ciocché scrive Pisone. Cioè se ella fosse morta tradendo la
sua patria non avrebbe ottenuto niuno di questi due onori nè da quelli che ne
erano traditi, nè da quelli che ne furono gli uccisori : anzi se avanzo mai v’
era del tuo cadavere sarebbe stato poi disotterralo e gittato per atternre i
posteri, e respingerli da simili operazioni. XLI. Tazio e li Sabini
impadronitisi di quella fortezza, e pigliato senza disagi il più degli
appareccbj de Romani, facevano ornai la guerra da luogo sicuro. Cosi tenendosi
dunque ambedue le armate dirimpetto a piccola distanza fra di loro, molti erano
in molte occasioni li tentativi e gli attacchi senza grandi risultati di danno
o di utile per ninna delle parti. Due furono le battaglie più rilevanti date
con tutte le milizie, schierate 1’ una contro l’ altra; e grande ne fu la
strage vicendevole. Ma tirandosi in lungo, ambedue li re concorsero nel
sentimento di venire a decisiva giornata. E recatisi nello spazio intermedio ai
due accampamenti i capitani migliori nelle armi ed i soldati già sperimentati
in mille cimenti fecero memorabili prove dando e ribattendo gli assalti, e
traendosene e rimettendovisi ugualmente. Coloro i quali contemplavano da luogo
munito la equilibrata battaglia, e che d’ora in ora piegava dall’ una o dall’
altra parte, incitando, ed acclamando incoraggivano chi vi si distingueva ; o
con preghiere e pianti richiamavano chi vacillava o lasciavasi ornai sopraffare,
perchè vile sempre non rimanesse. Dond’ è che gli uni e gli altri erano
necessitati a sostenere travagli, maggiori delle forze. Cosi tenuta avendo la
battaglia nel giorno con sorte eguale ; alfine essendo già notte si ravviarono
lieti ai proprj alloggiamenti. Ne’ di seguenti dando sepoltura ai morti
ristabilirono i feriti, e procurarono insieme altre forze. Poiché parve loro di
farsi nuovamente alle mani, tornati jiel luogo medesimo vi combatterono fino
alla notte. Prevalsero i Romani in ambe le ale; reggendone Romolo stesso la
destra, e Lucumone il tirreno la sinistra. Ma restando dubbia ancora nei centro
la sorte delle armi ; Mezio, cognominato il Curzio, uomo meraviglioso per le
forze del corpo, magnanimo nelle arme, e chiaro soprattutto perchè noa
turbavasi a pericoli o terrori, impedì la disfatta totale de’ Sabini e portò di
nuovo contro de’ vincitori le schiere che sorvanzavano. Costui messo a dirigere
1’ armata del centro avea già vinto i nemici che gli stavano a fronte. Volendo
poi ripristinare lo stato delle ale sabine ornai sbattute, e presso a dar volta,
esortandovi la sua milizia si mise ad inseguire i nemici che fuggivano sbandati
da lui, cacciandoli fino alle porte, cosicché Romolo fu costretto a lasciare
imperfetta la sua vittoria, e rivolgersi ad accorrere contro la parte de’
nemici che era vincitrice. Cosi quel corpo de’Sabini il quale pericolava si
riebbe j allontanaudosegli Romolo colla sua gente : e tutto il nembo si
raccolse inverso di Curzio e de’ suoi che erano già vittoriosi, e questi
tenendo fronte per un tempo ai Romani combatterono luminosamente. Ma poi
rovesciandosi troppi su loro ; piegarono e rìpararousi negli alloggiamenti,
assai contribuendo Curzio alio scampo col ritirarli grado a grado, non col
fargli inseguire in disordine. Egli flesso arrestavasi in arme, e. facea
fi'onte a Romolo che lo investiva. E grande e. 1^3 bella a vedere fu la gara
de’ capitani che si attaccavano. Alfine essendo già Cur/io ferito, già esausto
di sangue, riucnlava poco a poco, quando eccogli addietro una palude profonda ;
difficile da girarla intorno, perchè cinta da’ nemici, e dilficilissima da
traversarla per lo fango che ammassavasene alle sponde, e per le acque, che
altissime vi erano in mezzo. Inoltratosi dunque vi si lanciò con tutte le arme.
E Romolo sul pensiero che colui quanto prima perirebbe nella palude non
potendovisi perseguitare pel fango e per le molte acque ; si rivolse contro
degli altri. Ma Curzio dopo molti e lun> ghi stenti emerse finalmente còlle
arme dalla palude, e fu portato a’proprj alloggiamenti. Rimanea la palude nel
mezzo quasi del foro romano, e lago chiamasi di Curzio dalia vicenda ; ma ora è
tutta ricoperta dalla terra. Romolo inseguendo gli altri avvicinasi al
Campidoglio. Spaziava nella speranza di rivendicarselo : ma travagliato da
molte ferite, e più da un colpo di pietra lanciatogli dall’alto nelle tempia fu
preso ornai semivivo da’ compagni, e riportato dentro le mura. Sbigottirono i
Romani più non vedendo il capitano, e dicdesi l’ala destra alla fuga.
Sostenevasi ancora la sinistra diretta da Lucumone, uomo chiarissimo nelle arme,
e segnalatosi per molte e belle imprese in tal guerra. Ma nemmeno questa più
resse alfine ; quando colpito in un fianco da'Sabini cadde pur Lucumone
rifinito di forze. Allora la fuga fu universale. I Sabini imbaldanziti gl’
incalzavano verso le mura: se non che giungendo alle porte pe furono respinti,
sboccandone contro loro i giovani a’ quali aveva il re dato in guardia le mura.
Ed a(Yrcttaiidosi quanto potè per soccorrerli Romolo stesso, riavutosi già
dalla percossa ; la sorte assai ne variò della battaglia. Imperocché li
fuggitivi mirando iuaspettataineute il sovrano, risorti dalla paura, si
riordinarono, uè più s’ indugiarono a volar su’ nemici. Questi che aveano
finora pressato i Romani e concluso non esservi schermo, che impedisse di
prendere la loro città culla forza ; non si tosto videro il cambiamento
inopinato e repentino, pensarono come scampare sè stessi. Il ritorno al campo
era precipitoso per essi, inseguiti dall' alto, e per istrada profonda. Quindi
grande fu la strage loro in questa ritirala. Cosi pugnato avendo quel gioruo da
pari a pari, ma involgendosi ambedue tra casi inaspettati ; alfine ornai
tramontando il sole, si divisero. Ne’ di seguenti consultarono i Sabini se
avessono a ricondurre in patria l’esercito devastando intanto il più che
poteano le campagne nemiche, o se di là ne chiamassero un altro, ivi
trattenendosi cd insistendo fiuchè dessero buon fine alla guerra. Ben era
misera cosa per essi partire, donde mauifeslcrebbcsi la infamia che niente
aveano conseguilo; ed era misera cosa nonimeno il rimanersi non riuscendo loro
disegno alcuno come speravano. Concepivano poi, che venire a trattali co’
nemici, unica maniera conveniente a levarsi di gueiv ra, gioverebbe anzi a’
Romani che a loro. Tuttavia uon meno, anzi assai più che i Sabini, erano i
Romani caduti in gran dubbio intorno le cose da fare. Imperocché nè volevano
rendere nè riteuere le donne ; riputando la prima cosa un seguito di uua
[lerdila mauilcsta, cd n. 175 un
preludio di aversi nccessariamenle a sottomeltere anche ad altri coaiaudi : ma
1’ altra cosa presentava molli e gravi mali, distrutte le patrie campagne, e la
gio> ventò più florida trucidata. Se faceansi a trattar coi Sabini, parca
loro che questi non ser berebbero alcuna misura, per molte cagioni e
principalmente perchè i superbi insolentiscono non condiscendono col nemico che
volgesi agli ossequj. XLV. Mentre ambedue cosi cogitabondi, e così disanimati
dal cominciare o battaglie o discorsi di riconciliazione dispergevano il tempo
; le mogli de’ Romani, quelle che erano sabine di origine, quelle per le quali
ardeva la guerra, congregatesi ed abboccatesi fra loro in un luogo medesimo
risolverono d’ intramettersi con ambi per la pace. Dava tal partito alle altre
Ersilia, non ignobile di legnaggio tra’ Sabini. Di lei dicono che rapita già
come vergine con altre donzelle, ora fosse maritala. lN|a più verisimile è chi
scrive che ella si fosse rimasa spontaneamente colla unigenita sua, 1’ una
delle derubate. Riunitesi a tal sentimento andarono le donne in Senato, ed
ottenutovi di parlare, ve lo diffusero, chiedendo di uscir per un colloquio co’
loro parenti. Annunziavano che aveano molte e belle speranze di fiduiTe unanimi
le due genti e stringerle di amicizia. Come udirono ciò quelli i quali
consultavano col monarca assai ne furono dilettati, riputando che questo fosse
r unico spediente in tanto inviluppo di cose. Adunque si decretò che quante
Sabine avean Agli tante lasciando questi co’ mariti, avessero la potestà di
andarne oralrici ai lor nazionali: che quelle però le quali eran madri di più
6gli ne recassero con sè la parte che più volcano, e trattassero la
riconciliazione de’ popoli. Uscirono dopo ciò tra lugubri vesti, e talune coi
teneri Ggliuoletti. Giunte al campo sabino mossero col piangere e col
prostrarsi appiè di chiunque iucontravale tanta compassione, che ninno de’
riguardanti potea rattenere le lagrime. E Tannatosi per esse il fior del
Senato, e comandate dal re che dicessero le cagioni della venuta; Ersilia,
autrice e guida della S])edizioue, feceiie una lunga e patetica sposizione,
implorando che donassero pace a’ mariti appunto in grazia di esse per le quali dicevano
intimata la guerra. Si adunassero i principi loro; ed essi, veduto 1’ utile
puliblico, discutessero le condizioni,per le quali cessassero le discordie.
XLVI. Ciò detto caddero prostese co’ teneri figli appiè del sovrano e vi si
tennero, finché quelli che erano presenti non le rilevarono da terra con
promettere che farebbono quanto era onesto e possibile. Fattele uscire dal
Senato, e consultando fra loro, si decisero per la pace. E prima si fece la
tregua : poi riunendosi i re, si concordò su la pace ancora. E tali ne furono
le convenzioni che sen giurarono. Sarebbero ambedue re dei Romani Romolo e
Tazio con eguali poteri ed onori. La città serbando il nome del suo fondatore
chiamerebbesi Roma, e romano ogni suo cittadino come per l’addietivMa tutti
insieme si chiameiiano generalmente Quiriti desuntone il nome dalla patria di
Tazio. Si domicilierebbero que’ Sabini che voleano, in Roma, ma comunicandosi
le sante cose, c prendondo luogo nello tribù c nelle curie. Giurate questo cose,
ed eretti gli altari ove far 1’ alleanza, in mezzo quasi della Via 1 Sacra, si
mesoolarono insieme. Poi rao cogliendo ogni duce li suoi, tornarono alle
proprie magioni. Si rimasero in Roma Tazio il monarca e con esso tre de’ più,
riguardevoli Valerio Voleso, Tallo, soprannominalo il Tiranno, ed in fine Mezio
Curzio, quegli che : avea colle armi trapassato la palude, e vi ebbero gli
onori che i discendenti loro pur vi godcronow Anzi con questi si rimasero amici,
consanguinei, e clienti, non minori di numero agli altri di Roma. Mentre
ordinavano queste cose parve ai so vrani di raddoppiare il numero de’ patrizj
per essersi la popolazione moltissimo arnpbata. Adunque segnando in X catalogo
colle famiglie più nobili tanti cittadini novelli, quanti erano i primi,
chiamarono patrizj ancor’ essi. Poi trascelli cento di questi col voto delle
curie gli connumerarono ai senatori antichi. E su ciò concordano presso a poco
tutti gli scrittori delle cose romane : differisce taluno sul: numero de’
sopraggiunti : dicendo che non cento cui cinquanta furono gl’ inseriti al
Senato. Non consentono però gli storici romani su F onore che i re concederono
alle donne perchè gli aveano rioou dotti aUa pace. Perocché scrivono alquanti
che diedero ad esse distintivo grande e moltiplice non pure i prindpi, ma le
curie : le quali essendo trenta, come già dissi, presero nome ognuna da queste,
giacché trenta furono ancora le oratrici. Ma Terrenzio Varrone si di scosta da
questi in tal capo, aflermando che i nomi erano stati imposti -alle curie
anteriormente da Romolo, quando divise la prima volta il suo popolo: c die quei
nomi furono desumi da’ capi di esse, o dalle antiche lor patrie. Aggiunge che
le femmine andate ambasciadrici non furono trenta ma cinqueceutotrentatrè :
dond’ è che noti sia verisimile che il re concedesse ad alcune poche di esse
quell’onore, escludendone le altre. A me nè tali son parute queste cose da non
farne parola, nè tali da scriverne dtra il bisogno. Ora l’ordine stesso della
narrazione dimanda che io dica quali e donde fossero i Cureti alla città de’
quali apparteneva Tazio, e quei eh’ eran seco. Noi cosi ne sappiamo. Nel tempo
che gli Aborigeni possedeano 1’ agro Reatino una vergine nobilissima natia di
que’ luoghi entrò, per danzarvi, il tempio di Enialio. Enialio lo chiamano
Quirino i Sabini, ed, ammaestrati da essi, i Romani, senza che sappiano dire
più oltre s' egli sia Marte, o tal altro, eguale a Marte in onore. £ li primi
pensano che 1’ uno e 1’ altro nome dicasi del Nume arbitro delle guerre ; ma
gli altri che sia quel doppio nome non di uno, ma di due Dei bel licosi. La
vergine danzando già nel tempio fu dallo spirito investita del Nume; e lasciale
le danze si ritirò ne’ penetrali santi di lui, dove, come a tutti sembra,
fecondatane, diede un fanciullo, che Modio fu detto, ed ebbe soprannome di
Fabidio. Or questi, adulto Vi è chi
pensa che il Modio Fabidio sia il Afe £>iuj Fidius de’ fìoinaui, forinola
colla quale riguardavaisi il Nume tutelare della fede, o pure Ercole figlio di
Giove. Se ciò lesse, Diouigi avrebbe malameuie iuierpiaato quella formula
Romana di giuramento.. 179 feuo nella persona, ebbe forma non umana, ma divina,
e combattè con preemiuenza di tutti i valentuomini. Preso poi dal desiderio di
abitare una città che avesse la origine da lui, congregando gente io copia da
luoghi d’intorno, eresse in tempo assai breve quella che Curi addimandasi,
denominandola, come narrano alcuni, dal Nume, dal quale è &ma che egli
fosse generato, e come altri asseriscono dall’ asta, poiché Curi chiamasi 1
asta in. Sabina. Cosi scrive Terrenzio Yarrone. Ma Zenodoto Troizinio uno
scrittore dell’Umbria, narra che le genti di essa furono prima abitatrici de’
campi detti Rèalini : che espulse da’ Pelasghi se ne vennero alla terra dove ora
soggiornano, e dove mutato nome coi luoghi, si chiamarono Sabini per Umbri.
Porzio Catone dice imposto tal nOme ai Sabini da un Nume di que’ luoghi Stoino
Sanco, e che Sanco per alcuni vai quanto Dio Fidio, Dice che fii domicilio
primitivo di essi un villaggio nominato Testrina presso la città di Amiterna ;
che movendosi da questo inondarono i Sabini 1’ Agro ReatioQ abitato al Silio
nel libro ottavo scrive. Ibant et laeti pars tanctum voce canehanl, Auetorem
genlis, pars laudes ore ferebant, Sahe, Uuis, qui de patrio cognomine primus. Dixisli poputos magna ditione Sabinos. Forse dunque
nel testo di Dionigi dee leggersi Sabo e non Sabino. Festo e Yarrone additano
che Sanco tra’ Sabini siguifìca Ercole. Ora Plutarco nel suo Noma e Servio nel
libro 8 dell’ Eneide derivano i Sabiui dagli Spartani, e gli Spartani da
Ercole. Quindi quel Sabo Sanco non sarebbe che Ercole ; tanto più che Sanco
'redesi il me Diut Fiditu, c questa par furatola per additare Ercole. e lora
dagli Aborigeni, e da Pelasghi : e che ne ottennero colla forza delle armi Colina
la loro città più cospicua : che spedendo dal contado Reatino delle colonie
fondarono altre città non poche, ove, senza cingerle di mura, si viveano ; e
tra queste la città che Curi fu nominata : che occuparono campagne lontano
circa dugento ottanta stadj dall’ AdrìaUco, e dugento quaranta dal mare
Tirreno: e dice che stendeasi la lunghezza di quelle poco meno che mille stadj.
Secondo le storie paesane intorno de’ Sabini abitavano con essi già dei
Lacedemoni quando Licurgo tutore di Eunomo, nipote suo,. dava a Sparta le leggi
: e questo perchè impazientiti alcuni dalia dura legislazione di lui, staccaùsi
da’ compagni abbandonarono affatto la città ; e corso ampio tratto di mare, e
desiderosi ornai di prendere terra dovunque, si legarono per voto cogl’Iddii di
abitare quella appunto ove imprima giungerebbero. Venuti nell’ Italia ai campi
detti Pomentini nominarono, dal mare che aveali portati, Feronia il luogo dove
prima approdarono, e vi eressero un tempio alia Diva Feronia alla quale aveano
fatto i lor voti ; e la quale mutatane una lettera ora Faronia si chiama.
Alcuni da indi rimovendosi ne andarono a dimorar tra’ Sabini : e però spartane
sono molte delle loro istituzioni, spartani principalmente gli amori per la
guerra ; la parsimonia e la durezza nelle opere tutte della vita. Ma ciò basti
su la origine de’ Sabini. L. Ben tosto Romolo e Tazio ampliarono la città
congiungendole altri due colli, 1’ uno chiamato Quirinale, e Celio r altro. E
ponendo separatamente le case. 1 8 1 viveasi ognuno nelle sedi sue. Avessi
Rouiolo il monte Palatino ed il Celio, monte contiguo col primo. ^azÌo avevasi
il Campidoglio, occupato già ne’ principi da esso, ed il Quirinale. Recisa la
selva la quale spandevasi appiè del Campidoglio, e ricoperta in gran parte di
terra la palude, la quale per la concavità dei sito rooltiplicavasi dalle acque
scese da’ monti, fecero ivi il foro, dei quale servonsi ancora i Romani. E là
tenendo le adunanze, consultavano nel tempio di Vulcano, cbe quasi al foro
sovrasta. Inalzarono i tem^q, e consacrarono gli altari ai Numi, a’ quali gli
aveano promessi co’ voti nelle battaglie. Romolo ne eresse uno a Giove Statore
presso la porta òe Muggiti la quale mena dalla via sacra al Palatino, perché
quel Nume esaudendo i voti di Romolo fe’ cbe l’ esercito suo già fuggitivo si
arrestasse,, e si volgesse a fronte dei nimico. Tazio ne eresse al Sole, alla
Luna, a Crono, a Rea, ' come pure a Vesta, a Vulcano, a Diana, ad Eniàlio ed
altri difScili a nominarsi con greca parola. Mise in tutte le Curie le mense per
Giunone Quirizia le quali esistono
ancora. Dominarono cinque anni insieme senza dissidio, e compierono in quel
tempo con impresa comune la spedizione contro de’ Camerini. Impercioccbè questi
mandando delle masnade assai danneggiavano loro il paese : e tuttoché
chiamativi non erano mai comparsi a darne ragione. Adunque schieratisi a fronte
di essi, e vintili in campo, e poi nell’ assalto delle mura, gli astrinsero a
cedere le arme e la terza parte della re Secondo Pesto vuol dire Giunone coW
atta, vedi $ 4^ prcoedenle. • Digitized by Google iSa PFLLE Antichità’ romane
gione. Continuando nondimeno i Camerini ad Infestarla riuscirono nel terzo
giorno I re coll’ armata e li fuga-, rono, e ne divisero ogni cosa ai proprii
soldati, concedendo solamente che quelli, se volevano, si domiciliassero in
Roma. Quattromila quasi ve ii’ ebbero, e lì compartirono tra le curie. E
Camaria, sorta già tanto tempo prima di Roma, Camaria già domicìiio famoso
degli Aborigeni, e poscia di un ramo di Albani, fu ridotta colonia de’ Romani.
Tornò, nei sesto anno il comando a Romolo sodamente, morendo Tazio per le
insidie de’ primarj tra Laurenlini tesegli per questa cagione. Scorsi gli amici
di Tazio a far preda nel territorio de’ Laurenlini ne aveano rapito danari in
copia, e menato via de’ bestiami t uccidendo o ferendo chiunque presentavasi a
rivendicarseli. Spedita quindi dagli offesi una legazione a reclamar la
giustizia, Romolo sentenziò che gli o^ fensori le si consegnassero. Tazio però
sollecito degli amici, non istimava bene che si desse alcun cittadino perchè si
portasse in giudizio tra forestieri e nemici. Laonde intimò che quanti si
richiamavano della ingiuria venissero e discutesserla ne’trihunali di Roma.
Cosi non trovando giustizia partirono indispettiti gli ambasciadori. Ma datisi
per isdegno alcuni Sabini a seguitarli gli assalirono, che dormivano tra le
tende lungo la via sorpresivi dalla notte : e spogliatili di ogni cosa, ne
scannarono quanti giaceansi ancora ne’ letti. Si ricondussero alia loro città
quauti si avvidero a tempo deir insidie e fuggirono. Dopo ciò venendo
ambasciadori da Laurento e da molte città si dolsero su’ diritti violati, ed
intimarono la guerra, se non erano compensati.
LII. Sembrava a Romolo, com’ era, terribile 1’ oltraggio d(^li
ambasdadori e degno di una subita espiazione, es:;endosi profanata una legge
santa. E vedendo che Tazio tcneane picciolo conto, egli senza più indugio presi
e legati i complici, li diede agli ambasciadori \ ortato a Roma ebbe magnifica
sepoltura, e la città gii rinnova ogni anno pubblici sagrifizj. LUI, Romolo
trovandosi un’ altra volta solo nel principato purificò la infamia commessa
contro gli ambasciatori pubblicandone privi dell’ ncque e del fuoco gli autori,
faggitt già tutti da Roma al primo udire la morte di Tazio. In opposito
essendogli conseguati da Laurento ero la vittoria per saviezza del capitano, il
quale occupato di notte un monte non molto lontano da’ nemici teneavi in
agguato il fiore de’cavalieri, e dei fanti, giuntigli ultimamente da Roma.
Tornati in campo ambedue per combattervi come prima, non si tosto diè Romolo il
segno convenuto a quelli del monte, corsero schiamazzando dalle insidie alle
spalle de' Vejentani : e piombando essi, freschi ancora su uomini stanchi, non
durarono lunga fatica a travolgerli. Pochi ne morirono in campo ; ma molti piò
nellt; acque del Tevere, il qual fiume scorre presso Fidene, lanciativisi per
iscampare nuotandovi. Perocché parte per le ferite e la stanchezza non resse a
compiere il transito, e parte per la imperizia del nuoto e la confusione dell’
animo in vista dei pericoli soccombè tra’ vortici non preveduti. Se i Vejentani
avessero ponderato seco stessi, quanto furono sconsigliati la prima volta, e se
avessero dall’ora in poi cei^ cato la calma, non sarebbero incorsi in disastri,
più gravi ancora. Ma sjierando di riaversi de’ mali passati, e pensando che
vincerebbero di leggeri, se uscissero con apparato maggiore ; bentosto arrolate
milizie in copia dalla città loro, e procuratene presso de’ nazionali secondo i
trattati di amicizia, marciarono per la seconda volta contro de’ Romani. Si
combattè di nuovo ferocemente presso piiuii. iiy Ci( ••. ' 187 Fidene ; e di
nuovo i Bonnani vi superarono i Yejenti, e ve ne uccisero, e più ancora ve ne
imprigionarono. F 11 invasa la loro trincierà piena di danari, di arme, di S(
biavi: furono prese le barche lluviali cariche di vettovaglia copiosa e con
queste per lo fiume trasportati in Roma li prigionieri. Fu questo il terao
trionfo di Romolo ma più brillante assai de’precedcnti. Venne dopo non molto
un' ambasceria de’ Vejenli per chetare la guerra e chiedere perdono de’
mancamenti, e Romolo ne secondò le istanze imponendo : che cedessero i terreni
contigui al Tevere nominati Setlepagi : che non si accostassero alle saline
presso le bocche del Jiume : e che dessero cinquanta ostaggi in pegno, che non
farebbero innovamenti. Si rimisero i Vejeiiti alle leggi: e Romolo fece tregua
con essi per cento anni, e ne scolpi su più colonne le condizioni. Rilasciò
senza compenso i prigionieri vogliosi di andarsene ; ma rendè cittadini di Roma
quanti pregiarono di rimanersene, ed erano più numerosi degli altri, e li
comparti fra le curie, e diè loro in sorte le campagne di qua del Tevere.. Quest
furono le guerre di Romolo degne di stima e di ricordanza : e parmi, che se
egli non sottomise ancora altri popoli vicini, ne fosse cagione la fine
prematura di lui, quando era florido ancora per le armi. Di questa fine varj e
molli ne sono i racconti. Coloro .che più ne favoleggiano dicono, che intanto
che aringava le milizie, abbujatosi l’ aere sereno, e fattasi procella
terrìbile, Romolo diventasse invisibile, e che Marte il suo genitore in alto se
lo rapisse. Ma chi scrive cose più vcrisimili dice che da’ suoi cittadini fu
morto ; e dice elle gliene fu cagione 1’ aver egli restituito senza il voto del
popolo, contro la consuetudine, gli osti^gi presi gii da' Vedenti ; il non
serbare la eguaglianza tra i cittadini antichi e novelli, ponendo i primi in
altissimo onore, e trascurando gli ultimi: e Gnalmente Tincrudelire nelle pene
dei delitti, e lo insuperbire. Imperocché sentenziando, solo, da sé comandò che
fossero precipitati dalla rupe non pochi nè ignobili uomini, incolpati di
essere scorsi a predare i vicini. Ma soprattutto,ne fu cagione, 1’ essersi
ornai renduto pesante, e dispotico f e tiranno, anzi che principe. Per questo,
narrano, che i patrizj, congiuratisi, ne decisero la morte, e la eseguirono nel
Senato ; e che divisone in brani il cadavere, perclté non se ne sapesse,
uscirono occultandone sotto le vesti ognuno la parte sua, che pdi seppellirono,
onde renderle invisibili. Altri però narrano che egli aringando fosse tolto di
mezzo da’ cittadini nuovi di Roma ; e che m lanciassero ad ucciderlo quando
appunto abbuiatosi il cielo, crasi il popolo dileguato, ed egli rimasto senza
guardia : e però dicono che un tal giorno tien nome da quel dissiparsi di
popolo, chiamandosi tuttavia fuga della moltitudine. Sembra che gli eventi
ordinati da’ Numi sui concepimento e sul termine di quest’ uomo diano non
piccola occasione a coloro che fanno de’ mortali un Iddio, e che ne spingono al
cielo le anime più segnalate. Perocché nella .compressione della madre di lui
sia per uno Dio, sia per un nomo, affermano che il soie si ecclissasse, e che
tenebre, totali come nella notte, coprissero la terra; e che il simile
avvenisse por nella morte. ROMOLO IL FUNDATORE DI ROMA, il primo, assunto da
lei perchè la domioasse, cosi narrasi che finisse. E tutlodiè nella età di
cioquanlactnque anni, e già monarca da trentasette non lasciò rampolli di sua
generazione. Novello in tutto delr impero de’ popoli, se lo ebbe nell’ anno suo
diciottesimo come unanimi lo ripetono gli storici di queste cose. LVII.
Nell’anno seguente non si fece alcun re dei Romani : ma vigilava su la comune
un magistrato detto interré, costituito in questa maniera. I Patrìzj ascritti
da Romolo in Senato, dugento, come dissi, di numero si divisero io decadi. Poi
traendo le sorti diedero la reggenza sovrana a que’ dieci che primi erano
favoriti dalle sorti ; non già che i dieci reggessero tutti in un tempo, ma
successivamente ciascuno cinque giorni, nei quali avea con sé li fasci, e gli
altri simboli del regio comando. Il primo cedeva il comando ai secondo, questi
al terzo e cosi fino all’ ultimo. Decorso lo spazio dei cinquanta giorni, fisso.
pe’ dieci, primi nel comandare, succedea la decade seconda al governo, e poi le
altre via via. Finalmente piacque al popolo di abolire questi decemvirati,
essendo ornai stanco da tanto trasmutarsi di comandanti, varj nella natura e
ne’ genj. Allora dunque i Senatori convocando l’ adunanza del popolo per tribù
e per curie renderono ad esso il potere di discutere la forma del governo, cioè
se volevano un re ; o se annui magistrati. Ed il po[K>lo non decise già esso,
ma fece che scegliessero i Senatori, pronto di attemperarsi Ciò fu nell’anno 713 avanti Cristo : secondo
Catone nell’ anno 38 e secondo Varrone nel 4 ° di Roma] all’ ordìae che
approverebbei'o. Parve a tutti di fondare la regia domiuasione ; ma non tutti
concordavano tra i quali si avesse ad eleggere il futuro monarca : e chi
pensava che tra vecchi e chi volea che tra’ novi Senatori ossia tra gli
aggiunti di poi, à dovesse trascegliere il |>er8onaggio che regnerebbe su
Roma. LYIII. Procedendo la disputa, si convenne finalmente su questi due punti
: che i Senatori antichi scegliessero il monarca non però del ceto loro, ma
qualunque altro ue giudicassero idoneo; o che farebbono ciò li Senatori
novelli. Presero essi la scelta i Senatori più antichi, e molto consultandone
stabilirono ; di non dare, giacché essi ne erano esclusi, il principato a niuno
degli emuli, ma di creare monarca un personaggio cercato ed intro> dotto di
fuori, nè aderente ad alcuno de’ due > principalmente perchè semi non ci
avessero di discordie. Ciò deliberato, destinarono co’ voti loro, il figlio del
chiarissimo nomo, Pompilio Pomone, Sabino di lignaggio, Numa di nome, e per età
prudentissimo, come non mollo lontano dall’ anno quarantesimo. Regia ne em la
dignità dell’ aspetto ; e grandissima la riputazione per la sapienza non pur
tra’ Cureti ma tra popoli intorno. Pertanto riuniti in questa sentenza
adunarono il popolo ; e fattosi in mezzo l’ uno di loro, interré di que’ giorni,
disse : che piaceva a tutti i Senatori di fondare un regio governo : e che egli
incaricalo di trascegliere chi lo assumesse trasceglieva in Numa Pompilio il
monarca di Roma. Dopo ciò deputando dei Patrizj ; gli spedi perchè invitaswro
il valentuomo alla Reggia. E fu questo nell’ anno terzo della Digitized by
Google gemati da Romolo per non essere stati con'esso in guerra niuna, non
godevano terre, nè utile alcuno. Questi senza case, e vaganti per la miseria,
erano di necessiti nemid ai più ricchi, e vogliosi di mutamenti. Fra tali
agitamenti fluttuava Roma quando Numa ne prese le redini, e su le prime ricreò
la classe de poveri, compartendo loro porzione delle campagne possedute da ROMOLO,
ed un tal poco ancora de’ terreni dei pubbln co. Non togliendo quanto godeano,
ai patrizj fondatori di ‘Roma, e concedendo ai patrizj più recenti altri onori,
ne chetò le discordie. Proporzionata come uno stromento tutta la moltitudine
all’ oggetto unico del pubblicò bene; ed ampliato il giro della città con
inchiudervi II Quiri. naie, colle non ancora cinto di mura, si rivolse ad altre
istituzioni. E concependo che grande e beata diverrebbe la città che se ne
adorna ; procurava queste due cose : la pietà primieramente, insegnando agli
uomini, che gl’ Iddi! sono i datori e li custodi di ogni bene alla mortale
natura ; e poi la giustizia, dimostrando che per essa i beni dispensati da’
Numi arrecano delizioso godimento a chi li possiede. Non reputo però che slan
tutte da scrivere le leggi e le pratiche per le quali consegui 1’ uno e l’altro
intento e con tanta amplitudine; perchè temo la prolissità de’ racconti, uè la
vedo necessaria ad una storia pe’GrecI. Solo ne dirò sommariamente le cose
principai lissime, idonee a dimostrare la mente di un tanto uoimo, cominciando
dalle disposizioni di lui sul culto divino. Lasciò nel pieno vigore lé
consuetudini e le leggi die trovò
fondate da ROMOLO, credendole benissimo istitoite: ne supplì quante ne erano
state da lui pretermesse ; e diè sacri luoghi a’ Numi, non adorati ancora, c
fece altari e tempj, e compartì feste per ognnnp, e ministri per le sante cose.
Finalmente ne ordinò colle leggi la illibatezza, le espiazioni, le suppliche e
tante altre onori Gcenze e tanto culto ; quanto non mai ne ebbe nonbarbara
gente, nè Greca, nemmeno delle più famose un tempo per la pietà. Comandò che
Romolo ancora, divenuto più che uomo, s’ intitolasse Quirino, e si onorasse con
templi e con annui sacrifizj. Perocché non sapendosi ancora come Romolo fosse
sparito, se per divina provvidenza, o se per Iraude umana ; venne in mezzo del
F oro un tal Giulio, un agricoltore della stirpe di Ascanio, uomo incolpabile
di costumi, nè capace di mentire per utile alcuno. Ora costui disse che
tornandosi di campagna vide Romolo che partivasi di città colle arme ; e che
fattoglisi più da vicino gl’ intimava : O Giulio va, riferisci in mio nome ai
Romani ; che il Genio che ni ebbe in sorte per custodirmi quando io nacqui ;
questo, ora che io compiei la mortale carriera, mi solleva tra Numi, e che io
sorto Quirino, Noma stese in iscritto tutte le ordinazioni su le cose divine,
dividendole in otto classi, quante erano quelle de’ sacerdoti. Diè l’ incarico
primo delle funzioni religiose ai trenta Curioni de’ quali io diceva che coinr
pieano i sacrifizj comuni delle curie : diè 1’ altro si Stefanofori detti da’
Greci, e Flamini dai Romani, cosi nominati dai portare delle berrette e delle
bende le Nel usto PUot e stemma. 0 ptimo
era una specie di berretta quali portano ancora, e le quali Flama si chiamano :
diede il terzo ai capitani dei Celeri, soldati come additai, che combàttono a
piedi e a cavallo in guardia dei monarchi; e certo que’ capitani ancora
fornivano divini ordinati esercizj : diede il quarto a quelli che interpetrano
i segni mandati dal cielo, e dichiarano se conceróOno private o pubbliche cose.
I Romani chiamangli Auguri dall’ indole dei precetti dell’ arte loro, e noi
OionopoU li chiameremmo, uomini scenziati in ogni divinazione de’ segni del
cielo, dell’ aere, e della terra. Il quinto alle vergini, custodi del fuoco
sacro, appellate Vestali fra loro dal nome della Diva a cui servono. Noma il
primo fondò il tempio di Vesta, e misevi delle vergini che ministrassero nel
culto di lei. Su che rileva che io dica alcune poche còse le più necessarie ;
dimandandole il sobjetto ; perocché degna ne è la ricerca, e degna pur si stima
da’ romani scrittori in questo luo 30 a consola di una tomba, non 1’ esequie,
non altro rito niuno legittimo. Molti sono gl’ indiz) di mancanza nel santo
ministero, e principalmente lo spegnersi del fuoco: accidente che i Romani
temono più di tutti i mali, pigliandolo, e sia qualunque Torigine di esso, come
presagio della rovina ultima di Roma. E molto ossequiando e placandolo; di
nuovo riconducono il fuoco nel tempio. Ma di ciò sarà detto a suo luogo. >
LXVIIL Ben è degna che raccontisi l’assistenza manifestata delia Dea per le
vergini indegnamente accusate. Credesi questa da Romani, quantunque
ioconcepibile, e molto gli scrittori ne ragionarono. Quei che vansene a maniera
degli Atei filosofando, se filosofare dee dirsi mai questo, ripudiano tutte le
assistenze de’ Numi avvenute tra Greci e tra Barbari, e molto ne deridono i
racconti, ascrivendole a ghiattanza nmana, quasi niuno de’ celesti prenda cura
delle cose de mortali. Ma quelli che non levano agl’ Iddi! questa cura, e li
giudicano propiz) ai buoni, e malafifetU a’malvagj, venendosene con istorie
moltissime, non prendono per impossibili tali divine manifestazioni. Narrasi
dunque che smorzandosi un tempo il fuoco per poco avvedimento di Emilia, che
allora ne era la guardiana, perocché ne avea trasmessa la cura ad una compagna
novella, e di fresco ammaestrata ; Borsene in città turbamento ben grande, e si
cercò dai pontefici se violazione ci avesse nel ministero santo del fuoco.
Allora, dicono, che Emilia, la incolpabile Emilia, non sapendo che farsi
nell’evento stendesse io presenza de’ sacerdoti e delle vergini le mani in su
l’altare e dicesse: o Vesta, o tu Dea, custode di Roma, se 2o5 io santamente, e
debitamente compiei le sacre tue cerimonie ornai da treni anni, se pura l anima
mia, se immacolate ti si presentarono le membra di questo mio corpo, deh ! tu
soccorrimi, nè volere trascurare^ che la tua sacerdotessa miserandamente si
muoja. Ma se io pur commisi alcuna cosa men pia, deh ! che nelle pene mie la
pena si dissipi di Roma. Ciò detto è fama che spiccando il lembo dalla veste di
lino onde era coperta lo gittasse in so 1’ altare : e che dopo la preghiera,
essendo la cenere già fredda, e già senza favilla ninna, brillasse di.su per
quel lembo una damma copiosa, talché più non abbisognò la città né di puri'
ficaztoni, né di fuoco novello. Più meraviglioso ancora e più somigliante ad
una favola è ciò che io sono per dire. Narrano che un tale accusasse Tuzìa 1’
una delle vergini ma >n alle gazioni non vere di congetture e di testimonj ;
non polendo affermare che fosse per lei venuto meno il ìkoco : e che la vergine
comandata rispondere dicesse che smentirebbe co’ fatti le calunnie : che ciò
detto invocata la Dea perché le fosse guida nelle sue vie, s’in? camminasse
verso del Tevere concedendolo i pontefici, seguita dalla moltitudine: che
giunta in riva del fiume, si ponesse a cimento impossibile, ora passato in
proverbio : cioè, che prendesse acqua con un vaglio vuoto e ve la recasse fino
al Foro, quivi ai piedi spargendola de pontefici. E narrano che dopo ciò 1’
accusatore di lei, per quante ne fossero le ricerche, né vivo più nè morto si
ritrovasse. Ma quantunque dell’ intramettersi della Dea potrei soggiungere più
cose ; reputo che bastino le dette finora. 2o4 delle Antichità’ romane La sesta
parte delie istituzioni religiose fa quella intorno àe Salii che chiamansi In
Roma. Numa stesso li nominò scegliendo dodici decentissimi giovani patiizj.
Stansi le sacre loro cose nel palazzo ; ed essi ne sono chiamati Palatini. Ma
gli Agonali, de’ quali serbansi le sacre cose nel poggio Collina, questi
cognominati Salj Collini, furono istituiti dopo Noma da Ostilio re pel voto
fatto da lui nella guerra co’ Sabini. Del resto i Salii tutti sono danzatori e
lodatori dei Numi delle arme. Tornano le loro solennità arca i tempi delle
nostre Panalenee nel mese detto di marzo : si celebrano a pubbliche spese per
piò giorni, ed in questi guidano per la città cori di saltatori al Foro, al
Campidoglio, ed altri luoghi speciali, o comuni. Variopinte ne brillano le
toniche traversate con cinture di rame ; ed affibbiate sono le trahee loro che
chiamano, luminose di porpora intorno. Sono le trahee in Roma pregiatissime, e
proprie del luogo. Torreggiano loro sul capo tiare alte con forma di cono, apici dette fra loro,
ma cirbasie tra’ Greci. Ognuno è cinto di spada; stringe colla destra mano
un’asta o verga, o cosa consimile ; e colla sinistra uno scudo romboidale,
stretto ne’ lati, quale è quello de’ Traci, e quale, dicesi che in Grecia lo
portino quelli che vi celebrano le 'sacre cose dei Curetl. I Salj, per quanto
io conosco, sarebbero con greca Interpetrazione I Cureli, denominati Nel testo sono detti piUi, ma le cirbasie
erano specie di tiare secondo Esicbio la lesione dello scudo romboidale è del
codice V aticano e par la migliore.. 2o5 cosi tra noi dalla età giovanile ; ma tra’ Romani hanno quel nome dal moversi
faticoso : perocché spio carsi e battere co’ piè la terra tra lor si chiama
salire. Per questa ragione medesima quanti altri noi chiameremmo dallo
spiccarsi e battere con tal modo, essi gli chiamano salitorì con voce originata
dai Salj (a). Che poi dirittamente io do questi nomi, può chi vuole,
concluderlo dalle cose che fanno. Movonsi colle arme regolatamente al suono
delle tibie, ora insieme, ora a vicenda, e danzando intuonano patrie canzoni.
Ora se dee con antichi monumenti procedersi, i Gureti furono primi che
insegnarono a danzare armati tripudiando e battendo con le spade gli scudi : nè
bisogna che io ripeta ciocché ha la fàvola su loro, essendo noto poco meno che
a mtti. Ben molti sono gli scudi che portano i Salj, 0 che i loro ministri
portano sospesi in su de’bastoni: ma tra questi uno ce ne ha che dicesi caduto
dal cielo. È fama che fosse nella reggia ritrovato di Numa, non avendovelo
recato ninno, anzi neppur conoscendosene la forma nella Italia. Argomentarono
da tali due segni 1 Romani che fosse quell’ arme celeste di origine. E volendo,
Numa che lo scudo si onorasse, e recasse nei dì solenni per la città da’
giovani cospicuissimi, e riscotesse annui sagrifizj ; e temendo che i nemici in
oc Quasi aiaao Ktft$ gioTaoi, ma forte
ebbero cuti nome ^wi rnt cioè dalla tontora : perchè erano tosi nella parte
anteriore del capo. (a) Si saltava anche prima de’ Salj, però la voce salùores
che precede non è pptieriote al nome de’ Salj. culto lo ÌDsidiassero e
rapisserio; dicono che fabbricasse molti scudi uniformi a quello caduto dal
cielo, accingendosi Mamorìo artefice a questo, che f arme divina per la
somiglianza egualissima con altre umane non più potesse contrassegnarsi e
riconoscersi da chiunque vi macchinasse un inganno. Ebbe quel rito de Cureti
accoglienza e pregio tra’ Romani, come io lo deduco da più seghi, e
principalmente dai spettacoli nel circo e nei teatri. Ne’ quali spettacoli
giovinetti già puberi, acconci d’ abito con cimiero, con spada, e con scudo,
moTonsi come con le leggi di un ritmo armonioso; e £utlioni chiamansi i duci
della pompa, dalla invenzione fattane, sembra, nella Lidia. Questi sono, a me
pare, immagine de’ Salj ; perocché non fanno appunto come i Salj cosa ninna in
foggia de’ Cureti sia negl’ inni sia ne’ salti; e prendonsi da ogni condizione;
laddove i Salj deggiono esser liberi e naturali del luogo, e ricchi di padre e
di madre. Ma perché mai rigirarmi più a lungd su queste cose? È la settima
parte delle leggi sacre indiritta a dar ordine a’Feciali che chiamano. Questi
con greca significazione giudici si direbbono della pace : scelgonsi tra le più
illustri famiglie, e restansi per tutta la vita ht santo ministero. Numa
anch’egli dava la prima volu ai Romani tal ceto venerando. Io non so definire
sé egli ne derivasse l’esempio dagli Equicoli, come alcuni pensano, o se, come
Gelilo scrive, da Ardea : bastami dir solamente che innanzi Numa non erano
Feciali tra i Romani. Numa quando era per dar guerra a’ Fidenati, perchè aveano
fatto scorsa e ruberia nel territorìu'dt
lui ; Numa gl’ ioslitul, perchè vedessero se voleano pa> ciGcarsegli
senza le arme, come vinti dalia necessità poi fecero. E poiché non ci ha nella
Grecia tribunale di Feciali; giudico necessario di adombrare quante e quali De
sieno le incombenze; perchè coloro che ignorano la pietà che i Romani coltivano,
non si meraviglino che tutte ad ottimo fine riuscissero le guerre loro :
certamente imprendeano queste con prìncipj e cagioni onestissime, dond’è che
aveano propizj gl’ Iddi! ne’ pericoli. Non è già fiicile, per la moltitudine,
comprendere le cure tutte de’ Feciali. A delinearle però con tocco lieve son
tali : debbono cioè provvedere ' che i Romani non movano guerre ingiuste a
ninna città confederata ; che cominciando taluna a rompere i trattati verso
loro, vadano ambasciatori, e ne dimandino il giusto prima con parole, poi v’
intimin la guerra, se non ubbidiscono. Similmente se mai confederati alcuni
dicendosi offesi da’ Romani chiedano de’ compensi, debbono i Feciali
riconoscere, se quelli han sofferto contro dei patti; e se par loro che
lamentinsi con diritto fan prendere e consegnare i colpevoli ai danneggiati.
Giudicano su gli oltraggi degli ambasciadori, e vegliano per la Osservanza
fedele dei trattati : fan le paci o le annullano, se fatte sieno contro le
leggi sacre : decidono ed espiano, quante sono, le violazioni fatte de’
giuramenti e delie alleanze' da’ capitani : ma di ciò dirò ne’ suoi Inoghi.
Quanto ali’ andarsen’ essi come araldi per esigere soddisfazione da città che
sembrino offenditrici, ne ho conosciuto (peste cose, non indegne ancor esse che
si risappiano, per la molta cura che involgono della giu-." sUzia e della
pietà. Uno de’ Feciali eletti a voti dagli altri, cinto degli abiti e delle
insegne sacre perchè fra tutti distingnasi, vassene alla città rea: ai primo
toccarne i conGni, attesta Giove ed altri dumi che egli' viene perchè Roma sia
compensata : poi giurando che, dirigesi alla città colpevole, ed invocando s’ei
mentisce, maledizioni terribili contro sè stesso e contro Roma, slanciasi olure
i conGni. Quindi protestandosi ancora col primo che gli s’ imbatte, rustico o
cittadino che sia, C; ripetendo l’ esecrazioni medesime, continua di andare iu
città ; ma prima di entrarvi protestatosi nel modo ine>. desimo col
portinajo e con qual’ altro nelle porte gli capita il primo, s’inoltra sino al
Foro; ove giunto parlamenta co’ magistrati ; aggiungendo tratto .tratto giur
ramenti, ed imprecazioni. Se danno soddisfazione consegnandogli li colpevoli,
egli menali seco e vassene, amico già, dagli amici. Che se dimandano tempo per
consultarsi, ripresentasi dopo dieci giorni, e pazienta Gno alla terza dimanda.
Decorsi trenta di se la città non siegue il dover suo, egli invocati i Numi
celesti e grinfemali se ne parte, questo solo dicendo, che Roma deciderebbe,
tra la sua calma, su loro. Poi recatosi cogli altri Feciali in Senato,
dichiaravi come tutto fu compiuto secondo le leggi sacre, quanto convenivasi :
e che se vogliono risolversi per la guerra niente vi si oppone dal canto degl’
Iddii. Senza tali pratiche nè il popolo, nè il Senato può conchiudere col voto
suo j la guerra. Questo è quanto abbiamo risaputo su’ Feciali. Nelle
ordinazioni di Numa intorno le,, cose divine v’ ebbe in ultimo la classe la. quale
ottennero quanti aveano in Roma sacerdozio ed autorità superiore. Questi con
patria voce si chiamano pontefici dal rifarsi di un ponte di legno che è uno
degl’ incarichi loro ; s son gli arbitri di cose grandissime. Imperocché
giudicano tutte le cause sacre de' privati, de’ magistrati e de’ ministri de’
Numi : fissano le cose religiose non scritte nè solite ; scegliendo le leggi, e
le consuetudini che stimano più acconcie : esaminano tutti i magistrati o tutti
i sacerdoti a’ quali è fidata la cura de’sagrificj e ' della venerazione de’
Numi: provvedono che i loro ministri e cooperatori non violino punto le sacre
leggi : espongono ed interpetrano il culto de’ Numi e de’ Genj a’ privati che
lo ignorano; e se colgono alcuno, disubbidiente agli ordini loro, lo puniscono
secondo i delitti: ma essi non soggiacciono nè a giudizio nè a multe, non
rendendo ragione nè al Senato nè al popolo. Non travierà poi dal vero chiunque
vuole chiamare tali sacerdoti o dottori, o dispensatori, o custodi, oppure
interpetri delle sante cose. Mancando ad alcuno di loro la vita gli viene
sostituito un altro, il più idoneo ripu .tato tra’ cittadini ; nè già il popolo
sceglielo ; ma essi medesimi : 1’ eletto però piglia il sacerdozio, quando
propizj gli siano gli augurj. E tali sono, oltre alcune più piccole, le leggi
più grandi e cospicue di Numa sulla pietà, compartite secondo i rami varj del
culto, per le quali Roma ne divenne più religiosa. Moltissime poi sono le leggi
che guidano r uomo a vita frugale e temperata, e che ingenerano r amore della
giustizia' la quale custodisce in città la coacordia : altre però di queste
sono scritte, ed altre non scritte ma passate pel lungo esercizio in abitudini.
E lungo sarebbe a dire di tutte ; ma basterà dire di due più degne di
ricordanza, e cbe sono argomento delle altre. La legge su’ confini da’ poderi
fu causa che oguuno si contentasse de’ proprj ; non gli altrui desiderasse.
Imperocché comandando a ciascuno di marcare intorno i proprj poderi, e di porvi
de’ sassi per termini, dichiarò sagri que’ sassi a Giove Terminatore, e volle
che tutti periodicamente ogni anno recatisi in sul luogo vi facessero sopra
de’sagrifizj, e stabili parimente una festa in onore degli Dei termini. I
Romani chiamano la festa Terminali, da que’ sassi o termòni, che essi con
simiglianza al nostro idioma, chiamano termini ^ mutata una lettera soia. E se
alcuno involava o trasponeva que’ termini fu per legge sacro agl’ Iddii ;
talché potesse, chiunque volevalo, uccidere qual sacrilego impunemente, e senza
macchia di colpa. Nè stabili tal diritto su’ poderi de’ privati solamente, ma
su quelli del pubblico eziandio, circondandoli di con&ni ; perchè gii Dei
termini tenessero distinte le terre comuni dalie individuali, e quelle de’
Romani dalle altre de’ convicini. Praticano i Romani pur ne’ miei tempi un tal
rito, almeno per apparenza, come ricordatore de’ tempi : perocché riguardano i
termini come Numi, e sagrificano ad essi focacce di fior di farina, ed altre
primizie di frutti, e non già cose animate ; essendo profanità riputata
insanguinarne le pietre. E bisogna che rispettino la cagione medesima per la
quale fecero d’ogni termine un Dio, contenti de’ poderi proprj, non arrogandosi
gli altrui colla forza, o coll’ inganno. Ora però contrassegnano i propri ma a propagare la giustizia e la moderazione
; e con questi tenne il comune di Roma ordinato più ancora di una famiglia. Con
quello poi che ora io sono per dire egli fe’ Roma sollecita procnratrice delle
cose necessarie e delle dilettevoli. Considerando il valentuomo che una città
istituita per amar la giustizia e serbare la temperanza non dovea penuriare
delle cose necessarie ; divise tutta la campagna in porzioni chiamate pagi,
assegnando per ciascuna un capo che la visitasse e curasse. Questi recandovisi
di tempo in tempo, e notandovi i buoni o tristi cultori, ne riferivano poscia
al sovrano ; ed il sovrano ricompensava i buoni con lodi e con altre gentili
maniere ; e svergognava i tristi o mullavali, onde accenderli a cultura
migliore. Quelli dunque che sciolti dalle core della guerra o della città sen
vivevano in ampio ozio, pagandone col vitupero o colle multe la pena,
diventavano tutti operosi in lor bene, e riputavano la ricchezza della terra
che è la più giusta di tutte, essere ancora più dolce della militare, che
incerta fluttua ognora. Segui da ciò che Numa fu amato dai sudditi, emulato da'
vicini, e celebrato da’ posteri. Per opera di lui nè sedizione interna disunì
la città, nè guerra esterna la distolse dalla disciplina sua bonissima e mirabilissima.
E tanto i circonvicini furono alieni da prendere la calma inerme de’ Romani
come occasione d’ invaderli; che se prorompea guerra alcuna tra quelli,
assumevano i Romani per mediatori; e deliberavano di spegnere le inimicizie su
le condizioni date da Numa. Pertanto io non prenderei vergogna di collocare
questo uomo tra’ più famosi per sorte beata. Nato di regia stirpe ebbe regia
presenza, e si esercitò nelle discipline non già di lettere vane, ma in quelle
donde apprese la pietà verso i Numi, e la pratica di altre virtù. Giovine fu
riputato degno di prendere il comando di Roma : ed invitatovi a prenderlo per
la bella fama delle sue virtù, regnò per tutta la vita su popolo docilissimo.
Complesso com' era di persona ^ nè danneggiatone mai dalla sorte, giunse a
lunghissima età. Finalmente consumato dalla vecchiaja venne meno a sé stesso
con morte placidissima. Quel medesimo genio di felicità che gli era toccato da
principio, quello sempre lo accompagnò finch’ egli non fu tolto dall’ aspetto
de’ mortali. Visse più di ottant’anni, regnandone quaranlatrè. Di lui restarono,
come i più scrivono, quattro figli, ed una figlia, de’ quali conservasi ancora
la discendenza : ma Gellio scrive che egli non lasciò che una figlia, dalla
quale nacque Anco Marzo, terzo re di Roma dopo lui. Tutta la città si abbandonò,
lui morendo al dolore ; facendogli nobilissima sepoltura. Egli riposa nel
Gianicolo di là dal Tevere. E tali sono le (jose che ‘ abbiamo risapute su
Numa. IVEancatO Numa Pompilio, i Senatori arbitri nuovamente de’ pubblici
affari deliberarono di conservare il governo medesimo: nè già il popolo era di
altro avviso. Adunque deputarono un numero certo de’ Seniori i quali
comandassero intanto nell’ interregno. Da questi, approvandolo tutto il popolo,
fu nominato re Tulio, Ostilio, di cui la origine fu, come siegue. Un tale,
Ostilio di nome, uomo nobile e facoltoso di Medullia, città fondata dagli
Albani, presa a condizioni da Romolo e venduta colonia romana, trasportatosi,
per domiciliarvisi, a Roma, vi tolse in moglie una sabina, la figlia appunto di
quella Ersilia, la quale, ardendo la guerra co’ Sabini, consigliò le sue
nazionali di ao libro in. 2 i 5 darne oralrici ai padri loro su de’ mariti, e
la quale sembra la cagion principale che i due popoli si racchetassero.
Compagno costui di Romolo in più guerre, e segnalatovisi per opere grandi ;
moti finalmente, lasciando un unico figlio, nel combattere co’ Sabini, e fu
sepolto dai re nella parte più insigne
del Foro, onorato di una iscrizione, che la virtù ne ricordava. Cresciuto 1’
unigenito suo, e legatosi con nobile matrimonio, ne ebbe un figliuolo; e Tulio
Ostilio fu questi, uomo elBcace. Dichiarato monarca dal voto, dato secondo le
leggi dal popolo; i Numi ne approvarono con augurj propizi la scelta. Quando
egli prese il comando, volgea r anno secondo della olimpiade vigesima settima
nella quale Euriboto ateniese vinse nello stadio essendo arconte Leostrato (a).
E nello stringere appena lo sceu tro si affezionò la classe de’ mercenari e de’
poveri con questa liberalissima azione. Aveansi i re predecessori eletto ampio
e bel territorio, colle rendite del quale fornivano i templi di sagrifiz), e le
regie case di abbondanza moltiplice. Romolo avealo tolto a’ primi possessori
colla legge delle armi : e morendosi lui senza figli, aveaselo goduto Numa che
gli succedette nel re^ gno. Laonde non era allora quel podere del popolo ; ma
perpetuamente dei re. Tulio nondimeno concedè che si compartisse tra’ Romani
privi in tutto di campagna; dicendo essere a lui sufficienti le sostanze
paterne per le cose de’ Numi, e della regia famiglia. Sollevò Romolo e Tazio. ( 3 ) Anni di Roma 84 secondo
Varrone, 8 a secondo Catone, avanti Cristo 670.] Goa questa beneGcenza li
cittadini bisognosi ; tanto che non più stentassero in servigio degli altri. E
perché ninno fosse privo di alloggio aggiunse a Roma il monte Celio chiamato.
Ivi quanti non aveano magione se la fabbricarono, pigliatovi sito che bastasse
: ed egli stesso la sua residenza vi collocò. E tali sono le operazioni urbane
di quest' uomo degne di ricordanza. II. Ma delle militari molte se ne
raccontano, ed io mi accingo a parlarne, cominciando dalla gueiTa di lui con
gli Albani. Gluvilio, un Albano, allora magistrato supremo, fu cagione che i
dne popoli consanguinei si scindessero, e separassero. Punto da invidia, e mal
più la invidia potendo rattemperare su la prosperità de’ Romani, come superbo e
maligno per indole, risolvè d’ implicare i due popoli in guerra vicendevole.
Non sapendo però come volgere gli Albani a commettergli che portasse 1’
esercito contro Roma ; altronde non avendone alcuna causa giusta e necessaria;
macchinò' questa o simile trama. Concitò, promessane la impunità, li più poveri
e li più baldanzosi degli Albani a far preda su’ campi romani: dond’ è che
seguendo un guadagno senza pericolo molti che tra ’l pericolo ancora seguito r
avrebbero, empierono le terre vicine di assalti e di latrocinj. E ciò fece con
disegno non alieno, come r evento stesso lo dimostrò. Perciocché prevedea che i
Romani non sofierendo le rapine correrebbono all’ armi, che egli potrebbe
accusarli al suo popolo come primi a romper la guerra : e prevedea che
moltissimi Albanesi invidiosi delia prosperità della colonia, riceverebbero C6n
piacere le accuse, e farebbero la guerra contro di senti se fosse da accettarsi
il partito. A16ne, ascoltatine i roti, tornò nel consesso e disse: A noi non
sembra o Tulio che abbiamo a lasciare solitaria la nostra patria, deserti i
templi paterni, vuote le case degli antenati, e desolata infine quella sede che
i nostri padri tennero quasi per cinquecento anni; tanto più che nè guerra ce
ne bandisce, nè flagello niuno del cielo. Non però ci dispiace che formisi un
Senato, e che una sia la città che domini, sut altra ancora. Scrivasi questo se
così vi pare, tra le condizioni, e levisi ogni seme di guerra. Concordi 6n qui,
difTerivano poi sa la città che prenderebbe il comando. E molti furono i
discorsi quinci e quindi tenuti, giustificando ognuno che dorea la propria
città signoreggiare su l’ altra. L’ Albano insisteva su questo diritto : Noi o
Tulio siam dagni di comandare anche al resto d Italia, perchè una gente siamo
di Grecia, e la più potente che qui in torno si alloggi. Crediamo giusto di
precedere i Latini almeno, se non altri, nè già senza cagione; ma per la legge
comune data dalla natura a tutti gli uomini, che 1 padri comandino ai figli :
crediamo che ci si convenga il Comando su la vostra città, piucchè su le altre,
che pur sono nostre colonie, delle quali non possiamo finora dolerci. Noi
abbiamo inviato la colonia nella vostra ; nè già da tanto tempo che siane per t
antichità svanito ogni legame di sangue ; ma indietro da tre generazioni.
Quando la natura avrà capovolte le leggi umane facendo che i giovani
maggioreggino su veechj, e li posteri su gli antenati; allora, e non prima, noi
sottoporremo la nostra città madre perchè sia governata dalla colonia. Questo è
ìuno de' titoli della nostra superiorità, nè questo mai cederemo
spontaneamente. Il secondo è tale. Voi lo prendete, detto non come per calunnia
o doglianza, ma per sola necessità. Il popolo di Alba mantienesi ancora qual
era sotto de' fondatori : nè può alcuno additarvi altro ramo di uomini, se non
Greci o Latini, partecipi della nostra repubblica: ma voi avete contraffatto la
sì gran purità della vostra cittadinanza intrinsicandovi Tirreni e Sabini, ed altri
barbari molti, erranti e senza patrj lari. Tanto che poco soprawanzavi di quell
ingenuo lignaggio che da noi vi si diramava, ed è questo, come un solo, tra i
moltissimi, ricevuti dt altronde. Se noi vi cediamo il comando; il . non
ingenuo comanderà su l ingenuo, il barbaro al Greco, i estero al patriota. Nè
già potreste voi dire che non permettete a peregrini di amministrare il comune,
e che voi, naturali del luogo, voi presiedete e regnate : voi creale re
forestieri, e senatori in gran parte di altri popoli. Dite: v'inducete a ciò di
vostro volere? Ma chi mai di voler suo f chi se più sia valeni uomo abbandonasi
cd governo dei meno riguardevoli ? E se apparisce, che voi siete a ciò sospinti
da necessità, ben sarebbe grande tj pravità, grande la manìa nostra se
volontarj a tanto c inchinassimo. Da ultimo così dico ; in Alba niuna parte
ancora si è smossa della repubblica : corre già, da che vi si abita la decima
ottava generazione ; e V ordine ancora vi si mantiene, e le abitudini
primitive. Ma la vostra città senza buorì ordine e senza bel complesso, come
nuova, e sorta da più genti, assai bisogna di tempo e di vicende, perchè
inferma e scissa, com’ ella è, sì articoli e calmisi. Tutti poi concederanno
che deono le cose ordinate antistare alle disordinate, le cose note alle ignote,
e le sane alle inferme. Voi dunque chiedendoci in contrario ; non bene
adoperate. A Fuffezio che cosi ragionava sottentrando Tul.> lo rispose, o
Fuffezio, o uomini di Alba noi li abbiamo uguali con voi li diritti della
natura e del merito de progenitori ; perocché vantiamo ambedue la origine da
capi medesimi. Quindi niuno è di noi da meno, o da più dell’altro. Noi non
istimiamo nè vero nè giusto che debbano le città madri, quasi per legge
indispensabile della natura, dominare su le colonie. E molte sono le nazioni
dove le città madri servono, non comandano alle colonie. Massimo, luminosissimo
aSi esempio del proposito mio si è Sporta, elevatasi a comandare non pur gli
altri Greci: ma fino i Doriesi da’ quali discendeva. Sebbene e che giova dir su
gli altri? Voi stessi, voi padri della colonia che fece tlioma, voi non siete
che un tralcio de’ Laviniesi. Quindi se diritto è della natura che le città
madri regnino su le colonie, non saranno con precedenza i Laviniesi li
legislatori de’ nostri popoli ? E ciò sia detto sul primo de’ vostri titoli sì
bello nelle apparenze. Siccome tu poscia o Fuffezio ti davi a contrapporre r
una all’ altra città, quali sono, dicendo che il puro lignaggio di Alba
rimanesi tale ancora; laddove il nostro si è degenerato col tanto
soprajfondervi de' forestieri, e che non sono degni i non ingenui di comandare
agli ingenui, nè i forestieri agl’ interni ; vedi, quanto anche in ciò ti sei
deviato. Tanto è lungi che noi vogliamo vergognarci di rendere la patria nostra
comune a chi vuole; che anzi,, di ciò moltissimo ci gloriamo : nè già siamo noi
gli autori di tale istituzione : ma ce ne diede Atene l’esempio, Atene tra
Greci famosissima per questo, almeno in parte se non in tutto. E questa pratica
è sorgente a noi di molti beni non che ci dia rimprovero e pentimento, quasi
per essa, mancassimo. Tra noi comanda e provvede, e tali altri onori si gode
chi di essi è degno non chi tiene il molto oro, nè chi può la serie additare
degli avi sempre nazionali : perciocché non poniamo in altro la nobiltà che
nella virtù. ; l'altra moltitudine non è che il corpo della città il quale
somministra potenza e forza a savissimi consiglieri. Con tale benevolenza si è
la nostra città fatta grande di piccola, e formidabile d' ignobile tra’ popoli
intorno, ed è cominciata tra noi la forma di signoria, che tu o Fuffezio
condanni, e che niuna ornai de’ latini può disputarci'; perocché sta la potenza
delle città nella forza delle armi ^ e la forza delle armi nella moltitudine
delle persone. Ma le città piccole, e spopolate, e però deboli non comandano le
altre, anzi nemmeno sé stesse. Jo generalmente stabilisco che uno debbe
esaltare il proprio governo e riprovare quello degli altri, quando può
dimostrare che la sua città col metodo che le ascrive, diviene glande e felice,
e che le altre se ne decadono e sconciansi appunto col non seguirlo. Ora così
vanno le cose; la vostra città già nel fior della gloria, già ricca di molti
beni, si è ridotta ad uno scarso abitato ; e noi movendoci da piccioli principi
abbiamo tra non molto tempo ingrandito Roma più d’ ogni altra città vicina, e
colle istituzioni che tu ne biasimi. Le. nostre sedizioni, poiché di queste
ancora tu ne incolpi o Fuffezio, nontendono alla depressione o rovina, ma
sibbene alla salvezza ed incremento del comune. I giovani vi contendono co’
schiari, i nuovi con gli antichi cittadini chi più debba operare il pubblico
bene. E per dir tutto in breve, spettano alla città che dee comandare le due
qualità, forza nel guerreggiare, e saviezza nel risolvere; e queste tra noi
sono ambedue. Né ce ne fa testimonianza un millantarsene vano, ma il fatto che
supera ogni dire. Imperocché non era ni.
233 possibile che la nostra città nella terza generazione appena dopo la
origine, fosse già divenuta sì grande e' potente, se non abbondavano in lei
senno e valore. Argomentano la nostra potenza le tante città. Ialine le quali
sebbene da voi fondate, pure voi dispregiane do, si concederono a noi per
essere comandate anzi da Roma che da Alba. E questo perchè potevamo noi
prosperare gii amici e por già gl’ inimici ; ma non potfiono gli Albani
altrettanto. Ben altre cose e fortissime o Fuff&sio potrei rispondere ai
diritti che ne presentasti. Ma considerando che vano è il distendersi,
perciocché il dir breve vale quanto il prolisso con voi che siete i competitori,
ed i giudici; cesso tT insistere. Aggiungo soltanto, e finisco, che io penso
che tunica maniera, bonissima per togliere le nostre controversie, della quale
si valsero greci e barbari ne’ dissidj di principato edi territorj sia questa,
cioè che gli uni e gli altri veniamo a battaglia con una parte solamente
dell’esercito, vincolando la sorte della guerra alla vita di pochissimi, e
concediamo che la città che co’ suoi guenneri vince i guerrieri delt emula,
quella domini ancora. Ben è giusto che ove le parole non vogliono, i brandi
decidano. Tali furono le dispute di que’ due principi su la preminenza delle
città : ma il seguito delle dispute non fu se non quello suggerito dal Romano.
Imperocché quelli di Alba e di Roma presenti al colloquio cercando ^ un
sollecito fine alla guerra ; deliberarono di risolver la lite colle armi.
G)ncluso ciò, si ebbe controversia intorno ai numero de combattenti; non
sentendone ambedue li capilani in un modo. Imperocché Tulio voleva che si
decidesse la gara col menomo delle persone, contrapponendo per combattere uno
de’ più riguardevoli Àlbahi ad altro simile de’ Romani : ed egli stesso era
pronto a spendersi per la patria, invitando TAlbano ad emularlo. Diceva che era
pur bello che quelii che prendono il comando delle schiere, prendano pur la
tenzone pel comando e pel principato o vincano de’’ valent' uomini, o vinti ne
siano. E qui ricordava quanti capitani e quanti re cimentarono la vita loro per
lo comune, tenendo essi a vii cosa di partecipare al più degli onori, ed al men
della guerra. L’ Albano credea ben detto che dovessero le due città rischiarsi
con pochi: discordava però su la battaglia di un solo contro di un solo.
Esponeva che bello, anzi pur necessario è il combattimento da solo a solo
intorno la sovranità pe’ capi degli eserciti quando fondano la propria potenza;
ma che stolido anzi vituperoso è ne’ suoi pericoli quando ne disputano due
città sia che sperimentino sorte propizia sia che malvagia. Adunque consigliava
che tre valent’ uomini dell’una e tre deU’allra città pugnassero in vista di
tutti gli Albani e Romani ; essendo questo numero, come avente principio, mezzo
e fine, propriissimo alla total decisione della controversia. Ciò stabilito per
voto de’ Romani e degli Albani il congresso fu sciolto ; e ciascuno ritornò nei
proprj 'alloggiamenti. Poi convocando i capitani ciascuno le loro milizie a
parlamento, riferirono la disputa vicendevole, e le condizioni ricevute per la
soluzion della guerra. Approvarono vivamente gli eserciti i patti di ambedue li
capitani ; e gara meravigliosa di onore comprese centurioni e soldati ;
desiderando moltissimi di riportare la palma di quel combattimento, e
studiandovisi non pur con parole, ma profTerendovisi con preludj di bell'
ardore ; tantoché si rendette malagevole ai duci il giudiziosu quelli che erano
i più idonei. Se alcuno vi era nobile per luce di origine, o forte per
gagliardia di corpo, o cospicuo pe’ fatti di arme, o segnalato comunque per
eventi ed ardire, insisteva che mettessero lui primo fra i U'e. Ma tali fiamme
di emulazione che più e più si dilatavano in ambedue gli eserciti le ripresse
il capitano di Alba col riflettere che la provvidenza celeste antivedendo già
da tanto tempo la tenzone che sarebbe tra le due città, ne avea preordinato che
quelli che vi si cimenterebbero fossero non ignobili di lignaggio, buoni in
guerra, belli a vedere, nè simili a molti pe’ casi della nascita rara,
meravigliosa, impensata. Sicinio un di Alba avea nel tempo medesimo maritato
due figlie gemelle, 1’ una ad Orazio Romano, e r altra a Curazio un Albano di popolo. Ingravidarono ancora
ambedue queste donne in un tempo, ed ambedue diedero nel primo parto prole
virile, e trigemina. I genitori pigliandone buon augurio per sé, per le
famiglie, e per le patrie allevarono e perfezionarono tutti que’ gemelli. Iddio,
come io dicea da principio, diè loro beltade, robustezza, magnanimità; talché
non cedeauo a niuno de’ben avventurati per indole. A questi Mei testo Corazio. Sigonìo crede che vada
bene e che in Tito Livio si debba leggere Curazio, com' egli ha trovato in un
manoscritto e non Cariazio come comnnementesi legge. deliberò FufTezio di
appropiare la battaglia sa la preminenza de’ popoli. Quindi invitando vid un
colloquio il re di Roma gli disse: XIV. Un Dio, sembrcuni o Tulio che
provvedendo le nostre città, dia loro segni manifesti di benevolenza in p ià
cose; come su la tenzone imminente. Certo ben dee parere in tutto opera divina
e meravigliosa che si rinvengano per combatterci uomini non inferiori a niuno
di prosapia, buoni nelle armi, belli a vedere j originati da un padre, nati da
una madre sola, e venuti', ciò che è pià singolare, in ungiamo stesso alla luce
; e tali sono gli Orazj fra voi, tali fra noi li Curazj. Che dunque non
abbracciamo una tale provvidenza divina, e non assumiamo ambedue per questa
gara di sovranità que trigemini ? Bisplendono tn essi ancora le doti sublimi,
quante altre mai ne brameremmo in chi fosse per uscire al paragone delle armi;
ed essi pià che tutti gli Albani e Romani han pure il bene che essendo fratelli
non abbandoneranno, pericolano, i compagni nella impresa. Cesserà subitamente
rimpetto a loro la emulazione difficile a calmarsi per altra maniera in altri
giovani, de' quali tnolti tra voi penso che di virtà competerebbero, come Ji'a
gli Albani competono. Noi persuaderemo questi di leggeri, se additeremo loro
come la bontà Divina ba prevenuto le sollecitudini umane, dandoci con. egualità
chi decida con le armi le contese della patria. Nè già crederanno di essere
superati dalla virtit dè' fratelli trigemini; ma da certa prosperità di natura
ed opportunità di fortezza eguale in essi per competere. Cosi disse Fuffezio, e
comune ne fa I’ approvazione, quantunque presenti vi fossero i più bravi di
Alba e di Roma. Soprappensò Tulio un poco, e seguì : Ben sembra o Fuffezio che
abbi tu saviamente concepito. Imperocché meravigliosa è la sorte che ha dato in
questa generazione ad ambedue le città prole tanto simile; quanta altra volta
mai non vi s’incontrò. Mi sembra però che non abbi tu considerato che assai
rattristeremo i giovani se chiediamo che fra loro dontendano. Imperocché la
madre degli Orazj nostri è sorella della madre de' vostri Curazj : e questi
cresciuti giovanetti nel seno di tali due donne si carezzano ed amansi come
fratelli. Bada che non sia forse, indegna cosa dare le armi e sospingere gli
uni alla morte degli altri, questi, congiunti per fratellanza e per educazione.
Il sangue se vi si astringono, il sangue di cui si lordano ritornerà su noi che
ve li astringiamo. Replicò F ufTezio ; iVbn ignoro o Tulio, il parentado de’
giovani ; nè io già, se li ricusano, sono per violentare i cugini alla
battaglia. Ma non sì tosto mi venne in pensiero di mandare dal canto mio li
Curazj di Alba io gli investigai se porrebbonsi volentieri al cimento. E
ricevendo essi il dir mio con enfasi incredibile e meravigliosa, io fui
deliberato allora di svelare e proporre quel mio sentimento. Suggeriscoti che
anche tu facci altrettanto chiamando quei tuoi trigemini, ed esplorandone i
cuori. Che se vorranno anch’ essi esponersi per la patria, tu ne accetta la
benevolenza : ma se ricusano, tu per niun modo non isforzarvegli. Io di loro
presagiscoti ciocc/l’ è degli altri miei. Se come abbiamo ascoltato ( giac~ chè
venuta è fino a noi la fama della loro virtà ) sa~ migliano i pochi bennati, e
se bellicosi ancor sono per indole ; abbracceranno prontissimi, e senza che
niuno ve li necessiti, di combattere per la patria. XVI. Accolse Tulio il
suggerimento : e conchiusa una tregua di dieci giorni per consultarsi, e
tentare 1’ animo degli Orazj, e risponderne ; si ricondusse a Roma.
Deliberatosi ne’ primi sei giorni co’ migliori, e vedutili per lo più propensi
agl’ inviti di Fufiezio; chiamò li fratelli trigemini, e disse : Fu/fezio o
uomini Orazj, abboccatosi meco nell' ultimo congresso nel campo, mi annunziò,
che crasi fatto per la provvidenza degli Iddii, che si cimenterebbero per V una
e per V altra città tre bravi, de quali invano ne cercheremmo altri più.
valorosi, o più idonei, cioè li Curazj per Alba, e voi pe'Jìomani. Ciò
conoscendo, mi disse, che aveva egli primo investigato, se que vostri cugini si
esporrebbero volontari per la patria : e trovatili che ardentissimi
correrebbono ad ogn impresa, inanimatone mi propose V evento, invitandomi
perchè io vedessi di voi parimente, se voleste offerirvi per la patria, e
rispondere in campo ai Curazj, o se lasciaste ad altri tanta emulazione. Ben io
mi argomentava che voi per lo valore dell’ animo, e per la possanza delle mani,
doti in voi non occulte, spontanei più che tutti, vi rischiereste per trionfare
: ma temendo che la consanguinità vostra co’ tre gemelli di Alba non fosse un
impedimento al vostro ardore, chiesi tempo a risolvermene, e feci tregua con
lui di dieci giorni. Restituitomi in Roma adunai li senatori, e proposi
l’qffare sicché ne discutessero. Parve al più, di loro che se voi spontanei vi
mettereste alla impresa, bella e degna di voi, impresa che io già voleva, solo
io per tutti combatterla ; allora ve n esaltassi e v ac-^ cettasi. Ma se voi,
restii contro al sangue de vostri, e non già confessandovi pusillanimi,
dimandereste altri fuori della vostra famiglia ; allora, parve loro, che io non
dovessi farvene la menoma violenza. Così pronunziava il Senato : nè già ne avrà
egli rammarico se voi riguarderete la impresa come grave: ma non picciola è la
gratitudine che dovravvene, se voi pregierete la patria più de’ parenti. Or su
ponderate col bene vostro, ciocché siate per farvi. Udendo i giovani questo ;
si ritirarono, e conferirono brevemente. Tornatisi quindi a rispondere cosi
disse il maggiore fra loro : Se noi fossimo liberi; se fossimo gli arbitri
unici delle nostre risoluzioni; e tu ci avessi o Tulio incaricato di
consultarci su la pugna contro i nostri cugini: già ti avremmo risposto de'
nostri voleri. Ma perocché vive il nostro genitore senza cui niente vorremo
dire nè fare ; preghiamoti che ci concedi alcuna requie a risponderti, finché
ce ne intendiamo con esso. Encomiando Tulio la pietà loro, e volendo che cosi
appunto facessero ; partirono in verso dei padre. Dichiaratogli l' invito di F
uffezio, il colloquio di Tulio con essi, e la risposta vendutagli ; alfine
insisterono perchè dicesse ciocch'egli ne sentisse. E colui sottenlrando disse
: Pietosamente o figli adoperaste riserbandovi al padre, nè risolvendovi senza
a4o lui. Ma ò tempo ornai che voi pure vi manifestiate idonei a tali consigli :
concepite già venuto il fine dei miei giorni; palesatemi ciocché scegliereste
di fare, deliberandovi tra voi sema del padre : Allora cosi rispose il
maggiore: Noi o padre assumeremmo a noi di combattere per la preminenza di
Roma, e ci porremmo alle vicende che a Dio si piacessero; bramosi anzi di
morire che di vivere indegni di te e degli oìvtenatì. Il ligame del sangue co’
nostri cugini non lo avremo noi sciolto i primi; ma come sciolto già dalla
sorte, placidi lo mireremo : perocché se i Corcai; stimano la parentela men che
il benfare ; nemmeno agli Orca] parrà quella più. onorevole della virtiu Come
il padre conobbe i loro sentimenti, divenutone lietissimo, e sollevando le mani
al cielo, parve che rendesse copiose grazie agl’Iddii, perchè gli avessero dato
figli onesti e generosi. Quindi prendendoli uno per uno, e dando loro
soavissimi amplessi e baci di amore, voi vi avete, disse, magnanimi figli,
anche il mio voto. An• date j rispondete a Tulio i pietosi e belli sentimenti.
Allora giojosi quelli per le ammonizioni paterne si divisero, e corsi al
monarca accettarono la battaglia. E colui convocato il Senato, e mollo encomiativi
i giovani spedisce messaggeri alPAIbano per dichiarargli che i Romani sieguono,il
suo volere, e pongono gli Oraz) per combattere sul principato. Ora dimandando
il subbletlo che rappresentisi diligentemente la forma della battaglia, nè
scorrasi di volo su’ casi che la seguirono, simili a quelli di una tragedia,
tenterò di pareggiare, quanto io posso, coi detti ogni cosa. Venuto il tempo di
compiere le condisioni, uscirono tutte in campo le milizie romane, e dopo le
milizie, fatte prima suppliche ai Numi, uscirono i giovani. Essi ne andavano
compagni del re, mentre il popolo per tutta la città gli acclamava, e spargeva
loro de’ fiori sui capo. Erano già uscite anch’esse le schiere albane.
Collocatesi le une in vicinanza delle altre destinarono per teatro dell’ azione
il campo che separa i confini di Alba e di Roma ove già s’ alloggiavano
entrambi gli eserciti. Quivi sagrificando giurarono anzi tutto Romani ed Albani
su le vittime che ardevano di essere contenti della sorte la quale per r una e
per l’altra città risulterebbe dal combattere dei cugini, e di osservare
santamente i patti senza mescervi inganno, essi nè i posteri. Compiuti tali
sacri riti in verso de’ Numi si avanzarono in arme dal proprio campo,
spettatori gli uni e gli altri della battaglia ; lasciando, tre stadj o quattro
di spazio intermedio pei combattitori. Prescntaronsi indi a non molto il
capitano di Alba ed il re di Roma conducendo quello i Curazj, e questo gli
Orazj, armati splendidissimameute, e con apparato quale il prendono, uomini
destinati alla morte. Giunti gli uni vicino agli altri consegnarono le loro
spade agli scudieri ; e corsero e si abbracciarono, piangendo vicendevolmente,
e chiamandosi co’ più teneri nomi; talché datbi tutti intorno alagrimare,
accusavano la grande inumanità loro, e de’ capitani, perché potendo definire la
lite con altri, l’ aveano ridotta al sangue de’ parenti ed ai contaminarsene
delle famiglie. Staccatisi CDalmente i giovani dagli amplessi, ripigliale dagli
scudieri le spade, e già ritiratisi quanti s’ aveano intorno, si contrapposero
secondo la statura, e si avventarono.. XIX. Stavansi Gn qui le milizie placide
e senza clamori : ma poi da ambedue proruppero grida frequenti, esortazioni
scambievoli per chi avea da combattere e voti e rammarichi, e continui suoni di
voce, varj secondo r ondeggiare vario della mischia, quali per le cose fatte e
vedute dall’ una e dall’ altra parte, e quali per le cose future o pronosticale
: ma più dalle immaginazioni ne derivavano che dai successi ; perocché la
visione fatta in tanta distanza non era ben chiara ; e passionandosi tutù
pe’loro combattenti, prendeano come avvenuto quanto ideavano. E gli assalti
incessanù, le ritirate degli emuli, e li passaggi rapidi, e li rivolgimenù degli uni in su i luoghi degli altri levavano
ai riguardanù la forza del distinguere. Durò tal vicenda gran tempo; perocché
gli uni e gli altri aveano pari le forze del corpo, pari la generosità degli
animi, e bonlssime le armi che li circondavano; nè rimaneano loro membra alcune
indifese ; tanto che feritivi, subito ne morissero. In tale stato molti Romani
e molti Albani in mezzo all’ansia di vincere e nel commovei'si pe’loro atleti,
s’ inGammavano, elGgiandosi appunto con gli affetti di quelli, quasi volessero
anzi star nel conflitto, che rimirarlo. AlGne il maggiore degli Albani
serratosi col Romano che stavagli a fronte, e dando e ricevendo Cioè il voiiat della taccia, molalo luogo.
colpi su’ colpi ; immerse non so come la spada nel> r anguinaja dell’ emulo.
Questi ingrevilo già da altre ferite ai riceverne l’ ultima e mortale, cadde,
rilascian dosi nelle membra, e spirò. Alzarono a tal vista gli spettatori tutti
le grida ; gli Albani come già vineitori, e li Romani quasi già vinti ;
concependo i due loro fàcilissimi da essere conquisi dai tre degli Albani.
Frat' tanto il Romano che era per soccorrere il caduto com> pagno y vedendo
quanto l’Albano rabbellivasi ai fausto evento, si spiccò come un lampo su lui,
e menando e riportando ferite in copia, alfine gli cacciò la spada nella gola e
lo uccise. Ricambiatisi in poco d’ ora i successi de’ combattenu, e le
affezioni degli spettatori, elevandosi i Romani dal primo abbassamento, e per^
dendo gli Albani la esultazione ; un’ altra volta ancora la sorte spirò
contraria ai Romani, e ne umiliò le spe concio ; por zoppicandone, ed
appoggiandosi via via su lo scudo, reggeva ancora, e si ritirava presso del
fratello rimastogli, che starasi alle prese col Romano. Restava a questo F uno
de' contrarj a fronte, venendogli r altro da tergo. Allora temendo che avendola
a fare con due che da due lati lo investivano, sarcbbenc facilmente rlnthiuso :
e trovandosi invulnei^to ancona ; pensò di separare i nemici e combatterne. 1’
uno dopo r altro. Concepì che avrebbeli facilmente disgiunti se facesse vista
di fuggire; non potendo ambedue segui tarlo, giacché vedeane l’ uno infermo del
piede. Cosi deliberato fuggi con quanto avea di velocità, nè gli vennero meno
le speranze. L’ albano che non avea piaga mortale, tennegli immantinente
appresso; ma l’ invalido a camminare si rimase più addietro che non dovea. Qui
gli Albani confortavano i suoi : riprendevano i Romani il proprio guerriero :
anzi cantavano quelli e si maguifìcavano, come sul termine glorioso della
impresa ; ma s addoloravano gli altri come non più potesse la fortuna
rasserenarsi verso di loro. Quando ecco il Romano, coltone il punto, si rivoltò
rapidissimo ; e prima che r Albano potesse guardarsene, gli diè colla spada in
un braccio, e spiccoglielo nel gomito. Fattagli. cadere la mano e colla mano la
spada gli sopraggiunse un colpo, e con questo la morte. Quindi si lanciò su r
ultimo albano e lui già derelitto, già semivivo scannò. Poi spogliati i
cadaveri de’ cugini, corse in città ; volendo esso il primo dare al padre la
nuova della vittoria. Portavano però i destini che essendo mortale anch’ egli
non avesse prospera ogni cosa ; ma sentisse i morsi ancora della invidiosa
fortuna. Lo avea questa iu pochi momenti venduto grande di picciolo, e
sollevato a chiarezza inaspettata e mirabile, e questa appunto nel medesimo
giorno lo gittò dentro amara sciagura, spingendolo ad uccidere la sorella. Come
egli fu vicino alle porte di Roma, videvi moltitudine immensa che fuori se, ne
versava, e vide accorsa con essa ancor la sorella.^ Tnrbato ài primo vederla
perchè essa, donzella ornai nubile, ave^ lasciato la custodia materna, e si
fosse esposta in mezzo di turba incognita ; ne formava pensieri funesti: ma si
rivolse alfine ad altri più miti e be nevoli, quasi ella cedendo al muliebre
genio avesse ne, gletto il decoro per desiderio dì salutare primieramente il
fratello salvo, e d’ intenderne i fatti virtuosi degli' estinti. Colei però
s’era ardila di mettersi alla insòlita via non' per desiderio del fratello ma
vinta dall’ amore di uno de’cugini, col quale aveale il padre fuo concordate
le. nozze. Celavano colei l’ ineffabile afletto ; ma poiché seppe da un tal
dell’ esercito gli eventi della giornata ; non più lo contenne : ma lasciati i
domestici lari corse come furiosa alle porle di Roma, nemmeno volgendosi alla
nutrice che la seguiva, e la richiamava. Uscita dalla città come vide il
fratello festevole colle ghiriande trionfali dntegli dalle regie mani, e gli
amici che portavano le spoglie degli estinti, e tra le spoglie ancora 1’
ammanto vario, che essa avea colla madre tessuto e màhdato in pegno delle nozze
allo sposo, giacché usano gli sposi futuri tra’Latini abbigliarsi di ammanto
vario; come vide il caro suo dono macchiato di sangue ; si lacerò le vesti, si
battè con ambe le mani il petto; ululò, richiamò l’ amato cugino ; tanto che
grande stupore ne invase quanti in quel luogo si stavano. £ pianto il destino
dello sposo folgorò col fisso sguardo sul fratello, e gridò: Tu esulti o
sozzissimo uomo su la occisione decagoni, e tu, scellerato, tu privasti con ciò
dello sposo la misera sorella tua. Nè pietà senti de’ trafitti parenti che pure
chiamavi fratelli tuoi; ma f innebrj di gioja quasi per buonissima impresa y e
vai fra tanti mali coronato. E qual cuore è mai il tuo ? forse di una fera
? anzi, colui replicò, di un cittadino
che ama la patria ; di uno che punisce chi le vuol male, siasi egli un estraneo
o siasi un domestico. E tra questi colloco te pure, te' che vedendo i beni
grandissimi, e i grandissimi mali in un tempo awemUici, la vittoria della
patria che io qui ti presento, e la morte de tuoi fratelli ; già non esulti o
malvada pe’ beni comuni della 'patria, nè ti addolori pe’ domestici infortuni
> spregiati i fratelli, non sospiri che lo sposo ; e profani te stessa non
fra le tenebre ; ma nel pubblico aspetto di tutti. A me la mia virtù,
rimproveri, a me le mie corone ! O non vergine, non ‘sorella, e non degna degli
avi! Poiché dunque non piangi i fratelli ma lo sposo ; poiché tieni il corpo
co’ vivi, ma V anima colf estinto ; va, ten corri a lui che richiami, nè più.
disonorare il geni' tare, e i fratelli. Cosi dicendo, più non serbò misura
nell’ odio della scellerata ; ma le immerse con quanto area d ira la spada
ne’Ganchi; ed uccisala andossene al padre. I costumi e gli animi de’ Romani
erano allora cosi pieni dell’odio del male, e cosi fermi in questo; che se
alcuno li voglia paragonare co’ nostri, dirà che erano aspri e duri, nè diversi
molto da quei delle fiere. Il padre udita la spaventevole uccisione non -solo
non se ne corrucciò ; ma la tenne come debita e decorosa ; perciocché nè
permise che fosse portata nella sua casa ; nè procurò che la seppellissero
nelle tombe degli avi ; nè clic fosse
con esequie e fregi, c conianque coTunebri riti onorata. Ma coloro che
passavano dove giacevasi uc> mettono che uccidasi alcuno impunemente, e
riferendo gli esempi dati dagl’iddi! su le, città che non vendicano gli
scellerati. Faceva il padre le difese del giovine, ed incolpava la Gglia ;
pretestando eh’ ella non ebbe morte, ma castigo : che niuno era nella domestica
sciagura giudice più acconcio di lui come genitore di ambedue. Moltiplicandosi
da arabe le parti i discorsi, assai fu perplesso il monarca come avesse a
terminare il giudizio. Eigli per non portare la colpa, e la maledizione nella
magione sua da quella dell’ autore di esse credea bene che non si assolvesse
chi dichiaravasi reo del sangue della sorella, sparso prima di ogni condanna, e
per cagioni per le quali vietano le leggi che uccidasi : non ammettea però che
si avesse ad immolare come un omi> cida chi avea scelto di cimentarsi per la
patria e tanta signoria le avea procacciato, mentre nou tenealo per colpevole
il padre stesso a cui la natura e la legge danntT ' i primi diritti di
risentimento per la figlia. Incerto come decidersi, tenne da ultimo per lo
meglio rimetterne al popolo la sentenza. Il popolo Romano divenuto allora la
prima volta giudice di un omicida si attenne alle de-^ siinazioni del padre, ed
assolvette il suo liberatore dalla morte. Pure non istimava il re che' bastasse
a chi volea mantenere la pietà verso i Numi tal giudizio venduto dagli uomini:
ma chiamati i pontefici commise loro .che placassero i Geni! e gl’ Iddi!, e
mondassero il giovine colle espiazioni le quali purificano da morti
involontarie.. a 49 E quelli eressero due altari, l’uno a Giunone, Dea
difenditrice delle sorelle, e 1’ altro ad uno Dio, chiamato Genio da’ nazionali, col nome appunto
de’cugini Curazj uccisi dal giovane. E facendo su questi de’ sagrifìzj, ed
usando nondimeno altre espiazioni, da ultimo passarono 1’ Orazio sotto il
giogo. Costumano i Romani, quando diventano gli arbitri di nemici che abbassano
le armi, di piantare due aste diritte, acconciandone una terza supina su di
esse ; e poi di passarvi sotto li prigionieri, e dimetterli alfine liberi verso
le patrie loro. E questo è ciò che chiamasi giogo. Coloro che lustrarono J1
giovane si valsero di tal ultimo rito nel purificarlo. I Romani tutti stimano
sacro il luogo della città dove fu praticata la cerimonia. Rimane questo nell’
angusta via che mena giù dalle Carene coloro che vengono all’angusta via
Cipria. Ivi sorgono altari allora edificati, e su gli altari stendesi 1’ asta
supina confitta ai due muri contrapposti: pende questa sul capo di quelli che
ne escono, e chiamasi nel parlar de’ Romani asta o legno della sorella. Questo
luogo onorato con annui sagrifizj ricorda in Roma ancora la sciagura del
giovane: ma ricorda il valor suo tra la battaglia la colonna angolare che è
principio del portico secondo nel Foro dalla quale pendevano già le spoglie
de’trigemini Albani. Le armi vennero meno per gli anni ; ma la colonna serbane
ancora la denominazione chiamandosi pilastro Orazio. Che anzi evvi in Roma una
legge nata da tal fatto, Genio Curazia:
fu così detto perchè destinato a placare le ombre de' Coratj. Ed Orazio
meritava appunto di essere espiato dal sangue della sorella e de’ cugini. ed osservatavi pur nel mio tempo, a riverenza
e gloria de’ giovani immortali, la quale ordina che nascendo dei tiigemini si
dispensino per essi a pubbliche spese i vi veri Gno alla pubertà. Tal Gne ebbe
la serie delle cose degli Oraz] iniessuta d’ inaspettate e meravigliose
vicende. Indugiatosi il re de’ Romani per un anno onde apparecchiare quanto era
d’uopo alla guerra; inGne deliberò di avanzar coll’ esercito contro Fidene.
Preodea le cagioni di guerra da questo, che invitau i ciuadioi di essa a
giustiGcarsi circa le insidie ordite su gli Albani e Romani non aveano ubbidito,
anzi dando in un subito alle armi e chiudendo le porte e congregando le schiere
ausiliarie de’ Yejenti, erai^si manifestamente ribellati. Aggiungevasi, che
andati gli oratori per inten dervi le ragioni della rivolta, i Fidenati non
altro risposero, se non che non aveano essi cosa alcuna comune co’ Romani Gn
dalla morte di Romolo al quale si erano, giurando, congiunti di amicizia. Su
tali cagioni armò le sye milizie, e fe’ richiedere le conJederate, delle quali
Mezio F uffezio recava da Alba le più numerose in apparato bellissimo ;
tantoché superava ogni altra forza amica. Tulio commendò Mezio, come detet^
minato a prendere seco lui la guerra ardentissimamente, in ogni miglior modo ;
e Io rendè consapevole di tutti i disegni. Ma quest’ uomo incolpato già da’
suoi come rio capitano di guerra, anzi calunniato di tradimento ; questo dopo
che si era tenuto per tre anni sotto 1’ autorità suprema di Tulio, alGne
sdegnando un principato schiavo dell’ altrui principato, e di essere diretto. s5l
pimtosto che dirigere; macchinò cosa non degna. Imperocché mandati messaggeri
segreti a’ nemici de’ Romani, irresoluti anewa per la ribellione, gl’ infiammò
^, che non piò dubitassero ; promettendo che in mezzo della battaglia
investirebbe egli stesso i Romani. E tali cose macchinando e facendo ; potè
rimanersene occulto. Tulio apparecchiate le milizie sue e quelle de’ com-i
pagni le portò su’ nemici, e valicato il fiume Aniene si pose non lungi da
Fidene : ma scoprendo innanzi di questa io ordinanza un gran numero di Fidenati
e loro compagni si tenne in calma tutto quel giorno: nel seguente convocando 1’
albano F nlfezio, ed altri de’ piò intimi amici ponderò con essi com’era da
praticare la guerra ; e poiché parve loro che fosse da combattere spe>
ditamente, senza indugiarvisi ; egli preaccennando i posti e r ordine che
ognuno prenderebbe, e destinando per la zuffa il prossimo giorno, congedò l’
adunanza. Quindi FufFezio che ancora tenevasi occulto con molti degli amici sul
tradimento che meditava, fatti a sé venire i più cmpicui tra’ suoi centurioni e
tribuni disse: Tribuni, centurioni, io sono per comunicarvi grandi, inaspettate
cose, che vi tacqui finora. Vi raccomando se non volete distruggermi che voi
pure le taciate : anzi che miei cooperatori vi siate, se utili a compiersi vi
parranno. Il tempo angusto non consente che io distesamente vi parli di ogni
cosa; e ristringomi alle primarie. Io per tutto V intervallo che fummo
subordinati a' Romani fino a questo giorno ; io m’ ebbi una vita piena di
vergogna e di rammarico j eppure fui onorato dal monoica loro della maaSa gisàratitra 'suprema, oggimaì da tre anni, è
lo sarò' nemmeno per sempre se il voglio. Ma perciocché mi parca t estremo de
vituperj che io' solo mi fossi felice' nella sciagura comune ; e vedeva intanto
io bene che eravamo stati spogliati della sovranità contro tutti i diritti
sacri dell’ uomo ; cosi mi diedi a considerare come potessimo ricuperarla, ma
senza rischiarvi gran fatto. E discorrendola io meco moltissimo ti-ovai una via
sola facile nè pericolosa che guiderebbe all’ intento, cioè che sorgesse loro
una guerra da confinanti. Imperocché prevedeva io che i Romani avrebbono a
chiamare le truppe ausiliarie, e le nostre massimamente, e prevedeva dopo ciò
che non avrei gran bisogno di persuadervi che più. bello, e più giusto è
combattere per la nostra libertà, che per istahilire' r impero de’ Romani.
Spinto da tali pensieri produssi a’ Romani la guerra de’ sudditi loro Fidenati
e Vejenti risolvendoli alle arme con esibire che io prenderei parte con essi.
Fin qui si rimase occulta a’ Romani la pratica ; ed io provvidi intanto per me
la occasione di assalirli. Ora considerate quanto sia questo opportuno.
Primieramente, grande in una ribellione manifesta, sarebbe il pericolo o di
avventurare ogni cosa mentre siamo sprovveduti per la fretta, e contiamo
unicamente su ciò che potrebbero le nostre forze ; o di essere sorpresi da essi
già pronti mentre ci apparecchiamo e ci procuriamo dagli altri un ajuto. Noi
però così non manifestandoci non cor-reremo nè V uno nè V altro disastro,• e ne
avremo raccolto almen questo bene. Secondariamente noi non.. a53ci daremo a
percuotere la grande, la bellicosissima potenza e fortuna degli emuli con le
violente maniere, ma si bene colle artijiziose e scaltre, con le quali si
prendono finalmente le cose trascendenti, e meno facili a battersi colla forza
; nè già saremo a far questo i primi, o li soli. Inoltre siccome le nostre
milizie mal potrebbero schierarsi in campo a fronte di quelle de’ Romani e
degli alleati ; così abbiamo congiunto a noi le forze sì grandi, come vedete,
dei Veìenti e de Fidenati. Anzi si è da me provveduto che le ardite schiere di
questi ne diano con effetto il soccorso che ne ho cercato. Imperocché già non
sarà J.a pugna nelle nostre campagne; ma battendosi i Fidenati per le proprie,
difenderanno in esse an~ coro le nostre. E quello che riesce dolcissimo agli
uomini, quello che di raro occorse ne’ tempi andati ; questo ancora per voi si
combina : noi giovati dai nostri alleati sembreremo di avere ad essi giovato, E
se r affare si termina a piacer nostro, come par verisimile; i Fejenti e li
Fidenati che avranno liberato noi da un durissimo giogo, essi noi
ringrazieranno quasi col favor nostro ottengano un pari benefizio. .Questi sono
i successi che da me con gran diligenza procurati mi sembrano bastare ad
ispirarvi confidenza, e viva prontezza ad insorgere. Ora udite in qual modo io
voglia por mano alla impresa. Tulio mi ha destinato appiè del monte ; perchè io
vi governi luna delle ale. Ma quando saremo per attaccarci co’ nemici ; io non
attendendo allora tale destinazione ; mi ritirerò poco a poco sul monte. Voi
seguitemi allora ordincUamente. Giunto alle cime ed in salvo, udite come io
continuerò. Quando vedrò le cose che qui dico riuscirmi come io le disegno ;
quando vedrò infiammati di corono i nemici perchè noi cooperiamo con essi,
umiliati e spaventati come traditi i Romani ; e come è verisimile, già più.
intenti a pensare la fuga che le difese; allora io starò su loro : ed io
coprirò de’ loro cadaveri il campo ; perocché scendendo dcdC altura destra a
basso, mi gitterò su di essi sbigottiti e dispersi con esercito pieno di beW
ardore e di ordine. 'Rilevantissima è nelle guerre la fama sparsa di un
tradimento anche falso degli alleati, o del giung.'re di altri nemici ; e
sappiamo che grandi eserciti furono totalmente da tali vane apprensioni
rovinati, più che da altri spaventosissimi casi. Il nostro adoperare però già
non sarà fama vana, nè arcano spaurimento ; ma cosa più che tutte terribile a
vedersi e provarsi. Ma ( dicansi pur le cose consuete a presentarsi contro la
espettazione, giacché la vita ne involge molte, nè verisimili ) se gli eventi
riusciranno contro i disegni ; anch’ io farò cose ben altre da quelle che in
mente io ravvolgevami. Allora io piomberò co’ Romani su nemici ; co’ Romani
raccoglierò la vittoria, simulando di aver prese le alture per cingere gt
inimici. Ben avran fede i miei detti concordandosi le opere colle finzioni :
tanto che noi non comunicheremo cogP infortuni di niuno, e solo parteciperemo
lo belle vicende dell’ uno o delC altro. Io tali cose ho deliberato : e tali
cose eseguirò col favorB degV Iddii come bonissime non solo per gli AU boni ma
per tutti i Latini. Bisogna che voi guardiaie prima che tutto il silenzio :
poi, che serbiate il buon ordine, che vi prestiate immantinente ai comandi, che
guerrieri vi siate pieni di bell’ ardore, e che tali rendiate pur quelli che vi
ubbidiscono ; considerando che il combattere nostro per la libertà non somiglia
al combattervi degli altri, consueti ad essere comandati, e lasciati da loro
padri in tale condizione. Noi liberi siamo naU dai liberi : anzi i nostri avi
ci han tramandato il comando su vicini ; serbarono questa forma per cinquecento
anni ; nè di questa si troveranno per noi spogliati li posteri. Nè tema chi
vuole far questo, quasi rompa i trattati, e violi i giuramenti fatti sopra di
essi: pensi piuttosto che egli i diritti ripristina rotti e violati da' Romani
: nè già i tenui diritti ma quelli che la natura ci ha dato degli uomini,
quelli che la legge ha fondato comune ai Greci ed ai Barbari, vuol dire che i
padri comandino j i padri dian leggi ai figli, e le città madri alle colonie.
Questi sacri diritti che mai saranno cancellati dalla natura degli uomini,
questi noi volendo che siano perpetuati, nè frangiamo alleanza fàuna, nè genj
nè Dii ci si potran corrucciate quasi non sante cose facciamo, se mal pià
comportiamo servire cì nostri discendenti. Cnloro però che li hanno conculcato
i primi, e che con opera indegna han tentato di far prevalere la umana alla
le^e divina ; coloro, corn è giusto, e non già noi, s' avranno a fronte V ira
de’ Numi, c su di essi non su noi soi't
gerà la vendetta degli uomini. Pertanto se queste vi sembrano le cose
migliori / eseguiamole, e chiamia^ movi protettori gl’ Iddii. Ma se alcuno
sente in contrario e sente o t una o t altra delle due cose ; vuol dire o che
più, non debba ricuperarsi t antica dignità della patria ; o che debbasi
aspettare un tempo pià acconcio del presente ^ e differire; costui' non esiti,
a dire i suoi pareri; e quello sarà fatto che a tuui sembri il migliore. Alfìae
lodato nel dir suo dagli astanti, e promettendosi questi a far tutto ; esso ne
obbligò ciascuno col giuramento, e dimise radunanza. Nel prossimo giorno all’
uscire appunto del sole, uscirono da’ proprj alloggiamenti le milizie de’
Fidenati e degli alleati, e si schierarono per la battaglia: vennero nemmeno di
fronte i Romani, e si ordinarono. Tulio stesso e i Romani si opponeano coll’ala
sinistra ai Vejenti i quali formavano la destra nel corpo loro. Nell’ ala
destra dei Romani si stava Mezio Fuffezio e gli Albani presso del monte
incontra de’ Fidenati. Rendutisi ornai vicino gli uni degli altri, gli Albani
prima di essere a tiro si staccarono dal resto dell’ esercito, ascendendo
ordinatamentè sul monte: I Fidenati ciò vedendo e cerziorandosi della realtà
del tradimento promesso dagli Albani si portarono più baldanzosi contro de’
Romani. L’ala destra de’ Romani, essendosene tolti gli alleati, erane ornai
rotta e molto in pericolo. Combattea però bravissimamente 1’ ala sinistra e
Tulio con essa in mezzo di scelti cavalieri. Quand’ ecco un cavaliere
affrettandosi verso quelli i quali pugnavano presso del monarca, o Tulio,
disse, la nastra ala destra è sul perdersi : gli jilbani, abbandonatala,
ascendono il monte, ed i Fidenali che li teneano schierati dinanzi, ora
preponderando a fronte ilelt ala tanto indebolita j già la circondano. I Romani
ciò ndcmlu, e vedendo T accelerarsi degli Albani in sul monte; temerono di
essere avviluppali da' nemici, taulu che non aveano cuore nè di combattere, nè
di restare in quel luogo. Or qui, dicesi, che Tulio niente commosso all aspetto
di un male si grave e tanto inaspettato facesse uso dell’ avvedutezza : e che
salvasse con questa 1 esercito ornai nel pericolo manifesto di essere
circondato; c disfacesse e terminasse tutto il bene degli inimici. ltn[>erocchè
non si tosto il messaggero ebbe detto; egli a gran voce sicché i nemici, la
udissero, o Bomani, esclamò, li nemici son vinti. Gli Albani sul mio comando
hanno occupato come vedete il monte prossimo a noi per piombare alle spalle de'
nimici. Mirale ! gli abbiamo pin e al nostro buon punto gli impiegabili
awersaij. Noi siamo loro dirimpetto, e gli Albani alle spalle : pià non possono
aveutzare, ISO retiocedei e. Dall' uno de' lati rinserrali il fiume, dall’
altro il monte : ci daran pure le pene meritate. Andate : avventatevi
intrepidamente su loro. Cosi esclamando ne andava tra le milizie. E ben presto
i Fidenati furono presi dalla paura che quel tra> dimenio, si rivolgesse
fìnalmente su loro per frodolenza del capo degli Albani : perchè nè lo vedeano
schierarsi contro i Romani, nè fulminarsi contro di essi come avea già
promesso. Altronde avea quel parlare iniiammati di VIOSIGI, P>m l. ir ardire
e riempiuti di confidenza i Romani. Adunque scop piando in un grido e
ristrettisi lanciarousi all’ inimico. Piegarono allora, e fuggirono i Fidenati
in disordine alla loro città. Il re de’ Romani rilasciando la cavalleria su
questi atterriti e turbati li perseguitò qualche tempo; ma vedutili poi
sbandati, senza animo di raccogliersi e senza forza, permise che fuggissero ; e
si rivolse contro r altra parte de’ nemici ancora ordinata. Ivi era battaglia
viva tra’fanti; e più viva ancora tra’ cavalieri. Imperocché li Yejenti quivi
schierati non che sbigottirsi e dar volta, resistevano all’ impeto de’ cavalli
romani. Alfine vedendo che l’ ala loro sinistra era battuta, e chel’esercito
de’Fidenati e degli alleati fuggiva tutto precipitosamente, anch’cssi per
timore di non essere colti in mezzo da’ nemici che tornavano da inseguire gli
altri, diedero volta, e si scomposero e tentarono di salvarsi a traverso del
fiume. I più robusti, e men carichi di ferite, nè impotenti a nuotare passarono
senza le armi il fiume e scamparono: ma quanti non aveano l’uno o l’altro di
que’ requisiti, affondavano tra’ vortici ; essendo il Tevere presso Fidene
rapido e tortuoso. Tulio intanto impose a parte de’ cavalieri di uccidere i
nemici che. accorrevano al fiume, ed egli conducendo il resto delr esercito
assali gli accampamenti de’ Vejenti e gl’ invase. E tali sono le operazioni che
diedero, a’ Romani salute inaspettata. Quando il re d’Alba vide manifestamente
vittoriose le milizie di Tulio ; egli per dare a vedere che faceala da alleato,
calando dal monte le sue, le menò contro de’Fideuuti che fuggivano ; e molli in
tale stalo. ... a!xg ne uccise. Tulio vedendo il suo fare, ed esecrando la
nuova sua tradigione, dissimulò di presente, finché lo avesse nelle mani : ansi
diè vista di lodare tra molli come l>onissima l’ andata di lui su pel monte
: e spcuna banda di cavalieri lo richiese che desse ultimi contrassegni di
zelo, incaricandolo, che cercasse con diligenza, e trucidasse que’ Fidenati che
non potendo ripararsi tra le mura, vagavano dispersi intorno • in tanto numero
per la campagna. Colui quasi avesse, già conseguila Tana delle due cose che
sperava, e quasi, fosse accetto veramente a T ullo, ne fu dilettato ; e
cavalcando gran tempo per que’ campi fe’ strazio, de’ prò-, fughi i quali
sopraggiungeva. E già tramontato il sole, condusse i suoi squadroni da tale
persecuzione al campo Romano, c vi festeggiò con gli altri la notte. Tulio di-,
inoratosi nell’ accam|)amento de’ Vejenti fino alla prima vigilia vi esplorava
da’ prigionieri più riguarderoli quali fossero mai stati li capi della rivolta.
Come poi seppe che ci avea tra congiurati anche 1’ Albano Mezio Fuffezio, gli
parve che i fatti di lui concordassero colle indicazioni de’ prigionieri.
Adunque montato in sella si ri-, condusse cavalcando in città fra lo stuolo
dc’suoi più fidi. E prima della mezza notte convocando dalle case loro i
Senatori ; disse del tradimento degli Albani, dandone |)er teàlimonj li
prigionieri ; e narrò gli artcGzj co’ quali egli avea deluso i nemici e li
Fideuali. E poiché la guerra avea fine bonissimo ; invitò loro a discutere come
si avessero a punire i traditori, perchè Alba si rendesse |>iù savia per 1’
avvciiire. Parve a tulli giusto anzi necessario che si ['Unissero quanti si
erano messi ad ojteia tanto cellerata. Si ondeggiò però molto intorno la ma-'
oiera facile e sicura della esecuzione. Sembrava loro im> possibile che
tanti cospicui Albani si potessero involare con morte tenebrosa e nascosta. Che
se tentassero arrestarli e punirli palesemente, torneasi che quel popolo,
piuttosto che ciò non curare, volasse alle armi. Non voleano poi combattere in
nn tempo co’ Fidenati/ coi Tirreni, e con gli Albani loro consocj.Ora non
espedendosi essi ; diè Tulio in6ne uu suo parere cui tutti encomiarono. Io ne
dirò dopo un poco. Siccome non era Fidene distante da Roma se non cinque miglia
; ' cosi egli eccitando con tutto r ardore il cavallo si restituì negli
alloggiamenti : e prima che il giorno brillasse’ laminoso, chiamando Marco
Orazio il superstite de’ trigemini, e dandogli li fanti e li cavalieri piò
scelti, ordinò che marciasse con questi ad Alba, che vi s’ introducesse in
sembianza di amico ; che, quando ne avesse in sua balia gli abitatori rovinasse
da’ fondamenti la città, non risparmiando edifizio alcuno privato o pubblico,
se non i tempj: non vi uccidesse però nè vi oltraggiasse uomo ninno, ma
consentisse che ognuno s’avesse le sue cose. Spedito questo egli aduna tribuni
e centurioni, palesa ad essi il decreto del senato, e forma di loro la guardia
del corpo suo. Si presentò dopo non molto 1’ Albano in gaudio per la vittoria
co mune, e per congratularsene con Tulio t e Tulio serbando tuttavia li segreti
suoi, Io encomiava, confessavalo degno di gran doni, ed invitavalo a scrivere i
nomi de’ valentuomini che si erano più distinti nel combattere e portarglieli
perchè tutti partecipassero ai beni della villoria. Inondatone costui dal
jnacere diè su di una tavoletu in iscritto i nomi de’ suoi più fedeli, de’
quali si era valuto ne’ disegni reconditi. Allora il re di Roma invita a
radunarsi lutti, senza le arme, e radunatisi ; fece che il duce degli Albani,
come li centurioni e tribuni si collocassero presso di lui, e che gli altri
Albani ordinatamente si compartissero ; ponendo dopo loro il resto degli
alleati e dietro tuui infine circolai-mente i Romani, tra’ quali ce ne avea de’
magnanimi, co’ brandi sotto degli abiti Quando poi gli sembrò di avere a suo
bell’ agio i nemici ; sorgendo cosi ragionò : Romani, amici, compagni di arme,
finalmente abbiamo col favore degl' Iddìi portala la vendetta su Fidene e su
quanti partigiani di lei, furono arditi investirci con guerra manifesta.
Seguirà da questo t una delle due, vale a dire che quanti ci molestavano si
cheteranno ; o ne daranno pene tanto più spaventose. Ora venule già le prime
nostre imprese a buon termine, é tempo iche puniamo quei guerrieri che avendosi
il nome di amici nostri, ed assunti a questa guerra da noi perchè facessero
contro (i nemici comuni, abbandonarono la loro fedeltà verso noi, si strinsero
con patti segreti a nemici, e macchinarono la universale nostra rovina. Ben
sono essi peggiori de' nemici manifesti, e perciò degni di pena più grande.
Imperocché facile cosa è deludere le insidiose lor trame, e ribattere si
possono se ci assaliscono come nemici : ma né riesce di leggeri cautelai si da
amici che la fan da nemici, né si possono risospingere se ci prevengano. Ora
tali sono i guerrieri che Alba ci manda\>n : ingannevoli alleali ! eppure
non danneggiati, ma beneficati grandemente, e in tante cose da noi. Noi, ramo
già della lor gente, non toglievamo punto della lor signoria, ma 'la nostra
forza, la nostra potenza fondavamo qol domare i nostri nemici. Premunendo di
mura la nostra patria contro genti amplissime e bellicosissime abbiamo prodotto
ad essi un alta sicurezza in fra le guerre de’ Tirreni e de’ Sabini : tantoché
serbandosi la nostra città prosperamente, dovean essi rallegrarsene
principalmente ; e decadendo questa non dovean meno rattristarsene che per la
propria città. Essi però si ostinarono ad invidiare non solamente il nostro ben
• esseio, ma il proprio ancora nel nostro : e da ultimo non potendosi più Iodio
nascondere, ci hanno premeditato la guerra. Ma perciocché vedeano noi benissimo
acconci a ripeivoterli, non essendo essi valevoli contro di noi, c invitarono a
trattati ed amicizia, e richiesero che la lite sul principato si decidesse con
la tenzone di tre combattenti. Acoetlammo t invito e vincemmo ; e ci fu la loro
città sottomessa. Or, dite : che abbiamo noi fatto dopo questo ? Potendo noi
ricevere gli ostaggi da Alba, polendo mettervi guarnigiotìe, e qual’ uccidervi,
qual cacciarne de’ principali a por dissidio tra t uno e t altro popolo;
potendo cambiarvi in favor nostro la forma del governo, smembrarne il
territorio, prescrivervi de’ tributi, e torlo infine le arme ciocché era
facilissimo, ed avrebbe tanto più noi convalidato ; polendo noi tutte queste
cose ; non abbiamo pur voluto farvene in. 263 nemmeno una, mossi anzi dalla
pietà versò loro, che dalla sicurezza del nostro principato. E preferendo
cioccK era il decoio all’ utile abbiamo conceduto che si godesse ogni suo bene.
Permettevamo che Mezio Fujfezio, che essi avevano elevato à primi gradi come il
più degno, vi amministrasse ancora la repubblica. Ed essi ( ascoltate qual
.contraccambio ce ne renderono quando più bisognavamo dell’ amicizia, e delle
armi loro ) ! si convennero in segreto col nemico comune di assalirci insieme
tra la battàglia ; e quando t inimico e noi eravamo già già sul combattere ;
essi lasciando il posto della ordinanza, corsero a’ monti vicini onde preoccuparne
le alture più forti. E se la cosa andava loro a seconda, niente avrebbe
impedito che noi tutti perissimo 'circondati dagli amici e dai nemici ; e che
tulli i combattimenti da noi sostenuti per la signoria della nostra città,
tutti in un giorno, svanissero. Ma poiché tal disegno riuscì vano primieramente
per disposizione benefica degV Iddìi da quali ripeto quanto io fo mai di buono
e di bello, e poi per t avvedimento mio che non poco valse a scoraggir t
inimico ed accendere i nostri, essendo stato mio stratagemma il dire che gli
Albani ^ ordine' mio preoccupavano il monte per cingere t inimico ; poiché t
affare si terminò coll utile nostro ; noi non sarenpmo, quali essere ci
conviene, se non punissimo i traditori ; quelli io dico i quali, doveano se non
per altro, almeno pe' ligami di parentado serbare gli accordi ed i giuramenti,
fattici di recente, e li quali non temendo gl Jddii che fecero testimonj de’
loro trattati, non riverendo la giustizia stessa, non la riprovazione degli
uomini, non calcolando la grandezza del pericolo se il tradimento sconciavasi,
tentarono in miseranda maniera di perdere noi progenie, noi benefattori loro,
essi nostri fondatori, e congiurali con gt implacabili nostri nemici. Dicendo
lui queste cose prorompeano gli Albani in gemiti, e preghiere d’ogni modo.
ÀHermavail popolo non aver lui saputo niente dei disegni di Mezio : simulavano'
i capitani non aver conosciuta la mao chinazione, se non che nel darsi della
battaglia, quando più non era in poter loro d’ impedire, o non fare i comandi.
Riferivano altri il lor fatto alla insuperabile necessità di congiunzione e di
parentado ; quando il re, fatto silenzio disse: niente,. Albani, niente ignoro,
di quanto allegate per iscusannivi. E penso che il più di voi noi sapesse quel
tradimento, perchè dove molti sono i consapevoli, non si tacciono, neppur
brevissimo tempo le cose : penso che de’ tribuni e de’ centurioni la parte
minore fosse la complice ; ma che la più grande non era che aggirata, e ridotta
a passi non volontari. Che se niente di ciò fosse vero ; se voi tutti Albani,
quanti qui siete, e quanti si rimasero in Alba, vi aveste in cuore di
danneggiarci, nè già da ora, ma da tempo antichissimo ; pur s avrebbe il
liomano nella sua parentela una ben forte cagione a pazientarne le ingiurie.
Perchè però non più vi aduniate a consulte ingiuriose contro noi, non più
violentati, non più sedotti vi troviate da’ capi della vostra città ; ito
abbiamo pure sebbene unico, questo rimedio : vale a dire che divenendo tutti
cittadini di una città riguardiamo questa sola per patria, e partecipiamo
ciascuno ai beni e mali di tei, coma essa ne incorre. Finché saranno come ora
discordi i pareri, finché disputeremo su la preminenza; non sorgerà mai stabile
pace fra noi ; principalmente se gli uni i primi siano per insidiare gli altri
con vista di dominare vincendo, o di essere come parenti impuniti se perdono.
Imperocché quelli die sono assalili tenteranno riscuotersi coll estremo de'
mali, nè fuggiranno modo alcuno onde nuocere gli tdtri quali nemici, come ora
addivenne. Pertanto sappiate: avendo io nella scorsa notte adunalo il SeruUo, i
Romani per bocca sua emanavano, ed io firmava il decreto che la vostra città
fosse disfalla, nè si permettesse che vi restasse in piedi edifizio niuno
privato nè pubblico alf infuori de' templi : che quelli che vi abitano
ritenendo ogni bene, non ispogUali di schiavi, non di bestiami, non di oro
pongano da ora innanzi la sede in Roma: che gli Albani poi, che non hanno campo
alcuno se lo abbiano, purché non sia de' poderi sacri co’ quali si procacciano
i sagrifizj : che io provveda i luoghi della città dove le abitazioni si
fondino degli emigrati, e supplisca a chiunque di voi più ne ahbisogna, i mezzi
onde tompierle : che tutta la vostra moltitudine prenda la forma del nostro
po.polo ; comportasi in, curie e tribù; abbia parte nel Senato e nelle
magistrature più insigni, e si ascrivano alle famiglie patrizie le famiglie
de'Giulj, de' Servi Ij, de Geranj, de Metelj, de’ Corazj, de’ Quintìlj , e de’
Cluvilj ; che finalmente Alezio e quanti deliberarono con esso il tradimento,
se ne abbiano le pene, e noi le stabiliremo queste, giudici sedendo di ogni
causa ; mentre a ninno dee negarsi giustizia e difesa. XXXI. Intanto che Tulio
cosi diceva i poveri tra gli Albani gradendo di essere fatti abitatori di Roma,
e di parteciparne le campagne, lo acclamavano a gran voce. All’ opposito i più
cospicui per grado o più agiati per sorte si affliggeano che avessero ad
abbandonare la propria città, e le case paterne, e vivere per 1’ avvenire in
terra altrui; nè più sapean che dire in tanto orribile necessità. Poiché Tulio
ebbe investigato i pareri della moltitudine, impose a Mezio, che allegasse,
volendo, le sue giustiBcazioni r e costui non sapendo che replicare alle accuse
ed alle testimonianze t disse che il Senato di Alba avealo segretamente
incaricato di far ciò quando usci per guerreggiare; e pregava gli Albani ai
quali avea tentato di racquistare il comando, che lo soccorressero, nè
guardassero con indifferenza la patria che rovinava, e tanti cittadini
degnissimi che erano strascinati al supplizio. E già nasceane tumulto nella
moltitudine, e volavano alcuni ad afferrare le armi ; quando i Romani che
circondavano l’adunanza sguainarouo, datone il segno, le spade : ed essendone
tutti aiierriti ; sorse Tulio un'altra volta e disse: Albani, non qui vi è dato
d' insorgere, nè di trawiarvi: giac‘
Lrsino, e Patino de Famil. Romanor. leggono Quinzf. ’ ^6'J cJtè tulli, se ariìiste commovervi,
sareste trucidali da questi : ( E cosi dicendo additava le spade de’ suoi ).
Prendete ciocché vi si dona, diventale fin da oggi Romani. È per voi necessità,
domicitiaivi in Roma, o non avere più patria sulla terra. Marco Orazio andò
sulC ordine mio fin dalC aurora per abbattere la vostra città dai fondamenti, e
condurne in Roma gli abitanti. Ora sapendo che ornai questo è fatto, non
vogliate correre alla morte; ubbidite. Metio Fuffezio, quesf occulto nostro
insidiatore, che nemmen ora teme d’ invitare alle armi i turbolenti e li
sediziosi'; questo ne darà le pene, degne del perfido cuore e scellerato.
Sbigottì ciò udeudo la parie irritata degli adunali, come vinta da insuperabile
necessità. Fremea Fufiezio per l’ opposi to, e vociferava, ma solo, e reclamava
r alleanza, egli che era accusato di averla tradita, nè perdea la baldanza,
anche in mezzo de’ mali ; quando i littoii per comando di Tulio afferrandolo
gli squarciano in dosso le vesti e lo caricano di battiture. Poi quando parve
che ornai quel supplizio bastasse ^ avvicinando due carri, legarono con lunghe
redini le braccia di lui nell’ uno di questi, e li piedi nell’ altro. Allora
spingendo gli aurighi quinci e quindi i due carri ; egli strascinato e tirato
in parti contrarie, fu subitamente ridotto in brani. Tale fu il termine
miserando e vergognoso di Mezio. Infine io stesso re mise un tribunale per gli
amici e complici di lui nel tradimendo ; punendoli, come li scopriva rei, colla
morte >, a norma delle leggi su’ disertori e su’ traditori. Intanto che si
laccano tali cose, Marco Orazio spedilo innanzi con scelta milizia a
distruggere Alba compiè’ ben tosto la marcia, e se ne impadroni ; trovandovi le
porte non chiuse, nè difese le mura. Poi convocando la moltitudine le palesò
quanto era accaduto nella battaglia, e quanto il Senato di Roma ne decretava.
Contrariavano quelli, e dimandavano tempo almeno per ispedire degli
ambasciadori. Ma costui senza indugio spianò case, muri ; e tutti in somma i
privati e pubblici ediGzj ; scortandone con assai diligenza a Roma gli
abitatori, che menavano e portavano ogni loro bene con sé. Tulio ritornato dal
campo gli comparti ira le curie e tribù romane, li coadjuvò per fabbricare ne’
luoghi, che sceglievano in Roma, le case : dispensò porzione sufGciente de’
terreni del pubblico fra i loro meroenarj, e sen cattivò con altre amorevolezze
la moltitudine. Ma la città di Alba già fondata da Ascanio nato da Enea figlio
di Anchise, e da Creusa figlia di Priamo, quella che per quattrocento
ottanlasette anni dalla sua fondazione era tanto cresciuta di popolo, di
ricchezze, di ogni ben essere, quella che aveva propagato trenta colonie in
trenta città del Lazio e che era sempre stata la capitale della nazione, quella
alfine vittima ^i) dell’ ultima delle sue colonie giace squallida ancora e
desolata. Prese requie nell’ inverno il re Tulio ; ma nel sorgere della
primavera cavò nuovamente l’ esercito contro Fidene. Non era venuto a’
Fidenati, nè lo pretendeano, pubblico soccorso ninno dalle città confederate :
solamente da più luoghi erano venuti de’ mer Anni di Roma 88 secoodo Catone; 90
secondo Varane, e G 6 f aTanli Cristo] cenar} ; e contando su questi osarono
un’ altra volta esporsi in campo. Schierativisi, uccisero molti de’ nemici; ma
poi furono rispinti di nuovo tra le mura. Come però Tulio cingendo la città di
argini e fosse la ridusse alle ultime angustie ; vinti dalla necessità, si
renderono a discrezione. Divenuto costui padrone della città vi uccise nemmeno
gli autori della ribellione. Lasciò gli altri a sé stessi ; concedendo ebe
godessero i lor beni : e restituendo ad essi la forma che aveano di reggenza,
congedò 1’ armata. Restituitosi a Roma onorò gl’ Iddii con la pompa trionfale e
co’ sagrilìzj promessi, e fu questa la seconda volta che trionfò. Si eccitò
dopo questa a’ Romani la guerra de’ Sabini ; e tale ne fu la cagione. Onorasi
da’ Latini e Sabini in comune il tempio, sacrosanto più che ogni altro, della
Dea nominata Feronia, che taluni con greca interpetrazione chiamano la
portatrice de’ fiori ^ 0 r amica dei serti, o Proserpina. Essendosene
annunziate le feste, erano dalle eittà d’ intorno venuti molti per supplicare,
e sagrificare alla Dea, e molti, mercadanti, artefici, agricoltori per
guadagnare nel concorso ; ivi tenendosi fiera famosissima più che in altri
luoghi d’ Italia. Recavansi per avventura a questa luogo alquanti non ignobili
tra’ Romani, quando alcuni Sabini concertatisi, li circondarono e derubarono. E
1 quantunque si spedissero de’ messaggeri, non voleano su questo i Sabini
rendere la giustizia : ma riteneansi 1 danari e le persone degli arrestali ;
imperocché dolevansi anch’ essi de’ Romani che avessero dato ricetto ai
fuggitivi de’ Sabini, costituendo il sacro asilo, come si dicliiarò nel primo
libro. InSammanciosi da tali queri> monie alla guerra uscirono con
moltissime schiere in campo aperto. Fecesi ordinata battaglia, e pari
splendeavi il coraggio de’ combattenti ; tanto che separatine dalla notte
lasciarono la vittoria indecisa. Ke’ giórni ap]>res$o considerando ambedue
la mohitudiue degli estinti c de' feriti, ricusarono ogni altro cimento ; ed
abbandonando gli accampamenti, si ritirarono. Ma tenutisi iu cylma per quell’
anno uscirousi di nuovo a fronte con. forze più formidabili. Si appiccò la
zuffa presso di Erelo lontana centoquaranta sladj da Roma, c molti vi
soccombeano da ambe le parli. E pendendo questa zuffa ancora lungo tempo
sospesa, Tulio elevò le mani al cielo, votandosi che se vinceva in quel giorno
i Sabini istituirebbe delle feste a Saturno ed a Rea con pubblica s])esa.
Celebrano ogni anno i Romani tali feste dopo che barino riportato tutti i
frutti della terra. Egli facea voto insieme che raddoppierebbe il numero de’
Salj. Derivano questi da nobile prosapia,, e ne’ debiti tempi si cingono di
arme, e saltano accordando al suono delle tibie i salti, e cantando patrie
canzoni, come ho spiegalo nel bbro primo. A quel volo si mise tanto ar dorè ne’
Romani che questi pressando, come freschi soldati, gli stanchi, ne ruppero le
schiere in sul mancare del giorno, e ridussero gli stessi capitani a dar
principio alla fuga. E seguendo essi li fuggitivi ai propri irincieramcnli, ne
raggiunsero la maggior parte vicino alle fosse. Tuttavia nemmeno dopo ciò
retrocederono : ma rimanendosi ivi nella notte imminente, e respingendo i
uciuici che pugnavano da entro il vallo,. 271 invasero alRne gli accampamenti.
Trasportaronsi dopo ciò quanta preda voleano dalle campagne sabine : e siccome
niuno più presenlavasi a combatterli, si ricon> dussero in casa. Fece il re
per questa battaglia il terzo trionfo. Quindi per le molle ambascerie de’
nemici depose le armi, avendone da essi li suoi disertori, e li soldati suoi
caduti prigionieri ne’ pascoli; ed esigendone la multa decretata contro loro
dal Senato di Roma il quale avea calcolato in argento r danni ricevuti da’
nemici negli armenti, nelle bestie da giogo, e nelle altre cose tolte ai
coltivatori dei cttmpi di lei. Fransi cosi scioiii dalla guerra i Sabini : e
scrittine su colonnette i trattali, gli aveauo collocati nei tempj. Ma
suscitatasi per le cagioni che tra poco diremo, la guerra di Roma con le città
latine, congiurate fra loro, guerra che non parea da essere ultimata nè con
prestezza nè con facilità ; li Sabini afferrarono di Lenissima voglia tale
occasione, e dimenticarono quasi non fatti, i giuramenti e i trattati. E
reputando esser questo il buon punto da rivendicare anche il multiplo del
danaro sborsato a’ Romani ; uscirono su le prime, in pochi, ed occulti a
predarne le campagne vicine. E succedendo in principio il disegno secondo il
desiderio, perchè non accorreva milizia ninna in difesa de’ coltivatori ; si
adunarono in gran numero e palesemente : e spregiato l’ inimico macchinarono di
recarsi fino su Roma. Adunque congregarono le soldatesche da ogni loro città,
brigando di congiungersi co’Laiini. Ma non venne lor fallo di ottenere nè
amicizia uè lega ninna con quella gente. Imperocché Tulio veduti i loro
peusieri, fe tregua colle città latine, e deliberò di volgere le annate contro
di essi. Egli aveva in arme il doppio di allora, quando mosse alla presa di
Alba, ed aveà rac colto il più che potea di sussidj dagli alleati. Già 1’
esorcito de’ Sabini crasi concentrato. Quindi avvicinatisientrambi alla selva
della dei malfaUori si accam-t parono a
picciola distanza fra loro. Nei giorno appresso investendosi, combatterono, ma
con dubbia sorte gran tempo ; finché violentati al far della sera i Saliini
dalla ’ cavalleria romana piegarono ; e molta ne fu nella ' fuga ' la
uccisione; spogliarono i vincitori i cadaveri de’ iie-> mici ; invasero
quanto ci avea di danaro negli alloggiamenti ; e conducendosi dalle campagne il
fiore delie prede, tornaronsi a casa. Tal fine ebbe pe' Romani la guerra Sabina
nel regno di Tulio. Erano le città Latine divenute allora per la prima volta
discordi da Roma, perchè essendo distnitta Alba, ricusavano fidare il comando
di sé stesse ai Romani che ne erano i distruttori. Tulio, volgendo l’anno
quindicesimo dalla caduta di Alba avea spedito ambaseladori alle città filiali,
o suddite di questa le quali eran trenta, per chiedere che ubbidissero ai
Romani, padroni di ogni cosa degli Albani, e con ciò dell’ imperio ancora su’
Latini. DIcea che due sono i titoli pe’ quali gli uomini diventano gli arbitri
di altrui : la libera dedizione e la necessaria : e che i Romani se gli aveano
' tutti due per dominare le città già ligie degli Albani : [tercliè i primi
avevano vinto i secondi dichiaratisi loro
Livio la chiama tj-lva malUiom.. 2; 3 nemici, e fra le arme, ed aveano
poscia accomunato Roma ad essi che aveano perduto la patria. Ora da ciò
seguitava che gli Albani o vinti o volontarj cedeano ai Romani l’imperio
de’sndditi loro. Non risposero le città Latine una per una agli oratori : ma
congregatesi pei deputati a Ferentino decisero co’ voti loro d^ non
sottomettersi a’ Romani ; e crearono immantinente due capitani arbitri della
guerra e della pace, 1’ uno Anco Publicio della città di Cori, e 1’ altro
Spurio Vecilio di Lavinia. Si fece per queste cagioni guerra tra Romani e tra’
popoli di una gente medesima : continuò cinque anni ma quasi civilmente secondo
1’ antica temperanza. Imperocché venendo le intere milizie degli uni a
battaglia ordinata con le intere milizie degli altri, mai non si fece gran
danno, nè piena occisione ; nè mai ninna loro città vinta in guerra, soggiacque
alla distruzione, alla schiavitù, o ad altre insanabili disavventure. Ma
gettandoti gli uni ne’ territori degli altri ne’ tempi della raccolta
pascolavano e predavano e ritiravansi in casa, e cambiavansi lì prigionieri.
Tulio solamente cinse di assedio Medullia città latina, divenuta come fu detto
nel libro antecedente fin da’ tempi di Romolo colonia dei Romani, ed ora
congiuratasi co’ suoi nazionali, e con ciò la ridusse a non più tentare
innovamenti. Non oocorse a ninna delle due parti alcun altro de’ mali consueti
nella guerra perché le guerre de’ Romani di quei giorni eran subite, e per la
subitezza non iochiudevano tanto rancore. Cosi adoperava nel suo principato
Tulio Osiiiio, r uuo de’ pochi uomini degni di lode per l’ar> dire felice
tra le arme, e per la saviezza ne’ pericoli ; c più che per tali due cause, per
ciò che egli non era precipitoso a far gueire, ma postovi si, non mirava che a
silperare in tutto i nemici. Dopo uu regno di trenta due anni mori per l’
incendio della sua casa, e con lui pur morirono nel fuoco medesimo la moglie, i
figli, i domestici. Vi è chi dice che la casa di lui fu messa in fiamme dai
fulmine ; essendoglisi irritato il Nume per alcuna sua non curanza di sante
cose, perchè si erano sotto lui tralasciati dei sagrifizj della patria,
introducendovisi in parte gli altrui. Ma i più raccontano che fu quel disastro
per insidia degli uomini ; ascrivendolo a Marzio, re, successore di lui :
perocché Marzio sde guavasi, dicono, che egli nato di regio lignaggio dalia
figlia di Numa Pompilio vivesse tra’ privati : e vedendo già grande la prole di
Tulio, altamente ne sospettas’a, che' se costui periva, passasse il regno a’
figli di lui. Fra tali concetti insidiava da gran tempo la regia vita. £d
essendogli molti Romani, fautori per dargli lo scettro, e Tulio essendogli
amico, ed era creduto fidissimo; spiava la occasione di sorprenderlo. Era Tulio
per fare in sua casa un sagrilizio al quale non volea presenti che i suoi più
congiunti; ma divenuto per avventura quei giorno ferale per tenebre, per
pioggia, per nembi, le guardie aveano lasciato deserti gii atrj della reggia.
Parendo questo il buon punto s’introdusse Marzio e i compagni co’ brandi sotto
degli abiti : uccisero il monarca, i figli e quanti vi erano : vi appiccarono
il fuoco in più bande e poi divulgarono la novella del fuoco. Ma io non ricevo
la novella, perocché, nè vera la credo, nè verìsimile : e piuttosto m’ appìglio
'alla prima opinione, e penso che quest’ uomo per ira degli Iddìi corresse tal
sorte. Imperocché non è facile che la congiura, operandola molti, si resusse
occulta : nè il capo di essa era sicuro che egli sarebbe proclamato monarca da’
Romani dopo la morte di Tulio Ostilio: e quando fosse tutto stato sicuro per
lui dal canto degli omini, non potessi confidare che somiglierebbero i divini
agli umani pensieri. Bisognava dopo il voto delle tribù che propizj gli augurj
comprovassero il regno per lui. Qual genio o qual Nume avrebbe mai sopportato
ebe un uomo cosi lordo di delitti e di sangue si acco> stasse agli altari
suoi per compiervi de’sagrifizj, o altre pie cerimonie ? Per tali cagioni io
riferisco quell’ evento agl’ Iddìi, non alle trame degli uomini. Tuttavia ne
giudichi ognuno come più vuole. Dopo la morte di Tulio Ostilio fu creato
secondo i patrj costumi l’ interré dal Senato ; e l’ interré dichiarò sovrano
della città Marzio, che Anco denominavasi. E Marzio, dopo confermati i decreti
del Senato dal popolo, dopo renduti agli Iddii quanto a loro si conveniva, e
compiuta a norma delle leggi ogni cosa, assunse il comando nell’ anno secondo
della ohm\ piade 35. nella quale vinse Sfero spartano, nel tempo che Damasìa
esercitava in Atene l’annuo magistrato. Ora osservando questo re la
trascuraggìne delle pratiche religiose istituite da Noma, avolo suo materno,
esserti ) Catone Varroae Ruma] vando die il più de’ Romani erano divenuti
guèrrieri è dediti a vili guadagni, nè più si volgeano come prima ai lavori
della terra; chiamati tutti a parlaménto, esortò che ripigliassero il culto
degl’ Iddii come a’ tempi di Numa ; dimostrando che per tali negligenze delle
sante cose erano venuti in città morbi e pestilenze ed alu'i Hagelli che ne
aveano desolata parte non picciola : e che lo stesso re Tulio perchè non
vegliavane quanto doveva alla custodia, travagliato per molti anni da tutti i
generi de’ mali, nè più essendo padrone della stia mente, ma decadutagli questa
come il corpo, incone in catastrofi miserande egli nemmeno che la sua
stirpe." E lodando a’ Romani la pubblica forma indotta da Numa come
egregia e savia, e generatrice di abbondanza quotidiana per giustissime cause ;
raccomandò che la ravvivassero e volgessero l’ opera loro, a coltivare le terre,
ad allevare i bestiami, e ad altri lavori, liberi dalle ingiustizie della
violenza e della rapina, e spregiassero in fine le utilità che nascono dalla
guerra. Con questi e simili detti risvegliava iu tutti il dolce trasporto per
la calma, aliena dalle armi, e per la industria sapiente. Convocando poi li
pontefici, e prendendone le leggi delineate da Numa intorno le cose divine, le
scrisse ed esposele in su tavolette nel Foro a chiunque volesse vederle. Ora
quelle tavolette vennero meno: perocché non usavano ancora le colonne di
metallo ; ma scriveansi in tavole di querce le leggi del fero e de’ templi.
Dopo la cacciala dei re furono Hprodolte in pubblico dal pontefice Cajo
Papirio, il quale avea la cura suprema delle cose divine. Rendendo il suo
splendore ai ministeri negletti de’ sacerdoti, e rendendo ai lavori suoi la
turba oziosa ; encomiò gli utili agricoltori, e ne biasimò gl’improvidi, come
cittadini non veri. Lusingavasi al favore di tali istituzioni di vivere sempre
libero da guerre e disastri come 1’ avo materno : tuttavia non ebbe pari ai
desiderj la sorte ; ma in onta del cuor suo fu necessitato alle arme, e
ravvolto in tutta la vita fra turbolenze e pericoli. Im> perocché nel primo
ascendere al comando appena diede calma allo stato, i Latini ve Io
dispregiarono : e pensandolo per codardia non idoneo alla guetra; tutti
mandarono entro i confini di lui bande di rubatori, che ' assai danneggiarono
molti Romani. E spedendo il sovrano degli arobasciadori a chiedere
compensagioni pei Romani secondo i trattati, finsero ignorare in lutto quei
latrocini, non die fossero con pubblica autorità concertati. Diceano pertanto
non dovere di cosa alcuna risponderne a’Romani; tanto più che i trattati erano
con Tulio e non co’ presenti; e Tulio mancato, erano periti con esso gli accordi.
Necessitato da tali pretesti e cavillazioni de’ Latini Marzio portò conti'O
loro l’ esercito. Postosi all’ assedio della città di Politorio, la prese a
condizioni prima che i soccorsi le giugnessero de’ Latini. Non infierì già
cogli abitanti, ma portossegli tutti a Roma co’ beni che avean seco,
aggregandogli alle tribù. Ma siccome i Latini mandarono nell’ anno seguente
nuovi abitanti a Politorio, e ne coltivavano i campi, così Marzio pigliando I’
eserdto lo ricondusse contro di loro. Uscirono dalle mura i Latini e
combatterono; ma egli li vinse, e prese la città per la seconda volta. E
peixìhè più non fosse un richiamo de’ nemici. nè più lavorassero i campi di lei,
ne abbattè le mura, ne incendiò gli edi6zj, e parli. Recaronsi nell’anno
appresso i Latini a Mednllia ov’ erano de’ coloni romani, e dandole d’
ogn’iniomo l’assalto la espugnarono. Maiv 'zio andato di quel tempo contro la
città di Tillene e divenuto vincitore in campo, c poi su le mura, la sottomise.
Non tolse a’ prigionieri nulla di quanto aveano: ma li trasse in Roma ove. diè
loro de’ luoghi perchè vi edi6cassero le abitazioni. Soggiacque Medullia per
tre anni ai Latini, ma nel quarto la riconquistò con molle e grandi battaglie.
Espugnò dopo non molto Fidene, città presa tre anni addietro per condizioni ; e
ne 4rasferl tutto il popolo a Roma ; e non danneggiando la città più oltre,
parve che si diportasse anzi con man sneludine che con' prudenza. Imperocché li
Latini vi supplirono nuovi abitanti; e sen tennero e sen goderono il
tet^ritorio ; tanto che fu Marzio costretto di accorrervi per la seconda volta;
e divenutone per la seconda volta padrone a grande fatica ; ne abbandonò le
case alle fiamme, e ne devastò le mura. XL. Occorsero dopo ciò due battaglie
tra’ Latini e Romani. Durò la prima lungo tempo : e gli uni sembrandovi eguali
agli altri, si distaccarono, e ritiraronsi a’ proprj alloggiamenti. Nella
seconda i Romani vinsero i Latini e gl’ incalzarono fino alle trinciere. Dopo
ciò più non vi ebbe fra loro battaglia ordinata : ma continue furono le
scorrerie degli uni su le terre vicine degli
Vi i ehi legga Ficolara per Fidrue. E verameaie più sotto si parla della
ribtIlioBe di Fideue.. 279 altri ; > econtinua le scaramucce tra cavalieri e
fanti che volteggiavano; ma per lo più colla meglio de’ Romani i quali teneano
in campo aperto appiè di castelli opportuni un armata sotto gli ordini di
Tarquinio Toscano. Ribellaronsi intanto que’ di Fidene da’ Romani, nè già'
dichiarando guerra manifesta ; ma danneggiandone a poco a poco con occulte
incursioni le campagne. Marzio' però presentandosi loro con esercito ben
fornito innanzi che si apparecchiassero alla guerra si accampò d’appresso alia
città. Fingeano i magistrati non supere per quali affronti i Romani fossero
venuti contro di loro : e di-chiarando il re che veniva per aver soddisfazione
dei latrocinj e danni fatti da essi nella sua terra ; si escusarono che niente
era stato con pubblica autorità, e chiesero tempo per esaminare e discernere i
complici delle ingiustizie. Procrastinavano intanto, non adempievano gli
obblighi loro, adunando in segreto de’ sussidj, e travagliando all’ apparecchio
delle arme. Marzio conosciutine i disegni scavò de' cunicoli dal suo campo fino
alla città : e compiutone il lavoro suscitò le schiere, conducendole con molte
scale e mac^ chine e stromenti proprj per gli assalti, alle mura, non' però
dove riuscivano sotto queste le vie sotterranee, ma in tutt’ altra parte.
Accorsi in folla i Fidenati dove erar assalto, bravamente lo rispingevano,
quando ì Romani incaricatine, dato 1’ ultimo traforo ai cunicoli, sboccarono
dentro la città; e trucidando chiunque capitava, spalancarono le porte agli
assalitori. Soccomberono nella presa della città molti de’ Fidenati; Marzio
impose agli altri che cedessero le armi : poi fattili per la voce dei banditori
congregare in luogo certo, ne battè con Terghe e ne uccise alcuni pochi, autori
della ribellione ; e concedè che i soldati saccheggiassero le case di tatti.
ÀlSne lasciato quivi un presidio marciò coll’ esercito contro de’ Sabini.
Nemmeno questi eransi tenuti ai patti conchiusi con Tulio ; ma gettandosi nelle
terre de' Romani ne aveano devastato le più vicine. Marzio, cono sciato dagli
esploratori e dai disertori il tempo acconcio ad investirli, andò con i suoi
iànti, e mentre i Sabini spargeansi a predar le campagne prese di assalto le
loro trincierò, fornite di pochi difensori ; ordinando intanto che Tarquiuio
piombasse con la cavalleria su i nemici che divisi rubavano. Al vedere la
cavalleria romana verso loro lasciarono i Sabini la preda e quanto seco
portavano o conducevano di proficuo, e fuggirono agli alloggiamenti. Ma non sì
tosto mirarono questi hr potere de’ fanti ; dubitarono dove rivolgersi, finché
si sparsero per le selve e per le montagne. Perseguitati pelò da soldati
leggeri e da' cavalieri, ne scamparono pochi, soccombendone la parte più
numerosa. Spedirono dopo ciò nuovi ambasciadori a Roma ed ottennero l’amicizia
che voleano. Imperocché la guerra, permanente ancora, co’ Latini rendea
necessaria la tregua o la pace con gli altri nemici. Xl.II. Intorno al quarto
anno dopo questa guerra Marzio il re de’ Romani andò colle sue milizie e col
più che potè delle ausiliarie contro de’ Vejenti, e devastò gran parte della
loro campagna; imperocché questi si erano i primi gettati nell’ anno precedente
sul territorio romano; e molto vi saccheggiarono, e vi uccisero. Ben
uscirono sperità, grandi oltre il dire,
su le prime si diedero in pochi a scorrerne e derubarne le campagne : poi
lusingati dal guadagno misero palesemente in piede un esercito ; e le
desolarono. Ma non riuscì loro di portarsi via que’ guadagni, nè di partire
impuniti. Imperocché venuto provvidamente il re de’ Romani, e posto il stio
presso al campo de’nemici, gli astrinse a fare giornata. Sorse dunque battaglia
terribile, e molti perirono da ambe le parti : nondimeno per la sperienza, e
per la tolleranza de’ travagli, antica fra loro, prevalsero finale mente di
gran lunga i Romani, e fecero ampia uccisione, seguitando immantinente i Sabini
che disordinati e disgiunti riparavansi agli alloggiamenti. Poscia invadendo
pur questi pieni di ogni ricchezza, e ricuperando i prigionieri usurpati da’
Sabini quando predavano ; sen tornarono in patria. Tali si dicono le gesta
guerriere di questo re, credute degne di ricordanza, e di stima da’ Romani :
sono poi le politiche, quelle che mi accingo a narrare. Primieramente aggiunse
alla città non piccìola parte rinchiudendo fra le mura 1’ Aventino. E questo un
colle alto leggermente, con perimetro di circa stadj diciotto : r occupavano
allora piante di ogni genere e più che tutto lauri bellissimi, dond’ è che una
parte di esso chiamasi laureto da’ Romani : ora è tutto ingombrato di case, e
tra’ molti edi6zj, il tempio sorgevi di Diana. Dividevalo valle angusta e
profonda dal colle della città ^ chiamato Palatino, dove fu Roma nel na cer suo
collocata : ma ne’ tempi appresso l’ intervallo tra due colli fu riempiuto di
terra : ora vedendo che un tal colle sarebbe un luogo forte per un armata
nemica se nini si avvicinasse, lo circondò di mura e fossi, e inisevi ad
abitare le genti trasportate da Telline, da Poiilorio, e da altre città
soggiogate. Celebrasi tale istituzione del re come utile e bella, perchè Roma
ne divenne più ampia, e meno espugnabile per quanti nemici mai le
soprastassero. Migliore del regolamento anzidetto è 1’ altro che la rendè più
felice nel vivere, e la mise ad imprese più generose. Imperocché scendendo il
fiume Tevere dai monti Appennini, passando appiè di Roma, e scaricandosi
attraverso de’ lidi del mare Tirreno, dirotti e senza porti, rende alla città
picciolo bene, e certo non memorabile, perchè dove si scarica non evvi un
emporio il quale riceva e cambj a’ mercadanti le merci portatevi dal mare, e
giù colla corrente stessa del fiume. Altronde essendo il Tevere navigabile fin
dalle origini con barche fluviali mezzane, e dal mare fino a Roma co’ legni
grossi da trasporto ; egli deliberò di fare ivi un luogo da ricever le navi,
servendosi della imboccatura come di porto ; tanto più che ivi il fiume si
spande amplissimo, e formavi gran seni appunto come ne’ siti de’ porti
migliori. E, ciò che porge più meraviglia, il Tevere non è traversato nella sua
foce da cumuli di arene, come altri gran fiumi, nè dilagasi in stagni o paludi,
nè consumasi con altre maniere prima che giintga nel mare : ma sempre
navigabile si scarica per una sola bocca naturale, separando a forza le acque
marine, quantun(]ue ivi spiri un vento occidentaie grande e malagevole. Adunque
le navi lunghe per quanto grandi, e quelle da carico, capaci ancora di tre mila
misure, si avanzano per la bocca del medesimo e giungono a Roma, sospintevi con
remi e funi : ma le navi maggiori fermate colle ancore presso la imboccatura si
vuotano su barche fluviali, che succedono ai trasporU. Tra lo spazio cui
cingono il mare ed il Gume con forma di cubito, il re fece erigere una città
chiamandola Ostia, o come noi diremmo, porta dall’ uso che presta, rendendo con
ciò Roma mediterranea e marittima, talché godesse i beni ancora d’ oltremare Inoltre
cinse dì muro il Gianicolo che è un colle alto di là dal Tevere, e posevi
guarnigione che bastasse per difendere chi navigava in sul Game ; imperocché li
Tirreni tenendo lutto il tratto di là dal Gume infestavano e derubavano i
mercadanti. E dicesi che egli soprapponesse al Tevere il ponte Sublicìo, il
quale dee per legge esser tutto di legno, senza rame nè ferro, ed il quale,
perchè sacro lo estimano, conservasi ancora. E se parte alcuna ne pericola, i
ponteGci la curano, compiendo insieme patrj sagriGzj mentre riparasi. Operate
nel suo principato tali cose degne di storia. Marzio dopo un regno di
ventiquattro anni moti, lasciando Roma non poco migliore di quello che avessela
ricevuta, e lasciando due Ggli 1’ uno fanciullo ancora, r altro di più anni, e
già nubile. Dopo la morte di Marzio, il popolo rimise al Senato la scelta del
governo che più bramava ; ed il Senato Gssò di litenerne la forma consueta.
Adunque furono gl’ interré dichiarati ; e questi riunirono pe’ coi^ mizj la
moltitudine, e scelsero Lucio Tarquiuìo per monarca. E confermando i segni
divinf la elezióne della moltitudine ; egli assunse il regno nella olimpiade
nella quale Cleonida tebano vinse nello stadio, mentre era arconte in Atene il
figliuolo di Enioco. Ora, secondo che io ne trovo negli scritti di que’ luoghi,
dirò di quali parenti, e di qual patria fosse questo Tarquinio, per quali
cagioni venisse in Roma, e per quali arti giugnesse al comando. Un tale di
Corinto, ( Demarato ne era il nome ) della stirpe de’ Bacchiadi, risolutosi di
commerciare navigò per la Italia con nave propria e proprie merci. Vendutele
nelle città tirrene allora le più prosperose d’ Italia, e fattovi assai
guadagno, non volle più rigirarsi per altri porti ; ma tenne continuamente lo
stesso mare, portando le greche cose ai Tirreni, e le tirrene ai Greci ; donde
ricchissimo né divenne. Nata però sedizione in Corinto, e postasi la tirannide
di Cipselo attorno de’ Bacchiadi, egli ricco uomo, e del grado degli ottimati,
più non credendo sicuri col tiranno i suoi 'giorni, raccolse quanto potea di
sue robe, e fece vela per sempre da Corinto. E perchè stante il commercio
continuato egli aveva amici molti Tirreni, anche riguardevoli; specialmente in
Tar> quinia, città, grande allora e felice, quivi si domiciliò,' prendendovi
una nobile donna per moglie. Da questa nacquero a lui due figli, chiamandone
con tirreni nomi Aronle 1’ uno, e 1’ alu'O Lucumone. Diè loro greca é Anni di Roma l3S secondo Catone, i^o secondo
Varrone, e 6i4 acanti Cristo] tirreoa istituzione, e adulti fatti, li cougìaute
per matrimonio colle più insigni famiglie. Mori non molto dopo il primogenito
suo, non avendosi ancora di lui prole distinta. Da indi a pochi giorni si mori
per l’ ambascia Demaralo ancb’ esso destinando erede di ogni sua cosa Lucumone
il Aglio superstite. Investito questi de’ beni paterni, che erano assai grandi,
desiderò di essere nom pubblico, di maneggiare il comune, e Ggurare co’ primi
della città. Ma respinto in ogni parte da’ paesani, e non aggregato non dico a’
primarj ma nemmen co’ mediocri, mai sopportò quel dispregio. E sentendo come
Roma accogliea con beneplacito i forestieri, e facevali cittadini, e gli
onorava secondo i lor gradi ; risolvette di trasferirvisi. E raccolte per ogni
modo le cose sue menò seco moglie, amici, e domestici quanti ne vollero ; e
molti vollero con lui trasmigrarsi. Giunto al colle chiamato Gìanicolo, che è
quello donde Roma presentasi in prima a chi .vien di Toscana, un aquila
calatasi di repente, gli ghermisce il pileo che tieu sul capo, e sollevatasi,
roteandosi a volo, si occolu al Aae nell’ allo delK aere : poi d’ improvviso
rimise in capo a Lucumone il suo pileo come eravi quando sei portava. Riuscì
tal segno inaspettato e meraviglioso a tutti: e Tanaqaila (che tale ne era il
nome) la' moglie di Lucumone, sperimentata assai nell’ arte patema degli auguri
> menatolo in disparte. lo abbracciò colmandolo di belle speranze, come se
dalla condizione de’ privati a quella gingnerebbe dei re. Desse dunque Latoiò la moglie graeiJa : e da essa aacrjua
poscia Arunlc dopo la morie di Demaralo]. opera, moitranJosene degno, di
ricererc il comando dai Romani spontaneamente. Lieto Lucumone de’ successi,
ornai presso alle porte, supplicò gl’ Iddi! che verificassero gli augurj ;
supplicò che gli dessero un ingresso felice, e si mise dentro la città. Quindi
venuto a colloquio con Marzio il regnante indicò primieramente chi egli fosse,
poi co> ni’ egli era deliberato domiciliarsi in Roma ; che avea perciò
portate seco le paterne sostanze, delle quali pos sedendone piucché un privato,
esibivale fin d’ allora in servigio de' Romani e del re. Lo accoke questi di
buon grado, ascrivendo lui co’ Tirreni compagni in una curia e tribò. Cosi fabbricò
Lucumone in città la sua casa, avutone in sorte il sito che bastasse, e
ricevutane pure' una parte di campagna. Ciò fatto, e divenuto del nu-> mero
de’ cittadini, osservando come ogni Romano ha un nome comune, ed inoltre uno
patronimico e gentilizio, e volendo in ciò conformarsi, assunse, per suo nome
comune quello di Lucio in luogo di Lucumone, e pel gentilizio quello di
Tarquinio dalla città dove ebbe i natali e la educazione. In breve divenne 1’
amico del sovrano, donandogli ciocché si avvedea che più gli bisognava, e
porgendogli danari, quanti ne erano di mestieri per la guerra. Combattitore
benissimo a piede e a cavallo contavasi per sapientissimo quante volte bi
sognassero opportuni consigli. Nè già col divenire caro al monarca aveasi
perduto la benevolenza de’ Romani, ma si vincolò molti de’ patrizj co’ beneficj,
e tentò di affezionarsi la plebe col chiamarla, e salutarla, e conversarla
piacevolmente, e col porgerle danari ed altre significazioni di amore. Tale era
Tarqulnio, e per tali cagioni vivendo Marzio divenne il più cospicuo de’ Romani
; e morendo questo fu da tutti proclamato degno del trono. Salitovi fece guerra
in principio con gli Apiolani, popolo non ignobile del Lazio. Imperocché gli
Apiolani, come tatti del Lazio, credendosi colla mone di Marzio sciolti dai
trattati di concordia devastavano le campagne romane pasturandovi, e
saccheggiandovi. Di che volendo Tarquinio farli pentiti usci con grande armata,
e disfece quanto era il meglio del territorio di quelli. Ben sopravvenne gran soccorso
per gli Apiolani da’ popoli vicini del Lazio : ma egli attaccò due volte
battaglia con essi, e vintala due volte, si ristrinse all’ assedio della città,
spingendovi a mano a mano delle schiere 6n alle mura. In opposito dovendo
quelli della città combattere pochi di numero e senza intermissione contro i
molti e freschi, soccomberono alfine. Presa la città di forza, i più degli
Apiolani morirono con le arme in pugno : e se taluni le cederono, furono
venduti colle altre prede. Furono le donne e i fanciulli condotti schiavi da’
Romani : fu la città lasciata al saccheggio, e dopo il saccheggio alle fiamme.
Il re dopo' questo, e dopo rovesciate le mura da’fondamenti ricondusse in casa
le milizie; rivolgendole poi contro la città de'Crustumerini: colonia anch’
essa de Latini, la quale erasi ceduta a’Romani nel tempo di Romolo : ma
cominciava di nuovo a tenersela co’ Latini, dacché Tarquinio prese il comando.
Nè già bisognarono a questo assedj e travagli per umiliarsela. Imperocché li
Crustumerini vedendo la moltitudine venuta contro loro, la debolezza propria, e
la niuna aita de’ Latini verso di essi, aprirono le porte ; ed uscitine i più
anziani e più riveriti consegnarono a lui la citld, supplicandolo che usa^e
moderazione e clemenza. Ben fu l’ evento propizio ai desiderj: perciocché
andato quel inotutrca in città non vi uccise ninno, ma banditine per sempre
alcuni pociù, amatori della ribellione, concedè che gli altri ritenessero i
beni loro, e partecipassero come) prima alla cittadinanza romana. Ma perchè più
non si rimovessero, lasciò de’ Romani con essi. LI. Egual sorte incontrarono i
Nomentani datisi a pari consigli. Imperocché spedendo bande di ladroni ne’
campi de’ Romani si costituirono aperti loro nemici ; coutidaudu nella
confederazione de’Latini. Ma giuguendo Tarquinio su loro, e tardando il
soccorso latino, e non b.isiando essi contro tanti nemici, uscirono 'di città
coi simboli di pace, e si renderono. Gli abitanti di Collazia 111 archi narono
far battaglia co’Romani ed emersero dalle mura di essa : ma superati in tutti
gli attacchi e molto danneggiatine ; furono costi-etti rifuggirsi tra le mura,
e spedirono alle città de’ Latini per chiederne truppe compagne. Ma
indugiandosi questi, e presentando i ne terre, ninno resistendovi, e messo il
campo dinanzi la città, ne invitava gli abitanti a far pace. Ma ricusando
questi, e confidando su le fortibcaziooi dei ricinti, e concependo che
-verrebbero per loro schiere confederate d’ogn’ intorno, il re ne circondò con
truppe le mura, e le assalì. Resisterono lungo tempo i Cornicolani combattendo
virilmente, e coprendo di ferite gli assalitori, ma stanchi pei dalla
continuità de’ travagli, e piò stanchi eziandio dalla discordia, perchè non
erano più unanimi fra loro volendo altri la resa, ed altri la difesa della
città Gno agli estremi ; furono alGne espugnati. Li più generosi di loro
perirono fra le arme nella presa della città : gli altri, salvatisi come
ignobili, furono venduti schiavi insieme co' fanciulli, e colle donne, la città
fu prima abbandonata al saccheggio, e quindi alle Gamme. Dicchè malcontenti i
Latini deliberarono con voto comune di uscire io campo contro a’ Romani: e
fatto grande apparecchio di forze, si gettarono su le terre più buone di essi,
e v’ invasero assai prigionieri, e vi divennero signori di amplissime prede.
Volò Tar> quinio contr essi coll’ esercito spedito e pronto : nè po tendo
raggiungerli, portò su le terre loro simili calamità. Cosi per le vicendevoli
incursioni ne’ campi vicini.. 2()r molle lerano le perdite e gli acquisti di
ambedue. Vennesi con tutte le forze a battaglia ordinata presso Fi^ deoc; e
molti ne perirono da ambe le parti; ma vincendo inCne i Romani, costrinsero i
Latini a lasciare il campo, e fuggirsene tra la notte alle loro città. Dopo
quel comlntti mento marciò Tarquinio colle milizie schierate alle città de’
Latini esibendo ad essi la pace. E queste non avendo né riunite le forze'
comuni, nè ben confidando su’ proprj apparècchj, accettarono batteano questi nell’ ala destra ed aveano
già fugato gli emuli che eran con essi alle mani, ma l’ inaspettato presentarsi
di lui li sorprese e sconvolse. Intanto la fanteria romana riavutasi dalla
paura piombò su’ nemici. Allora grande fu la strage de’ Tirreni, e piena la
rotta dell’ala destra. Tarquinio dato avviso ai duci della fau> teria di
tenergli appresso in buon ordine, e passo passo, spinse di tutta lena i cavalli
in su gli alloggiamenti ne mici; e gl’ invase a prìm’ impeto, prevenendo quelli
che vi si riparavano dalla fuga. Imperocché quelli che ne erano in guardia non
avendo prima saputa la sciagura che invalse su i loro, né potuto distinguere
per la rapidità del corso quali cavalli venivano, lasciarono che entrassero.
Invasi gli alloggiamenti de’ Latini, quelli che dalla fuga vi accorrevano come
ad asilo, vi erano sorpresi ed uccisi da’ cavalieri che lo aveano preoccupato :
e se altri si fossero affrettati di là verso il piano s’ imbattevano' colla
fanteria romana, e ne perivano : li più di loro spintisi e concnlcatisi a
vicenda soccomberono con ignobile e miserabile fino intra i valli, e li fossi.
Dond’ è che quanti vi sopravanzavano non avendo via ninna di salvezza erano
costretti di rendersi ai vincitori. Tarquinio impadronitosi di persone, e robe
in copia vendè le prime, e concedè le seconde in premio ai soldati. LV. F allo
ciò si diresse alla città de’ Latini onde prendere combattendo quelle che a lui
non si davano : non però vi fu bisogno di assalti : ma si rivolsero tutte alle
umiliazioni ed alle preghiere ; e mandando oratori a nome del comune
supplicarono che desse fine alla gtierra co’ patti che gli piacevano, e si
renderono. 11 re divenutoi cosi l’arbitro delle città fu moderatissimo e
mitissimo verso di tutte : perocché non uccise, non bandì, nè multò niuno de’
Latini. Lasciò che godessero -le terre loro, e conservassero le leggi delia
patria : ma comandò che rendessero ai Romani i disertori ed i prigionieri senza
prezzo ninno: che restituissero ai padroni i servi, quanti presi ne aveano nel fare
le prede, agli agricoltori il danaro quanto ne aveano derubato ; e
compensassero tutti gli altri danni o guasti, se causati ne aveano nelle
scorrerie. Fatto ciò dichiarò che sareb-bero gli amici e li confederati de'
Romani se pronti sarebbero in tutto ai loro comandi. A tal fine venne la guerra
de’ Romani co’ Latini ; e cosi Tarquinio vinse e trionfò. L’ anno appresso
prendendo 1’ esercito, lo conduce contro i Sabini, avvedatisi già molto innanzi
dei disegni e de’ preparamenti suoi contro di loro. Non aspettarono questi che
la guerra passasse in sul proprio territorio ; ma premunitisi di forze
sufilcienti si avanzarono tutti ad un luogo. Fattasi ne’ confini battaglia fino
a sera non vinsero né gli uni uè gli altri, anzi molto ne furono afiaticati.
Quindi ne’ giorni appresso nè il duce Sabino nè il re dei Romani cavarono le
milizie dagli accampamenti: ma via via trasmutandoli, senza danneggiare le
terre, si ricondussero in casa ; ambedue coi disegno di piombare nella
primavera con armata più grande 1’ uno nel territorio dell’ altro. Poiché
furono ambedue preparali, primi si mossero i Sabini fiancheggiati da sussidio
sufficiente di Tirreni, e collocarousi presso Fidene, dove l’ Aniene concorre
col Tevere. Fecero questi due campi, l’uno dirimpetto, e come in continuazione
dell’altro; avendoci tra tutti due 1’ alveo delle correnti riunite, e sull’
alveo un ponte di legno congegnato di picciole barche, il quale rendea spedito il
transito dall’ uno all’ altro campo, anzi rendeali di due uno solo. Tarquinio
uditane la irruzione aach’ egli cavò le sue genti, e si trincerò presso 1’
Aniene, alquanto più sopra di loro in una munita collina. Erano venuti ambedue
con tutto l’ardore a tal guerra ^ por non vi ebbe ninna battaglia ordinata, non
grande nè picciola. Imperocché Tarquinio con iscaltrezza di capitano prevenne
ed isconciò tutte le opere de’ Sabini, e ne distrusse l’ uno e l’ altro campo.
Lo stratagemma fa questo. Preparate e riempiute piociole barche fluviali di
legna aride e di zolfo e di |>cce ul fiame presso al quale esso accampava, e
poi colto uii vento propizio, ordinò che nella vigilia mattuliiia si desse
fuoco a qnei combustibili e si lasciassero le navi a seconda della Corrente.
Queste scorrendo iu breve tempo la distanza intermedia percossero il ponte, e
vi comunicarono ' in più luoghi r incendio. Accorsi per ajuto i Sabini a tanta
fiamma improvvisa, e datisi a far tutto, quanto giovasse ad estinguerla, ecco
intanto gingnere su l’alba Tarquinio coU’eseixito in ordinanza; ed investire
l’nno de’ campi, deserto di guardie, andate in gran parte contro del fuoco.
Pochi dunque sorsero a resistervi ; talché senza fatica gl’ invase. Mei tempo
di tale operazione altre milizie romane sopravvenendo espugnarono anche il
campo Sabino posto di là dal fiume: premesse da Tarquinio nella prima vigilia
erano su piccioli navigli valicate da sponda a spanda, laddove fattosi di due
fiumi uno solo, rimarrebbero invisibili nel passaggio. Appena poi videro il
ponte iu fiamme piombarono ( che tale ne era l’ accordo ) in sul campo dei
Sabini : ove quanti ne erano o combattendo caddero appiè dei Romani, o
gittatisi a nuoto nella 'confluenza de’ fiumi nè resistendone all’ impeto, si
affondaron tra’ vortici : peri nou picciola .parte ancora per liberarne il
ponte, tra le fiamme. Tarquinio, preso l’uno, e l’altro campo, diede a’ soldati.
le robe che vi erano percltè se le compartissero, ma ' condusse in Roma e
guardò ’ con molta diligenza li prigionieri ; ben molti in tutto, Sabini e
Tirreni. Sentirono a tale sciagura i Sabini la propria debolezza, e mandando
gli ambasciadorì concbiusero, 00 ’ Romani una tregua di sei anni. I Tirreni mal
sop-, porundo che fossero tante volte vinti, e che Tarquinio jer quante istanze
ne facevano, non s rendesse i loro prigionieri, anzi li ritenesse come ostaggi
; decretarono di spingere tulle generalmente le città Tirrene in guerra contro
de’ Romani e di non più riguardarla come alleata, se taluna se ne ricusava.
Cosi deliberati cavarono in campo le milizie, e tragittato il Tevere si
trincierarono presso Fidene. E prima s’ impadronirono di questa con frodoienza,
per esservi sedizione tra’ cittadini: poi fatti prigionieri in buon numero, e
condottesi via via gran prede dal territorio romano ^ tornarono in patria.
Fidene sembrava loro una piazza bonissima d'ar me in tal guerra; e vi
lasciarono guernigioue quanta ne bastasse. Ma Tarquinio mettendo per la
stagione seguente in arme tutti i Romani, e congregando il più che poteva di
alleali marciò sui giugnere della primavera contro i nemici prima che riunitisi
dalle varie città venissero su lui come 1’ anno d’ innanzi. Dividendo in due
parti tu'.ia 1’ armata, egli stesso ne andò colla milizia romana contro le
città de’ Tirreni : e fidate le truppe ausiliarie, per lo più latine, ad Egerio
il suo consanguineo, gl’ ingiunse di marciare conU'O Fidene. E queste piene di
disprezzo per l’ inimico, accampatesi in luogo non ben sicuro presso delia
città ; non fiirono per poco tutte disfatte. Imperocché le guardie di Fideue
procuratosi un rinforzo occulto dai Tirreni, e spiatone il tempo opportuno,
fecero una sortita ed invasero il campo nemico non bene difeso, e grande fu la
strage di qaein che erano usciti per foragghtre. la opposito la milizia romana
sotto gli ordini di Tarquinio, manometteva e depredava le terre di Vejo, e
traevane molti vantaggi. Ben si riunirono poi grandi snssidj da tutte le cittA
de'Tirreni in sostegno di Vejo : ma Tarqnioio diede ad essi battaglia,
restandone non dnbbiamente vincitore. Poi scorrendo a bell’ agio il paese
nemico lo devastò : Cnalmente lattivi molti prigionieri, e presevi assai cose
come in terre felici, essendo ornai per finire la state, si ricondusse in casa.
Straziati i Vejenti da quella battaglia non uscivano più di città, ma dentro vi
si teneano, mirando intanto sterminarsi le loro campagne : Perocché Tarquinio
uscito per la terza volta, privavali per il terzo anno dei prodotti delle loro
campagne, desolandole in gran parte : e non avendo poi come più danneggiarli
condusse 1’ esercito alla città di Cere, sigilla chiamavasi la città quando i
Pelasghi ne erano gli abitanti, ma soggiacendo poscia ai Tirreni fu Cere
nominata. Era questa felice e popolata quanto altra mai fra’ Tirreni. Quindi ne
uscì valido esercito a combattere per le proprie campagne, e molti vi straziò
de’ nemici ; ma perdendovi più ancora de' suoi, rifuggissene alla cittàRimasti
i Romani padroni di una terra la quale somministrava tutto in abbondanza vi si
trattenero molti giorni ; finché venuto il tempo di ritirarsene menarono con sé
quanta preda potevano, e si ridussero in casa. Riuscitegli come desiderava le
operazioni su Vejo, Tarquinio ricavò l’esercito contro i nemici di Fidene per
cacciameli, con ansia di punire quei che aveano la ci ttà consegnata a’
Tirreni. Vi fu batttaglia tra’Romani Digitized by Google LÌBRO III. 299 tf tra
le ihilizie ascile da Fidene, e' poi darò contrasto nell’ assalto delle 'mura.
Fu la città pigliata di forza, e tatti li prigionieri Tirreni legati e
custoditi. Dei Fidenaii giudicati autori della rivolta quale ne fu battuto
pubblieatnente e poi decapitato, e quale bandito per sempre. I Romani
lasciativi per abitatori e custodi della città misero a sorte e se ne
appropriarono i beui. LX. Occorse l’
ultima battaglia fra Romani e Tirrani' presso di Ereto nella Sabina. Imperocché
lì Tirreni erano venuti attraverso di questa incontro al Romano persuasi dai
potenti di que' luoghi che i Sabini militerebbero insieme con essi. E
certamente già era spirata la tregua sessennale conchiusa da questi con
Tarquinio, e molti ardevano dal desiderio di emendare le antiche disfatte,
essendo già cresciuta nelle città gioventù numerosa. Non pelò succedette ciò
come ideavano : perchè ben tosto si presentò l’esercito Romano, nè potè farsi
che ab cuna delle città mandasse un soccorso ai Tirreni ; e solo vi si
congiunsero alquanti volontari, e pochi reclutali a gran soldo. Fu questa
guerra la più grande di quante ne sorsero infra loro ; ed i Romani ne crebbero
meravigliosamente, riportandovi una segnalata vittoria, ed il Senato ed il
popolo decretarono a Tarquinio il trionfo, lu opposito lo spirito ue decadde
ne’ Tirreni ; perchè avendo spedito da ogni loro città tutte le milizie, non
riebbero salvi, se non pochi di tanti; gii altri o perirono tra la battaglia, o
fuggiti in luoghi non idonei per Io scampo, si arresero. Colpiti da tanta
sciagura i primarj delle città la fecero da savj ; perchè prendendo Tarquinio
una nuova spedizione su loro, essi riunitisi a consiglio deliberarono trattare
della pace ; e mandarono da ogni città plenipotensiarj anziani e riipettabili
per concilitiderla. Teneano questi al re che gli udiva ragionamenti, induttivi
a misericordia e moderazione, e ricordavano il parentado di lui colla lor
gente; quando Tarquinio disse che volea sapere unicamente, se disputavano
ancora intorno ai diritti e venivano per fare la pace con certe riserve ; o se
confessavausi vinti, e rendevano a lui le proprie città. E rispondendo questi
che le rendevano, e che desideravano la pace comunque loro si concedesse, egli
dilettatone disse : ascoltale con quali condizioni sono per dare la pace, e
quali benefizj vi dispenso con essa. Non io rn ho già nelt animo di uccidere, o
bandire, o multare alcuno de' Tirreni. Lascio Ifs vostre città senza
guarnigioni, senza tributi : lascio che vivano arbilre di sè stesse, e colla
forma primiUva di governo. Ma per tante cose che io concedo a voi giudico che
questa sola da voi mi si dia, cioè che io m'abbia la direzione suprema che pur
ni avrei delle vostre città quand anche voi noi voleste, finché io sono il
vincitore. Piacemi aver questo da voi sporta taneamerUe anziché di mai animo.
Andate, riferitene alle vostre città, lo vi prometto sospendere le armi, finché
torniate. Ricevute queste risposte andarono di volo gli ambasciadori; e dopo
pochi giorni ritornarono portando non già parole nude, ma i fregi stessi del
comando coi Anni di Roma i 65 ecoado
Caioae, 177 secondo Varrone, 587 avanli Cristo] ' 3oi qnali adornano i proprj
monarchi, la areano seguali di giogo e di esecrasione. Ma se acquistano in
guerra una vittoria ; se il irj di ogni città : e prima che 1’ armata de’
Romani venisse nelle terre loro, essi menarono la propria nelle campagne di
quelli. Come il re Tarquinio udì che t Sabiui aveano passato 1’ Aniene e che
devastavano per tutto intorno de’ loro accampamenti, prese : i giovani ro nani
più spediti e piombò di tutta fretta su’ nemici sparsi a predare. Ed uccisine
molli, e ritolta loro la preda che si recavano, mise il campo suo presso del
loro. Passati cosi pochi giorni, finché gli era di città venuto il resto delle
milizie, e le truppe ausiliarie dagli alleali, presentò la battaglia. LXV.
Vedendo i Sabini i Romani venuti con ardore per combattere, cavarono la propria
armata ancor essi, non inferiori nè di numero, nè di valore. Investitisi
combatterono con tntto 1’ aadire fin eh’ ebbero a fare coi soli schierati di
fronte : ma poi fatti accorti che marciava loro alle spalle un altro esercito
ordinato e ben fornito; abbandonarono le bandiere e dieronsi alla fuga. Era di
Romani 1’ esercito che apparve alle spalle, fanti lutti e cavalieri scelti,
disposti insidiosamente da Tarquinio tra la notte in luoghi opportuni.
Spaventali i Sabini da questi nomini inaspettati che li raggiungevano non
fecero più ninna bella azione ; ma quasi colti dagli inganni de’ nemici, ornai
sotto il nembo di danno irreparabile, tentarono chi d’ una e chi d’ altra via
salvare sè stessi. Allora appunto però soggiacquero a strage grandissima
inseguiti e rinchiusi d’ ogn intorno dalla cavalleria de’ Romani ; tanto che
pochi in lutto si ripararono nelle città vicine : gli altri, quanti non caddero
combattendo, rimasero prigionieri. Imperocché que gli lasciati negli
alloggiamenti nè ardivano respingere r assalto de’ nemici, nè uscire in
battaglia : ma cosierpati dal male impensato renderono senza combattere sè
stessi e quel posto. Le città de’ Sabini vinte come dai stratagemmi e dagl’
inganni non dalia virtù dei nemici, si accinsero a mandare ben tosto milizie
più copiose, e capitano piu sperimentato, Tarqajuio vedendo il loro dise^o,
guidò soliecitameotc l’ esercito, e passò 1’ Anieue prima che quelli si
potessero tutti riuuire. A tal nuova il duce Saltino andò prestissimo quanto
polea colla nuova armata e mise il suo presso al campo romano su di un colle
erto e dirotto : non giudicava però ben fatto dar battaglia se prima a lui non
giungevano le altre milizie de’ Sabini. Solamente spedendo • delle bande de’
cavalieri, e postando delle coorti nelle balze e nelle selve contro quelli che
uscivano a foraggiare, impedì che i Romani infestassero colle scorrerìe la
campagna. Per tal sua condotta di guerra molte erano le scaramucce, ma di pochi
fanti e cavalli, e niuna la battaglia universale. Adunque temporeggiandosi, e
sdegnandosi Tarquinio dell’ indugio, risolvè di andare colr esercito alle
trinciere de’ nemici, e più volte ne fece l’assalto: ma vedendo che non era
farìle espugnarli per la fortezza del luogo, destinò di abbatterli colla
penuria. E stabilendo delle guardie su tutte le vie che menavano’ al colle, nè
permettendo che i nemici andassero a far legna, e recassero foraggi pe’ cavalli,
o prendessero altro che facea di mestieri dalla regione; li ridusse a gravi
disagi. Tanto che furono costretti, cogliendo uoa notte burrascosa per vento e
pioggia, lasciare vergogno samenle quel luogo; abbandonandovi giumenti e tende,
e feriti, ed ogni apparecchio militare. I Romani cono; seiutane al nuovo giorno
la partenza, e lattisi padroni del campo senza contbattete vi predarono tende,
e giumenti ed ogni cosa, e conducendosi i prigionieri si ravviarono a Roma.
Continuò questa guerra cinque anai, 3o5 c gli uni (levasUnJo le campagne degli
altri; .diedero via via delle battaglie piu o men grandi, vinte di raro da’
Sabini, e spessissimo da’ Romani : i ma nell’ ultimo cimento ebbe interamente
il suo termine. Imperocché li Sabini non già di aumo in mano come dianzi ma
quanti per la età ' lo poteano, erano tutti in uh tempo stesso marciati alla,
guerra. In opposito i Romani tutti, raccolte le forze aosiliarìe latine,
tirrene, ed in genere degli alleati erano venuti a fronlè del nemico. 11 duce
Sabino dividendo le milizie ne avea fatto due campi : aveale il re dei Romani
compartite in tre corpi in tre campi non molto lontani fra loro, ed egli
comandava i Romani; dato ad Aruntc figliuolo del suo fratello il governo de’
Tirreni, e quel de’ Latini e degli altri ad un valentuomo per consiglio e per
arme, ma forestiero e privo della patria. Servio era il nome di lui, e Tullio
quello della sua stirpe : e fu quegli appunto cui dopo Tarquinio, morto senza
prole virile, i Romani inalzarono ai trono per amore del suo ben lare tra le
arme e nell’ uso della repubblica. Io sporrò ma nel suo luogo la prosapia, la
educazione, le avventure di quest’ uomo, c come gl’ Iddii per lui si
manifestassero. Allora dunque, poiché gli uni e gli altri vi furono apparecchiati, diedero la battaglia.
Avevano i Romani l' ala sinistra, i Tirreni la destra standosi i Latini
schierati nel centro. Durò vivissima tutto il giorno la battaglia finché
viuserla di gran lunga i Romani. Uccisero molti de’ nemici segnalatisi
nell’azione; e più ancora ne presero prigionieri tra la fuga. Espugnatone
INTONICI y t n> T, >0 l’uao e r altro accampamento ne ammassarono
ricchezze in copia, e signoreggiarono senza timore Hitla la campagna: e messala
a ferro e fuoco, e distruttivi gli alloggiamenti sen tornarono a casa ornai
tramontando la estate. Tarquinio a questa vittoria trionfò per la terza volta
nel suo principato. E preparando nelf anno seguente r esercito nuovamente per
condurlo contro le. città de’ Sabini, non più concepirono questi nulla di
magnanimò e di grande, ma deliberaronsi tutti per la pace prima di mettere a
pericolo sè stessi dei giogo, e le patrie della rovina. Pertanto vennero da
ogni città li Sabini principali a Tarquinio uscito con tutta 1' armata, e
cederongli le terre loro supplicandolo di miti condizioni : e colui
propensissimo ricevendo, perchè senza pericolo, il sottomettersi di quella
gente, fe’ tregua e pace ed amicizia co’ modi appunto co’ quali aveala innanzi
fatta co’ Tirreni, e rendè loro pur senza prezzo li prigionieri. Tali sono le
imprese militari di Tarquinio: le urbane e pacifiche son come sieguono; che già
non voglio passarle senza ricordo. Giunto appena ai comando desiderando, come
aveano fatto i re predecessori, di conciliarsi la plebe, se la conciliò con
questa beneficenza. Scelti fra tutto il popolo cento nomini a’ quali il
pubblico grido accordava virtù guerriere, o civil sapienza, li nominò patrizj
aggregandoli a’ senatori : i quali essendo fin’ allora dugento ampliaronsi al
numero di trecento fra’ Romani. Poi, quattro essendo le vergini Ad. di Boom 171 secoudo Catone, 173 secondo
Varronc, e. 58 i avanti Cristo] 3o7 custodi del fuoco inestinguibile egli ve ne
sopraggiunse altre due: imperocché cresciuti i pubblici sagrifizj ai quali
doveano intervenire le vergini Vestali ; non parve che quattro più ne
bastassero. Seguirono la istituzion di Tarquinio ancor gli altri principi, e
sei pur ne’ miei tempi si additano le vergini ministre di Vesta. Ed egli sembra
il primo, che guidato dalla ragione, o forse; dalle insinuazioni de’ sogni come
pensano alcuni, ideò li castighi co’ quali i sacerdoti puniscono quelle che la
verginità non conservano : e gl’interpreti delle sante coso dicono che que’
castighi si rinvennero dopo la morte di lui ne’ libri delle Sibille. Certo ne’
giorni suoi fu ravvisato che Pinaria Vergine, la figliuola di Pubblio,
an(lavasi con membra non pure ai sacri ministeri. Ho poi già dichiaralo nel
libro innanzi qual sia di tali castighi la forma. Egli abbellì circondando di
officine di artefici, c di altri apparecchi il Foro ove si arringa e si giudica,
e compionsi altre pubbliche cose : egli il primo deliberò di costruire con gran
pietre lavorate a misura i muri della città, già vili e grossolani: ed egli
prese a cavar la cloaca o canali sotterranei pe’ quali tutto, quanto scola
dalle strade, vasseiie a scaricare nel Tevere : meraviglioso è questo edifizio,
e maggior di ogni dire. Io tengo in Roma per tre magnificentissime cose, c
donde la potenza rilevisi dell’ impero ; gli acquedotti, i lastricati delle
strade, e le cloache ; non già che io ne rifletta la utilità della quale dirò
ne’suoi luoghi, ma si bene 1’ amplissima spesa. E ben può questa argomentarla
taluno da un fatto solo del quale io nc fo mallevadore Cajo Aquilio. Scrive
costui che non più scorrendo, perchè negligentale, le cloache, i censori le
diedero a spurgare e racconciarle per mille talenti. F e pur Tarquiuio il circo
massimo tra ’l colle Aventino e tra’l Palatino costruendovi il primo intorno
intorno sedili coperti. Certamente il popolo per addietro starasi in piede agli
spettacoli in cima a’ palchi, fondati su cavalletti di legno. Compartì
similmente il luogo in trenta spazj assegnandone uno per ogni curia, per^ chè
ciascuna sedesse e mirasse dal posto che le si doveva. Anche questo edifìzio
sarebbe col volger degli anni numerato tra le meraviglie bellissime della
città. Perocché stcndesi il circo per lungo tre stadj e mezzo, spandendosi
quattro jugeri per largo. Cinge i due lati maggiori ed uno de’ minori una fossa
profonda e larga dieci piedi per raccogliere le acque, e dopo la fossa i
portici sorgono con tre piani. I portici terreni han di pietra e poco elevati i
sedili come ne’ teatri ; ma di legno sono ne’ portici più alti. Concorrono i
due lati maggiori ad un tutto e congiungonsi fra di loro per via del minore che
formato in guisa di luna li termina: cosicché risulta da tre ordini un sol
porticato amGteatrale di otto stadj capace di cento cinquantamila persone.
L’altro de’ lati minori che restasi aperto contiene !e mosse donde i cavalli si
rilasciano, spalancandosi tutte in un tempo, ad un suono. • F uori dell’
amfìteatro evvi pure altro portico ma di un piano solo, il quale in sè contiene
le òfTGcine c sopra le officine le abitazioni. In ognuna delle officine sonovi
'ingressi e scale per chi viene agli spettacoli ; e con ciò' nOri siegue
confusione tra tante migliaja che vanno e tornano. Si accluse il re similineatc
a iàbbricare il tempio di Giove, di Glaaoue, di Minerva per adem> plere il
voto da lui fatto a quegl’ Iddìi nell’ ultima guerra co’ Sabini. Ma siccome il
colle destinato per la santa magione abbisognava di radili travagli, perché non
era questo agevole da salirlo nè eguale, ma scosceso e tutto ' acuto in su la
cima; eg^i ponendo intorno intorno altri ripari, e tra’ ripari e la cima assai
terra lo rendè piana ed acconcio! pel tempio. Non però s’ebbe il tempo di
metterne le fondamenta, Tnon essendo egli vissuto che quattro anni dopo il fin
della guerra. Molti anui ap> presso, Tarquinio terzo re dopo lui, quegli che
fu espulso dal trono, ne gitlò le fondamenta, facendo gran parte del sacro
edilìzio : ma noi compiè nemmen' egli, e solo ebbe il tempio il suo termine
sotto gli annui magisirati da’ consoli dell’ anno terzo. Ben’ è convenevole che
le cose ricordinsi accadute prima della erezione di questo, come pur le
ricordano quanti scrìssero la storia di quei luoghi. Deliberatosi Tarquinio a
far qnel tempio impose primieramente agli auguri, convocandoli, che spiassero
co’ divini riti quale in città ne fosse il loco più accon do e più caro a
que’Numi. E riferendo esser questo il colle che sovrasta al Foro, colle detto
Tarpeo di quei giorni, ed ora del Campidoglio, comandò che replicati i riti
santi additassero in qual parte principalmente del Campidoglio aveansene a
porre le fondamenta. Non era ciò cosi fàcile a definirsi ; perchè sorgendo io
sul colie a riverenza de’ genj, e de’ Numi altari in gran nume ro ; doveasi
trasportare questi, e lasciar libera l’ area pel tempio novello degl’ altri
Iddìi. Parve agli auguri di fare le divinazioni loro so di ogni altare, e poi
moverlo se il proprio Nome Io concedeva. Consentirono alquanti genj e Numi che
i loro altari fossero altrove portati : ma il Dio Termine è la dea Gioventù per
quanto gli auguri pregassero e ripregassero non gli udirono ; nè condiscesoro a
cedere il luogo. Adunque furono gli altari loro inchiusi nel tempio che
destinavasi: ed ora r uno resta nel vestibolo, e l’altro nel sacro ricinto
stesso di Minerva presso al simulacro di lei. Presagirono da ciò gl’ indovini
che ninna età mai nè li termini moverebbe né il florido stato di Roma : ciocché
si é già verificato fino a’ di miei per ventiquattro generazioni. Nevio
chiamavasi per nome proprio, ed Azio col nome della prosapia il più insigne
degli auguri, che trasferì quegli altari, definì il tempio di Giove, ed altre
celesti cose ridisse per la sua divinazione al popolo. Si consente che
carissimo egli fosse agl’ Iddii fi:a tutti del santo suo ministero, e che
conseguito avesse riputazione grandissima per le prove da lui date incredibili
e trascendenti nell’arte sua divinatoria. Io ne ricorderò solamente una la
quale mi fu meravigliosissima infra tutte, dicendo innanzi per quale incontro
di casi, e per quali divine occasioni venne in tanta chiarezza che fe’ tutti li
coetanei comparir dispregevoli. Povero fu il padre di lui, cultore d’ ignobile
campicello. Nevio il suo figliuoletto porgeagli l’opera sua, quanta per la .età
ne poteva, e guidava de’ porci, e pascevali. Caduto una volta nel sonno, nè più
rinvenendo al riscuotersi alcuni di quegli animali, ne pianse per timore de’
paterni castighl. Ma poJ venendo al tempietto sacro agli eroi nel suo
campicello, pregò che a lui concedessero di trovare le perdute cose ; egli
prometteva loro se ciò concedessero il grappolo più grande del suo poderetto.
Trovò indi a poco gli animali, e volea recare i promessi doni agli eroi: ma
'grande era 1’ ambiguità sua nel decidere il maggiore ira’ grappoli. Adunque
conturbatone supplicava gl’ Iddii che volessero col mezzo palesargli degli
uccelli ciò che cercava. Or qui per divino favore gli venne in mente di
dividere la vigna in parte destra e sinistra, e notare gli auspicj che in
ognuna occoiresero. Apparsi in una delle parti gli uccelli com’esso ve li
bramava, suddivise pur questa in due considerando gli uccelli che vi
capitassero. Determinandosi con tale distinzione di luoghi, e venendo da ultimo
alla vite indicala dagli uccelli: ebbe un tal grappo incredibile nella sua
forma. Egli recavalo appiè delle immagini sante degli eroi, quando il padre lo
vide. E meravigliato questi di una tal mole del frutto, e domandando d’ onde se
lo avesse : il figlio narrò dalle origini tutto il successo. Concependo colui,
ciocch’ era, che fossero questi naturali preludi della divinazione nel figlio,
lo condusse in città, e lo sottomise a’ maestri delie lettere. E poiché fu
nelle comuni discipline istrutto quanto bastava, affidollo all’ augure più
dotto fra’ Tirreni perchè Io erudisse nel suo sapere. Nevio che avea naturali
lumi per la divinazione, aggiungendovi pur gli altri de’ Tirreni ; superò di
gran lunga quanti erano intesi agli anspicj. Quindi nelle consultazioni sul
pubblico tutti gli auguri della città v’ invitavano lui quantunque non fosse
del Digitized by Google 3i2 delle Antichità’ romane ceto loro, per la
reltitudiae sua nel pronosticare, ti cosa mai vaticinavano, se non ' approvata
da lui. Ora volendo Tarquinio creare tre nove centurie di cavalieri da lui scelti, ed intitolarle
dal nome suo e degli amici, questo Nevio il solo magnanimamente gli resisti,
non permettendo che alcuna si alterasse delle istituzioni di Romolo. Disgustato
per la proibizione il sovrano, e sdegnato con Nevio diedesi a vilipenderne 1’
arte come di nn vano nè veridico parlatore. Con tale intendimento chiamò Nevio
nel suo tribunale essendovi moltissimi presenti del Foro.. Egli avea già
divisato con qnei che lo circondavano i modi onde convincere l’aagure di
menzogna: e lacendosegli questo dinanzi lo accolse con degnevoli salutazioni :
ed ora, disse, o Nevio è il tempo di mostrare il potere delf arie tua
divinatoria. Siccome io macchino di pormi ad una gran cosa ; vorrei per f arte
tua risapere se possa riuscirmi. Or va : consultane co' riti tuoi, o toma il
più presto per dirmene : io qui su questa sede ti aspetto. Esegui l’ augure i
comandi, e dopo non molto tornò dicendo che propizj erano gli auspicj, e
fattibile £ intento di lui. Diè Tarquinio in un riso a tali voci, e cavando dal
seno una cote ed un rasojo gli disse: ora ben apparisce o Nevio che tu mi
deludi, deluso che se’ manifestamente dagl Iddii, dacché ardisci anrutnziarmi
possibili, le impossibili cose : per Nel testo ^vXmt tribù : ma i chiaro che
parlandosi di cavalieri non debba pensarsi a tribù : Forse vi ò qualche
sbaglio. Gli altri storici in questo luogo chiamano centurie quelle che Dionigi
chiama tribù ciocché io meditava se potessi col rasojo fendere questa cote per
mezzo : ridevano tutti d’ intorno, e Nevio niente commosso dalla beffa e dallo
strepito : ferisci, disse, o Tarquinio animosamente come ideavi la cote:
perciocché ne sarà divisa, e se no ; mi ti offero ad ogni pena. Sorpreso il re
della confidenza dell’augure mena il rasojo su la cote, e l’ acume del ferro ne
penetra r interno e dividela, incidendo anche in parte la mano che la teneva.
Esclamarono per la novità quanti contemplavano la incredil.'ile e
meravigliosissima cosa. Tarquinio vergognatosi del cimento dato a quell’ arte,
c voglioso di emendare la indecenza de’ vilipendj ^ primieramente cessò da que’
suoi tentativi su 1’ ampliar le centurie ; poi risoluto di onorare Nevio come
il più caro di tutti i mortali ai celesti, obbligosselo con pegni vari e
copiosi di benevolenza ; e perchè la memoria se ne perpetuasse tra’ posteri
collocò la statua di lui, fabbricala in rame, nel Foro : e questa, più picciola
di nn uomo mezzano, e velata il capo, esisteva pur nel mio tempo dinanzi la
curia, da presso del fico sacro. Dicesi che poco lungi del fico sia la cote
sepolta ed il rasojo sotto di un’ ara sotterranea ; e quel luogo chiamasi il
pozzo da’ Romani. Tali sono i ricordi che si hanno su questo indovino.
Tarquinio ornai chetavasi dalla guerra, vecchio già di ottanta anni ; quando
mori tra gl’ inganni de’ figli di Anco Marzio. Aveano questi macchinato fin da
principio di balzarlo dal trono, e più volte vi si erano adoperali su la
speranza che, balzatone lui, diverrebbe di loro come trono un tempo del padre,
e die (li leggieri ad essi darebbonlo i cittadini. Delusi via via dalla
speranza gli ordirono alfine insidie insuperabili che gii Dei non permisero che
restassero impninite. Io narrerò la forma delle insidie. Quel Nevio del quale
io dissi che erasi opposto al re che volea di meno far più le centurie, questi
(piando più per le arti sue Boriva, quando potea sopra tutti i Romani come
augure nobilissimo, allora sia per invidia degli emuli, sia per insidie de’
nemici, sia per altra sciagura, spari di subito da’ mortali ; nè alcuno potè
de’ congiunti indovinare il destino di lui, nè più trovarne il cadavere.
Addoloratone il popolo, e mal sopportando il suo danno, e molto sospettando di
molti; i figli di Marzio ne ristrinsero su Tarquinio l’ accasa. E non potendo
allegare argomenti e non segni della calunnia ; insisterono su queste due ombre
di ragione. Era la prima, che volea Tarcpiinio far molti e gravi attentati
contro le pubbliche norme ; e che però si era tolto d’ intorno chi sarebbe •per
contrapporsegli come per l’addietro : la seconda era poi, perchè succeduto
tanto infortunio non aveane fatta niuna ricerca, ma trasandavalo in tutto : nè
avrebbe mai cosi praticato chi non era tra’ complici. E fattosi col dispensare
de’ loro beni, gran seguito di patrizj e di plebei diedero gravissima accusa a
Tarquinio, e stimolarono il popolo a non trascurare un tanto scellerato che
stendea le mani su le sante cose, e la regia autorità contaminava ; molto più
che egli non era un romano, ma un estero, anzi uno senza patria. Tali cose
dicendo nel Foro uomini ; autorevoli nè infacondi ; concitarono molti plebei
perchè lo rispingessero se venivaci come impuro da quel luogo. Ora cosi fecero,
perchè nè poleano combattere la verità nè persuadere al popolo che dal trono il
cacciassero. Se non che dissipando lui con difesa validissima le incolpaeioni,
e Tullio il genero suo, potentissimo tra la moltitudine, risvegliando verso lui
la tenerezza de Romani ; furono quelli avuti per calunniatori e scellerati, e
carichi di vergogna partirono dal Foro. Sconciati in tal tentativo, ma tuttavia
per> donati per opera degli amici, perchè Tarquinio contenevasi a fronte di
tanta perfidia in vista de’benefizj pa gravidasse, e ne partorisse poi Tullio.
Certamente non par la novella affatto credibile : pur la rende inverisimile
meno un tal altro segno divino inopinato e meraviglioso intorno di quest’ uomo.
Imperocché sedendosi un' tempo egli di mezzodì nella regia camera, e presovi
dal sonno ; una fiamma gli usci balenando dal capo. Videro questa la madre di
esso e la regia consorte, che per la camera passeggiavano, e quanti erano
presenti alle donne : e luminosa gli si tenne intorno intorno del capo finché
accorsa la madre riscosselo. Allora insieme c ciansi nemmeno le picciolo
ingiustizie, e solleverai li poveri co’ benefizj, e co’ doni ; e quando ne
parrà tempo, (diora diremo che Tarquìnio è morto ; allora gli daremo pubblica
sepoltura. O Tullio ! tu nudrilo, tu educalo, tu renduto partecipe da noi di
tanti beni quanti ne derivano i figli da padri e deUle madri, tu congiunto alla
nostra figliuola, tu se mai divieni, o Tullio, re de’ Romani, è giusto che
almeno in riguardo mio la quale tanto in ciò ti coadjuvai, presenti la
benevolenza di un padre verso questi teneri fanciuU letti : e che quando siano
già grandi, quando già bastanti a regnare, tu renda (diora al primogenito la
corona di Roma. V. Così dicendo diede' 1’ uno e 1’ altro fanciullo in braccio
alia 6glia ed a! genero : e risvegliò tenera compassione verso di ambedue ; poi
quando ne fu tempo, uscita di camera impose ai domestici che assistessero, come
richiedeasi, per la cura, e convocassero i medici. Lasciala passare la notte,
siccome nel giorno appresso accorse gran turba alia reggia ; ella si fe’ vedere
alle finestre che rispondono alla via dinanzi dell atrio : e su le prime
scoperse quelli che aveano congiurata la morte del sovrano, e quindi presentò
tra le catene i sicai'j mandati per compierla : e quando vide il popolo in
pianto per la sciagura, quando videlo fremere contro de’ malvagi ; alfine gli
disse, che pur non era la perfida trama riuscita, e che potuto non avevano
trucidare Tar quinio. Confortavansi tutti all’ annunzio ; quando ella mostra in
Tullio il personaggio eletto dal re, finché guariscasi, per curare le private
sue cose, e le pubbliche. Adunque andossene il popolo, lieto come se il re non
avesse niente patito di terribile, e gran tempo si rimase con questo concetto.
Tullio cinto da’ regj littori marciò con valida schiera al Foro, e fece pe’
banditori intimare che venissero i Marzj al giudizio. E siccome questi non ascoltarono
; ne proclamò 1’ esilio perpetuo, ne confiscò li beni ; e cosi tenne sicuro lo
scettro di Tarquinio. Ma sospendendo alquanto la narrazione, vo’ dir le cause
per le quali io nè con Fabio consento nè con quanti scrivono che i fanciulletti
lasciati da Tarquinio eran suoi figli ; perchè se altri si avviene in quei
scritti non creda che io improvvisi quando non figli li chiamo, ma nipoti. Essi
divulgarono ciò su que’ garzoncelli, ma per' negligenza ; niente considerando
gli assurdi eie im cuni Storici Romani levarli con altri assurdi, e dissero che
non era già madre de’ fanciulli Tanaquilla ma Gegania, una donna, di cui nulla
additarono le istorie. Ma in tal caso riesce improprio il matrimonio di Tar>
quinio nella età quasi di ottanta anni, e certo inverisimile riesce in quella
età la generazione di figli. Nè già egli era mancante di prole ; tanto che ne
languisse pei desiderio : ma egli avea due figliuole e queste già maritate. In
forza di tali assurdi e di tali impossibilità dico che que’ fanciulli non eran
figli ma nipoti di Tacquinio ; nel che sieguo Lucio Pisene, uomo savio, e funii
co che ciò scriva ne’ suoi annali. Ma forse eran questi, nipoti a Tarquinio per
nascita, e figli per adozione, e forse fu questa la origine dell’ abbaglio di
tutti gli Storici delle cose Romane. Or dopo un tal prologo egli è tempo di
ripigliare la narrazione. Vili. Poiché Tullio prese le redini del ^ornando, e
dileguata la fazione de’ Marzj, giudicò di averselo consolidato ; fe’ con
magnifica pompa trasportare Tarquinio, come spirato alfine per le ferite ;
condeoorandolo di un cospicuo monumento e di altri onori : e tutore essendo de’
regi fanciulli ; e curò e guardò fin d’ allora le privale loro cosce le
pubbliche. Non andavano tai fatti a grado de’ patrizj, ma doleansi e
sdegnavansi, mal soffiando eh’ egli a sé stabilisse il regio potere senza
le Addì, di Roma sec. Catone, 179 scc.
Varrooe : e 577 avanti Cristo] forme prescritte dalle leggi. E riunendosi più
volte i più potenti, trattavano fra loro de’ mezzi onde abbattere TiU legittimo
governo. Ora parve ad essi, come fossero la prima volta adunati, per tenere il
Senato, da Tallio di violentarlo a lasciare i littori e le altre insegne del
comando ; e fatto ciò di nominare gl’ interré da’ quali si scegliesse
regolarmente chi dominasse. Tallio, risaputo il disegno, si diede a favorire il
popolo, c soccorrerne i poveri, sperando coll’ opera sua di ritenere r impero.
£ chiamata la moltitudine a concinne, presentò dinanzi la ringhiera i fanciulli
; e poi disse : IX. Molle cause o cittadini ihi astrinsero a prender cura di
questi teneri garzoncelli. Perciocché Tarquinio l m>olo loro accolse e curò
me privo di padre e di patria, nè fecemi punto meno che a un figlio; ma diedemi
la sua Jìgliuola in isposa, e mi amò finché visse, e mi onorò sempre, come
sapete, quasi fossi da lui generato : e poiché fu colto dalle insidie egli
affidatami in caso di morte la cura de' fanciullettì. Ora e chi mi stimerebbe
pietoso verso gl Iddf, chi giusto verso gli uomini, se io trascurassi e
tradissi questi oifani a quali tanto io sono debitore? Ma nè io tradirò la mia
fede, né darò per quanto è da me, 1 ultimo abbandono, a fanciulli già
derelitti. Ben è giusto che ricordiate voi li benefizj che l avolo suo
dispensava su voi quando a voi subordinava tante città Latine emide del vostro
principato, quando vi umiliava i Tirreni i pià potenti tra tutti i vicini, e
quando neces^ sitava al vostro giogo i Sabini ; procurandovi ognuna di tali
cose in mezzo a grandi pericoli. Speltavasi a voi per tanta sua beneficenza di
essere grati a lui finché visse, e di esserlo dopo la morte in verso dei
posteri -suoi, e non già di seppellire coi cadaveri dei benefattóri la memoria
ancora delle opere. Pensatevi dunque tutti eletti custodi de’ fanciulli,
reusicurate per essi il regnò che t avo ad essi lasciava. Già non tanto
benerisentiranno essi dalle cure di me che son uno, quanto ‘dal soccorso,
comune di voi tutti. Io mi vedo necessitato a dir questo ; sentendo che >
alcurù commovonsi contro loro, e vogliono dare ad altri il co mandò. Io vi.
supplico o Romani, che memori ancora siate de' combattimenti che .io feci pel
vostro princù pato, i quali np pochi sono nè piccoli. Ma ben sa^ pendolo voi,
non occorre che altro io vi dica, se non che rivolgiafe su questi fanciulli gli
obblighi che me ne avete. Imperocché non io per me fabbrico il prir^ cipato :
nè se io mel cercassi, ne era già meno degno degli altri; piacemi solamente
amministrare il comune in sussidio della stirpe di Tarquinio. Io vi raccomando
che non vogliate ahbtmdonare a sé stessi questi farin ciuUi ora che il regno ne
pericola : sarebbero anche espulsi da Poma, sé fauste riuscissero le prime
mosse ai nemici. Ma non debbo io più dilungarmi su ciò, mentre sapete voi
quello che dee farsi, anzi siete per fare quanto conviene.. Ora udite il bene,
che io a voi apparecchio, e pel quale qui vi adunai. Quanti a debiti saziacele
nè potete levarvene per la indigenza,, tutti sarete da me soccorsi come
cittadini, e come già tanto affaticati, in servigio della patria; pert;hè voi
che avete fondata la libertà di lei, la vostra non perdiate : io porgerò del
mio danaro onde i debiti estinguiate. Inoltre quanti torranno ad imprestilo io
non più soffrirò che sieno imprigionati per debito : ma porrò per legge che
niuno dia de' prestiti assicurandoli su la persona di uomini liberi, mentre io
penso che basti agli Usuraj di rivalersi su bèni de' contraenti. E perchè da
'ora in poi sosteniate più di leggeri il tributo pubblico, pel quale i poveri
sono gravati, e ridotti a far debito ; comanderò che si registrino tutti i beni,
e che ciascuno dia secondo l' aver suo, come odo che si pratica rtelle città
più grandi e meglio ordinate ; mentre ancK. io credo più giusto e più
vantaggioso al Comune che chi più possiede più paghi, e meno chi meno, Piacemi
inoltre che il terreno pubblico f quello che avete corsquislato colle Urrtse
> non sia come ora de più impudenti, nè che per compera ve lo abbiate, nè
indarno: ma che quelli se lo abbiano infra voi che privi sono di terre : perchè
voi liberi essendo non serviate, nè coltiviate le campagne altrui, ma le
pròprie ; imperocché già non allignano generosi pensièri' ov’è disagio del
vitto quotidiano. Soprattutto ho deliberalo render pari e fàcile il governo per
tutti, e dàce a tutti eguale azione contro chiunque; perciocché sono alcuni
venuti in tanta baldanza che oltraggiano il popolo, nè. liberi stimano i poveri
fra voi. Ora perchè i più grandi nemmeno che gl’ infimi esigano' e Soffrano il
giusto;, io farò leggi proibitive della violenza, e lonservOtrici dei diritti
lomuni: nè mai lascciò di provvedere a questa libera procedura di lutti conlto
tutti. Sorsero, lui cosi dicendo, grandi elogj tra la moloi gli esuli, e di
ceden’i ai figli di Marzio, a quelH che vi lumno ucciso Tarquinio, quel re si
buono, e sì amico di Roma, a quelli che macchiatisi in tanta scelleraggine, non
osando risponderne in giudizio, si tolsero a voi colla fuga, a quelli in fine a
quaU avete voi t acqua interdetta ed il fuoco. E se ben tosto non vòlavane a me
t avviso, tali patrizj eccitando una forza straniera, avrebbero di bel nuovo
introdotto nel cuor della notte i fuorusciti in Roma. Ben vedete voi quantunque
io le taccia, le seguile, come i Marzj favoriti da' patrizj sarebbonsi
impadroniti senza fatica di tutto, atsalendo primieramente me che il custode
sono della regia prole, me che t autore fui del giudizio contro di loro, e
spegnendo finalmente i regj fanciulli, e tutti I consanguinei, e tutti gli
amici, quanti ve ne restano, di Tarquinio. Misere le nostri ritogli, le nostre
madri, le nostre figlie, e misere le femmine tra noi! le avrebbero que' ribaldi
( tanta lumno di brutale e di tirannico ! ) terwie in' conto di schiave. Ora se
tanto o popolani piace a voi pure, che qua si riammettano, anzi che re si
proclamino i parricidi, e che i figli se rie scaccino de’ vostri benefattori, e
dal trotto . tolgano che V avo ad essi lasciava ; se tanto, dico, a voi piace ;
io mi cheto su destini. Ma deh ! per gli Iddj, deh / pe’ genj tutti, quanti le
mortali cose riguardano ( e noi colle nostre donne, noi co’ nostri figli
supplichiamo voi pe’ tanti benefizj ancora che Tar quinio su voi spondeo
perpetuamente, e pe’ tanti, eh’ io stesso vi procurava ), deh ! coruredeteci
questo dono ; manifestateci i vostri voleri una volta. Se voi credete altri più
degni di noi di tale onore ; questi fanciulli f e tutto il parentado di
Tarquinio, partiranHo, abbandoneranno la vostra città. Io poi ben altri più
generosi consigli ho per me ! Ahbcatanza vissi alla virtù, abbastanza alla
gloria : mancatami la vostra be^ nevolenza, quella che io pregiava più che
tutti i beni, già non voglio io vivere indecorosamente presso di abtri.
Prendete i vostri fasci, dateli, se così piacevi, ai patrizj. Io mel vedrò, -nè
mi oppongo. Cosi dicendo, e già standosi in atto di ritirarsi sorse un clamor
vivo per tatto, nn pregare, an piangere, perchè restasse, e governasse nè
temesse. Allora alcuni, sparsi ad arte qua e là pel Foro, gridarono che si
creasse re, che si convocassero le curie, e sen chiedessero i voti. Così
preordinato T evento; ben tosto il popolo tutto vi propendè. Tallio ciò vedendo
non trascurava la occasione: ma professandosi ad essi obbligatissimo che memori
fossero de’ benefizj, e promettendone più ancora se re lo creasseró ; prescrisse
il gionu> de’ comizj ; ordinando che v’intervenissero lutti dalla campagna.
Accorso il popolo ; egli chiamando una per una le curie consegnava ad esse i
lor voti. E giudicato da tutte le curie degno del trono ; vi ascese. : nè curò
del Senato che non volle come solea ratificare la scelta del popolo. Cosi re
divenuto fondò molte altre istituzioni, e fece grande e memorabile guerra co’
Tirreni. Io dirò prima delle istituzioni. Appena strinse lo scettro comparti
tra’ mercenarj Romani le terre del comune : poi fe’ comprovare le leggi su i
contralti e su le ingiustizie dalle curie, estese ^illora a cinquanta,
quantunque non sia ora ciò da ricordare. Aggiunse a Ronia il Viminale, e
l’Esquilino due colli, cosi nominati, capaci T uno e 1’ altro di nna città
liguardevole, dispensandoli parte a parte ai Romani privi di case, perché ivi
se le fabbricassero ; anzi egli stesso ivi ediCcò la sua nel sito più idoneo
delle Elsquilie, Fu questo 1’ uhimo re che ampliò il circuito, della città,
congiungendo ai cinque gli altri due colli, dopo avere presi gli aiigurj e
compiute le usate pie cerimonie inverso gl' Iddj. Non poi la citti mise mai più
da largo le sue mura ; non avendolo, come dicono, permesso i destini : ma tutti
intorno i sobborghi che pur sono molti e grandi, si resuno so>perti, non
chiusi da mura, ed espostissimi, se nemico mai sopravvengavi. Che se alcuno
mirando a questi, voglia la grandezza racco-r glierne di Roma ; egli errerà
certamente : perocché noo avrà nino certo seguo, dal quale discernere fin dove
la città si oontinua o dove si termina. Cosi bene que’ sobborghi al fabbricato
inleroo si congiungono, che presentano a chi li contempla la immagine come di
una città che stendesi all’ iii6nito. Ma se taluno prendendo regola dalle mura,
certamente malagevoli a distinguersi per le molte case fabbricatevi intorno, ma
che pur sevv bano via via de’ vestigj dell' aulica loro struttura voglia
risaperne il circuito in ristretto dei circuito di Alene; vedrà che il ricinto
di Roma non molto eccede quello di Atene. Ma quanto alla grandezza e bellezza
che Rpma presenta a miei giorni ; avremo appresso luogo più acconcio a
discorrerne. Poiché Tullio comprese entro un giro solo di oiura i sette coili ;
divise la città in quattro parti ; de-' nominandole da que’ colli, 1’ una
Palatina ^ l’ altra Siiburrana, la terza Collina, e 1 ultima Esquilina. Cosi
distese a quattro le tribù che erau tre sole. Intimò poi che chiunque abitava
1’ una delle quattro parti, quasi paesano di quella nè portasse in altra il suo
domicìlio, nè in altra desse il nome suo pe' cataloglù militari, nè il tributo
per le spese della guerra : in somma che noi^ rendesse in altra i servigi che
doveansi pel comune; nè più ordinò le milizie secondo le tre tribù disposte come
prima per genti ma secondo le quattro da
lui create e compartite ne’varj luoghi ; destinando per ciascuna un capo qual
sarebbe un tribuno o prefetto, il quale dor vesse conoscere il domicilio di
ognuno. Quindi ordinò che in ogni quadrivio si facessero da’ vicini picciole
sacre cappelle agli Dei lari custodi della contrada, istituendo per legge che
ogni anno si onorassero di aagrifizj, e che ciascuna famiglia porgesse loro le
obbla-zioni sue : comandò che assistessero e ministrassero à chi facea tal sagri6zio
non gl’ ingenui ma i sèrvi ; dilettandosi quegl’ Idd) del ministero di questi.
Continuano i Romani pur nel mio tempo pochi giorni dopo de’Sa tumali tal festa,
veneranda in tutto e magniBca, e detta compitale da’ quadrivi che compiti da
.loro si chiamano. Romolo fece ire tribù
eecondo te diverse genti : erano la tribù, la prima Ramnentù dei Romani posti
ad abitare nel Palatino, la seconda TatUnsU da Tasio, ebbe il monte Capitolluq,
e la tersa dei Luceri a luco o dal bosco dato per asilo i era degli stranieri
che aveano ivi cercato nn rifugio. Col progresso del tempo siccome la gente
aggregala a Roma superara il popolo primitiro ; COSI Tullio fece una nuova
divisione di tribù.. a 5 Serbano nel sagrifìzio 1’ anticx) rito, placaodo gl
Iddj Lari con intrametlervi i servi, a’ quali tolgono in quei giorni quanto
tien forma di servile; perchè riconfortati da tali dolci maniere ove è misto
del grande e dell’ono, riGco sì affezionino più vivamente ai padroni e men
sen> tano il peso della loro condizione. Inoltre, come Fabio scrive, divise
tntla la campagna io ventisei parti, chiamandole tribù parimente : e congiunte
queste alle quattro urbane se ne ebbero trenta inAutte : ma Yenonio dice che se
ne ebbero trentuna : laddove Catone ben più autorevole di essi (,) afferma che
le tribù ne’ tempi di Tullio furon tutte, non però distinguene il numero.
Tullio dunque secondo gli atupizj divisa la campagna in tante parti, quante mai
furono, apparecchiò su luoghi montuosi e fortissimi degli asih\ chiamandoli
pagos con greco nome o castelii, onde renderne salvi i coloni. Imperocché
.quivi tutti si rifuggivano ndle irruzioni de’ nemici, e quivi spessissimo
pernottavano. Ci aveano in questi de’ presidi incaricati di conoscere i nomi
de’ coloni, contiihnenti a quel borgo, e li poderi su quali viveano. E se mai
portava il bisogno di convocare que’ contadini per le arme, o di esigere da
ciascuno le lasse ; questi li congregavano, o ne raccoglievano le somme. £
perchè la moltitudine non fosse difGcile a trovarsi, ma facile a descriversi e
palese; fece erigere degli altari ai Numi contemplatori e custodi del luogo,
perché quella ogni anno vi si riunisse e ve gli onorasse con pubblici sacri Gzj,
istituendo Di Fabio • di Venonio. tal (ine la festa soleanissima delta dei
viUagi ."^Anzi intorno a tali sagrifizj scrisse leggi che i Romani ser
bano ancora. Per tal sagriSzio, per tal celebrità volle cbe contribuissero
tulli una data moneta, altra però gli uomini, altra le donne, ed alu'a gl’
impuberi : talché numerandosi queste dai, presidi delle sante cose rilevavasi
il totale degl’ individui secondo il sesso e la. 6tà. E volendo, come scrive
Lucio Pisone nel primo degli annali, conoscere quanti erano domiciliati in
Roma, quanti vi nasceano o vi morivano, o toccavano la età virile; stabili qual moneta dovessero
i parenti vergare per ognun che nasceva nell’ erario di Eileitia, detta dai
Romani Giunone Lucifera, o in quello che chiamano di Venere Libitina, là nel
bosco, per ognun che moriva, o in quello della Dea Gioventù per ognuno che alla
virile età perveniva. Da queste monete intendeasi ogni anno quanti erano in
tutto, e quanti aveano idoneità militare. Ciò fatto diede ordine, che i Romani.
registrassero, apprezzandoli inargento, i lor beni, e giurando di apprezzarli
come dee 1’ uomo candido e buono t e che insieme dichiarassero quanta era la
età loro, quali i padri loro, le mogli, ed i figli ; aggiungendovi dove in
città soggiornassero, o in quale de’ villaggi d^Ho campagna ; e chi non
&cea pari stima era in pena spogliato de’ beni, flagellato e Venduto. Dorò
questa legge lungo tempo tra Romani. XVI. Cosi prese da tutti 'le stime, e
rilevatone il numero di essi, e la grandezza de’ beni loro introdusse (l) Ciut
Paganaliu. una instituzione savissima che fu poi larga fonte di beat a’ Romani,
come il fatto stesso Io dimostrò. La islit zione fu di segregare dal resto del
popolo quei che aveano sostanze più grandi non però minori di cento mine, e di
ordinarli in ottanta centurie , le quali, armandosi, portassero scudo argolico,
elmo di bronzo, corazza, stivali, asta e spada. Poi separandole tutte in due
parti formò quaranta centurie di giovani per le spe> dizioni in campo aperto,
e quaranta de’ più adulti, le quali in città si restassero per custodirla
quando le altre uscivano per la guerra. E questa era la milizia, prima di
ordine ; per altro i giovani aveano sempre il primo luogo onde proteggere tutta
l’armata. Dal residuo quindi del popolo segiegò quelli ancora che aveano meno
di cento mine non però più scarse di settantacinque, compar lendoli in venti
centurie che portassero arme, simili a quelle de’ primi, toltane la corazza e
dato ad essi lo scudo lungo in luogo dell’ argolico (u). E dividendo quelli di
oltre quarantacinque anni dagli altri che aveano età militare formò dieci
centurie di giovani, le quali an Nel Cesto Xt^gn: questa roce k ambigua: può sigaificare
centuria, manipolo, coorte. Il traduttore latino la interpreta per centuria : e
questa pare la nozioue piti acconcia : ma deve riflettersi che cengia: vai
quanto compagnia di cento, laddove in questo luogo non significa cento
esattamente ; ansi ne] paragrafo iS di questo libro significa ben altro che
cento. Tra I LATINI ci ebbe io Cfypeut e lo tculuni. Il primo era detto cevrir
da’ Greci, ed il secondo Bv/if i il primo era più breve e sièrico, l’altro piò
lungo. La nostra lingua, come di un popolo che più non usa quelle armi non ba
forse parole ben disliute o note pet indicare la doppia forma. Targa, Rotella o
Broccbiero può forse dirsi il C/fpeus, e scudo è voce generica di ogni sorta di
quelle armi. Digitìzed by Google a8 DELis Antichità’ romane dassero in guerra
per la patria, dieci di anziani che in
gtiardia rimanessero delie mura. Era questa la milizia, seconda di ordine, e
prendea luogo dopo de' primi nella battaglia. Una terza ne fece di quelli che
aveano meno di settantacinque mine non però sotto le cinquanta; ma ne minorò T
armatura non solo delle corazze come alla seconda; ma de’ stivali ancora.
Descrisse pur questi in venti centurie dividendoli parimente secondo 1’ età,
talché se ne avessero dieci de’ più gióvani, e dieci de’ più maturi. Era il
luogo loro nelle battaglie appunto dopo quelli che seguivano i primi. XVII.
Trasse un quart’ ordine di soldati da quelli che avean meno di cinquanta, e non
meno mai di venticinque mine; disponendolo in venti centurie, dieci dei floridi,
dieci de’ provetti per anni, come avea fletto cogli altri ; e dando loro per
arme scudi, aste, e spade, e r ultimo posto nelle battaglie. Reclutò la quinta
milizia da quelli che avean meno di venticinque mine, non però meno di dodici e.
mezzo, acconciandola kcondo gii anni di ognuno in trenta centurie, quindici de’
più avanzati, e quindici de’ più giovani. Diè loro strali e Sonde, ma luogo
fuori deli’ esercito, Uiesso in battaglia. Comandò che quattro centurie allatto
inermi accompagnassero tutte le altre : cioè due di annajuoli, di falegnami, e
di altri per altro militare lavoro, e due di sonatori di trombe e timpani e di
altri stromenti pe’ bellici segni. Ma gli arteflci seguitavano la miUzia dà
second’ ordine : e distinti anch essi per età, quali se. guitavano le bande de’
giovani, e quali degli anziani. I^addove i sonatori di trombe e di timpani
lenean dietro alla miUzia quarta di ordine ; distribuiti anch’ eglino in
giovani e vecchi. Erano li centurioni tmcelti fra' tutti li più insigni nelle
arme; e reggea' ciascuno la sua centuria docilissima ai cenni. Tale era il
metodo onde avessi la soldatesca legionaria e leggera. Scelse poi la cavallerìa
dai più facoltosi, e più cospicui di lignaggio, e formatene diciotto centurie
le dié compagne alle prime ottanta centurie de’ legionarj. Erano pur di queste
diciolto, chiarissimi lì centnrioni. Finalmente ridusse ad una centuria gli
altri tutti, ben più numerosi de’ primi che aveano men che dodici mine e mezzo,
e gli escluse dalla milizia e li rese immuni da ogni tributo. Cosi risuitaron
sei ordini che i Romani dicono classi denominandoli con greca parola :
imperocché quello che noi significhiamo colla voce imperativa colei ( chiama )
lo significan essi coll’altra cala (>) ed anticamente caleseis pronunziavano
in vece di classi. Comprendeano queste classi cento novanutrè centurie.
Formavano la prima Bovantotto centurie compresevi quelle de' cavalieri :
ventidue cogli artefici la seconda : venti la terza : di nuovo ventidue co’
sonatori di trombe e di timpani la quarta ; trenta la quinta : ed era dopo
queste una centuria uuica la classe de’ poveri (a). Calo catas tt antico veibo latino por
chiamare j donde pur cbbesi la noce Calerule. (a) Classe prima. 9S -seconda aa
' tersa. ao quarta aa quinta 3 o sesta. Introdotto un tale sistema, iatimava i
soldati per la guerra secondo le centurie, e li tributi secondo li beni. Quante
volte a lui bisognassero dieci o ventimila soldati ; avendo distinta la
moltitndine in cento novantatrè centurie, imponea ebe desse ognuna la sua
parte. Calcolando, le spese da farsi pe’ frumenti e per gli bisogni di guerra ;
egli stesso le compartiva secondo gli averi di ognuna tra le centurie, ordinate
in cento novantatrè. Seguitò da questo ebe i possidenti piò grandi essendo
minori di numero ma divisi io più centurie fossero sensa requie astretti a più
guet're, e vi contribuissero danaro più ohe altri : laddove i possidenti
mezxani e piccioli quantunque più numerosi, ridotti in meno centurie, non
combatteano che alternativamente e di raro, né pagavano se non leggeri tributi
; e quelli che non possedeano quanto rìchiedevasi, erano intatti da ogni
molestia. Nè ciò facea senza causa ; ma persuaso che gli averi sono per 1 uomo
il premio della guerra,. e ohe ciascuno travaglia per difenderseli ; riputò
giusta cosa, ohe chi pericola su più beni, più ancora al pericolo si opponga
colla robba e colla persona : che men di molestia risenta in ambedue chi men
perderebbe: e finalmente che chi non teme per cosa ninna non sia nemmeno in
cosa alcuna aggravato, immune da’ tributi perchè bisognoso, e libero dalla
guerra perchè libero da’ tributi. Imperocché li soldati Romani militavano
allora, ciascuno a spese sue non lo stipendio riceveano dal pubblico ; nè
pensava altronde che avesse a contribuire chi non aveane i mezzi e stentava il
vitto quotidiano : nè che colui che non contribuiva militasse a spese altrui
qual mercenario. G)sl rivolse Ai più ticchi tatto il carico de’ pe ricoli e
delle spese : vedendo però che sen disgustavano^ nè raddolcì per altro modo il
mal contento, e ne rat temperò lo sdegno, concedendo ad ewi tal prerogativa per
cui gli arbitri sarebbero del pubblico esclusine i poveri. Nè comprese il
popolo di ciò che facessi le con srguenze. Era la prerogativa ne’ comitj, ove
dai popolo risolveansi. le cose le più gravi. Ho già detto di sopra come il
popolo secondò le antiche l^gi era 1’ arbitro di tre cose grandissime e
necessarissime : cioè di eieg> gere i suoi capi in città e nel campo, di
ammettere o di abrogare le leggi, e di conchiudere la guerra o la pace.' E tali
cose discuteva, e decidevate il popolo per curie, parrggiandovisi il voto del
grande a quello del picciolo possidente. ^ E siccome pochi, come avviene, erano
i facoltosi ; ma più assai li poveri; cosi preva leano questi ne’ comlej.
Tullio ciò vedendo trasferì nei ricchi la prepotenza de’ voti. Imperocché
quando pare vagli di' far creare i Magistrati o discutere le leggi, o
Conchiudere la guerra teneva i comizj non più per ci^ rie, ma secondo le
centurie anzidette. E prima chia mava a dare il Suo volo le centurie di maggior
possi densa le quali èrano ottanta di fanti e diciotto di cavalieri. Or' queste
più numerose che le altre di Un tre
quando fossero unanimi, superavano le altre ; e la di scussione avea
fine. Che se non si univano queste in uu parere ; invitava allora le ventidue
scritte nel se coud’ ordine., £ se i voti sciudcvansi ancora ; soprac Erauo noTanioUo, e le altre tutte
novauUoinijue. cbianuva le centarie di terz’ ordine : iodi quelle del quarto, e
cosi via via, finché novantasette centurie si trovassera consentanee. Che se
ciò non ottenessi neppure colla quinta, chiamata, ma le cento novantadue
centurie si contrapponeano con parti eguali.; invitava allora 1’ ultima
centuria che era de’ bisognosi, e però libera dai tributi e dalla milizia. E
qualunque fosse la parte alla quale accostavasi questa centuria ; quella
preponderava. Ma ciò era ben raro a succedere, per non dire impossibile ;
mentre il più delle discussioni termi navasi col chiamar de’ primi ordini senza
procedere al quarto. Doud’ è che l’ invito de’ quinti e degli ultimi superduo
riusciva. Istituendo tal sistema e tal prerogativa inverso de’ ricchi, Tullio
deluse, come ho detto i poveri ; né sei conobbero, e furono esclusi dalle
cariche. Immaginavano questi che essendo richiesti un per uno a dare il suo
voto, ciascuno nella sua centuria, avessero egual parte nel tutto : ma s’
ingannavano : perchè uno era il voto della intera centuria, e qual centuria
conteuea. men cittadini e quale più i^sai ; e perchè prime votavano le centurie
più ricche, più numerose per serie, quantunque con men cittadini. Aggiungi che
un solo era il voto de’ bisognosi, quantunque fossero i molti ; ed aggiungi che
ultimi si chiamavano. Per tal metodo i ricchi, quatunque assai soggiacessero a
spese, né avessero mai requie da’ perìcoli della guerra, men sentivano il Erano le centurie senza l’ultima 193. numero
la cui metà è 96. Affinchè dunque vi, fusse preponderanza doveva un parlilo
nascere almeno da 97 e I' alito da 96 ocniutia.peso ; perchè erano gli ariìitri
divenuti di gravissime cose, ed aveano tolto agli altri tutto il potere.
Altronde i poveri se non aveano che la minima parte nelle pabbliche cure sei
comportavano placidi e ebeti, perchè liberi dai tributi e dalla guerra. Dond è
che que’ medesimi i quali consigliavano ciocché era da fare ; quegli appunto se
ne mettevano ai pericoli ed alle opere. Durò tal sistema per molte età tra’
Romani. Ma ne’ tempi miei fu variato, e renduto più popolare per forza di
grandi necessità, non perché le centurie fossero disciotte ; ma perchè non più
serbavasi 1 antica diligenza nel chiamarle; come io stesso, presente più volte
ai comizj, ho veduto.: ma non è questo il tempo conveniente a parlar di ciò.
Tullio data cosi regola al censo, comandò che tutti i cittadini andassero colie
armi al campo più grande dinanzi Roma : e là, messi in squadre i cavalieri,
ordinati li fanti in battaglia, e ridotti i soldati leggeri, ciascuno nelle
proprie centurie ; li espiò con un toro, un ariete ed un capro. Egli fatte
condurre prima tre volte le vittime intorno dell’ esercito le sagri Beò poscia
a Marte, Nome sovrano di quel luogo. Anche a miei giorni vengono i Romani
purificati con egual cerimonia, che essi chiamano lustro, dopo &tto il
censo, da que’ che n’ esercitano' il magistrato santissimo. Come rilevasi da’
libri de’ censori, il, catalogo de’ Romani che si registrarono ascese allora ad
ottantaqnattro mila settecento. Prese questo re non picciola provvidenza per
ampliare le classi del popolo, ideandone de' mezzi sfnggiti a suol
predecessori. Imperocché provvidero questi a far moltitudine ricevendo i
forestieri e consociandoseli senza divario di natali o di sorte. Ma Tullio
concedè che entrassero a parte della repubblica pur gli schiavi Fenduti liberi,
se mai non volevano ripatriare. Àdon que permettendo che registrassero le loro
sostanze iusieme con gii altri uomini ingenui gli ascrive fra le tribù urbane
che erano quattro fra le quali ritrovasi aa cora la discendenza dai liberti, e
fece che vi godessero quanto gli altri vi godeano di diritti. Disgustandosi di questo e mal sopportandolo i
Patrizj ; egli convocatane la moltitudine disse : cho meravigUctvasi
primieramente de' malcontenti se credei vano che t uomo libero differisse dal
servo per natura piuttosto che per la, sorte : e secondariamente se mv~
stiravano gli uomini degni di onori non dai costumi né dalle maniere, ma dalla
prosperità, vedendo quanto caduca, e quanto mutabile sia la prosperità, mentre
TÙuno, nemmeno de’ più felici, può dire quanto tempo gli durerà. Considerassero
quante città barbare e gre^ che erano di serve divenute libere, e di libere
serve. E qui condannava la grande loro incongruenza mentre rendevano liberi
uomini degni di esserlo, e poscia ad essi invidiavano la cittadinanza : e
consigliavali piuttosto a non liberarli, se malvagi li riputavano: ma -se ripa
tavanli buoni, non li vilipendessero quantunque forestieri. Dicea, che ben era
informe nè savia cosa che essi ammettessero alla loro cittadinanza tutti i
forestieri, senza distinguerne la sorte, o por mente, se erano servi divenuii
liberi ; e poi tenessero come indegni di tal graeia ^elli stessi che erano da
loro liberati : e dicea, che essi i quali credeano più saperne che gli altri
non vedeano poi le cose presenti, elementari, e piane anche ai più inetti':
cioè che assai penserebbero i padroni anon rendere liberi cosi di leggeri i
servi se poi doveano accomunarseli alle cose più grandi fra gli uomini : e che
i 'servi assai più si studierebbero di far Fatile de’ padroni, se capivano che
resi liberi sarebbero ancora cittadini di una città grande e beata ; e che
ambedue questi beni Se gli avrebbero appunto dai padroni. Da ultimo fattosi a
ragionare su F utile pubblico ricordava a chi io sapeva, ed a chi noi sapeva
insegnava, che una città che aspiri al comando, una città che pre pansi alle
grandi cose, non dee niun bene cercare quanto F aumentò del popolo, onde aver
forze contro tutte le guerre, e non distruggere Ferario con assoldare gli
estranei, perciò dicendo che i primi re concedevano a forestieri la
cittadinanza. Che se ora adottavano la sua legge; aggiungeva che per loro via
via crescerebbe una gioventù numerosa, nè sarebbero mai scarsi di soldati ;
anzi che ne avrebbero abbastanza quantunque fossero astretti far guerra contro
di tutti. Vi sarebbero ancora oltre le pubbliche, altra utilità non poche pe’
ricchi se lasciavano che gli schiavi renduti liberi avesser parte nelle
adunanze ; mentre ne sarebbero in queste nel maggiore bisogno favoriti co’ voti
o con altre decenze, e la scerebbero ne’ discendenti di essi altrettanti
clienti ai posteri loro. Consentirono a tal dire i patrizj che si am>
mettesse un tal uso in repubblica: e vi persevera ancora, custodito come una
delle leggi sacre ed inviolabili. E poiché son venuto a tal parie di narrawoue
; parmi necessario adombrare i costami de’ Romani in que’ tempi sopra gli
schiavi ; perchè niuno riprenda nè il re che tentò volgere in cittadini gli
schiavi già liberi, né quei che la legge ne ammisero, quasi abbiano
incautamente abolito istituzioni bellissime. Ottenevano i Romani dei schiavi
per giustissime guise:' imperocché gli aveano o comperandoli dal pubblico che
metteali qual preda all’ incanto, o concedendo un capitano che si
appropriassero i presi in gnerra insieme con altre cosej o redimendoli da altri
che gli aveano. con eguali marniere acquistati. Mé Tallio che lo introdusse, nè
gli altri che lo riceverono e serbarono; tennero come vituperoso e nocivo al
pubblico il costume pel quale si ridonasse la libertà e la patria da chi
possedeali come schiavi, a quegli uomini che spogliati in guerra di patria e di
libertà si erano utili dimostrati verso i primi che gii aveano soggiogati, o
verso altri che gii avevano comperati dai primi. Ricuperavano moltissimi la
libertà gratuitamente in vista deir onesto e bel procedere loro : e questo era
il più onoridco mezzo onde riaversi : pochi ne sborsavano un prezzo, accozzato
con legittime e caste fatiche. Non è però così di presente, ma sono le cose in
tanta confusione, e cosi belle virtù de’ Romani sono invilite e bruttate; che
chiunque trae danaro da crassazionl^ da sfasci, da prostituzioni o per altre
ree guise, costui con tal prezzo redimesi, e diviene un Romano. Ottengono altri
un tal dono dai loro padroni, divenutine i complici degli avvelenamenti, delle
uccisioni, e. delle ingiustizie contro la : repubblica e contro gl’ Iddj : tal
altri Digitized by Goo e de’ Veietiti, -già prime ad insorgere, e colpevoli di
aver mosso le altre alla guerra co’ Romani, queste in pena le multa della
campagna, coi divise in sorte tra gli ammessi di fresco alla cittadinanza di
Roma. Compiate tali cose in guerra ' ed in pace, e fondati due tempj l’uno nel
Foro boario, e l’altro in riva del Tevere alla Fortuna sembratagli propizia
tutti i suoi giorni, e da lui chiamata Kirile come chiamasi ancora ; alGne provetto assai per età, nè lontano
ornai dal suo termine, morì tra le insidie dei genero suo e della Gglia. Io
dirò di queste insidie ma ripigliandone il GIo alquanto da lungi. Avea Tullio
due Gglie, nategli da Tarquinia, sposata a lui dal re Tarquinio medesimo.
Divenute nubili le donzelle, cugine dal canto materno a’ nipoti di Tarquinio,
diedele appunto a questi per mogli, la più grande al più grande, e la minore al
minore ; cosi parendogli che meglio converrebbobo a chi le prendeva ; Tullio fondò piò che due tempj. Fiutar, in
quest. Rom. 74 Ma la fortuna ViriU fu
coosccrata da Anco e non da Serrio secondo lo stesso Plutarco De Fortuna Roman,
se non che per la diflbrmità de’ costami si trovò ì’ua genero e l’ altro
accoppiato col sao contrario. Lucio il maggiore, baldanzoso, caparbio, tiranno
per indole, ebbesi la fanciulla, savia ^ mansueta, piena di amore paterno:
laddove Arunle il più tenero, mite molto per genio e tutto affabile, se ne ebbe
la iniqua, e tutta ardire, e tutta odio contro del padre. Ora seguiva che
movendosi ognuno a seconda del genio suo venivane ripiegato in contrae rio
dalla sua donna. Ardea lo scellerato dal desiderio di balzare il suocero dalla
reggia : ma intanto che a tale disegno applicavasi, erane dai voti contrariato
e dal pianto della consorte. In opposito il mite sposo, fermo in cuor suo che
non aveasi ad offender il suocero ma che do veasi aspettare che la natura ne
consumasse la vita, ni tollerando che il fratello commettesse quella
ingiustizia, era spinto in contrario dalia ribalda sua compagna, che lo
istigava e garrivalo, rimproverandolo come vile. E poiché niente poteano nè le
suppliche della savia donna che insinuava il suo meglio al non giusto suo sposo,
nè le istigazioni della malvagia che provocava ai delitti Taomo suo, che non
era temperato a commetterne; ma ciascuno seguiva l’indole sua tenendo per
molesta la compagna perchè non avea desiderj uniformi ; la prima ne piangeva,
ma comportava l’acerbo suo caso, quando l’altra fremevane audacissima, e
cercava come togliersi dal sno camerata. Or qui levatasi di mente la
scellerata, considerando quanto bene a lei si confarebbe il marito della sua
germana, sei fa eh iamare, quasi per abboc carsegli di necessarie cose. E
poiché fu venuto; ordinando che si rititasserò quanti eran seco per discorrere
sola con solo Or su, disse, o Tarquinio posso io liberamente e senza pericolo
ridire quanto medito pel bene di ambedue ? Lo celerai tu quanto sei per udire ?
o vai meglio che io taccia, nè palesi V arcano' consiglio ?, £d invitandola
Tarquinio à dire, e certificandola coi giuramenti, qualunque ne volesse,
cbe-taóerebbe i discorsi ; ella non più contenuta dalla verecondia >neO‘
amici che abbondano, ed altre comodità copiose e grandi per imprendere. Che
più, dunque t’ indugj ? u4 spetti forse il tempo che per sé stesso venga e ti
dia la corona senza che pur te ne brighi ? Quando ? dopo la morte di Tullio ?
Jippunto la fortuna riguarda gl’ indugj degl’ uomini, appunto la natura pon fine
alle vite secondo la proporzione degli anni ! Anzi oscuro, incomprensibile è f
esito delle cose mortali. Sebbene, io lo dirò pur francamente, quandi anche tu
me ne chiami temeraria, una a me sembra, una la causa per la quale niente
commoveti, non l’ amor degli onori non della gloria. Hai tu donna mal conforme
a tuoi modi; e questa li lusinga, e t’ incanta, £ ammollisce : e da questa
rendalo men che uomo diverrai finalmente un ignoto. Così pure quel marito eh’ è
meco, tutto paura, e senza nulla di virile, quegli ha depresso me ch’era nata
alle grandi cose, quegli ha fatto il fiore languir di bellezza che mi avvivava.
Se portava il destino che tu prendessi me per moglie ed io te per marito, già
non saremmo tanto tempo vivati nella ignobilità de’ privati. Che dunque non
emendiamo le colpe della sorte ? che non trasmutiamo il matrimonio ? che non
togli tu dalla vita cotesta tua donna ? Io sì che apparecchio per quel mio
marito /’ egual trattamento. E quando, spenti questi ^ ci sarem conjugcUi y
allora consulteremo con 'sicurezza sul resto, liberi già dagli ostacoli che ci
conturbavano. Che so altri per cUtre cause teme la ingiustizia ; già non è da
riprendersi chi tutto ardisce per dominate. Mentre Tullia cosi diceva, ne
ascoltava Tai> quinio con diletto i disegni : e dando immantinente e
ricevendo i pegni di fede, e le primizie dell’ empie nozze, si ritirò. Non andò
guari tempo ; .e perirono p^ eguale sventura la primogenita di Tullio, ed il
minor de’ Tarquinj. E qui sono astretto a far parola di nuovo di Fabio, e
riprenderne la negligenza nell’esame dei tempi. Imperocché fattosi alla morte
di Arante non. pecca per questo capo solo come io dinanzi dicea, che deaerivelo
per figlio di Tarqninio ; ma per l’ altro ancora che narra, che mortosi Arunte
fu sepolto dalla madre Tanaquilla, la quale non potea di que’ tempi più vivere.
Conciossiachè giù di sopra fu dimostrato che costei numerava settantacinque
anni, quando mori Tarquinio. Ora aggiungi a questi altri quarant’ anni, giacché
sappiam dagli annali che Arunte mancò nell’ anno quarantesimo del regno di
Tullio; e saran gli anni di Tanaquilla cento quindici. Tanto picciola nelle
storie di que^ st’ uomo é la cura intorno la ricerca del vero ! Dopo ciò
Tarquinio senza indugio riprese in Tullia una moglie, ricevendo lei da lei
stessa, e senza che la madre approvasse, o consolidasse il padre quelle nozze.
E come que’ due impurissimi, come que’ due micidiali si congiunsero, tentarono
di cacciare se noi cedea di buon grado, Tullio dal trono: e teneano perciò
delle conventicole, e raunavano que’ senatori che aveano cuore alieno da lui e
dalie forme di un governo’ popolare, e comperavano i più bisognosi della città
quei che non Bveau cura ninna della giustizia, facendo intanto tutto senza nasconderlo.
Tullio vedendo ciò, ne fu contur baio, e temette di essere sorpreso da qualche
infortunio. Nè dovrebbesi meno se dovesse far guerra alla figlia ed ai genero,
e pigliarne vendetta come di nemiri. Adunque invitò molte volte Tarquinio a
discorso in mezzo degli amici ; ora redarguendolo, ora ammonendolo ed ora
esortandolo a non far contra lui mancamento. Poiché però costui non lo
attendeva, e pretestava che direbbe in Senato i suoi diritti; egli stesso
adunando il Senato, incominciò : Tarquinio o senatori ( e ben mi è ciò
manifesto ) Tarquinio tien dei congressi; Tar~ quinio m insidia lo scettro. Io
da lui voglio, presenti voi, risapere, qual privata ingiuria ha da me sostenuta,
o qual vede che io ne ho fatta sul pubblico per insidiarmi. Rispondi Tarquinio,
non '{infingere, di che avresti tu mai per incolparmene? È questo il Senato,
ove di essere udito desideravi. E Tarquinio replicò : Breve o Tullio sarà il
dir mio, ma giusto ; e però voleva io profferirlo tra questi. Tarquinio V avolo
mio possedè la reggia di Roma, e molti e grandi travagli sostenne per essa. £
lui morto, io, gli debbo succedere secondo le leggi comuni de’ Greci e de
Barbari. E convenivasi, come si conviene a quei che succedono agli avi, che io
ne ereditassi non pur le monete, ma la reggia : e tu mi davi le une, come
lasciate da esso, e mi toglievi la reggia, e già da tempo la tieni, senza
averla mai ricevuta a norma delle leggi : perocché nè gl’ interré vi ti
scelsero, nè i senatori mai per te davano il voto, nè assunto vi eri dacomizj
legittimi come l’avo mio e come tutti i re precedenti. Tu andavi al trono,e
comperando e subornando per ogni modo una turba di vagabondi e di miseri, una
turba rovinata nella stima per le accuse e pe’ debiti, una turba infine niente
sollecita del pubblico bene : e così andandovi nemmeno dicevi di stabilirlo per
te, ma davi' le viste di custodirlo per noi orfani e pargoletti: e dichiaravi,
udendolo tutti, che quando saremmo già adulti, lo renderesti a me che sono il
pià grande. Se dunque volevi tu far la giustizia, quando mi consegnavi la casa,
quando il danaro dell’ avo ; dovevi tu consegnarmene nommeno la reggia seguendo
V esempio dei tutori onorati e dabbene, i quali ponendosi alla cura de’ regi
figli, orfani de loro padi’i, rendono ad essi appena son grandi puntualmente e
santamente la signoria degli antenati. Che se ancora non io semhravati idoneo a
pensieri convenienti, ìiè bastante pei giovani anni a città si popolosa, dovevi
almeno restituirmene il governo quando io giunsi ai treni anni che son gli anni
vegeti del corpo e della mente, e ne’ quali tu mi davi la tua figlia in isposa.
Avevi pur tu questa età quando prendevi la cura della nostra casa e del regno.
Ti sarebbe, cosi facendo, accaduto di esserne detto pietoso e giusto, di essere
il partecipe de’ miei consigli, il partecipe degli onori, e di udirmiti chiamar
padre, e benefattore e salvatore ; e con
ogni bel nome, quanti ne sono destinati dagli uomini per le assioni le pià
preziose ; nè io già da quarantaquattr anni sarei privo del regno, io non
informe di corpo, io non disadatto di mente. E ciò stando y osi pur dimandarmi
quale aggravio io ne senta, sicché io labbia per inimico, e te ne accusi? Anzi
dX, Tullio, dì per qual causa non mi stimi tu degno degli onori delt avo ; dì,
qual ne trovi, qual ten ^ngi buon titolo di tal mia privazione ? Non pensi
forse che io sia germe puro di quella stirpe, ma intrusovi e spurio ? Come
dunque tu curavi un estraneo da quella famiglia ? o come, quando ei crebbe,
gliene rendevi la casa ? O pensi che io non lontano molto dai cinquant’ anni
> io pur siegua ad essere un orfano ? un incapace ed moneti del pubblico ?
Lascia dunque gli schemi di domande invereconde; cessa una volta di esser
malvagio. Che se hai giuste cose a rispondere io, son pronto di rimetterle a
questi giudici, de’ quali tu non potresti ih città rinvenirne altri migliori.
Ma se di qua levandoti ricorri tu, come sempre solevi, a quella tua ligia
moltitudine ; già non sarà che io mel soffra. Io qui sono appeaecchiato
disputare sul giusto ; ma lo sono ugualmente per eseguirmelo, se non miascolti.
Al tacere di lai ripigliando Tullio il discorso, così disse : Quanto è vero o
senatori che dee t uomo aspettarsi ogtd caso pià impensato nè crederne assurdo
rduno, se fn questo Tarquinia sta per levarmi dal pritKÌpato : questo Tqrquinio,
else io prendea, che io salvava fanciulletto da’ nemici che lo insidiavano, che
io educava e crésceva, e cresciuto, ' compiaceami di avermelo a genero, ed
erede infine di tutto se io patissi umana vicenda. Ma poiché tutto mi riesce in
contrario, e che ne sono ami accusato come ingiusto ; serberommi a piangere la
mia sorte, rispondendo ora su miei diritti a fronte di lui. O Tarquinio, io
presi la cura di voi lasciati fanciullini : nè già di voler mio, ma costrettovi
dalle brighe, la presi. Imperocché si dicea che quelli ette aveano
manifestamente ucciso I avolo vostro onde riprendersi il tròno, avrebbero
occultamente insidiato • anche tutto il parentado : e quanti a voi per sangue
si riferiscono, tutti confessano, che se quelli restavan gli arbitri del
comando, non avrebbero pur seme lasciato della stirpe de’ Tarquinj. Non ci avea
curar tore, non tutore ninno di voi se non una donna, la madre del vostro padre,.
bisognosa ancor essa di alr tri curatori per la cadente età siui. Rimanevate vm
solo a me corifidati, custode unico dell orbitade vostra, a me che ora chiami
un estraneo, un che niente a voi si appartiene. Jn tali turbolenze ponendomi al
comando io punii gli uccisori' deU’ avolo vostro', e ’ voi crebbi allo stato di
uomini, nè avendomi prole virile, io vi eleggea ^perchè à me succedeste. E
questo o Tarquinio il discarico della mia ‘cura; nè già potresti in parte
alcuna imputarmene di menzogna,. Ma quanto al regno, poiché di questo mi
accusi, odi come io me ìo abbia^ e le Cause per le quali non a voi lo ceda, nè
ad altri. Quando io presi 11 governo, avvedutomi che mi si tramavano delle
insidie, volea nelle mani riporlo del popolo. E chiamando tutti a concioAe, io
già faceami a cedere il comando per cambiare con una vita di calma e senza
pericoli^ la vita del comcmdare, la quale è piena di invidia, e sparsa pià di
amarezze che di piaceri. Non comportarono i Romani che io tanto eseguissi, nè
vollero alcun altro sul Comune, e me ritennero, ed a me diedero col consenso
de’ voti, il régno, quel possesso loro, o Tarquinia, e non vostro. Così pure
l'Oveano già dato all’ avolo vostro tuttoché forestiero, e niente congiunto col
re precedente ; sebbene Anco Marzio lasciava de’ figli maschi e floridi per
anni ^ e non de’ nipoti, e piccioli, come Tarquinio voi lasciò. Se legge è
comune di tutti, che chi eredita le sostanze e i danari dei rei che cessano,
debba insieme r,iceverne il regno, dunque non fu Tarquinio l’ avolo vostro che
al morire di Anco ottenne là cotona, ma il figlio primogenito di questo. Ma il
popolo di Roma chiama al comando t uomo degno di averlo, e non il successore
del p’adre. Imperciocché giudica che le sostanze sieno di chi le possiede, ma
che il regno sia di quelli che il diedero ; giudica convenirsi che ottengano
quelle gli eredi per sangue o per testamento se i padroni sén muojono, e che
tomi l’ altro a chi ’l diede se vien meno chi preselo a reggere •; se non forse
hai tu da contrappormi che I avolo tuo ricevette il regno con tal condizione
che non potesse pià tortegli, e che lo tramandasse a voi suoi discendenti;
sicché non fosse pià t arbitro esso popolo, di conferirlo a m, levandolo a voi.
Ma se hai tu punto di simile, che noi produci? Ma non gli hai tu questi patti.
Che se io non ebbi il regno per buona via come dici, noneletto dagf interré,
noti portato dai senatori agli cffari, né compiendo il resto a norma dette
leggi; questi dunque, .questi ho 10 vilipesi e non te : e questi e non tu,
saria giusto che V autorità men finissero. Ma nè io violai questi, né cdtro
chiunque. Jl tempo tn é buon testimonio’, che 11 potere mi fu dato
legittimamente, e che legittima^ mente mel tengo. Imperocché già ne volge I
armo quarantesimo e niun Romano pensò mai che io commettessi, avendolo, una
ingiustizia ; e non il popolo, non il Senato mai si mosse a spogliarmene. Ma
lascisi pur tutto ità : diasi pur luogo alle tue ragioni. Se io te privava di
un deposito delt avo, se io mi ascrissi il tuo regno contro. tutti i diritti
degli uomini, convenivasi che tu a quelli ne andassi che mel diedero : che con
quelli ti ramaricassi e garrissi che io mi tenga te cose non 'mie ; è che essi
mi si obbligarono col dispensarmi t. altrui: e se tu il vero dicevi; di teneri
gli [avresti persiutsi. Che se tu non certificavi ciò cotuoi parlari ; e
tuttavia pensavi, indebita cosa che io regnassi, e che tu sei pià acconcio al
maneggio del pubblico ; potevi almeno, fatta ricerca diligente de miei errori,
e numerate le belle tue gesta, riclamartene giuridicamente la precedenza. Ma tu
non hai fatta, nè luna nè F altra cosa; e dopo tanto tempo, finalmente, quasi
riavendati da lunga ebbrietà, vieni per accusarmene e nemmen ora dove si dee. Canciossiachè, già
non conviene che queste cose qui dichi ( e voi non ve ne sdegnate o Padri.,
mentre io cosi parlo non perchè vi si tolga questa causa, ma per dichiararvi li
costui vanilotfuj ), ma conveniva che preaccennandomi tu. che aduneresti il
popolo a conciane là mi accusassi. Ora ciocché hai tu schivato, lo supplirò io
questo per te :• convocherò il popolo, lo Jarò giudice delle Mense che òuoi :
lascerò che decida di nuovo, qual sia pià idoneo di nói per comandare ; e
quello che là destinasi, quello adempirò. Ma basti il fin qui detto a
risponderti : perciocché toma allo stesso dir poche o molte ra^ni eon emoli che
non le apprezzano, men-, tre questi per indole nemmen soffrono ciocché li per-,
suada ad essere umani. Ben io mi meravigliava o senatóri che sdeuni di voi (se
ve ne sono ) volendo depor me, cospirassero con costui. F^olentieri udirei da
loro per qual mia ingiustizia mi fan guerra, o da quale mio trattò inaspriti.
Sanno essi forse che assai nel mio principato, perirono senza essere uditi,
assai furono spogliati, di patria, assai delle sostanze, o con altro sciagure
affitti ? o non avendo a ridire su me niun tirànnico modo di questi, sono essi
forse conseqtevoli delle, mogli lóro da ma disonorate ; delle prof ansate loro
verini figlie, o di tal altra mia incontinenza su ingenue persone ? Egli è
giusto se in me sorto tali eplpe, che io sia, nonuì del regno privato, che
della vita. O può .dire alcuno che un superbo io sono, un esoso per la mia
durezza, un-iiHollerabile per la mia caparbietà nel governare ? Qual mai dei re
predecessori fu così moderato, così umano nel suo potere, o qual fu con tutti
come me, quasi un tenero patire co’ figli? Io quel potere che voi mi deste, voi
custodi di ciò che avete dagli avi ricevuto io non lo volli questo nemmen per
intero : ma creai leggi, ( e voi le approvaste queste leggi) su cose
principalissime,• e le intimai perchè tutti esigeste e rendeste cots-esse i
diritti, ed io stesso il primo mi vi sottoposi, docile come un privato agli
ordini, che io dava per nitri. Che più : non io mi tenni giudice di tutte le
ingiusti-‘ zie ; ma commisi che voi stessi giudicaste delle pri-, vate} ciocché
ninno uvea fatto dei re precedenti. ^Laon de, non vedesi in me colpa sicché
altri me ne contrarino. O turbano voi forse i benefizf miei verso del popolo ?
Ma non sarebbe così pensare un offendeivi ! se già tante volte con voi me ne
giustificai. Se nonché niente bisognano discorsi tali : se a voi pare chequesto
Tarquinio, preso il govermo, sia per ammiinistrarvelo anche meglio : io non
invidio a. Roma .il suo miglior principe. Restituendo il comandò al po-^ polo
che mel diede, e tornandomi tra privati, farò che vedasi chiaramente che io
sapea tanto, ben' io minare, ' quanto io posso dignitosamente servire^. 55
ascese in tribuna, e tennevi un patetico e Inngo ragionamento óve numerò le
gesta militari eh’ egli iece mentre viveva Tarquinio e dopo, e .ricordò mano a
mano le istitnaioni donde sembrava il Cornane prosperato di, molte ; e grandi
utilità. E venendogli dal dir di ogni fatto -amplissime lodi, e desiderando
ornai tutti sapere perchè li ridicesse, palesò finalmente come Tarquinio
accusa• vaio di' egli tenesse a torto un regno che a lui si doveva : e come
apaigeva che l’avolo gli avea nel morire lasciato con le ricchezze anche, il
regno, e che non po-, teva il popolo concedere ciocché suo non era. E qui
-^Vegliatosi in tutti clamore, ed. indignazione, egli intimando silenzio, piega
vali, che non impazientissero nè tumultuassero a quel dire : ma chiamassero
Tarquimo, e se. forse aveva giuste cose da esporre le conoscessero: e se lo
trovassero offeso, e se. piò idoneo a reggere, gli affidassero pure il comando
di Roma : egli se ne allontanerebbe, e renderebbelo ad essi da’ quali lo .ebbe.
Cosi lui dicendo e movendosi già per,i iscendere dalla ' tribiina,, proruppe da
tutti un grido, un gemito, un pregar vivo ebe non cederne ad alui.il comando. E
ci avea por chi esclamava elve si avesse a tempestare Tarqninio : e colui,
vista in fremito la moltitudine, temendo che non gli desser di mano ;
foggiasene cogli amici in casa. Allora tripudiando tutto il popolo ricondusse
tra gli applausi e le acclamazioai Tullio alla reggia. Tarquinio, veuutogK
meno, quel tentativo, fremè dal rancore, che il Senato non gli dess^ alcnn
aiuto, quàndo egli fidava su questo principalmente; e teuniesi per alcun tempo
in casa non conversandolo che gli amici. Quando la donna sua gli si fece a dire
elle più non dovea star mollemente a bada, ma ebe dovea^ lasciate le parole,
Tenire ai fatti, e primieramente cercar pace per mezzo degli amici da Tnib'o,
perché colui credendoselo riconciliato, meno il guardasse. E parendogli eh’
ella ben consigliasse, finse di esser pentito, e più volle per .mezzo degli
amici Orò caldamente Tullio affinchè lo perdonasse ; né difficilmente ve lo
indusse, essendo placabilissimo per indole, ed alieno da nna guerra
inestinguibile colla figlia e col genero. Ma venutogli poscia il buon ponto,
essendo il popolo sparso ne’ campi per la raccolta, egli usci cìnto di amici
co’pngnali sotto ' d^li abiti: dati i fasci ad alcuni de’ servi, e presa per se
regia veste ed altri simboli del comando, si recò net F oro ; e standosi
dinanzi la Curia, intimò che il banditore convocasse il Senato. E siccome ci
aveanO già pel Foro appostatàmente molti de’Patrizj consapevoli ed istigatori
del delitto ; allora si concentrarono. Intanto corso alcuno in casa di Tullio
lo informa come Tarquinio' ersi uscito con regie vesti, e chiamava i Padri a
consiglio. Stupitosi Tullio dell’ ardimento andò tra piccfolo seguito con più
velocità che saviezza: e giunto nella Curia) e vedutolo in sul trono, e con gli
altri distintivi reali, chi, disse, chi, scelleratissimo uomo, ti concedè
questi onori? e colui, /ìi, replicò, l’ardire tuo; fu la tua inverecondia o
J\dlio ; perocché non essendo tu libero, ma servo nato da serva e posseduto qual prigioniero dalT avolo mio,
ti arrogasti il comando di Roma. Tullio, ciò udendo, inaspritone, à biqciò fnor
di proposito su lui, come per isbalzaflo dal trono. Vide. 5'J TaitjaÌDio ciò
con diletto ^ e sorgendo dalla regia sede afferra e trasportasi Ini vecchio,
che grida, ed invoca i suoi. Giunto fuori della Curia egli florido e forte, le
vaio in alto > e trabalzalo giù per le scale che mettono al luogo de
contizj. Alzatosi appena dalla caduta il vecchio, cóme vide intorno, pieno
tutto de partigiaui di Tarquioio, e deserto e vuoto de cari suoi, partesene
malconcio e mesto con pochi che lo sostengono, e ricoóducoDO, mentre riga
intanto la via di sangue.Narransi dopo ciò le opere dell’ empia e barbara
figlia, tremende ad udirsi, come portentose nè credibili a farsi. Costei
sentendo che il padre era ito in Senato vogliosissima di conoscerne la fine,
venne in sul cocchio nel Foro : e conosciutavela, e veduto Tarquinio in su le
scale della Curia, essa la prima a gran voce lo salutò monarcA, supplicando gF
Iddii, che il regno di hii riuscisse propizio a Roma. E salutandolo monarca
altri ancora de’ cooperatori suoi, • lo trasse in disparte e di^se: Le prime
cose o Tarquinia te hai Ut faUe come àoveansL Ma finché vive TuUio non potrpi
renderli stabile il regno. Egli se abbia picciolo tempo di questo giorno ;
ecciterattene incontro il popolo ; e tu sai’ quanto il popolo tutto è per lui.
Su dunque' prima ih ei torni in casa, manda chi lo uo cida ; te ne libera. Ciò
detto, e sedutasi di nuovo in sul cocchio,. parti. Tarquinio convinto che la
iniquissima donna ben consigliava, spediscegli contro alquanti de’ suoi co brandi : e quelli trascorrendo
rapidissimaménte la via raggiunsero Tullio pressò la casa, e lo uccisero.
Abbandonato palpitavane ancora il cadavere per la strage recente ; quando la
figlia sopraggiunge : ma stretta essendo la via donde avessi à passare le mule
a tal vista si spaventarono : e 1’ auriga stesso .che le guidava mosso da
compassione si fermò e si volse a colei. La quale dimandandogli perchè mai non
procedesse : Non vedi, disse, o Tullia, che qui giace U morto tuo padre, nè vi
è transito fuorché, sul cada- vere suo ? E sdegnatasene quella, e levatosi lo
scAbello da’ piedi e lanciatoglielo disse : ’E non le guidi o stolto in sul
morto ? E colni gemendo anzi per la compassione elle per la percossa spinse
forzosamente le mole so del cadavere: E la via chiamata Olbia per addietro, fu dopo il tragico e barfiAro
caso, detta nélF idioma de Romani scellerata. Tale è il termine di Tullio dopo
quarantaquattro anni di regno. Dicono che qnest’nomo il primo alterasse ì
patrii costnmi e le leggi .ricevendo il principato non' dal Senato insieme, e
dal popolo come tatti i re precedenti ma dal popolo. sedo, guadagnane dosene la
classe > indige nte con' distribnzione e'donii, ^ altri sedncimentL E cosi
sta la'veritè; perciocché' nei •> (l) OAjStar >0 greco saU fiUce,
firtunaUn sareiiba il teina che la vìa ftlice fortunata fu delta scelterata pel
delitto. Alcuni leggono va-fis io luogo di tXfittf, certamente, secondo che
scrive Varrime nel lib. ^, de lingua laiina, i Sabini quando tinnirono ai
Romani, chiamarono Cipria la contrada di Roma nella quale si alloggiarono come
per buono angario, perché Cjrprwn tra’ SaiNui tigniScava il bene. E secondo ciò
la contrada, detta Cipria o. buona dni Sabiui pel buon augurio, sarebbe appunto
quella ghe fu. poi della scrllerata per la empietà commessavi. Ma Varrone
.scrive che questa contrade cran prossime, e non già le. medesime.. prifni
tempi quando un re moriva, il popolo dava al corpo del Senato la podestà di
stabilire la forma che pià volessero di governo, ed il Senato nominava
gl’interré, e gl’ interré sceglievano per sovrano 1’ uom più pregevole sia de’
cittadini, sia de’ nazionali, sia de’ forestieri : e se il Senato ’ne approvava
la scelta, se il popolo co^ voti suoi r aotorizzava, se gli anspizj la
confermavano, còlui prendeva il comando. Che se mancava alcuna di queste
condizioni, ne; nominavano nn 'secondo ; e poi un terzo, se avveniva che il
secondo non avesse propiziò quanto era d’ uopo dal cielo e dagli' notami. Ma
Tullio, come innanzi fu detto, assumendo in principiò il carattere di regio
tutore, e poi guadagnandosi il popolo con gli amorevoli modi', fu -re nominata
solamente da quello Poi • diportandosi come uomo temperato e clemente fe' colle
opere successive tacere le accuse, che non avesse adempita ogni cosa a norma
delle Ipggi ; lasciando a > molti il 'sospetto, che se non era presto >
levata; avrebbe' ridottolo Statoa forma di una repubblica. E (|nesta é la
cagion principale. per ui dicesi che alenai de’ palrizj lo insidiassero^ Pionr
potendo con altro modo hnirne il comando, inisero -TarqUinie alla impresa e gli
cooperarono il regno^ per voglia di deprimere -il •'popolo fornài troppo
potente pel ' governo tura un giorno ;
nella prossima notte spirò. S’ ignorava però da molti la maniera del termine
suo. Diceano alcuni eh' ella stessa aveasi data da sé la morte, anteponendola
al vivere. Altri però diceano che era stata uccisa dalla figlia e dal genero
come troppo addolorata e benevola inverso lo sposo. Per queste cagioni il corpo
di Tullio fii privo di regj funerali, e di magnifico monumento : conseguì però
coUe opere sue memoria perenne in tutti, i tempi. Anzi quanto iegU | fosse caro
agl’ Iddìi lo., fece eziandio palése nu segno celeste : dond’ è che alcuni
tennero ancora per vera la opinione incredibile e fiivolosa intorno la nascita
sua come dianzi fa detto. Appiccatosi il fuoco id tempio delia fortuna, che
egli area già fabbricato, mentre tutto era preda delle fiamme ne rimase intatta
solamente la statua di lui in legno dorato.. Il tempio e quanto .è' nel tempio
rifabbricati dopo l’ incendip sul modo antico presentano le traccie di un’ arte
recente: ma la statua, antica com era nelle fattezz^. vi riscuote ancora il
qulto dai Romani. E ciò è quanto abbiamo ricevuto sopra Tullio. Dopo di lui
prese la siguoria di Roma Laicìo Tar^illnio non gi^ fecondo le log^ ma colle
armi nelr anno quarto dell olimpiade sessantesima prima nella quale vinse nello
stadio Agatarco, essendo arconte di Atene Tericleo. Cosmi spigando la popolar
moltitudine, spregiando i patria] da’ quali era stato condotto al trono, e
confondendo e sconciando ogni costumee legge e disciplina colla quale i re
precedenti ave'ano dato forma a Roma; rivolse il governo in nna manifesta
tirannide. E primieramente mise intorno a sé guardie di bravi, naaionali ed
esteri, con spade e lan ce, i quali vegliando di notte negli atrj della reggia,
é scortandolo di giorno, ovnnqne ne andasse, lo scber missero appieno dalle
insidie.' Inoltre non usciva nè di continuo, né con periodo certo, ma di raro,
e quando non aspettavasi. Deliberava su le cose comuni molto in sua casa, e
poco nel F oro, in mezzo a’ parenti più stretti cbe lo guardavano. Non
concedette che alcuno di quei che il volevano si presentasse a Ini se noi
chiamava : e presentatoglisi, non era giè con esso, compiacevole e mite, ma
grave ed aspro ' come un tiranno, e terrìbile ansi che gioviale a vedere.
Definiva le controversie su’ contratti in conformità de’ costumi suoi, non
delle leggi e del dritto. Per le quali cagioni i Romani lo denominaron superbo,
ciocché nell’idioma nostro vuoi dire soperchiatore contrassegnando l’ avo col
soprannome di Prisco, o come noi diremo antico per nascita, giacché quello
aveva i nomi appunto del giovine. NelP
annp e di Roma secondo Catone, a seconde Vatreus, e &3a avanti Cristo.
Qaaado poi concepì di aver già consolidato il suo regno, concertandosene co’
più ribaldi de’ suoi ami> d, avviluppò tra accuse capitali i piò cospicui
de’ cittadini ; e primieramente i contrari suoi, quei che già non^voleano che
Tullio si levasse dal trono, e quindi altri li quali immaginavaseli malcontenti
del cambiamento, o li quali abbondassero di riccbezae. Coloro che in giudizio
li riducevano, gli accusavano l’un dopo l’altro con delitti falsi, e con quello
specialmente che tendevano insidie al re che ne era il giudice. Ed egli quali
ne condannava alla morte, e quali all’ esilio: e confiscati i beni degU uccisi
o banditi, dispensavane alcun poco tra gli accusatori, serbandone la piò gran
parte per sè. Pertanto molli de’primar} vedendo le ca> gioni per le quali
erano insidiati, lasciarono, prima di essere complicati in delitti, Roma tutta
al Uranno. Vi furono pure alcuni sorpresi ed oppressi di furto da lui nelle
case o ne’ campi : uomini ben degni di riguardo, ma non piò sen trovarono
nemmeno i cadaveri. DiBtrutla così la maggior parte del Senato con suagi e con
esilii perpetui la supplì con chiamare agli onori di quei che mancavano i
propri amici: nè però concedette loro di fare o dire se non quanto egli avesse
prescritto. Tanto che li senatori già scelti da Tullio, e superstiti ancora nel
Senato, e contrarj fin’allora al popolo sul concetto che la mutazione
tornerebbe in lor bene per le promesse avutene da Tarquinio ingannevoli e
tradiuici, vedendo infine che non aveano piò parte nelle pubbliche cose, anzi
che aveano' come il popcdo per dula la libertà ne sospiravano : ma temendo un
avvenire ancor più tetribile, nè potendo impedire pianto faceagi, chctaronsi
necessariamente a’ mali presenti. Or vedendo il popolo dò, pensava che stesse
lor bene, e godea sul Hintraccambio, quasi là tt> rannida foste per essere
'grave a quelli soltanto e non pericolosa per lui ; quando non molto dopo ne
vennero i mali ancora più su di esso : imperocché Tarquinio annullò tutte le
leggi di Tallio per le quali il popolo rendeva ed esigeva il giusto con diritti
eguali senza es> seme come prima sovverchiato da’ patria) ne’ contratti : né
lasciò pur le tavole dove erano scritte, ma fattele levare dal Foro le
distrusse. Poi tolse i daz), propoiv zionevoli ai registri delle sostanze,
tassandoli novamente sul modo antico. E se mai bisognavano a lui denari,
Contribuivane il più ' povero quanto il più ricco. Or tale regolamento esaurì
subito colla prima imposizione gran parte dei popolo; essendo astretti a pagare
dieci dramme a testa. Intimò 'che non più si facessero quei concor, quanti sen
facevano per villaggi, per curie', o per vicinati, a Roma, o nella campagna in
occasione di feste o sagri6zj comuni, perchè riuneudovisi molti non vi
macchinassero occultamente fra loro di abbattere il principato. Ci aveano qua e
là disseminati, ignoti osservatori e spie dei detti e de’ fatti, e questi intra
punto contro il governo scandagliavano gli animi: e se scoprivano alcuno
esasperato da’ mali introdotti lo in(xilpavano presso del tiranno: ed aspre
irreparabili ne erano le pene, se restava convinto. Né gli bastò di abusate m
tal modo' del popolo : ma raccogliendo dal meazo di esso quanti ci area 6di e
proprj per la gnerra, astrinse gli altri a lavorare in città, riputando che i
re moltinimo pericolano, ae i più scellerati e poveri stieno oziosi. E
desiderando vivamente che si ultimassero nel suo regno le opere lasciate
imperfètte dall’ avo suo, che si continuassero; fino al fiume le cloache
cominciate da quello e si circondasse di portici coperti il Circo Massimo il
quale -non aveane che le gradinate; si applicarono a questo lavoro; e ne i
ottennero parco frumento i poveri, altri tagliandone i materiali, altri
guidando i carri che li trasportavano, ed altri portando su le spalle i pesi.
Chi scavava sotterranei canali e largure : chi facea volte in essi ; e chi sn.
Tarquinio perché aveasi scelto Mamilio per genero e non lui, fece uda lunga
accusa di Tarquinio nmnerandone le op^re di orgoglio e di soperchieria, come il
nou essere venuto in consiglio, dove eran già tutti, e dove gli aveva esso •
stesso invitati. Difendealo Maroilio, imputando l’ indugio a cause urgenti^ime,
e chiedea che diiferissero ; e differirono il consiglio al prossimo giorno,
indotti dai suo parlare i Latini. (t) Livio nel lib. i dice che era della
Aiceia : Tur /mi Herdoiui ai Arida. Forte la gran vicinanta di Coriolo e
dell'.tfr(cM Ccce prender l’nna per l’altro. Coriolo era fra i terrìtorj
Amiate, Ardcatinp, ed Aricino, tal monte Giov. toJOttlQGiunto nel giorno
appresso Tarquinio, e congregato il consiglio, e toccato di volo l’ ittjiagio
suo ^ fecesi a discorrere della preminenea che a lui cecnpe- teva come
posseduta già dall’avo per la forza delle armi; e presentò gli accordi delle
città fatti ctm quello. Lungo fu il suo ragionamento intorno dei diritti -e def
patti; e grandi le premesse di beneficare le città se amiche gli si tenessero,
e provocavale infine a far guerra con esso ai Sabini. Come dié fine al dir suo.
Turno recatosi innanzi accusava la tardanza di lui, nè permetteva che li
compagni gli cedessero il principato, perchè nè dovuto a lui per giustizia, nè
possibile a darsegli con utile dei Latini. E molto ragionò su l’nna e su
l’altra cosa dicendo che i patti che avean segnati ccfll’avo suo quando gli
accordarono la sovranità finirono colla sua morte, per non essere scritto in
quelli che il dono esienderebbesi anche ai posteri suoi. E qui dimostrava eh'
egli chè pretendeva succedere ai diritti dell’avo, era il più ingiusto, e
malvagio ' de’ mortali : e ne allegava le opere da lui latte per aversi il
comando di Roma. Adunque scorrende^ i tremendi e molti suoi delitti, conchiuse
infine che egli non tenea legittimamente nemmeno Roma, non avendola come i re
precedenti ricevuta da’sudditi spontanei.; Egli t lui presa, disse, colla
violenza e ' colle armi: et fondatavi la tirannide, uccide, esilia, confisca, e
tòglievi fin la libertà di parlare, non che quella del vi~ vere. Ben sarebbe
grande la stoltezza, grande la ingiuria inverso gli Iddj ripwmetlersi mai
tratti umani e benevoli da un empio e da uno scellerato, e credere che chi non
ha perdonato nemmeno agi intimi ruoi j nemmeno al suo sangue, risparmi poi gli
altri. Esorlavali dunqne giacché noa eransi ancora sottoposti al giogo, a
combatto^ per non sottoporvisi. Da ciò che pativano gli altri di terribile
argomentassero ciocché sa rdibero essi per sopportare. Vaiatosi Turno di questo
discorso, ed assai commossine i più; Tarqainio dimandò per difendersene il
giorno seguente, e lo ebbe. E sciolto appena il consiglio ; convocati i suoi
più intimi, esaminò con essi ciocch’ era utile a farsi. £ quali suggerivano le
ruposte di apologia, quali ragionavano fra loro de’ mezzi onde era da blandirsi
la moltitudine. Soggiunse Tarquinio che niente di ciò bisognava, e disse il
parer suo di le vare l’accusatore, anziché di purgarsi dalle accuse. E lo
datone da tutti e concertatosi con essi; pigliò tali vie per l’intento, quali
non sarebbero cadute in mente di uomo che macchina o si difende. Imperciocché
cercati U servi più rei che menavano i giumenti o curavano le robbe di Turno, e
corrottili con argento, gl’ indusse a prendere da sé stesso nella notte assai
spade e portarle nell’ ospizio del padrone e nasconderle, e lasciargliele tra
le bagaglio. Poi nel giorno appresso, riunitosi il consiglio, e venutovi :
Breve è, disse, topologia su le mie colpe, e giudice ne stabilisco t accusatore
mede^ simo. Questo Turno, o compagni, giudice stabilito delle reitadi che ora
mi ascrive, questo da tutte assolveami già, quando chiese in isposa la mia
figlia. Ma poiché ne fu rigettato, com' era ben giusto ( imperocché qual savio
mai rispinto avrebbe Mamilio, un si nobile, un sì potente Latino, e prescelto
avrebbe per genero costui, che mal può delincar la sua stirpe, fino al
trisavolo ? ) poiché ne fu rigettato, indispettitone mi assalisce colle accuse.
Doveva, se per tale mi conoscea qual mi accusa, non desiderarmi per suocero : o
se mi tenea per onesto quando mi chiese ‘la figlia, non doveami ora come un
ribaldo accusare. E ciò basti su mei perciocché non si debbe ora più discutere
se buono o malvagio io mi sia, quando voi, o compagni, voi correte il più grave
de’pericoli. E. su me potete aruor dopo chiarirvi : ben ora dee colla salvezza
vostra la libertà provvedersi della patria. 1 primarj delle città, quei che ne
maneggiano il pubblico, tutti sono insidiati da questo bel capo-popolo, il
quale apparecchiasi, uccidendo i più cospicui, torsi il regno del Lazio. E
questo, questo é il fine che qua lo menava. Né già io parlo immaginando, ma di
pienissima scienza, datami nella notte andata da uno dei complici della
congiura. E se voi vorrete meco alt ospizio di costui venire, io ven darò
documento infallibile del dir mio, le armi che vi occxdla. Or lui cosi parlando
sciamarono tutti, e chie> sero, temendo per sè, che certificasse il fatto,. non
gK illudesse. E Torno, come lui che non avea preveduto le insidie, disse che
volentieri ricevea la inquisizione, e chiamò li primarj per compierla,
aggiungendo che seguirebbe l’una delle due, o che egli morirebbe se il
trovassero con apparecchio di altre arme che pel viaggio, o che le pene sue
subirebbe chi lo calunniava. Cosi piacque ; ed andarono e trovarono nelf
albergo cU liti tra le bagaglie le spade na$costevi da’ servi. ÀUora Dòn
lasciando nemmen che parlasse gillarono Turno in UDS voragine, e coprendolo,
vivo ancora, di terra lo aterminaron sul fatto. Ed encomiando nell’adunanza
Tar> quinio come benefattore comune delle città, perchè ne àvea salvalo gli
ottimati, lo crearono capo della nazione co’ diritti appunto co’ quali ne
aveano già creato Tarqui nio r avolo suo, e poi Tullio. Scrissero in su colonne
que’ patti, e datosene il giuramento per la osservanza, si congedarono.
Tarquinio divenuto capo de’ Latini spedì messaggeri alle città degli Eroici e
de’ Yolsci invitandoli a far seco amicizia ed alleanza. Ma de’ Volaci due sole
cittadi Echetra, ed Anzio secondarono l’ invito ; laddove gli Eroici si
decisero tutti per 1’ alleanza. Ora curando Tarquinio che gli accordi colle
città si conservassero in ogni volger di tempo ; deliberò fissare un tempio
comune ai Romani, ai Latini, agli Eroici ed ai Volaci confederatisi, perchè
riunendosi ogni anno al luogo destinato vi mercantassero, e banchettassero,
partecipando de’sagrifizj medesimi. Ed ascolundone tutti con piacere la idea,
scelse quanto era possibile in mezzo de’ popoli per luogo della riunione il
monte sublime, il quale sovrasta alla città di Alba : e dichiarò per legge che
in questo fbsser le fiere, in questo fosse triegua di tutti in verso di tutti,
e conviti si facessero e sacrifizi comuni a Giove detto Laziale, prescrivendo
quanta parte dovesse ogni città contribuire per essi, e quanta riceverne.
QuaranUsette furono le città compartecipi delle feste e de’ sacrifizj ; e tali
sagrifizj e tali feste le conti nuano ancoc di presente i Romani che Laiine le chiamaoo.
I^e città compagne nel sagrificare portano agnelli^' o cacio, o latte, o tal’
altra oblazione in fratti e farine. Immolandosi però da tutte un sol toro,
ciascuna prendeane per sè la parte stabilitale. Il sagnfizio è per tutti, ma
presiedono al rito santo i Romani. ^ L. Poi cb’ ebbe rassodato il regno con
tali confederazioni ; risolvè di porure Tarmata contro i Sabini. E reclutando
de’ Romani quei che men sospettava che farebbonsi liberi se otteuevau le armi,
e conginngendo con essi truppe alleate, più numerose ancora delle sue, devastò
le campagne Sabine : e vintivi quei che vennero con esso a battaglia ; menò
l’esercito contro de’ Pomentini. Abitavano questi la città di Sessa e pareano i
più felici de’ conBnanti, anzi per la felicità molesti e gravi a tutti. Avendo
egli già reclamato ad essi per alquante rapine e prede, e richiestili che
dessero de’ compensi, non aveano dato che orgogliose risposte: e quindi postisi
in arme aspettavano pronti la guerra. Adunque venuto con essi in sul conBne
alle mani, ed uccisine molti ; ne respinse e rinchiuse gli altri fra le mura :
e poiché non più ne riuscivano, accampatosi dirimpetto, li circondò di fossa e
vallo, investendo la città con assalti continui. Resisterono quei che v’erano
dentro, durando assai tempo fra stenti luttuosi. Ma poi venendo ad essi meno
ogni mezzo, infiacchendo ne’ corpi, e non ricevendo soccorsi, nè requie mai,
anzi travagliando di e notte ; furono sopraffatti dalia forza. Impadronitosi
della città trucidò quanti vi stavan colle amie: lasciò che i soldati rapissero
donne, fanciulli, quanti sopportavano di cader prigionieri, e moltitudine non
facile a calcolarsi di servi : e concedè' che invadessero e si portassero
qnant’ altro veniva loro ' alle mani sia nella città, sia per la campagna : ma
1’ oro e l’argento, quanto se ne trovò, lo fe’ tutto rammassare in un luogo, e
decimatolo per la fondazione del tempio, ne divise il resto fra le milizie.
Tanta poi ne fu la somma che ogni soldato rioevè cinque mine di argento e la
decima per gr iddj non fu minore di quattrocento talenti di ar' gento. LI.
Ancora egli stavasi a Sessa quando gli giunse un messaggio, eh' era uscita la
gioventù horentissiroa dei Sabini: che gettatasi in dne corpi nelle terre de’
Romani devastavano le campagne, l’ uno tenendosi presso di Ereto, e 1’ altro
presso di Fidene : e che se una forza non le si opponesse, ben tosto tutto
soccomberebbe. G>m’ ebbe ciò udito lasciò picciola parte dell’esercito in
Sessa con ordine che vi guardasse le prede e bagaglie : e prendendo con sé il
resto della milizia, spedita e leggera, e marciando contro quei che erano
accampati presso di Ereto, si trincerò su le alture a picciolo intervallo da
essi. Decisero i due Sabini dar la battaglia in sul mattino; e spedirono perchè
venisse l’esercito ancor di Fidene. Ma scuoprl Tarquinio il disegno per essere
stato preso chi portava le lettere dagli uni agli altri. Per tal successo ei si
valse di questo accorgimento. Divise r esercito in due parti, e ne mandò l’ una
fra la notte di nascosto de’ nemici su la via che viene da Fidene, e schierando
l’ altra in sul brillare del giorno, la menò dagli alloggiamenti alla
battaglia. Coraggiosi gli uscirono incontro i Sabini non vedendo gran serie de'
nemici, e credendo non altro mancare aliare mata di Fidene, se non di gingnere.
Coti venutisi que-> sti a fronte combatterono, e la pugna pendè gran tempo
dubbiosa, quando li soldati spediti nella notte da Tarquinio ripiegarono la
marcia, e correvano a tergo dei Sabini. Sbalordirono questi al vederli, e
ravvisarli dalle insegne e dalle armi, e gettando le proprie tentarono di
salvarsi : ma il tentativo rìnsd difHcilissimo, essendo essi circondati da’
nemici e rinchiusi dalia cavalleria dei Romani postata d' ogn intorno. Pertanto
pdchi ne scamparono e tra duri casi : i più ne perirono, o cederono. Quelli eh’
erano lasciad agli alloggiamenti non li sostennero ; e quel luogo di sicurezza
fu invaso al primo assalto. Furono qui prese le robbe de’Sabini, e qui molti de
prigionieri, e qui le robbe de’ Romani quante ne erano intatte, e tutto fìi
salvato per chi le aveva perdute; LIL Riuscito il primo saggio a Tarquinio
secondo il cuor suo, prese 1’ esercito, e ne andò contro i Sabini accampati giù
in Fidene, a’ quali non era ancor nota la disfatta dei loro. Usciti questi
dagli steccati erano per avventura tra via: ma non si tosto furono più da
vicino e videro le teste de’loro capitani confitte alle aste ( che ve le aveano
i Romani confitte ed ostentavanle per ispaventare i nemici); conoscendo com’era
l’altro lor campo distrutto, più non tentarono nulla di generoso, ma rivoltisi
alle suppliche ed alle umiliazioni si resero. Cosi devastati miseramente, e
vituperosamente nell’ uno e nell’ altro esercito, e ridotti i Sabini a speranze
tenuissime, anzi timorosi che fossero le loro città pigliate di assalto ;
spedirono ambasciadori per la pace., profierendosi per sudditi e tributar).
Pertauto lasciò la guerra, e ricevute appunto >a tali coudizioni le loro
città, si ricondusse a Sessa ; e ritiratene le milizie lasciatevi, e le prede
ed ogni bagaglio, tornossene a Roma coll’ esercito carico di ricchezze. Poscia
fe’ molte incursioni su le terre de’ Yolsci, quando con tutte le forze, e
quando con parte, ne ottenne gran prede. Ma riuscitegli per lo più le cose a
voler suo ; gli si eccitò una guerra coi con&nanti ben lunga pel tempo,
giacché durò sette anni continui, e ben grande pe’ casi inaspettati e
terribili. Ora io dirò brevemente le cagioni per le quali nacque, e qual ne fu
1’ esito, essendo stata terminata per inganni e per stratagemmi non preveduti.
LUI. Una città, Latina di gente, e colonia già degli Albani, lontana cento
stadj da Roma ( Gabio ne era il nome) sorgeva in su la via che mena a
Palestrina. Città popolosa allora e grande qnant’ altre, ora non tutta si abita,
ma solo presso la strada per uso degli alloggi. E ben può raccoglierne la
grandezza e la magnificenza, chi mira le rovine in più luoghi delle case ed il
giro delle, mora, che in gran parte esistono ancora. Eransi qua concentrati
alquanti involatisi da Sessa, quando fu presa da Tarquinio, e molti fhggiti da
Roma. Or questi supplicavano e pressavano quei di Gabio a prendere vendetta di
loro, promettendo gran doni se ai beni proprj tornassero ; e dimostrando
possibile e facile la distruzione del tiranno. Adunque ve gl’indossero sul
riflesso che in Roma a ciò coopererebbero, e che lì Volsci erano ad altrettanto
animati; giacché mandate aveano delle ambascerie, bisognosi anch’essi di ajutO’
per imprendere la guerra contro di Tarquinio. Si fe^ cero dopo questo irruzioni
con eserciti poderósi, fi scorrerie su 1’ altrui territorio e battaglie, com’ è
Veri simile, ora di pochi con pochi, ora di tutti contro di tutti: e quando i
Gal^, respinti fino alle porte i Romani, ed uccidendone diedero intrepidamente
il guasto ai lor campi ; e quando i Romani incalzando i Gabj e rinchiudendoli
nella loro città, • sen portavano schiavi, e preda copiosa.. •. •. LIV. Or ciò
facendosi di continuo, fu l’una e l’altra parte costretta a cinger di mura, e
presidiare i luoghi forti delle proprie terre in ricovero de’ contadini. Di là
prorompevano su’ predatori, e scendendo folti, straziavano, se ne vedeano, i
piccoli corpi staccati dal resto dell’ esercito, o li disordinati per poca
apprensìon de’ nimici, come accade nei pascere. Similmente temendo r una parte
gli assalti improvvisi dell’ altra fu costretta a munire dì fosse e di muri le
città facili a scalarsi ed a prendersi. Adoperavasi in ciò principalmente
Tarquinio : e rassicurò con molte fortificazioni il tratto intorno la porta la
quale menava a Gabio, scavandovi fosse più larghe, elevandone più alte le mura,
e coronandole di torri più spesse : imperocché la città sembrava in tal canto
men solida, quando era nel resto dei suo circuito sicura abbastanza, nè facile
da invaderla. Se non che si fece in ambedue le città penuria di ogni
vettovaglia, e costernazione gravissima per l’avvenire, essendo le campagne
diserte per le incursioni incessanti de’ nemici, né più somministrando de’
frutti come accade a’ popoli avvolti in guerre diuturne. 11 disagio però’
stringeva i Romani più che i Gabj ; tanto che U poveri infra quelli,
angustiatine più che gli altri, giudicavano essere da venire a trattati, e far
pace comunque coi Gabj, se la volessero. LV. Or dolendoti Tarquinio altamente
de successi, e non sofierendo di' deporre obbrobriosamente le armi^ nè polendo
altronde resistere più inmmzi ; volgevasi a tutte le prove, a tutti gl’
inganni. Quando il figlio più grande ( Sesto ne era il nome ) scoperse al padre un suo disegno. Egli
parea mettersi ad impresa audace quanto pericolosa ; pur non essendo
impossibile, concedettegli il padre che operasse di voler suo. Sesto dunque
‘fintosi in discordia col padre per voglia di por fine alla guerra : ne fu
battuto colle verghe nei F oro, e con altri modi oltraggiato ; tanto che se ne
sparse intorno la fama. E su le prime inviò come profughi i suoi più fidi
perchè dicessero occultamente ai Gabj che egli deliberava far guerra al padre,
e che ne anderebbe tra loro se gli desser parola di proteggerlo come gli altri
refugiaii Romani, senza renderlo ai padre per isperanza di finir col suo danno
le proprie nimicizie. Udirono con diletto quei di Gabio il discorso, e
concordandosi di non offenderlo, egli venne, e con lui molti compagni e clienti
come fuggitivi; e per meglio Tito Lirio
dà questo nome e' questa impresa al figlio minore : ma il disparere col padre e
l’ incarico assunto pare più yerisimile in chi area più diritto di succedere ad
un regno. direnuLo assoluto, e tale era il figlio maggiore. Pertanto il racconto
di Uiouigi sembra più naturale, qualunque fosse il nome del finto rilielle.
Vedi S 65 di questo 'libro. accreditare la ribellione sua dal padre portò seco
molto di argento e di oro. Dopo ciò sotto velo di fuggir lar tirannide molti a
lui confluirono ; tanto che ornai glie n’ era intorno un corpo ben forte.
Concepivano quei di Gabio che avrebbono grande incremento dal giugnere di tanti
ad essi, e lusingavansi che tra non molto .avrebbono suddita Roma, illusi ancor
più dalle opere di quel ribelle, il quale scorrendo di continuo la cam pagna,
raccoglievane prede ubertose. Ed il padre appunto, risapendo prima in quai
luoghi il figlio verrebbe, ubertose glie le apprestava, e senza guardia se noa
di scelti cittadini che egli v’ inviava come a lui sospetti per farli
distruggere. Su tali significazioni molti credendolo amico fido, e buon
capitano, e molti arrendendosi all' oro suo ; lo inalzarono al comando supremo
delle milizie. Sesto divenuto per frodi e per illusioni T arbitrò di un tanto
potere spedi, senza che i Gabj se ne avvedessero, un tale de’ servi suoi per
dichiarare al padre r autorità che avea preso, e per udirne ciocch’era da fare.
Tarquinio volendo che il servo non intendesse ciocché ordinava al figlio di
fare, venne ( e conducea seco il messo ) al giardino, congiunto al regio
palagio. Aveaci là de’ papaveri nati spontaneamente, già pieni di frutto, e
maturi per la raccolta. Or tra que’ papaveri aggirandosi e dando co’ bastoni in
su le tòste de’ più alti, abbattevali. Congedò ciò fatto il messaggiCro niente
rispondendogli, quantunque interrogato ne fosse più volte. Egli imitava per
quanto a me sembra la prudenza di Trasibulo Milesio. Imperocché chiesto da
Periandro, allora tiranno di Corinto, per via di un messaggiero, con quali modi
possederebbe più saldamente il comando, non rispose pur sillaba, ma fatto cenno
all’ inviato die lo seguitasse, il. condusse in un campo di biade, ed ivi
percosse le spiche più eminenti, le atterrò ; signiBcaudo che. cosi dovea pur
egli troncare, e dismettere i -primi delle città. Or facendo Tarquinio allora
somigliantemente. Sesto ne intese le mire, e come ordinavagli di por giù li più
insigni di Gabio. E convocò la moltitudine, e le tenne un lungo ragionamento su
questo, ehe egli ricorso cogli amici alla, lor buona fede, rischiava ornai di
esser preso da alcuni, e dato al padre: ma che era pronto a deporre il co^
mando, an^i che Lucerebbe la città prima di cadere in tanto infortunio ; e qui
lagrimava e deplorava la sorte sua, come quelli che di cuore si dolgouo su’mali
estremi., Lyil. Irritatane la moltitudine, e ricercando sollecita quali mai
fossero per, tradirlo, esso nomina Antisiio Petrone, il personaggio più
distinto di Gabio. Egli erane il più insigne divenuto pe molti belli suoi
regolamenti in pace, e pe’ molti capitanati in campo esercitati. Reclamando
intanto quest’ uomo, ed offerendosi come Hbero da’ rimorsi ad ogni esame, disse
1’ altro che volea che se ne investigasse la casa: e che vi manderebbe perciò
degli amici: egli intanto aspettasse TtelP adunanza finché ritornassero.
Imperocché già era Sesto riuscito a corrompere con argento alquanti servi di
lui perché prendessero e ponessero in sua casa lettere contrassegnate co’
sigilli paterni, e macchinate in rovina di Pelrone. Or come gl’ inviali alla
indagine (che non aveala Pelrone contradetla ma concednla) vi rinvennero le
carie occulutevi, tornarono recando all’adunanza molte lettere indicatrici, e
quella scritta ad Anlistio; e dicendo Sesto che vi riconosceva il sigillo del
padre la sciolse; e la diede allo scriba perchè la recitasse. Scriveasi in
questa che gli consegnasse il figlio, vivo principalmente ; o se ciò non
poteasi, almeno glie ne mandasse la testa recisa. Diceva, che darebbe ad esso
ed d complici, oltre le taglie promesse già prima, la cittadinanza di Roma :
che gli ascriverebbe tutti frd patrizj ^ ed aggiungerebbe case e poderi e doni,
grandi e copiosi. Arsero dallo sdegno i Gibinj ; dialordtva Antistio dalla
sciagura impensata, mancando- gli fin la voce: ma quelli co’ sassi lo
tempestano e lo uccidono ; lasciando a Sesto la cura di far la ricerca e la
vendetta su gli altri, compartecipi in ciò di Petrone. E Sesto fidando le porte
agli amici suoi perchè gl’ incolpali non s’ involassero mandò per le misepiù
illastri, e vi uccise molli de’ valentuomini. Intanto che ciò faceasi ed era in
Gahio tuivbolenza pe’ sì gran mali ; Tarquinio avvertitone per lettere vi
marciò coll’ esercito, e giunto prima della mezza notte ed apertegli le porte
da uomini posti ad arte per questo, ed entratele ; s’ impadronì senza stento
della città. Come il male fu ravvisato, deploravano tutti sè stessi, e le
stragi, e la schiavitù che patirebbono, e temeano insieme gli orrori, quanti ne
vengono su por poli sorpresi da’ tiranni. Quando pur li trattasse
mitissimameute ; immaginavansi la perdita della libertà, e de’ beni, e cose
altrettali. Pure Tarquinio sebbene scellerato, sebbene implacabile in punir gl’
inimici non fe’ ntilla di ciò che aspettavano e temevano ; nè uccise, nè liandl,
nè disonorò, nè multò persona ninna di Gabio. Ma convocando la moltitudine, e
prendendo regie maniere in luogo delle tiranniche sue, disse che restituiva la
propria città ; che concedeva ad essa i lor beni; e che donava inoltre a tutti
cittadinanza quale appunto r avevano i Romani : non già che ciò facesse per
benevolenza inverso de’ Gabj ; ma per consolidare a sè con essi .la signoria
su’ Romani; pensando che diverrebbe presidio stabi^imo per sè e pe’ figli la
fedeltà di un popolo che fuori di ogni speranza era salvo, e ricuperava tutti i
suoi beni. E perchè non più temessero per 1’ avvenire nè dubitassero se stabili
sareb.bero. tali parole ; scrisse le condizioni colle quali sarebbero amici,' e
le giurò subito nell’ adunanza, e poi toccando gli altari e le vittime.
Monumento di quest’alleanza esiste in Roma nel tempio di Giove Fidio, chiamato
Sango da’.Ròmani, uno scudo circondato colla pelle del bue sagrlGcato allora
appunto per compierne il giuramento, su la quale scritte ne sono con antichi
caratteri le condizioni. Ciò fatto, e dichiarato Sesto re di Gabio, ritirò le
milizie; e tal fine ebbe la guerra con quella città. Dopo ciò Tarquinio dando
requie al popolo dalle cose militari e dalle battaglie; si mise alla erezione
de’ templi, desideroso di compiere i voti dell’avo. Erasi questi nell’ ultima
guerra co’ Sabini votato a Giove, a Giunone, a Minerva di fondare ad essi de’
tempii se vincesse. E già, come fu detto nel libro prece dente, avea con grandi
ripari e con terra|)ieni accori data l’altura ove destinava di erigerli; ma non
potè' poi compierne la impresa. Deliberatosi Tarcpilnio di ultimarla colle
decime delle spoglie raccolte in Sessa posevi a lavorare tutti gli artefici. Or
qui narrasi che. accadesse un meraviglioso portento sotterra, doè che
scavandosi per le fondamenta, e che già molto essendo gli scavi profondati, si
rinvenisse la testa di un uomo ucciso come di recente, con faccia simile a
quella dei vivi, stillandone ancora dalla ferita un sangue tepido e fresco. In
vista di tale prodigioi^arquinio comandò gli opera) che sospendessero lo scavo
: e convocando gli indovini della patria dimandò che mai dir volesse quel
segno. Ma non rispondendone, anzi dando' essi la scienza di tali cose ai
Tirreni, ricercò da loro e seppe qual fosse fra’ Tirreni l’ interprete più
famoso de’ por tenti ; ed a questo inviò messaggieri i più pregievoli
cittadini. Giunti i valentuomini alia casa dell’ augure, si le loro incontra un
giovinetto a cui dissero di essere ambasciatori di Roma, vogliosi di consultare
il vate, e pregavano che a lui li presentasse. Il giovine allora : Colui,
disse, che ricercate, è mio padre: egli è di presente occupato : ma presto a
lui passerete. Ora intanto che lo aspettate, ditemi perchè mai ne venite. Così
voi se mai per imperizia foste per ishagliar la dimanda; istruiti da me non
errerete. E le giuste interrogazioni non sono già la minima cosa nell arte de’
vaticini. Or piacque a coloro di secondarlo, e sveUrono a lui quel portento.
Ckime il giovine gli ebbe ndiù, sopraslando breve tempo, ascoltate, disse o
Bontani. Il mio padre ve lo interpreterà tal prodigio, e senza menzogne ; che
certo ad un vMe non si convengono. Ma perchè neppur voi erriate, nè mentiate su
le cose che direte o risponderete ; apprendete da me questo > che assai
rileva che vel sappiate. Quando esposta gli avrete la meraviglia ; ei soggiungendo
di non intendere appieno ciò che vi dite, descriverà colla verga quanto un
picciolo tratto di terra, e poi vi dirà : seco la svrs tarsìa qvzsta nè la
partx CMS GUARDA l' ORISNTS, quSSTA CBS L OCCASO: QUSSTA È LA PARTS SOREALS,
QUSSTA LA OPPOSTA. Ed indicandole intanto colla verga vi chiederà da qual canto
fu tiltvenuta la testa. Or che vi esorto io che rispondiate ? appunto che non
concediate che fosse trovata in alcuna delle parti eh' egli addita colla ver^
ga, e ve ri interroga, ma che in Eotna tra voi fu veduta su la rupe Tarpea. Se
tali risposte serberete; se punto col dir suo non ve ne allontanate; allora
egli ravvisando che il fato non può cangiarsi, vi svelerà, non vi occulterà
quel prodigio che volete, che interpetri. LXL Ammaestrali in tal modo i legati,
piando il vate ne ebbe comodità, venne un tale che a lui li condusse, e
parlarono del portento. Ora lui sofisticando, e descrivendo in terra
circonferenze e linee rette, e facendo in ogni quadrante interrogazioni sul
trovamento, non si turbarono punto di mente i legali, ma tennero la ridata,
come aveala suggerita il 6glio dell’ indoTino, nominando sempre Roma e la rupe
Tarpea, e pregando l’interprete che non travolgesse il segno, ma ne dicesse a
proposito, e schiettissimamente. Cosi non potendo il vate nè illudere gli
oratori, nè imbrogliarè r augurio, soggiunse ; Andate, annunziate o Romàni a
vostri concittadini, portare il destino che il luògo dove avete il teschio
trovato sia capitale di tutta l’Italia. Dall’ ora in poi capitolino fu detto il
luogo del travamento; capi chiamando i Romani le teste. Tai>i quinio udendo
ciò da’ legati rimise gli opera] su'lavori; e molto fece del tempio, ma noi
compiè, cadendo 'in breve dal regno. Roma alfine lo perfezionò nel terzo
consolato. Fu basato il tempio su di una altura la quale aveva un circuito di
otto plettri, ed ogni lato di esso apprassimavasi ai dugento piedi col picciolo
divario nemmeno di quindici piedi interi tra la lunghezza e la latitudine.
Perciocché il tempio riedificato dopo l’incendio a’ tempi de’ nostri padri su’
fondamenti medesimi differisce dall’ antico per la sola preziosità della
materia. Dalla parte della facciata che guarda il mezzogiorno circondalo un
ordine triplice. di colonne : ma doppio solamente è quell’ordine nei lati. Tre
sono’ in uno i templi, e paralleli, e divisi da mura comuni. Sacro è quello di
mezzo a Giove, e quindi è l’ altro. di Giunone, e quinci di Minerva : ed un
solo tetto, di un comignolo solo li ricopra. Questo tempio terminara a
Iriargolo : la cima del. triangolo in tutto il tetto ossia il colmo del letto è
ciò che cbiamasi comìgnolo. Uno de’ nostri lempj a tre narate sotto un tetto
comune può foeilitare t’ intelligenza di questo luogo. Dicesi che nel regno di
Tarquinio occorresse ai Romani un’ altra propizia e meravigliosa avventura sia
per dono di un nume sia di un genio, la quale salvò la città non per poco tempo
ma finché visse, più volte, da gravi mali. Una donna, nè già nazionale, venne
al tiranno, vogliosa di vendergli nove libri di oracoli Sibilini : ma ricusando
Tarquinio comperarli al prezzo cei> catogli ; colei partita ne spiccò tre
libri e li arse. Riporundo dopo alquanto i libri superstiti gli ofierl sul
prezzo medesimo. Riputatane stolta, e derisane perchè di minori volumi n’esigea
la somma appunto che non aveane potuto ricevere quando erano più; si ritirò
nuovamente e bruciò metà dello scritto che rimaneva. Tornò quindi co’ tre libri
ancor salvi, e chiese l’oro di prima. Attonito Tarquinio su i disegni della
donna fece cercar gl’ indovini, e narrò 1’ evento, e dimandò ciò ch’era da
fare. Or questi conoscendo da alquanti segni che ripudiavasi un bene mandato
dal cielo, e dichiarando che grande era la sciagura che non avesse comperato
tutti i volumi ; comandò che si numerasse alla donna il valor dimandato, e che
gli astanti prendesser gli oracoli. La donna che avea dato que’ libri, inculcò
che si custodissero con diligenza, e sparve dagli uomini. Tarquinio creando
tra’ cittadini i duumviri o due riguardevoli per-i aonaggi, e subordinando ad
essi due ministri pubblici ; diè loro la’cura de’ libri : ma poi cucitolo io
una otre bovina gettò nel mare Marco Acilio 1’ uno de’ due rignardevoli perchè
parea sfregiare la buona fede, ed era accusato di pai-ricidio da uno
de’pubblici ministri. Dopo la cacciata dei re, fattasi la repubblica a
sostenere gli Oracoli, nominò custodi loro, durante la vita, personaggi
chiarissimi, liberi da ogni militare e civile incomben 2 a, consociando ad essi
ancor altri pubblici uomini, senza i quali non poteano i primi consultare
que’scritti. A dirla in breve, i Romani non guardano ninna cosa con tanto zelo
non i poderi sacri, non i tempj, quanto le risposte divine delle Sibille.
Yalgonsi di queste i Romani quando il Senato sta per votare in tempo di civil
sedizione, o di grave infortunio in guerra, o di portenti e grandi visioni,
malagevoli ad intendersi, come avvenne più volte. Fino alla guerra chiamata
Marsica gli oracoli posti in un’ ama marmorea ne’ sotterranei del tempio di
Giove Capitolino furono custoditi dai decemviri. Ma braciandosi poi questo dopo
1’ olimpiade centesima settantesima terza sia per insidie, come pensano alcuni,
sia per caso ; arsero colle votive cose del nume, anche i libri. C gli oracoli
che ora si hanno, furono.' portati in Roma da più luoghi, quali dalle città d’
Italia, quali da Eritra dell’Asia, speditivi per decreto del Senato Commissarj
a trascriverli, e quali da altre città, trascrittivi da' privati. Ma sen
trovano confusi co’ Sibillini anche aluri, come convincesi da que’ che
acrostici si dimandano. Io qui dico ciocché Terrenzio Varrone ha scritto nelle
sue teologiche trattazioui. Avea Tarquinio operate queste cose in guerra ed in
pace ; avea fondate due colonie, l’uja Cioè Segni, per caso, perché svernando
ivi i suoi soldati aveansi il campo come una città ridotto ; e la seconda
Circea-per disegno, perché ponessi nella campagna Pomentina, la più grande
intorno del Lazio, e contigua col mare, in bel sito, alto discretamente, che
sporge quasi penisola nel mare Tirreno ; ed abitato già com’ è fama da Circe la
figlia del Sole : avea dato qnesle due colonie a due figli suoi che ne erano i
fondatori, Circea ad Anmte, e Segni a Tito. Ma quando in niun modo temea del
suo principato ; allora per la ingiuria fatta ad una donna da Sesto il suo
primogenito, fu cacciato dai principato e da Roma. Àveano gl’ Iddj dato il
segno della calamità futura della sua famiglia con molti augurj de’ quali qu^
sto, fu l’ultimo. Venute nella primavera delle aquile in un luogo adjacente
alla reggia fecero il nido su di un’alta palma : mentre però teneano i figli
ancor senza penne, volandovi in folla degli avoltoi disfecero il nido: ed uc
cisane la prole, e bezzicando e ferendo co’rostri e colle ali, respinsero dalla
palma le aquile che tomavan dal pascolo. Vide Tarquinio l’augurio, e vegliava
per istorname se poteva il destino: ma non potè superarne la forza ; e perdette
il regno, congiurando su lui li pa trizj, e cooperandovi il popolo. Io tenterò
dichiarar brevemente gli autori della congiura ; e come si fecero ad eseguirla.
Guerreggiava Tarquinio colla città di Ardea sul pretesto che ricettava i
fuggitivi da Roma, e macchinava di rimetterli in patria : ma in realtà perchè
ne aspirava le ricchezze come di una delle città più felici d’ Italia.
Ribbattendolo però gli Ardeatini generosamente, e prolungandosi l’assedio loro;
stanchi quei del campo per la diuturnità della guerra e quei di Roma impotenti
a più contribuirvi; si disposero a ribellarglisi, appena ve ne fosse un
principio. Intanto Sesto il primogenito de’ figli di Tarquiaio spedito dal
padre nella cittì chiamata Collazia per compiervi talune incombenze militari si
alloggiò presso il congiunto suo Lucio Tarquinio detto Collatino. Fabio delinea
quest’uomo come figlio di Egerio, del quale ho sopra dichiarato ch’era figlio
dei fratello di Tarquinio l’antico, re de’Romani. Da lui messo al governo di
Collazia ne fu chiamato Collatino, lasciandone la denominazione anche a’
posteri suoi. Io sono persuaso che questi era nipote ad Egerio se avea la eti
conforme ai figli di Tarquinio, come Fabio ha scritto e molti con esso ; e la
cronologia conferma tal mio concetto. In que’ giorni Collatino era nel campo.
Adunque la moglie di esso, una Romana, figlia di Lu crezia riposava, e colla
spada in mano vi penetrò, non sentito nemmeno da quelli che prossimi alla porta
dormivano della camera. F attesi al letto, e svegliatasi la donna col giugnere
delle insidie, e chiedendo chi fosse, colui svela il nome ; e comanda che taccia
e resti nella camera, minacciando lei della vita, se tentava fuggire, o
gridare. Cosi, sbalorditala, propose alla donna di scegliere .qual più le
piacesse o lieta vita, o morte infame, ó'e t’ induci, disse, a compiacermi, io
te farò mia spo~ sa y e tu regnenù meco, ora s.u la città che mio pardre mi
assegna, e dopo la morie del padre sii Ro'mani, sii, Latini, sii Tirreni e su
quanti egli domina. Io, tu lo sai, primogenito de' suoi figli, io sarò t erede
del regno, come à ben giusto. E quali beni inondano i re, de' quali' tutti
sarai tu meco posseditrice ; che giova che io qui ti additi, se tu ne sei
peritissima? Che se tenti resistermi per salvare la tua pudicizia, ucciderò te
prima, poi scannando un dei servi porrovene a lato i cadaveri, e dirò che
sorpresa avendoti in obbrobrio col servo, io vi punii tutti due per vendicare
la ingiuria del mio congiunto ; tanto che turpe, ignominiosa sarà la tua fine,
nè la morta Uia spoglia saià di sepolcro onorata nè di altre funebri cerimonie.
Ora siccome assai minacciava, insisteva, giu> rava a^ ogni suo detto ;
Lucrezia sbigottita di una morte infame venne nella necessità di cedere agli
arbiirj amorosi di lui. Fattosi giorno; costui sazio della voglia scellerata e
Ainesta, tornossene al campo : Lucrezia però corucciata per l’evento ascese
quanto potè frettolosa in sul carro, e venne a Roma, cinta di lugubri vesti, ed
occultandovi sotto il pugnale; non salutando, salutata, negl’ incontri, né
rispondendo a chi voleva intendere de’ suoi mali, tutta cogitabonda, e mesta, e
lagrimosa. Giunta a casa dal padre '( e ci aveano alquanti parenti ) ella
prostratasi e stregasi ai ginocchi del padre vi singhiozzò, ma senza parole : e
sollevandola e stimolandola il padre a dire ciocché solTerto avesse: Padre,
disse, ecco la supplichevole tuai se tremenda, se insanabile è tonta mia, padre
la vendica: non trascurare Ut figlia tua, incorsa in mali più gravi della
morte. Stupitosi il padre, e con esso par gli altri, eccitavala a dire chi
offesa 1’ avesse, e di qual modo. E colei ripigliava: Le udirai le mie ingiurie
; ma hrevissimamenle o padre: e solo or tu mi concedi questa grazia che prima
te ne chiedo. Convoca gli amici, e i parenti che puoi, perché da me la odano,
da me, non da altri la calamità che io patii. Quando tavrai conosciuta la
terribile, la ver-, gognosa necessità ch’io sostenni; tu deciderai con essi la
vendetta che dei per me fare e per te. Ma deh / non indugiarmi tu lungamente.
Corsi all’ invito sollecito 'e premurosissimo i più riguardevoli nella casa
com’ ella dimandava, narrò loro, pigliandolo dalle origini, tutto l’ evento. E
qui abbracciandosi ai padre, e molto lui supplicando, e gli astanti e gl’Iddj,
eli patri! lari che solleciti la scioglie sero dalla vita ; trasse il pugnale
che celava sotto le ve sti e, portandosene una piaga sui petto, 6no al cuore se
lo internò. Clamore intanto e gemiti e femmineo tumulto turbando tutta la casa
^ il padre avviatosene al corpo la circondava, la richiamava, la curava quasi
potesse redimerla dalia ferita : ma colei tra le sue braccia palpitando e
spirando Gai. Parve il caso agli astanti si terribile e si miserando che una fu
la voce di tutti che era mille volte meglio morire per la libertà che patire
ingiurie siffatte dai tiranni. Era tra questi Publio Valerio, discendente da
uno de’ Sabini venuti con Tazio a Roma, uomo intraprendente e destro. Costai fu
da loro spedito in campo perchè narrasse al marito di Lucrezia r evento, e
perchè ribellassero, uniti, le milizie dal tiranno. Uscito appena dalle porte
eccogli per avventura incontro Collatino il quale veniva dall armata a Roma
ignaro de’ mali che straziavano la sua casa ; e Lucio Giunio soprannominato
Bnilò cioè stolido se tal nome ne interpetri con greche maniere. E poiché li
Romani additano quest’ultimo come principalissimo nell’ abolir la tirannide;
porta il pregio che preaccennisi brevemente chi, di qual sangue egli fosse, e
come sortisse un tal nome. niente a lui consentaneo. Di costui fu padre Marco
Giunio, proveniente da uno di que’ che menarono con Enea la colonia, e
distintissimo per la sua virtù tra’ Romani : fu la madre Tarquinia, figlia di
Tarquinio 1’ antico. Egli ricevè la educazione, e tutta la coltura nazionale,
nè la indole sua contrariavasi a niun de’ bei pregi. Dappoiché Tarquinio ebbe
ucciso Tullio levò segretamente di mezzo con molti uomini probi anche il padre
di lui non già pe’ delitti, ma per la ingordigia d’ invaderne le ricchezze
ereditate da pingue, antico patrimonio di famiglia : levò similmente con esso
il figlio primogenito di lui nel quale appariva non so che di generoso, e che
sofferto non avrebbe invendicata la morte del padre. Bruto giovinetto ancora,
-e privo in tutto del soccorso de’ parenti si rivolse al mezzo savissimo di
fingersi, stolido divenuto. Dall’ ora in poi, finché non gli sembrò di averne
il buon tempo, ritenne le apparenze dello stolido ; e se n’ ebbe il soprannome,
ma si liberò con questo dalle ire del tiranno, mentre tanti egregj uomini ne
soccombetrano. Tarquinio trascurandone la demenza apparente e non vera,
spogliatolo di tutti i beni paterni, e datogli un tal poco pel vitto
quotidiano, lo custodi presso di sé, come garzoncello orfano, e bisognoso di
chi lo qurasse, e concedè che oo’ figli suoi conversasse ; nè già per onorarlo
qual congiunto suo, come fingea tra’ parenti, ma perchè desse da ridere a’
propj figli, dicendo costui le mille frivole cose, e facendone le simili agli
stolidi veramente. Anzi quando mandò li due figli Àronte e Tito per interrogare
1' oracolo di Delfo su la peste ( giacché nel regno suo proruppe una peste
insolita su le vergini e su i fanciulli che in copia ne perivano, e più
terribile ancora e men curabile su le gravide, che morte cadeano col proprio
feto in su le vie ) quando io dico mandò questi per conoscere dal nume le cause
del male e lo scampo, allora congiunse ancor lui co’ figli che gliel chiedeano
perchè avessero intanto chi beffare e deridere. Giunti all’oracolo i giovani ed
ascoltatolo su la causa ond’ erano inviati porsero sacri doni al nume, e
lungamente risero di Bruto che avea consecrato ad Apollo una bacchetta di legno
; ma colui trapanatala tutta come una fistola aveaci offerto, senza che ninno
ne sapesse, una verga di oro. Poi consultando essi il nume chi mai, portavano i
destini, che divenisse re di Roma ;-^rispose che il primo che bacerehhe la
madre. E non intendendo i giovani la mente dell’ oracolo concordarono di
baciare insieme la madre onde regnare in comune. Bruto però penetrato ciocché
1’ oracolo volea significare, non si tosto discese nell’ Italia, prostratosi,
ne baciò la terra, giudicando questa la madre di tutti. £ tali SODO i fatti
precedenti di quest’uomo. Come Bruto udi da Valerio i successi di Lo eresia e
la storia della morte di lei sollevando le mani al cielo disse: O Giove, o Dei
tutti, quanti vegliate su la vita de’ mortali, è dunque giunto finalmente il
tempo per aspettare il quale io contrafeci finora me stesso ? Fuole dunque il
destino che Roma sia da me liberata e per me dalla insojfribil tirannide ? E
ciò dicendo vassene sollecito in casa insieme con Collatino e Valerio. Entrata
la quale, appena Collatino videvi Lucrezia stesa nel .mezzo, col padre allato,
scoppiando in copi ge miti la slringea, la baciava, la chiamava, e fra tanta
sciagura uscito di mente tenea colla estinta il discorso, quasi fosse ancor
viva. Or essendo lui tutto in pianto, e con esso il padre a vicenda, e tutta
rimbombando la casa di lamenti e di gemiti; Bruto, rimirandoli disse: O
Lucrezio, o Collatino, o voi tutti, parenti di que^ sta donna, beri avrete
altra volta il tempo di piangerla. Ora ( e ciò deesi alla ingiuria presente )
pensiamo ^ come vendicarla. Egli sembrava dir giusto : adunque se dendo soli
fra sè, sgombrata immantinente ogni turba dimestica, esaminarono ciò ch’era da
fare. Bruto cominciando il primo a dire sopra sestesso che la sua demenza non
fu vera, qual parve a molti, ma simulata ; e svelaudo le cause per le quali
diedesi a fingerla, e giudicatone savbsimo infra tutti ; alfine, allegatene
molte, ed acconcio ragioni, animò tutti al parer suo di cac(t) Plinio sul fine
del libro XV. scrive che Bruto baciò la terra di Delia, a non dall Italia. dare
Tarquinio e li figli da Roma. E vedmili ornai tatti consentanei, disse Che non
era pià tempo di parole e promesse, ma di opere; e che egli imprenderebbela il
primo se cosa alcuna fosse da imprendere. Ciò dicendo, e stringendo il pugnale
con cui la donna fini sestessa, e venuto al cadavere di lei, che giaceva ancora
spettacolo compassionevole a tutti, giurò su Marte, e su gli altri Dei Che
farebbe tutto, quanto potea, per abbattere la tirannide di Tarquinio, che non
pià si riconcilierebbe co' lii'anni, nè permetterebbe che altri si
riconciliasse con essi: ma terrebbe per nimico, chiunque non volesse fare
altrettanto ; e perseguite-^ rebbe fino alla morte la tirannide e li partigiani
di essa. Che se mancava a quel giuramento, imprecava per sè e pe’ figli un
termine della vita, quale il termine fu della donna. Ciò detto invitò pur gli
altri a simile giuramento : e quelli, niente esitandone, levaronsi, e dandosi a
mano a mano il pfignale giurarono, ed investigarono poi qual fosse la maniera
di dar principio all’ impresa. Bruto cosi consigliò : Primieramente poniam le
guardie alle porte, perchè Tarquinio non penetri niente di ciò che in Roma si
dice o si opera contro la tirannide, innanzi che noi siamo ben preparati.
Quindi portando il cadavere della donna, lordo comi è di sangue, nel Foro, ed
esponendovelo, chiamiamovi a parlemento il popolo. E quando siavisi congregalo,
quando ne vedremo già piena ( adunanza; allora Lucrezio e Collatino presentandosi
narrino H orribile caso, e deplorino la loro sciagura ; poi qualunque altro
facciasi innanzi ed ocf)3 ousi la ^tirannide, e provochi li cittadini a
liberarsene. Oh! come avran caro di veder noi patrizj insorgere i primi perla
libertà. Stanchi del Tiranno, e de’ molti e terribili mali che ne han sofferto,
non abbisognano die St un primo impulso appena. Quando vedremo la moltitudine
in furia per togliere la monarchia ; farremo c^ risolva co' voti, che Tarquinio
non dee più regnare su Roma, e solleciti ne spediremo il decreto in campo all'
esercitaIvi quando coloro che han tarmi conosceranno che tutta si è la città
ribellata da Tarquinio, infiammeransi per la libertà della patria, insensibili
a tutti i doni del tiranno, essi che non più reggono agli affronti de' f gli, e
degli adulatori del perfido. Or avendo lui cosi detto soggiunse Valerio: Tu mi
sembri o Giunio che abbi giustamente parlato su le altre cose ; ma quanto ai
comizj vorrei da te sor pere chi li potrà convocare legittimamente, e chi dare
alle curie i voti; essendo questo offizio de' magistrati, e niun di noi
trovandosi magistrato. Ripigliando allora Giunio : o Valerio, io, gridò, sono
tale; imperocché sono il tribuno de Celeri, e per legge mi è dato d intimare
quando voglio le adunanze. Tarquinio dava tal massimo incoi ico, a me come
stolido, e che appresa non ne avrei la potenza, o che se appresa V avessi, non
saprei prevalermene. Ma io mi son quegli che il primo arringherò contro del
tiranno. Detto ciò lo applaudivano tutti come lui che prendeva le mosse da
principio legittimo e buono ; e lo pressavano a dirne anche il seguito ; ed
egli disse : E poiché ci piace far questo, vediamo ancora qual maDigitized by
Google J)4 delle antichità romane gistrato, e da chi mai crealo, debba reggerci
dopo Ut espulsione dei re : anzi vediamo qual Jorma daremo allo Stato f liberi
dalla tirannide ; imperciocché prima ài accingersi ad opera siffatta vai meglio
di avere de liberata ogni cosa, anzi che se ne lasci alcuna non discussa, né
premeditata. Ora dica ciascuri di voi su tali cose ciocché ne pensa. Dopo ciò
si tennero molti discorsi e da molti. Chi numerando i gran beni fatti da tutti
i re precedenti, amava che si riordinasse la regia dominazione; e chi
ricordando le tiranniche ingiustizie di altri e di Tarquinio finalmente su’
proprj cittadini, non voleva il Comune sotto di un solo, ma che piuttosto
arbitro se ne dichiarasse il Senato come in molte delle greche città : varj
però non anteponeano nè 1’ uno né r altro, ma consigliavano che si fondasse un
governo popolare, conne in Atene, esponendo le ingiurie, le. avanìe de’ pochi ^
e le sedizioni de’ miseri contro de’ potenti, e dichiarando che in città libera
il comando più sicuro e più degno è quello delle leggi, eguali per tutti. Ma
sembrando a tutti malagevole ed arduo il giudizio su la scelta pe’ mali che
sieguono da ogni governo ; alfine Bruto, ripigliando disse : O Lucrezio, o
Collatino, o voi tutti, quanti qui siete, uomini buoni, e JigU ancora di
buoni-, io quanto a me non penso che noi dobbiam di presente dar nuova forma
allo Stato. Troppo é picciolo il tempo a cui siamo ridotti, perché ci sia
facile staBilirvela armoniosa ; lubrico altronde, e pericoloso, é tentar di
cambiarvela, quantunque benissimo su di essa avessimo risoluto. Quando ci saremo
levati dallà tirannide, allora potrem finalmente, consultandoci con più agio e
più feria, trascegliere il governo migliore a fronte de' menò buoni j seppur
avvene uno migliore di guei'^ che 7?omolo e Numa e gli altri re successivi
stabilirono e ci "lasciarono, donde la città ne crebbe e ne prosperò,
signora fin qui di più popoli. Solamente vi esorto che si emendino, e che
provvedasi ora che più non v abbiano i mali terribili solili prorompere dalle
monarchie, pe’ quali si mutano in tirannidi crude, e pe' quali tutti le
abborrono. Ma quali son queste provvidenze ? Primieramente giacché molti
attendono ai nomi, è secondo i nomi vanno al male o fuggono t utile ; e siccome
è succeduto che ora molto attendasi a quello di monarchia; vi consiglio che il
nome cangiate del governo, fe che da ora in poi quelli che vi comandano non più
re li chiamiate, non più monarchi, ma con appellazione più discreta ed umana :
poi, che non più rendiate un sol uomo arbitro di ogni cosa, ma fidiate a due la
potenza dei re, come odo che i Lacedemoni fanno da molte generazioni, e che
perciò ne hanno più di tutti i Greci leggi buone, e stato felice. Diviso il
comando in due, e l’ uno potendo appunto quanto F altro ; meno acconci saranno
a violarci, e meno ad opprimerci: anzi da tale egualità dee seguirne
principalmente la verecondia, il ritegno vicendevole dell’uno per F altro,
sicché noti si sfrenino, ed una viva gara per la fama della giustizia. E poiché
molti sono li regii distintivi, io giudico che y impiccioliscano o tolgano
quelli che àddolorano a rimirarli o sdegnano il popolo, io dico gli scettri,
dico le corone di oro ^ e le clamidi eli oro intessute e di porpora, se non
forse si asswnono ne' giorni festivi e ne’ trionfali per magnificare g/i Jddj ;
mentre usate di raro non offendono. In opposito penso che si conservi a questi
uomini la sedir curule ove siedono rendendo ragione, e la veste candida cinta
intorno di porpora, e li dodici fasci che il venir loro precedano. Oltracciò
perchè quelli che prendono il comando non molto ne abusino, io penso utilissima
e principalissima cosa, che non lascinsì comandare tutta la vita. Imperciocché
riesce a tutd grave un comando ind^nito, uft comando che non pià dia di sè
ragione ; e di qua vien la tirannide. Ma si limiti come tra gli Ateniesi f autorità
del comando ad un anno. Quelcomandare a vicenda e quell' essere comandato, quel
deporre il pMere prima che il pensar vi si guasti, preoccupa le indoli vane, nè
lascia che vi / inebbrino. Se .così stabiliamo, goderemo i beni che sono il
frutto di una regia dominazione, e schiveremo i mali che né conseguitano. E
perchè il nome regio, consueto già tra' nostri avi, ed introdotto in questa
città co t gli augurj propizj degl Jddj che lo favorivano, ti custodisca,
almeno per tale riguardo ; si faccia continuamente, a vita, ed onorisi un re
del Culto ^ un che libero dalle cure militari in questo solo si occupi e non in
altro, cioè che abbia, quasi re ne fosse, l’ arbitrio sovrano de’ sacrifizj.
Ora udite come fia ciascuna di queste cose. ’ Io, poiché dalle leggi mi si
concede, io raccoglierò, come diceva, l’adunanza del popolo, e riesporrò la mia
mente di bandire Tarquinia colla moglie e coi figli da Roma e suo territorio,
escludendoneli per sempre essi e la lor discendenza. Quando avran ciò stabilito
co’ voti, io dichiarando allora il governo che pensiamo fondare, eleggerò V
interré, il qual nomini quelli che prendano le redini della repubblica. Quindi
io deporrò la prefettura dei Celeri; e V interré da me creato, proporrà gl’
idonei all’ annua preminenza, rimettendoli al voto de’ cittadini : e se il pià
delle centurie ne tien buona la proposta, se propizj gli oracoli la
favoriscono, assumano i fasci e le insegne del potere sovrano, e provvedano che
libera abitiamo la patria, nè pià li Tarquinj vi ritornino. Imperocché questi,
abbiatelo per certo, se non invigiliamo su loro, tenteranno colla persuasiva,
colla forza, coll’ inganno, per ogni via finalmente, rimettersi nell impero.
Queste sono le somme, le principalissime cose, che io dir posso e raccomandar
di presente. Quelli poi che avranno il comando devono, come io giudico,
esaminare una per una, le cose particolari, giacché troppe, nè facili a
discutersi pienamente ; e noi siamo stretti dal tempo: anzi'deono, come usavano
i re ponderarle col corpo del Senato, non concludendone alcuna senza noi ; e
quando siano approvate dal Senato, rapportarle, come f accasi tra i nostri
maggiori, al popolo non levandogli niun diritto di quanti s’ avea nel
principio. Così le sue magistrature saranno sicurissime e bellissime. Proferendo
Giunio Bruto tal suo parere tutti lo commendanino ; e datisi ben tosto a
consultare, decisero che si nominasse interré Spurio Lucrezio il padre di colei
che uccise sestessa: e che da lui si scegliessero per avere il potere dei re
Lucio Giunio Bruto, e Lucio Tarqninio Collatino. Stabiliscono che tali
soprastanti nell’ idioma loro si chiamassero Consoli, vnol dire consiglieri o
capi del ronsiglio, interpetrando in greco tal nome, giacché i Romani ciocché
noi simboulas diremmo chiaman consiglio. Coi volgere però del tempo i consoli
furono per l’ ampiezza del potere chiamati Ypati dalia Grecia, comandando essi
a tutti e t^ neodo.il più sublime de gradi; e chiamandosi da’ nostri antichi
Ipaton quanto sopralzasi, e maggioreggia. Dopo tali consulte e tali istituzioni
supplicarono co’ voti gli Iddj che fossero propizj ad essi .intenti ad opera si
giu non colla sepoltura a norma delle leggi : e Tarquinia la donna di questo
ch’egli dovea venerare qual. madre, come sorella del padre, Tarquinia già tanto
.sollecita in suo bene, % egli la strangolava, sì, questa misera, innanzi che
prendesse il lutto, e che rendesse in su la tomba al marito gli ultimi onori.
Così contraccambiava quelli da quali fa salvo, da quali fu nudrito, ed. a quali
avrebbe pur succeduto sol che avesse un poco aspettato finché venisse loro
naturalmente^ la morte. Ma perchè più, su questo riprendolo, quando, oltre i
delitti contro de’ consan^inei e de’ suoceri, ho pur da accusarne le tante
prevaricazioni contro la patria, e contro noi tutti, se prevaricazioni son
queste, e non sovversioni e rovine di ogni costume e di ogni legge. E per
comiiKiare subito ^dal regno, come lo prese egli questo ? forse come i re
precedenti? ma quando mai? molto nè egli lontano. Imperocché quei tutti furono
da voi portati al trono secondo i patrj costumi e le leggi, prima col decreto
del ' Senato che è il capo di ogni pubblica deliberazione, poi degl’ interré
scelti ed incaricati dal Senato per nominare il pià idoneo al comando f e co’
voti dati ne' comizj dal popolo, da cui, la legge vuole, che si ratifichi ogni
cosa più rilevante, e finalmente cogli augurj f colle vittime, e con altri
segni propizj senza i quali niente giovano i maneggi e le previdenze degli
uomini. Or dite, qual di voi mai vide una parte almeno fatta di ciò quando
Tarquinio prese il comando ? qual vide decreto preliminare del Senato? quale
scelta degl’ interré? quali suffiragj del popolo ? per non dire dov è tutto
questo ? quantunque se egli voleva il regno lecitamente, non dovea parte ninna
pretermettersi di quanto chiedesi dalle leggi. Certo se alcuno può
dimostrarmene fatta pur una di queste cose, più non vo’ che si brontoli su le
altre che si tralasciarono. Come dunque egli si spinse al trono ? colle arme,
come i tiranni, colla violenza, colla congiura degli scellerati, noi
riprovandolo, e dolendocene, E fattosi re, comunque ciò fosse, la sosteneva
egli V autoràà tua regalmente ? Emulava i suoi predecessori i quali co’ detti e
co’ fatti costanti così ressero, che lasciarono a’ posteri la città più felice
e più grande che presa non V avessero ? Chi, se pure è sano di mente, chi potrà
mai dir ciò, vedendo quanto miseramente e scelleratamente siamo stati da lui
malmenati. Tacio le sciagure di noi senatori, le quali, pur un nemico,
udendole, ne piangerebbe, e come siam pochi rimasi di molti, come rendati
abbietti di granài, e come venuti a disagio e stento, cadendo dai tanti e sì
ampj beni. Que’ grati j que’ potenti,. Io3 que cospicui uomini, po' quali
questa nostra città era un tempo magnifica, quelli perirono, o fuggono la
patria. E le vostre cose y o popolo, come stan esse ? Non ha tolto. a voi le
leggi ? non i concorsi soliti per le feste e pe’ sacrifizj ? Non ha fatto
cessare i comkj, i suffragj, e le adunanze tutte su le pubbliche cose? Ridotti
siete, quali schiavi comperati, ai vilipendi di tagliare, di portare pietre ed
arbori, di logorarvi tra gli antri e i baratri senza requie mai, neppur
tenuissima dai mali. Or quando avran fine mai tali strazj ? fino a quando li
starem sopportando ? Quando la patria libertà vendicheremo ? ... Al morir del
tiranno ? Appunto ! Dite ci sarà allora pià facile ? E perchè non piuttosto
assai meno ? se per un Tarquinio ne avrem tre molto pià scellerati? Se chi di
privato è divenuto monarca, se chi tardi ha cominciato a nuocere, ha percorsa
tutta la malvagità de’ tiranni, quali, pensate, esser debbono i discendenti da
lui, scellerati di stirpe, scellerati di educazione, che mai non poterono
vedere nè apprendere in città misure politiche di moderazione ? E perchè non
per congetture, ma intimamente conosciate la perversità loro, e quai cani
latratori alleva contro voi la tirannide di Tarquinio ; specchiatevi in un
azione sola del primogenito. E questa la figlia di Spurio Lucrezio, lasciato
prffetto in Roma dal Tiranno nelP andare alla guerra, e moglie insieme di
Tarquinio CollaUno, del consanguineo de’ tiranni che pur tanto ha da loro
sopportato. Or questa per serbarsi pudica. e tutta agli amori del suo marito,
come fanno le virtuose, avendo Sesto qual parente preso ospizio appo lei,
mentre Collatino era lungi nelt armata, non potè schivare nella passata notte
le onte. sfrenate della tirannide; ma violentata come una schù^va sostenne
ciocché libera donna non dee. Pertanto esacerbatane, e presa la ingiuria per
insoffribile, dopo che ebbe narrato al padre e a congiunti le vicende ree che
la desolarono, dopo che ebbe pregato e scongiurato che la vendicassero per
tanti mali; alfine traendo il pugnale che celava nel seno, profondosselo, e
vedendola il padre j o Romani, nelle viscere. O tu certo mirabile, o tu di
encomj degnissima per la nobile ' risoluzione ! t’ involasti, moristi non
reggendo agli obbrobri del tiranno, e ricusasti le dolcezze tutte del vivere
perchè simile calamità non ti avvenisse. Avrai tu dunque o Lucrezia nella tua
femminil condizione K avuto il. cuore de’ valentuomini, e noi, uomini nati, noi
saremo in viltà men che le femmine ? Tu perchè predata a forza del fiore
immacolato della tua pudicizia, avrai tu reputato la morte pià dolce e pià
beata della vita; e noi non avrem pur nell’ animo, che Tarquinio non da una
notte, ma già da venticinque anni ci opprime, e ci ha colla libertà levato gli
agi tutti del vivere ? No ; pià non dobbiamo, o Romani, noi vivere avvolgendoci
in tanti pericoli, noi che discendenti siamo di que bravi, che vollero fondare
i diritti fin per gli altri, e lanciaronsi a tanti .pericoli per la sovranità e
la gloria : ma V una delle due si dee scegliere o libera vita, o morte onorata.
È pur venuto il tempo che bramavamo ; perchè lungi è il tiranno dalla città, e
perchè duci sono della impresa i patrizj, e perchè se con animo pronto ci
facciamo ad imprendere, non abbisogniamo di cosa niuna non di uomini, non di
danari, non di arme, non di capitani, non di altro apparecchio militare ;
essendone Roma pienissima. Siaci pure una volta vergognà che noi che cerchiamo
signoreggiare i Volsci, i Sabini, ed altri moltissimi^ noi stiamo • ad altri
servendo, e che mentre tante guerre imprendiamo per in^andire Tarquinio, niuna
per la nostra liberuì ne facciamo.Ma di quali incora^menti ci varrem per la
impresa, di quai leghe ? È questo che rimanenti a dire. Primieramente c
incoraggiremo su la speranza negl’ Iddj de’ quali Tarquinio viola le sante
cose, i templi, gli altari, libando e sacrificando con mani lorde di sangue, e
di ogni scelleraggine contró de cittadini; appresso c incoraggiremo su la
speranza che abbiam su noi stessi che nè pochi siamo, nè inesperti di gierra ;
e finalmente sul rinforzo di quegli alleati i quali non ardiranno far novità se
noi non ve 'gV invitiamo ; ma se vedono che noi il valor nostro raccendiamo,
lietissimi ci si uniran per combattere ; nemico essendo della tirannide
chiunque vuole esser libero. Che se alcuno di voi teme quei cittadini che in
campo si porran con Tarquinio per militare con esso contro noi ;• non bene teme
costui. Anche ad essi è grave la tirannide, ed ingènito in tutti è V amore
della libertà : ed ogni occasione di mutamento basta a chi è misero
necessariamente. Che se voi li chiamerete col voto vostro a soccorrer la patria,
non timore li riterrà co’ tiranni, non grazia, e non cosa ninna la quale sforzi
o persuada, a mal fare. E se in alcuni si è per la ria natura, e la trista
educazione abbarbicato V amor dei tiranni ; ridurremo ancor essi, che molti non
sono, con insuperabile necessità sicché utili ci divengano i malevoli ;
perciocché teniamo in città quali ostaggi i loro figli, le mogli, i parenti,
pegni carissimi che ognuno pregia più che la vita. Or se noi prometteremo di
rendere questi, se decreteremo per essi la impunità quando distacchinsi dal
tìrannno ; di leggeri li persuaderemo. Cosicché fatevi cuore o Romani,
concepite belle speranze per V avvenire, uscite per una guerra, certo la più
gloriosa di quante mai ne imprendeste. Si, palrj Dei, propizj curatori di questa
terra, sì Genj, tutelari già de nostri padri, sì, città carissima infra tutte
ai Celesti nella quale nascemmo e cresciamo, sì noi vi difenderemo co’
pensieri, colle parole, colle opere, colla vita ; pronti a tutto soffrire,
quanto la fortuna porti ed il fato. Presagiscorni che alla impresa buona
seguirà fine bonissinto. Possano quanti confidano, quanti decidonsi come noi,
voi salvare ed essere da voi salvati parimente. Mentre Bruto aringava, faceansi
ad ogni suo detto acclamazioni dal popolo in signiBcazione, che esso appunto
cosi voleva, e comandava. Ed i più sentendo quel parlare maraviglioso ed
inaspettato lagrimavano per tenerezza. Inondavano passioni varie nè punto 1 07
amSi ogni petto: e dove il rancore, dove la gioja trionfavano, là pe’ mali già
sostenuti, qua pe’ beni che si aspettavano. Dove era audacia, dove timidità,
quella che incitava a non curar sicurezsa contro i subjetti, odiati perchè
intenti a far male ; e T altra che oppo neasi agl’ impeti delia prima, perchè
vedea non facile la rovina della tirannide. Ma non sì tosto colui cessò dal
parlare ; tutti, quasi con una bocca, ad una voce esclamarono, che guidassegli
alle arme. E Bruto dilettatone, sì, disse, ma quando prima avrete udito, e
confermata co’ voti vostri i decreti del Senato. E noi decretiamo CHS i
TAsqvatj s tutta la consangvu HIT a' loro svogano ROMA E QUANTO È Ds' ROMAICI :
CBS NIUNO FOSSA DIRE O BRIGARE SUL RITORNO DEI tiranni; e se contravviene;
si" uccida. Or se volete che un tal parere si adotti ; compartitevi in
curie, e datene i voti. Questo incominci per voi li diritti della' vostra
libertà. Disse ; e cosi fu hitto : e poiché tutte le Curie ebbero decretato 1’
esilio del tiranno ; Bruto fattosi innanzi, ripigliò : Giacché avete voi
ratificato quanto deesi, le prime cose ; ascoltate U resto che abbiam
deliberata su lo Stata. Esaminando noi qual magistrata esser dee V arbitro del
comando, ci è piaciuto, non già di rinnovare il comando di un solo, ma di
creare ogm anno due capi con regio potere, che voi stessi eleggerete ne’ comizj,
votandovi per centurie. Or se volete anche ciò ; datene il voto. Il popolo lodò
questo ugualmente; nè vi fu pur un voto contrario. Quindi ripresentatosi Bruto,
nominò Spurio Lucrezio per interré, perchè secondo le patrie leggi prendesse
cura de’comisj. Costui sciogliendo ' r adunanza, ordinò che tutti subito si
recassero in arme al campo, dove solcano tenere i comizj. Recativisi ; scelse
due Bruto e Gollatino che facessero quanto facevano i re. Ed il 'popolo
chiamato per centurie con fermò la magistratura a que’ due. Tali sono le cose
ai lora fatte in città. Tarqninio come udì da messaggeri sottrat tisi per
avventura da Roma prima che le porte se ne chiudessero, che Bruto (perché
narravano questo solo) fattosi capo-popolo, aringava i cittadini, e suscitavali
a rendersi liberi, parti senza dirne le cause, prendendo se^o i figli, ed altri
più fidi, e correndo a briglie sciolte onde prevenire la ribellione. Ma
trovando chiuse le porte, e piene le mura di arme, tornossene, quanto potè,
veloce nel campo affligendosi e lagrimando : se non che già le sue cose erano
qui pure in iscompigUo. Imperocché li consoli antivedendo la sollecita venuta
di lui verso Roma aveano per altra via spedito all’armata, invitandola a
togliersi dal tiranno, ed annunziandole i decreti di quei della città. Or Tito
Erminio e Marco Orazio lasciati dal tiranno nel campo prendendo quelle lettere
le recitarono nell’ adunanza : e dimandando via via per centurie ciò che era da
fare, e piaciuto a tutti che si ratificassero le deliberazioni della città ;
più non riceverono Tarquinio che tornavasi a loro. E caduto pur da questa
speranza fuggisseue con pochi alla città di Gabio f della quale, come ho detto
di sopra, avea creato monarca, Sesto il suo primogenito. Esso già canuto per
anni avea tenuto per cinque lustri il comando. Erminio ed Orazio, concbiusa una
tregua di quindici anni cogli ÀrdeatinI, ricondussero in patria le milizie. Per
tali cause e da tali uomini fu tolta in Roma la regia dominazione,
conservatavisi per dugcnto quaranlaquattr’ anni dalla sua fondazione, e
divenuta in fine tirannide sotto 1’ ultimo re. OloMSERVATASl in Roma la regia
dominazione per dugento quarantaquatlr anni e cangiatavisi poscia in tirannide
sotto r ultimo re fa per le cagioni anzidette abolita da tali uomini sul
principio della olimpiade sessagesima ottava, nella quale Iscomaco da Crotone
vinse allo stadio, mentre Isagora esercitava in Atene r aunuo magistrato. Ed
istituitasi la signoria de’ pochi, mancando quattro mesi al compiersi di
quell’anno, assunsero i primi il comando supremo, Lucio Giunio Bruto e Lucio
Tarquioio Collatino col nome di consoli, Anni 345 fecondo Catone e i 47 'ecjndo
Varrone dalla fondailone di Roìna, e So; avanli Cristo] cosi chiamandosi da
Romani, come già dissi, nel patrio idioma i capi del Senato. Poi congiungendo
questi a sè gli altri che numerosi tornavano dal campo in città dopo conchiosa
la tregua con gli Àrdeatini ; e pochi giorni appresso la espulsione del Tiranno
convocando il popolo a parlamento, e ragionando copiosamente su la concor dia ;
fecero di bel nuovo decretare co’ voti, come già quelli che erano in Roma lo
avevano decretato, bando perpetuo ai Tarquinj. Dopo ciò puri6cando la città,
fattone sacrifizio ; essi i primi, stando intorno le vittime, giurarono, e
ccndussero pur gli altri a giurare, che mai più dal bando richiamerebbero il re
Tarquinio, nè la prole di lui, nè i figli de’ figli : anzi che non più
iarebbono re ninno in Roma, nè tollererebbono chi far cel volesse. Cosi
giurarono su’ Tarquinj, su figli, e su la prosapia loro. E, couciossiachè
pareano i re, stati autori di molti e gran beni inverso del pubblico,
deliberatisi a conservare il nome almeno di tal signoria, finché Roma durava,
comandarono ai pontefici ed agli auguri di eleggere il più idoneo tra’seniori, perchè
tolto da tutte le cure, se non dalle religiose, presedesse in sul culto, e Me
si chiamasse non delle politiche, non delle militari,. ma delle sante cose. Per
tanto fu delle sante cose nominato re per il primo Manio Papirio, uomo patrizio
e dedito alla dolce calma. II. Stabilito ciò, temendo, io credo, che non si
generasse negli altri sui nuovo governo la idea non vera, che in luogo di uno
dominavano due re la città mentre Secondo Feslo il primo re tacriJieuUu, fa
Sicinnio Beliulo, ed in cfò discorda da Dionigi e da Livio. Ir uno e 1’ altro
de’ consoli avca come un tempo i re le dodici scuri ; deliberarono preoccupar
tal concetto, e scemare la invidia del comando, e fecero cbe l’uno de’consoli
portasse dodici scuri, e F altro dodici littori colle verghe coronate solamente
come narrano alcuni: talché le scuri le assumesse e recasse ora l’uno ora F
altro vicendevolmente per un mese intiero. Animarono con questo F umile plebe a
conservar quel governo ; e con simili cose non poche. Imperocché rinnovarono tutte
le leggi scritte da Tullio su’ contratti ; le quali si tenean per umane e
popolari, e Tarquinio aveale tutte soppresse : e comandarono che si facessero
come a’ tempi di Tullio, i sagriGzj che in città si faceaiio o nella campagna,
riuiiendovisi que’ di Roma e de’ villaggi. Concederono che il popolo si
radunasse per le cose più rilevanti, e desse il voto, e ripigliasse a voler suo
gli usi primitivi. Piaceano tali cose alla moltitudine ravvivatasi dal servir
lungo a libertà non aspettata. Nondimeno ci ebbero alquanti i quali desiderosi
de’ mali della tirannide per demenza o per avarizia congiurarono di tradire la
patria e richiamarvi i Tarquinj, trucidandone i consoli : ed io dirò quali ne
fossero i capi, e come im provvedutamente scoperti, mentre credeansi occulti
atutti, ma riassumerò le cose alquanto più addietro. III. Caduto Tarquinio dal
trono, si tenne per un tempo, non lungo, in Gabio, raccogliendo quanti a Il
lesto non è ben fìsso : e fotse dee leggersi verghe curve o grosse nella lesta.
Il codice Valicano avendola voce xafvtat e noa xtfà/tttt favorisce la idea di
verghe grosse in testa. Silburgio propende per le verghe ricurve iu cima lui ne
venivano amici della tirannide pià che delia libertà, e confortandovisi in su
le speranze de’ Latini, quasi potessero questi ricondurlo alla reggia. Ma
poscia che le città non io ascoltavano nè voleano per lui fare una guerra ai
Romani ; disperandone alfìne il soccorso fuggissene a Tarquinj città Tirrena,
donde era la materna origine sua. E cattivandosi que’ cittadini co’ doni, e
prodotto da essi in piena adunanza, rinnovò 1’ antica congiunzione con loro, e
commemorò li benefizj deU r aiuolo suo con tutte le città Tirrene, e gli
accordi che avean fatto con lui. Poi si lamentò con tutti della sciagura che
avealo preso, e come travolto in un sol giorno da lietissima condizione, ora
profugo con tre 6gli e bisognoso fin del necessario, era costretto ricórrere a
popoli, un tempo, sudditi suoi. Scorrendo su tali cose pateticamente e con
molte lagrime, indusse il popolo a spedire il primo a Roma uomini che portas
sero parole di pace per lui, quasi i potenti ivi fossero per favorirlo, ed
ajutarlo al ritorno. Nominati quelli eh’ egli volle per ambasciadori, ed
istruitili delie cose che erano da dire e da fare gli spedi con alquanto di oro
e con lettere de’ fuorusciti con esso dirette con preghiere agli amici e
domestici loro. IV. Venuti questi a Roma dissero hi Senato : che chiedea
Tarquinia la franchigia di venire con pochi prima in Senato, e poi, quando ciò
fossegli conce-duto dal Senato, nell adunanza del popolo per darvi conto delle
opere sue fin dai principj del regno, falline giudici tutti i Romani, se alcuno
mai lo accusasse. Che se appien si giustifica, se persuade che egli non ha
colpe degne dell esilio ; allora se gUel concedano, regnerà novamente con que'
limiti che gli prescriveranno : se poi decreteranno di non voler più. come per
l’ addietro la sovranità dei re, ma di fon-^ darne un altra qualunque, egli
uniformandovisi al pari degli altri reslerassene colla sua famiglia in Roma,
sua patria, libero almeno della vita degli erranti, e de' profughi. E ciò detto
supplicavano il Senato pei comuni diritti che vogliono che niun si condanni
senza discolpe e giudizj, a concedere una difesa della quale essi
giudicherebbero. Che se ciò non volevano a lui concedere, fossero compiacevoli
almeno in vista della città la quale s' intrametteva. Compiacendola, tuttoché
senza discapito loro, assai onorerebbero la città che ciò conseguiva. Uomini
essendo, non si elevassero sopra la sorte degli uomini: nè serbassero immortali
sdegni in cuori mortali : ma in grazia degt intercessori si sforzassero anche
contro lor voglia di usare mansuetudine ; considerando eh' egli è da savio
condonare le inimicizie per le amicizie ; ma da stello e da barbaro volgere in
nemici gli amici. V. Aveano ciò detto, quando Bruto sorgendo replicò : Sul
ritorno de' Tarquinj in Roma cessate o Tirreni di più ragionarne. Imperciocché
già si è qui J volato irreparabilmente per l'esilio loro: ed abbiamo tutti
^giurato agC Iddj di non restituire i tiranni, e di non tollerare che altri ce
li restituisse. Ma se chiedeste con altra moderazione a cui nè le leggi nè li
giuramenti si oppongono', manifestatevi. Or qui faitùi innanzi gli
ambasciadoi’i soggiunsero : Terminale ci sono contro la espettazione le prime
dimandet ambasciadori per uno che si raccomanda, per uno che vuole dare a voi
conto di sè stesso, abbiamo chiesto qual grazia ciocch’ era diritto per lutti :
nè potemmo ottenerlo. Ora poiché ve n è parato così ; non più vi presseremo sul
tornar de' Tarquinj. J\oi facciamo istanza per un altro diritto di cui la
patria c incaricava, e su cui non legge, non giuramento impediscavi, cioè che
rendiate al monarca i beni clm [ avolo suo possedeva senza toglierli a voi nè
di forza nè in occulto, ma portati qui avendoli, come ereditati dal padre. A
lui basterà, se lo ricupera, il suo, per vivere altrove Jelicemente, senza
vostra molestia. RitiraroDsi ciò detto gli ambasciadorì. Bruto T uno de’
consoli suggeriva che si ritenesser que' beni in compenso delle ingiustizie sì
gravi e sì numerose dei tiranni contra del pubblico, e per util di Stato :
perchè non si dessero ad essi de mezzi co’ quali far guerra ; preammonendo, che
nè si affezionerebbero ad essi i Tarquinj col riavere i lor beni nè
sosterrebbero una vita privata, ma porterebbero su Romani le arme di altri
popoli, e tenterebbero di tornare colla forza al comando. Collatino però
consigliava il contrario, dicendo che non gli averi, ma le persone dei tiranni
noceano la città. Pertanto scongiuravali a guardarsi prima dalC incorrere nella
rea fama di avere espulso i Tarquinj per invaderne i beni, e poi dal porgere ad
essi cosi spogliandoli, giusta occasione di guerra : dicea che non era chiaro,
che ricuperando i beni si accingerebbe^ ancora ad una guerra con essi, laddove
era ben manifesto, che non ricuperandoli f rion si cheterebbero. VI. Cosi
dicendo i consoli ; e molti sentendola colr uno e coir altro ; il Senato dubitò
come avesse a risolvere. E ripigliandone per più giorni l’ esame, e parendogli
che Bruto consigliasse il più utile, ma Collatino il più giusto ; in ultimo
deliberò che giudice ne fosse il popolo. Or qui dette essendo più
cosedairnno> e dall’ altro de’ consoli, e venendo alBne le curie, che eran
trenta di numero, ai voli, preponderarono le une alle altre con si piccini
divario che quelle le quali intimavano che si rendessero i beni superarono di
uà sol voto le altre le quali voleano che si ritenessero. I Tirreni avuta la
risposta dai consoli : e molto lodando' la città che anteponesse all’ utile il
giusto ; spedirono a Tarquinio perchè mandasse chi ricevesse i beni di lui ;
frattanto essi resiavansi a Roma sul titolo del trasporto de’ mobili, o di dar
sesto a ciò che non potessi menar via j nè carreggiare : ma in realtà spiando e
brigandovi, come il tiranno aveali incaricali. Perocché ricapitarono' le
lettere de’ profughi agli attinenti loro ; pigliandone le altre di replica. E
conversando, e studiando le affezioni di molti, se ne trovavano alcuni facili
ad essere guadagnati per la poca fermezza, per la inopia, o pel desiderio di
'empiersi nella tirannide, davansi a subornarli coir oro e con ampliarne le
belle speranze. Vi sarebbero secondo le apparenze in città si grande e si
popolata, alquanti non degl’ infimi solo ma de’riguardevoli i quali
anteporrebbono il governo men buono al migliore 'y or furono tra questi i due
Giunj Tito e Ti> berio, figli di Bruto il console, puberi appena, e con essi
i due Geli] Marco e Manio fratelli della moglie di Bruto, idonei a’ pubblici
affari : Lucio e Marco Aquìlio, figli ambedue della sorella di Collatino, altro
consolo, e conformi di anni al figli di Bruto, presso a’ quali, non più vivendo
il lor padre, per lo più si adunavano e ctmcertavano sul ritorno de’ tiranni.
VII. Tra le molte cose, per le quali a me sembra che Roma giugnesse per la
provvidenza de’nnmi a stato si prospero, non sono le infime quelle che
avvennero allora. Imperocché si mise in que’ sciaurati tanta de.menza, e tanta
cecità, che osarono fino scrivere al tiranno di propria mano lettere che
indicavano il numero copioso de’ congiurati ed il tempo nel quale assalirebbero
r uno e r altro console, lusingati dalle epistole del perfido ad essi per le
quali volea sapere i .compensi che avrebbe a dare, tornando in trono, al Romani.
Ebbero i consoli queste lettere per tale incontro. Eransi i prlmarj de’
complici riuniti in casa, degli Aquilj nati dalla sorella di Collatino,
invitativi come a sante cose e sagrifizj. Dopo il convito ordinando che quei
che lo aveano ministrato uscissero e si • tenessero nell’ anticamera;
confabulavano infra loro su • la rintegrazione del tiranno, e segnavano
ciascuno, i .mezzi che glien parevano di mano propria in lettere che gli Aquilj
doveano far giungere ai messaggeri Tirreni, e questi a Tarquinio. Intanto uno
schiavo (Vin Sigonio ne scogtj LÌTiani pone Vitel^ in luogo di Gellj seguendo
le antoriià di Livio e di Plnisrco. dicio ne era il nome ) della città di
Genina, il quale fervito gli avea di bevanda, sospettando dalla remoaione de’
servi che coloro macchinassero qualche scelleraggine, si stette solo fuori
della porta, ed applicatovisi in una fessura ben lucida, ne udì li discorsi, e
ne vide le lettere che vi si scrivevan da ognuno. Quindi a notte avanzala
uscendo come in servigio de’ padroni, non ardi di andare ai consoli sol timore
che volessero per r amor de’ congiunti che il fatto si occultasse, e ' levas~
sero di mezzo chi porgea la dinunzia : ma recatosi a Pubblio Valerio l’ uno de’
quattro, primarj nel tor la tirannide y congiunsero a vicenda la destra, e
giuratagli da lui sicurezza, gli svelò quanto odi, e quanto vide. Colui, saputo
il fatto, si presentò • senza indugio su r alba in casa degli Aquilj con valida
schiera di clienti e di amici, e penetrandone senza >ntesa le porte come per
tutt’aliro affare, s’impadronl delle lettere mentre pur v’ eran que’ giovani, i
quali menò seoo innanzi de’ consoli. Vili. Ora essendo io per dire le sublimi,
e meravigliose gesta di Bruto di che tanto i Romani si magnificano, temo che
sembrino austere troppo nè credibili ai Greci, giacché tutti sogliono per
natura giudicare le cose che di altri si dicono dalle proprie, e secondo queste
aversele per credibili o non credibili. Nondimeno io le dirò. Non si tosto fu
giorno, sedutosi Bruto in tribunale, ed esaminando le lettere de' congiurati,
appena scopri quelle de’ figli distinguendole dai sigilli, e dopo rotti i
sigilli, dai caratteri; ordinò primieramente •he lo scriba leggessene 1’ una e
l’ altra, sicché tutti le udissero, e quindi che i Ggli dicessero su ciò se voleano.
Niuno de’ due ardiva rivolgersi impudentemente a negarle per sue, ma quasi
avessero già condannato sè stessi, piangevano. Egli soprastando breve tempo
sorse ; ed intimalo silenzio, ed aspettando tutti qual ne sarebbe la flne,
disse, che condannavali a morte. Or qui alzarono tutti la voce, alienissimi,
che avesse un tal uomo a punire sè stesso colla morte loro, e voleano condonare
al padre la vita de’ figli. Ma egli non comportando nè le voci nè i pianti
comandò a’ satelliti che di là rimovessero i giovani che lagrimavano e
supplicavano e co’ nomi più teneri lo chiamavano. Riusciva spettacolo
meraviglioso a tutti che un tal uomo niente piegato si fosse nè per le
preghiere de’ cittadini, nè per la commi aerazione inverso de’ figli : assai
però parve più portentosa 1' austerità di lui circa il supplizio. Imperocché nè
permise che si uccidessero i figli allontanati dal cospetto del popolo, nè
egli, almeno per fuggirne la terribile vista, si ritirò dal Foro finché non
furono puniti : nè condiscese pure, che subissero, non disonorati co’ flagelli
almeno, la morte destinata. Ma custodendo tutte le consuetudini, e tutte le
leggi quante ve n’ ha su’ malfattori, egli stesso nel Foro tra la pubblica
vista presente a tutto, fattili prima straziar colle verghe ; concedette alfine
che con le scurì si decapitassero. Sorprendente soprattutto, inconcepibile era
in quest’ uomo la immobilità degli sguardi senza indizio nemmeno di
compassione. Tanto che piangendo tutti, egli solo fu visto non piangere sul
destino de’ figli: nè sospirò per sè stesso, nè per la solitudine la quale
facevasi nella sua casa, nè diè segno in tutto di debolezza: ma senza lagrime,
senza lamenti, e come inalterabile, portò magnanimamente la sua sciagura. Tanto
era forte di animo, tanto costante in compiere le risoluzioni, e tanto
superiore agli affetti che turbano la ragione ! IX. Uccisi i &gli fe’
chiamare immantinente gli AquiIj, 6gli della sorella dell’ altro console,
presso a’ quali teneansi i congressi de’ congiurati. E comandando alle scriba che
ne leggesse l’ epistole sicché tutti le udissero ; intimò ad essi che sen
difendessero. Ma i giovani venuti dinanzi al tribunale, sia che ammoniti ne
fossero dagli amici, sia che di per sè lo risolvessero, si gittarono a piedi
dello zio per essere da lui salvati. Ma comandando Bruto ai littori che li
svellessero, e li traessero se non voleano giustificarsi alla morte ; Collatino
sopraggiunse a questi, che sospendessero alquanto finché abboccavasi col
collega, e pigliatolo da solo a solo orò lungamente pe’ garzoncelli ; parte
escusandoli che fossero caduti in tale stoltezza per inesperienza e per
compagnie triste di amici, e parte eccitandolo a condonare la vita di parenti,
dimandandolo in grazia lui che non d’altro mai più lo vesserebbe, e parte
facendo riflettere che turberebbesi il popolo tutto se davausi ad uccidere
chiunque sembrato fosse tenersela co’ fuorusciti perchè ritornassero ;
imperocché dicea eh’ eran molti, e parecchi non ignobili di lignaggio. Ma non
venendogli di persuaderlo; ne chiese almeno pena più mite che non la morte,
dicendo: mal convenirsi che i complici si avesser la morte, mentre il tiranno
non sostenea che l’ esilio. E perciocché Bruto ripugnava da pene più mi, nè
voleva (ciocché chiedeva da ultimo il suo collega ) nemmeno differire il
giudizio de’ colpevoli, e minacciava, e giurava di darli tutti appunto iu quel
giorno alla morte ; Coliatino sdegnatosi in fine che niente ottenea ; soggiunse
: io, pari tuo, to scamperò que' giovini se tu se tanto intrattabile e duro : E
Bruto indispettitone, no, disse, Coliatino ; non potrai finché 10 vivo far
salvi i traditori della patria : anzi tu pure darai tra non molto le pene che
meritL X. Ciò detto, e messa una guardia su’ giovani chiamò 11 popolo a
parlamento : e riempiutosi il Foro, perchè il supplizio de’ figli suoi, già si
era in città divulgato, egli facendosi in mezzo, cinto da’ più cospicui de’
senatori disse : lo vorrei o Cittadini, che Collatino, questo mio compagno,
fosse concorde con me su tutto, ed odiasse e combattesse i tiranni non pur
colla voce, ma colle opere. Ora poiché lo trovo manifestamente contrario e
congiunto in tutto a' Tarquinj di sangue, di voglie, e di brighe onde
riconciliarceli, anzi col-[ utile suo che del comune ; io sono risoluto di op~
pormegli perché non compia le ree sue macchinazioni, e perciò vi ho qua
convocati. Io dirò primieramente in qitanto pericolo sia la città ; poi come t
uno e t altro di noi siasi diportato. Biunitisi alquanti in casa degli Aquila
nati dalla sorella di Collatino, e tra questi ambedue li miei figli e li
fratelli della mia moglie, ed altri non ignobili ; stabilirono, e congiitrarono
la mia morte, e di restituirvi in Tarquinio il monarca. E già erano per mandare
ei fuorusciti /efrtere contrassegnate da loro caratteri e sigilli. Ma si fe
ciò, la Dio mercede, a noi manifesto, indicandocelo questo uomo, che è un servo
degli jiquilj, di quelli presso i quali si adunarono e scrissero nella notte
precedente le lettere ; e noi, le abbiamo noi, queste lettere. Io già ne punii
Tito e Tiberio miei figli : e niente, non leggi, non giuramenti, furono da me
violati per la clemenza di un padre. Ma Collatino mi ritoglica dalle mani gli
Aquilj con dire che non soffrirebbe che partecipassero la sorte de' miei figli,
se partecipato ne aveano i disegni. Ma se costoro non soggiacìono a pena,
nemmen dunque vi dovran soggiacere non i fratelli della mia moglie, non quanti
sono, i traditori della patria. E qual diritto più grande avrò io contro
questi, se risparmiatisi quelli ? Dite, qual contrassegno c mai questo, di
amici della patria, o del tiranno, di conferma del giuramento che avete voi
tutti prestato noi precedendovi, o di sconvolgimento e di perfidia ? Se egli
rimanevasi occulto, pur sarebbe in preda alle fune e sotto la vendetta degli
Dei che spergiurava. Ora poiché vi si è palesalo a voi si spetta, a voi di
punirlo. Vi persuadea costui pochi giorni addietro che rendeste i suoi beni al
tiranno, non perchè la città se gli avesse per usarne in guerra contro i
nemici, ma perchè li nemici gli avessero per usarne contro la città. Ed ora si
arroga di esentare dalle pene i congiurati a restituirvi i tiranni, in favore
come è chiaro di questi, perchè se mai tornano, sia di forza, sia per
tradimento egli in vista di tanti servigj ne ottengcL come amico, quanto dimanda.
Ed io che non ho perdonato a’ figli miei, io dovrò, o Collatino, te
risparmiare, che sei con noi di presenza, ma coll’ animo tra’ nemici ? E tu che
salvi i traditori della patria, tu me che per essa travagiiomi, ucciderai ? Or
potrà farsi ? Eh ! che lontani siamo di molto. E perchè non possi nulla di
simile, ti levo dal consolato e cornandoti che in altra città ti conduciti. E
voi o citiiadini voi chiamerò ben tosto per centurie, e presi i voti,
deciderete se dobbiam così fare. Intanto, (e vivissimamente avvertitelo ) voi
l' una delle due mi dovete, escludere Collatino, o Bruto. XI. Or lui cosi
dicendo ; Gollatino esclamando ed angustiandosi, cbiamavalo di cosa in cosa
calunniatore e traditore degli amici : e purgandosi dalle incolpazioni contro
di lui, pregava intanto pe’ fìgii della sorella: ma perciocché non permettea
che si dispensassero i voti contro di lui ; inferocivane il popolo, levandosi a
remore in ogni suo dire. Ora essendo cosi inferocito nè soffrendo discolpe, nè
volendo preghiere ma solo che si dispensassero i voti ; ed interponendosene il
suocero Spurio Lucrezio, uom pregiatissimo, per timore che Collatino non
perdesse ignominiosa mente ad un tempo il magistrato e la patria, chiese da
ambi i consoli facoltà di parlare. Ed ottenutala, esso il primo, come dicono
gli storici Romani, giacché non v era ancor r uso che un privato aringasse il
comune ; diedesi pubblicarrtente a pregare 1’ uno e 1’ altro de’ consoli,
Collatino perché non si ostinasse e non ritenesse il comando a mal cuore de’
cittadini, che spontanei gliel diedero ; ma se pareva a que’ che gliel diedero
di ripeterlo, volontanamente lo restituisse, e levasse co’ fatti, non coi detti
le accuse contro di lui : prendesse le sue cobbe e si recasse ad abiure
altrove, dovunque voleva, Gnchè 10 Stato non era in salvo ; cosi porUndo 1’
utile pubblico : riflettesse come in altre ingiustizie gli uomini se ne
sdegnano, quando sono commesse : ma che sospetundosi di tradimenti stimano anzi
saviezza temerne invano e guardarsene', che trascurarli e lasciarsene rovinare.
Persuadeva poi Bruto, che non cacciasse dalla città con vergogna e con vitupero
quel magistrato com> pagno col quale avea preso le risoluzioni più belle
{>ér la patria : ma che desse a lui, s’ avea cuore di lasciare 11 suo grado
e di trasmigrarsi, tutto 1’ agio a raccor le sue robbe, e gli aggiungesse a
nome del popolo un dono come pegno di consolazione nelle sue calamità. Cosi
consigliando quel valentuomo, inUnto che il popolo ne lodava i discorsi,
Collatlno depose la sua dignità, contristato che per la pietà de’ parenti era
astretto a lasciare e senza demeriti la patria. All’ opposito encomiavalo Bruto
perchè risolveva il migliore per la sua Roma e per sè, e pregavalo a non.
disamorarsi nè verso di lui, nè della patria : trasportando altrove la sede,
considerasse ancor sua, la patria che lasciava, nè si meschiasse a’ nemici
contro lei non colle parole, non colle opere. Considerasse in somma questo
transito suo qual pellegrinalo, non qual bando, o fuga: tenesse il corpo presso
quei .che lo ricevevano, ma V affetto suo, lo. tenesse questo, presso quei che
lo mandavano. Or, cosi avendo ammonito quest’ uomo persuase il popolo a
regalarlo di.’ laS venti talenti, con aggiungerne egli cinque del suo. Ca duto
Tarquinio Cotlaiino in tale disgrazia si ritirò a Lavinia, antica madre de’>
Latini dove carico di anni mori. Bmto non sopportando di essere solo al
comando, per non dare sospetto, che levato avesse il compagno dalia patria per
fervisi re, chiamò bentosto il popolo al campo dove usava eleggere i sovranie
gli altri magi strali, e creò per collega nel consolato Pubblio Yale rio, uno
dei discendenti, come sopra fu detto, dai Sabini, uom degno di ammirazione e di
lode per le molle suo doli, e principalmente per la sobria sua vita. Egli trovando
in sé stesso una luce naturale di filosofia, la fece brillare in più affari,
come poco ap presso diremo. Unanimi questi in tutto, immantinente diedero a
morte, quanti erano, i congiurati al ritorno de’ fuom sciti, e dichiararono
libero e cittadino il servo. che aveali denunziali, colmandolo di oro. Poi
fecero tre bellissimi ed utilissimi regolamenti, che la città contemperarono a
pensare tutta di un modo, sminuendo il favor pe' nemici. Il primo spediente fu
di scegliere i migliori della plebe e di crearli patrizj, onde compier con essi
un Senato di trecento. Appresso esposero al pubblico le suppellettili del
tiranno, concedendo che ognuno se ne avesse, quanto toglievano ; e compartirono
i terreni di esso a chi non aveane, riservandone unicamente il campo tra ’l
fiume e tra la città, dedicato già dal voto degli antenati a Marte, come prato
benissimo pe’ cavalli e per gli esercizj de’ giovani in arme. Tarquinio però,
sebbene prima di lui fosse già sacro a qnel nume, aveaselo appropiato, e sem
inavaci : di che è sommo argomento la risoluzione allora presa da’ consoli sul
ricollo che sen ebbe. Imperocché sebbene avessero conceduto al popolo di
prendere e portarsi quanto era del tiranno, non però consentirono che alcuno si
arrogasse il grano germogliatovi, sia che fosse nelle spighe, sia che nell’
aja, sia che già lavorato ; ma decretarono che si gettasse nel fiume come
esecraa do, né degno che se lo avessero in casa. £ di tal giuo sopravvanza
ancora, monumento famoso, la isoletta sacra ad Esculapio, bagnata intorno dal
fiume, prodotta, dicono, dagli ammassi delle paglie corrotte, e dai fango che
vi si appiccò nel correr delie acque. Rispetto a quelli che eransi fuggiti a
Tarquinio accordarono ad essi generale perdono, e ritorno sicurissimo in patria
fra venti giorni, intimando a chi venuto non fosse in quel termiue, 1’ esilio
perpetuo e la confisca de’ beni. Or tali provvedimenti impegnarono ad ogni
cimento quei che godeano le robe, quante mai fossero del tiranno, sul timore
che non venisse ior meno l’utile che ne aveano; come impegnarono a favorire non
più la tirannide ma la patria, que’ lutti che per le gesta loro sotto dei
despoti, eransi esiliati da sé stessi, per timore di non pagarne le pene. Ciò
fallo, si diedero co pensieri alia guerra tenendo intanto 1’ esercito in campo
presso di Roma sotto le insegne e li capitani per addestrarvelo ; perchè aveano
udito che i fuornscili apparecchiavano centra loro ua armata dalle città dell’
Etruria, e che quelle de’ Tarquinj e de’ Vejenii, potentissime ambedue,
cooperavano manifettamente al ritorno di essi, mentre gli amici loro adunavano
dalle altre de’ stipendiati e de’ volontarj. Ma non si tosto seppero che l’
inimico moveasi, deliberarono di farsegli incontra ; e passando prima di esso
il fiume, s' inoltrarono e si accamparono vicino ai Tirreni nel prato Giunio,
presso la selva sacra ai genj di Orato. Trovaronsi ambedue le milizie quasi
pari di numero con ardore eguale per combattere. £ su le prime, surse, appena
si videro, picciola mischia tra’ cavalieri, innanzi che le fanterie prendessero
campo. Cosi gli uni sperimentarono gli altri, e non vincitori e non vinti si
ritirarono ciascuno al corpo de’ suoi. Quindi messa la fanteria nel centro, e
la cavalleria nelle ale si mossero da ambe le parti coll' ordine stesso fanti e
cavalli gli uni contro degli altri. Conducea l’ala destra Valerio il console,
contrapponendosi a’ Yejeuti : Bruto reggea la sinistra avendo a fronte la
n^ilizia de’ Tarquiniesi comandata da’ figli del tiranno. XV. Erano già già per
venire alle mani quando ' avanzandosi dalle fila de’ Tarquiniesi 1’ uno de’
figli del tiranno, ( Aruute ne era il nome) il più vago di aspetto, e più
magnanimo de’ fratelli, e spinto il cavallo verso i Romani in parte, dove tutti
ne intendesser la voce, coperse d’ ingiuria il duce Romano, chiamandolo ferino,
selvaggio, lordo del sangue de’ figli, imbelle e vile, e lo sfidò per tutti a
combattere solo. E colui non Cosi nel Codice V.iticano. Alcuni peto leggono
jirslo in luogo di Orato, perchè secondo Tilo Livio e Valerio Massimo jfrtia si
idiiamava la selva. più bastando alle ingiurie, spronò dal suo posto il cavallo
senz' attendere gli amici che nel distoglievano, correndo fortissimamente alla
morte che eragli apparecchiata dai fati. Rapiti ambedue da pari ardore, intenti
a ciò che era da fare non a ciò che ne patirebbono, avventano impetuosamente i
cavalli uno a fronte dell’altro, e vibransi colle aste colpi vicendevoli, non
reparabili cogli scudi, nè con gli usberghi, immergendone la punta chi nelle
coste, e chi nelle viscere. Urtatisi per la foga del corso i cavalli nel petto,
eievaronsi su pie’ di dietro, e girandosi colla cervice rovesciarono i
cavalieri. Cosi caduti giaceansi versando sangue in copia dalle ferite, e
lottando colla morte. Come le milizie videro caduti i duci loro, spiccaronsi
tra clamori e strepito, e sorsene battaglia, quant’ altre mai ferocissima, di
fanti e di cavalieri ; con sorte non dissimile. Imperocché li Romani dell’ ala
destra comandati da Valerio console vinsero li Vejenti, ed incalzandoli 6no
agli alloggiamenti, copersero il campo di stragi. Per l’ opposito i Tirreni
dell’ ala destra guidata da Tito e da Sesto figli del tiranno misero in volta i
Romani dell’ala sinistra, e corsi presso alle loro trincierò usarono perfino
tentare se poteano in quell’ impeto primo espugnarle. Ma contrastati e feriti
assai da quei che v’ erano dentro, si ripiegarono. Àveanci di guardia i Triarj,
cosi detti, veterani peritissimi di guerra pel lungo esercizio, e soliti
riservarsi pe’ cimenti più gravi, quando ogn’ altra speranza vien meno. XVI. E
fattosi già il sole presso l’ occaso, tornarono gli uni e gli altri a’ proprj
alloggiamenti non ti lieti per la viuoria, che doleati per la moltitudine de’
perduti compagni. E se doveasi far nuova battaglia non credeano bastarvi quanti
erano intatti fra loro ; essendo i più feriti : se non che più grande era I’
abbattimento, e la diffidenza ne’ Romani per la morte del comandante; in guisa
che venne a molti in pensiero che fosse il loro migliore di abbandonare prima
del di le trìnciere. Ma intanto che cosi pensavano e dicevano usci circa la
prima vigilia dal bosco presso al quale accampavano una voce, sia del genio
tutelare del bosco medesimo, sia di Fauno che chiamano, la quale rimbombò su
l’uno e l’altro esercito, sensibilissima a tutù. A Fauno ascriveano i Romani i
panici timori, e tutte le visioni che varie ne’ luoghi varj presentansi
spaventosamente ai mortali : e di questo Dio dicono che sian opera le chia mate
fatte dal cielo, le quali tanto perturbano chi le ascolta. Animava questa voce
i Romani a bene operare quasi avessero vinto, significando come era morto uno
di più tra’ nemici : e dicono che levatosi a tal voce Valerio ne andasse nel
cuor della notte agli alloggiamenti de’ Tirreni, e che uccidendoveli per la più
parte, o fugandoneli s’ impadronisse del campo. Tal fu l’esito di questa
battaglia. Nel giorno appresso i Romani spogliarono i cadaveri de’ nemici ; •
seppelliti quelli de’ suoi, partirono. I migliori de’ cavalieri, presolo con
molta onorificenza e con lagnme, riportavano a Roma il corpo di Bruto in mezzo
ai fregi della propria virtù. Mossero all’ incontro di essi il Senato che avea
decretato che si portasse il duce con pompa trionfale, ed il popolo che ricevè
l’ esercito con BIOaiGl, torneai. crateri colmi di vino e con mense. Giunti
nella città ; il console ne trionfò come i re soleano, quando solennizzavano i
sagriBzj e le pompe pe’ trofei ; ed offerse a’ numi le spoglie, e fe' di quei
giorno una festa, convitando i più riguardevoli de cittadini. Pigliata nel giorno
appresso lugubre veste, ed esposto il cadavere di Bruto su magnidco letto in
splendido ornamento nel F oro, vi convocò la moltitudine, e salito in palco, ve
ne recitò 1’ elogio funebre. Io non so ben discemere se Valerio il primo
introdusse in Roma quel costume, o se dai re io desunse : ben so che tia Romani
antichissima é la istituzione degli elogi nella morte de’ valentuomini ; e so
da’ pubblici documenti di poeti antichi, e di storici famosissimi che non i
Greci i primi la fondarono. Imperocché le vecchie storie danno a conoscere che
ci aveano in morte di uomini insigni, combattimenti equestri e ginnici, come
Achille ne fe’ su Patroclo, e come Ercole, prima ancora, su Pelope : ma che gli
encomj se ne recitassero, ninno lo scrive se non i tragici di Atene, i quali
adulando la propria città, favoleggiarono che avesse ciò luogo nei sepolti da
Teseo. Laddove tardi istituirono gli Ateniesi per legge le funebri laudazioni ;
sia che le incominciassero su quelli che morirono per la patria ad Artemisio, a
Salamina, a Platea, sia che su quelli i quali caddero a .Maratona. E la impresa
di Maratona, se in quella sì cominciarono gli elogj pe’ defonti, è più tarda
della morte di Bruto per sedici anni. Che se alcuno, lasciando d’ investigare
quali stabilissero prima i lugubri encomi, voglia esaminare presso chi sia la
legge meglio ordinata ; la troverà tanto più savia tra questi che tra quelli,
quanto che gli Ateniesi introdussero i pubblici elogi mortuali, pe’ defunti in
battaglia, quasi estimassero la bontà del solo termine glorioso della vita,
sebbene al> tronde indegnissima : laddove i Komani destinarono tal6 onore
non al soli estinti nel combattere, ma a tutti gli uomini, insigni per sublimi
consigli, o per belle operazioni, sia che in città, sia che in guerra avessero
comandato, ovunque morissero, giudicando che debbansi i valentuomini celebrare
non per la sola morte luminosa, ma per tutte le virtù della vita. Così muore
Giuoio Bruto, colui che schiantò la tirannia, che primo fu console dichiarato,
che tardi rendutosi illustre 6orl sì, piccini tempo, ma fortissimo parve fra
tutti. Non lasciò prole non di maschi non di femmine, come scrivono gli storici
i quali esaminarono le cose de’ Romani, ancor le più chiare : di che ne
allegano molti argomenti ; e questo infra gli altri non facile a vincersi, che
egli era dell’ ordine de’ patrizj ; laddove quei che si dicono originati da lui
li Giunj e li Bruti eran tutti plebei, perocché conseguivano le cariche degli
edili e de’ tribuni, che son quelle che per legge a’ plebei si permettono, e
non il consolato, cui niun conseguiva fuorché li Patrizj. E quando questa
dignità si concedette ancora a’ plebei coloro non la ottennero se non tardi. Ma
lasciamo che discutano ciò quelli a’ quali si appartiene conoscerlo più
chiaramente. XIX. Dopo la morte di Bruto, Valerio il collega suo, divenne
sospetto al popolo quasi cercasse lo scettro ; primieramente perchè tenea solo
il comando, dovendo far subito eleggersi un compagno, come quando Bruto ripudiò
Gollatino ; e poi perchè aveasi fabbricato la casa in sito invidiato, preso
nella parte alta e dirotta del colle, il quale chiamasi Yelio e domina il Foro.
Convinto però da' suoi come ciò dispiaceva al popolo, pre&sse il giorno pe’
comizj e fe’ darsi un compagno in Spurio Lucrezio. E morendo costui dopo pochi
giorni della sua magistratura, sostituì Marc' Orazio ; e trasferì r abitazione
sua dalle cime alle radici del colle, perchè i Jtomani, come ei disse
concionando, potessero tempestarlo co sassi date alto se trovavano eh ei
facesse ingiustizia. E volendo rendere il popolo più certo della sua libertà
levò le scuri dai fàsci, dando ai consoli sue cessivi il costume, durevole pur
ne’ miei giorni, di usare le scuri quando escono di città, ma di non portare
nell’ interno di essa che i fasci soli. Fondò leggi piene di amicizia e di
sollievo inverso del popolo; proibendo con una manifestamente che niun de’
Romani andasse alle magistrature se dal popolo non le prendeva; con pena di
morte a chi contravvenisse, e licenza a tutti di ucciderlo. Con altra legge si
decretava : Se un magistrato Romano voglia uccidere, o battere, o multare
alcuno in danari; possa f uomo privato appellarne al popolo senza che intanto
niente ne soffra dal magistrato finché il popolo ne sentenzii. Or siccome
onoravasi con tali regolamenti il popolo ; cosi ne diedero al console il nome
di poplicola, che in greco appunto significa curatore del popolò. E tali sono
le cose fatte in quell’ anno dai consoli. Nell anno seguente è di nuovo creato
console VALERIO, e con esso LUCREZIO: ma non si fece nulla di memorabile se non
il censo de’ beni, e la tas sazion dei tributi per la guerra secondo le
istituzioni di Tullio re : cose tutte sospese nel regno di Tarquinio, e
rinovate da essi la prima volta. Trovaronsi in Roma idonei alle arme cento trenta
mila : e fu spedito un esercito per guardia a Sincerio (z), luogo di frontiera
contro i Latini e gli Ernie! da’ quali si aspettava la guerra. Creali consoli
(3) Valerio detto Poplicola per la terza volta e Marc’ Orazio con esso per la
seconda, 'Laro, re di Chiusi nell’ Etrurìa, quegli che Porsena si cognominava,
promise ai Tarquinj ricorsi a lui, 1’ una di queste due cose, o di
riconciliarli co’ Romani pel ritorno, e la ricuperazion del comando o che
ripiglie rebbe e renderebbe ad essi i beni de’ quali erano stati spogliati.
Imperocché spediti 1’ anno precedente amba>> sciadori a Roma, i quali
portavano preghiere miste a minacce, non aveaci ottenuto nè la riconciliazione,
nè il ritorno de’ Tarquinj; pretestando il Senato le imprecazioni e li giuramenti
fatti contro di questi, nè aveaiie riavuto i beni, negando restituirli coloro
che se gli aveano divisi, e godevanli. E non contentato in niuna delle domande,
e chiamandosene vilipeso e conculcato, a46 secondo Catone e a4S secondo Varrone
dalla fondazione di Roma, e 5o6 STanti Cristo. (a) Nel Codice Vaticano sì legge
Tiiionirio. (3) a47 sec. Ceti e a4g see. Var. dalla fondazione di Boma, e 5o5
avanti Cristo] arrogante altronde, e briaco per 1’ ampiezza delle sue ricchezze
e dominio, credette avere cagioni assai per abbattere la signoria de’ Romani,
come già per addietro desiderava, ed intimò loro la guerra. A lui si con giunse
Ottavio Mnmilio il genero di Tarquinio sul disegnò di mostrare tutto 1' ardore
suo per la guerra. Egli si mosse dalla città del Tuscolo e menò seco i Carne
rifai, e gli Antemnati, lignaggio latino, alienali già palesemente da’ Romani,
e molti volontarj suoi fautori, delle altre genti Latine le quali ricusavansi
ad una guerra manifesta contro di una città confederata, e tanto poderosa. Saputo
ciò li consoli romani ordinarono a’tmltivatori di portare masserìzie, bestiami,
e schiavi ai monti vicini, fabbricandovi -ne’ luoghi forti de’ castelli,
opportuni a difendere chi vi si riparava. Quindi premunirono con più potenti
maniere e con guarnigioni il Gianicolo, alto colle, cosi chiamato, nelle
vicinanze di Roma di là dal Tevere, e provvidero con ogni diligenza perchè non
divenisse un baluardo pe’ nemici contro la città, e vi depositarono gli
apparecchi per la guerra. Quanto alle cose interne della città le disposero,
ancor più propiziamente verso del popolo, diffondendo assai beneficenze su’
poveri, perchè questi non si ripiegassero in verso de’ tiranni, nè tradissero
per 1’ utile proprio, il comune ; imperocché decretarono che fossero immani da’
tributi pubblici, quanti al tempo dei te ne pagavano, nè soggiacessero a spese
di milizia e guerra, giudicandoli assai contribuirvi se la persona esponevano
per la patria. Collocarono nel campo dinanzi Roma la milizia preparata ed
esercitata già da gran tempo. Giunto il re Porsena coll’ esercito espugnò di
assalto il Gianicolo, spaventandovi i Romani che lo presidiavano, e
sostituendovi guarnigione tirrena. Quindi marciò verso la città quasi avesse a
prenderla senza fa tica. Ma fattosi ornai prossimo al ponte, e visti accampati
i Romani nella riva a lui più vicina del fiume si apparecchiò per combattere,
in guisa da sopraffarli col numero, e spinse assai spregiantemente innanzi la
milizia. Reggeano l’ ala sinistra Tito e Sesto figli di Tarquinio, tenendo sotto
gli ordini loro i fuorusciti da Roma, il fiore della gente di Gabio, e
stranieri, e mercenari non pochi. Mamilio il genero di Tarqninio comandava la
destra ov’ erano i Latini ribellatisi da’ Romani: finalmente il re Porsena avea
la fanteria schierata nel centro. Ma Spurio Largio, e Tito Erminio teneano
l’ala destra de’ Romani contro ai Tarquinj: Marco Va lerio, fratello del
console Poplicola, e Tito Lucrezio il console dell’ anno precedente stavano
colla sinistra a fronte di Mamilio e de’ Latini. Moveano tutti due i consoli il
corpo fra le due ale. Fattasi alle mani combattè virilmente l’una e l’altra
milizia con lunga resistenza; superando i Romani per esperienza e fortezza i
Tirreni e i Latini ; ma potendo questi assai più de’ primi col numero. Alfine
cadendone quinci e quindi in gran copia s’ intimorirono prima i Romani dell’
aia sinistra in vedere i loro duci Valerio e Lucrezio feriti, e portati fuori
della battaglia ; e poi, quando mirarono in piega i loro compagni,
sbigoltironai aneli’ essi, quei dell’ala destra sebbene ornai vincitori delle
schiere de’ Tarqainj. E fuggendosi tutti alla città, |>recipitosi, in folla,
su per un ponte solo ; piombavAno intanto su loro ferocissimi gl’ inimici : e
poco mancato sarebbevi che Roma priva di mura dalla banda del fiume, fosse
espugnata, se i vincitori investita 1’ avessero misti co’ fuggitivi. Se non che
sostennero r inimico, e salvarono tutto 1’ esercito tre uomini, due seniori,
Spurio Largio, e Tito Erminio, appunto i duci dell’ ala destra, e Publio Orazio,
un giovine, il più beilo, il più valoroso de’ mortali Coclite detto dallo
strazio degli occhi, per essergliene stato di velto uno in battaglia. Era
questi figlio dei fratello di Marc’ Orazio console, e traeva la origine sua
generosa da Marco Orazio 1' uno de’ trigemiai che vinse già li tre Albani,.
quando le città guerreggiando per la preminenza. accordaronsi a non cimentarsi
con tutte le forze, ma con soli tre uomini, come fu dichiarato nei libri
antecedenti. Questi soli fattisi alla lesta del ponte disputarono gran tempo il
passo al nimico, fermi sul posto medesimo, in mezzo a nembo di strali e tra ’l
fulminar delle spade, finché tutta l’armata ripassò di qua dal fiume. Come però
videro in salvo i suoi, Erminio e Largio, laceri già nell’ armatura pe’ colpi
incessanti, si ritirarono a grado a grado. Orazio però, sebbene dalla città lo
richiamassero i cittadini ed il console, e tentassero per ogni via di salvare
un tal uomo ai parenti e alla patria, Orazio solo non ubbidì, ma nel posto suo
si rimase come dianzi, raccomandando ad Erminio di dire in suo nome ai consoli
che tagliassero verso la città, quanto prima potevano il ponte. Era di quel
tempo il ponte uno solo e di legno, con tavole congiunte per sè stesse e non
per ferrei grappi, quale custodiscesi tuttavia dai Romani : raccomandò nemmeno
che quando avessero sconnesso il più del ponte, quando picciola parte
resterebbe a disfarne, a lui lo dichiarassero con certi segni, o con sonora
voce. Lasciassero a lui poi la cura del resto. Cosi ricordando a que’due si
tenne in snl ponte, e parte col ferir della spada, parte col dar dello scudo,
ne respinse, quanti investendolo, vi si avventavano. E già quelli che
perseguitavano il romano non ardivano più venire alle mani con esso, come preso
da furore e fermo di morire , molto più che non era facile andar fino a lui,
che aveva a destra e a sinistra il fiume, e dinanzi un monte di cadaveri e di
armi : ma tenendosegli discosti Io bersagliavano in folla con lance, e dardi, e
sassi quali empirebbon la mano ; o coi brandi e coi scudi degli estinti, se non
aveano i primi stromenti. Resistea colui colle armi loro medesime : tirando su
la moltitudine ; sempre, com’ è verisimile, colpiva alcuno. E già percosso, già
carico egli era di ferite in più parti del corpo, già un colpo portatogli
direttamente per la coscia alla testa del femore, lo addolorava e difficoltava
nel caminare; quando, udendo gridarsegli addietro essere il ponte nella sua più
gran parte disciolto, si gettò di un salto colle arme nel fiume. E valicatolo a
stento, perchè divenuto rapido e molto vorticoso per le travi che già
sostenevano il pon te, e che ora abbattute rompevano il corso delle acque,
fecesi a terra finalmente senza avere in quel tragitto perduta niuna delle
armi. Tale azione produsse a lui gloria immortale : e li Romani coronandolo lo
portarono immantinente per la città com’ nno degli eroi tra’ cantici
trion&li. RU versavasi la urbana moltitudine, finché le era permesso, per
desiderio di vederlo, almeno nell’ ultimo presentarsele; sembrandole che tra non
molto morirebbe per le ferite. Scampò tuttavia da morte; ed il popolo mise
nella parte più cospicua del Foro la statua metallica di lui com’ era fra le
armi ; e diedegli del terreno pubblico quanto ne potrebbe in un giorno un pajo
di buovi arare d’ intorno ; e senza contare i pubblici doni, ogni uomo o donna,
i quali erano insieme più che trecento mila, gli recarono ciascuno il vitto di
nn giorno mentre era fra tutti terribile la peuorta. Orazio dimostrala in tal
tempo tanu virtù parve più che tutti i Romani invidiabile. C quantunque,
divenuto perchè zoppo, inutile ad altr’ incarichi nou potesse in vista di tale
sciagura conseguire nè il consolato, nè altre militari presidenze ; nondimeno
per le gesta meravigliose fatte da lui, vedendolo tutti ì Romani, in quella
battaglia, merita di esserne encomiato quanto mai lo fosse ciascuno de’ più
famosi per la fortezza. Cajo Muzio, soprannominato Cordo, sceso da chiari
antenati, anch’ egli si mise ad una nobilissima impresa. Io ne dirò tra poco
dopo esposti i mali che allora ingombravano Roma. Dopo quella battaglia il re
dei Tirreni collocatosi nel monte vicino, dal quale avea discacciato il
presidio romano, dominava tutta la campagna di là dal Tevere. Li figli di
Tarquinio, e Mamilio il genero di lui tragittando le milizie loro picciole
barche aU. ' i3y r altra riva per cui vasai a Roma, accampamsi in luogo ben
forte. Donde slauciandosi davano ilguasto alle terre, ed agli alloggi pe’
bestiami, e piomavano su’ bestiami stessi che uscivano dai sicuri luo^i per pascere.
Ora essendo tutto 1 aperto in balìa el iie mico, nè più di qua, nè più sopra il
fiume reandoai in città le merci se non scarsissime; vi riuscì be tosto
carestia gravissima ; consumandovi tante raigliaja Iprovvigioni già fattevi,
che non erano copiose. Allea gli schiavi, abbandonandoli ogni giorno, in buon
nttiero, disertavano dai padroni, e li più malvagi del ppolo trasferivansi alle
parti del tiranno. In vista di ciò arve ai consoli di supplicare i Latini i
quali riverivano' le> gami del sangue, e sembravano fidi ancora, che ian>
dassero come prima potean de’ rinforzi : e di spjire ambasciadori a Cuma nella
Campania, ed alle itià Fomentine per ottenerne dei grani. Non sovvenneri ad
essi i Latini ; come quelli che non credevano giusti far guerra con Tarquinio
nè co’ Romani, avendo con mbedue vincolo di amicizia : ma Erminio e Largio
pediti commissari pel trasporto de’ frumenti, avendo trincate da’ campi
Pomentini più barche di ogni vettvaglia, le introdussero in una notte senza
luna dal tare EU pel fiume, in occulto de’ nemici. Ma venuta mno ben tosto pur
questa provvigione, e ridottisi gli uoainì ai disagi di prima ; Porsena
chiarito dai disertori cime, que’ eh’ eran dentro vi penuriavano, mandò arabi
ad essi intimando che ricevessero Tarquinio se veleno liberarsi dalla guerra e
dalla fame. Non comportarono i Romani il coaando, risola piuttosto di subirne
ogni male. Ma prevedendo > Musi' che l’una delle due ne seguirebbe, o che
vinti dal bogno non terrebbono gran tempo la parola, o che aendola ne perirebbono
sgraziatissimamente; pregò li coioli che gli adunassero il Senato, come volesse
proprgli grandi e rilevantissime cose : e radunatosegli, disse Io medito o
senatori una impresa, donde il popo nostro s’involi da’ mali presenti. Ardita
molto ella ì questa, ma facile, io penso, da compierla. Beri, riuscendomi,
poco, ower nulla io spero su la mie vita. Ora essendo io per espormi a tali
pericoli, anaaiovi da speranze sublimi, non ho voluto che, voitutti lo
ignoraste ; perchè se mi accada di mancar la trova, io sitine celebrato almeno
per V azione bellis.ma, e me ne abbia gloria eterna in luogo del capo mortale.
Già non era sicuro palesar quanto mcchino al popolo, perchè niuno spinto dall
util suo ne riferisse à nemici, quando è ciò da nascondersi cote arcano indicibile.
Pertanto a voi primi e soli maniestolo, i quali, ne confido, lo tacerete: gli
altri da vo r udiranno a suo tempo. La impresa che io medito è mesta : Fintomi
disertore, andrommene al campo Treno. Se non mi ciedono e muojo, voi non avrete
peduto che un cittadino : laddove se mi riesce introdumi in quel campo ; io vi
prometto di uccidervi il sue re. Caduto Porsena, sarà per voi finita la guerra.
Io pronto sono ad ogni sorte, qualunque gli Dei me ne òstinino : e tenendo voi
per consapevoli e teslimonj miei presso del popolo, e pigliando il genio buoni
della patria per guida, portomi^ e vado. Encomiatone dai senatori presenti, ed
avuti gli augurj propizj per la impresa, passa il Tevere : e giunto agli
alloggiamenti de’ Tirreni, ne penetra come nno di essi le porte, deludendone le
guardie : perchè non portava arme visibili, e perchè parlava alla tir> rena,
come eravi fanciullo stato istruito dalla sua natrice tirrena. Approssimatosi
al Foro ed alla tecda del principe vedevi un uomo cospicuo per grandezza e
complessione di membra seduto in veste di porpora nel tribunale in mezzo a
molti che armati lo circondavano. Or pensò, ma indarno, che costui fosse
Porsena, non avendo altra volta mai veduto il re de’ Tirreni : ma egli non era
che il regio scriba il quale sedea nel tribunale e numerava i soldati, e
registravano i pagamenti. Inoltrasi a tal vista tra la moltitudine fino allo
scriba, e salito, senza esserne impedito perchè inerme, snl tribunale, cava il
pugnale che celava sotto l’abito, e daglielo in capo. Ucciso con un colpo lo
scriba, egli è preso immantinente e portato al re già consapevole della strage.
Il quale vedutolo appena, Ah scelleralissimo ! esclama, pagherai ben presto le
pene che meritasti. Dì, chi sei ? donde vieni ? e su qual confidenza osasti un
tanto attentato ? Destinavi la sola morte delio scriba, o la mia parimente ?
quali compagni hai tu della perfidia? Non celarmelo, o li tormenti vi ti
forzeranno. E Muzio non presentando pur un segno di paura non col variar del
colore, non colla fissezza dei pensieri, nè con altre affezioni solite in chi
dee punirsi (li morte gli rispose : lo sono un Romano: venni qual diserlom ed
tuo campo, nè già per causa vile, ma per liberare la patria dalla guerra, lo
voleva uccidere te, qu$nUmque io non ignorava che o riuscissi o fai' lèssi tujl
colpo io ne dovrei morire : io destinava con' secrard alta patria la vita, e
lasciarle pel corpo che essa àveami dato, una gloria sempiterna. Errai : e
causa ifelT errore furono la porpora, lo scanno, e le altre irfsegne del
comando. Uccisi chi non voleva !. . lo scriba tuo per te stesso. Pertanto io
non ricuso la morte thè io decretava a me medesimo nell accingermi a rfuesta
impresa. Che se tu giuri per gli Dei di risparmiarmi li tormenti e gli ohbrobrj
; io prometto che ti svelerò cose, gravissime per la tua salvezza. Cosi Muzio
diceva per deluderlo. E colui come attonito, e temendo pericoli non veri da
molti, glie lo giurò. Muzio allora ideato un inganno del quale non potea
convincersi : disse : O re, trecento Romani tutti a ma pari di età, tutti
patrizj di condizione, abbiamo mac' chinata di ucciderli, dandocene vicendevoli
giuramenti. Pavé, a noi quando ci consultavamo su le maniere insìiiarli, che
non tutti insieme ci ponessimo a questa impresa, ma ciascuno da sà, tacendo perfno
ai compagni, quando, dove, come, e con quale occasione £ investirebbe,
acciocché facile ci fosse di occulterei. Cosi macchinando, ci demmo le sorti,
ed io me la ebbi il primo per cominciare la impresa. Istruito tu dunque che
tanti valentuomini hanno sete egiude di gloria, e che forse alcuno la sazierà
con successo più fausto del mio ; deh ! considera se possi more mai guardia
abbastanza che ti d fenda. Il re ciò udendo comanda al atelliti che incalenino
costui, se lo menino, e lo custodiscano diii> gentissimamente : egli poi
convocando i più amici, e facendo che Arunte il figlio suo gli sedesse da
presso, ragionò con essi le maniere da far vane le insidie : ma suggerendone
gli altri picciole cose ; non pareano cogliere il punto : quando il figlio suo
propose un consiglio, superiore all’ età ; perciocché volea che non si pensasse
a guardie onde precludere i mali, ma piuttosto a far quello per cui le guardie
non bisognassero. E maravigliandosi tutti del suo consiglio, e desiderando
sapere come lo eseguirebbe ; col farci, ei disse, amici i nemici, e col
pregiare o padre, la salvezza tua più che il ritorno degli esuli. Soggiunse il
re: cìut egli ben diceva, ma essere da consultare come consdignità si
pacificassero. Sarebbe gran vitupero, se egli che uvea superato in battaglia, e
tenea ristretti i Romani fra le mura si ritirava, senza compiere quanto avea
promesso ai Tarquinj, quasi vinto dai vinti, e quasi fuggisse chi non ardiva
nemmeno uscire dalle porte. Facea conoscere che l’unico mezzo da togliere le niniicizie
sarebbe, se gli avversar) mandassero ambasciadori per trattare gli accordi.
Cosi disse in quel giorno agli astanti ed al figlio: tuttavia pochi giorni
dipoi fu necessitato egli il primo a fare proposizioni di pace per questa
cagione. Sbandatisi intorno i suoi militari, e datisi a predar di continuo quei
che recavano in città le merci; i consoli Romani se ne misero in buon luogo
alle insidie, e molti ue uccisero, e più ancora ne imprigionarono. Di ohè
nuioontenti i Tirreni ne facean crocchio e sussurro iocolpaodo il monarca e i
duci suoi sul tanto prolungarsi della guerra, e sfogandosi in desiderj di
rendersi alle lor case. Or vedendo come tutti gradirebbero ma nilestamente la
pace spedi per trattarla i più intimi suoi. Scrissero alcuni che fu con essi
spedito anche Muzio sul giuramento di tornare poscia al monarca: ma vo glion
altri che fosse piuttosto custodito come ostaggio nel campo fino alla pace : il
che forse è più verisimile.' Questi poi furono gli ordini che il re diede a’
commise sarj ; non dicessero parola sul ritorno de Tarquinj ; ma ne
raddomandassero i beni, principalmente gli ereditar] dal canto di Tarquinio P
antico, già posseduti da essi bitoncunenle : e se ciò ricusatasi; dessero
almeno, quant’ era possibile, i compensi delle case, de' bestiami, de' campi,
delle raccolte, come purea loro espediente, col danaro del pubblico, o de'
possessori, ed usufruttuarj atlucdi de' beni. E ciò quanto ad essi. Chiedessero
poi > per lui che deponea le inimicizie li sette pagi, cosi detti, antico
luogo dell' Etruria, invaso da Romani nella guerra e tolto aproprielarj, e
finalmente chiedessero de' giovani delle famiglie più insigni, per ostaggio,
che i Romaai si terrebbono amici costanti de' Tirreni.Venuti i deputati a Roma,
il Senato per in sinuazione di Poplicoia console si risolvè di accordarne tutte
le dimande in vista della penuria che alHigeva il popolo e. la classe de poveri
; onde accettissima sarebbe loro una pace, giusta nelle condizioni. Il popolo
ratificò tutti gli articoli del decreto del Senato; non soffri però die si
vendessero i beni, o si desse a’ Tarquinj danaro, privato nè pubblico, e volle
che si mandassero ambasciatori a Porsena perchè si contentasse degli ostaggi e
della regione che dimandava. Quanto ai beni egli giudice fosse tra’ Romani e
tra Tarquinio, udisse 1’ una e r altra parte, e ne sentenziasse non per favore
nè per nimicizia. Partirono i Tirreni con questa risposta, e con essi gli
ambasciadori del popolo i quali conduceano per ostaggi venti giovani delle
famiglie più illustri, avendo i primi dato i consoli Marco Orazio il 6gl lo, e
Publio Valerio la figlia, idonea già per le nozze. Pervenuti questi nel campo,
il re dilettatone, e moltolodati i Romani, conchiuse una tregua per un numero
certo di giorni, e prese a giudicare la causa. Baltristaronsi però li Tarquinj,
caduti dalle speranze più lusinghiere, che avrebbegli quel monarca ricondotti
sui trono ; e per necessità dovéttero acconciarsi alle circostanze, e prendere
clocch’era lor conceduto. Giunti da Roma al tempo ordinato i più anziani de’
senatori e gii oratori della eausa ; il re sedutosi cogli amici nel tribunale,
ed assunto anche il figlio per giudice ; intimò che parlassero. Trattavasi
ancora la causa, quando un tale annunziò che gli ostaggi s’ eran fuggiti.
Perciocché le donzelle tra' questi, avuta come la chiedeano, la facoltà di
andare e di bagnarsi nel fiume, andatevi, dissero agli uomini che alquanto se
ne discQstassero, finché lavate e rivestite si fossero, sicché non le vedessero
nude. Or questi cosi facendo ; quelle gitlatesi a nuoto ripararonsi a Roma,
eccitatevi da Clelia che le precedeva. A ul nuova Tarqutnto assai rimproverava
li Romani di iperginro e di mala fede, e provocava il sovrano perchè più non
gli adisse, come divenuto il giuoco dei loro tradimenti. Esciisavasi il
console, dicendo queir opera, tutta delle donzelle, senza voler del Senato: e
che presto dimostrerebbe che niente era per inganno. Persuasone il re concedè
che andasse e rimeuasse come pròmettea le fanciulle. Andò Valerio appunto con
tal fine: Dia Tarquinio e il genero macchinarono in onta di ogni diritto un
opera infanóissima, e spedirono in su la strada una banda di cavalieri per
sorprendere le fanciulle ricondotte, il console, e quanti tornavano al campo, e
ritenersene le persone pe’ beni tolti da’ Romani a’ Tarqninj, senz’ aspettare
il fine del giudizio. Ma non permisero gl’ IJdj che succedesse loro secondo il
disegno : perché mentre gl’ insidiatori uscivano dal .campo Latino per
sopraffarsi a que’ che venivano, il console romano era già passato innanzi
colle fanciulle : e già era alle porte degli alloggiamenti Tirreni quando fu
sopraggiunte da’ persecutori. Si fe’ qui mischia fra loro, ma ben presto fu
nota a’ Tirreni, e ne corsero frettolosissimi in ajuto il figlio del re con de’
cavalieri, e la schiera dei fanti che stava di guardia innanzi del campo.
Sdegnatosi di ciò Porsena convocò li Tirreni > e narrò come essendo egli
fatto giudice da’ Romani di quello ond’ erano accusati da Tarquinio ; gli
espulsi, e bene a diritto, da loro, aveano tentato di violare, le persone sacre
degli ambasciadori e degli ostaggi, in tempo di tregua, e prima che si
decidesse la causa. Dond’ è che i Tirreni assolvettero su di ogni richiamo i
Romani, e togliendosi all amicizia di Manilio e di Tarquinio, intimarono loro
cb’ entro il pros rimo giorno si ritirassero. Così lì Tarquinj pieni in
principio di belle speranze per 1’ ajuto de Tirreni, o di essere di nuovo i
tiranni di Roma, o di ricuperare! loro beni, perderono 1 uno e 1 altro per la
offesa degli ostaggi e degli ambasciatori, e partirono con infamia, e con odio
dai campo. Il re poi de Tirreni facendosi condurre gli ostaggi dinanzi dei
tribunale gli rendette al console, dicendogli che pregiava la fedeltà de'
Romani più di ogni ostaggio. R lodando Clelia, che avea persuaso le compagne di
passare a nuoto il fiume, come ne suoi pensieri maggiore del sesso e della età,
e feli citando Roma perchè allevava non pure de valentuo mini ma delle eroine,
regalò la donzella di un cavallo generoso, e magniCcamente bardato. Sciolta
radunanza fe’ cogli ambasciatori de Romani gli accordi e li giuramenti di pace
e di amicizia, e li onorò come ospiti, e restituì senza prezzo, perchè li
recassero in dono alla loro città, tutti li prigionieri, che eran pur molti :
ordinò che rimanessero com erano i padiglioni suoi, fatti non come per breve
durata su le terre altrui, ma fregiati, quasi una città, con private e
pubbliche spese; quantunque i Tirreni dopo avervi alloggiato, usassero di. t
noti serbarli. E fu questo, se in danaro si .calcola, non picciolo dono pe
Romani, come lo di chiarò la vendita fattane da questori dopo la partenza del
re. Tal fu la fine della guerra de’ Tirreni e di Laro Porsena la quale avea
ridotto i Romani a tanti Dopo la partenza de’ Tirreni adunatosi il Senato
Romano decretò che si mandasse a Porsena.il trono di avorio, lo scettro, il
diadema e la veste trionfale colla quale i re si adornavano: e che Muzio, espo
stosi alla morte per la patria, e cagione principalissima del termine della
guerra, si premiasse a spese del pubblico,> come già Orazio che resistè sul
ponte, con tanto terreno; di là dal Tevere, quanto poteane in un giorno solcare
intorno coll’ aratro : e questo è il terreno che pur nel mio tempo si chiama il
prato di Muzio. Cosi fu decretato su gli uomini. Quanto a Clelia concederono
che una statua di metallo se le innalzasse, ed i, padri 'delle donzelle glie la
innalzarono nella via sacra,' dove mette al Foro : tifa noi non più ve l’
abbiamo trovata ; e dicesi che mancò per un incendio delle case d’intorno. Fu
quest’anno compiuto il tempio di Giove Capitolino, dei quale partitamente
abbiamo scritto nel libro antecedente. E Marco Orazio console lo consacrò, e lo
intitolò prima che potesse tornare Valerio il compagno, uscito per avventura
dalla città coll’ esercito, per difenderne la campagna : perocché Mamilio
spedendovi a far preda, assai vi danneggiava li coltivatori éhe vi si erano di
fresco l'icondótti, lasciate le fortezze. -E questo è ne’ fasti dèi terzo
consolato. Spurio Largio e Tito Erniinio consoli dell’anno' quarto io
compierono senza guerra. Morì nel 1 • ; I • • • (i| Plutarco sclibenè
poslèriore a Dionigi dice che la statua di Clelia esisteva aucora su la via
sacra là donde vasai isf e-asAttrter in palatiwn. Casaub. (3) Ad. 348 secondo
Catone, e aSo secondo Vatrone dalla fuudasioue di Roma, e 5o4 avanti Cristo]
149 loro consolato Aruote il 6glio di Porsena re de' Tirreni Assediava già da
due anni, la città della Riccia, perché conchiusa appena 1’ alleanza co’
Romani, prese dal padre metà dell’ esercito, e marciò contro quella città per
sottoporsela, e dominarvi. Ma essendo ornai per espugnarla, sopravvennero a
questa de’soccorsi da Anzio,. dal Tuscolo, e da Cuma della Campania. Egli
schierò le milizie sue' minori contro le più numerose: ma dopo respinti, dopo
incalzati gli altri 6no alla città, peri finalmente, vinto egli stesso dai
CumanI condotti dalr r Aristodemo, che Malaco si chiamava. Fuggi, non
sostennesi a tale caduta 1’ armata di lui. Molti ne ^ soccomberono incalzati
da’ Cumaui ; ma più ancot^ : sbandati ; ridotti senz' arme, nè più Idonei per
le ferite a. fuga più lunga, ripararonsi nel territorio non lontano di Roma. Se
li menarono i Romani dalle .campagne' in citté^ nelle proprie case,
portandovene i più malconci a cavallo., o su carri, o su cocchi: e ciascuno a
proprie spese li nudrirono, e curarono, e ristorarongll con sol-, lecitudine
molto affettuosa. Di talché molti di loro legati da tanta benevolenza
desiderarono non di tornarsene in patria, ma di rimanersi fra tali benefattori
; ed il Senato assegnò loro perclié vi si fabbricasser le case, la valle tra ’l
Palanteo, ed il Campidoglio, lunga presso a quattro stadj. Chiamasi questa
anch’ oggi nell’ idioma de' Romani la contrada Tirrena ; e vi si passa venendo
dal Foro al circo massimo. E per tali cortesi maniere ebbero dal re di quella
gente dono non lieve, e che assai li dilettava, la campagna di là dal fiume,
ceduta già da essi quando ne ottenner la pace. Cori iSó trìbuUroao agl’ Iddj li
sagnfiz) magoìBci che aveano già promesso co’ voti se ricuperavano mai li sette
pagi. Correa nell’ anno quinto dopo la espulsione dei re la Olimpiade
sessantesima nona, nella quale Iscomaco Crotoniate vinse allo stadio,
Acestoride fa 1 arconte di Atene per la seconda volta, e furono consoli Romani
Marco Yalerìo, fratello di Valerio Poplicola, e Publio Postumio, detto Tuberto.
Arse nel loro consolato un’ altra guerra co’ vicini, la quale cominciò colle
prede, e procedette a numerose e grandi battaglie : finché cessò da indi a
quattro consolati, dopo essersi nel tempo intermedio sempre stato fra le arme.
Imperocché alcuni Sabini considerando Roma indebolita per gl’ incontri suoi co’
Tirreni, quasi non dovesse mai più ricuperare l’antica dignità, ne assalirono,
affin di predarli, e certo molto ne danneggiarono, li coltivatori, i quali
calavano di bel nuovo dai luoghi forti alla campagna. I Romani prima di
prendere le armi spedi rono ambasciadori a chiedere conto e soddisfazione,
tal> ché non più molestassero chi lavorava i terreni. Ma non ricevendone che
orgogliose risposte, intimarono ad essi la guerra. Valerio il console il piimo
con truppe equestri e con fiore di milizie leggere scorse tu que’ rubatori de’
campi, e grande fu la uccisione de' sorpresi nri pascoli, sbandati, com’ è
verisimile, nè provvidi del venir de’ nemici. E spedendo i Sabini contr’essi un
An. a49 ài Rom. ucondo Caioae, e aSi secondo Varronr, e &o3 vanii Criaio,
esercito sotto un duce perito di guerra, i Romani usci rono di bel nuovo con
tutte le forze, dirette da ambi li consoli. Postumio mise il campo nelle alture
prossime a Roma, pei'cbi uon vi si facesse una subita irruzione da’ fuorusciti.
Ma Valerio marciò di fronte al nemico iu riva all’ Aniene, fiume che nella
città di Tivoli casca da rupe altissima, e poi corre, dividendoli fra loro, i
campi de’ Romani e de’ Sabini, finché vago in vista e dolce a beverne, scende
nel Tevere. Erano i Sabini dall’ altra parte del fiume non lungi dalla corrente
su di un colle non molto forte, e che poco a poco degrada. In principio gli uni
rispettando gli altri esitavano a passare il fiume e farsi alle mani. Ma poi
non per calcolo e previdenza di beni, ma rapiti dfiir ira e dall’ ardor di
combattere, furono alle prese. Imperocché venuti ad abbeverare i cavalli e far
acqua, inoltraronsi molto entro il fiume, vmile allon nel suo corso, perché non
accresciuto dalle acque in vernali : e siccome bagnavali appena, poco più su
delle ginocchia ; lo trapassarono. Attaccatisi in su le prime pochi con pochi,
ecco accorrere altri a difenderli, ognuno dai proprj alloggiamenti, e via via
sopraggiungerne di rinforzo, come questi o quelli erano superati. E quando i
Romani respingevano i Sabini dal fiume, e quando i Sabini ne toglievano l’uso
ai Romani. E molti uccisi e feritivi, ed eccitativisi tutti a combattere, come
avviene nelle scaramucce fortuite, sorse ardore eguale di passare il fiume ne’
duci stessi degli eserciti. E primo passandolo il console Romano e con esso r
armata sua, ' piombò su li Sabini. Non eransi questi ancora nè bene armati, uè
schierati ; pure non esitarono ad accettar la battaglia, inanimiti molto è
spregianti, perchè non arcano a farla nè con ambi li consoli, nè con tutte le
milizie Romane, e slanciatisi, combatterono con furia di baldanza e di odj.
Ardea rivissi ma la battaglia ; ma se 1’ ala destra, or’ era Postnmio il
console, superava gli avversar] ed avanzavasi ; la sinistra ‘era travagliata e
respinta al fiume. Or saputo ciò 1’ altro console usci coll’ esercito suo :
marciava egli pian piano colla fanteria, ma fe’ precedere in fretta colla cavalleria
Spurio Largio Seniore, e console dell’ anno precedente. Andato costui di tutta
briglia passò facilmente il fiume, che non era guardato da alcuno, e giratosi
attorno l ala destra dei toemici pigliò di fianco la cavalleria de’ Sabini., Or
qui sorse battaglia diuturna e grave di cavalleria con cavalleria. Frattanto
avvicinatosi anche Postumio co’ suoi fanti a queU’ ala ed investitala, molti ne
uccise, e molti ne disordinò : di modo che se non sopravveniva la notte, i
Sabini avviluppati da’ Romani che già prevalevano, sarebbero stati del tutto
disfatti : ma le ombre occultarono qùei'che fuggivano dalla battaglia come
inermi e radi, e salvi si ricondussero alle lor case. Impadronironsi i consoli
senza combattervi de’ loro alloggiamenti, abbandonati dalle guardie al veder
quella fuga : ed occupatevi molte suppellettili, e datele in preda
all’esercito, lo rimenarono in patria. Cosi riavutasi Roma, allora la prima
volta, da’ inali suoi co’ Tirreni, senti lo spirito antico, ardi come prima
arrogarsi 1’ impero su’ vicini, decretò pe’ due 'consoli insieme un trionfo, e
di più che si desse a Valerio che era I’udo di questi, un sito nella partepiù
distinta del Pallanteo, dove gli si fondasse una casa a spese del pubblico.
Questa è la casa innanzi alla quale sta il toro di bronzo, e questa tra tutti i
privati e pubblici ediCzj è la sola che ha le porte che aperte si girano in
fuori. XL. Presero dopo questi il consolato Publio Valerio Poplicola per la
quarta volta, e Tito Lucrezio, di bel nuovo collega suo (a). Quest’ anno le
città Sabine, tenuto un congresso comune, decretarono far guerra ai Romani,
quasi fosse finita 1’ alleanza loro, per essere caduto dal trono. Tarquinio a
cui 1’ aveano giurata. Aveale indotte a ciò,1’ uno de’ figli di Tarquinio,
Sesto di nome, il quale coll’ onorare e supplicarne i cittadini primari di
ognuna, metteva in tutte un animo per la guerra : anzi aveva a sé guadagnate, e
consociate a queste pur le due città Camcria e Fidene, ribellatele da’ Romani.
In contraccambio le città lo elessero generalissimo loro con facoltà di
reclutare milizia da ognuna, come quelle che aveano perduta la prima battaglia
per la insufficienza delle forze, e del capitano. Ed in ciò si adoperavano
questi : ma la fortuna volendo contrappcsare i beni al mali di Roma, le diede
in luogo degli alleati che le si eranp tolti, un rinforzo, quale non 1() Tra i
Greci era grande onarificenia aver le porte che ai apriaaero au.la pubblica
strada; e questa servitù della pubblica strada coiopcravasi a gran presso: come
è chiaro da ciò che si legge d’Ificrate presso di Aristotele negli Economici.
(a|)'An. di Bom. aSo secondo Catone, e aSa secondo Varrone, e 5oa av. Cristo]
imperava dal canto de’ nemici. Tito Claudio, un Sid>mo domiciliato a
Regillu, nobile e denaroso, fuggissene in seno di lei menando con sé gran
parentado, ed amici e clienti in copia, i quali spatriavano con le famiglie ;
tanto che tra, questi ce ne avea cinque mila buoni per le arme. E questa dicesi
la cagion cbe lo spinse a tra sferire in Roma la sede. I primar) delle città
più cospicue alienatisi da lui -lo aveano incolpato di poca affezione verso il
pubblico bene, citandolo qual traditore ; come r unico che mal soffriva la
guerra, e che avea ripugnato in consiglio a quei che voleano sciolta 1’
alleanza, nè permise che i suoi cittadini AtiGcassero il decreto degli altri.
Or temendo egli un giudizio, ove le non sue città sentenzierebbero della sua
sorte, raccolse le sue robe, e gli amici, e si congiunse ai Romani, non senza
picciolo sbilancio degli affari ; talché parve a tutti la cagion principale
dell’ esito propizio della guerra. Per tanto il Senato ed il popolo lo
ascrissero tra’ patrizj, lasciandogli in città quanto sito volle per
fabbricarvi ; e gli donarono i terreni pubblici tra Fidene e Picenza perchè li
• compartisse co’ suoi compagni, da’ quali risultò poi la tribù Claudia che
ancora tiene quel nome. Apparecchiatasi appuntp l’ una e 1’ altra parte, li
Sabini i primi cavarono le milizie e fecero due accampamenti, r uno all’ aere
aperto non lungi da F idene, r altro in Fidene a difesa del popolo, come in
rifugio dell’ esercito esterno in caso di sciagura. I consoli Romani al sapere
la venuta de’ Sabini contra loro,• uscirono anch’ essi con floride scltiere, e
presero campo, separati T ano dall' altro, Valerio a fronte degli allog '
giatnenti sabini all’ aere aperto, e Lncreaio poco più di sopra, in un altura
donde potea vedere l’ armata com. pagna. Era disegno de’ Romani di venire
quanto prima a giornata per decidere subitamente, e visibilmente la guerra. Ma'
il capitano Sabino temendo di attaccare in pieno giorno la baldanza e la
robustezza romana, sempre ferma, contro ai casi anche più duri, deliberò di
investirla di notte. Quindi facendo preparare quanto era necessari a riempire
le fosse, e trascendere il vailo, quando ebbe pronto tutto, voleva tor seco il
6or deU r esercito, ed assalire nel primo sonno le trincee de’Ro mani. Su tal
disegno avea fatto intendere all’ armata di Fidene che quando si avvedessero
del giunger suo venissero anch’ essi dalla città, ma con armi leggere : ed avea
posto in luoghi opportuni gli agguati con ordine, che se andavano dei rinforzi
a Valerio dall’altro campo, uscissero loro alle spalle e gli assaltassero fra
strepito di voci e di arme. Sesto con tale risoluzione, istruitine e trovativi
pronti li centurioni, non aspettava che la opporiobità. Ma un suo disertore
venuto al campo romano disse di quella trama al console. Giunsero non molto
dopo i cavalieri con dei Sabini che usciti a far legna furono presi.
Interrogati questi separatamente c/te mai preparasse il lor capo, risposero,
che scale e ponti : ma che dove, o quando fosse per valersene, non lo sapeano.
Valerio ciò udendo spedi Marco alr altra armata per divisare a Lucrezio che vi
comandava r animo dei nemici, e come si dovessero questi assalire. Poi
chiamando egli stesso tribuni e centurioni, dicendo quanto avea raccolto dal
disertore, e da’ prigionieri ; confortandoli ad esser magnanimi, e credere cb’
era giunto alfine il tempo sospirato onde prendere' su’ ne mici una luminosa vendetta
; prescrisse ciocché dovessero fare, diede i segni, e rinviò ciascuno alla sua
schiera., XLII. Non era ancora la notte a mezzo, quando il duce Sabino fatti
levare i soldati, ne condusse il fiore al campo romano, imponendo, a tutti che,
taciti, avanzassero senza strepito di arme ; perchè i nemici non si avvedessero
di loro prima che fossero giunti. Or come i primi a procedere furono vicini al
campo, nè videro ivi lume di fuochi, nè voci vi udirono di sentinelle, assai
riprendeano di stoltezza i Romani, quasi tralasciata ogni gtiardia, se la
dormissero : c già riempiute le fosse in gran parte, le passavano senza
ostacolo alcuno. I Romani però si teneano, non veduti si per le tenebre, ma
schierati nello spazio tra i valli e le fosse, e quando chi le passava era loro
alle mani, uccidevanlo. Rimase alcun tempo occulta la rovina di chi precedeva a
quei, che seguivano. Ma non si tosto quei eh' erano vicini alle iosse videro
col chiarore della luna che nasceva, i mucchi incontro de’ cadaveri de’
compagni, e le schiere valide de’ nemici che resistevano; gettarono le armi, e
fuggirono. Allora alzato i Romani un altissimogrido, perchè quel grido era
segno all’ altra armata, corsero in folla su loro. Lucrezio a quei clamori,
spediti subito 1 cavalieri per ispiare se ci aveàno insidie nemiche, si mosse
indi a poco egli stesso col fiore della fanteria. Imbattutisi i cavalieri con
gli usciti da Fidene per insidiare, li fugarono: ma la fanteria perseguitava)
ed uccidevali, : ornai disordinati e sena’ arme, quelli che erano venuti ad
assalire il campo romano^ Morirono in teli òombaltimenti circa tredici mila tra
Sabini ed al leali, rimanendone prigionieri! quattro mila dugento: ed il campo
loro fu preso nel giorno medesimo. la stoltezza, e chiamandoli degni di morte quanti
ve ne erano, giacché nè erano grati pe’ beneGzj, nè faceano senno pe’ mali ; ne
batterono alla vista del pubblico culle verghe, e poi vi uccisero i più
cospicui per nobiltà. Quanto agli altri lasciarono che albergassero come prima,
ponendo a coabitare con. essi la guarnigione che era decretata dal Senato, e
dandole parte de' terreni tolti a quelli. Dopo ciò ritirarono le truppe dalle
teiTe nemiche, e trionfa• rono secondo il decreto del Senato. E tali furono le
geste di, questo consolalo. Creato consolo Publio Postumio Tuberto per la
seconda volta, e con esso Menenio Agrippa Lanato , fecesi ma con piu schiere la
tersa Irmzione dei Sabini prima che i Romani se n avvedessero, e pro>
cedette 6n presso le mura di Roma, Risultarono da questa molte uccisioni non
solo di agricoltori romani, colti repentinamente da nembo che non aspettavtno
prima di ricoverarsi ne’ castelli vicini, ma di quelli eziandio che in città
dimoravano. Imperocché Postumio il console riputando insopportabile quella
ingiuria; uscì di tutta fretta, con truppe comunque per soccorrere i suoi, pih
animoso in vero che savio. I Sabini, visto con quanto dispregio, disordinati, e
sbandati si avanzassero verso loro, e latto disegno di ampliarne ancor più la
negligenza, partirono con marcia più che ordir naria, quasi fuggissero
addietro, finché giunsero ad una selva profonda ove il resto celavasi delle
loro milizie. Or qui voltando faccia contrastettero a chi gl'inseguiva; ^ come
pure gli occultati nel bosco ne uscirono, vociferando. Ed essendo essi in buon
ordine e molti, prostesero gli altri che combattevano disordinati, sbandati,
ansanti per lo viaggio ; e rinchiusero in una pendice deserta quanti ne
fuggirono, con preoccupare le vie che menavano a Roma. E perocché già la luce
era mancata ; posero le arme presso di quésti invigilandoli tutta la notte,
sicché taciti non s’ involassero. Saputosi in città r informnio, vi fu gran
turbamento, e concorso ai muri, e. timor comune, che i nemici trasportati, dal
successo propizio, si presentassero in quella notte a An. di Rom. aSi secoado
CaioDe, a53 secondo Varrone, e Sol av. Crino.. 1 5g Roma: e là com piange vans!
i morti; qua i commiseravano li sopra vanzatt, come quelli che 'se nop erano
immaniineote soccorsi, caderebbero prigionieri per la penuria. Passatasi con
tanto mal' in cuore senza sonno la notte, Menenio, nato il giorno, armò li più
floridi per anni, e li guidò ben forniti e con ordine a liberare gli assediali
nel monte. I Sabini al vedere che ti avan> cavano non li aspettarono ; e
tolto il campo si ritirarono, pensando che bastassero loro i vantaggi presenti:
e senza indugiarsi gran tempo, tornarono festeggiando alle patrie, ricchi di
bestiami, di schiavi, di danari. XLV. Rattristati i Romani dal danno, e
credendolo causato da Postumio il console ; deliberarono di mar> ciane
sollecitamente con tutte le forze contro la Sabina, desiderosi di rifarsi della
perdita inaspettata ' e turpe j molto più che assaissimo gli aveva esulcerati
1’ ambasceria recente e contumeliosa e superba colla quale i nemici, come già
vincitori, e prenditori senza contrasto di Roma se non erano ubbiditi,
comandav.vno che rendessero ai Tarqninj la patria, cedessero ai vincitori r
imperio, e stabilissero il goverho e le leggi, come sarebbero ordinate da
questi. Aveano i Romani replicato a tali messaggi, che annunziassero alle loro
comuni che i Romani comandavano ai Sabini, di deporre le armi, di sottomettere
le loro città, di ubbidire,come per addietro, e ciò fatto di venir
supplichevoli per iscusarsi dalle ingiustizie e da’ mali onde gli aveano
violati nelle incursioni passate, se voleano pace ed amicizia : ma se ricusa
vansi a tanto, aspettassero tra non molto la guerra su le loro città. Cosi
comandando e comandati a vicenda, quando ebbero tutto in pronto ; uscirono per
la guerra. Conducevano i Sabini il -fiore de’ giovani di ogni città con arme
bellissime : e li Romani tutta la milizia urbana e le guarnigioni, concependo
che i domestici e li schiavi, e quanti superavano ^ la età militare, bastassero
in difesa di Roma e dei castelli della campagna. Cosi concentrati si
accamparono ambedue con breve intervallo fra loro non lungi da Ereto, città de’
Sabini. Come gli uni sepper degli altri o per con~ gettura dall’ampiezza degli
alloggiamenti, o per ciò che ne udivano da’ prigionieri ; si eccitò ne’ Sabini
confi denza e disprezzo inverso la scarsezza degl' inimici ; ma timore ne’
Romani per la moltitudine di essi. Pur fepero cuo^e, e pigliarono qualche
speranza su la vittoria pe’ segni mandati loro dal cielo, e per 1’ ultima
visione, quando erano 'per ischierarsi, che fu questa : Su le punte dei
lanciotti (sono queste le armi che i Romani scagliano nel farsi alle mani;
bastoni grossi che ti empion le mani, e lunghi, con ferrei spuntoni nell’ uno e
nell’ altro estremo, diritti, nè minori di tre piedi, tanto che le armi,
compresovi il ferro, somigliano ad aste mezzane ) su le ferree ponte di. questi
lanciotti, piantati tra padiglioni, brillarono delle fiamme ; talché per tutto
il campo fu luce continua come di accesi fanali, gran tempo delia notte. Ora
come gli auguri dichiaravano ( nè già era difficile intenderlo ), concepirono
che gli Dei con tal visione annunziassero loro una sollecita e luminosa
vittoria : imperocché tutto cede al fuoco, nè cosa vi è che per esso non
consumisi. E _ Dpercfac le fiamme brillarono su le armi loro; uscirono con
assai fiducia dalle trinciere, e nell’ estero di tale fi ducia, attaccatisi
combatterono, sebbene di tanto minori, co' Sabini. La sperienza eh’ era in essi
col vivo amor dei travagli, elevava li a spregiare ogni pericolo. Postumio il
primo ebe guidava 1’ ala sinistra, inteso a riparare la passata disfalla urtò
1’ ala destra de’ nemici, non curando la vita per la vittoria : e come chi
rapito è da furore, e fermo per ogni via di morire, si lanciò nel mezzo di
essi. Allora i soldati i quali erano nell’ al tr’ ala con Menenio ornai
stanchi, ornai cacciati di po sto, al conoscere che que’ di Postumio
prevalevano su gli emoli, rimbaldanzirono e turbinaronsi su gli avversar] loro.
Cosi piegò 1’ una e 1’ altr’ ala de' Sabini, e diedesi pienamente alla fuga. E
dopo la perdita delle ale nemmeno quelli che erano ordinati nel centro per
sislerono, ma forzati dalla cavalleria Romana che gli assaliva si misero in
volta. Tutti al proprio alloggiamento si riparavano, ma i Romani seguendo e
investendo, ne invasero 1’ uno e 1’ altro. C se l’esercito ne mico non fu
totalmente distrutto, ne fu cagione la notte ed il luogo della sconfitta, che
era nella Sabina. Imperocché per la perizia de’ siti chi fuggiva salvavasi in
casa più facilmente di quello che lo potesse, per la imperizia sua, sorprendere
chi 1’ inseguiva. Nel prossimo giorno i consoli, bruciati i cadaveri dei loro,
e raccolte le spoglie, e tra queste le armi abbandonate dai vivi nel fuggire, e
trasportando seco non pochi fatti prigionieri, c le robe invase' (non
compresevi quelle tolte da’ soldati ) colla pubblica vendita delle quali cose
ogaaao riebbe i prestiti, contri' baiti per la spedizione ; tornarono con una
luminosa vittoria nella patria. Quindi per decreto del Senato Tubo e r altro ne
trionfarono ; Menenio col trionfo primario sedendo su regio carro, Postumio col
secondario, e men grandioso, che chiamano della ovazione, altera'tone il nome
che era greco, sicché più non distinguesi. Conciossiaché per quanto io ne
concepisco o ne trovo in molli degli storici Romani questo trionfo chiamavasi
nelle origini Evezione da ciò che vi si praticava : ed il Senato, come Licinio
racconta, ora per la prima volta ne ideò la pompa. Differisce quest’ onor
secondario dall’ altro, primieramente perchè chi sei gode, entra la dttà colle
schiere a piedi e non sul carro come in quello: e poi, perchè non porta come
l’altro la toga contraddistinta pe’ ricami varj e per l’oro ; nè la corona pur
di oro; ma la toga candida contornata di porpora, la quale è l’ abito nazionale
de’ comandanti e de’ consoli, e la corona di alloro (a) : e se tien le altre
cose ; in questo cede al primo trionfante, che noU va collo sceturo. Postumio
poi, sebbene più che altri segnalato OTaxione tu detta originalmente evatio ;
qnindi % !a voce di Virgilio I. 6. Ea. Evantes orgia circum ducehat Phrygias.
Questo ovari era dal greco tva^nt il qnale esprimeva le accismasioni fotte con
dire ss lasserò Tarquinio, Mamilio, gli Aricini, e cbiunqae davasi per
accusatore di quella, iìuchè uditili tutti, seutenziarono essere stata
l’alleanza rotta dai Romani; e fecero intendere a Valerio che col suo tempo
discuterebbero come aveano a vendicarsi di loro che aveano i diritti calpestati
del sangue. In mezzo a tali vicende congiurarono molti servi d’ invadere i
luoghi riguardevoli di Roma, e d’ incendiarla in più parti. Se non che datone
indizio da’ complici, ne furono ben tosto chiuse le porte dai consoli, e
preoccupati i siti forti dai cavalieri. Allora quaiiU erano denunziati partecipi
della congiura presi immantinente tra i domestici, o portati dalla campagna,
perirono tutti, battuti, tormentati, crociGssi. E tali sono le cose operate in
quel consolato. Sotlentrati a tal dignità Servio ^ Sulpizio Camerino, e Manio
Tullio Longo , alcuni di Fidene con vooando de’ soldati dal popolo de’
Tarquiniesi occuparono il castello di essa, e parte uccidendo, parte esi liando
quelli che si opponevano, ribellarono di nuovo Fidene ai Romani. Venutivi degli
ambasciadori da Roma, erano per malmenarli come nemici: ma contenutine da’
seniori, gii esclusero dalla città senza udir nè rispondere. Il Senato quando
seppe tali cose' non voleva ancor far guerra co’ Latini, perchè aveva udito che
non a tutti piaceano le risoluzioni del congresso, che i poti) An. di Roma 354
secondo Catone, aS 6 secondo Varrone, a 498 STtnli Cristo] poli ia ogni città
vi si ricusavano, e perchè certo diceansi più quelli che voleano mantenere 1’
alleanza, che gli altri i quali sciogliere la voleano. Pertanto decretò che
Manio un de’ consoli marciasse con armata poderosa contro Fidene: e questi,
depredatane impunissimamente la campagna senza che niuno gli si opponesse, ne
andò coir esercito fin sotto le mura, e provvide che non più vettovaglie vi s’
introducessero, nè armi, nè soccorso niuno. Ridottisi i Fidenati a guardare le
mura, spedirono alle città de’ Latini per implorarne solleciti ajuti.
Convocarono i capi di quelle un congresso comune di tutte : e datavi di bel
nuovo facoltà di parlare ai Tarquinj come agli altri che venivano dagli
assediati, invitarono i consiglieri, cominciando da’ seniori e più cospicui, a
djcbiarare il lor voto, e come aveasi a far guerra ai Romani. Dicendovisi molte
cose, e prima su la guerra se dovesse ratificarsi, i più torbidi fra i
consiglieri insistevano perchè si riconducesse Tarquìnio al trono, e sì volasse
in soccorso di Fidene. Essi miravano con questo ad ottenere cariche di comando
militare, e mescersi ai grandi affari ; e quelli vi miravano soprattutto, i
quali cercavano in patria preminenza, e tirannide, lusingati che avrebbero ad
essi ciò procacciato i Tarquinj se ricuperavano il regno. Ma i più agiati e
miti ( ed eran questi i più accreditati nel popolo ) chiedeano che si stesse ai
patti, non si corresse ciecamente alle armi. Respinti quei che brigavansi per
la guerra dai consiglieri di pace, persuasero all’ adunanza che mandasse almeno
oratori a Roma perchè la pregassero, ed esortassero a ricevere i Tarquinj e gli
altri fuoruscili senza pena e senza memoria d’ Ingiurie : giurasse que ' sto, e
si governasse poi di suo modo. Ritirasse però r armata da Fidene ; non potendo
essi guardare con Indifferenza che i parenti ed amici loro si spogliassero
della patria.' Ma se ricusasse far 1’ una e l’altra di queste cose, le s’
intimasse, che deciderebbonsi per la guerra. Non ignoravano costoro che Roma
non pieghe rebbesi nè all’ una nè all’ altra dimanda : ma cercavano pretesti
decorosi onde romperla, sperando Intanto di rendersi col tempo e colla buona
grazia benevoli i loro contrarj. Concluso questo, fissarono un anno, ai Romani
per deliberarsi, come a sè per apparecchiarsi : e nominati gli ambasciadori
come parve ai Tarquinj; sciol sero r adunanza. Separatisi i Latini, ognuno per
la sua patria, Mamilio e Tarquinlo vedendo che i popoli propendevano alla pacej
deposero le speranze che aveano su loro come istabili in tutto. E cangialo
consiglio si rivolsero a mettere in Roma stessa una guerra interna, nè
preveduta, svegliandovi sedizione tra’ ricchi e tra’ poveri. Imperocché già
disunita vi si era, nè più riguardava al ben pubblico una gran parte del
popolo, quella principalmente dei bisognosi e degli oppressi dai debiti; e ciò
appunto per 'gli usura) che non usavano moderazione ne’ crediti, ma fin
carceravano e malmenavano i debitori come schiavi comperati. Su tale notizia
spedì Tarquinio a Roma Insieme co’ messaggeri latini persone non sospette con
oro. Intramettendosi questi co’ poveri e coi baldanzosi, e parte dando, e parte
promettendo se ivi il re sen tornasse; aveano subornato moltissimi. Àdunque fecesi
contro i3e’ potenti una congtnra de’ poveri ingenui, e de’ servi màlvagi, i
quali stimolati dal desiderio di esser liberi, e disamoratisi de’ padroni
perchè aveano punito nell’ anno antecedente i loro conservi, gl’ insidiavano.
Ed essendo malcreduti e sospetti, come se venutone il tempo essi pure gli
assalirebbero ; con piacere si diedero a chi gl’ invitava. Il disegno poi della
congiura era tale. Doveano i capi di essa occupare in una notte senza luna i
luoghi eminenti e forti della città ; gli altri poi come intenderebbero dai
gridi che gitteriano, aver loro già preso que’ siti opportuni, doveano uccidere
tra ’l sonno i proprj padroni, saccheggiare le case doviziose, e spalancare ai
tiranni le porte. Ma la providenaa celeste la quale in ogni tempo ha salvato, e
salva tuttavia Roma y fe’ traspirare i disegni al consolo Sulpizio. À lui ne
diedero indizio due già propensi a Tarquinio, anzi principalissimi nella
con> giura, Publio e Marco fratelli, della città di Laurento necessitati da
impulso divino. Imperocché si presentarono loro tra’l sonno visioni
spaventevoli, minacciandolt di pena gravissima, se non si chetavano e
toglievansi dall’ impresa. E già parca loro che i rei genj gl’ incalsassero, li
battessero, e sterpassero loro gli occhi, colmandoli di altri mali terribili.
Dond’ è che spaventati e tremanti destaronsi, nè più poterono pel turbamento
aver calma nel sonno. E su le prime per togliei'si ai genj rei che li
conculcavano, tentarono i sagrifizj di propiziazione co’ quali si allontanano i
mali. Non traen> done però niun frutto, si rivolsero alla divinazione : e
celando lì disegni, perchè non eran da dirsi, cercarono solamente d’intendere
se tempo fosse da compiere cioc' chè volevano. Ma rispondendo l’oracolo eh’
essi teneano via di delitto e di perdizione, e che se non mntavan proposito, ne
perirebbero infamissimamente; investiti dal timore che altri non li prevenisse
nel portare in luce l’arcano, lo indicarono essi medesimi al consolo che in
città si trovava. Costui lodatili, con promessa grande ancora di beneficarli se
il dir loro a’ fatti corrispondesse; li ritenne ambedue presso di sè y
tacendone con chiunque. Allora introdotti in Senato i deputali latini, tenuti a
bada fino a quel giorno per la risposta, disse di concerto co' padri : amici,
compagni, andate, riferite al comun dei Latini che il popolo di Roma non
condiscese prima il ritorno al tiranno su le istanze dei Tdrguiniesi, nè punto
appresso vi si commosse irt forza di tutti i Tirreni che ciò domandavano, e
guidati da Porsena ci portavano la pià orribile delle guerre; ma che seppe
vedere i suoi campi manomessi, ed arsivi li casolari, e perfino ridursi a
difendere le sole sue mura per esser libero, e non comandato a fare ciò che non
vuole. Dite, che meravigliati ci sia^ mo che sapendo voi ciò, siale venuti a
comandarci che ricevessimo il tiranno, e ci levassimo dall assedio di Fidene,
con intimarci la guerra se ricusassimo. Cessino di opporci ornai più tali
pretesti, fiacchi, impersuasibili, di nimicitia. Nondimeno se vogliono per
questo scindersi dalla nostra alleanza e far guerra, più non s’ indugino. Data
tale risposta agli ambasciadori, ed accompagnatili per significazione di onore
fuori della città, poi disse in Senato delia occulta cospirazione ciocché
aveane appreso dai delatori : ed avutane autorità piena d’ investigare L
complici, e trovarli, e punirli, non tenne già mezzi orgogliosi e tirannici,
come un altro ridotto a tale necessità gli avrebbe tenuti, ma si rivolse a
mezzi ragionati, salutevoli, e convenienti al governo d' allora. Imperocché non
deliberò che i satelliti snoi svellessero per le case i cittadini dall’
amplesso delle mogli, de’ figli, e de’ padri, e li traessero a morte ;
considerando quanta pietà ne sarebbe tra gli attinenti nel distacco de’ cari
lor pegni, e temendo che alcuni, disperatisi, corressero alle arme, e si
necessitassero ai male a costo di sangue civile. Non deliberò che si erigessero
de’uribunali contro di essi; riflettendo come tutti negherebbero, e come non
avrebbero i giudici argomenti incontrastabili e saldi, ma semplici denunzie, e
colle quali, se credeansi, dovrebbero sentwaziare la morte de’ cittadini. Ma
per sorprendere i novatori ideò tal metodo, per cui li capi si adunassero prima
spontaneamente in un luogo, e quindi arrestati vi fossero per argomenti
indubitabili, che non lasciavano mezzo a discolpe : ideò che fosse questo luogo
di unione non una solitudine, o ritiro, dove pochi osservassero, e
convincessero; ma il Foro, talché scoperti alla presenza di tutti ne fossero in
proporzione puniti, nè sorgesse in città turbamento nè sollevazione degli
altri, come suole ne’ castigi de’ congiurati, massimamente in tempi pericolosi.
Forse un altro, quasi poco sia bisogno di precisione in tai cose, penserà che
basti dir sommarianieute che arrestò tutti i complici de’ maneggi secreti, e
gli uccise; ma io riputando degna che ricordisi la maniera onde furono presi,
ho risoluto non tralasciarla; perciocché giudico che non basti all’ utile di
chi legge le storie conoscere il termine solo de' fatti, (piando brama piuttosto
ognuno che gli si espongane le cagioni, le guise delle operaxioni, i pensieri
di chi praticavate, e come i Numi li favorissero ; nè gli si taciano le
conseguenze che per natura vi si congiungono. Molto più ch’io vedo essere tali
cognizioni necessarie agli uomini di Stato, perchè abbiano d^lì esempj co’
(piali dirigersi ne’ varj casi. Or questa fu la maniera ideata dal console per
l’arresto de’ congiurati. Chiamati i più validi de’ senatori ordinò che al
segno convenuto occupassero in città con seguito di amici e di parenti i luoghi
forti ne’ (piali per avventura abitavano : istruì poi li cavalieri a tenersi
armati nelL' case più acconcie intorno del Foro, e compiere ciocché sarebbe lor
comandato. E perchè nella presa de’ cittadini i loro fautori non si elevassero,
nè ci avessero interne stragi nel tumulto, scrisse al console che assediava
Fideoe, perché al far della notte marciasse col fior dell’ esercito alla volta
di Roma, e lo accampasse nelle alture intorno de’ muri. Ciò preparato; impose
ai delatori che venissero circa la mezza notte nei Foro ai capi de’ congiurati
con i compagni loro più fidi come a ricevervi 1’ ordine, il posto, ed il segno,
in somma come per udirvi ciascuno ciocché avrebbe egli a fare. Or ciò appunto
si fece. E poiché tutti questi si furono accolli nel Foro; immantinente al
darsene di un segno arcano per essi, i luoghi foni farooo pieni di uomini,
armatisi per la patria ; e r intorno del F oro fu guardato da’ cavalieri,
sen.ia che via vi lasciassero per chi volea ritirarsene. Intanto Manio r altro
console si presentò coll’ armata in campo Marzo. Nato appena il giorno i
consoli, cinti da uomini di arme, recaronsi ai tribunali, e fecero che i
banditori ~ invitassero pe’ quadrivi il popolo a parlamento. Concorsa la
moltitudine, le rivelano il maneggio sul ritorno del tiranno, e le presentano i
delatori. Quindi concedendo che si difendesse chiunque volea per ambigua 1’
accusa, nè volgendosi pur uno a respingerla ; passarono dal Foro in Senato per
chiedervene la sentenza dai padri: e presa e scrittavela ; tornati al popolo
gliela pubblicarono, e tale ne era il tenore. Si desse ai due denunziatori la
cittadinanza, e dieci mila dramme di argento a testa, e venti jugeri de’
terreni del pubblico ^ e se così ne paresse al popolo si prendessero i complici
della congiura, e si uccidessero. E ratificando il popolo quel decreto,
ordinarono che uscissero dal Foro quanti vi erano per 1’ adunanza : e chiamati
i littori colle arme, intimarono che dessero morte a tutti li congiurati : e
quelli, circondandoli ; appunto ov’ eran già chiusi, trucidarono li colpevoli.
Uccisi questi, non che ammettere le incolpazioni su degli altri partecipi, ne
assolvettero qualunque era salvo ancora dal supplizio ; e ciò per togliere ogni
turbolenza da Roma. Cosi finirono quei che aveano macchinata la congiura.
Appresso il Senato ordinò che tutti si purificassero per essere stati ridotti a
sentenziare la morte de’ conci ttadini : nè concedersi loro d’intervenire alle
sante cose ed ai sagrifizj, prima di esserne rendati mondi e tersi colle
espiazioni consuete. E poiché da quei che dirigono le cose divine, a norma
delle leggi della patria fu compiuto quanto ricercavasi per sanliGcarli,
decretò che ia rendimento di grazie si facessero sagriGcj e giuochi agonali per
tre giorni. In questi giuochi sacri e denominati di Roma Mauio Tullio 1’ uno
de’ consoli caduto tra la pompa dal carro sacro nei circo, ne mori da indi a
tre giorni : e perchè poco rimaneva dell’ anno, Sulpizio tenne in questo tempo
il consolato senza collega. Furono designati consoli per l’anno seguente Publio
Veturio, e Publio Ebuzio Elva. E di questi Ebuzio fu incaricato delle cose
politiche le quali sembravano abbisognare di cure non tenui, perchè i poveri
non facesservi mutamento. Veturio poi menando seco metà dell! esercito, devastò
le campagne de’ Fidenati senza che ninno gli ostasse : e postosi all’ assedio
della città, davate assalti continui. Ma non potendola espugnare con questi, la
cinse di vallo intorno e di fosse per sottometterla colla fame. E già ne eran gli
abitanti nelle angustie, quando venne un soccorso di Latini spedito da Sesto
Tarquinio, e grano, ed arme, ed altre cose utili per ia guerra. Cosi
ringagliarditi osarono uscire dalla città con forze non piccole, e mettersi in
campo aperto. Allora non più giovò pe’ Romani la cir convallazione ; ma parve
che vi bisognasse una battaglia. Diedesi questa vicino alla città ; pendendone
qualche Ad. di Roma aS5 secondo Catone, 357 secondo Varrone, s 4 o 7 av.
Cristo.. l'jj tempo dopo l’ esito incerto. Infine, quantunque più copiosi di
numero, sopraiTatti i Fidenati dalla fermezza Romana ne’ travagli, acquistata
col molto esercizio, fu> rono ridotti alla foga. Non fu la strage loro
copiosa, per essersi tra non molt^ ritornati in città mentre gli altri respingevano
dalle mura chi gl’ incalzava. Dissipatesi dopo ciò le truppe ausiliarie sen
partirono senza avere punto giovato gli assediati ; e la città ricadde ne’ mali
e nella penuria di prima. Intanto Sesto Tarquinio marciò con un armata Latina
sopra di Segni dominata da’ Romani come per occuparla a prira’ impeto^ Ma
resistendogli da entro generosissimamente, tentò di stringerli ad abbandonarla
almeno per la fame. Se non che spesovi gran tempo senza opera niuna degna di
ricordanza, e giunte vettovaglie e rinforzi dal canto ? dei consoli ; ne perde
la speranza ; e ritirandone 1’ armata, ne sciolse l' assedio. > • LIX. Nell’
anno seguente i Romani elessero consoli Tito Largio Flavo e Quinto delio
Sicolo. delio, dolce per indole e popolare, fu messo dal Senato con metà dell’
armata su le cose politiche per vegliare contro dei novatori: Largio ordinate
milizie e stromenti da imprender gli assedj, parti per la guerra co’ Fidenati ;
E spossatili colla diuturnità dell’ assedio, e col disagio di ogni cosa,
desolavali ognora più, minando i muri, ei^ gendo terrapieni, avvicinando
macchine, nè lasciando di e notte di stringerli, tanto che sen prometteva in
breve il t. I i All. >li Roma lS6 secondo Catone, aSR eecondo Varroue, •
/Jg6 avanti Cristo] di espugnarli. Né le città Latine, su le quali contando ì
Fidenati trovavansi in guerra, potevano ornai più salvarli. Imperocché niuna
città bastava sola da sé per liberarli dall' assedio: nè le forze comuni di
tutte si erano riunite ancora : ma li capi del|e città Latine a’ frequenti messaggi
de’ Fidenati rispondeano sempre di un modo, cioè che presto giungerebbe loro il
soccorso: non però mai nino fatto moveasi pronto su le promesse, né le speranze
scintillavano più in là delie parole. Nondimeno i Fidenati non diffidavano in
tutto de’ Latini: ma persistevano su la espettazione di essi affronte di tutti
i mali, sopialtutto della fame, la quale facea senza combattere strazio grande
degli uomini. Spedirono, è vero, alfine come stanchi da’ mali a chiedere al
console tregua di un numero certo di giorni per deliberare intanto su la pace
co’ Romani, e sui modi onde riordinarla. In realtà però ciò non cbiedeano per
deliberare, ma per fornirsi di compagni di arme, come alcuni disertati di
fresco da essi indicarono, giaoché nella notte innanzi aveano spedito i
cittadini loro più cospicui, e più validi tra’ Latini, perchè iu forma di
oratori suppbcassero quel popolo. Largio, ciò saputo, ingiunse agli ora tori
che deponessero le armi e spalancassero le porte, e poi favellasser di tregua :
iu altro modo non pace, non armistizio, non moderazione, non umanità
presumessero dai Romani. Frattanto provvide che gli ambasciadori deputati ai
Latini. non rientrassero in città ; preoccupando con guardie rigorosissime le
vie che vi conducevario. Tal che diffidatisi gli assediati di un ajuto
qualunque degli alleali si videro astretti a pregar veramente l’iaimico. B
riunitisi, conohiusero di soiTrire la pace, comunque il vincitore la desse.
Altronde il console ( tanto i costumi de’ capitani di que’ tempi respiravano 1’
amor della pa> tria, e tanto erano lontani dalle maniere tiranniche che
pochi san fuggire de’ capitani presenti, invaniti dal C 0 i mando I ) il
console sebbene prendesse la città niente vi permutò di voler suo : ma fattala
deporre le armi, e presidiatala, conducendosi a Roma e convocando il 3^ nato,
lasciò che esso ne deliberasse. Lieti i Padri del rispetto del valentuomo verso
loro dichiararono che i più nobili dj Fidene secondo che il console li giudi
casse capi della ribellione, si battessero colle verghe, e ei decapitassero :
su gli altri poi disponesse egli stesso come glien parrebbe. Largio divenuto 1’
arbitro di tutti sparse in vista del pubblico il sangue, e confiscò li beni di
alcuni pochi accusati dal partito contrarlo; ma concedè che gli altri ritenessero
la patria e le robe loro, e solamente ne dimezzò le campagne, poi dispensate a
sorte tra’ Romani lasciati in guardia della fortezza. Alfine dopo ciò
ricondusse in casa 1’ esercito. LXI. Risaputasi fra’ Latini la espugnazione di
Fidene, ogni città ne fu sospesa e tremante, e mal soddisfatta de' capi suoi ;
come tradito avessero li confederati. C fattosi consiglio in Ferentino, quei
che persuadevano la guerra, assai vi accusarono gli altri che la dissuadevano.
Erano de’ primi Tarqulnìo, e Mamilio il genero di lui e li capi tra gli
Aricini. Rapiti dal dir loro, quanti erano i Latini, vollero generalmente la
guerra contro de' Romani, e diedero scambievole giuramento, che tiiuua l8o
città tradirebbe il comune, nè farebbe pace sema il consenso delie altre
decretando : che qualunque non os-> servasse i patti decadesse dalla lega
alla esecrazione e nimicizia di tutti. Sottoscrissero e giurarono questi patti
i deputati degli Àrdeati, degli Aricini, dei Boiaiani, dei Bubentani, dei
Coresi, dei Corventani, dei Gabj, dei Lavrentini, de' Laviniesi, dei Labiniani,
de' Labicani, de' Nomentani, de' Moreani, de' Prenestini, de' Pedani, dei
Querquetulani, de' Satricesi, de' Scaptini, de’ Sezzesi, de' Teliini, de'
Tiburtini, de'. Tuscolani, de' Tolerini, de' Trienni, de' Veliterni. Doveansi
scegliere tra gl’ idonei alle armi, tanti in ogni città quanti ne parrebbono ad
Ottavio Mamilio e Sesto ^ Tarquinio, i quali erano generalissimi nominati. E
per giustifìcare ancor più li titoli della guerra spedirono a Roma da ogni città
li personaggi più insigni come oratori. Venuti questi in Senato dissero : che
quei della Riccia si richiamavan di Roma, perchè qucuido i Tirreni mossero
contro loro la guerra, essa non solo die a’ primi libero il passo per le sue
terre, ma li coadjuvò su quanto era d' uopo, ricoverandoli mentre poi ne
fuggivano e salvandoli tutti, inermi e feriti : eppure non ignorava che quelli
portavano guerra al corpo tutto della nazione : e che se avessero domalo
Dioaigi nel namerare questi popoli siegue l’ordine dell’ alfabeto latino e non
del greco : del resto numera popoli quando nn tal Bruto nel lib. VI. di quest'
opera § 74 dice ebe furono trenta i popoli latini concorsi a tal guerra.
Dovrebbero dunque additarsene altri sei. Nel codice Vaticano si numerano ancora
i Tolerini che noi abbiamo ugualmente allegali nel testo. La nomenclatura per
quanto aia stata emendala non par libera ancora da ogni storpiatura.. ' i8r la
Riccia; niente pià gli avrebbe impediti, sicché non soggiogassero le altre
città. Pertanto annunziavano che se Roma voleva darne conto a quei della Riccia
nel tribunale comune de’ Latini, e rimettervisi al giudizio di tutti, non
avrebbon essi cagioni di guerra. Ma se tenendosi all alterigia sua consueta
ricusava affatto condiscendere sul giusto e su V onesto inverso de’ confederati
; minacciavano che i Latini tutti la moverebbero con tutte le forze la guerra.
LXn. A tale invito il Senato alieno di fare cogli Ari cini una causa dov’ essi
giudicherebbero, e dove prevedeva che i nemici non sentenzierebbero di questo
sola mente, ma vi aggiungerebbero ordinazioni ancora più gravi, decise che
accettava la guerra. Argomentava dal valore e dalla sperienza de’ suoi tra le
arme che Roma non incorrerebbe in danno ninno: apprendendo però la moltitudine
de’ nemici, sollecitò più volte con ambascia tori le città vicine per
confederarsele ; se non che spe divano i Latini ancora nelle stesse città
legazioni che accusassero a lungo Roma, e la contrariassero. Gli Err nici
adunati a consiglio di stato diedero all’ una e alr altra ambasceria risposte
sospette nè salutevoli, dicendo che per ora non si vincolavano con alcuno; ma
voleano posatamente discutere qual de’ popoli seguisse causa più giusta, e
prendeansi per discuterne un anno. I Rutoli in contrario promisero senza arcano
mandare soccorsi ai Latini : ma dissero che se Roma volea deporre le
inimicizie, essi mansuefar ebbono i Latini, e ne concilierebbono gli accordi.
Risposero i Volaci che si stupivano della impudenza de’ Romani ; perciocché
sapendo essi quante volle gli avessero offzzl conTenlftnti a pcgnere ^elfa
tnrblo ratiBcò; dando t principj certi di una tirannide a norma : Quindi i capi
del Senato si fecero a considerare lungamente e providamente il personaggio che
avrebbe a comandare. Paiea loro che vi fosse necessità di un nomo espedito
negli affari, più che perito nell’ arme, e savio, e temperato, sicché poi non
> delirasse per l’ampiezza del comando; insorama di uno il quale oltre le
belle doti, quante ai buoni comandanti si convengono, sapesse presieder con fortezza,
nè cedere mollemente alle istanze. Di un uomo tale appunto abbisognavasi
allora. .Videro concorrere doti siffatte quante seu chiedeano in Tito Largio,
uno de’ consoli ; laddove delio il collega, uomo altronde buonissimo, non era
nè attivo, nè bellicoso, nè imponente, nè temuto, ma edite troppo in punire chi
non ubbidiva. Nondimeno il Senato prendea .verecondia di levare a que^o
un’autorità che aveva secondo le leggi, e di concentrare .nell’ altro il potere
di ambedue, anzi un poter più che. regio. .Teniea per qualche maniera che delio
riflettendovi, non si gravasse della rimozione sua, come disonorato dai Padri ;
e camhiale le maniere del vivere, si ponesse alla testa del popolo, c turbasse
dal fondo la repubblica. Esitando tutti, e gran tempo, per la verecondia di
proporre ciocché ideavano, un seniore, venerabilissimo tra gli uomini
consolari, diede un tal suo parere, per cui fu salvo l'onore di ambedue li
consoli, scegliendo essi appunto il personaggio più acconcio al comando. Diceva
: Poiché il Senato ha risoluto, ed il popolo ha ratificato che il poter del
comando si affidi ad un solo, restano ai Padri due cure non picciole : chi
debba sottentrare ad una autorità pari alia monarchia, e chi possa
legittimamente nomiruuvelo. Or egli suggeriva che l’uno de’ consoli sia per
cessione, sia per sorte', eleggesse il romano più idoneo, a far 1’ utile e il
bene della patria: giacché trovandosi allora in città magistrati sacrosanti,
non vi abbisognavano gl’ interré come nella monarchia, per eleggere di accordo
chi succedesse al comando. ' i Applaudivano tutti al partito, quando levatosi
un altro disse : Ali sembra o Padri che debbasi alia sentenza aggiungere: che
reggendo di presente la repubblica, due valentuomini, de’ quali non trovereste
i migliori, V uno 'debba dare la nomina, e l’ altro riceverla, talché scelgati
essi fra loro il più idoneo ; e C uno e i altro se ne abbia onore e
soddisfazione uguale, quello perchè sceglie nel collega il più degno, c questa
perchè scelto sen trova : dolcissime e bonissime cose ambedue. Ben vedo che
sebbene io non avessi ciò aggiunto ; pure avrebbono i consoli così DWaiGI, toma
II. il praticalo ; egli è meglio^ nondimeno che il facciano eziandio col vostro
volere. Parve a tutti ciò detto a proposito, e niuno più notandovi altra cosa,
ne decretarono. I consoli ricevuto il potere di eleggere fra loro il più idoneo
al comando, fecero una mirabilissima cosa, e ben varia dalle affezioni dell’
uomo. A vicenda r uno dicea 1’ altro, e non sè, degno del comando : così
passarono tutto quel giorno, encomiando l’ un l’altro, e insistendo ciascuno
per non comandare: tanto che gli astanti in Senato ne furono in grandi
perplessità. Sciolto il Senato, i parenti più prossimi di ciascuno, e li Padri
più venerabili recatisi a Largio assai lo stimolarono £no a notte avanzata,
dichlaraùdogli come il Senato poneva in esso ogni speranza, e dicendo che le
sue ritrosie volgevansi in pubblico danno: egli tuttavia ricusava, ora
supplicando, ed ora contradicendo. Adunatosi nel prossimo giorno il Senato, mentre
colui ripugnava, nè levavasi ancora dal suo parere su le istanze comuni, Clelio
sorge, e lo nomina, come gl’interré solevano nominare, e lascia il consolato.
Fu questi il primo che, solo, fu reso àrbitro in Roma della guerra, della pace,
d’ ogni affare, col nome di Dittatore sia per la podestà di ordinare e dettare
leggi su’ diritti e sul bene degli altri, come glien pareva e piaceva,
chiamandosi da’ Romani Editti gli ordini e prescrizioni sul giusto e su l’
ingiusto : sia per essere allora un tal. uomo detto e dichiarato da un solo e
non dal popolo secondo i riti della Ad. di Roma aS6 socondo Catone, a58 secondo
Varrone, • ar. Cristo] patria, perché comandasse. Guardaronsi dal dare al
magistrato di una città libera un nome esecrabile e grave per rispetto di
quelli che ubbidivano, sicché in odio del titolo non si conturbassero, e per
rispetto di chi prendeva il comando, sicché nè fosse costui offeso dagli altri
senza saperlo, uè gli offendesse egli co’ modi consueti nel grande potere. E
certo il nome di dittatore non bene l’ ampiezza ne significa del potere ; non
essendo la dittatura che un Dispotismo elettivo. Sembra che i Romani ne
traessero pur da’ Greci la istituzione. Imperocché gli Esimneti che chiamavansi
antichissimamente tra loro erano, come dichiara Teofrasto nel libro intorno del
regno, despoti elettivi. Li creavano le città non per tempO' indefinito o
perpetuo, ma nella circostanza, e fin quando sembrava che giovassero loro, come
li Mitilenei già scelsero Pittaco contro gli esuli, compagni di Alceo poeta.
Tennero questo metodo I primi che aveano appreso per esperienza ciò che
giovava. Imperocché nelle origini era ogni greca città sovraneggiata, non però
dispoticamente come tra’ barbari, ma secondo le leggi e le patrie consuetudini
: ed un re si avea tanto più per potente quanto era più giusto, e più fido alle
leggi, e men schivo de’ patrii costumi : ciocché s’ intende per Omero il quaì
nomina i sovrani, vindici del diritto, e de/f onesto. Tennesi lungo tempo la
signoria dei re come quella de’ Lacedemoni sotto fisse Mèi testo: intarrtXnt, e
SiftttTttrtXuf. cioè che si reruuio sul giusto e su C onesto. costituzioni. Ma
cominciando poi taluni di questi a trascendere gli usati poteri, poco
concedendo alle leggi e molto ai genj loro ; ne furono i popoli in tutto
disgustati, e rovesciarono 1’ autorità de’ monarchi, e le loro maniere : e
stabilendo leggi e creando magistrati, assunsero questi come custodi delle
città. Ma perciocché non bastavano nè a proteggere il giusto le leggi poste da
essi, nè a coadjuvare le leggi li magistrati o li comissarj che avean cura di
queste ; e percioccliè il tempo col volger suo mena tanta varietade ; furono
astretti a fare stabilimenti non ottimi si, ma certo i più consentanei alle
vicende che li sorprendevano o di sciagure abborrite, o di smoderate
prosperità. Per le ' quali confondendosi ' lo stato della città, e bisognandovi
un pronto riparo ed un arbitro immediato, furono necessitati a rialzare
l’autorità dei monarchi e dei re, velandone coi nomi la esistenza. Cosi li
Tessali denominarono Tettar' ~ chi questi arbitri, e gli Spartani li chiamarono
Armosti per timore d’ intitolarli tiranni o monarchi : aggiungi. che teneano
per cosa scellerata rinovare poteri abattuti tra giuramenti ed esecrazioni su
1’ oracolo de’ numi. Quindi, come ho detto, a me sembra che i Romani
prendessero da' Greci l’esempio: Licinio però crede che i Romani ideassero un
dittatore a norma degli Albani ; scrivendo cbe questi, venuta meno la regia
discendenza dopo la morte di Numitore e di Amulio, eleggessero annui presidenti
col potere appunto dei re, ma con titolo di dittatori. Io non ho voluto
esaminare onde Roma derivasse il nome, ma sibbene onde pigliasse la idea dell’
autorità che in tal nome si ' addita. Se uon che forsb non è pregio dell' opera
che scrivasi di ciò più luDgameate. Ora dirò brevemente ciocché Largio il primo
dittatore facesse, e con quale apparato decorasse la sua dignità ;
persuadendomi che siano più utili ai lettori le materie appunto che porgono in
copia esempj splendidi ed opportuni pe’ legislatori, e capi de’ popoli, in
somma per quanti vogliono governare e maneggiare il pubblico Imperciocché non
io prendo a descrivere le istituzioni > e li modi di una città vite e
negletta, né li consigli e le pratiche di uomini ignobili e di niuna
espettazione, sicché lo studio mio su tenui e volgari cose paja ad altri
frivolezza e molestia : ma di una città legislatrice di tutti, e di capitani
che la sollevarono a tanto potere; cose tutte che se un amante della sapienza
giunga a non ignorare ; ne sarà per politico ravvisato. Investito Largio appena
del suo potere dichiarò maestro de’ cavalieri Spurio Cassio, già console nella
olimpiade 70. Osservavasi tal costume da’ Romani fino a’ miei giorni, e ninno
mai, scelto per dittatore, ne tenne la dignità senza maestro de’ cavalieri.
Quindi a rilevare la potenza di una tal dignità, per imporre piuttosto che per
osarne, ordinò che i littori marciassero per la città con fasci e scuri secondo
il costume ivi proprio de’ re, tralasciato poscia da’ consoli, e primieramente
da Valerio Poplicola per diminuire la odiosità del comando. Spaventati con
questo ed altri segni di regia dominazione i turbolenti eà i novatori, comandò
a lutti i Romani di adempiere la migliore delle leggi .di Servio Tullio,
sovrano popolarissimo, cioè di assegnare per tribù li loro beni, li nomi delle
mogli e de’ figli, e la età loro e de’figli. Terminato in breve il registro per
la severità de’ castighi, perdendosi da’ contravventori i beni e la
cittadinanza ; si rinvennero cento cinquanta mila settecento e più Romani
adulti. Poi separando gli uomini di età militare dai provetti, e riducendoli in
centurie ; li divise tutti, fanti e cavalieri in quattro parti : e ritenutane
una, che era la migliore, per sé, fece che delio già suo collega nel consolato
se ne eleggesse un altra qualunque tra le rimanenti : che Spurio Cassio il
prefetto de’ cavalieri avesse la terza, e Spurio Largio il fratello la quarta ;
la quale fu comandata trattenersi e presidiare insieme co’ vecchi la città.
Egli poi, com’ ebbe pronto quanto bisognava per la guerra, menò le milizie in
campo aperto; appostando tre armate ne’luoghi appunto donde sospettava che i
Latini uscirebbono. E considerando esser proprio de’ savj capitani fortificare
le sue cose come debilitare quelle del nemico, e terminare le guerre senza
battaglie e stenti, o certo col minimo danno delle milizie ; anzi considerando
che sciauratissime e luttuosissime più che tutte sono le guerre tra’ popoli
amici e congiunti ; concludeva che si aveau queste a finire con tratti di
clemenza piuttosto, che di rigore. Adunque spedendo occultamente persone non
sospette ai più riguardevoli de’ Latini, li persuase a rendere la pace alle
loro città: e spedendo insieme apertamente ambasciadori ad ogni città, come
alla rappresentanfa generale di tutte; ottenne senza difficoltà che non tutti
avessero più l’antico ardore per la guerra; alienandoli principalmente cogli
ossequiosi modi e co’ benedzj dai duci loro. In opposilo Mamilio e Sesto, che
aveano da’ Latini rice TUto il generai comando, riunite nel Tnscolo le forze,
si apparecchiavano come per piombare su Roma ; se non che spesero su ciò gran
tempo o che aspettassero le città le quali tardavano, o che non buoni
apparissero loro gli auguri santi. Intanto alcuni di loro spiccatisi dall'
esercito devastavano la campagna romana. Largio, risaputolo, spedi delio su
loro col fiore dei cavalieri e de’ soldati leggieri : e costui, presentatosi
inaspettatamente, gli assalì, e ne uccise, imprigionandone la più gran parte.
Largio curatine li feriti, e guadagnatiseli con altre amorevolezze li rinviò
senza offesa o prezzo al Tuscolo ; mandando riguardevolissimi romani ton essi
per ambasciadori. Or questi operarono che si sciogliesse l' armata latina, e si
facesse tra le città la tregua di un anno. Largio, ciò fatto, ricondusse l’
armata dalla campagna: e designando i consoli depose prima che ne spirasse il
tempo la dittatura senz’ avere ucciso, o bandito, o ridotto comunque a gravi
mali un romano. Cominciato T invidiabile esempio da un tal uomo si mantenne in
quanti ottennero poi quella dignità fino alla terza generazione prima della
mia. Imperocché la storia fino a quest’ epoca non presenta ninno il quale non
esercitasse quella dignità moderatamente e qual cittadino, quantunque Roma
fosse astretta più volte a sospendere le magistrature ordinarie, e concentrare
tutto nelle mani di un solo. E non sarebbe gran meraviglia se personaggi ottimi
della patria pigliando la dittatura solamente nelle guerre cogli esteri si
fossero tenuti incorrotti nella grandezza del potere: ma pigliandola nelle
sedizioni interne, grandi e molte, per togliere I sospetti di regni e tirannidi
rinascenti, o per altra sciagura, lutti, quanti la ottennero, conservaron
sestessi iqiniacolati, e simili al primo dei dittatori. Tanto che tutti
unanimemente conclusero che la dittatura era 1’ unico rimedio contro de’ mali
intrattabili, e 1’ ultima speranza dii salute quando sparse sono le altre
speranze. dalla procella. Quattrocento anni però dopo la dittatura di Tito
Largioj a memoria de’ Padri nostri parve tal carica biasimevole ed esecranda
per Lucio Cornelio Siila che primo ne abusò, vendicativo e 6ero : talché li
Romani allora sentirono a prova, ciocché aveano prima ignorato, che la signoria
de' dittatori non era se,, notk liran nide : imperocché costui ordinò un Senato
di uomini comunque, infìacchi 1’ autorità del tribunato, devastò città intere,
distrusse e creò regni, ed altre cose fece e disfece dispoticamente, le quali
lungo sarebbe a raccontare. Oltre i cittadini uccisi in battaglia, ne trucidò
nemmeno di quaranta mila, datisi a lui prigionieri, dopo averne prima
tormentati alcuni. !Non è questo il tempo di discutere se egli fe’ ciò
necessitato o per utile del comune : solamente ho voluto dimostrare che ne
divenne abominato c spaventevole il nome di dittatore: ciocché pur succede ad
altre cose ammirale e disputate dagli uomini, non che alle sole dominazioni:
perciocché tulle le cose appariscono belle e giovevoli se bene si .adoperino,
come danncvoli c turpi se mal si dirigano ; di (he ne è causa la natura che in
lutti i beni ha sparso i germi dei male ; se noa die di tali cose diremo
altrove più propriamente. L’ anno prossimo a questo nella olimpiade 'j i ^
nella quale vinse allo stadio Tisicrate Croloniatejessendo Ipparco F arconte di
Ale ne, presero il consolato Aulo Sempronio Atratino e Marco Minucio. Li anno
prossimo a questo nella olimpiade 71. nella quale vinse allo stadio Tisicrate
Crotoniate essendo Ipparco arconte di Atene, presero il consolato Aulo
Sempronio Atralino e Marco Minucio , ma niente vi operarono degno di
ricordanza, nè in città nè fra le armi : perciocché la tregua co’ Latini dava
loro placida calma cogli esteri, e la legge decretata dal Senato di sospendere
la esazione dei prestiti, finché la guerra imminente avesse buon termine, avea
sopito le somfi) Àn. di Roma aS7 secondo Catone, 259 secondo Vairone, • 4
recchi per la guerra. Il complesso de’ Romani era vo- lentei'oso e
propensissimo a combattere ; ma il più dei Latini eravi disanimato e forzato :
dominando per le città uomini quasi tutti corrotti dai doni e dalle prò messe
di Tarquinio, e di Mamilio, rimossi dalle cure pubbliche quanti favorivano il
popolo e ripudiàvan la guerra. Cosi non più dandosi a chi la volea la facoltà
(li discorrere, si ridussero i più corucciati a lasciare in copia la patria, e
fuggirsene in Roma. Nè quelli che dominavano ve gl’ impedivano, ma teneansi
obbligatissimi ai competitori, dell’ esilio spontaneo. Li riceveano i Romani e
compartivano tra le milizie interne, e mescbiavano alle coorti urbane quanti ne
venivano con mogli e figli, ma spedivano gli altri a' castelli intorno e per le
colonie, sopravvegliando intanto che non facessero' mutamenti. E consentendo
tutti che bisognavaci novamente un arbitro assoluto il qual potesse ordinare a
suo modo ogni cosa, fu nominato dittatore Aulo Poslumio il console più giovine
da Virginio il collega : e costui, come già 1’ altro dittatore scelse per suo
maestro de’ cavalieri Tito Ebuzio Elva, e registrati in poco tempo tutti i
Romani già puberi, ordinò la milizia in quattro parti, reggendone egli 1’ una,
dandone a reggere la seconda a Virginio il compagno nel consolato, la terza ad
Ebuzio il maestro de’ cavalieri, c An. di Roma aSS secoado Catone, aCo secondo
Varrone, • 4e essi agevolerebbero ossea più le cose loro. Se non che mentre
deliberavano ancora giunse coll’ armata sua da Roma Tito iVirgiuio r altro
console, marciato improvvisamente nella notte dinanzi : e prese anch’ egli
campo in altra altura assai forte. Di modo che i Latini rimasero intracchiusi,
nè più idonei ad un assalto, avendo a sinistra il console e a destra il
dittatore. Adunque tanto più sen conturbarono tra quelli i capitani i quali non
voleano se non partiti sicuri, e temerono che tardando si riducessero a
consumare le loro provvigioni, le quali non erano molle. Postumio notando
quanta fosse la imperizia loro nel comandare spedi Tito Ebuzio maestro dei
cavalieri col nerbo de’ cavalli e de’ soldati leggeri ad .occupare un monte
rilevantissimo in su la via, per la quale recavansi i viveri dalle loro terre
ai Latini. Andò questa milizia espedita con la cavalleria, e condotta di notte
tra selve non frequentate ; prese il monte prima che i nemici se ne
avvedessero. V. I capitani nenuci osservando invasi anche i posti forti che
erano loro alle spalle, nè più avendo speranze buone sul trasporto indubitato
de’ viveri da’ paesi loro, deliberarono respingere i Romani dal monte prima che
vi si assicurassero ancora cogli steccati. Adunque Sesto r un d’ essi presa la
cavalleria vi si lanciò con impeto ; quasi la cavalleria Romana non si tenesse
a ribatterlo : ma tenendosi questa bravissimamente contro gli assalitori, Sesto
durò qualche tempo ora dando voi ta, ora tornandole a fronte. Ma perciocché
quel luogo riusciva opportunissimo a chi ne avea le alture, e costava assai
travagli e ferite a chi vi si recava dabbasso ; e perciocché giungeva ai Romani
un soccorso di milizia legionaria mandata appresso da Postumio ; egli ritirò,
non potendo altro fare, la cavalleria negli alloggiamenti. I Romani
impadronitisi appieno del luogo, si misero a fortificarlo pubblicamente. Dopo
ciò parve a Sesto e Mamilio ndn essere più da indugiare gran tempo, ma doversi
decidere la sorte con una pronta battaglia : e parve allora anche al dittatore
di esporvisi, quantunque avesse ne’ principi ideato di dar fine alla guerra
senza combattere, sperando giungere a ciò, specialmente per la imperizia de’
capitani. Imperciocché da’ cavalieri custodi delle strade furono sorpresi de’
messaggeri che andavano dai Yolsci a’ Latini con lettere di avviso che, indi a
tre giorni al più, verrebbe milizia copiosa di rinforzo da loro, come altra
dagli Eroici. Or ciò ridusse i duci Romani a venire, sebbene contro il
proposilo, a pronta giornata. Datosi da ambe le parti il segno della battaglia
; si avanzarono gli uni e gli altri al campo intermedio, e cosi vi ordinarono
le armate. Sesto Tarquinio ebbe a reggere 1’ ala sinistra de’ Latini, ed
Ottavio Mamilio la destra. Tito 1’ altro figliuolo di Tarquinio comandava il
centro óve erano i disertori e fuorusciti Romani. La cavalleria divisa in tre
parti fu dispensata alle ale ed al centro. In opposito Tito Ebuzio ebbe 1’ ala
sinistra de’ Romani contro di Ottavio Mamilio, e Tito Virginio il console si
contrappose colla de stra a Sesto Tarquinio; Empiva de’ genj suoi Postumio
stesso il dittatore 1’ armata di mezzo, e moveala contro Tito Tarquinio ^ e gli
esuli da Roma j i quali eran con lui. Il complesso delle milizie venute a
combattere erano ventiquattro mila fanti e tre mila cavalieri nella parte
Romana, e quaranu niila fanti, e tre mila cavalieri nella Latina. VI. Quando
erano per andare a combattere i capitani Latini, aringando ognuno i suoi,
diedero mille eccitamenti di coraggio, e ricordarono lungamente ciocché bisogna
al soldato. Dall' altra parte il Romano vedendo cbe i suoi temeano come quelli
che cimentavansi con gente assai più numerosa, e volendoli sollevare da quella
paura, fe’ radunarli, e poi tra corona di senatori, onorabili per anni e per
credito, cosi concionò : Gli Dei cogli aitgurj, colle viltime, con ogni segno
divinatorio promettono alla nosti'a patria Li libertà, ed una propizia
vittoria; contraccambiandoci della pietà verso loro, e della giustizia
esercitata da noi verso gli altri in tutta la vita : per lo contrario, inìmici
sono, come deano, de' nostri nemici, perchè tante volte e tanto da noi
beneficali, essi parenti, essi amici nostri ', essi legatisi a noi di
giuramento per avere appunto gli amici stessi ^ i nemici, ora spregiato ogni
vincolo, ci movono una guerra ingiusta non per decidere qual di noi si abbia la
preminenza e il comando, ciocché sarebbe il meno de mali ; ma in favor dei
timnni, e per fare la patria nostra che è libera', schiava ai Tarquinj. Ora
intendendo voi o centurioni e soldati, che militano con voi gli Dei, quelli
stessi che hanno sempre difesa Roma, si con^ viene che rnagnanimi vi
dimostriate in questa battaglia : molto più che ben sapete che gli Dei
favoriscono i bravi combaltitori, quelli che quanto è da loro fan tutto per
vincere, e non quelli che figgono i 'pericoli, md quelli che li sostengono per
salvare' sè stessfi Inoltie a voi sono apparecchiati dalla sorte altri mezzi
non pochi per la vittoria, e tre soprattutto manifèstissimi. Vn. Il primo è la
fedeltà scambievole, requisito principaliss'tmo in chi disegna vincere l’
inimico ; imp^ciocchè non' dee già cominciar • questo giorno a rendervi amici
fidi e costanti; ma la patria ha da tanto tempo preparato' a voi tutti un tal
bene. V oi allevati in urta terra, educati di una maniera sagrificate agl’ Iddj
su di altari medesimi :. e voi avete fin qui partecipato i tanti beni e
sperimentato insieme i tanti mali, i quali rinforzano, anzi rendono
indissolubili, le amicizie fra gli uomini, quante volte presentasi loro un
cimento comune su gravissime cose. In secondo luogo, se voi soggiacerete .ai
nemici, già non sarà che alcuni di voi restino immuni, altri subiscano r
estrema degl' infortunj ; ma tutti, sì, tutti perderete la gloria vostra, f
impero, ' la libertà j noit più padroni delle mogli, non più de' figli, non più
_ •' delle sostanze, non più altro bene vostro qualunque. ^ E li vostri capi,
li vostri pubblici magistrati ‘ miserandamente moriranno tra flagelli e
tormenti. Se già non offesi da voi punto nè poco, fecero a voi tutti ogni
maniera cT ingiurie ; e che mai potete aspeltarvene ora se vincano, nella
memoria che hanno de’ mali ; che gli avete ridotti fuori della patria, che gli
avete spogliati de’ beni, nè consentile che tornino alle case, paterne ? L’
ultimo de’ mezzi indicàtir, nè minore degli altri se rettamente sen giudichi,,
è che noi troviamo le cose tra’ nemici men prospere che non pensavamo. E certo
vedete voi da voi stessi che tolto gli Anziati, niuno è qui per soccorrerli
nella guerra. Noi concepivamo che verrebbero per essi tutti i Eolsci ; e Sabini
ed Ernici in copia, e mille altre vane paure ci i fingevamo. Erano questi tutti
sogni de’ Latini, immaI ginati su promesse vane, su speranze senza base. Quindi
altri nel meglio ne abbandona la causa, spregiando r euUorità de’ sì belli capitani:,
altri li terranno ^ anzi a bada che li soccorreranno, temporeggiandoli con
lusinghe ; e quelli che or si apparecchiano, come tardi per la battaglia,
inutili diverranno. Che se alcuni di voi pensano che giusto sia I ciocché io
dico, eppur temono. la quantità de' nemici, j. a I I €onoscanò per una breve
iilruzione, o piuttosto ricordo, che essi temono non temibili cose. E prima
conside\ tino che il pià di' loro è stato forzato alle arme contro di ìtoi,
come ce lo ha con tante opere e detti mànìfestato ; e che gli spontanei, quelli
che di lor piacere combattono pe’ tiranni sono ben pochi, e piuttosto una parte
insensibile rimpetto di voi. Appresso considerino che le guerre guidale a buon
successo non la superiorità' nel numero, ma nella fortezza. E lunghissima opera
sarebbe ricordar quanti eserciti di barbari, quanti di Greci, tuttoché
preminenti di numero, siano stati disfatti da piccioli corpi e quasi non
credibili a dir. Ma tralascio gli esempj altrui : dite ^ quante guerre non
avete voi ben guerreggiato con armata minore della presente, e contro
apparecchi assai pià potenti di questi ? Dite ; voi fin qui teiribili agli
altri che avete combattuti e vinti, siete ora voi dispregeiSbli a questi
Latini, ai Folsci loro alleati, perchè non vi han essi mai sperimentato Jra le
arme ? Sapete pure voi tutti quante volte i nostri padri gli hanno in campo
superati ambedue. E vi par verisimile che la condizione da’ vinti sia dopo
tante perdite migliore, e peggiore sia quella de' vincitori dopo tanti
bellissimi fatti ? E chi,' se abbia mente, chi mai dirà questo ? Anzi ben io mi
'stupirei se alcuno di voi paventasse questa turba ove si pochi sono li bravi,
e spregiasse la milizia nostra si forte e si numerosa ; che nè pai' numerosa nè
pià forte mai ne abbiamo finora schierato in battaglia. Che pià : deve, o
cittadini ì esservi impulso grandissimo a non temere, nè ricusare i pericoli t
ejsere come vedete qui pronti ai pericoli, e correre con voi la sorte stessa
delle arme i primarj de’ senatori, quelli che la età o la legge gli esenta
dalla milizia. Che^sl; che egli sarebbe vituperoso che -uomini nel fior degli
anni temessero i pericoli quando i provetti gli affrontano, Avran cuore i
vecchi di ricevere per la patria la morte se dare non là possono ai nemici; e
voi li sì. vegeti, voi che ben potete • f una e l’ altra cosa, o salvarvi e
vincere senza danno, o certo magnanimamente operare, e soffrire, voi non
vorrete nè cimentare la sorte, nè la Jama .procacciarvi de’ valorosi F No, ciò
di vói non è degno, o Homani, ai quali sopravvanzan tante mirabilissime gesta
degli antenati, le quali niuno loderebbe mai quanto basta : e se voi vincerete
questa guerra, i vostri posteri ancora si gioveranno di tante vostre
gloriosissime imprese. Ma perchè nè sia senza frutto chi si delibera K alle
grandi azioni ; nè si trovi col danno chi ne teme i rischj oltra il debito,
udite prima d incorrerla, Indite qual sarà la sorte dell’ uno e delt altro.
Chiunque ìlei combattere imprende belle e magnanime gesta ne sarà da chi ’l
vede encomiato ; ed io, quando dispenserò li premj che .ciascuno' -dee
raccoglierne. secondo il costume della patria j quando. darò insorte le, terre
pubbliche, io costui ne appagherv, sicché pià di nulla abbisogni. Al contrario
chiunque nel cuor suo vile, offensivo de’ numi, si deciderà per la fuga, costui
si troverà per me colla morte che fogge ; chè ben è meglio per esso e per altri
che un tale cittadina perisca : e così perendo, non che attere i funebri onori
eia tomba ^ si resterà, non emulato' nè pianto, in abbandono agli uccelli e
alle fiere. Con ioli previdenze, andate : combattete alacremente ; e V abbiate
per guida alle grandi azioni la speranza buona, chè dato a questo cimento un
termine generoso, come tutti desideriamo, avrete ottenuto amplissimi beni,
avrete liberato voi dal timor dei tiranni, avrete, come doyeasi, corrisposto
alla patria, che chiedea la gratitudine vostra per avervi generati e nudriti,
avrete operato eh i teneri vostri figli, le vostre mogli non sqffrano oltraggio
da nemici, e che ì vecchi vostri genitori vivano in calma il picciolo avanzo di
vita. Felici voi d quali riservasi tornare da questa guerra col trionfo, mentre
li figli vostri' ve ne aspettano, e le spose, e li genitori. Quanto sarete
celebrati, quanto ' invidiati pel coraggio di dare voi stessi per là patria !
Tutti deano morire valentuomini o no] ma il moribe con dignità' e CON GLORIA
NON È PROPRIO CHE DE' VALENTUOlilNIAncora egli continuava tali detti magnanimi
; quando ecco spargersi nell’ esercito un ardore divino, e tutti ad una voce gridare
: ardisci, e guidaci. E qui Postuniio encomiando la loro prontezza; e votandosi
agl’ Iddj, se avea buon successo nella guerra, di fare grandi e sontupsi
sagrilìzj, e ^lendidissimi giuochi da rinnovarsi in. Roma ogn’ anno rilasciò le
milizie perchè si oi'dimssero. Quindi come i duci diedero il segno e le, trombe
l’invito a ^mbattere; lanciaronsij gridando, quinci c quindi prima i soldati
leggeri e li oavalietà, e poi le lej^ioni le quali aveano schierameotd ed armi
consimili. Fecesi di tutti una mischia vivissima, ^dottasi tutta al dar delle
mani. Tennesi questa lungo tempo contraria alla espcttazione di ambedue,
sperando gli Ubj e gli altri che non avrebbero nemmeno a combattere, ma che a
prim’ impeto forarebbero, ed intimorirebbero rinunieo; i Latini alhdati alla
cavalleria loro numerosa quasi i’ urto ne fosse irreparabile alla cavalleria
Romana; e li Romani aU’andarne audaci c spregianti ai perìcoli, quasi cosi
avessero a soprailare l’ inimico. Non ostanti tali primitivi concetti degli uni
su gli altri, vedeano tutti seguire il contrario. Quindi considerando che il
mezzo di salvarsi e di vincere era la propria fortezza non la paura de’ nemici
; militarono bravlssimamente anche sopra le forze ; e varie ne furono le
vicende e le sorti. XI. Primieramente li Romani del centro dov’ era il fiore
de’ cavalli con Postumio dittatore, e'dove combatteva egli stesso tra’ primi,
cacciano di posto i loro compettitori dopo ferito con uno strale in una spalla,
cd inabilitato a valersene, Tito l’ uno de’ figli di Tarqurnio ; sebbene
Licinio c Gellio senza esaminare le cose verisimili e possibili, suppongano
esser questo che militando a cavallo restò ferito lo stesso re Tarquinio, uomo
più che nonagenario. Caduto Tito, le sue milizie .\nofaa Tito Lhrio i di questo
parere, quantunque avesse considerata la difficoltà degli anni : ^li scrìve in
Postumiwn prima inacìesuos aiihortantem i/utruentemtfua, Tarquinius super but
quamquam jam alate et viribus crai graiùar equnm infestas admitil. Nà SODO
mancsti altri re che in quella ^ fornivano tutti gl' incarichi del regno o
còmbattevano. Massiuissa fu I’ uno di.questi, cd .àntea re degli 'Setti mori
combattendo, vecchio pi4 (he di novant’anni tennero fronte alcun tempo, e
sollecite ne raccolsero vivo il corpo, non però fecero altro più di generoso,
ma rinculavano incalzate via via da’ Romani, 6nchè soccorse da Sesto l’ altro
6glio di Tarquinio co’ fuorusciti Romani, e da truppa scelta di cavalieri si
arrestafono, e tornarono su l’ inimico. Cosi ripigliato Corano combattevano questi
nuovamente. Intanto negli altri coi> pi segnalandosi più che tutti i duci
Ebuzio e Mamilio, fugando ovunque volgeansi chi resisteva, e rior dinando i
loro se scompigliavans! ; vennero a disfida in fra loro : lanciatisi 1’ uno su
l’ altro portaronsi colpi gravissimi, ma non mortali, Ebuzio spingendo 1’ asta
per la corazza al petto di Mamilio, c Mamilio traforando il braccio destro di
Ebuzio: tanto che ne caddero ambedue da cavallo. Portali amedue fuori della
battaglia Marco Va lerio che era un’ altra volta luogotenente anzi il più
vecchio, prese le veci di Ebuzio maestro de’ cavalieri : ma contrastando colla
sua la cavalleria nemica, e contenen dola per breve tempo, infine fu violentato
e respinto assai lungi ; perocché gèinsero in ajuto al nemico i fuorusciti
Romani a cavallo, o di milizia leggera: e Maiadìo stesso riavutosi dalla
percossa era tornato in campo con cavaleon Filippo Macedooe. E Luciioo scrive
che Tarqptinio superbo più che nonagenario viveva robustissimo in Coma. Forse
Licinio e Gellio non son dà riprendere. Dee poi notarsi, che Tarquinio; anche
secondo Dionigi, visse più di novani’anni. Vedi § ai di questo libro. ' Cioù
Mamilio nell’ ala destra de’ Latini ed Ebutio nella sinistra de’ Romani, percbù
già stavano appunto in queste aie ; uù Diouigi lia (inora dello che avessero
cambiato posto. lerla numerosa e col nerbo de’ soldati espeditì ; anai in
questa pugna cadde trafìtto da un’ asta Io stesso luogotenente Valerio quegli
che il primo avea trionfato de’ Sabini, e rialzato lo spirito di Roma infìacchito
pei danni ricevuti da’ Tirreni : e con lui pur caddero altri molti nobili e
valorosi Romani. Sorse sul caduto corpo di esso una lotta vivissima facendosi
scudo allo zio li due Publio e Marco, fìgli di Poplicola. Or questi
consegnandolo intatto colle armi sue, mentre respirava ancora, ai scudieri
perchè Io riportassero agli alloggiamenti; lanciarono sestessi in mezzo al
nemico spinti dall’onta ricevuta e dall’ardore dell’ animo : ma piombando d’
ogn’ intorno i fuoruscili su loro, alfine carico r uno e r altro di ferite mori
(a). Dopo tale infortunio r armala Romana fu cacciala di posto, ed assai
malmenata dalla sinistra fino al centro. Il dittatore al conoscere che i suoi
fuggivano, ben tosto si staccò per soccorrerli con i cavalieri che aveva d’ intorno
: e dato ordine a Tito Erminio di andare coll’ ala della caval Intende il
Valerio fratello di Valerio l’oplicola: però il primo Valerio è detto tio de’
fìgli di -Poplicola. Il Valerio del igotliti, li menò contro 1’ armata di
IMamilio, ed egli stesso avventandosi addosso di lui die era il più grande e
più gagliardo di quanti gli erano a fronte, lo uccise; ma fattosene a spogliare
il cadavere, egli ancora vi soccombò trafitto .dal brando di un tale in un
lato. Sesto Tarquinio, duce dell’ala sinistra Latina, resistendo tuttavia tra
tanti mali, avea cacciata di posto 1’ ala destra de’ Romani : come però vide
Postumio venire su lui col uei'bo de’ cavalieri, disperatosi corse in mezzo a’
nemici. E qui circondato da’ fanti e da’ cavalieri ed investito, quasi una
fiera d’ ogu’ intorno, mori, ma non senza averne anche egli stesi molti di
quelli che lo investivano. Caduti i duci, pienissima fu la fuga de’ Latini, e
la presa de’ loro alloggiamenti, abbandonati pur dalle, guardie. Dicchè i
Romani se n’ebbero molti e belli vantaggi. Gravissima fu la perdita de’ Latini,
tanto che moltissimo ne decaddero : e la strage fu tanta, quanta mai più per
addietro ; imperocché di quaranta mila fanti e tre mila cavalli, come ho detto
di sopra, nemmeno dieci mila tornarono salvi alle case. XIII. È fama che in
questa battaglia si rendesser vi_sibili al dittatore, ed al seguito suo due
cavalieri adorni del Gore primo di giovinezza, grandi e belli assai più 2i8
delle antichità.’ romane che la condizione non sostiene dell’ uomo ; e che
ponendosi alla testa della cavalleria romana, peKotessero colle aste i Latini
che le si avventavano, o' li sospingessero a rapidissima fuga. E fama è
similmente che dopo la fuga de’ Latini, e la presa de’ loro alloggiamenti,
presso al crepuscolo vespertino, appunto quando la zuffa ebbe fine, si dessero
a vedere in abito militare nel F oro romano due giovani altissimi, e vaghissimi
', spirando in volto ancora 1’ ardore della battaglia, dalla quale venivano, e
reggendo cavalli, molli di sudore. Dicesi che smontati l’ uno e 1’ altro da’
cavalli, lavavansi nell’onda, la quale sorgendo presso il tempio di Vesta forma
una lacuna, picciola si, ni profonda : ma che fattisi molli intorno di loro, e
chiedendone se punto recassero di nuovo dall’ esercito, rilevarono ad ei
Ciocch’era della battaglia, e come 1’ aveano guadagnata: e che partiti poscia
dal Foro non più furono veduti da alcuno, tuttoché seu facesse ricerca
grandissima dal comandante lasciato in Roma Come però nel giorno appresso
riceverono i capi della città lettere dal dittatore, e conobbero 1’ assistenza
dei due numi, e tutti i successi della battaglia ; giudicarono che i .due
personaggi apparsi fossero, com’ era verisimile, gl’ Iddii stessi, e
conchiusero che erano le immagini di Polluce e di Castore. Attestano la
comparigione inaspettata e meravigliosa di questi Numi, molti segni ancora,
come il tempio fondalo a Castore e Polluce nel Foro, appunto dove comparvero j
e la fonte vicina, chiamati c creduta sacra finora, e li sagrifizj magnifici
che il popolo ne celebra ogni aqno per mezzo de’ a fare nè 1’ una nè l’ altra
di queste due cose: che. era bensì, da giovine iL trasporto d’ allora per
combattere ; ma che assai più biasimevole sarebbe' il fuggirsene a casa : e che
qualunque de’ due parliti seguissero, andrebbe a genio de’ nemici. Era il
parere di questi, cbe di presenta 'si triucierassero e preparassero quanto
bisognava per la battaglia, e clic intanto spedissero ai Volaci per chiedere
che inviassero nuove forze onde pareggiare quelle de’ Romani, o che
richiamassero le altre già’inviate. La sentenza però sembrata più persuasiva e
ratificata da’ capi fu di mandare al campo romano alcuni osservatori col nome
di ambasciadori onde preservarli, li quali, complimentandolo, dicessero al
capitano, che il comune de' Volsci mandavali per ajuto de'Bomani: si doleano
però che giunti tardi per la battaglia non troverebbero uemmen gratitudine di
tanto amore, vedendo come l’aveano già vinta a grande lor sorte, anche senza
degli alleati. Con tali dolci maniere illudendo, c dandosi per amici,
andassero, spiassero, conoscessero la moltitudine de’ nemici, le arme, gli
appareccbj, i disegni. Conosciuto ciò, discuterebbesi qual fosse il migliore,
lo aspettare nuove truppe, o menare le presenti all’ assalto. Poiché si riunirono
tutti in questa sentenza, ne andarono gli oratori eletti da essi al dittatore :
e poiché recati nell’ adunanza vi esposero gl’ insidiosi loro discorsi ;
Postumio soprastando alcun tempo, alfine rispose: Voi siete o Volsci venuti qua
con rei consigli sotto belle parole,: nemici nelle opere, volete presso noi la
stima di amici. Voi foste inviati dal vostro comune ai Latini per combatterci.
Ora. non essendo voi giunti a tempo per • la bat&iglia ; anzi vedendo
questi già vinti, cercale deluderci con dirne cose contrarie a quelle che
eravate per Jdré. Ma nè sincera è r amicìzia del parlare che assiunete in vista
del tempo presente, nè sincero il titolo della vostra legazione ; ma pieno è di
malizia e d’ inganno. Non voi veniste sensibili pe nostri beni, ma per
investigare qual sia lo stato tra' noi di debolezza 'e di forza. Messaggeri ne'
detti, voi non siete che esploratori nè fatti. E negando questi, ogni cosa,
soggiunse che presto li convincerebbe. E qui produsse le lettere dei Volsci
intercettate da lui prima delia battaglia, e chi le portava ai duci dei Latini,
nelle quali prometteano mandare a questi un soccorso. Riconosciute le lettere,
e palesato dai prigionieri il comando che aveano ; arse la moltitudine di
manometter que’ Volsci, quali spie sorprese nel delitto. Non però volle
Postumio che essi, nomini probi, si diportassero come i malvagi ; dicendo esser
meglio serbare permesso a quelli a’, quali solcasi, che die^fes^ i loro pareti
; Tito Largio, il primo de’ dittatoti create già per l’anno antecèdente consigliò
che usassero'^ la sorte sobbriamente. Diceva ' essere encomio grahdissimo per
una città come per un uomo se rion lasciandosi corrompere dalle prosperità, le
sostiene con regola e con dignità : odiarsi tutte le prosperità, quelle
principalmente per le quali possono ingiuriarsi, e gravarsi i Vuol dire tre
anni addietro: come fu notalo da Silburgio. miseri e li sottomessi. iVon
confidassero su la sorte, essi che àveano sperimentato tante volte ne’ beni, e
ne' mali proprj, quanto fosse mal ferma e mutabile: nè Kiducessero i nemici
'alla necessità di pericolo estremo per la qualè ipesso gli uomini s’
innalzano, e combattono sopra le forze. Temessero, se prèndeano pene
irreparabili e dure su chi avea mancato, di provocarsene f ira comune di ogni
popolo sul quale aspiravano di comandare ; imperocché decaduti dalle maniere
consuete colle quali eransi rendati chiari di oscuri parrèbbono aver fatto '
della sovranità una tirannide, nqn lìn governo éd un patrocinio. Dieea che
mezzana non irremisibile è la colpa, se città già libere,• anzi usate al
comando, nOn sanno dall’ antico grado discendere. Se quei che anelano il
meglio, siano sé falliscono il colpo, vendicati immedicabilmente ^ niente
ipipedirà, che gli uomini, generati tutti con intimo amore della libertà si
distravano gli uni cogli altri. ^AggiuDgefra che assai piti nobile, assai piti
fenho è il principato^ che amministrasi tenendo i sudditi colld beneficenza '
non co’ supplizf : perciocché dà quella' nasce la benevolenza, e dà questi il
timore > e ciocché si teme, ^^si odia vivàmente per necessità di natura. Da
ultimo pregayali a pigliar per esempio le opere bellissime pqr le quali gli
antenati loro'tajfto erano encomiati'^ ' e qui ridiceva com' èssi aveano
niàgnificatò" Bonia ^à piccola, non diroccando le città prese',' nè
Spopolandole nè spegnendovi almeno gli adulti, ma riducendqle colonie di Bofna,
e concedendo la cittàdLinanza a tutti i yinti che in Jtoina vollero
domiciliarsi. Tilo Largib mirava col dir sao principalmente a questo, che si riqovasse
co’ Latini l’alleanza, com’ eravi staU,'nè più ingiuria dcun% di qualunque
città si ricordasse. Servio Sulpizio punto non contradisse intorno la pace e la
rinovazione dell’ alleanza. Siccome di oomini che aveano tr^viatot E costui
pigliandone -vesti e cibi per r esercita, ^e. scegliendone trecento .. ostaggi,
dalle famiglie più cospicue, _ parti come ^ avesse dissipata la guerra. Non
però fu, questo un dissolver!^ 'ma .piuttosto un dlHerirla, e dar causa di
apparecclij ad essi, preoccupati dal giungere loro inaspettato. Ritiratosi
l'esercito romano, si accinsero i Volaci di bel nuovo alla guerra, e munirono e
meglio presidiarono le città, ed ogni luogo acconcio da rifuggirvisi. Si
consociarono con essi per l'impresa i Sabini, e gli Ernie! svelatamente ; ma
segretamente molti altri ancora. I Latini, essendo venuti ad essi a,mbasciadori
per chiederne 1’ alleanza, li legarono e menarono a Roma. Fu sensibile il
Senato alla / costanza della lor fede, e più ancora alla prontezza colla quale
> solcano spontaneamente per esso cimentarsi, e combattere, ^^iudi restituì
loro gratuitamente, ciocché pur vedea di’ essi desideravano, ma vergognavansi
dimandare, intorno atbeimila fatti prigionieri nelle guerre eoa essi : e perchè
il dono, prendesse una forma degna de’ parenti, -li rivestì tutti con abiti
proprj di uomini liberi. Del resto fece intendere che non abbisognavasi di
sòccorso latino, dicendo che bastavano a Roma le proprie forze. per vendicarsi
de’ ribelli. E cosi risposto ai Latini'^ decretò la guerra contro de’Volsci.
Ancorò il 'Senato sedeva nella Curia, ancora considerava quali milizie
destinasse a marciare ; quando fu visto nel Foro un uomo che antichissimo di
anni, sordido ne’ vestimenti, e ha^'buto ^ capelluto ., gridava ed invocava
soccorso dagli uomini, Accorsa la moltitudine Intorno; égli postosi in luogo
donde fosse visibile disse: Io. generato libero y dopo. 'èssere finché n era la
ptà., marciato in tutte le spedizioni, dopo averi' sostenuto vent’ otto
battaglie ^ e riportato pià volte,i premj militari.,' alfine quando
sopravvennero i tempi che strinsero Jìonm alle ultime angustie fui necessitato
a prendere wi prestilo per supplire al tributo che mi si chiedeva: perchè il
mio campicetlo' era desolato da’ nemici, e le' rendite urbane tutte. per la
penuria de’ viveri mi si consumavano. Cosi non avendo come più redimere il
debito, fui condotto dal prestatore con due miei figliuoli a servire.
Comandandomi poi quel padrone non facili cose io contraddissi ; e ne fui con
moltissimi talpi battuto^ E così dicendo squarciò la lurida veste ;,e mostrò
pieno il petto di ferite, e grondanti le spalle di sangue. E. qui ululando, e
piangendone la moltitudine .?' ^1 Serrato si disciolse : e tutta la città fu
percorsa da’ poveri che. deploravano la infelice lor swte, ^ cliiedeano
soccorso da’ vicini. Uscirono allora dalle Case tutti quelli che erari servi
pe’ debiti, abbuffati le chiome, e la maggior parte colle catene alle mani,,' e
co’ ceppi nei piedi, senza che alcuno osasse reprimerli: e so altri osava pur
toccarli, erane manomesso co’ dU'ittL della, forza. Tanta rabbia in quel punto
invase il' popolo ! Nè molto dopo il popolo fu pieno di uomini che fuggivano la
forza di chi signoreggiavali.. Appio a, come .autore non ignoto de’ mali,
temette coutfa di sè le ffe della moltitudine, e s’involò, fuggendo, dal-Foro.
Ma Servilio deposta la veste contornata di porpora, e gettatosi lagrimando
appie di ciascuno ; a stento li persnase a contenersi per quel giorno, e
tornar; nel seguente, mentre il Serrato provvederebbe iij qualche modo su loto.
Cosi dipendo, Ds’ creditori e comandando al banditore di proclamare, die ninno
de’ creditori potesse trar seco pe’ debiti alcun cittadino, finché il Senato su
ciò deliberasse, e che tutti gli astanti 'ne andassero ove più /deano senza
timore ; chetò la turbolenza. Partirono allora dal Foro: ma nel prossimo giorno
vi' si riunì non solo la moltitudine della città, ma r altra ancora de’ campi
vicini; tanto che sull’ alba già .il Foro ne ribolliva. Adunatosi il Senato per
discu te re ciocché era da fare, Appio chiamava il compagno adulatore del
popolo e capo' della insolenza de’ poveri : e Servilio rimproverava lui come
austero, caparbio, e fabbro de’ mali che pativano: nè ci avea niun fine alla
disputa; Intanto latini cavalieri spronando vivissimamente i cavalli si
apprésentarono al Foro, annunziando essere già usciti 1 nemici con -.esèrcito
poderoso, e già sovrastaìre alle cime -de’ monti loro. Cosi dissero questi : e
li cavalieri, e quanti avéano ricchezze e gloria ereditaria, armaronsi in fretta,
come.su. pericolo estremo; laddove i poveri ;• sjngolarmenle gravati da’
debiti, nè toccavan armi, né -soccorrevano in alcun modo a’ pubblici bisogni:
anzi gioivano, ed accoglievano con desiderio la guerra esterna, come quella che
redimerebbe loro dai mali presenti. E se altri, gli' esortava a respingere gli
inimici, mòstràvanò a lui le catene é. li ceppi, e lo confondevano
addinrtandando, se Cosse mai degno combattere per difendersi tanto benefizio.
Anzi taluni osarono perfino dire., esser meglio servire ai -Volsci, che
soffrire i vilipendj de’ patrizj. Infine., era tutta la città ripiena di
ululàti; di tumulti, e di ogni lutto di femmine. A tale spettacolo i senatori
pregarono ii console Servilio, come più autorevole presso del popolo, a
soccorrer la patria. E costui convocandolo al Foro, dimostrò la urgenza del
tempo presente, e coiùe non ammettesse discordie civili : pregava e supplicava
che piombassero unanimi tutti sul nemico, non che tollerassero che rovinasse la
patria, ov’ èrano le divinità paterne, e le tombe. degli antenati, cose
preziosissime tutte presso i mortali. Sentissero verecondia pe genitori
incapaci a difendersi per la vecchiezza ; e pietà delle donne che bentosto
sarebbero astretti a subire gravi ed inesplicabili affronti : ioprattiitto commiscrassero
che teneri figliuoletti, cèrto non educati a tale speranza, avessero a finir
tra' le ingiio'ie e i vilipendj spietati. Quando tutti al paio concordi, tutti
al paro infiammati, avessero tolto il rischio presente; allora discutessero
comèra da ordinare un governo eguale, comune, salutevole a tulli, e 'tale, che
nè i poveri insidiassero ''agli averi, del. ricco,, nè il ricco i poveri ne
conculcasse ^ cose tutte in società dannosissime. Allora discutessero con quale
pubblica discrezione fosse da provvèdere ai poveri, con quale agli altri li
quali dopo dati i prestiti per soccorrere, ora ne erano ingiuriati : nè dalla
sola Roma si leverebbe la fede do contralti, bene principalissimo tra gli
uopiini e cuslóde dell' armouia nel corpo delle città. Dette queste e slmili
cose, quali convenivano al tempo, da ultimo provò com’ era la benevolenza sua
stala sempre costante verso del popolo^ e.pregò'che in contragcamblo, almeno di
questa, si unissero per la spedizione j essendo a' lui data ^'.amministrazione della
guerra, e quella di Ron^a alt compagno. Protestava che la sorte avÉvd così
destinate a Ipro le. parti : che il Senato tn>evalo\ assicurato di cpncedere
quanto egli prometteva al popolò;,.'eche egli aveva assicurato il Senato cìie\
il .pòpolo non tradirebbe la patria ai nemici. Ciò detto ido^ose al banditore
dì pubblicare che hiunof poiesséarrogarsi le case di quelli che rnilitassètó.
oon lui. ccfntro.^i Vblshi, nè venderle, nè impegnarle^ nè. rendet .sérVQ' pe'
contratti alcuno della stirpe di èostbro, np impedire : veruno a guerreggiare :
perwtessero pei^' Sècjondò^ i patti le 'azioni de’ pre^
stamri.'coutre'qaellijche -noli, prendeano le armi. Come i pòveri ódirono tiòj.
decisero, e lanciaronsi tutti, pienirdi ardore aUa guerra'; vchi stimolato dalla
aperto dì, guadàgnare ; cbi ..dalla benevolenza pel capitano,,^ et
gVan'.-p.firte' per. levarsi da ‘Appio e dai vilipendi; ^ersQ q^^rv lllnrra et
! màli : finché, vinsero noRofecero che lungo tempo si 'oppo’neàiercr ai
sopravvenendo’ ài ^Rqmani'laVlèro cavalleria vamente 'i, Sabini r ’e
fatta'assai' strage, ttfrnaroho a Roma conducendo seéo'in’’cópia li
prigidhln.''ETmpnb^oi cei/cati e messi nella 'carcere feSabln^éhefècaùsi a.
Roina sul titolo, di veder gli ^spettàcoli, dóveariq’ se^rido Taccordo all’ avvicinàrsi'aéi
lóro, prebccuparne ^ T luoghi piu forti : e li sagnfizj ihterrbttK per' (a
guerra fiiroho per decreto del Senato raddoppiati ; talché oc fu ^oju e riposo
nel popolo. Ancora festeggiavano 1 quand’ ecco ambasciadori dagli Arunci,
popolo che occupava i più be’ luoghi della Campania. Presentatisi questi in
Senato dimandavano' il territorio tolto dai Romani ai Volsci Eccetrani e
dispensato agli nomini mandativi per guardia della nazione : dimandavano
insieme che tal guardia si richiamasse; altrimenti verrebbero quanto prima gli
Arunci su’ Romani, e vendicherebbero tutti i mali che aveano causato ai loco
vicini. Replicarono a ciò li Romani. Ambasciadori, annunziate agli Arunci che
noi Tlomani teniamo per ^uslo che altri lasci a’ posteri suoi ciocché ha
conquistato per valore su nemici : che la guerra degli Arunci non la temiamo ;
giacché non è questa per noi nè la prima nè la più terribile : che noi
costumiamo combattere con chi vuóle per t impero e pel bene ; e se la cosa
riducasi ora all arme, intrepidamente all arme verremo. Dopo ciò movendosi gli
Arunci con esercito poderoso, e li Romani con quello che aveano sotto gli
ordini di Servilio ; si scontrarono presso la Riccia città lontana centoventi
stadj da Roma. Accamparonsi ambedue su di alture forti, e poco distanti fra
loro: e poiché vi ebbero trincierati gli alloggiamenti, scesero al piano per
combattere. Avendo Appio cosi detto, ed acclamandovelo strepitosamente i
giovani, quasi egli desse il ben della patria ; Servilio ed altri seniori
sorsero per contraddirlo : furono però sopraffatti da giovani che erano venuti
preparati ed insistevano con forza grande; tantoché prevalse inGne la sentenza
di Appio. Dopo ciò li consoli, sebbene i più volessero Appio per dittatore,
come l’unico da por freno alle sedizioni, pure lo esclusero di concerto, ed
elessero Marco .Valerio frateDo di Pubblio già primo console, uomo anriano e
popolarissimo di credito, persuasi che a lui basterebbe la terribilità della
sua carica; e che si abbisognasse più che tutto di un uomo placido, perchè non
si ^cessero delle innovazioni. ^ XL. Valerio investito della sua dignità, e
scelto per maestro de’ cavalieri Quinto Servilio fratello d> Servilio,
collega di Appio pel consolato ; ordinò che il po^ polo si radunasse a
parlamento. E raduna tovisi albra la prima volta ed in gran moltitudine, da che
guidato all’ armata erasi poi scisso manifestamente al dimettersi di Servilio
dai magistrato ; Valerio ascese in ringhiera e Qursto Valeria nel § 13 delMibro
presente si dice ucciso in baiiaali ; ed ora si desorWe colile diitaiore. Vedi
la nota al S 11 ciiaia. disse : Sappiamo o cittadini che sempre di vostro buon
grado hanno a voi comandato alcuni della stirpe dei p^alerj, da' quali liberati
dalla dura tirannide, non foste mai rigettati nelle' oneste domande^ nè temeste
violenza ; affidandovi a quelli che sembravano e sono popolarissimi infra
tutti. Pertanto non io qui parlo y quasi voi abbisognate di essere illuminati
che noi convalideremo al popolo la libertà la quale gli abbiamo da principio vendicato
: io parlo per ammonirvi solo brevemente affinchè siate pur certi che vi
manterremo quanto promettiamo. Non ammette che vi deludiamo V età nostra venuta
alla perfezione ^e men sostiene che vi ri^riamo, il grado supremo che abbiamo,
e finalmente dMbianm pur vivere V avanzo dei nostri giorni tra voi per
iscontarvela se parremo di avervi abusati. Io tralascio però queste cose
giacché non abbisognano di molto discorso tra voi che le conoscete. Ma ciò che
avendo voi sopportato dagli altri, pormi che dobbiate ragionevolmente temerlo
da tutti, nel vedere che sempre il console che v’invitava contro i nemici,
prometteavi dal innato, senza mantenervele mai, le cose, per voi necessarie ;
questo io vi convincerò che non dovete di me sospettarlo, principalmente per
tali due argomenti : prima perchè a deludervi in tal modo' mai sarebbesi il
Senato abusato di me che amantissimo sono del popolo, avendone altri più.
acconci : e poi perchè non mi avrebbe mai condecorato della dittatura per la
quale io posso concedervi anche senza di lui ciocché il vostro meglio mi
sembra. Digitized by Googli !ì5o delle Antichità’ romane. Non crediate che io
dia mano al Senato per ingannarvi f nè che io consultando con esso vinsidii. E
se voi così giudicate ; fate ciocché pià volete di me, come del più, scellerato
tra’ mortali. Ma liberate, datemi udienza, da tale sospetto gli animi vostri :
ripiegate la collera dagli amici su vostri nemici che vengono per levarvi la
patria, e per fare voi schiavi di liberi, sollecitandosi a premervi con tutti i
mali y riputati gravissimi dagli uomini. Già non lontani si dicono dalle nostre
campagne. Sorgete, accingetevi, mostrate loro che la milizia Romana in
discordia, tissai pià vale della loro, tutta unanime. Se presi noi tutti da un
ardore, piomberemo su loro ; o non ci aspetteranno, o prenderanno le pene degne
del^ r audacia loro. Considerate che i nemici che a voi portano la guerra sono
i Fblsci, sono i Sabini, quelli che tante volte avete combattuti e vinti: e che
non ora han fatto pià grande il corpo nè pià generoso di prima il cuore ; ma
che ben altro se lo hanno ; tuttoché ci disprezzino per le patrie gare. Quando
avrete punito V inimico, io vi prometto che il Senato darà buon fine alle
vostre contese pe’ debiti, ed alle oneste dimando secondo la virtù che
mostrerete nella guerra. Intanto libere siano le sostanze, libere le persone,
libera la fama de’ cittadini Romani dalle azioni de’ prestiti, e di ogni altro
contratto. Per quelli poi che combatterai!, con impegno bellissima corona fia
la patria ridiriaata, luminosa la gloria tra compagni, e pari la nostra
ricompensa a vivificar le famiglie, c magnificarne cogli onori la stirpe. Siavi
aSi esempio, ve n’ esorto, V ardor nùo verso de' pericoli : io stesso come imo
combatterò de’ pià robusti tra voi. Udì tali detti, coDsoIandosi il popolo, e
come quello che non più sarebbe deluso, promise di arrokrsi per la guerra; e
sen fecero dieci corpi militari, ciascuno di quattromila uomini. Prese ogni
console tre di questi corpi con quanta cavalleria gli fu compartita. Il
dittatore prese gli altri quattro col resto de’ cavalli. Ed apparecchiatisi ben
tosto, marciarono a gran fretta Tito Velurio contro gli Equi, Aulo Verginio
contro i Volaci, ed il dotatore Valerio contro de’ Sabini; rimanendo a guardia
della città Tito Largio co’ più vecchi, e con piccolo corpo di giovani. La
guerra co' Volsci ebbe prontissima risoluzione : imperocché necessitati a
combattere, pensando gli antichi mali, e come aveano milizia più numerosa,
piombarono i primi, anzi pronti che savj, su’ Romani, appena si videro
accampati, gli uni dirimpetto degli altri. Attaccatasi vivissima la battaglia,
fecero molte magnanime cose ; ma scontramdone ancor più terribili, fuggirono
finalmente. Il loro campo fu preso, e Velletri loro città principale fu ridotta
per assedio. Lo spirito poi de’ Sabini fu invilito ancor esso in brevissimo
tempo, essendosi 1’ una e 1’ altra parte deliberata a campale battaglia. Dopo
ciò la campagna fu saccheggiata, e presi alcuni villaggi, ove i soldati
acquistarono schiavi e roba in copia. Gli Equi all’udire la fine de’ compagni,
riflettendo la propria debolezza An. iti Roma a 6 o secondo Catone, 363 secondo
Varrone, a Ì93 av. Cristo. si misero su luoghi forti ; e ritirandosi alia
meglio per le cime di monti e balze presero tempo e mantennero alcun poco la
guerra. 'Non però poterono ricondurre illeso r esercito, perchè sopravvenendo i
Romani arditissimamente su pe’ dirupi ; ne espugnarono a forza il campo. Dond’
è che fuggirono dalle terre de’ Latini, e le città si ridiedero colla facilità,
colla quale erano^ già state prese al giungere del nemico. Alcune però furono
espugnate, non cedendone le guarnigioni ostinate il comando. Riuscitagli la
guerra secondo il disegno, Va lerio trionfò, com’ era 1’ uso, per la vittori^ e
congedò la milizia, quantunque non paressene al Senato tempo ancora, afBnchè i
poveri non esigessero le promesse. Quindi a diminuire la sedizione in Roma,
scelse alquanti di questi, e li mandò nelle terre acquistate colle arme 'e
tolte ai Volsci, perchè le possedessero, e le presidiassero. Ciò fatto chiese
ai Padri che avendo avuto il popolo tanto pronto a combattere, gli osservassero
le promesse. Non però davano questi udienza, ma si opponevano come dianzi all’
intento,; perchè li giovani e più violenti e più numerosi tra loro, fatto
partito, brigavano ancora in contrario, e chiamavano con alta voce la prosapia
di-^ lui adulatrice del popolo, e conduci trice alle ree leggi, tanto care ai
Valer] su le adunanze e su’ tribunali; 'malignando che aveano con queste annientato
tutto il potere de’ patrizj. Esacerbatone Allude alla legfi^ falla da Valerio
1’ aano 347 di Roma secondo Catone, colla quale davasi ad un privato il diritto
di appellare al popolo dai magistrali che lo aveano condannalo. Vedi 1. 5, S
9molto Valerio, e dolutosi come se calunniato a torto patisse pel popolo,
compianse il vicino fin d’ essi cbe cosi consigliavano : e com’ è verìsimile
nel suo caso, presagendo loro pi& cose, altre per passione, altre per
intendimento maggiore degli altri, s’involò dalla Curia, convocato il popolo
disse : Cittadini, dovendovi io piena riconoscenza per la prontezza colla quale
mi vi deste per In guerra ; e più. per la virtù la quale dimostraste in
combattere ; io molto mi adoperai perchè foste voi ricompensati con ogni modo,
principalmente col non essere delusi nelle promesse che io vi feci a nome de’
Padri, quando fui scelto consiglierò ed arbitro di ambe le partì, onde ridurvi
allora scissi, a concordia. Nondimeno ora sono impedito di soddisfarvi da
uomini che non mirano il bene della 'comune ma solo il proprio, almen di
presente. Questi prevalendo di numero prevagliono con una potenza che ad essi
la gioventù concede più che la perizia degli affari.' Ed io, sono vecchio come
-.vedete e vecchi pur sono i miei compagni buoni solo nel consigliare, ed
invalidi per eseguire, e la provvidenza su la repubblica sembra ridotta
propriamente a questo, che r una parte pregiudichi V altra. Io sembro al Senato
un vostro fautore, e voi mi accusate come benevolo troppo verso del Senato. 5e
il popolo innanzi carezzato da me fosse venuto meno alle promesse del Senato,
sarebbe la giustif razione mia, che voi. siete i mancatori, e non io. Ora però
non mantenendosi i patti dal Senato, mi è necessario dichiarare che è senza mia
parte quanto patite, e che io medesimo sono come voi, anzi più, di voi,
circonvenuto e deluso. Imperocché. non solo io sono offeso con ingiuria a tutti
comune, ma in ispecie con quante mormorazioni di me vanno facendo. Di me si
mormora che io per far f utile de’ privati dispensai senza il voto del Senato
a’ poveri Va voi le spoglie prese nella guerra ; che io rendei del popolo
ciocché era di tutti, e che per impedire che il Senato vi malmenasse,
licenziai, ripugnandovi lui, la milizia che dovea tenersi ancora nelle terre nemiche
fra le marce, e i Vavagli. Mi si rimprovera la spedizion de’ coloni nella
regione de’ V^olsci, perchè ho io comportilo una terra ampia e buona a poveri
Va voi, piuttosto che donarla a pcUrizj ed a cavalieri. Soprattutto mi si
provoca indignazione moltissima perchè io nel fare la leva ho assunto più che
quattrocento do’ vostri tra cavalieri ; don^ è che ricchi ne son divenuti. Se
ciò mi avveniva quando fiorivano gli anni, ben avrei insegnato co’ fatti a’
nemici, qual uomo avessero vilipeso. Ora essendo io più che settuagenario,
invalido a provedere fino a me stesso, e reggendo che non più la vostra
sedizione può da me racchetarsi ; rinunzio la' dittatura : e chi vuole, io
gliel concedo, faccia di me come giudica, se crederi comunque da me danneggiato,
XLY. Intenerirousi tutti a que’ detti e gli fecero se gulto quando parti dal
Foro. Ma questo appunto esasperò contro lui li senatori: e ben tosto ebbe tali
conseguenze. I poreri non più celatamente nè di notte, come per addietro, ma
pubblicisshnamente riunÌTansi,c trattavano di scindersi da’ patrizj. Il Senato,
disegnando impedirneli, diede ordine ai consoli di non dimetter r esercito.
Certamente eran questi arbitri ancora delle reclute, come sacre pe’ ligami de’
giuramenti militari. £ per questi vincoli ninno attentavasi di abbondonaroe le
insegne ; tanto la riverenza potea de’ giuramenti ! Alle^ gavasi per titolo
della ritenzione, che gli Equi e li Sa^ bini eransi convenuti per la guerra
contro de’ Romani. Ora essendo i consoli usciti colle schiere, ed essendosi
accampati non lontani 1' uno dall’ altro, i soldati radu naronsi tutti in un
luogo colle arme, e per istigazione di un tal Sicinio Belluto se ne ribellarono
; appropiandosi le insegne, cose tra’ Romani onoratissime e sante, come
simulacri di Numi. E creatisi nuovi centurioni, ed un capo in Sicinio Belluto;
occuparono non lontano da Roma presso 1’ Aniene un monte che sacro si chiama 6n
da queir epoca. Pregando, sospirando, prornettendo, li richiamavano i consoli
ed i centurioni ; ma Sicinio replicò: Qual fare è il vostro o Patrizj che ora
vogliate richiamare quelli che avete espulso dalla patria, e che di liberi gli
avete schiavi rendati ? Con qual credito mai ci assicurerete le promesse, le
quali siete rimproverati di aver tante volte tradito? Piuttosto, poiché volete
in città, soli, aver tutto ; andate ; abbialevelo : non vi angustiate pe'
bisognosi, e pe miseri. Per noi sarà buona ogni terra; e qualunque ne terremo
per patria, solchè vi si abbia la libertà. Annunziatesi tali cose in Roma,
tutto vi fu .\n. dì Roma a 6 o tccoudo Catone, 263 secóndo Varrone, e 49 ^ T.
Cristo. romore e pianto: e là correva il popolo, intento a la> sciar la
città, qua li patrizj cbe voleano alienameli, colla forza ancora, se
ricusavano. Soprattutto eravi clamore e pianto alle porte ; ed ingiurie vi si
facevano, come tra’ nemici, con parole e con opere, niun più riverendo nè la
età, nè l’ amicizia, nè la gloiia della virtù. Non potendo però, come scarsi, i
soldati di guardia destinativi dal Senato custodire le uscite, le abbandonarono,
sopraffatti dalla moltitudine. Allora versandosene fuora gran popolo ; parca lo
spettacolo, còme la città fosse presa. Gemeano, si rimproveravano quelli che '
restavano, vedendo che desolavasi. Dopo ciò si fecero molte consultazioni ; si
accusarono gli autori delia separazione; ed intanto correano li nemici,
depredando la campagna, 6no a Roma. Li fuorusciti presero i viveri necessarj
drile terre intorno, nè punto più le danneggiarono. Tenendosi in campo aperto
accoglievano quanti venivano da Roma, o da’ castelli intorno ; tanto che ne
divennero numerosi ; perciocché vi concorrevano, non solamente quelli che
voleano levarsi dai debiti, dai giudizj, e da altri; angustie imminenti, ma
tutti eziandio gl’ inBngardi, gli oziosi, i malcontenti ; quelli che in malfar
si emulavano, che Invidiavano l’ altrui ben essere, o che per altri mali, e
cause comunque, discordavano dal governo. XLVII. Adunque si eccitò ne’ patrizj
turbazione, ed angustia grande, e paura, come se li fuorusciti e li nemici
stranieri fossero per venire quanto prima contro di Roma. Poi, quasi tutti ad
un segno, prendendo coi loro clienti le armi, altri corsero alle strade donde
pensavano clie giungessero gl’ inimici, altri ai castelli per difenderne i
posti forti, ed altri ai campi innanzi la città per trincerarvisi, e quei che
per la vecchiaja non poterono iàr nulla di ciò, furono distribuiti per le mura.
Come però seppero che i fuoruscili nè si univano coi nemici, nè saccheggiavano
la campagna, né faceano altro danno considerabile, respirarono dalla paura ; e
mutato pensiero, esaminarono come si riconciliassero. Suggerirono i capi del
Senato mezzi di ogni genere, diversi per lo più fra loro; ma li più anziani
suggerirono i più discreti, e più convenienti ai tempi ; facendo riflettere che
il popolo twn ti era separalo da loro per malizia, ma in forza de proprj mali,
o delle promesse non mantenutegli, e che auca così risoluto V utile suo
piuttosto tra la collera che tra la calma della ragione, vizio consueto nella
ignoranza. Aggiungevano che i più di questi conoscevano di avere mal
deliberato, e cercavano emendarsene, se il buon punto ne avessero iiche già ne'
ei^an le opere come di chi si pente ; e che volentieri tornerebbero nella
patria se potessero, augumrvisi un avvenire felice, dando loro il Senato
perdono, e pace decorosa. In mezzo a tali consigli supplicavano che essi che
erano i gratuli non sentisser la ira più che i minori’, nè differissero stolti
a riconciliarsi allora .quando fossero necessitati a far senno, e curare il
male più piccolo col più grande, vuol dire, quando' avessero a tedere le armi,
e le persone, e togliersi da sè stessi la libertà : cose tutte quasi
impossibili a farsi. Usassero moderazione, pròponessero i primi gC ulili
consigli, e la riunione, avvertendo che se era proprio de' patriiù] comandare e
dirigerò ; era propria ancora de' buoni C amicizia e la pace. Mostravano che la
dignità del Senato non minorasi quando provede alla sicuiozza col sopportare
pazientemente le perdite necessarie ; ma quando opponesi tanto ostinatamente
alla sorte che la repubblica ne rovini : gli stolli trascurare la sicurezza per
amor del decoro : ben essere da ceivare ambedue queste cose : ma dove sia da
cedere V una o C altra, doversi la salvezza riputare più necessaria. Era
l’intento li tali consiglieri che si mandasse a fuorusciti per trattar della
pace non altrimente che se la colpa loro non fosse insanabile. Piacque cosi
appunto al Senato ; e scelti personaggi accontissimi, li diresse a quelli che
erano in campo con ordine d’ intenderne i bisogni e le condi' zioni colle quali
volessero in cittlt ritornare ; perciocché se fossero discrete e fattibili, jl
Senato non le rigetterebbe : intanto se depenessero le arme, e tornassero in
Roma, promettea loro perdono e dimenticanza perpe tua di tutto il passato :
come belle ed ntili le ricompense a chi servisse valoroso, ed affrontasse
ardentemente i pericoli per la patria. Recarono gli oratori e comunicarono tali
voleri al campo, aggiungendovi cose consentanee. Non accettarono' i fuorusciti
l’ invito : anzi rimproverarono a’ patrizi T orgoglio, la dnrezza, le
simulazioni loro perchè fingevano ignorare i bisogni del popolo, e quelli pe’
quali si era separato. Ci assolvono, diceauo, da ogni pena per la ribellione,
come fossero i padroni, essi che abbisognano dell’ ajulo nostro. Quando giunga
su loro, e sarà tra non molto, con tutte le forze il nemico ; non potranno
alzare nemmen lo sguardo contr esso, e pur ci voglion far credere che non sia
bene loro t esser difesi ; ma felicità di chi si unisce a difenderli.
Aggiunsero a tal dire che se vedevano già le angustie di Roma ; comprendereb-
bero poi meglio con quali nemici avessero a guerreggiare : e qui minacciarono
molto e veementemente. Non contraddissero a ciò, ma partirono, e dichiararono i
legati a’ patrizj le risposte dei segregati: e Roma, uditele, se ne turbò ; e
temette più che per addietro. Il Senato non sapendo come espedirsi o diffenrc,
si disciolse, dopo avere più giorni ascoltate le infamazioni e le ac> cose
vicendevoli de’ suoi capi fra loro. Il popolo rimasto in Roma per benevolenza
verso de’ patrizj, o per desiderio della ..patria più non somigliava sestesso;
dileguandosene gran parte nascostamente o in pubblico > nè sembrandone il
resto affatto più stabile. Fra tali vicende i consoli, avendo poco più tempo
per comandare, fissarono il giorno pe’ comizj. Venuto il tempo nel quale
aveansi a riunire nel campo Marzo e scegliere i proprj magistrati; ninno
ambiva, nè sostenea di esser consolo. Adunque nella Olimpiade setlantesÌDa
seconda nella quale Tisicrate da Crotone vinse allo stadio, essendo arconte in
Atene Diogneto ; il popolo rielesse al consolato due vecchi consoli Postumio
Gominio e 'Spurio Cassio, uomini cari alla moltitudine ed ar grandi, da' quali
già domati i Sabini aveano lasciato di competere dell’ impero con Roma. Or
questi riassumendo il loro grado alle calende di settembre, vale a dire prima
del tempo consueto ai consoli precedenti, convocarono innanzi tutto il Senato
per deliberarvi sul ritorno del popolo. CbieslO' il’ parere di tutti ;
invitarono a dire Menenio Agrippa, uomo allora venerabile per età, credulo più
che gliaU tri insigne in prudenza, e lodato principlmente' per loi scelta de’
suoi regolamenti, perchè teneasi^al mezzo non fomentando 1’ arroganza de’
nobili, nè lasciando che i| popolo operasse tutto a suo modo. Or questi
esortando il Senato alla riconciliazione, disse r Se quanti qui siamo o Padri
Coscritti fossimo tutti di un animo; e se niuno si opponesse a far pace col
popolo, comtmque la facessimo, per giuste o per ingiuste condizùy^ ni ; e se
questo fosse proposto unicamente d diseu^ tere ; dichiarerei, con poche parole
dà che ne penso. Ma perciocché alcuni giudicano che sia dà ponderare ancora se
forse riesca più utile far guerra a fuorusciti ; non credo che io possa in ^
pocoinsinuare dà che dee farsi: ma sento il bisogno tt istruir ampiamente su la
pace quanti tra voi ne discordano. Imperocché questi conducono a cose
contraddittorie ; spaventano voi, che già ne temete, su mdli da nulla o lievi a
curarsi, e trascurano gl' immedicabili e gravi. Certamente cosi propongono
perchè non decidono delr utile colla ragione, ma col furore e coll’ impelo. E
come si direbbe che essi provvedono le cose proficue, o fattibili almeno,
quando stimano che Roma, una A^oi di Roma a6t ceoodo Catóne, o63 secondo
Varrone,e 4{)t arami Critu. a6i città si grande, ed arbitra di tante genti ^ e
già in~ yidiata e molestata da’ vicini, possa ritenerle e difenderle facilmente
senza il suo popolo, o che possa in luogo del suo sì scellerato introdurre
altro popolo che per lei combatta del principato ; che con lei sia di buon
accordo su la repubblica, e sempre moderato in pace ed in guerra ? Eppure non
altro potrebbono dirvi quei che tentano dissuadervi dalla pace. L. Ma qual sia
la più stolta di queste cose, vorrei che voi stessi lo decideste dalle opere.
Considerate, che alienatisi da voi li più poveri perchè abusaste della loro
infelicità senza modestia e senza politica, e che recatisi appena fuori della
città senza farvi o macchinarvi altro mede, col solo intento di averne una pace
non ingloriosa, molti de’ vostri nemici abbracciarono con trasporto questa
occasione come dono della sorte, e riedzan lo spirito, e credono venuto per
loro fitudmente il tempo felice da battere il vostro impero, di Equi, i Eolsci,
i Sabini, gli Etnici, questi che mai si alienano eìal farci la guerra,
esatperali ora dalle sconfitte recenti, già devastano le nostre campagne. Que’
Campani, que Tirreni die vacillavano nella nostra soggezione ora parte fi
abbandonano matdf estàmente, parte in occulto • vi si preparano. E gli stessi
LeUirti, quantunque nostri congiunti, a me non semhran procedere di buona fede,
costanti neW amicizia; ma odo che guasti sono in gran numero per amore di un
cambiamento, che tanto gli uomini alletta. Noi die abbiamo fin qui portato in
campo aperto la guerra su gli altri; noi ci stiamo or qui dentro, difensori
delle mur^; lasciando senza seminarli i nostri terreni, anzi 1 vedendovi
saccheggiali i villaggi, via levale le predo, e fuggirsene di per sestessi gli
schiavi, senza che abbiamo rimedj a tanti mali. Non pertanto noi ' tutto
soffriamo, perchè speriamo ancora che il popolo ci si riconcilj, ben sapendo
che da noi dipende il toglierecon un solo decreto la sedizione. Ma se pessimo è
lo stato nostro in campagna;, non è meno funesto e terribile dentro le mura.
Noi ' non ci siamo .apparecchiati già da gran tempo, come per un assedio, nè
bastiamo di numero contro tanti nemici. La nostra gente è poca, nè da guerra, e
plebea, per gran parte, merce nar f, clienti, artefici, custodi tton affatto
saldi dello stato turbato degli Ottimali : e le continue loro diserzioni verso
de’ fuorusciti ce li hanno rendati tutti sospetti. Soprattutto essendo le
nostre campagne dominate da nemici, ed impossibilitato il trasporto de’ viveri
; abbiamo a temer di una fame : e quando a tal disagio saremo; tanto più ci
spaventerà la guerra, la quale senza questo ancora non concede mai calma allo
spirito. Quello poi che supera tutti i mali è vedere le donne dei segregati,
vedere i teneri figli, i padri cadenti, che sqqallidi e miserandi si rigiran
pel Foro e per le vie, che piangono e supplicano e stringono a ciascuno la
destra e i ginocchi, e deplorano la solitudine loro presente e più ancor la
futura, spettacolo in véro desolante ed insopportabile ! Niuno è si barbaro che
non s intenerisca a mirarlo, e non si appassioni sul destino degli uomini. Che
se abbiamo a diffidar su plebei ; dofremo rimoverne gt individui, altri come
inutili nelr assedio, ed altri come amici non saldi. Or se questi rimovansi,
quid forza rimane in guardia di Roma ? o da quale soccorso animati ardiremo
star contro dei mali ? V unico nostro rifugio, P unica nostra buona speranza è
la gioventù patrizia : ma poca come vedete ella è questa, nè bastante a darci i
grandiosi disegni. Che dunque impazzano, quei che propongon la guer^ ra, o
perchè mai ci deludono, e non consigliano piut~ tosto di cedere fin da ora senz
ar^ustie, e senza sangue Roma ai nemici ? Ma forse io ciò dicendo son cieco, e
predico per terribili, cose che non son da temere. Roma non corre altro rischio
che di un cambiamento, cosa certo non difficile ; potendovisi facilissimamente
introdurre mercenarj e ' clienti in copia da ogni gente e luogo, posi van
divulgando molli de contrarj al popolo, uomini, viva. Dio y non dispregievolì.
A tanta stoltezza vengono alcuni ; che non propongono già consigli salutevoli,
ma desideri impossibili I Ora io volentieri dimanderei questi uomini quode
tempo mai ne si, dia per far tali cose, essendone tanto vicini i nemici : qtude
condiscendenza alt indugio o al ritardo del giugnere degli alleali in mezzo à
mali che non temporeggiano, nè aspettano ? Qual uomo, o qual Dio mai vi terrà
sicuri, o congreghem da ogni luogo in gran calma, e qui ci porterà de’ sussidj
?. Inoltre e quali tuoi saran. ' quelli che lasceranno la patria per venirsene
a noi ? Quelli forse che haruus case e Dii Lari € viveri ed onori tra proprj
cittadini per la nobiltà degli antenati, o quelli che per la gloria risplendono
de' pnoprj meriti ? E chi mai sosterrebbe di abhemdonare i proprj commodi, e
partecipare vergognosa^ mente i mali altrui ? Eppure a noi si verrebbe non per
dividere con noi la pace e le delizie, ma la guerra e i pericoli, e questi
incerti, se a bene riescano ! Convocheremo forse una -turba, qual fu quella
rigettata da noi, plebea e senza lari? Ben è chiaro che pe' disagi suoi, io
dico pe’ debiti, per le penalità, c per cause altrettali prenderà
volentierissima. dovunque una sede : ma sebbene questa plebe sia utile, c ( per
concederle questo ancora ) sebbene sia moderata ; tuttavia ci riuscirà
generalmente, assai, meno 'buona della nostra, perchè non è rutta tra nci, nè
come noi disciplinata, e perchè ignora i nostri costumi, le nostre leggi, e le
nostre maniere. celebrasi la vostra clemenza, il quale nè manda a noi per
conciliarcisi esso che à C offensore, nè porge risposte umane e socievoli a
quelli che noi stessi gli abbiamo inviati : ma s’ inalbera e minaccia, nè
lascia conoscere quello che voglia. Udite voi dunque ciò che iò consiglio che^
facciasi. lo nè penso il popolo irreconciliabile a noi > nè > ohe mai
farà quanto mincucip, ; dióchà mi sono buon argomento le opere sue che a’ detti
non somigliano. -Dond’ è che io lo credo assai piò che noi sollecito di
pacificarsi. Certamente noi abitiamo una patria onoratissima, e teniamo irt
poter nostro le sostanze di lui, le case, i genitori, a tutte le cose pià
preziose : ed egli si trova senza patria, senza magioni, senza i pegni suoi
più, cari, e senta V abbondanza ancora del .^vivere quotidiano. Che se alcuno
mi chieda perchè mai fra tanti patimenti egli nè accetti gl inviti nostri, nè
mandi a noi per istanza niuna, rispondo s ciò essere manifestamente, perchè
Digitized by Google 2G8 delle antichità’ romane fin (jid mn intese dal Senato
che parole senza vederne poi le opere o di benevolenza o di moderazione ; e
perchè crede di essere stato molte volte ingannato da noi che promettevamo di
provvedere su lui, senza avervi mai provveduto. Non ci spedisce ambasciadori
perchè son qui tanti che ce lo accusano, e perchè teme non ottenere ciò che
dimanda : e forse così gli suggerisce un ambizione non bene considerata; nè già
è meraviglia. Imperocché son pure tra noi non pochi, difficili, contenziosi, i
quali colle brighe loro non vogliono che cedasi punto ai cóntrarf, e cercano
per ogni via di sopraffarli senza mai condiscendere essi i primi, finché loro
non sottomettasi chi vuole essere beneficato. Or ciò considerando io penso che
debbansi spedire al popolo ambàsciadori, principalmente di stia confidenza : e
consiglio che questi ambasciadori siano plenipotenziarj, perchè levino la
sedizione coi patti che essi terranno per giusti, senza rimettersene al Senato.
Questo popolo che ora vi pare sì spregiante e grave, questo darà loro utlienza,
al vedere che voi cercate veramente la concordia, e ridurrassi a condizioni più
mitij senza chiederne alcuna vituperosa, o non fattibile. Imperocché tutti, e
specialmente i plebei, ne’ dissidj s' irf urtano con chi su loro insolentisce ;
ma si ammansano con chi li blandisce. Cosi disse Menenio; e levossene in Senato
gran romore, parlandovi ciascnno alia sua volta. I fautori del popolo
esortaVansi a vicenda a dar tutta la mano perchè rlpatriasse, avendo per capo
di questo consiglio il pii riguardevole de patrizj. Per Topposìto quegli
ottimati die cercavano che nulla si alterasse de’ costumi della patria mal
sapeàno ciò che avessero a fare, nò voleano condiscendere; nè poteano
ostinarsi. Nondimeno uomini integerrimi né caldi per l' uno o 1’ altro partito
voleano la pace, intenti a questo di non essere assediati tra le mura. Or qui
fattosi da tutti silenzio il più anziano dei 'ìonsoli encomiò Menenio della sua
generosità, stimo landò anche gli altri a somigliarlo nella cura della
repubblica, a dir francamente ciocché ne sentissero, e compiere senza strepitò
ciocché sen decidesse: indi nel modo stesso cercandolo dei suo parere, chiamò
per nome Manio Valerio, nomo infra tutti gli ottimati carissimo ài popolo, e
fratello all’uno di quelli che aveano liberato Roiòa dai tiranni. Costui
levatosi in piede ricordò ai Padri i suoi provvedimenti, e come avendo egli
presagito più volte i terribili casi avvenire, ne tennero pochissimo conto :
poscia esortò li contrari discutere ornai su la moderazione, ma solo a vedere (
giacché non aveano permesso che si estirpasse quando era ancor piccola ) di
racchetare ora, comunque, il pià presto, la sedizione, perchè, trascurata, non
procedesse pià oltre, e non divenisse incurabile f o presso che incurabile, e
sorgente di mali senta fine. Dichiarò che le dimande del popolo non sarebbero
come per r avanti; e pronosticò che non si accorderebbe colle condizioni di
prima insistendo per la sola remissione dei debiti, ma che vorrebbe forse un
qualche difensore, onde tenersi illeso nell' avvenire : affermava che dopo
introdotta la dittatHra era venutameno la le^e tutelare della Uhtrià la quale
non per^ metteva a’ patrizj di uccidere alcun cittadino non giudicato, nè di
cederlo giudicato reo nelle mani de’ lorocontradditori, e la quale concedeva a
chi volea V appelto f di portare le cause al popolo da’ patrizj f tanto che
quello si eseguisse che il popolo ne decidesse^ Poco mancarvi che non fosse
statà tolta al popolo tutta la potenza esercitela già da esso ne' tempi ad
dietro, quando non potè ottenere dal Senato per le imprese rmlitari il trionfo
a Pubblio Servilio Prisco, uomo infra tutti degnissimo di quest’ onore.
Pertantoben essere verisimile che il popolo cosi ojfeso sconfortisi nè abbia se
non triste speranze della sua sicurezzaj Non il console, non il dittatore aver
potuto soccorrerà il popolo, quantunque il volessero,; .anzi averne partecipale
le incurie e V avvilimento, perchè studia vansi provvedere su lui. Essersi poi
cospirati per im pedirli non uomini autorevolissimi fra li patrizj, ma uomini
oltraggiosi, avari,. acerrimi ne’ rei guadagni, quali, pe’ grandi prestiti a
grandi usure, aveano ridotto schiavi ì pià de’ cittadini ; dicea che questi
facendo loro leggi dure, orgogliose. aveano alienata tutta la plebe da patrizj
; e che datosi per capo Appio Claudio, odiatore della plebe, e propizio ai
pochi y rimescolavano tulli gli affari di Roma. E se la parte savia del Senato
non si contrapponesse, la repubblica pericolerebbe di essere schiava o
distrutta. Da ultimo dichiarò ben fatto valersi del parer di Menenio, e chiese
che si spedisse al popolo qiumto prima: procurassero i deputati quanto
volessero la calma della sedizione : ma se il popolo non accettava le dimando
loro, essi quelle accettassero del LIX. Sorse, invitato, dopo lai Appio
Claudio, uomo contrario al popolo, e grande estimatore di sestesso, nè senza
cagione. Perocché nel vivere suo quotidiano era moderato e santo, nobile nella
scelta de' provvedimenti, e tale da conservare la dignità de’ patrizj. Costui
pren dendo occasione dell’ aringa di Valerio, disse : Certamente sarebbe
Valerio men riprensibile se palesava unicamente il suo parere, senza condannare
quello de’ contrarj ; giacché non avrebbe nemmen egli ascoU tato i suoi vizj.
Siccome però non fu pago di dar consigli onde renderci schiavi ai cittadini
pili vili, ma sferzò pure i suoi contrarj, cimentando anche me ; così vedomi
necessitato assai di rispondere, e di respingere primieramente le calunnie a me
fatte. Son io rimproverato di una condotta nè' sociale, nè decorosa, quasi io
cerchi per ogni via far danari, quasi spogli molti de’ poveri della libertà, e
quasi da me sia derivata in gran parte la separazione del popolo. Ben vi è
facile però di conoscere che niente di ciò è vero, niente probabile. Or su,
dimmi, o Valerio, quali sono quelli che ho io ridotti servi pei debiti, quali i
cittadini che ora tengo nella carcere ? (filale dei fuorusciti si è privato
della patria per la durezza e per V avarizia mia ? Certo non potrai tu dirlo.
.Anzi tanto è lungi che alcuno sia da me riilotto servo pe’ debiti che. io
sparsi tra molti V aver mio, nè mi rendei schiavo, nè disonorai niuno di quei
che mi hanno defraudato : ma tutù ne son Uberi, e tutti me ne ringraziano, e
stansi nel numero degli anici e de clienti miei pià familiari. Nè ciò dico per
incolpare chi non opera come me, nè per ingiuriare chi ha faUo cose concedute
dalle leggi; nta solo per levas'e da me le calunnie. In ciò poi che mi accusa
della durezza e del patrocinio mio sui scellerati, chiamandomi odUpopolo ed
oligarca perchè favorisco il comando de’ pochi, in ciò son io da riprendere
quanto voi che avete ricusato, come pià riguardevoU, di soggiacere ai men
degni, e di lasciarvi togliere il comando dei vostri antenati da una
democrazia, pessimo infra tutti i governi. Nè già perchè egli soprannomina
oligarchia il comando de’ pochi dovrà questo disciogliersi per le beffe del
nome. E pià giustamente e propriamente possiamo noi riprendere lui come un
adulatore del popolo, ed un ambizioso di tiranneggiare. Perciocché niuno ignora
che la tirannide nasce dalle adulazioni della plebe : e che la via speditissima
a rendere le città schiave è quella che mena al comando col mezzo de’ cittadini
peggiori. Or egli ha fin qui carezzato costoro, nè tuttavia cessa di
carezzarli. Ben vedete che questi abietti, questi miseri, non avrebbero. mai
ardito d’ insolentire in tal modo se non fossero stati eccitati' da questo sì
riguardevole e bello amatore della patria, come se l’ tali trattare, Abhiam per
ostaggi le loro mogli, i loro padri, e tutto il parentado, dei quali non
potremmo ckiedtrne altri migliori dd\Numi, Questi, li collocheremo • nói,
questi al cospetto dei loro congiunti, minacciando, se tentano assafirti, di
ucciderli con estremi supplizj: ina, credetemi, dove ciò sappiano, voi li
riceverete inermi', supffikhevoli, piangenti, pronti ad ogni pena. Terribili
sono tali necessità, e frangono, ed annientano ogni baldanza.E questi sonod
riflessi -^pd quali non dobbiamo la guerra temere degli esuli. Le mirtacce poi
di altri popoli rum ora Ut prima volta si trovarono fnire in paroUf; ma 'per
^addietro ancora ci si scoprirono sempre rtùnori delt apparenza quante volte i
popoli fecero di noi paragone. M quelli che tengono per insufficienti le intime
nostre forze, e però temono appunto la guerra, quelli non bene le han
calcolate. Ai citrini da noi separati, se il vogliamo, possiamo contrapporre
scegliendoli e liberandoli, il ' fiore de’ servi. Certamente vai meglio donare
a questi la libertà, che lasciarsi torre da quelli il comando : tanto più che
stati essendo questi tante volte presenti ne’ nostri campi hanno sperienza che
basta di guerra. Per combattere poi cogli esteri usciremo ' noi stessi pieni di
ardore e meneremo con noi tutti i clienti, e tutto il resto del popolo : e
perchè sia questo ' cspedito a cimenti, rilasceremp ciascuno privatamente, e
non max per legge, ad esso i suoi debiti. Se dobbiamo in vista de’ tempi cedere
in parte e temperarci; non dee mai farsi questo con cittadini che ci s'
inimicano, ma cogli amici, perché sappiasi che noi concediamo grar zie,
eomthossi e non violentali’, che se queste non bastino, se bisognino altre
fòrze, f arem venirne dai presidii e dalle colonie: e quanta siala moltitudine
loro, è facile raccoglierlo dalC ultimo censo. 1 .Romani atti (die arme son
cento trenta mila, e di questi appena la settima tparte è fuggita ' da noi ( 1
). Non commentoro qui le' trenta città de’ Latini, le quali come voitre alleate
^ combatteranno di bonissima voglia per voi, sol che decretiate di ammetterle
alla vostra cittadinanza che > sempre .vi hanno domandata. Ora vi aggiungo'
(.e finisco ) quello che rileva fra le arme assaissimo, e che voi non avete
avvertito, o certo niun dice de’ Padri. Chi cerca il buon esito delle guerre,
di niente ha tanto bisogno, quanto di egregi capitani. Or di questi la nostra
città soprob[Questo ceuso non par quello fatto da T. Largio primo dituiorr, ma
l’altro fissato da Sigouio oell’ anno sGu di Roma, ov dice eba furono numerati
più che centodieci mila ciuaUini. benda, ma scarsissime ne sono quelle de'
nemici. Lè grandi milizie se ricevano duci mal atti alle arme, si svergognano,
e rovinano di per sestesse con danno tanto maggiore, quanto sono più numerose:
ma i buoni condottieri presto rendono grandi anche picciole armate. Di qua
seguita che fiiìchà avrem uomirU buoni al comando, mai avremo penuria di quelli
che fac cianci comandare. Or ciò considerati^, e ricordando voi le imprese di
Roma ; certo mai non porrete decreti meschini, vili, indegni. Che dunque, se
alcuno tnel chiede, ( e già forse bramate da gran tempo saperlo ) che dunque io
propongo che facciasi ? Io pro-> pongo che nè spediscansi ambaseiadori d
fuorusciti ^ nè sen decida arti, finché raccolto il voto de’ senatori SI
dedicassero ai voleri dei più. Se violato 1’ uno e r altro di questi cousigli,
faceano di lor voglia la pace ; protestavano che noi permetterebbero, ma vi si
opporrebbono di tutto lor animo, colle parole finché dovevasi, o colle arme in
ultimo se bisognava. Era que> sto partito J1 più forte, aderendovi quasi
tutta la gio ventù palriaia. In opposito piegavano al partito di Me-s uenio e
di Valerio tutù quelli che aveano cara la pace, p cbe torneano soprattutto per
1’ età loro, considerando quanti siano .nelle città li mali delle guerre
civili. Mossi però dai clamori e dai tumulto dei giovani, adombrati dall’
ambizione loro, e dall’ arroganza contro de’ consoli, e timorosi che indi a
poco si venisse alle mani se nou cedevano; si volsero in ultimo a piangere, e
supplii care, piangendo, i conirarj. Sopitosi coi tempo lo strepito, e tornato
il silenzio, i consoli abboccatisi fra loro, cosi conchiusero. Noi vorremmQ
primieramente o Padri Coscritti, che voi tutti foste unanimi d intelligenza e
di volere in^ torno la salvezza del comune : se no, che i più gio^ vani almeno
cedessero, non ripugnassero d seniori, considerando, che ancK essi giunti alT
età di questi avran pari onori dai discendenti. Ora siccome vediamo voi caduti
in una discordia, rovinosissima fra i mali umani, e sorgere qui mollo f
arroganza de’ giovani ; e siccome poco ornai soprawanza del giorno, nè possono
aver fine le discussioni ; ritiratevi dal SeruUo : tornerete in cUtra adunanza
più placidi e con sentenze migliori. Che se qui persevera l’ amore delle
contese, non più ci varremo de' giovani por giudici, né per consiglieri su '
quello che giova : ma precluderemo il disordine con una legge ; determinando la
età che aver dee chi consiglia. Quanto a’ seniori se non si uniscono ne'
sentimenti ; torneremo a dar loro la parola, e ne risolveremo le dispute per
una via speditissima, la quale è meglio che voi udiate e conosciate
precedentemente. Voi sapete che noi abbiamo fin dalla fondazione di Roma, che
il Senato è t arbitro, è vero, di ogni cosa, ma non di crearei magistrati, rum
di fare le leggi, rum di portare o cesseue la guerra ; le quali tre cose il
popolo le difinisce in "ultimo col suo voto. E siccome ora non consultiamo
che su la guerra e la pace ; cosi debbe il popolo, liberissittur ne' suoi voti
ratificare indispensabilmente i vostri decreti. Quando voi dunque avrete
dichiarato i vostri pareri, ru>i scguerulo questa legge, inviteremo la
moltitudine al Foro, perchè ne sentenza. Così le' contese avran fine ; mentre
ciò che la pluralità dei voti destinavi, quello abhracceremo. Senza dubbio son
degni di quest’ onore quelli che si tennero finora henaffetti alla patria, io
dico i compartecipi de' nostri beni e de mali. Sciolsero, ciò detto, radunania.
Fecera nei giorni appresso annunziare a tutti de’ villaggi e della campagna che
si presentassero, e similmente al Senato che si riunisse nel di stabilito ; e
qnaudo videro la città riempita di popola, e gli animi de’ patrizj mossi dalle
preghiere fatte tra le lagrime, e tra’ lamenti de’ vecchi genitori, e de’
teneri '6gli de’ profughi, recaronsi nel tempo destinato sul finir della notte
al Foro, angusto a tutta ia moltitudine. Venuti al tempio di Vulcano donde
solcano aringar l' adunanza, lodarono primieramente Il popolo dello zelo e
della prontezza nell accorrere in tanta frequenza: quindi lo esortarono che
aspettasse in calma la risoluzione del Senato; animando intanto gli attenenti
de' profughi a buone speranze, come quelli che riarrebbero tra non molto i loro
pegni dolcissimi. Dopo ciò passando in Senato vi tennero benigni e modesti
ragionamenti, ed invitarono ancor gli altri a proporre consigli vantaggiosi, ed
umani. Chiamarono innanzi tutti Menenio, il quale alzatosi in piede rivenne ai
suggerimenti di prima stimolando il Senato alla pace : e riproponendo che si
deputassero ai segregati bentosto de’ personaggi, arbitri di concordare. Invitati
poi secondo 1’ età sorsero a mano a mano gli uomini consolari: parve a tutti
questi che fosse da seguire il parer di Menenio ; finché toccò ad Appio di
favellare. Or questi sorgendo t'eggo, disse, o Padri Coscritti che piace ai
consoli e poco meno che a tutti di rimpatriareil popolo colle condizioni eh’ ei
vuole: che fra tutti i contrarj della pace or io rimangomi solo, esposto aie
odio di quello, e niente utile a voi. Ala non per questo rimovomi dalle mie
prime deliberazioni : nè ripudio da me stesso ciò che intendo su la repubblica.
Quanto piò. restomi derelitto da quelli i quali come me ne sentivano ; tanto
piò col volger degli anni ne sarò pregiato tra voi, sarò in vita coronato di
gloria, e morto sarò benedetto dalla ricordanza de posteri. Sia pure o Giove
Capitolino, o Dei presidenti della nostra città, o eroi e genj, e quanti in
guardia avete il suolo Romano, sia pur Diomcj, urna IT. i a8a. hello ed utile a
tutti il ritorno de fuorusciti, e delusa resti la espettazione eh’ io ni' avea
su 1’ avvenire. Ma se pe’ consigli presenti dee venire (e fia ciò palese tra
non molto ) alcun disastro su Roma, deh ! rettyicateli voi prestamente, e fate
la nostra salvezza. Deh ! siate benevoli e propizj a me che non avendo mai
voluto dir le piacevoli per le utili cose, non tradirò nemmen’’ ora il comune
per la mia sicurezza. Io così volgomi a pregare gV Iddj ; perchè non
abbisognano più, parole. Ripeto la sentenza di prima : assolvasi IL POPOLO
RIMASTO IN CITTa’ DAI DEBITI ; MA COMBATTANSI CON TUTTO L ARDORE I FUORUSCITI
TINCBÈ STARANNO SU LE ARMI. E ciò detto Gnl. Poiché le sentenze de’ seniori
concordaronsi con quella di Menenio, e poiché venne il discorso ai giovani ;
standosi tutti in espettazione, sorse Spurio Nauzio, un rampollo della prosapia
nobiliasima originata da quel Mauzio compagno di Enea nel guidar la colonia, e
sacerdote di Minerva m'bana, il quale nel trasmigrare aveane portato seco il
divin simulacro, dato poi successivamente in custodia a’ suoi discendenti. Ora
Nauzio che parea per le sue belle doti più nobile ancora di tutti i giovani, nè
lontano mollo dall’ ottenere la dignità consolare, cominciò la difesa comune di
questi : diceva che quando nel Senato Anche Virginio fa meniioue di questo
Nauxio, che egli chiama Pfautt, nel libro 5. Tum senior PfaMes, unum Triionia
Paìlas, Quaeitt docuit, muUaqus insignem reddidit arte, Haec responsa datai
precedente avetmo pronunziato in contrco'io de' padri non fu già per amore di
contendere o insuperbire con essi, ma solo mancando, se aveano pur mancato, per
inesperienza di anni : e qui soggiunse che farebbero fede di ciò col variar
sentimento : che lasciavano a loro come più savj decidere co’ voti il ben del
comune : essi non contrarierebbono, ma secon' darebbero i seniori. E
dichiarando Io stesso ancor gli alni giovani, toltine pochi, legati di
parentado con Appio ; i consoli ne lodarono la verecondia ; ed esorta tili ad
essere sempre tali ne' maneggi ' pubblici, elessero tra’ seniori piÀ cospicui
dieci deputati, uomini consolari tutti, fuori che uno. Furono gli eletti, Manio
Valerio, Tito Largio, Agrippa Menenio figlinolo di Gajo, Publio Servilio figliq
di Publio, Postutnio Tuberto figlio di Quinto, Tito.Ebuzio Flavio figlio di
Tito, Servio Sul picio Camerino figliuolo di Publio, Aulo Postumio Albo prima
alle tose loro quei che le aveano lasciate. Presi tali ordini, partirono i
deputati nel giorno (1^ Nel testo si omeltoDO Maoio Valerio, Tito Largio, e si
nolano altre maacaaxe in questo luogo. Noi alitiamo seguita la lesione di Porlo
medesimo. Precedè la fama il giunger loro, divulgando nel campo tutte le cose
fatte in città : dond’ è che lasciando tutti le fortificazioni uscirono
immantinente incontro a’ deputati che erano in via. Aveaci nel campo un uomo
turbolento affatto \ e sedizioso, acuto a preveder da lontano ciocché
avverrebbe, nè insufficiente, come parlator lusinghiero, a dirne quanto ne
pensava. Chiamavasi questi Lucio Giunio col nome appunto di lui che tolse i
tiranni : e voglioso di assumerne il nome per intero, facessi intitolare Bruto ancora.
Rideano i più su la cura vana di esso^ e Bruto il chiamavano quando pungere lo
volevano. Or questi mise in cuore a Sicinio, duce dell’ esercito, che il bene
del popolo non istava nel rendersi troppo facilmente, sicché men degno ne fosse
il ritorno per le umili condizioni ; ma nel resistere lungamente, simulando
come in tvia tragedia. E profferendosi egli a Sicinio di parlare in favore del
popolo, e suggerendogli altre cose che erano da fare o dire, lo persuase. Dopo
ciò Sicinio, convocato il popolo, impose a’ legati che dicessero le cagioni per
le quali venivano.Recatosi in mezzo Manio Valerio come il più provetto e
popolare, e contestatagli dalla moltitudine la sua benevolenza con grida e
saluti amichevoli, alfine, fatto silenzio, disse: Niente, o popolo proibisce
che vi riconduciate alle vostre case, niente che vi pacifichiate co’ Patrizi.
Il Settato ha per voi decretato' un ritorno utile e decoroso j e di non pià
ricordare o vendicare il fatto finora. E noi che vedeva propensissimi per voi,
come da voi rispettati, ha qui deputato con poteri assoluti di concordare :
affinchc noi non opinando nè congetturando su vostri desiderj, ma udendo da voi
stessi con quali condizioni chiedete riconciliarvici, ve le accordassimo se
moderate, se non impossibili, nè impedite da indecenza insanabile, sene’
aspettare il voto de’ Padri, e senza intristire V affare colle dilazioni, e
colla invidia dei contrari. Avendo il complesso de’ Padri così per voi
decretato ; ricevetene il dono lieti, pronti, e benevoli s pregiandone
degnamente una sorte sì bella, e ringraziando vivamente gV Iddj che Roma, la
dominatrice di tanti popoli, che il Senato, regolatore di tutto il bene che è
in essa, mentre V usanza della patria non permette che cedasi ad alcuno, cedano
alle istanze vostre solamente, nè pretendano come i più. grandi su’ men grandi
discutere minutamente quanto conviene ad ambedue, ma primi essi vi spediscano
per. la pace : che non piglìasser con ira le risposte imperiose da voi fatte ai
primi ambasciadori, ma pazientassero alt orgoglio e fierezza di una ostinazione
giovanile, come il buon padre sul figlio non savio : che volessero indirizzarvi
una seconda ambasceria, diminuire i loro diritti', e rimettervisi dove la
moderazione il consente. Giunti a tanta felicità non esitate a dime ciocché
bisognavi, e non esorbitate o cittadini : lasciate le sedizioni : tornatevi
giubilando alla terra che vi ha generati e nudriti : Allude ai scDatorì che
arrebbono perorato in contrario nei Senato. Già non le deste voi li trofei e le
ricompense pià belle, riducendola quanto è da voi solitaria, o come un campo da
pascolarvi. Se trascurate questa occasione, forse ne richiamerete pià volte la
somigliante. Taciotosi Valerio fècest innanzi Sicinio, e I disse, che chi ben
consulta non riguarda V utile da una banda sola, ma lo contempla nel suo
rovescio ancora, principalmente in affare di tanta importanza. Pertanto comandò
che chi volea rispondesse a ciò, deponendo ogni verecondia e timore. Non
permettere la natura delle cose che essi benché ridotti a tante angustie
cedessero per paura o per vergogna : E qui, fatto silenzio, e gli uni
riguardando su gli altri, e cercando chi perorasse pel comune; ninno si
presentò. Ma replicando Sia aio altre volte l’ istanza venne alfine in mezzo
secondo gii accordi quel Ludo Ginnio desideroso di essere cognominato Bruto :
ed avuto a far dò grandi significazioni dalla moltitudine, tenne questo
ragionamento : Il timore che avevate de’ Patrizj o compagni è scolpito ancora
per quanto vedo, e triorfa negli animi vostri. Abbattuti da questo timore
esitate far qui, udendovi tutti, i discorsi che usavate tra voi. Forse ciascuno
confida che il vicino suo aringherà sul comune, e che piuttosto incorrerà tra’
perìcoli ogni altro e non egli : ami che egli tenendosi in salvo, goderà senza
perìcoli parte del bene che possa mai nascere dall ardire degli altri : ma
stolto è questo concetto. Imperocché se tutti aspettiamo la stessa cosa, la
codardia di ciascuno sarà nocevole a tutti; c dove ognuno figurasi la sua
sicurezza; ivi insieme con tutti rovinerà la comune. Ma se non avete appreso
finora che per le arme ci togliemmo la paura, e per le arme avete consolidata
la vostra libertà ; conoscetelo ora almeno, ed i Patrizj, essi stessi ve 10
insegnino. Questi orgogliosi, questi durissimi uo~ mini, non vengono come prima
comandando e minacciando, ma supplicandoci, ed esortandoci a tornare alle
nostre case : e già cominciano a trattarci come liberi veramente. Che dunque or
più vi anneghittite e tacetq ? Che non la Jote da liberi uomini ? c se avete
già scosso il freno : che non dite qui ora pubblicamente ciocchò avete
sopportato da loro ? O miseri ! e quali patimenti temete ? se io stesso v
invito a parlar francamente ? Io dunque, io stesso mi rischierò di dire
liberamente per voi ciocché è ffusto, senza niente occultare. E poiché Valerio
dice che niente proibisce che vi rendiale alle case vostre concedendovisi dal
Senato il ritorno, ed essendosi decretato di non perseguitarvi ; io risponderò
a lui cose nemmeno vere che necessarie a dire. Oltre i motivi ben grandi e
varj, tre ne sono o Valerio fortissimi e chiarissimi che c impediscono di
rimetterci a voi deponendo le armi. Il primo è che venite a noi per esortarci
come traviati; e Radicate beneficenza vostra accordarci il ritorno : 11 secondo
è che invitando noi a pacificarvici, niente dichiarate le condizioni
compiacevoli o giuste su le quali possiamo ciò fare : è poi ! ultimo che niente
di quanto ci promettete sarà per essere stabile, giacchè avete continuato a
rigirarci e deluderci tante volte. Discorrerò di ciascuna di queste cose,
incominciando dai diritti ; giacché sempre dai diritti si vuol cominciare sia
che trattinsi le cose private, sia che le pubbliche. Noi dunque se ve ne
abbiamo mai fatte, noi non chiediamo nè impunità nè dimenticanza delle
ingiurie. E non yorremo piò. rio starci a parte della vostra città, ma dandoci
in balia della sorte e dei genj che ci guidino, ci fermeremo là dove .porta il
destino. Ma se per colpa vostra noi siamo ridotti alla condizione in cui ci
troviamo ; e percpè non confessate che voi li quali foste gli oltraggiatori,
voi abbisognate anzi di perdono e di dimenticanza ? Come dite di accordarci voi
questa ; quando avreste a dimandarcela ? Come così vi magnificate quasi voi
calmiate lo sdegno verso di noi, quando dovreste cercare che noi verso di voi
lo placassimo ? Cosi confondete la natura della verità, così la dignità dei
diritti pervertite ! Che poi non siate voi gli offesi ma offensori; che voi
beneficati tante volte e tanto dal popolo per fondare la libertà e V impero, lo
abbiate non bene contraccambiato ; uditelo, e convincetevene. Io non parlerò se
non di cose che voi sapete, e se alcuna mai sarà falsa ; reclamate per gli Dei
ve ne prego, non che stiate a bada pazientando. Il nostro governo primitivo fu
monarchico, e lo abbiamo conservato per sette generazioni. In tutti que’
principati il popolo non fu mai conculcato dai re, specialmente dagli ultimi.
Anzi lascio di dire che derivò da quel dominio molti e segnalati vantaggi;. a8g
impemcchè per obbligarlo a sestessi e console porgeva al popolo, noi non più
memori verso di voi dei mali antichi, noi pieni di lusinghiere speranze per f
avvenire, ci dedicammo tutti a voi stessi; e dissipate in poco tempo tutte le
guerre, tornammo con seguito folto di schiavi e di prede bellissime. E voi, ne
avete voi dato ricompense giuste, o degne de’ pericoli ? ma quando mai ? troppo
lungi ne siamo. Anzi ne avete tradito le promesse che imponevate al console di
farci a nome del comune. E quest’ uomo bonissimo, del quale abusavate per
deluderci, lo avete. questo privato del trionfo, quando degnissimo ne era più
che tutti i mortali. Nò già per altra cagione così ancor lo spregiaste, se \
non perchè vi dimandava che adempiste le promesse, e perchè sdegnato mostravasi
che ci beffaste. Ultimamente ( vi aggiungo questo solo intorno al diritto, e
finisco ) quando gli Equi, i 5abini, i Volsci insorsero di comun voto, e
concitarono ancor gli altri, non foste ridotti, voi venerabili e gravi, a
ricorrere a noi negletti e vili, colmandoci di promesse per iscamparvela ? e
non volendo parer d’ ingannarci come altre volte, trovaste per coprir la
impostura questo Mania Falerio, uomo amantissimo della plebe. E noi credendogli
come a uomo dal quale non saremnw traditi perchè dittatore, ed amicissimo
nostro f ci consociammo novamente a voi per questa guerra, e vincemmo i nemici
con ‘ battaglie non poche, nè pieciole, nè ignobili Ridotta la guerra a
bellissimo fine prima ancora delle sperante comuni, tanto foste alieni da
renderne grazie, e ben copiose al popolo, else cercavate ritenerlo anche senza
voglia, sotto le insegne e fra V armi, per trasandar le promesse, come
trasandarle destinavate fin dal principio. E non tollerando il valentuomo la
beffa, nè la infamia delV opera, e riportando in città le bandiere, e
rilasciando tistti per le proprie case ; voi, presone motivo onde non far la
giustizia, ingiuriaste lui, nè serbaste a noi veruna delle convenzioni con tre
abusi gravissimi, perchè profanaste la maestà del Senato, annientaste il
credito di un tal uomo, e rendeste inutile cC vostri benefattori il merito
delle fatiche. Omj potendo noi dir queste e simili cose non poche, non abbiamo
o Patrizj voluto piegarci (die umiliazioni ed alle preghiere, nè accettare come
i rei di gravissime colpe, il ritorno su la obblivion del passato. Sebbene,
essendoci noi qui riuniti per concordare ; non dobbiamo ora investigare pià
sottilmente queste cose, ma vociamo trascurarle e dimenticarle, • e tenercele.
Che non dite voi dunque palesemente a qual fine siete qui deputati, e qual cosa
venite per chiederne ? Su quali speranze volete in città ricondurci ? Qual
sorte abbiamo a prendere per guida del nostro ritorno ? Qual giubilo, quale
benevolenza ci aspetta ? Fin qui non abbiamo punto ascoltate esibizioni umane e
benefiche, non onori, non magistrature, non sollevamento dalla indigenza, nè
altre cose qualunque, sebbcn tenuissime. Quantunque non dovea già dùcisi
ciocché siete per fare, ma ciò che fate, perchè sperimentandovi subito benevoli
nelle opere vostre, vi argomentiamo ancor tali per l’ avvenire. Ma io penso che
voi risponderete a ciò, che voi siete qui plenipotenziari, e che qualunque^
cosa ci persuaderemo a vicenda, sarà stabilita. Or_ sia ciò vero; e ne sieguano
conformi gli effetti ; niente vi contraddico. Bramo però sapere le cose che da
loro ci si faranno dopo queste. Vale a dùe, quemdo avremo noi detto su quali
condizioni vogliamo il ritorno ; e quando ci saran concedute ; chi ci sarà di
esse mallevadore ? Su quale sicurezza deporremo le armi, e metteremo le nostre
persone di bel nuovo nelle lor mtmi ? Su quella forse dei decreti che si faran
dal Senato, non essendovene ancora ? Ma qual cosa mai impedirà che annullino
questi con altri decreti, quando così paja ad Appio e ad altri che pensan com’
egli ? Con^ teremo forse su la dignità dei deputati che ne porgono in pegno la
fede loro ? Ma prima ancora ci han deluso colla interposizione di tali uomini.
Riposeremo forse ne trattati fatti innanzi agV Iddj, e confermati da loro co'
giuraménti? Ma io temo di ogni fede umana consimile, vedendola da quei che
comandano vilipesa. E so, nè già ora per la prima volta, che i trattati forzosi
tra chi brama esser libero e chi vuol dominare han vigore soltanto finché la
necessità così porta. Or quale è queir amicizia e quella fede nella quale siamo
costretti ad ossequiarci contro voglia, insidiando t uno il tempo dell' altro ?
Allora incessanti i sospetti e le calunnie; allora le invidie e gli od] ed ogni
maniera di mali: allora la gara di preoccuparsi a distruggere V emolo ; riuscendo
ogn indugio a mal termine. Non vi è, come tutti sanno, guerra più. trista della
civile : questa i vinti fa miseri, ed ingiusti li vincitori : e li 'vinti han
dagli amici i lor mali, i vincitori agli amici li causano. Or voi dunque o
Patrizi vogliate chiamar noi a pari circostanze, a pari bisogno non
desiderabile ; e noi o plebei non ci rendiamo loro mai più: ma come la sorte ci
ha divisi, così teniamoci in calma. Abbian pur essi tutta Roma, senza noi se la
godano, e ne raccolgano soli ogni bene, essi che han ridotto fuor della patria
noi miseri, noi disonorati plebei. E noi andiamocene pure dove gt Iddj ei
guidano, considerando che non la nostra ma t altrui città lasciamo. Niuno di
noi qui lascia non campagne proprie, non abitazioni paterne, non sacerdozi, non
‘ magistrature comuni come in sua patria per t esercizio delle quali siavi
ritenuto pur contro voglia ; anzi nemmeno lasciammo qui per noi la libertà,
quella che ci avevamo colle arme e con tanti travagli acquistata. Imperocché
parte i nemici, parte la miseria quotidiana, parte V alterigia degli usurieri
ci han guasto e consunto e tolto ogni cosa : tanto che noimiseri eravamo
ridotti a coltivare le terre di questi zappando, piantando, arando, pasturando,
divenuti conservi degli schiavi loro da noi presi colle arme; e chi di noi
portavamo catene alle mani, chi ne piedi, chi nella cervice finalmente, come
fere intrattabili. E qui non ricordo le ferite, gli avvilimenti, le battiture,
le fatiche da notte a notte , ed ogni altra sevizia, e non le ingiurie, e non C
orgoglio che ne abbiam sostenuto. Liberati, la Dio mercè, da tanti e sì gran
nudi, fuggiamo ben contenti quanto possiamo e sappiamo, e prendiamo per. duci
della fuga la sorte e gl’ Jddj li quali veglian per noi, considerando come
patria nostra la libertà, e la virtù còme nostrà ricchezza. Ogni popolo nè,
ammetterà, sì perchè non molesti, come perchè utili a chi ne riceve. E ci siano
in ciò' di esenqtio molti Greci, Dal tempo prima dell’alba fiuo a aera. e molti
barbari, e principalmente gli antenati tii quelli e di noi. Gli antenati nostri
passando con Enea dal£ Asia nelC Europa fondaronsi nel Lazio una patria : e poi
spiccandosi da Alba sotto gli au spicj di Romolo che guidava la colonia,
pigliarono sede ne' luoghi appunto abbandonati da noi. Abbiamo noi forze non
già poco maggiori che essi, ma triplicate, e celione molto più giusta di
trasmigrare. Quelli partivan da Ilio perseguitati da nemici, e noi di quà dagli
amici : e ben è più misera cosa essere espulsi dai domestici, che dagli
estranei. Quei che a Romolo si ligaroho per compagni trascurarono la patria per
cercare terre migliori : ma noi lasciamo un vivere senza città, un vivere senza
case paterne quando rechiamo la colonia : e certo la rechiamo non odiosa agl
Idàj, non molesta agli uomini, nè gravosa a terra niuna ; non rei' del sangue e
della strage de’ cittadini che ci han discacciati, non rei del ferro o del
fuoco messo ai campi che abbandoniamo, nè di altro monumento qualunque
fondatovi di eterna inimicizia; come spinti da necessità sconsigliata rei se ne
fanno i popoli traditi nett aUeanza. Noi chiamati in testimonio i genj e gl'
Iddj che guidano con giustizia le cose mortali, e lasciandQ'che essi prendano
per noi la vendetta, abbiamo chiesto unicamente di riavere i nostri teneri
figli, i (secchi Padri, che in città si rimasero, e le mogli in fine, se alcune
pur vogliono dividere con noi la nostra sorte. Contenti di ricevere questo, non
altro dimandiamo da Roma, E voi tanto impolitici f tanto insocievoli verso de'
miseri, vivete felici, e come più desiderate. Appeaa Bruto ebbe ciò '' detto si
tacque. Parve agli astanti tutto vero quanto disse intorno ai diritti, e quanto
per accusare la superbia de’ senatori, principalmente quando dichiarò che la
semplicità dei patti era tutta piena d’ intrico e d’inganni: ma quando infine
delineò gli alTronti che aveaoo patito dagli usucierì, e ciascuno ricordò li
suoi mali ; niup v ebbe sì fermo di animo, che non si desse a piangere, e
lamentare i danni comuni. Nè impietosirono già sol essi, ma fino gl’ inviati
dal Senato. Non poteano que’ seniori contenere le lagrime, pensando la calamità
per la separazione de' citudini : e rimasero gran tempo tra 1’ afflizione, e
tra ’l pianto senza sapere ornai che più dire. Cessali gli alti gemiti, e
tornato il silenzio nell’ adunanza, procecedelte per farvi le difese Tito
Largio autorevole sopra tutti i citudini per anni, e per dignità, come lui che
due volte console, e già rivestito della ditutura, avea con esercitarla bene
più che gli altri, renduu venerabile, e sanu una carica altronde odiata. £
datgsi a parlare sopra i diritti, e ulvolta incolpando gli usuraj perchè aveano
operate cose durg, e disumàne ; talalira rimproverando i poveri come non giusti
nel' chiedere che si rimettessero ad essi i debiti per forza anzi che per
grazia, e nell’ esacerbarsi col Senato piuttosto che con quelli che impedivano
che si'ccmcedesse loro alcuna cosa anche moderaU; e dippiù tentando mostrare
cl^e picciola era la parte del. popolo, .ingiuriosa suo mal grado, e necessiuta
a dimandate per la igopia gravissima la condonaeione dei debiti, ma più grande
assai la parte la quale esigeva ciò perche viveasi scorretta, insolente,
voluttuosa, e preparata a supplire co’ furti alle sue passioni, talché '
doveansi ben distinguere i poveri dai ribaldi, quelli che erano da compatire da
quelli che erano da odiare ; ed aggiungendo in (ine discorsi consimili, veri si
ma non grati generalmente; non soddisfece tutta la udienza. Dond’ è che sorsene
strepito grande di voce, altri sdegnandosi. quasi rincrudisse loro gli affanni,
ed altri confessando che dicea pur troppo il vero. Ma perciocché gli ultimi
erano assai minori di numero, scomparivano tra la moltitudine degli altri, e
prevaleano soprattutto i clamori degli adirati. À queste cose ne aggiugnea Largio
poche altre su la partenza e precipitanza loro, quando ripigliando la parola
Sicinio il capo del popolo ne riaccese assai più lo sdegno con dire : che ben
poleano da un tal parlare, comprendere quali onori e quali ringraziamenti ne
avrebbero, se tornassero nella patria. Se quelli che slansi nel colmo de’
pericoli, ed abbisognano del braccio del popolo, e per questo a lui vengono,
non san trovare nemmen ora discorsi moderati ed umani; qual animo dee credersi
che avranno quando siano .le cose riuscite loro secondo il disegno, e quando
chi offendono ora colle parole, sia sottomesso loto ancora nelle opere ? Da
quali insolenze mai si conterranno ? da qual; flagelli, o da quali tiranniche
sevizie ? Se a voi dà il cuore, ei dicea, di servire tutta la vita incatenati,
battuti, straziati col ferro, col fuoco, colla fame, con ogni guisa di maU; su,
non perdete tempo, gettate le armi, seguitateli. Ma se V è pure in voi
desiderio di libertà ; non pazientate ornai più. Ambasciadori ! o dite su quali
cortidizioni ci richiamate ; o partite daW adunanza ; perchè non lasceremo più
che vi parliate. E qui tacendosi lui, tutti gli astanti ne strepitarono,
acclamandolo, perchè area detto a proposito. Restituitasi quindi la calma
Menenio 'Agrippa il quale areva interloquito in Senato sul popolo, e proposto e
fatto principalmente che gli s’ inviasse un’ ambasceria plenipotenziaria, fe’
cenno di volere aneli’ egli discorrere. Riuscì la richiesta gratissima ; e
parea come r augurio che udirebbe nsi allora Analmente condizioni giuste, e
salutevoli ad ambe le parti. E subito esclamarono tutti a gran voce, che
parlasse. Poi si chetarono, e si profondamente, quasi fessevi solitudine. Parve
uu tal uomo, com’ era verisimile, assai persuasivo nei suoi discorsi, e tutto
confacevole ai voleri della udienza: è' fama però che in ultimo proponesse una
tal favola sul gusto delle Esopiane espressivissima delle circostanze, e che
con questa principalmente li guadagnasse. Dond’ è che la favola fu creduta
degna di ricordanza, e rapportasi io tutte le storie antiche. L’, aringa di lui
fu questa : Popolo, noi veniamo dal Senato a voi, non per difendere lui, nè per
accusarne voi: nè già pormi che il tempo ciò chieda, nè che ciò sia
prosperevole per la sorte della .repubbUca. Ma noi veniamo con tutto f ardore e
V efficacia per 'levar le discordie, e rimettere la > repubblica nel 'buon
ordine primitivo^ rivestiti per ciò fare di^ un potere assoluto. Pertanto non
pensiamo che,sian ora da esaminare i diritti > come fece con orazione
lunghissima questo Giunio ; pensiamo piuttosto che debbansi con gli amorevoli
modi ricongiunger gli spiriti. Qual fede sia poi per garantire le nostre
convenzioni, ve lo esporremo, appunto come ne cibiamo deliberato. Considerando
noi else le sedizioni si curario in ogni città col to gliere i semi delle
discordie, abbiamo giudicato ne cessarlo di conoscere e spegnere le cause
produttrici della divisione. Or trovando noi che le esazioni dure de’ presuli
sono la origine de’ mali presenti ; così le correggiamo. Decretiamo che quanti
soggiacciono a debiti, nè possono estinguerli, ne siano del tutto assoluti.
Decretiamo Uberi tutti, quanti son detenuti per aver differite le paghe oltre i
tempi legittimi, e decretiamo liberi infine quanti furono in mano consegnati
dei creditori per sentenze speciali di giudici^ annullando noi queste
totalmente. Cosi ripariamo ai contralti precedenti tenuti come causa della
sedizione: ma quanto a centratti avvenire facciasi come ne ordinerà la legge
che sarà costituita da voi, da tutto il popolo, dal Senato. Dite, non erano
queste le cose che vi alienas>ano da’ Patrizf ? Non giudicavate voi che
sareste conienti, e che altro di più non bramereste, se le impetravate Oggi vi
si concedono ; andate, tornatevi' gittiilando alla patria. I riti poiche
convalideranno ed assicureranno questi trattati saran quelli appunto delle
leggi, usati nel depórsi delle inimicizie. Il Senato approverà pur egli questi
trattati ^ e darà loro forza di Digilized by Google 3o2 delle Antichità’ romane
leggi quando scritti gli avremo. Anzi schiviamoli qui noi come ne piace ; ed il
Senato vi sarà sottomesso. E che questi si rimarranno indelebili ; che il
Senato non potrà mai sopraggiungervi nulla in contrario, noi qui deputati, noi
li primi ne facciam garanzia sul corpo, e vita, e stirpe nostra, e con noi pure
ve ne fan garanzìa li senatori che firmeranno il decreto. Imperocché mai,
ripugnandovi noi si decreterà cosa niuna contro del popolo ; giacché noi -siamo
li primi del Senato, e noi li primi a dichiarare i nostri pareri’. ven farà da
ultimo garanzia la fede comune atutti i Greci, e a tutti i Barbari, quella che
niun tempo mai potrà cancellare, quella che con giuramenti, e libagióni rende i
Numi vindici degli accordi, e su la quale chetaronsi tante, e non picciole
nimicizie de’ privati, e tante guerre di repubblica con repubblica. Or questa
fede ricevetela ancora voi ; sia che vogliate permettere a noi, pochi si, ma
capi del Senato, di giurarvi a nome di questo,^sia che vogliate che tutti i
Padri sottoscrivano e giurino con rito santo di serbarvene i patti inviolati. E
tu, o Bruto, non incolpare il pegno delle destre, non le libagioni, non la fede
data invocandone i Numi, né togliere tali espedienti bellissinii degli uomini:
e voi non vogliate tollerare che costui ricordi le promesse tradite dai
scellerati e dai tiranni, da quali tanto è lontana la virtà de’ Romani. Or
lasciate, che io soggiunga (e terminò) una cosa non ignorata i fiè controversa
da rtiun dei/ mortali. Ma quale è mai questa? Essa importa >'t utit
colmine,. e saU/a le parti f una colt altra : essa è r unica e sola che ci
raccolse già tutti in un corpo, e che mai farà separarci. Abbisogna, nè mai
cesserà di abbisognare la moltitudine imperita di sas>j che la dirigano ;
come un complesso di savj idonei a dirigere abbisogna di chi lascisi governare.
Nè ciò per immaginazioni sappiamo, ma per esperienza. Che dunque ci riduciàmo a
tremare brigandoci gli uni con gli altri ; o che ci logoriamo in triste ^parole
; essendoci facilissimo tornare alt utile nostro ? Che dunque non ci espandiamo,
ed abbracciamo, e voliamo (dia patria, aUe antiche delizie, agli oggetti di
tanti dolcissimi e soavissimi nostri desiderj ? A che cercare impossibili
assicw'ozioni? A che fidanze malfide^ come in guerra nemici fierissimi che in
tutto sospettano il peggio ? A noi, o plebei, a noi membri del Senato, basta la
sola vostra parola, clte non sarete se tornate iniqui con noi: e perchè ?
perchè sappiamo il vostro buon allevamento, la istituzione legittima, e le
altre virtù che avete in guerra ed in pace dimostrate. E se i contratti oggi
ottengono a nome del comune una riforma, così dimandando la fedeltà, così la
speranza, degli uni verso degli altri ; teniam certo ancora che siano per
corrispondere in voi le altre buone doti : e niente da voi cerchi (uno ^i giuramenti,
niente gli ostaggi, nè altro pegno qualunque di sicurezza ; nè però mai
contrarieremo le vostre dimande. Ma ciò basti su la fedeltà intorno • la quale
Bruto c incolpava. Che se in voi resta aricora alcuna, invidia non degna, che
vi àccita a pensar' pravanten^s del Senato •, io dùò pur. di questa : e voi
attenti, in calma, ascoltatemi o plebei. 1 ' Somiglia ad un corpo umano una
repubblica : perciocché l uno e t cdtra risultano da più parti ; nè ciascuna
delle parti in essi ha forze eguali, né porge un uso medesimo. Adunque se le
membra del corpo umano ricevessero tutte, come il senso, la voce, e poi
nascesse discordia fra loro congiurandosi tutte le altre ad una ad una contro
del ventre, e, li piè si dolessero che il corpo intero poggiasu loro, le mani
che solo esse traltan le arti, procacciano il necessario, combattono co’
nemici, e pongono molti t^ri beni in comune-, gli omeri perchè p'orVan essi
ogni peso, la bocca perchè parla, la testa percitè vede, perchè ode, e perchè
comprende tutti i sensi onde il complesso vive del corpo ; e se quindi
dicessero, or tu buon ventre fai tu niuna di queste cose ? quale riconoscenza,
qual utile tu ci rendi? Anzi tanto sei lontano dal cooperare e dal compiere con
nei alcun utile comune ; che ne impedisci e conturbi, e quel che è più
intollerabile, ci necessiti a servirti, e portarti di ogn intorno quanto ti
sazj negli appetiti tuoi. Orsù; chè non ci rendiamo noi liberi, nè cessiamo
dalle cure che .in grazia di lui sosteniamo ? Se così piacesse loro, se nhtna
parte più fornisse le proprie funzioni-, or potrebbe il corpo a lungo
'sussisterne ? Anzi in pochi dì consumerebbesi dsdla fame, pessimo fra tutti i
mali ; e niuno può dirne il contrario. Or concepite pure altrettanto di una
repubblica. Compiono questa molti generi di persone niente, infra
li>r,sornigUanti'; e ciaicùno le porge un uso proprio di lui t come le
nsembra lo porgono al corpo. Chi coltiva i campi f chi pe' campi combatte co'
nemici : chi ne reca assai beni tr^Jicando pe' mari ; e chi travaglia in su le
arti necessarie. Se ciascun genere di queste personeinsorga contro il Senato,
che è l’ ordine degli ottimali, e dica ; qual cosa, o Senato, tu ci fai di bene
? e per qual causa, non avendone tu alcuna; vuoi, comandare sugii altri? Non ci
terremo una volta da questa tirànnide tua ? nè vivremo indipendenti ? Se con
tali pensieri si levasse ognuno dalle usate incombente ; cosa impedirà che una
tale sconcia repubblica miseramenteperisca per la fame, per la guerra, per ogni
male ? Istruiti dunque, o voi del popolo, che come ne' corpi nosU'i il ventre
accusata a torto da molti, nudrito nudrisce, conservato conserva ; e quasi uim
dispensa universale, porge ad ogmino il' suo bene, e la sussistenza in un tutto
; così nelle repubbliche il Senato che matteria il comune e provvede a ciascuno
V utile suo, tutto salva e custodisce e dUrige ; cessate di lanciar contro lui
voci ccUunniose, quasi per lui siate fuori della patria, e ne andiate raminghi
e mendici. Il Senato non volle mai questo, nè farawelo : anzi vi chiama, evi supplica,
e vi stende le mani, e vi spalanca le porte, e raccoglievi. Intanto che Menpnìo
concionava, sorgeano ad ora ad ora voci varie e molte da^i astanti. Ma pai>
chè sul fine del suo ragionatiteoto si diede a comma veri!, e 'deplorare le
disgrazie e la sorte immiucnle su DlOUtai, lomo II. a di ambedue, su quelli
rimasi in città e su gli altri che ne erano usciti ; si misero tutti a
piangere, ed unanimi ad una voce gridarono che li riconducesse alla patria, né
più s’ indugiasse. E poco mancò che partissero tutti a furia dall’ adunanza ;
rimettendo ogni cosa ai deputati senea brigarsi più oltre della sicurezza. Se
non che Bruto facendosi innanzi ritardò l’ impeto loro, dicendo : che erano pur
buone per quei del popolo le promesse del Senato, e chiedendo che grazie
appieno gli si rendessero per le cose a loro concedute. Aggiungeva ancora di
temere per l’ avvenire che uomini una volta oppressivi, si dessero, venutone il
tempo, a ricordare, e punire le cose operate dal popolo. Jtimanervi una
sicurezza sola per quelli che temono questo dagli Ottimati, cioè quella di
rendere indubitato che, se vogliono, non posson piii offenderli. Finché sta in
essi il poter danneggiare, non mancheran de malvagi che il vogliano. Pertanto
se il popolo ottenga tal sicurezza ^ -non altro resteragli da chiedere.
Ripigliando Menenio, ed invitandolo a dire qual sicurezza pensava che al popolo
bisognasse, concedeteci, disse, che noi ci scegliamo ogni anno dall' ordine
nostro alcuni magistrati i quali non siano ad altro autorizzati che a proteggere
gli oltraggiati, e gli oppressi nel popolo, nè lascino che alcimo sia
defraudato de' suoi diritti. Alle^ cose accordateci aggiungete in grazia ancor
questa, ve ne preghiamo, ve ne supplichiamo, se la pace esser dee non in
parole, ma in fatti.. 11 popolo udendo un tal dire lo accompagnò con grandi e
lunghe acclamazioni, raccomaiidau dosi ai deputati che gli concedessero anche
questo. I deputati ritirandosi daU’adunanza, e conferendo alquanto in fra loro,
vi ritornarono dopo jion molto. Taciutisi tutti, Menenio fattosi iunanzi disse
: La dimanda è grande e piena o plebei di enormi sospetti. A noi viene timore
ed ansietà che non abbinasi a fare due città di una sola. Quanto è da noi,
nemmeno in ciò vi ci opporremo, or voi compiaceteci (tende anche (Questo al ben
vostro ) date a tre deputati che tornino in Aonuif e narrino al. Senato la
richiesta. Non ci arr roghiamo noi di risolverne > quantunque abbiamo da
esso U potere di concordare come ne piace, arbitri in tutto di prafnettere..
Siccome il caso che ci occorre è inaspettato e nuovo ; così ce ne riportiamo ai
Padri, quasi in esso V autorità ci si limiti. Ci persuadiamo, pelò ‘ che essi
ne sentiran come noi. Frattanto io qui resto >, e con me parte dei deputati.
Valerio e gli altri onderanno. Stabilito ciò gl’ incaricati d’ informare il
Senato spronarono i cavalli alia volta di Roma. Proponendo i consoli in Senato
la richiesta; Valerio opinò che si concedesse. Appio, nimico Gn da principio di
ogni, accordo, contraddisse anche allora chiarissimameute, esclamando e
rilevando, chiamatine in testimonio i Numi, i germi dei mali che impiantavano
alla repubblica. Non però convinse la pluralità, desiderosa, come ho detto, di
.spegnere la discordia. Adunque il Senato autorizzò con suo decreto lè promesse
dei deputati ai popolo, come pure che gii accordassero la sicurezza che
dimandava. Fatto ciò tornando il giorno ap|>resso i deputati nei vi
eapoM0a4.";^HH Ieri del Senato. Quindi esortando ' MenenioU'^poii^lD
d’inviare alquanti a’ quali il Senato desse la Sull' ftdé ; fu spedito Lucio
Giuùo Bruto, del qnale abbiÀtt'i^no di sopra, e Marco Decio, e Spurio Icilio
con esso. Andò metà dei deputati compagna di Bruto in Roma. Agrippa, pregatone,
si rimase nel campo, per istender la legge a norma delia quale il popolo creerebbe
i suoi magistrati. 'Nel di seguente Bruto rìlortiò già fatti i patti col Senato
per mezzo de’ Feciali, che cfaia> mano. Divisosi allora il popolo in
Fratrie, come ah tri qui nominerebbe quelle che essi dipono Curie, dichiarò
suoi, magistrati dell’ anno Lucùr Gìnnio Bruto, Cajo Sicinio Belluto, 6 no a
> quel di loro capi, e con essi ancora Ca}o e Publio Licinio ì e Cap Icilio
Ruga. Assunsero questi cinquei primi' la^ potestà tribunizia, quattro giorni
avanti le idi di ’decembre {%), CO 7 me pur nel mio tempo si pratica.
Firttterle ’eiéEÌoni'parve a’ deputati del Senato, adempito l’ intento della
loro missione. Ma Bruto, convocata l’ adunanza ' del popolò, consigliò che
dichiarassero i suoi magistrati Santi ed: invìo Lìtio, Dionigi, ed altri storirn
antichi non ben si accordano sn la nomina di questi magistrati. Livio dice che
i due i primi nominati furono Cajo Licinio, e L. Alhiud. e che questi poi si
scefaero tre colleglli tra quali fiv Sicinio V autore delia seditìone. -Ma^
Dionigi pone per primi Lucio. _Giunio Bru^o, e C. Sicinio Bellirto : a quindi
C. e Fuhiio Liciuro, e C. Icilio Ruga. (3) Anni di Roma 361 secondo Catene, s63
aeeondo Varrona, a 491 avanti Cristo.. 3o9 labili slabilenilone la sicurezza
colle leggi e co’giiiramenti. Piacque ciò a tutti, e si fece su lui e su
collcghi la legge : che niuno forzaste un tribuno ) come un altro qualunque a
far mai cantra sua voglia ; ni lo battette, ni lo uccidesse, né ordinasse ad
altri di balte rio, o di ucciderlo. Che te alcuno a dà contravvenga anche in
parte ; itane reo capitale ; se ne diano a Cerere -i beni : e chiunque lo
uccide, abbiasi coma puro dalla strage. E perchè non si potesse mai più far
cessare questa legge, ma restasse immobile iu ogni ar venire ^ si stabili che ì
Romani giurassero tutti co’ riti santi dì osservarla ' essi, ed i posteri loro
perpetuamente.E si aggiunse ai giuramenti la preghiera, che gli Dei superni, ed
inferni fossero propizj a' chiunque favoriva la legge, ma contrarj a quanti la
violavano, come cootaminati di delitto gravissimo. Da indi sorse ne’ Romani
il-cosWme che persevera pur ne’ miei giorni, di riguai^ dare le persone de’
tribuni come sacrosante. XC. Concordato dò, fecero un aitare su le dme della
montagna ovo s’^erano accampati, e lo denomina rono nell’ idioma, loro,
l’altare di Giove la cito su la fiducia di respingere i nemici che si avan
zavano ; ma costretti bruttamente a fuggire^ prima di dare alcuna nobile prova,
nemmen fecero punto di ger nevoso combattendo poi su le mura. Adunque i Ro>
mani in un sol gioruo s’ impadronirono sehzà tere dei lor territorio, e, ne
presero a forza la citti, nè con molto travaglio. Il comandante Romano concedè
'. .. 'V (t) Vuoi' (lire Edile. Era qacsto vócaboìo proprio d’ RoroasK' che le
miline si approp lasserò le robe invase; e presi diala la città, ne andò col
resto deli’ esercito contro l'altra città de’ Volsci, chiamata Polusca, non
molto lontana da Longola. Nè osando alcuno di uscirgli incontro, percorse
facilissimamente U campagna, e ne investi le maia. E datisi i soldati, chi a
spezzare le porte, chi a scalare le mura ed ascenderle; Polusca anch’essa fu
presa nel giorno medesimo. Il console scel-, tivi alcuni pochi, autori della
ribellione, li fe’ morire : e multati gli, altri in danari, e spogliatili delle
arme; gli astrinse a dipendere in avvenire dai Romani. Lasciato anche in
guardia di Digitized by Google 3aa Delle antichità’ romane ni. Volgendo la
olimpiade sessantesima quarta, in-' tanto che Milziade 'era arconte di Atene, i
Tirreni dei contorni del golfo Jonio, cacciati poscia di là dai Galli, e gli
Umbri con essi, e li Dauuj, ed altri barbari in copia tentarono distruggere
Cuma, Greca città tra gli Opici fondata dagli Eretrj e da’ Calcidesi , senz’
altra vera cagione, se non che ne odiavano la prosperità. Imperocché Cuma famosissima
di quei tempi in tutta r Italia per la ricchezza, per la potenza, e per molti
altri beni, avea le terre le più fruttuose della Campania, con porti utilissimi
presso al Miseno. Invidiandone i barbari il si gran bene, le mossero incontro
con diciotto mila cavalli e con cinquecento mila fanti (a), e non meno.
Accampatisi questi non lungi dalla città surse un portento meraviglioso, quale
non ricordasi accaduto mai nè tra’ Greci dovunque, nè tra’ barbari. I fiumi che
scorreano presso gli alloggiamenti ( Volturno nominavasi 1’ uno, e l' altro il
Ciani (3) ) lasciando lo Gli Eretrj ed i Calcidesi erano popoli dell’ Eukea o
Ne^o ponte. Elrelrìa era distante venti miglia da Calcide. Vi erano dus altre
Eretrie. Vedi tom. i, la not. al S 4^ parla della prima. (a) Par troppo
torrente contro di una città : forse vi à d>aglio nei numeri. (3) Vi sono
altri lìami di pari nome. Questo à quello additato da Virgilio 1. a, Georg.,
Vicina Veitvo Ora jugo,el vaeutt Ctanius non aeqmt acervis. Antonio Boudrand:
(vedi novum Lexicon Geographic.) chiama questo fiume Agno ; e dice che passa
presso di Acerra, di Aversa e Mintomo. Forse il Ciani h quello stesso fiume che
ora chiamasi JPatria nelle catte geografiche scendere lor natarale si
ripiegarono, rifluendo gran tempo dall’ imboccatura alle fonti. Vista la
meraviglia, fecero core i Cnmani di piombare su’ barbari, come se i Numi
fossero per deprimere l’altezza di quelli, e per sublimare loro che depressi
ornai ne pareano. Pertanto dividendo in tre corpi la gente militare, con uno
guaiw darono la città, con altro le navi, e coi terzo, :hieratoio avanti le
mura, aspettarono l’ inimico che inoU travasi. Seicento erano i cavalli Cumani,
e quattro mila cinquecento i fanti : pure si pochi di numero tennero fronte a
tante migliaja I IV. Ck>me i barbari seppero che eransi appareo:hiati per
combattere, dato un grido, coisero in barbara for> ma, disordinati e misti,
cavalli e fanfl, appunto per annientarli tutti in un colpo. Il luogo, dove
innanzi la città si affrontarono, era una valle angusta, rinchiusa da lagune, e
da’ monti, propizia al valor de’ Cumani, ma nemica alla fdUa de’ barbari. Dond’
è che, travolgendosi e calcandosi questi, gli uni gli altri in più luoghi, e
principalmente su pel fango intorno la palude, si distrussero in gran parte fra
loro, senza pur venire aUe mani colia Greca milizia di Cuma : e quell’ esercito
appiedi si numeroso, e disfatto, e sbaragliato da sestesso, fini qua e là
fuggitivo, senz’ avere operato nulla di generoso. Li cavalieri però si
avventarono, e molto travagliarono i Greci : ma non potendo circondar l’
inimico per r angustia del loco, e temendo i destini che combatteano per Cuma
colle piogge, co’ tuoni, co’ fulmini, si diedero anch’ essi alla fuga. In
questa battaglia i cavalieri Cumani militarono tutti luminosamente,
riconoDigiiized by Google 3a4 delle Antichità’ bomane sciutine quindi come
autori della vittoria. Si distinse so' pra tutti Aristodemo cTiiamato Màlaco ;
imperocché solo opponendosi, uccise il capitano nemico, e molti valorosi. Finita
la guerra porgeansi sagriGzj di ringraziamento ai numi, e davasi magnifica
sepoltura agli estinti in battaglia : ma quando si ebbe a decidere a chi si
dovesse la corona, come al più forte ; assai se ne disputò. Li giudici più
ingenui, e con essi anche il popolo, voleano che ad Aristodemo si concedesse ;
ma i più potenti, e con loro tutto il Senato, ad Ippo'medonte, duce de’
cavalieri. Di que’ tempi era in Guma il governo degli ottimati, nè molto il
popolo vi potea : ma natavi sedizione appunto per tal controversia, i seniori
temendo che tanta ambizione finisse colle armi e colle stragi, persuasero
ambedue li partiti di dar "pari onore all' uno e all’ altro di que’
valorosi. Da quell’ ora divenne Aristodemo Malaco il protettore del popolo : e
poiché ‘si avea procacciato una persuasiva nei discorsi di Stato, commovea con
questa la moltitudine, allettando lei con stabilimenti gradevoli, beneficando
coll’aver suo molti ' de' poveri, e rimproverando i potenti che si appropiavano
ciocché era del comune. Dond’ é che ne divenne ai primi degli ottimati molesto
e terribile., V. Venti anni dopo la battaglia co’ barbari vennero ambasciadori
dalla Riccia co’ simboli di pace al Cumani per supplicare che li soccorressero
nella guerra contro i Tirreni. Imperocché Porsena re di questi dopo la pace con
Roma dando metà dell’ esercito, come esposi ne’libri antecedenti, ad Arunte suo
figlio, lo aveva inviato, voglioso che n’era, ad acquistarsi un dominio : e
costui di quel tempo appunto assediava gli Arieini rifugiatisi tra le ;nura,
sulla idea di prenderne tra non molto la città colla fame. A tale ambasceria li
primi degli ottimati odiando Aristodemo e temendo che non causasse alcun male
al governo ; concepirono di avere il buon punto di levarsel d’ intorno con
delicate maniere.v Persuadendo il popolo a spedire due mila per soccorso degli
Aricini, e nominandone capitano Aristodemo come il più insigne nelle armi,
fecero poi tal maneggio, nde iusingarsi che colui perirebbe o per le battaglie
co’ nemici, o per le fortune di mare. Imperocché resi dal Senato arbitri di
scegliere quei che dovrebbero andare di rinforzo, non v’ inchiusero alcuno de’
più famosi e più riguardevoli ; ma reclutando i più poveri e più scellerati
.da’ quali aveano sospettato sempre delle sommosse, ordinarono con questi l’
armata, e riducendo in mare dieci navi antiche, pessime a correr le acque, e
dandone il comando a Cumani poverissimi, ve la soprapposero, con minacciare di
morte chiunque ne disertasse. VI. Aristodemo, dicendo unicamente che non
ignorava le mire degli avversar) che in apparenza Io mandavano per soccorrere,
ma in realtà per farlo soccombere ; assunse il comando dell’ esercito. E
facendo ben tosto vela co’ deputati Aricini, e superando a stento e con
pericolo il tratto interposte, di mare, approdò sui lidi più prossimi dell’
Aricia. E lasciata guarnigione sufBciente alle navi, e fatto nella prima notte
il cammino il quale vi restava, che certo non era lungo, si presentò su 1’ alba
inaspettato agli Aricini. Accampatosi presso di loro, e persuasi gli assediati
di uscire all’ aperto sfidò ben tosto i Tirreni a battaglia. Schieratisi ed
attaccatisi, gli Aricini resisterono piòciolo' teinpo, e piegarono e
rifuggironsi in folla tra le mura. Aristodemo però coi pochi scelti Gumani che
avea d’ intorno, so~ Bienne tutto il forte della battaglia, ed uccisone di sua
Diano il duce, mise in fuga i Tirreni, riportandone una vittoria nobilissima.
Ciò fatto, e magnificato dagli Aricini con doni copiosi rinavigò speditamente
verso Cuma peressere egli stesso nunzio della vittoria. Teneano dietro a lui
molte barche Aricine colle spoglie e coi schiavi presi ai Tirreni. Avvicinatosi
a Cuma e messe a proda le navi, concionò tra 1’ armata. E molto accusando i
capi della città, e molto encomiando quelli che si erano segnalati nella
battaglia, e dispensando argento e parteci pando a ciascuno i doni degli
Aricini; pregò che di tali beneficenze si ricordassero, quando sbarcherebbero
nella patria, e lo fiancheggiassero se mai gli ottimati gli creavan pericolo.
Confessandosi tutti obbligatissimi per la salvezza insperata che aveano da lui
ricevuta, come perchè tornavano colle mani non vuote in famiglia ; e
protestando che darebbero a' nemici anzi sestessi che lui ; Aristodemo,
rirtgrazionneli, e sciolse 1’ adunanza. Quindi chiamandone al suo padiglione i
più ma liziosi e prodi, e guadagnandoli tutti co' doni, co' bei discorsi, e
colle spc>anze lusinghiere, li fé pronti a mutare il governo che vi era.
VII. Presi questi per ministri e per combattitori, istruitili parte a parte su
ciò che avessero a fare, e messi in libertà gli schiavi che conduceva per
obbligarsi ancor essi, viaggiò piò oltre colle navi coronate 6no ai porti di
Cuma. I padri e le madri de’militari, tutto il parentado, i Ogli insieme e le
mogli, venutili ad incontrare mentre scendevano a terra, lagrimavano, gli
abbracciavano,. li baciavano, li chiamavano con tenerissimi nomi. Tutto il
resto della moltitudine urbana ricevette fra tripudj ed acclamazioni il
capitano, accompagnandolo fino alla casa. Di che dolenti i capi della cittò,
quelli principalmente che gli aveano affidato 1’ armata e ne aveano con altri
modi tramato la rovina, facean tristi colloqui su T avvenire. Aristodemo
lasciati decorrere alquanti giorni onde rendere agi’ Iddj li suoi voti ^ e
ricevute intanto le sue navi da carico rimaste indietro, alfine venutone il
tempo, disse voler esporre in Senato le cose operate nella guerra e mostrargli
le prede riportatene. Riunitisi in numero i primarj, ed i magistrati nel
Senato, egli fattosi innanzi prese a dire e narrare tutte le cose operate nella
battaglia : quando gli uomini apparecchiati da lui per 1 impresa, accorsi in
folla nel Senato co' pugnali sotto gli ‘ abiti, vi uccisero tutti gli ottimati.
Si diedero allora a fuggire e correre, chi alle proprie case, chi fuori delia
città, quanti erano al Foro, eccetto i complici del disegno, i qnali avevano
occupato la fortezza, il porto, ed ogni luogo monito delia città. Nella notte
seguente sprigionando quanti vi erano ( e molti ve ne erano ) dalle pubbliche
carceri, destinati alla morte, ed armandoli con altri suoi amici, tra quali (t)
In segno della -riltoria riportala. G>si ae’trionfì ai coronavano ancora LI
FASCI erano gli Schiavi Tirreni, ne fece un corpo di guardia per la sua
persona. Fatto giorno, convocato il popolo a parlamento, ed accusativi a lungo
gli uccisi, disse che erano stati meritamente % puniti ; avendo per tante volte
insidiata a lui la vita : ma che, quanto agli altri .cittadini, egli darebbe
loro la libertà, la eguaglianza .dei diritti, ed altri beni copiosi Vili. Ciò
dicendo, ed elevando tutto il popolo a speranze meravigliose, stabili due
regolamenti, pessimi tra tutti i regolamenti ^ ed iniziativi di ogni tirannide,
io dico la nuova division delle terre e la remissione dei debiti. Figli
promettea provvedere su l’una e l’altra cosa, purché fosse eletto comandante
assoluto, finché il comune fosse in salvo, e v’ordinassero uno stato popolare.
Con piacere ud) la plebe e tutti i peggiori che avrebbonsi a ghermire i beni
degli altri: ed egli, avutone un potere indipendente, aggiunse un nuovo decreto
col quale deludendo ancor essi, alfine tolse a tutti la libertà. Imperocché
fingendo temere torbidi e sedizioni de’ nobili contro dei .plebei per le
assoluzioni dai debiti e per le divisioni nuove de’ terreni, disse che a
precludere una guerra ed un eccidio civile, trovava un solo rimedio, cioè che,
tutti prima di ridursi a tal male, recassero dalle loro case le arme, e le
consacrassero agl’ Iddj per averle nel bisogno pronte contro i nemici esterni
se ne venivano, e non contro sestessi: pertanto esser bonissima cosa che
stessero quelle presso de' Numi. Persuasi di tanto i Cu> mani ; egli nel
giorno stesso ebbe le armi di tutti, e negli altri appresso fe’ cercare le case
di • ognuno, \iccldendovi molti buoni, sul pretesto che non avessero portate ai
Numi tutte le armi. Dopo ciò fortificò la tirannide sua con tre generi di
guardie : il primo fu di que’ vilissimi e reissimi cittadini co’ quali tolse 1’
autorità degli ottimati : il secondo fu de’ servi indegnissimi renduti liberi
da esso perchè aveano trucidati i loro pa> droni : ed il terzo furono i
militari assoldati da’ barbari più inumani. Erano questi nommen di due mila, e
validissimi più che gli altri nelle arme. Tolse le immagini degli uccisi da
ogni luogo sacro e profano supplendovi in vece loro le sue. Le case, i campi,
ogni avere di questi lo donò tutto ai complici suoi nel preparargli la corona,
riservando per sè l’ oro e 1’ argento, e quanto altro è base della tirannide.
Ma li doni più numerosi e più grandi li profuse tra gli assassini dei loro
padroni ; i quali chiesero perfino in moglie le donne e le figlie de’ padroni
medesimi. Quantunque però niente avesse in principio curata la stirpe virile
degli uccisi, alfine si accinse a sterminarla tutta in un giorno, sia che per
un qualche oracolo, sia che per computi verisimili concludesse che perpetuava
con questa a sestesso uno spavento non piccolo. Ma perciocché vivamente nel
distoglievano quelli presso a’, quali dimoravano i figli e le madri, egli
vo-lando concedere loro un tal dono, gli assolvè, sebbene contro sua voglia,
dalla morte. Per cautelarsi però da loro sicché congiurandosi non .insorgessero
contro il suo regno ; comandò che uscissero tutti dalla città chi verso r uno e
chi verso l’ altro luogo : e vivessero per le I Saidliti del tiraoDu alli quali
egli stesso le area mariiate campagne senza istruzione e coltura, propria di
liberi giovinetti, con pascer le greggi o con altri campestri esercizi,
minacciando di morte chiunque di loro in città fosse preso. Cosi quelli,
abbandonati I patri > sosteneansi come schiavi per le campagne, servendo
agli uccisori medesimi de’ padri loro. E perchè niente) pi& ci avesse di
virile o di generoso prese ad effeminare colle Istituzioni sue tutta la
gioventù Cumana, togliendole I ginnasi e gli esercizi militai, e variandone le
maniere già consuete del vivere. Volle che I giovani come le donzelle nudrisser
la chioma, e bionda la riducessero e ricciasserla, e ricciata di reti lievi la
cii^ condassero ; e portassero toghe talari e ricamate, e clamidi sottili e
molli, vivendosi all’ ombra. Donne, educatrici loro, li accompagnavano, recando
parasoli e ventagli ai spettacoli di suono e danza e simiglianti musiche
dissolutezze: ed esse li lavavano, esse portavano ai bagni i pettini, e gli
alabastri con gli unguenti, e gli specchj. Con tal modo ammorbidiva i giovani
fino ai venti anni, concedendo allora che passasser tra gli uomini. Ma egli che
avea cosi vituperato e danneggiato i Cumani, egli che non avea risparmiato loro
nè impudenze, nè sevizie, egli alfine già vecchio, quando si credea sicuro
nella tirannide, Sterminato con tutti, i suoi, ne pagò le giustissime pene ai
Numi ed agli uomini. X. I prodi che insorgendo liberarono la patria dalla
tirannia di lui furono i figli de’ cittadini uccisi : quelli che egli avea
risoluto in principio di trucidare tutti in nn giorno, ma che poi risparmiò,
come ho detto, vinto dalle istanze de’ satelliti suoi, maritati da lui colle
madri loro, comandando che abitassero per le campagne. Pochi anni appresso
viaggiando egli pel contado e vedendoli già adulti e molti e floridi ; temè che
non n congiurassero ed assalisserlo : e macchinò di prevenirli ed ucciderli
tutti prima che niuno se ne avvedesse. Adunque consultandosene • cogli amici,
deliberava con essi le maniere sollecite e piane ma occultamente, onde
spegnerli. Sepperlo que’ giovinetti per indizio forse di alcuno che ne era
consapevole, e, forse mossi da con getture probabili, fuggironsi ai monti,
dando di piglio ai fèrri degli agricoltori. Corsero ben presto in ajuto loro i
fuorusciti Cumani rifugiati in Capua, tra’ quali erano i più cospicui, e
seguiti in gran parte dagli ospiti loro Campani, i figli d’ Ippomedonte, di
quello che nella guerra Tirrena avea comandato la cavalleria. Essi armati recavano
a’ compagni le armi con una truppa non picciola di amici e di mercenarj della
Campania. Alfine riunitisi scorrevano e turbavano predando i campi nemici,
ritoglievano gli schiavi dai padroni, ed ogni altro qualunque dalle carceri, e
gli armavano, e quanto, non poteano trasportare o menar seco lo davano alle
fiamme, o alla mòrte. Ansio dubitava il tiranno come avesse a combatterli,
perchè nè sapeasi quando impren derebbero, nè teneansi fermi sempre in luoghi
medesimi, ma regolavano le loro incursioni o colla notte fino all’ aurora, o
col giorno fino alla notte. Avendo più volte spedito milizie ma' indarno a
guardia delle cani pagne, a lui ne venne un tale degli esuli malconcio di
battiture, spedito ad arte da essi quasi un disertore. Costui chiedendo la impunità
promise al tiranno di guidare 1’ armata che manderebbe con lui, nel luogo
appunto ove quelli sarebbero nella notte imminente. Indotto il tiranno a
credergli perchè non chiedea verun premio, e porgea sestesso in ostaggio, spedi
li suoi duci più fidi, seguiti da molli cavalieri e da’ mercenari, con ordine
di conduire a lui, legati almeno, i più, se non tutti quegli esuli. Il
disertore eh’ erasi a ciò posto menò tutta la notte 1’ armata a disagi
gravissimi per vie non trite e per boschi, in parti le più lontane dalla città.
Come i ribelli e l profughi posti per le insidie intorno all’ Averno, monte
vicino alla città, conobbero pe’segnali dati dagli esploratori che l’armata del
tiranno era uscita, mandarono circa sessanta i più arditi di loro che cinti da
irte pelli portavano fi)sci di sarmehti. Or questi nell’ ora, quando accendonsi
i lumi, chi per l’ una e chi per 1’ altra parte entrarono, quasi opera), la
città senza essere conosciuti; ed entrali cavarono da’ sarmenti le spade che vi
occultavano, e si raccolsero tulli ad un luogo. Donde marciando in schiera alle
porte che menano all’Averuo, ne uccisero i custodi che dormivano, e
spalancatele, v’ introdussero tutti i loro che v’ eran già prossimi, nè per
tanto il fatto ^ ravvisa vasi ancora. Scontravasi per sorte in quella notte una
pubblica festa, ond’ è che tutti oziavano per tutto in città tra le bevande ed
altri diletti. Or ciò diè loro gran sicurezza di trascorrere tutte le vie che
guidavano alla casa del tiranno : e nemineu qui trovando nelle entrate molti,
nè .vigilanti, ve gli uccisero senza stento, oppressi dal sonno o dai vino : ed
internatisi in folla trucidarono nell’ abitazione, quasi una greggia, tutti gli
altri, ornai pei vino non più arbitri de’ corpi nè degli animi loro. Or qni
preso Aristodemo, i figli, e tutti i parenti, e battutili gran parte della
notte, e torturatili, e devastatili con ogni male, gli uccisero finalmente.
Cosi sterminando dalle radici quella stirpe di tiranni fino a non lasciarvi non
fanciulli, non donne, non consanguineo ninno ; e rintracciati tutta la notte
tutti li cooperatori a fondar la tirannide ; andarono, nato il giorno, nel F
oro, e con Tocatovi il popolo, e depostevi le arme, renderono la patria a
scstessa. Or questo Aristodemo nel quartodecimo anno della sua tirannide in
Cuma, questo vulcano gii esuli compagni di Tarquinio cbe giudicasse tra loro e
la patria. Ripugnarono alcun tempo i deputati de’ Romani, come quelli cbe nè
erano a tal fine venuti, nè avevano dal Senato i poteri per difendere ivi Roma.
Non profittando però niente, anzi vedendo quel despota propendere in contrario
per le brighe, e per le istanze degli esuli ; chiesero un tempo per le difese,
e depositarono una somma per garanzia di eseguirle essi stessi. Ma poi nel
correre di questo tempo, quando niuno più vegliava su loro, fuggirono,
ritenendosi il tiranno gli schiavi, li giumenti, e li danari che aveano portalo
per comperare de’ viveri. Tali furono gl’ incontri di queste legazioni, e così
riuscì loro di tornarsene in patria sebbene senza l’ intento. Ma la legazione
spedita neU’Etruria comperatovi miglio e farro lo trasportò su barche fluviali
a Roma, e Roma ne fu nudrita sebbene per poco ; fiocbè consumatili, ricadde ne’
disagi medesimi. Non erari genere di alimenti a cui non si rivolgesse. Dond’è
che non pochi tra la scarsezza, e la inconve' nienza de’ cibi non soliti, s’
avean male nella persona, o diventavano a tutto impotenti, non soccorsi nella
pcvvertà. Come ciò seppero i Yolsci domati di fresco, s’ istigarono con
vicendevoli occulti messaggi a riprender le armi, quasi fosse impossibile che i
Eomaui resistessero bersagliali dalla guerra e dalla fame. Ma i numi propiz)
che vegliavano perchè non rimanessero in preda a’ nemici, ne dimostrarono
allora più chiaramente la protezione. Di repente si mise tra^Volsci una tal
pestilenza, quanta non leggesi mai stata in Greche o barbare terre,
disfacendoli promiscuamente di ogni età, di ogni fortuna, di ogni temperamento,
validi o invalidi. Mostrò soprattutto gli eccessi del, male Yelletri, città
insigne, de’ Yolsci, e grande allora e popolosa. La peste appena ne rispailniò
la decima parte, investendovi e consumandovene le altre. Ond’ è che i
superstiti a tanto infortunio, mandati ambasciadori, e dichiarata a' Romani la
loro solitudine, sottomisero fa città. E siccome aveano prima ricevuto de’
coloni da essi ; ne chiedeano di presente ancor altri. XIII. Impietoùrono,
sapendoli, ai loro mali i Romani ; nè pensarono che si avessero a premere come
nemici fra tanta sciagura, dacché pagavano agl’ Iddj le pene per ciò che
voleano fare su Roma. Piacque loro, di riammetter Yelletri, e spedirvi numero
non picciolo di coloni presagendone sommi vantaggi. Parea che il posto, se
presidiavasi acconciamente, sarebbe ostacolo grande e ritardo a chiunqae si
voleva rimescolare e sommoversi. E concepivasi che la penuria di Roma non poco
si scemerebbe se una parte notabile di popolo altrove si trasferisse.
Inducevali soprattutto a spedire una colonia la sedizione che vi si
riproduceva, non essendovi ancora sopita in tutto la prima. Imperocché il
popolo discordava un altra volta come per addietro, e ne odiava i Patrizj : e
molta era 1’ amarezza dei discorsi co' quali accusavano la poca cura, e la
scioperatezza di essi perchè non aveano a tempo preveduta nè riparata la
penuria futura, dicendo alcuni perfino che ad arte aveano procurato la caresua
per astio e desiderio di affliggerne il popolo in memoria della ribellione. Per
tali riguardi sollecitissima fu la spedizione della colonia, de slinativi dal
Senato tre condottieri. Da principio udiva il popolo con diletto che
trarrebbonsi a sorte i coloni, perchè sarebbe cosi levato dalla fame, e perchè
viverebbe in terra felice : ma poiché rifletté che la peste ge aeratasi nella
città che gli avrebbe a ricevere aveva distrutto i suoi cittadini, e temè che
in tal modo ancora maltratterebbe i coloni, variò poco a poco di sentimento.
Tantoché non molò, anzi meno assai che il Senato ne permetteva, esibironsi per
la colonia : e questi bentosto ne furon pentiti come sconsigliati, e scansavano
di uscire. Da tale vincolo erano trattenuti questi e quanti altri non più si
acconciavano ad andare. Ma dertretato avendo il Senato che la colonia si
ricavasse dal complesso di tutti i Romani secondo le sorti, e stabilendo dure
ed irreparabili pene per chi ricusava ; alfine fu per tale necessità condotto
il numero conveniente in iVelle tri. Noo raoUi giorni appresso un’ altra
colonia fu tra> sferita in Norba, città non ignobile dei Latini -. XrV. Non
però segui da ciò ninna delle cose con~ gbietturate da’ patrizj secondo la
speranza di spegnerele discordie. Imperocché la plebe rimasta intrisi più
ancora, vociferando con assai clamore contro de’ padri nelle adunanze prima di
pochi, indi di molti, per la fame divenuta gravissima; e concorrendo al Foro
volgeasi lamentosa ai tribuni suoi perchè 1’ aiutassero. Or tenendo questi
adunanza, fattosi innanzi Spurio Icilio allora capo di essi perorò lungamente
contro de’ padri aumentandone quanto potè la malvolenza. Egli istigò pur altri
a dire pubblicamente ciocché sentivano, e principalmente Siccinio e Bruto
allora edili, invitandoveli a nome, appunto come capi già del popolo nella
prima sedizione, ed inventori, anzi magistrati la prima volta della podestà
tribunizia. Presentatisi dissero anch’essi, udendoli il popolo vogliosissimamente,
malignissime cose già da molto tempo premeditate, come se la carestia fosse
procurata per malizia de’ ricchi, perchè il popoloavea loro malgrado,
ricuperata colla sedizione la libertà. Dissero che i ricchi non aveano pur la
miaima parte del disagio dei poveri : molta essere la loro non curanza de’
mali, perchè aveano cibi occulti e danari onde comperarli se introducevansi,
laddove i plebei mancavano di ognuna di queste due cose: protestarono che
mandare i coloni a’ luoghi contagiosi, era un avviarli a rovina visibile e
funestissima, aggravando quanto più poteana A tempo di Plinio era nn ammasso di
rovine. Restava circa sei miglia lontana da Segni ameasogiomo. con parole il
male. Chiedeano qual sarebbe il fine a tante sciagure, e richiamavano loro in
memoria gli an> tichi Hagelli, ond’ erano stati malmenati da’ ricchi ;
ag> giungendo ancora iinpuuissimamenie cose consimili. Da ultimo Bruto la
Gni minacciando, dicendo cioè, che se secondavano, egli necessiterebbe quanto
prima a spegner r incendio quelli stessi che eccitato Taveano. E così r
adunanza fu sciolta. XV. Intimoriti i consoli su tali innovazioni, e solleciti
che le adulazioni di Bruto verso del popolo iiou terminassero in grandi
sciagure, intimarono nel prossimo giorno il Senato. Ivi si fecero discorsi
molti e varj da essi, come dagli altri seniori. Pensavano alcuni che si dovesse
blaudire i plebei con ogni dolcezza di parole e promessa di opere, e renderne i
capi più moderali con esporre lo stato delle cose, e convocarli e consultare insieme
il bene comune : io opposito altri consigliavano che non cedessero, uè si
abbassassero verso del popolo : essere la moltitudine, imperita, e caparbia :
insolente, incredibile 1’ ardore dei capi che 1’ adulano : facessero piuttosto
costare che non ci avea ne’ patrizj colpa ninna, c promettessero ovviare,
quanto potè vasi, al male. Redarguissero e miuacciassero di pene condegne i
sommovitori dei [K>polo, se nou si chetavano. .\ppio era il primo in tal
sentimento, e prevalse in mezzo alle grandi opposizioni de’ padri. Tanto che il
popolo turbalo all’ udirne tanto da lungi i clamori accorse alla curia, e tutta
la città fu sospesa nella espeltazione. Dopo ciò li consoli usciti adunarono il
popolo, restandovi breve DlOXlGi t Zumo 21.parte del giorno, e tentarono di
esporgli i voleri del Senato. Contraddissero i tribuni, nè già fu vicendevole
nè ordinato il colloquio. Gridavano, interrompevansi ; tanto che non era facile
agli astanti distinguere i loro pensieri, e ciò che volessero. Diceano i
consoli cb’essi come di autorità premineute doveano comandare in tutto alla
città ; laddove i tribuni replicavano che i consoli avean dritto in Senato, ma
su le adunanze del popolo i tribuni : questi aver tutto il potere su quanto si
dee discutere e sentenziare da’ voti del popolo. Prendea parte, vociferava per
essi la moltitudine, pronta ad assalire se bisognava, chiunque ostasse loro.
Altronde i patrizj acclamavano, e davan animo ai consoli, circondandoli.
Vivissima era la contesa per non cedere gli uni agli altri ; quasi allora
appunto si cedessero i diritti una volta per sempre. Già il sole era per
tramontare, e tuttavia concorrea dalle case nuovo popolo al Foro: e se la notte
non li troncava, forse i dissidj finivano a colpi, ancora di pietre. Bruto
perchè ciò non seguisse, fecesi innanzi, e chiese ai consoli di parlare ;
promettendo di sedare il tumulto. Concederono questi che parlasse, parendo loro
che si deferisse ai consoli mentre quel capipopolo ciò chiedeva da essi,
presenti i trihuui. Fatto silenzio, Bruto senza dir altro interrogò li consoli
di tal modo: Ki ricordale voi che lasciando noi le divisioni, ci accordavate
per^ diritto che quando i tribuni adunassero sotto qualunque fine il popolo, i
patrizj nè intervenissero all’ adunanza, nè la turbassero ? Ce ne ricordiamo,
disse Geganio. E Bruto ripigliò : qual male aveste voi dunqué da noi che c
impedite, nè permettete che i tribuni dicano ciocché vogliono? E Geganio
rispose: perchè non voi, ma noi consoli avevamo chiamato il popolo a
parlamento. Se fosse stalo invitalo da voi, non V impediremmo ; anzi nemmeno
curiosi ci brigheremmo in ciò che si tratta : ora essendo da noi convocalo, non
v' impediamo che Jdvelliale ; ma che noi ne siamo impediti, ciò non è giusto.
Allora Bruto, abbiamo vinto, disse, o popolo: concedesi a noi dagli awersarj
q> anlo chiedes’amo : ora desistete, chetatevi, ritiratevi : domani
promettevi dichiarare quanta forza V abbiale. E voi tribuni cedete ad essi di
presente nel Foro : non sempre già qui cederete qiumdo abbiate compreso ( e
presto lo comprenderete, io prometto chiarirvene ) il potere del vostro
magislialo. Abbasserete cotanta loro preminenza : e se troverete che io V abbia
deluso, fate ciocché vi piace di me. XVII. E uiuno più contraddicendo,
ritiravausi tutti dall’ adunanza : non però gli uni e gli altri con pari
divisaniento. Credeano i poveri che avesse Bruto ideato qualche nobile impresa,
e che non indarno la promet' lesse : ma i patrizj trascuravano la leggerezza di
lui, pensando che T audacia delle promesse non andasse più in lò delle parole;
non essendo conceduta dal Senato ai tribuni altra autorità che di proteggere il
popolo, se non facevasi ad esso ragione. Non però la cosa parca spregevole a
tutti, specialmente ai seniori, ma che dovesse attendersi che la manìa di un
tal uomo non generasse mali insanabili. Bruto la notte appresso svelato il
parer suo fra i tribuni, e raccolta una massa non tenue di popolo, ne andò di
conserva nel Foro : e prima clie si facesse di chiaro, occupato il tempio di
Vulcano donde eglino soleano concionare, invitarono il popolo a parlamento.
Empiutosi il Foro di un concorso, quale mai più V era stato, presentasi Icilio
il tribuno, e parlavi luughissimamente contro de’padri. Egli commemora quanto
han latto in danno del popolo, e come nel giorno addietro aveano impedito lui
fin di parlare contro i poteri ancora della sua dignità. E qui disse : e di che
altro tarem più padroni se noi siam di parlare ? Come potremo soccorrere voi se
ojffesi, quando ci si toglie la libertà di adunarvi ? Son le parole i preludj
delle operazioni : nè ignorasi che quelli che non possono dir ciocché pensano,
nemmen possono far ciocché vogliono. Pertanto o ripigliatevi, disse, la potestà
che ci deste, se non volete mantenercela inviolabile; o proibite con legge che
alcuno più ci si opponga. A tal dire provocavalo il popolo che egli stendesse
la legge : e siccome teneala già scritta, la lesse. £, dispensati i voti, fe’
che il popolo immantinente ne decidesse ; parendogli non esser questo un affare
da esitarne, o differirlo, perchè non avesse altri inciampi dai consoli. La
legge era questa : Concionando un tribuno al popolo, niuno aringhi in
contrario, nè interrompalo : e se alcwio contravvenga, dia mallevadori ai
tribuni di pagare, chiamatone in giudizio, la multa che gl imporranno : e non
dandoli, egli sia punito di morte, li beni di lui sien sacri, e tutte le
controversie su tali multe spettino al popolo. I tribuni confermata coi voli la
legge dimisero 1’ adunanza : ed il popolo si ritì rò, tatto di bu on anirno, e
pieno di riconoscenza per Bruto, come per 1’ autore della legge. Dopo ciò li
tribuni ripugnavano ai consoli molto, e su molte cose : nè il popolo ratificava
i decreti del Senato, nè il Senato approvava decisione niuna della plebe. Cosi
teneansi contrapposti e sospetti. Non però r odio loro, come avviene in simili
turbolenze, procedette a danni irreparabili. Imperoccbè nè i poveri investirono
mai le case de’ ricchi ove concepivano che troverebhon de’ cibi riservali ; nè
mai si lanciarono su palesi merci per involarle : ma pazienti comperavano a
gran costo il poco, e sostcneansi di radici e di erbe se penuriavan di argento.
Nè mai li ricchi per dominare soli nella città violentarono colla forza
propria, o de’ clienti, (eh’ era pur molta) la classe indigente, esiliandone o
trucidandone ; ma conduceansi come padri savissimi inverso de’ figli, con cuore
sempre benevolo e premuroso tra le lor delinquenze. Or tale essendo lo stato di
Roma, le città vicine invitavano qual più volealo de’ Romani tt traslatarsi nel
seno di esse, allettandoli con dar loro la cittadinanza, ed altre propizie
speranze : ma le une invitavano mosse dai bei genj per benevolenza e pietà nei
mali altrui, le altre (ed eran le più !) per invidia della prosperità passata
della repubblica. E furono ben molli quei che partirono con tutte le famiglie,
e posero altrove il soggiorno : ma taluni di questi, riordinato lo stato,
ripatrìarono, e tal’ altri mai più. Or ciò vedendo i consoli parve loro, per
voler del Senato, che avesse a farsi una iscrizione di soldati, e porre in
campo un esercito. Prendeano occasione speciosa a tanto dall’ essere la
campagna tante volte danneggiata dalle scorrerie, e saccheggi de’ nemici ;
calcolando ancora i beni che nascerebbero dall’ inviare un esercito di là da’
confìni : mentre quei che restavano avrebbero, come diminuiti, le vettovaglie
in più copia: e gli altri colle arme vivrebbero io siti più abbondanti a spese
dell’ inimico, e la sedizion tacerebbe, almen quanto si tenesse in piedi
l’armata. Tanto più poi sembrava che resùiuirebbcsi la calma tra patrizj e
plebei, quanto che dovrebbei'o militare insieme, e partecipare i beni e i mali
a fronte de’ pericoli. Non però la moltitudine ubbidiva, nè si presentava
spontanea, come altre volte, per essere iscritta. Non vollero i consoli foi^ zare
secondo le leggi i renitenti : ma alcuni patrizj s’iscrissero volontarj co'
loro clienti, congiungendosi ad essi che uscivano, anche picciola parte di
popolo per militare. Era duce di quest’ esercito quel Caio Marcio, il quale
espugnò la città de’ Coriolani, e riportò la corona dei forti nella pugna cogli
Anziati. Or vedendo lui per capitano, i più de’ plebei che aveano piglialo le
anni vi si confermarono, altri per benevolenza, altri per la speranza di
esserne diretti a buon fine. Imperocché famosissimo egli era quest’ uomo, e
grantal esercito fino ad Anzio ; impadronendosi di schiavi ^ e di bestiami in
copia, senza dirne il mollo grano che era ne’ campi ; tornandone indi a non
molto ricchissimo fatto di viveri : tanto che quei che s’ eran rimasti, eran mesti
e dolenti verso de’ tribuni, pe’ quali sembravano privi di un tanto bene : cosi
Geganio e Miuucio consoli di queir anno trovatisi in tempeste varie e grandi, e
più volte in pericolo di rovinar la cilli, non operarono nulla con troppa
efficacia : pur salvarono la repubblica più savj che prosperi nell uso delle
circostanze. XX. Marco Minucio Augurino, ed Aulo Sempronio Atraiino eletti
consoli dopo loro, presero per la seconda volta quel grado. Non imperiti
nell’arme, e nel dire, empierono con assai provvidenza la città di grano e di
ogni maniera di viveri, come si ristringesse all’ abbondanza la concordia del
popolo. Non però poterono ottenere 1' uno e 1’ altro bene ; ma venne colla
sazietà pur l’orgoglio in quelli eh’ eran saziati. E quando meno pareva, allora
fu su Roma il pericolo maggiore che mai per addietro. I commìssarj spediti pe’
grani, comperatone negli emporj entro terra o sul mare, lo aveano già
trasportato a' pubblici serbato)'. Quand’ ecco i negozianti pure di viveri ne
condussero d’ ogn’ intorno in Roma : e Roma comperando a pubbliche spese i lor
carichi, li custodiva. Vennero i primi i commissarj spediti in Sicilia, Geganio
e Valerio con piene assai barche ; portavano in esse cinquanta mila moggia
siciliane di grano, metà procacciato a lievissimo costo, e metà regalato e
mandato a spese sue dal tiranno. Nunziatosi in città 1’ arrivo delle navi
portatrici de’ grani siciliani ; discussero i patrizj longamente come avesse a
disporsene. I più moderati e popolari fra loro, considerata la pubblica
calamità, consigliavano che il grano donato dal re si donasse ancora a tutti
del popolo, e che 1’ altro Anni iti Roma 263 seconda Catone, 265 secondo
Varone, e 469 avanti Cristo. tìet.le Antichità’ hotmane comperato coll’ erario,
si vendesse loro a picciol mercato, ricordando clie per tali beneficenze
principalmente si ammansano gli onimi de’ poveri verso de’ ricchi. Per r
opposito i più arroganti fra loro, ed amici del comando dei pochi,
sentenziavano che aveasi con tutto r ardore e l’ ingegno a deprimere il popolo,
ed eccitavano a non fargliene se non carissima la vendita, perchè la necessità
li rendesse per innanzi più savj e più conformi alle leggi. Fra questi amici
del comando de’ pochi era pur quel Marcio, chiamato Coriolano, uè già dicea
come gli altri in occulto e con riguardo i proprj sentimenti, ma di proposito,
e con ardore, sicché molti del popolo lo udirono. Avea costui non che le cause
comuni contro del popolo, motivi privati e recenti onde parer di odiarlo
meritamente. Cercando esso ne’ comizj ultimi il consolato, il popolo se. gli
oppose, ad onta de’ padri che lo sostenevano, nè permise che lo conseguisse ;
perchè sospettava che un tal uomo colla chiarezza ed ardire suo prendesse ad
abbattere il tribunato ; e tanto più ne temea che vedeva che tutti i patrizj
aderivansi a lui, come a niun altro mai per addietro. Inbammato costui dalla
ingiuria, e macchinando riordinar la repubblica su le antiche maniere,
adoperavasi, come ho detto, palesemente, incitandovi pur gli altri,
aU’annientamento del popolo. Lui cingeva un seguito di molti nobili e
ricchissimi giovani, e per lui stavano molti clienti, prosperatine già nella
guerra. Esaltato da questi, andavano fastoso, e minaccievole, e fra tutti
chiarissimo; non però ne ebbe termine fortunato. Adunatosi pe’ casi presenti il
Senato e proponendo, com’ è costume, il proprio parere prima li seniori, tra
quali non molti con trariarono manifestamente la plebe ; alfine ridottasi la
disputa ai giovani, egli chiese da’ consoli il poter dire ciocché voleva : e
tra ’l favor grande, e la grande attenzione di tutti cosi contro del popolo
ragionò. Che U popolo non siasi ribellato per necessitA e per disagi, ma
sollevalo dalla rea speranza di abbattere il comando de' pochi, e farsi egli
stesso l’ arbitro del comune ; credo ornai che lo abbiate o padri compreso voi
tutti, considerando la incontentabilità sua nel pacificarcisi. Non era il solo
disegno suo di violare la fede de' contratti, e di abolire le leggi che la
garantivano, senza passare più oltre. Esso per levare il magistrato de'
consoli, ne fondava un altro nuovo, c lo rendeva sacrosanto ed immune per
legge, ed ora, e voi non vel conoscete, lo ha con un plebiscito recente
immedesimato al poter dei tiranni. E per certo, quando gC incaricati di un tal
magistrato col pretestare i bei titoli di proteggci'e i plebei malmenati
opereranno con esso e disporranno come a lor piace, quando niuno, non uomo
privato, non pubblico, potrà impedirne gli abusi per timor della legge la qual
toglie anche il dire non che il fare, minacciando la morte a chi pur lascia
fuggirsi una libera voce in contrario ; dite, e qual altro nome dee mettere
allora chi ha senno a tal magistrato se non quello di ciò che è veramente, e
che voi tutti confesserete, quello cioè di una tirannide ? Siasi un solo che
tirantt^ggia, siasi il popolo tutto, e qual divario ? quando uno appunto è
l’operar di ambedue? Era ottimissima cosa non lasciare mai che il seme s’
introducesse di un simil potere y e soffrir prima tutto, come il valorosissimo
jéppio voleva, antivedendone da lauto tempo le ree conseguenze. Ma giacché ciò
non si fece, ora almeno sradichiamolo, gettiamolo dalla città mentre è debole
ancora, e facile da superarlo. Certo voi non siete, o padri coscritti, nè i
primi, nè i soli a’ quali tocchi ciò fare ; quando molti già tante volte
deviando dalle buone risoluzioni su di affari gravissimi ; e ravvoltisi in
necessità sconsigliate, tentarono estinguere il mal già cresciuto, se impedito
nel nascere non lo avcano. E quantunque la penitenza di chi lardi fa senno sia
da meno della previdenza ; tuttavia sott’ altro rispetto apparisce non
inferiore, rmnullando V errar già commesso coll’ impedir che si termini. Se
alcuni di voi han per gravi le operazioni del popolo, se pensano doversi lui
prevenire sicché più non esorbiti, ma vien loro la verecondia di parere i primi
a rompere i patti e li giuramenti; sappiano, che se fan ciò, saranno
incolpabili innanzi gl’ Iddj, e compiran la giustizia col? utile proprio ;
giacché non eomincian essi /’ oltraggio ma lo respingono, non tolgon essi i
patti, ma chi prima li tolse puniscono. E grandissimo argomento siavi che non
voi cominciate a rompere i patti, non voi l’alleanza, ma il popolo il quale non
più soffre le leggi colle quali ottenne il ritorno. Non chiese già egli i
tribuni per danneggiare il Senato ; ma per non essere danneggiato. Eppure or ne
usa non per ciò che lo dee^ nè per ciò che fu crealo, ma per turbare e
confondere lo stalo della repubblica. Ben vi ricorda dell ultima adunanza, e
delle cose dettevi dot tribuni, e quanta euroganza e quale disordine vi
dimostrassero. Ed ora, niente più savj, quanto fasto non menano al vedere, che
tutta la forza della città sta ne’ voti, e ne’ voti ci vincon essi, tanto
maggiori di numero ? Se dunque han essi incomincialo a frangere i patti e le
leggi; che dobbiamo noi fare se non rispinger la ingiuria p se non ripigliarci
giustamente ciocché ingiustamente ci han tolto ? e frena' tante lor pretensioni
ognora più grandi? e ringraziare gl Iddj che non han permesso che essi coll
acquisto del primo potere divenissero savj per t avvenire ; ma gli han ridotti
a tal vituperio e briga per la quale voi di necessità tentaste ricuperare il
perduto, e custodir ciocché resta, come si dee? Se volete riavervi; non altra
occasione mai fia così buona, quanto la presente. Ora la più parte di essi è
vinta dalla fame, e /’ altra non potrà resistere lungamente per l indigenza, se
abbia i viveri scarsi e cari. Li più rei, quelli non mai propensi al comando
de’ pochi, ridurransi a lasciarci, ma gli altri più miti diverranno ancora più
docili, nè mai più vi turberanno. Custodite dunque, non iscemate di prezzo i
viveri, e fate che vendansi il più caro che mai. Voi ne avete oneste occasioni,
e pretesti lodevoli nella ingratitudine di un popolo che mormora, quasi abbiate
voi prodotta la carestia, nata dalla ribellione loro, e dal guasto che diedero
alle campagne, levandone e trasportandone ciocché vollero come da terre
nemiclie, e nelle spese dell’ erario per la spedizione de’ commissarj in cerca
di viveri, e nelle tante altre ingiurie, onde foste oltraggiali. Conoscansi fin
da ora quali sono i mali co’ quali ci afliggeranno, se non facciamo tutto a
piacere del popolo, come i capi loro dicono per atterrirci. Se vi lasciate
fuggir di mano questa occasione ; ne sospirerete le mille volte una simile. E
se il popolo sappia una volta che voi macchinavate di abbattere tanta sua
forza, ma ne desi-, steste ; tanto più vi si renderà gravoso, tenendovi nei
vostri voleri come nemici, e come impotenti ne’vostri timori. Si divisero a tal
dire di Marcio i pareri, e molto si romoreggiò nel Senato. Imperocché quelli
che da principio contrariavan la plebe, e ne ammisero malgrado loro la pace,
tra quali erano i giovani, quasi tutti, e li più ricchi e più riguardevoli de’
seniori ; esasperandosi della impudenza di essa, encomiavan quest’ uomo come
generoso, come amico della patria, e che parlava il ben del comune. Ma quelli
che propendeano, come prima, verso del popolo, nè stimavano le ricchezze oltre
il dovere, nè credevano cosa alcuna necessaria quanto la pace, eransi
corucciati a tal dire, non che vi aderissero. Volevano che si vincessero i
poveri colle dolci, non colla violenza : essere la dolcezza una cosa non solo
conveniente ma necessaria ; principalmente per la benevolenza verso de’ eittadini
: e chiamavano que’suoi consigli non libertà di detti, e di opere ; ma delirj :
nondimeno questo partito, come picciolo e debole, era sopraffatto dall’ altro
più forte. Oi! dò vedendo i tribuni ( eran questi presenti, invitati in Sonato
da’ consoli ) gridarono e fremerono, chiamando Marcio peste e rovina della
città ; come lui cbe usciva in discorsi si rei contro del popolo. E se i
patrizj non lo frenavano coll’ esilio o con la morte, mentre svegliava in Roma
una guerra civile, essi, diceano, che lo punirebbero. Or qui nato un tumulto
ancora più vivo pei discorsi dei tribuni, principalmente dal cauto dei giovani
cbe mal sopportavano quelle minacce ; Marcio animatone parlò più veemente
ancora e più risoluto. Io, diceva, io se voi non la finite di far qui
turbolenza, e di sommovere i poveri; io da ora innanzi mi farò cantra voi non
colle parole, ma colle opere. Or qui riscaldatosi più ancora il Senato, i
tribuni vedendo che più erano quelli che volevano richiamare, che serbare i
poteri conceduti alla plebe, fuggirono dal Senato gridando, e protestando gl’
Iddj, vin non fate voi parer vere le calunnie che di voi si spar^ gono ? e che
savj sono pel pubblico, quanti consigliano che non pià crescer si lasci questa
vostra potenza violatrice delle leggi ? A me così par certamente. Afa se
vorrete far cose, contrarie a quelle delle quali vi accusano, moderatevi, ve ne
consiglio : ricevete a cor placido, e non con ira, i discorsi dai quali siete
investiti. F’oi se così fate, ne parrete uomini dabbene, e coloro che vi
odiano, ne saran/w pentiti. Avendovi cojè noi fatto ragione amplissima come
pensiamo, non siate, ve n esortiamo, indegni di voi. Folendovi noi implacidire
non esasperare ; miti, umane furono le opere colle quali vi abbiamo trottato :
io dico, per tacere le antiche, quelle fattevi di recente pel vostro ritorno.
Certamente sarebbe pur giusto che voi vi ricordaste di queste ; mentre noi
vorremmo dimenticarcene. Tuttavia la necessità ci stringe a ricordarvele per
chiedervi in contraccambio di tanti e grandi benefizj che noi già concedevamo
alle istanze vostre, che nè si uccida, nè bandiscasi Un uomo amantissimo della
patria, e nobilissimo infra tutti nella guerra. Non poca sarebbe la perdita,
voi lo vedete, se Roma fosse privata di tanta virtà. Egli è giusto che
mitighiate lo sdegno verso lui, risgiiardando almeno quanti ne salvò di voi
nella guerra, e ripetendone le belle sue gesta, non perseguitandone lé vane
parole. Niente vi hanno i detti nociuto di lui, ma moltissimo i fatti vi
giovarvno. ' Che se pur siete inflessibili in suo riguarda, donatelo almeno a
noi, donatelo al Senato che vel chiede : rendete una volta la stabile calma, e
la sua unità primitiva alla patria. E se voi non vi piegherete alle nostre
persuasive ; riflettete che neppur noi cederemo alle vostre violenze. Così il
popolo messone a prova o sarà cagione a tutti di amicizia sincera e di beni
maggiori; o nuovo principio di una guerra civile, e di gravissimi mali. I
tribaoi, avendo Minuzio cosi perorato, consideratane la moderazion del dire, e
come la plebe mossa dalia dolcezza delle sue promesse, ne furono sdegnati e
dolenti, e soprattutti Cajo Sicinio Belluto, quegli che avea suscitato i poveri
a ribellarsi da’ patrizj ed erane stato nominato capitano, 6nchè fìiron su
Tarmi. Nemicissimo degli ottimati, era perciò stato portato a grande chiarezza
da’ cittadini. Ora creato per la seconda volta tribuno giudicava che a ninno
giovasse men che a lui che la città fosse appieno concorde, e ripigliasse la
forma antica. Imperocché vedeva che se governavano gli ottimati, egli nato e
cresciuto ignobile, senza luce alcuna d’ imprese in pace o in guerra, non
avrebbe più gli onori, nè la influenza medesima ; anzi che correrebbe pericoli
estremi, come sommovitore dei popolo, ed autore di tanti suoi mali. Fissato
adunque ciocché avrebbe a dire e fare, e consultatosene co’ tribuni compagni,
poiché li ebbe unanimi, sorse, e lamentata brevemente la disgrazia del popolo,
lodò li consoli perchè degnati si fossero di rendere ragione ai plebei, senza
spregiarne la loro bassezza : e d'sse che rìngraziava i patrizj ancora, perchè
nasceva finaluaente in' essi la cura della salate de' poveri ; e che molto più
egli ciò contesterebbe 'a nome di tutti i colleghi, quando darebbero pur le
operc> simili ai hitti. Cosi proemiando, e parendone anzi sedato, e propenso
alla pace, si volse a Marcio presente ai consoli V e disse i E tu o valentuomo
niente ti difendi coi tuoi cittadini su quanto hai detto in Senato ? Chè non
supplichi piuttosto, e ne plachi lo sdegno, sic’ chò miti sieno nel
sentenziartene ? Già non 'vorrei che tu negassi un tale tuo fallo, avendolo
tarili ve ; nè che, tu Marcio, tu pià altero in cor tuo che un privato, ti
volgessi ad invereconde difese. Sarà parato non indegno ai consoli ed ai
patrizj di aringare essi in tuo bene, nè parrà per te degno che tu lo facci su
te stesso? Or cosi parlava -costui ; ben conoscendo che quel generoso non
soffrirebbe mai di essere T accusator di sestesso, e chiedere come colpevole la
esenzion della pena, nè mai contro l’ indole sua ricorrerebbe alle umiliazioni
ed alle suppliche: ma che o ricuserebbe fare ogni difesa ; o facendola coll’
innato ardimento suo, niente tempererebbe nè il popolo, nè il dire. E cosi fu ;
perchè taciutisi, e presi i plebei, quasi tutti, da bel desiderio di liberarlo,
purchéegli ne &vorisse la occasione, manifestò tanta insolenza e dispregio
per essi ; che nè, presentatosi, negò le parole da lui dette in Senato, nè come
pentitone, si diede ad impietosirli e placarli: ma fin sul principio non li
volle, come privi di autorità competente per giudici di cosa ninna, pronto per
altro a sottomettersi, com era la legge, al tribunolc de’ consoli, se alcuno
volesse ac> cusarvelo, e cbiederoe soddisfazione pe’deui, o per le, opere.
Diceva eh’ egli era, colà venuto, giacché vel chiamarono, parte per riprendere
le loro prevaricazioni, e la incoutentabiUlà j manifeslala aemprepiù nella
separazione y e dopo il riiomo ; e parte per consigliarli, per fiammata,
soffiandovi, 1’ ira del popolo, concluse l’ao cosa, che il tribunato ne
sentenziava la morte, per r oltraggio fìtto agli edili, che egli percosse e
respinse, mentre per ordin suo lo arrestavano il di precedente: non finire che
su chi gC incarica, gli oltraggi de’ ministri, E così dicendo ordinò che
portassero Marcio al l’altura che sovrasta sul Foro. È questa un dirupo ro>
vinoso e vasto donde solcano precipitare i rei condan nati alla morte. Corsero
gli edili per prenderlo: ma dato un altissimo strido, si levarono conira loro
in folla i patrizj, e quindi contro de’ patrizj il popolo : e molto era in
arabe le parti il disordine, molto lo in giuriarsi. Io spingersi, Tassalirsi.
Se non che gli autori di un tanto moto furouo rattenuti e necessitati a
moderarsi dai consoli i quali, cacciatisi in mezzo, coman darono ai littori di
rimover la turba. Tanta era allora negli uomini la riverenza per quel
magistrato, e tanto il pregio deir autorità suprema ! Intanto Sicinio non piò
saldo, ma perturbato, e timoroso di ridurre i partiti a respingere forza con
forza, non volendo lasciare, nè potendo continuare la impresa una volta
tentata, era pensierosissimo su >ciò che fosse da fare. Or lui vedendo in
tanti dubbj Lucio Gin nio Bruto, quel capipopolo che ideò le condizioni della
concordia, uomo acuto specialmente in trovare, ove mancano, gli espedienti,
venne, e solo con solo, suggerì che non si ostinasse in una disputa ardente, nè
legittima : mirasse tutti i patrizj irritati, e tutti pronti alle armi se vi
fossero invitati dai consoli, ma dubbiosa la parte migliore del popolo, nè ben animata
a permettere senza previo giudizio la morte dell' uomo più. insigne di Roma :
cedesse per allora, egli così consigliava; badasse a non combattere i consoli
per non eccitare mali manieri : piuttosto indicesse a un tal uomo, fissandone
un tempo qualunque, di perorar la sua causa, i cittadini votassero per tribù su
lui: e ciò sen facesse che la pluralità de’ voti dichiarerebbe. Non competere
che ai tiranni la violenza che ora minacciavasi, facendosi il tribuno
accusatore in un tempo e giudice ed arbitro della pena : ma in una repubblica
doversi agli accusati le difese come voglion le leggi, ed il gastigo secondo il
voto dei più. Cedette Sicioio a tale consiglio non trovandone altri migliori, e
fattosi innanzi disse : Foi vedete o plebei V entusiasmo de’ patrizj per la
violenza e le stragi : vedete come tengon voi tutti da meno che un solo
caparbio che oltra^a una intera repubblica. Non conviene che noi li somigliamo
e corriamo alla nostra rovina, cominciando o respingendo una guerra. Ma
perciocché alcuni di loto allegano, come onorevol pretesto, la legge la qual
non permette che uccidasi un cittadino ' senza previo giudizio, ed allegandola
ci tolgono d infliger le pene ; diasi pur luogo alla legge ; quantunque ne’
nostri disagi abbiamo noi mai sofferto nè cose giuste, nè secondo le leggi da
essi. Dimostriamoci anzi probi colle clementi maniere, che del numero de’
vostri of Linno VII. 36 1 Jénsori colla violenza. Ritiratevi ; aspettate, nè
già sarà molto, il tempo avvenire. Noi preparando in^ tanto le cose che importano,
fisseremo a codest’ uomo un tempo perchè si difenda, e non eseguiremo se non la
vostra sentenza. Quando v' avrete in mano i suffragi secondo la legge, votatene
allora la pena che merita. E ciò basti su questo proposito : Che poi
giustissima facciasi la compra e la distribuzione dèi grani, noi vi
provvederemo, se questi (\) ed il Senato non vi provvedono. E ciò detto
disciolse i' adunanza. Dopo questo evento i consoli convocando il Senato
considerarono posatamente come dar fine alla discordia presente. Sembrò loro
primieramente che dovessero cattivarsi il popolo con vendergli i viveri a
picciolo e fàcil mercato, e poi persuadere i lor capi a chetarsi in grazia dei
Senato, nè astringere più Marcio al giudizio, e temporeggiare in fine
lunghissimamente, se non lasciassero persuadersi, finché l’ ira del popolo si
diminnissc. Ciò decretato portarono e proclamarono al popolo tra pubblici
applausi l’ editto su i viveri cosi concepito che : sarebbero i prezzi de'
generi necessari al vitto quotidiano, tenuissimi come innanzi la sedizione. Poi
col molto insistere presso de’ tribuni ebbero per Marcio dilazion quanta
vollero, se non piena assoluzione. Anzi essi stessi gli procacciarono altro
indugio, valendosi di questa occasione. Gli anziati, spedita una banda di
pirati, aveano predato non lu ngi dal lido, I CoDsvii.mentre tornavano in casa,
le navi e i deputati del re di Sicilia, che aveano recalo i grani in dono ai
Romani, e volgendone ogni cosa come di nemici ad olile, ne teneano in carcere
le persone. I consoli, ciò saputo, spedirono agli Anziati : ma non potendone
per ambasciadori ottener la giustizia, decisero marciare colle armi su loro.
Adunque fatto il ruolo di tutti gl’iegli ninna delle cose ordinate dalle leggi
su de’ giudizj. Pareva ai consoli, deliberatisi col Senato, che non fosse da
permettere che il popolo s’ impadronisse di un tanto potere. Or si diè loro un
titolo giusto e legittimo d’impedirneli ; e credeano, usandolo, di renderne
vani lutti i disegni ; tanto che invitarono a colloquio tutti i capi del
popolo. Congregitisi cou quanti erauo gli opportuni per essi, Minucio disse :
Tribuni, ci è piaciuto decretare che bandiscasi la sedizione da Jloma con tutte
le forze, nè più nudrasi contesa ninna col popqlo ; vedendo voi principalmente
che tornavate dalla violenza alla giustizia ed alla ragione. Or noi lodando voi
di questo proposito, abbiamo reputato che il Senato, come è patria usanza, vi
precedesse co’ suoi decreti. E potete contestare voi stessi che dalP ora che i
nosU'i avi fondarono Roma, il Senato che la ebbe, ritenne sempre questa
precedenza : e che il popolo senza la previa risoluzione idi lui mai nò
giudicò, nè votò non solo in questi tempi, ma nemmeno in quelli dei re. Tanto
che li re non rimettevano al popolo, se non le cose decise in Senato, e così le
confermavano. Non vogliate dunque levarci questo diritto, nè abolire tal bella
istituzione primitiva. Preanvmonile il Senato, se avete il bisogtto di cose
moderate e giuste, e quello che il Senato ne avrà giudicato, quello notificate
al popolo, e ne decida. Cosi discorrendola i consoli, Sicinio mal sopportavali,
nò volea render aibitro di cosa ninna il Senato. Ma gli altri, eguali a lui di
potere, seguendo i suggerimenti di Lucio consentirono che si facesse questo
previo decreto. Imperoccbé ancor essi avevano Lucio Bruto: forte come pensa il
Ccleoio, dee leggersi Decia in luogo di Imcìo, .Certamente in questi affari
elibe parte anche Deciò nominato prima e poi da Dionigi: vedi I. fi, § 8S.
Bruto aveva, tt vero il pronome di Lucio ; Ma Dion'gi nou lo ha mai contratte
guato ancora col solo pronome. r)ELLr antichità’ romane falla ( nè i consoli la
esclusero ) la istanza ragionevole ; Che il Senato desse la parola anche ai
tribuni, che sono i procuratori del popolo, come agli altri che volevano aringare
favorendo, o contrariando; e che infine, dopo udite le discussioni di tutti,
-allóra ciascun padre porgesse il suo voto, premesso il giuramento legittimo,
come ne’ giudizj, e dichiarasse ciocché gli paresse il giusto e V utile della
repubblica : e quello si tenesse per valido che i più. preferissero. Concedendo
i tribuni che si decretasse come i consoli dimandavano ; si divisero.
Raccoltisi nel giorno appresso i padri in Senato, i consoli vi esposero le
convenzioni: e quindi chiamando i tribuni gl’ invitarono a dire le cause per le
quali venivano. £ qui fattosi innanzi Lucio, colui che avea condisceso che si
facesse il previo decreto, disse : Potete ravvisare o padri ciocché sia per
succedere, vuol dire che noi saremo accusati appresso il popolo dell’ essere
qui venuti, e che V accusatore sarà quel nostro collega, per quel previo
decreto che V abbiam conceduto. Pensava costui che -non dovessimo noi chiedere
da voi quello che ci attribuiscon le leggi, nè prendere per benefizio quanto
avevamo per diritto. Chiamali in giudizio correremo in rischio non tenue, che
condannati, abbiamo a soffrire bruttissimamente come chi diserta, e tradisce.
Ma quantunque ciò sapessimo ; noi siamo qui venuti, superiori a noi stessi j
confidando su la rettitudine della causa, e mirando ai giuramenti secondo i
quali voi do' 'vete dirigere le vostre sentenze. Noi tenui siamo, e disacconci
pià assai che non conviene, a parlar di tali cose, che piccole certamente non
sono. Porgeteci non pertanto udienza y e se queste vi parranno giuste ed utili,
e vi a^iungo, necessarie ancora pel conw ne, vogliate spontaneamente
concedercele. Primieramente dirò sul diritto. Quando o senatori cacciaste i
monarchi avendo noi compagni nelr opera, e fondaste il governo nel quale ora
siamo, ed il quale noi non riproviamo, voi vedendo i plebei aggravati ne’
giudizj se mai li facevano ( e molti scn facevano ) co’ patrizj, emanaste per
suggerimento di Publio Valerio consolo una le^e per la quale permettevasi a
tutti i plebei sowerchiati da quelli di appellare al popolo : e per niun altra,
quanto per questa legge, procacciaste la concordia di Soma, e respingeste i re
che vi tornavano in seno. Jn forza di questa l^ge citiamo codesto Caio Marcio
dinanzi al popolo, e gli prescriviamo che risponda su cose nelle quali tutti ci
diciamo da lui sowerchiati ed offesi. Nè su questo abbisognavi previo decreto
del Senato. Imperocché voi siete gli arbitri di deliberare i primi, ed il
popolo di confermare co’ voti quello su cui le le^i non pollano ; ma dove ci
han le leggi, sono immobili, e debbono osservarsi, quantunque niente ora voi,
perchè si osservino, decretaste. Già non dirà ninno che in caso di aggravio ne’
giudizj un privato appelli validamente al popolo, nè validamente v’ appellino i
tribuni. E forti per tale concession della legge, veniamo qui, non senza
pericolo, ad esser sotto voi giudici. Pel diritto della natura, diritto che non
è scritto, nè introdotto come le altra leggi, noi vogliamo che il popolo non
sia nè da pià nè da meno di voi : mentre con questo diritto ha con voi
sostenute molte e grandissime guerre, e mostrato ardore vivissimo per
compierle, contribuendo non poco perchè Roma le desse, non ricevesse da alwi le
leggi. Or voi farete che noi non siamo da meno che voi se frenerete col terror
di un giudizio chiunque attenta contro le nostre persone e la libertà. Pensiamo
che i magistrati, le precedenze, gli onori debbansi compartire ai primi e pià
virtuosi tra voi : ma pensiamo pure ben giusto che essendo tutti sotto un
governo, tutti dobbiamo ugualmente e senza riserva o non essere offesi ^ o
riceverne pari soddisfazione. Come dunque a voi concediamo que’ gradi sublimi e
luminosi, così non vogliamo esser privi dei diritti eguali e comuni. Ma sebbene
potrebbero aggiungersi le mille cose, bastino le dette fin qui sul diritto. Or
quanto sian utili queste cose, quanto il popolo le apprezzi se faccianst,
lasciate che io brevemente ve lo esponga. Su dunque : se alcuno vi dimandi qual
pensiate il pià grande de’ mali, quale la cagioH pià pìonta della roiàna delle
città ; non di~ reste che sia questa la dissensione? certo che sì. Or chi è si
stolido, chi sì fatto a rovescio, chi sì ne“ mico della eguaglianza, il qual
non veda, che se concedasi al popola di giudicare le cause che gli spettano,
avrem la concordia ; ma se gli si neghi, leverete a noi per fino la libertà (
chè la libertà si toglie, a chi le leggi si tolgono e li giudizj ), e ci
ridurrete ad insorgere nuovamente, e combattervi ? Certo che nelle città dalle
quali si escludono i giudizj e le leggi, la discordia soUentra e la guerra. Chi
non si è trovato in guerre civili non è meraviglia che per la inesperienza non
senta ribrezzo de mah antecedenti, nò precluda i futuri. Ma quelli, che caduti
come voi tra pericoli estremi, felicemente se ne liberarono, sgombrando i mali
come permetlevasi dalle circostanze ; quelli, io dico, se vi ricadono, qual mai
scusa aver possono sufficiente e decorosa ? Chi non condannerebbe la stoltezza
e delirio vostro grandissimo, considerando che voi li quali per non avere la
plebe discorde vi piegaste, non ha gìiari t a tante concessioni, forse non
tutte convenevoli ed utili, ora vogliate in discordia tornarvela, tutto che non
siate offesi negli averi, nelf onore, o in altre pubbliche cose, e solo per
favorir chi la odia ? Se non che voi ciò non farete se savj. Con piacere io V
interrogherei quali concetti erano i vostri quando ci concedevate il ritorno
colle condizioni che chietlevamo. Ne apprendevate voi forse ragionando un bene
? o fu necessità che vi ridusse a cedere ? Se ne apprendevate il bene di Roma,
e perchè ora non vi ci attenete ? se fu necessità, se impossibilità di essere
diversamente, or che vi dolete del fatto ? Bisognava, se pur tanto potevate,
non cedere forse da principio ; ma ceduto avendo una volta, non dovete più rimproverarvene.
A me sembra o padri che voi seguiste il vostro migliore nel paci/icarvici : ma
se fu necessità di scendere a condizioni; ella è pure necessità mantenercele.
Voi gV Iddj chiamaste vindici degli accordi, imprecando molte e terribili pene
a chiunque li violava di voi o de nipoti in perpetuo. Ora io non Pedo perchè
dobbiamo tediare pih a lungo voi che tanto bene il sapete, con dire che giuste
ed utili sono le nostre dimande, e molta la necessità che vi astringe a
corrisponderle, se memori siete de Muramenti. Voi capite, o piuttosto ( giacché
io non dico cosa che voi non sappiate ) voi tenete presente che rileva per noi
non poco il non desistere dalla impresa per violenza o per inganno, e che un
fortissimo stimolo ci ha qui condotti, offesi gravemente, e pià che gravemente,
da quest’ uomo. Date dunque su quanto ho detto il vostro voto, ma, dandolo,
considerate qual sarebbe il vostro animo verso quel plebeo, se alcuno pur ve ne
fosse, il quale tentasse dire o fare centra voi nelle adunanze, ciò che qui codesto
Marcio ha pur tentato di dire. Le convenzioni della pace sacrosante al Senato,
quelle che munite più -che con vincoli adamantini j ninno di voi, per averle
giureUe, nè de’ vostri discendenti può sciogliere, finché Roma fia Roma ;
quelle ha il primo codesto Marcio tentato di rovesciarle, non essendo nemmen
quattro anni che si conclusero, e tentato ha di rovesciarle non col silenzio,
non da oscurissimo luogo, ma qui, pubblicissimamente, al cospetto di voi
tutti', sentenziando, che non dovea più lasciarsi, ma ritogliersi a noi la
podestà tribunizia, che è la primaria ed unica difesa della libertà, e col
mezzo della quale potemmo ri^ congiungersi. Nè qui C ardinsento finì del suo
dire, ina vi consigliava a ritorcela ; divulgando come una ingiuria la libertà
dei poveri, e tirannide nominando r uguaglianza. Risovvengavi ( era questa la
più infame delle istanze sue ) com’ egli disse allora, che era pur venuto il
tempo di ricordar tutte le ingiurie del popolo nella prima discordia, e come
esortava quindi a mantenere la stessa penuria di viveri, giacché il popolo,
logoro dai disagf diuturni si ridurrebbe a cedere in tutto ai patrizj. Non
resisterebbero i poveri gran tempo comperando a carissimo prezzo cibi scar-^
sissimi ma parte se ne andrebbero lasciando la cUtà, e parte rimanendovi,
perirebbero infelicissimamerUe, E così delirava, così era in ira ogF Iddj ciò
persua~ dandovi; che non discerneva che oltre i tanti mali co quali
travagliavasi per annientare i trattati del Senato, quando avrebbe ridotto i
poveri i quali eran pur tanti, alle angustie de viveri, questi poveri appunto
farebbonsi addosso agli autori delle angustie, non più tenendoli per amici.
Tanto che se voi pur delirando approvavate il suo parere; non restava più mezzo
: ma ne andava la rovina intera del popolo, o de patrizj. Imperocché non ci
saremmo già dati quasi schiavi a spatriare o morire : ma chiamando i genj ed i
numi in testimonio de' mòli che soffrivamo ; avremmo riempiute, ben lo
intendete, le piazze, e le vie di ukdergogne ; sin che tu abbi un altra difesa
qua^ Itlnque; scendi da quel tuo enlusiatmo orgoglioso e tirannico, toma, o
sciaurato, ai concetti del popolo : renditi simile agli altri', prendi come chi
ha peccato e raccomandasi, un abito dismesso, addolorcvole conforme ai
disastri, e cerca il tuo scampo ; umiliandoti, non insolentendo dinanzi gli
oltraggiali da te. Sianti esempio di bella moderazione^ le opere, le quali se
tu avessi ùnitalo, non saresti ora ripreso dai tuoi cittadini, io dico, quelle
di tanti buoni, quanti qui ne vedi, segnalati per tante virtù militari e
civili, quante non sarebbe facile nemmeno in grati tempo pen.orrere. Li quali
quantunque grandi e risspettabili ; niente mai fecero di duro, niente di or^
goglioso contro noi si tenui e bassi, e primi intromiìsero discorsi di pace,
primi la pace offerirono, quando la sorte ci avea separati, e concedcron la
pace non su le condizioni che essi riputavan migliori, ma su quelle che noi
chiedevamo ; dandosi infine premura grandissima di levcu'e i disgusti recenti
su la dispenstt de' grani per la quale noi gli accusavamo. Ma tralasciando le
altre cose, quali ptcghiere non fecero per te, nel tuo superno accecamento,
presso tutti, e presso ciascuno del popolo per involarti alla pena? Appresso i
consoli ed il Settato, i> quali invigilano su questa, tanto grande città,
crederon bene che al giudizio ti sottomettessi del pòpolo, nè tu o Marcio a
bene lo tieni ? Questi tutti non han per un biasimo il pregare per tuo scampo
il popolo, e tu per biasimo tei prenderai? JVè ciò li bastava, o magnanimo ; ma
quasi fatta una belV o pera, ne vai con fronte altera e magmfìcandoti, e niente
adoperandoti a mansuefarli? per non dire che insulti, che rimproveri, che
minacci la plebe. E pretendendo lui quanto niuno di voi ; non vi sdegnerete, o
Padri, a tanto orgoglio ? Se voi tutti risolveste di accingervi ad una guerra
per esso ; egli dovrebbe amarvene, e tenersi tutto pronto per voi, non accettar
però mai un tal bene privato col danno comune, ma sottomettersi alle difese,
alla sentenza, a tutte infine le pene, se bisognasse. Questosarebbe l’ obbligo
di un vero cittadino, di uno che vuole il bene colle opere, non colle parole.
Ma le violenze presenti qual ne additano mai C indole sua, quale la
inclinazione ? quella appunto di violare i giuramenti, di tradire la fede, di
rescinder gli accordi, di far guerra al popolo, di oltraggiare le persone dei
magistrati, di non sottometter la propria per niuna mai di queste cause, e di
girarsela franchissimamente, non come un eguale di tanti cittadini, ma come uno
che niun teme, e di niuno abbisogna, immunissimo in tutto da tribunali e
discolpe. Or non è questo un vivere alla tirannica? certo che jì / Eppure a
conforto di quest’ uomo spargono aure lievi e suoni dolci, alcuni tra voi che
pieni di odio implacabile verso del popolo non san vedere che questo male si
termina anzi contro de’ nobili che degl’ ignobili, e credonsi affatto sicuri,
sol che deprimano il partito che è loro contrario per natura. Ma non così sta
il vero, ingannati che siete. Prendete a maestra la esperienza che Marcio
stesso vi somministra, prendetene il corso dei tempi: illuminatevi per gli
esempj stranieri insieme e domestici.^ e ravvisale, che la tirannia la qual
nudtesi contro i plebei, contro tutta la città si alimene ta: e che la tirannia
che ora contea noi s’ incornine eia, fortificatasi, contea tutti ruggirà.
Ragionate queste cose da Oecio, e supplite da’ triboni compagni quelle che
mancar vi sembravano, quando il Senato nè dovè sentenziare, levaronsi i primi
in piedi i seniori tra gii uomini consolari, inviati secondo r ordjne consueto
dai consoli, e quindi via via gli altri men riguardevoli per queste qualità :
seguirono ultimi i giovani, ma non disser parola ; perocché ci avea di que’
giorni ancora tra’ Romani la verecondia, che niun giovane si arrogava saperne
più degli anziani. Pertanto accostaronsi essi alle sentenze de’consolarì. Erasi
preordinato che i senatori presenti giurassero prima, come ne’ tribunali, e poi
dessero il voto. Appio Claudio il patrizio, come ho detto, più acerbo col
popolo, e che mai non aveva approvato che si concordasse con esso, mal soffriva
che ora si facesse un pari decreto, e disse : Avi'ei veramente voluto, e più
voltf ne ho supplicato i numi, essermi sbagliato io circa il sentimento su la
pace col popolo, vede a dire che il ritorno de’ fi frusciti non era nè giusto,
nè decoroso, nè utile; tanto che quante volte sen prese a trattare^ tante io
primo ed ultimo mi vi opposi, anche abbona donalo da tutti. Anzi avrei voluto o
padri, che voi li quali per le speranze concepute del meglio, cora- (UscendesCe
ed popolo sul giusto e su t ingiusto, He compariste ora più savi di me.
Hiuscitevi però le cose, non come io desiderava, anche pregando_ne i numi, ma
come io prevedeva, e cangialevisi le beneficente in vilipendio ed odio ; io
lascerò, come estraneo a ciò che dee farsi, di riprendervi e di contristarvi in
vano per le vostre mancanze, quantunque sarebbe pur facile, ed è pur questo f
uso dei più. Dirò piuttosto ciò che può rettificare le cose passate, quelle
almeno che non sono in tutto insanabili, e renderci più savj circa le presenti.
Quantunque non ignoro, che dicendo io liberamente i miei sentimenti, parrò
farneticare e sagrifìearmi, ad alcuni di voi, li quali considerino quanto sia
disastroso il parlar francamente, e riflettano la calamità di Mcuxio, il quale
non per altra cagione ora corre perìcolo della vita. Ma io non penso che la
cura della propria salvezza sia da pregiarsi più che il pubblico bene. Già
questa mia persona è tutta pe’ vostri pericoli, tutta pe' cimenti della patria
; tanto che gl’ incontrerò generosissimamenle, come piace agl’ Iddj, con tutti
voi, o con pochi ^ e solo ancora, se bisogna. Nè finché io vivo, mai mi terrà
la paura dal dire quello che io penso. E primieramente io voglio elte vi persuadiate
una volta senza eccezioni che il popolo è malaffetto, e nemico al governo
presente f e che qualunque cosa gli avete, coma deboli, corueduta, £ avete
spesa vanissimamente, e vi è stala cagione di vilipendio, quasi conceduta £
abbiate per forza, non a ragion veduta, c per beneplacito. Considerate come il
popolo si appartò da voi, pigliando le armi, e come ardi mostrarvìsi
palesissimamente per inimico, non o^eso da voi realmente, ma fingendosi offeso
: perchè non polca corrispondere a suoi creditori, e dicendo, che se decreten
ate la remissione dei debiti, e la condonazione delle colpe commesse per la
sedizione, non desidererebbe più oltre. 1 più di voi, non però tutti, sedotti
da vani consiglieri ( cosi /atto mai non lo avessero ! ) deliberarono di anntdUire
le leggi, mallevadrici della fede pubblica, nè più ricordane, nè perseguitare
l’ esorbitanze passate. Egli però non si tenne già contento di questa
concessione, pel solo bisogno della quale diceva di essersi ribellato ; ma ben
tosto pretese altra prerogativa più grande, e meno legittima : io dico quella
di eleggersi ogni anno dalt ordin suo i tribuni, pretestando il troppo nostro
potere, peichè fossero scudo e rf i^io d poveri oltraggiati ed oppressi, ma in
realtà tendendo insidie alio stato delta repubblica, e volendola ridurre
democratica. Adunque vi persuasero questi consiglieri a lasciare che entrasse
in repubblica il tr ibunato ; come in fatti vi entrò per isciagura comune, e
princìfxdmente in onta del Senato, mentre io, se bene ve ne ricorda, tanto ne
schiamazzava, protestando ai numi ed agli uomini, che introdurreste tra voi una
guerra interna ed implacabile, e presagendovi tutti i mali, quanti ve ne
avvengono. E questo buon popolo che vi ha egli fatto dopo che gli avole
conceduto il tribunato? Non ha già valuta’o degnamente tanto dono, anzi nemmeno
da voi prese con prudenza, e con verecondia, come so glie lo abbiate accordato,
premuti e costernali dalle forze di lui. Ha detto che aveasi a rendere sacro,
inviolabile, sicuro pe giuramenti, ed ha pretesa un autorità migliore che rwn
quella da voi destinata pei consoli. E voi avete tollerato ancor questo, e là
tra le vittime giuravate la roidna di voi e de’ vostri di-scendenti. E dopo
questo ancora che vi ha fatto egli mai questo popolo ? In luogo di riconoscervene,
dolora per le altrui sciagure, e sa compatire gli uomini costituiti in dignità,
se la sorte loro travolgasi. Tuttavia diresse a Marcio la maggior parte del
discorso mista di ammonimenti, di esortazioni, e di preghiere che facevano
violenza. E giacché egli era la causa. della discordanza del popolo dal Senato,
e calunniavasi come tirannica la esuberanza delle sue maniere, e temeasi che
per lui si desse principio alle sedizioni e ai mali gravissimi, quanti ne
sorgono dalle guerre civili; pregavalo a non verificare, o non confermare
almeno le incolpazioni e le paure con quel suo nou gradito contegno : assumesse
un abito più umiliato : sottomettesse la sua persona per dar conto a quelli che
chiamavausi oltraggiati da lui : si presentasse alle difese contro di un accusa
ingiusta si, ma che in giudizio appunto si annullerebbe. Sarebbe un tal fare
più sicuro per la salvezza, più splendido per la fama che desiderava, e più
consentaneo colie opere antecedenti. Dichiarava che se ostinavasi anziché raddolcirsi,
e se riduceva, persuadendoli, i padri a subire ogni pericolo per òsso, misera
sarebbe per loro se vinti la perdita, ma turpissima se vincitori, la vittoria.
E qui tutto davasi al pianto, riepilogando i mali gravi e non dubbj che
straziano nelle discordie le città. LY. Tali cose esponendo con molte lagrime
non artificiose 'e noa finte, ina vere, egli venerabillstima per anni e per
meriti, come videne commosso tutto il Senato, cosi con più confidenza seguitò,
dicendo : Se alcuno di voi conturbasi, o padri, pensando che introducesi un
tristo costume nel concedere al popolo di votar su patrizj, e che non produrrà
niun bene f autorità de' tribuni che tanto si fortifica, sappiate che voi siete
errici, e v ideate il contrario di quel che conviene Imperocché se mai vi sarà
metodo salutare, metodo per cui non si tolga né la libertà nè le forze a Romec,
e per cui le si conservi in perpetuo la concordia ; senza dubbio il metodo
principalissimo sarà quello che assumasi anche il popolo al goverrto, talché
non sìa questo nè pretta oligarchia, nè democrazia, ma un tal misto di tutti. E
questa la forma che più che tutte ne giovi ; perchè ciascuna delle altre,
applicata sola, com è per sestessa, scorre facilissimamente alle insolenze ed
alle ingiustizie; laddove quando una forma si abbia ben contemperata da tutte,
allora se una parte commovesi ed esce dalr orditi suo, vien contenuta sempre
dall altra, che è savia, e tiensi al dovere. La monarchia divenuta dura^
superba, tirannica, suole abbattersi da pochi valenti uomini : la oligarchia,
qual voi t avete al presente, se troppo s' innalza per le ricchezze e per le
aderenze, nè più tien conto della giustizia e della virtùf si annienta da un
popolo savio : un popolo savio e che vive secondo le leggi, se poi volgesi ai
disordini ed alle ingiustizie; è sopraffatto dalle arme, e rimesso piomat, tamo
II. '. j5 Digìtized by Google 386 DELLE antichità’ ROMANE in dovere dal pià
forte. Voi trovaste, o padri, rimedj efficaci perchè il potere di un solo non
si mutasse i n tirannide. Voi scegliendo in luogo di un solo due capi della
repubblica, e dando loro il comando non per un tempo illimitato, ma per un
anno; destinaste oltracciò per invigilarli i trecento patrizf, i più anziani e
più grandi, da' quali è composto il Senato. Ma voi, per quanto si vede, non
avete fin qui messo per voi niun che vi osservi, e tenga in dovere. CeT’~
tornente io finora non temei che vi corrompeste ancor voi tra t abbondanza, e
la grandezza dei beni, per-chè non è molto che avete liberato Roma da una vecchia
tirannide ; nè aveste mai comodo di scapricciarvi e cC insolentire per le
guerre continue e lunghe. Ma riflettendo io ciocché può succedere dopo voi, e
quante mutazioni suol produrre la diuturnità dei tempi ; temo che i potenti del
Senato si rimescolino, e riducano per occulte vie finalmente il governo in
tirannide. Ma se comunicherete il comando col popolo, non sorgerà quindi alcun
male. E se altri ( giacché tutto dee prevedersi da chi consulta su la
repubblica) se altri tenti elevarsi più de’ colleghi e del Senato,
procacciandosi un seguito di uomini pronti a congiurare e ad offendere ; costui
citato dai tribuni al popolo, per quanto egli sia grande e magnifico, renderà
conto ai negletti ed ai poveri : e trovatosi reo, ne subirà le pene che merita.
Ma perchè il popolo con tal potere non insolentisca nemmen esso, nè guidato da
capi rei s’ inalberi contro de' buoni, tiranneggiando che nasce tmcìie nel
popolo la tirannide ) ; lo invigilerà, nè pennellerà che ne abusi un uomo
distintissimo per saviezza. Un dittatore eletto da voi con potere assoluto,
inappellabile, separerà dalla città la parte infetta di popolo, nè lascerà che
la sana se ne corrompa. Egli, riordinati i costumi e le preclare maniere del
vivere, nominati i magistrali, che giudica savissimi per la cura del pubblico,
ed eseguili tali cose in sei mesi, rientri di bel nuovo nella classe de’
privati, conservando per sè t onore, e non più. Pertanto considercutdo vqì
questo, e giudicando bonissima tal forma di repubblica, non vogliate da ciò che
chiede escludere il popolo. Ala come avete attribuito al popolo che scelga ogni
anno i magistrali che regolino, che ratifichi o annulli le leggi, e decida
della guerra e della pace, cose tutte rilevantissime e principali tra quante in
uno stato sen facciano ; nè avete di niuna di esse lasciato cubitro
indipendente il Senato ; cosi chiamale anche il popolo a parte dei giudizj,
massimamente se alcuno sia accusato di offendere la stessa repubblica,
eccitando sedizioni, preparando la tirannide, convenendosi co’ nemici di
tradirci, e macchinando mali consimili. Imperocché quanto più renderete
terribile agl indocili ed ai superbi la trasgression delle leggi, e le
innovazioni di Stato, mostrando intenti su loro più occhi e più guardie ; tanto
più la repubblica starà nel suo fiore. Dette queste e cose consimili, tacque.
Convennero nel parere medesimo gli altri senatori sorti dopo lui, eccettuatine
pochi. E standosene ornai per formare il decreto ; chiese Marcio la parola e
disse : Quale, o padri coscritti, io sia stato verso la repub^ blica, come io
sia venuto in tanto pericolo per la benevolenza mia verso di voi, e come ora io
ne sia da voi contraccambiato fuori della mia espettazione, voi tutti il
vedete, e meglio lo intenderete ancora dopo dato un fine alle mie cose. Ed oh !
se come la sentenza di Valerio prevale ; così vi giovasse, ed io mi sbagliassi
nelle mie congetture sul futuro. Almeno però perchè voi che siete per emanare
il decreto, conosciate le cause p^r le quali mi consegniate al popolo, nè io
ignori su che sarà combattuto nelt adunanza di esso ; intimale ai tribuni che
dicano alla presenza vostra la ingiustizia su la quale mi accuseranno, e qual
titolo diasi a questo giudizio. LVin. Egli cosi diceva, perchè congetturava che
a vrebbe a difendersi appunto pe’ discorsi fatti in Senato, e perchè voleva che
i tribuni convenissero che su que sto appunto verserebbe l’azione. Ma i tribuni
consultatisi lo accusarono che brigato avesse la tirannide, e su. questa accusa
chiedevano che venisse a difendersi. (Schivi di restringere 1’ accusa ad una
sola causa, e questa nè valida nè cara ai Senato ; riserbavansi il potere di
accusarlo su quanto volevano > pensando che resterebbe così Marcio spogliato
di tutto il soccorso del Senato ). Marcio dunque replicò: se io debbo essere
giudicato su questa calunnia, mi sottometto ed giudizio del popolo, nò mi
oppongo che ne stenda il Senato 'il decreto. Piaceva al più de’ padri che su
ciò si rigirasse l’accusa e per due fini: perchè da indi in poi non più sarebbe
un senatore incolpato per dire cioc> chè pensava nelle consultazioni ; e
perché di leggieri quel valentuomo se ne purgherebbe, sobbriissimo altron de,
ed irreprensibile nella vita. F u dunque, secoudo ciò, steso il decreto pel
giudizio : e dato a Marcio tem po per preparar le difese da indi al terzo
mercato. Tenevasi allora, e tuttavia si tiene da’ Romani il mercato in ogni
nono giorno. In questi adunandosi i plebei dalle campagne in città ; vi
cambiavan le merci, e vi discutevano le liti private : e ricevendo i voti ;
sentenziavano su le cause pubbliche, riservate loro dalle leggi, o dal Senato.
Negli otto giorni intermedj a’ mercati viveansi nelle campagne, essendone i più
di loro lavoratori e poveri. I tribuni preso il decreto, e recatisi al Foro,
v’adunàrono il popolo : e lodatovi con ampj encomj il Senato, e lettavene la
sentenza ; intimarono il giorno nel quale si finirebbe quella causa ;
raccomandando a tutti d’ intervenire, perchè discuterebbono importantissime
cose. LIX. Divulgato ciò ; vivissime furono le cure e i ma neggi de’ plebei e
de’ patrizj ; di quelli come per punire un arrogante, e di questi perchè non
restasse all’ arbitrio de’ loro avversar] il difensore del comando de’ pochi.
Pareva ad ambi che si mettessero in quella causa a pericolo i diritti tutti
della vita e della libertà. Giunto il terzo mercato, si ridusse dalle campagne
in città tanta moltitudine, quanta mai più per addietro, occupando infino dall’
alba il Foro. I tribuni la invitarono a riunirsi per tribù, separando con funi
il sito dove ciascuna si alluogherebbe. L’ adunanza su quest’ uomo fu la prima
la quale votasse per tribù , sebbene assai si opponessero i palrizj perchè ciò
si facesse ; chiedendo che si tenessero, com’era l’uso della patria, i comizj
per centurie. Imperocché ne’ primi ten>pi se il popolo dovea votare su di
una causa qualunque rimessagli dal Senato ; i consoli adunavano i comizj per
centurie, compiendo prima i sagrifìzj legittimi, che in parte si compiono
ancora. Il popolo ordinato come nei tempi di guerra sotto i centurioni e le insegne,
adunavasi nel campo di Marte posto innanzi della città. Quivi non prendevano e
davano tatti insieme il lor voto ; ma ciascuno nella propria centuria, secondo
che eran chiamate dai consoli. Ed essendo le centurie cento novanta tre, e
dividendosi queste in sci classi, chiamavasi innanzi tutte, e dava il suo voto
la prima classe, la quale formata dei più riguardevoli per sostanze, e primi
negli ordini militari, comprendeva diciotto centurie equestri, ed ottanta
appiedi. Appressò votava 1’ altra classe la quale men comoda per sostanze,
seconda nell’ ordine della battaglia, e men cospicua de' primi per armatura,
formava venti centurie; aggiuntene ancor due di artefici, i quali apprestano
legni e ierro, ed ogni altra macchina militare. Costituivano i chiamati nella
terza classe venti centurie, inferiori tutte nell’ onore, nell’ ordine della
battaglia, e nelle armi, non simili a quelle de’ precedenti. Gli altri chiamati
appresso, rispettabili anche meno in pregio di sostanze e di armi, ma più
sicuri di posto nella battaglia, divideausi ugualmente Anni di Roma a63 secoado
Catone, aR5 secondo Varrone, a 4^ aeCristo. ia venti centurie ; alle quali se
ne univano altre due y di suonatori di corni e di trombe. Qiiamavasi per
quIn-i>. 4 t S'So j ù tratta la materia medesima. I soldati che qui si
dicoDo immuni dai cataloghi militari, erano certameule liberi dalle
coscrizioni: peraltro potevano militare se volevano. (a) Nella prima classe ci
aveano ottanta centnrie appiedi a diciotto a cavallo, ìu lutto novanlollo vedi loco
citato. Le altre classi in tutto costituivano novantacinque centurie : perchè
la seconda classe comprendeva venlidua centurie: la terza venti: la quarta di
nuovo ven lidne : e la quinta trenta; risultaudo la sesta da una sola.
Digitized by Google 3q2 delle antichità’ romane bio da ricorrere al voto fioale
de’ poveri. Era questo il refìigio estreirio, se mai le cento novantadue
centurie scindeansi in parti eguali ; e ne preponderava la parte alla quale
quell’ ultimo voto si volgeva. Chiedeano i difensori di Marcio che si
adunassero i comizj ordinati secondo gli averi, immaginandosi forse che il
valentuomo sarebbe liberato dalle novantotto centurie' della prima classe
quando le chiamavano, o dalie altre almeno della seconda o della terza. Ma
sospettando eziandio ciò li tribuni, conclusero che si avesse a riunire il
popolo per tribù, e così renderlo giudice della contesa ; perchè nè i poveri ci
avessero men potere dei ricchi, nè i soldati leggeri men di quelli di grave
armatura, nè la moltitudine, differita per 1’ ultima chiamata, fosse impedita a
dare egnal voto. Divenuti tutti pari nell’ onore. e nel voto, avrebbero ad una
sola chiamata dato i loro suffragi tribù. Or pareano i tribuni più giusti che
gli altri, col pensare che il giudizio del popolo fosse veramente del popolo,
non della parte fautrice degli ottimati ; e che su le offese di tutti, tutti
dovessero sentenziare. Conceduto ciò con stento da’ patrizj, essendosi ornai
per disputare la causa, Minucio 1’ altro de' consoli ascese il primo in
ringhiera, e disse quanto eragli stato commesso dal Senato. E prima ricordò
tutte le beneficenze, quante il popolo ne avea ricevute da’ patrizi : e poi
chiese in contraccambio di queste, eh’ eran pur tante, che il popob concedesse
una grazia, necessaria ad essi che la domandavano, pel pubblico bene : quindi
lodò la concordia e la pace e rilevò di quanti beni Sten causa I’ una e T altra
nelle citUi: condannò le sedizioni e le guerre intestine; e mostrò, che ne
erano stale distrutte le città con gli abitanti, anzi le • intere nazioni :
raccomandò che secondando l’ira non isceglies sero il peggio per lo migliore:
che provredessero il futuro con saviezza, non si valessero in consultazioni gra
vissime dèi consiglio de cittadini più tristi, ma di quelli che tenean per
bonissimi, da’ quali sapeano sere stata tanto giovata in guerra ed in pace la
patria, e de’ quali non era giusto che diffidassero, quasi avessero già mutato
> natura. Era 1’ intento di tanti discorsi, che non dessero niun voto contro
di Marcio, ma in vista prindpal mente di essi assolvessero quel valentuomo ;
ricoi> dandosi quale egli era stato per la repubblica, quante guerre avea
portato a buon termine per. la libertà e per r impèro di Roma, e come non
farebbero cosa nè pia; nè giusta, nè degna di. loro, se ingrati alle opere
segnalate di lui ne punissero le vane parole. Esservi bellissima la opportunità
di dimetterlo ; giacché egli presen tava la sua pmeona ai nemici, per subirne
in pace il giudizio che di lùi formerebbero. E se non che riconciliarsegli,
persistevano duri, implacabili con esso, almeno giacché il Senato trecento i:
più insigni della città, facevasi a supplioudì, s’ impietosissero e
mansuefacessero, ciò considerando ; nè per punire un nemico ributtassero le
{ghiere di tanti amici, ma in grazia di tanti valealuomini condonassero la pena
di un solo. Dette queste consimili cose, aggiunse in ultimo, che se
assolvesserò dopo dati i voti un tal uomo, parrebbouo ril.iaciarlo per non
esser stato un ofTeusore del popolo : ma se proibivano di prosegniroe il giudieio,
mostrerebbero di donarlo a tanti che per lui supplicavano. E qui taciutosi
Minucio, fecesi innanzi Sicinio il tribuno, e disse: che. uè egli tradirebbe la
libertà del popolo, nè permetterebbe di buon grado che altri la tradissero.
Pertanto se i patiizj sottomettevano realmente un tal uomo al giudizio del
pòpolo, iàrebbe che su lui si votasse, nè punto da ciò i si scosterebbe. ^ E;
qui subentrando Minucio replicava : Poichésiete o tribuni fermi in tutto eli
dare il voto su quest’uomo; almeno non lo accusale di altro che della offesa
imputatagli. K poiché lo dinunziaste reo di ambita tirannide di chiarate e
convincete, ciò con gli argomenti t ma' non vogliate .nè ricordare nè accusare
le parole, le quali 10 incolpavate, di^ carer. detto in Senato.^ Imperocché 11
Senato lo dichiarava immune da que'sta colpa j e sentenziò phe al popolo si.
presentasse '..per le cause convenute. E qui lesse la seuteoBa. E pò,bn gli
altri più potati de’ tfibutii. Manon eà' tosto' tocoù atMarciu-di perórare,
combaciando da capo, numttò quante spedizioni militari avea sostenuto dalla
prima età sua>per.^ blica, quante corone trionfali avea' riportate da saoi
cc.^^ mandanti, quanti erano i nemici presi da lui prigionieri, quanti li
Cittadini salvati nelle battaglie. E ad ogni dir suo mostrava i premj dati al
suo valore, e ne profferiva io testimonio I capitani, e ne chiamava a nome i
cittadini liberati. E questi si presentavano sospirando e supplicando i
cittadini a non uccidere, nè distruggere come nemico chi era la causa della loro
salvezza ; chiedendo la vita di un solo per quella di tanti, ed esibendo in
luogo di lui sestessi, perchè come più voleano ne disponessero. Erano i più di
loro del popolo anzi al popolo utilissimi. E preso il popolo da verecondia all’
aspetto ed alle lagrime di tanti ne impietosi, e ne pianse. Quando Marcio
squarciandosi 1’ abito, mostrò pieno il petto, piene le altre membra di
cicatrici, e dimandò se credeano poter esser le opere di un uomo stesso salvare
il popolo in guerra dà nemici, e saU alo opprimerlo nella pace : e se chi fonda
una rannlde, caccia dalla città una porle del popolo, dal (filale
principalmente la tirannide si alimenta e corrohora. E lui parlando ancora,
tutti i più mansueti, e più umani del popolo esclamavano, che si rilasciasse: e
vergognavansi che stesse fio dal principio in giudizio per simil cagione un
uomo che avea tante volte spregiata la propria salvezza per quella di tutti. Ma
tutti i più invidiosi, tutti i più malevoli ai buoni, e più pronti alle
sedizioni, soffrivano di mai in cuore di avere a liberare un tal uomo :
tuttavia non sapeano che più fare, non apparendo in esso indizj nè di
tirannide, nè di ambizion di tirannide, e su ciò dovessi giudicare. Or ciò
vedendo quel Decio che avea ragionato in Senato, e procurato che si stendesse
il decreto per la causa, levatosi in piede fece silenzio e disse : Poiché, o
popolo, i patrizj hanno assoluto Marcio dalle parole dette in Senato, e da
fatti violenti e superbi che le seguirono: nè vi hanno lasciato mezzi onde
accusarlo ; udite, non le parole, no, ma la egregia cosa che questo valentuomo
vi apparecchiava ; uditene £ orgoglio, la sovverchieria, e conoscete qual
vostra legge, egli privatissimo uomo, violasse. Koi tutti sapete che quante
spoglie nemiche ci riesce di acquistar col valore, tutte per legge son del
comune, e che niuno, nemmeno lo stesso capitano, non che un privato, ne è £
arbitro ; sapete che il questore le prende, le vende, e, fattone danaro, lo
versa nel pubblico erario. Or questa legge che niuno da cheRoma è Roma non solo
non ha mai violato, ma nemmeno ha ripreso come non buona ; questa già firmala,
invalsa, questa ha £ unico Marcio conculcata, appropriando le prede che erano
del comune, £ anno scaduto, e non prima. Imperocché essendo noi scorsi su le
terre degli Anziati, e pigliato avendovi prigionieri, e bestiami, e frumenti,
ed altro in copia ; egli non depositò già tutto' nelle mani del questore: e
nemmeno, alienandolo, ne mise il prezzo nel£ erario : ma divise in dono agli
amici suoi per cattivarseli, tutta la preda ; or questo io dico eh’ egli è
argomento certissimo di tirannide. E come no ? Costui beneficava col tesoro
pubblico li suoi adulatori, li custodi della sua persona, li cooperatori della
tirannide. E vi affermo che questo fu come un abrogare manifestamente la legge.
Or su, facciasi pure innanzi Marcio, e dimostri £ una o £ altra delle due;
omelie egli non compartì le belliche prede a’ suoi amici ; o che se bene ciò
fece, non ruppe la legge. Ma egli non potrà dire ninna di queste due cose.
Imperocché voi sapete ( una e V altra, la legge e t opera : Nè mai potrete coll
assolverlo, dar vista di conoscere i diritti ed i giuramenti. Lascia o Marcio
le corone ed i premj, lascia le ferite ed ogni ostentazione, e rispondi a
questo, su che li concedo ornai che tu parli. Cagionò tale accusa grande
mutazione; e li più dolci, e più premurosi per I’ assoluzione di questo uomo si
rallentaron ciò udendo. E li più perfidi, quali erano i più della plebe,
deliberati allatto di perderlo, vi si ostinarono ancor più, per una occasione
si grande, e simanifesta. EU’ era ben vera la distribuzion della preda, non era
però fatta per mal genio, nè in vista di una tirannide, come Decio calunniava,
ma solo con fine benissimo, con quello cioè di riparare ai mali della
repubblica : perchè essendo allora il popolo discorde ed alienato da’patrizj, i
nemici dispregiandoli, ne scorrevano e ne predavano di continuo le campagne. E
quante volle parve al Senato di spedire una forza che li reprimesse, ninno
usciva del popolo, anzi giubbilava contemplando i casi d’ intorno, nè le forze
dei patrizj bastavano a contrapporsi. Or ciò vedendo Marcio promise ai consoli,
se lo creavano capitano, di portar su' nemici un’armata spontanea, e di
pigliarne ben tosto vendetta. Ottenuto Marcio il potere, congregò li clienti,
gli amici, e quanti voleano partecipare le sue fortune, e la sua gloria nelle
armi. E quando parvegli che si fosse raccolta milizia sufficiente ; la menò su’
nemici che niente ne prevedeano. Scorso in region doviziosissima, ed arbitro
divenuto di amplissima preda, permise alle sue milizie che tutta se la
dividessero, afUnchè li compagni dell’ impresa, raccoltone il frutto, andassero
pronti anche agli altri cimenti : e quelli, che impigrivano in casa,
considerando da quanti beni, a’ quali poteano partecipare, gli allontanasse la
sedizione; divenissero più savj per le spedizioni seguenti. Tale era su ciò la
idea del valentuomo. Ma la turba invida e tenebrosa, considerandone con
malvolere le operazioni, credette vedere in esse un predominio, nna largizione
tirannica. Dond’ è che il Foro si riempié di clamori e di tumulto : nè più
Marcio, nè il consolo, nè alcun altro sapeano che rispondere, riuscendo la
incolpazione inaspettata ed improvvisa. Poiché dunque ninno più faceane le
difese; i tribuni dispensarono alle tribù li suffragi, proponendo per pena del
delitto Y' esilio perpetuo, io credo perchè temevano, che se proponevano la
morte, non sarebbevi stato condannato. Dato da tutti il voto, e numeratili, non
vi fu gran divario. Imperocché essendo allora ventuna le tribù le quali
ottennero il voto, nove si decisero per la liberazione di Marcio, tanto che se
altre due vi si aggiungevano, sarebbe stato, còme ordina la legge, liberato per
la uguaglianza. Se le trìbCk erano at, e nove si dichiararono per Marcio:
dunque dodici lo condannarono; e però ire o non due altre trilnt ci Toleano per
uguagliare i Voli della condanna e dell’ assoluzione. Forse Dionigi Tuoi dire
che se la tribù condaunaTauo cd undici assolvevano, l’efHcacia de’ voli era la
stessa in guisa, che per uu voto di più non cnndannavasi il reo, ma si
rilasciava. Se ciò è, nel lesto non vi è discordia, ma la voce dovrà tradursi I
Fu questa la prima oitasione di un patrizio al popolo per esserne giudicato : e
d’ allora in poi fu stabilito il costume che i tribuni chiamano chi lor piace
de’ cittadini a subire il giudizio del popolo. £ dopo tal fatto ancora assai il
popolo si elevò, decadendo nomtneno il potere de’ pochi, perché ne furono
ridotti ad ammettere > plebei nel Senato, a concedere che aspirassero agli
onori, a non vietare che prendessero i sacerdozi, e a dividere con essi per
forza e loro malgrado, o per provvidenza e saviezza, i tanti bei pregi, un
tempo proprj solo de’ patrizj, come ne’ luoghi opportuni diremo. Del resto l’
uso di citare i cittadini primai'j al giudizio della moltitudine può
somministrare materia ben ampia di discorso a chi vuol biasimarlo o lodarlo ;
perciocché molli uomini probi ed egregj ne sostennero cose non degne della loro
virtù, fatti inglòriosameute uccidere e malvagiamente pe’ tribuni : e per r
opposito ne pagarono pnre la debita pena molti uomini aiToganti e tirannici,
astretti a dar conto del vivere e procedere loro. Quando dunque vi si faceano
con cor buono le discussioni, e vi si reprimevano le esorbitanze dei graudi,
quella sembrava mirabilissima cosa, ed erano da tulli lodata : ma quando a
torto il merito vi si prostrava de’ valentuomini egregj nel governo del comune
; sembrava orribilissima, e gli autori se he accusavano non per la uguaglianza
de' voti come abbiamo (allo ma per la efficacia de’ voti. Sappiasi in fioe che
talono de’ critici afferma che le tribù allora erano 3i, e non 3i ; ma il
Sigonio de civiiate Rom. G. 3, ed Onofrio Vanvlno al c. 8, sostengono che erano
realmente Tcntuna. della coDsnetudtne. Esaminarono, evvero, più volte i Romani
se la dovessero annullare, o custodire come r aveano ricevuta dagli antenati ;
ma non diedero mai fine all’ esame. E se pur io debbo dirne ciocché ne penso, a
me ne sembra la istituzione, se per sé si consideri, vantaggiosa, anzi
necessariissima a Roma ; esservi però più o mcn bene riuscita, secondo il
carattere dei tribuni. Imperocché se scontravansi savj, giusti, e solleciti del
pubblico, più che del proprio lor bene, e se chi offendeva la patria ne era,
come dovea, castigato; in tal caso un timor vivo frenava ancor gli altri dai
fare altrettanto. E 1’ uomo buono, 1’ uomo avvanzatosi eoo cuore puro ai
maneggi pubblici né subiva pene vergognose, né gìudizj, alieni dal procedere
suo. Ma quando aveansi il poter tribunizio nomini scellerati, intemperanti,
avari, succedeane tutto l’opposito. Tantoché non dovessi rettificar come
erronea la consuetudine, ma curar piuttosto come si avesser tribuni probi ed
onesti, senza che tanta autorità temerariamente si conferisse. Tali furono le
cagioni, e tale il termine della prima sedizione de Romani dopo la espulsione
dei re. Io ne parlai lungamente, perché ninno si meravigli come i patrizj
permisero che il popolo si attribuisse tanto potere, nè succedessero intanto
come in alure città, gli eccidj e le fughe degli ottimati.' Ciascuno brama
conoscere delle insolite cose la cagione ; proporzionandosene a questa la
credibilità. Dond’è che io conclusi che non sarei stato creduto in gran parte o
in tutto, se io diceva nudamente, e senza allegarne le cause, che i patrizj
aveano ceduto ai plebei la primazia ; e che polendo dominare come nei comando
dei pochi, aveano fenduto il popolo arbitro di affari gravissimi: e cosi
concludendo ; volli esprimerle tutte. E poiché ira loro non si violentarono e
necessitarono colle armi, ma coocordaronsi colla persuasiva, giudicai portare
il pregio dell’ opera, che si esponessero soprattutto i discorsi tenuti allor
dai primari ciascun dei partiti. E ben io mi stupirei che taluni pensassero
doversi i falli della guerra descrivere minutissimamente, e taivoha
consumassero tante parole intorno di una sola battaglia dicendo la natura de’
luoghi, la proprietà delle armi, la forma delle ordinanae, le ammonizioni del
capitano, e tatti i motivi, quanti coadiuvarono la vittoria ; nè poi credessero
che narrando i movimenti, e le sedizioni civili sen dovessero insieme riferire
i discorsi pe quali si operarono impensate e maravigliosissime imprese. Certa-'
mente se nel governo de’ Romani vi fu portento degno di encomi, e della
emulazione di tutti, fu questo a parer mio, famosissimo più che i tanti, che
pur vi furono stupendissimi, vuol dire che i plebei spregiando i patrizi non si
avventa sser su loro, uccidendone in copia i più insigni, ed usurpandone i
beni, e che quelli che esercitavan le cariche non conquidessero di per sestessi
o co’ soccorsi di fuori tutto il popolo, rimanendosene poi liberi da paure in
città ; ma che a guisa di fratelli co’ fratelli, e di figli co' padri in una
savia famiglia, la discorresser fra loro su’ diritti comuni, e finissero le
controversie col dialogo e colia persuasione, senza permettersi gli nni contro
degli altri azione alcuna inir DtOSttGl, tomo //• iG qua ed insanabile, come
nelle loro sedizioni ne fecero i Corciresi, come gli Argivi, i Milesj, e la
Sicilia intera, e tant’aliri. E jier queste cause io volli anzi estenderne che
ristringerne la narrazione ; e ciascuno ne pensi come glien pare.. Avuto allora
il giudizio un tal esito, il popolo si parti con una vana ghiattauza;
concependo aver tolto il comando dei pochi. Altronde i patrizj ne andavano
umiliati e mesti, ed incolpavano Valerio per suggerimento del quale avevano
rimessa al popolo la sentenza. E quelli che riconducevano Marcio, impietositi,
ne sospiravano e ne lagrimavano : non però vedeasi Marcio né piangere, nè
lamentare la sorte sua, nè dire o fare cosa qualunque, non degna de’ sublimi
suoi genj : anzi dimostrò più ancora la generosità e fortezza deir animo suo,
quando giunto in casa ridevi la moglie e la madre che aveansi squarciata la
veste, e pesto il petto, e gridavano, come sogliono in simili casi, donne
separate dai loro più cari per 1’ esilio, o per la morte : niente invili tra le
lagrime, niente tra’ clamori delle donne. Ma dato loro un amplesso, le animava
a tollerar virilmente la disgrazia, raccomandando ad esse i suoi figli. Grande
era 1’ uno di dieci anni, ma sosteneano l’ altro colle braccia ancora. E senza
dare altri pegni della sua benevolenza, e senza tor seco ciocché bisognavagli
per 1’ esilio, usci sollecitamente dalle porte, non indicando a ninno, dove si
trasferiva.,Venuto pochi giorni appresso il tempo de’comizj, furono dal popolo
scelti consoli Quinto Sulpicio Camerino e Spurio Largio Flayo per la seconda
volta. Turbarono quest’anno la città molti segni di celesti terrori. Imperocché
apparvero a molti visioni insolite, e voci si udirono senza niun che parlasse ;
le generazioni degli uomini e delle bestie assai scostandosi dal naturale
tendevano al mostruoso ed all’ incredibile: e si udivano m più luoghi risonare
gli oracoli, e donne da divino furor sorprese annunziavano alla città
lamentevoli e terribili sorti. Si aggiunse a tanto un tal contagio
nellamoltitudine. Fece questo assai strage di bestiame, ma non molta fu la
mortalità degli uomini, non estendendosi il morbo più in là che a far dei
malati. E chi diceva succedere l’ infortunio per disegno de’ numi i quali si
vendicavano dell’essere espulso dalla patria il migliore de’ cittadini ; e chi
dicea che gli eventi non erano opera divina, ma fortuiti, come tutte le vicende
degli uomini. Poi si presentò, portatovi in una lettiga, un infermo, chiamato
Tito Latino di nome, vecchissimo d’anni, fornito a sufficienza di beni, e che
avea per lo più vivuto nella campagna, lavorandola colie sue mani. Costui
venuto in Senato rivelò che avea tra il sonno veduto Giove Capitolino che
standogli a fronte, ua, disse ; fa intendere d tuoi cittadini che nelT ultima
pompa che mi celebrarono, non mi diedero un buon capo per la danza. Pertanto mi
ripetano, e compiano un altra festa di nuovo, non avendo io accett ata la
prima. Dicea costui che risvegliatosi non faeea verun caso delia visione, ma
teneala come una delle comuni ed illusorie. Quando ecco infine gli si presentò
nel sonno Anni di Roma a64 secondo Catone, 66 secondo Varrone, e 48iS av.
Cristo. la immagiue stessa, e bieca e sdegnata, che non avesse annunziato i
comandi al Senato, e minacciandolo, se non gli annunziava immantinente che
apprenderebbe con grave suo danno a non trascurare gt IddJ. Questa seconda
visione, egli disse, che la riguardò come la prima, vergognandosi di assumer
rincarico, egli vecchio e lavoratore, di portare al Senato i sogni suoi, pieni
di augnrio e di terrore, perchè non vi fosse deriso. Or pochi giorni appresso
il vago e giovine suo figlio, senza malattia, e senza niuna causa sensibile fu
rapito da morte improvvisa. E ben tosto il simulacro stesso del nome
apparendogli nel sonno gli dichiarò che egli area già colla perdita del figlio
subita la pena della sua trascuraggine, e del dispregio delle celesti voci, ma
che ben tosto ne subirebbe ancor altre. Udendo tali cose disse che
contentissimo ne accettava Uannuntio, Se avesse a morirsi, non più curando la
vita: che non gli diede il nume però questa pena, ma che gl'internò per tutto
il corpo dolori acutissimi ed insoffri-^ bili, non potendone movere parte
alcuna senza tormento estremo. E che allora infine comunicato ^evento agli
amici, venivane per consiglio loro al Senato. Pat^a, ciò dicendo, che poco a
poco si riavesse dal dolore. Alfine compiuto il discorso, usci di lettiga, ed
invocato il nume, ne andò per la città libero e sano in sua casa. Il Senato ne
fu spaventato ed attonito , Questo fatto è riportato aoclie da Livio. Cicerone
Io allega nel lib. I de Dininalione. Quanto è facile sognare con chi sogna l Ma
il Senato avea bisoguo d’ illudere un popolo superstiiiuso, e ne secoudò li
delirj. Per tali vie la verità si confonde, e si allouuna! nè sapeva
inf]ovinare ciocché il nume signifìcasse, e qual fosse nella festa antecedente
il duce, de’ salti che buono a lui non paresse. Àlfìne un tale, memore delr
evento, lo disse ; e tutti se gli accordarono. Qr fu r evento cosi : Un Romano
non ignobile consegnando un suo schiavo agli altri conservi perchè lo menassero
alla morte, ordinò per renderne più romorosa la pena, che lo traessero,
flagellandolo, pel Foro, e per tutti, quanti erano, i luoghi più insigni della
città. Precedè costui la festa che la città avea prescritto che si facesse in
quei tempi a tal nume. Coloro che lo spingevano al supplizio slargandogli e legandogli
ambedue le mani ad un legno, postogli dietro il petto e diretto per le spalle
fino agli estremi delle braccia, lo seguivano, e lo battevano nudo co’
flagelli. Stretto costui da tale necessità gridava e con sconce voci, quali il
dolore gliele suggeriva, e tra salti indecenti, per le battiture. Or questo
giudicarono tutti che fosse il saltatore non buono indicato dai nume. E giacché
sono a tal parte d’ istoria penso non dover tralasciare i riti che nella festa
si tengono dai Romani: non perchè più bella ne sia la narrazione per giunte
teatrali e per fioriti discorsi, ma perchè sia più credibile il proposito
rilevantissimo, vuol dire, che greche furono le colonie fondatrici di Roma, e
venute da famosissimi luoghi, e non barbare e non prive di case, come alcuni
hanno esposto. Imperocché nel fine del primo libro, tessuto da me su la origine
sua, promisi convalidarla con mille forti argomenti di leggi, di costumi, d'
industrie che vi persistono ancora, quali si ricevette dagli avi ; nè giudico
che basti a chi scrive le storie antiche de’ luoghi delioearle come degne di
fede perchè tali si odono da’ paesani, ma per l’ opposito giudico che a
renderle credibili abbisognino queste di altri documenti invincibili, quali
'sono principalissima mente le cerimonie, ed il cullo usato in ognr città verso
i numi e i genj patrj. Certamente li Greci e li barbari custodiscono queste
gelosamente per lunghissimo tempo frenati dalla riverenza de’ numi vendicatori.
E ciò fanno i barbari soprattutto per molte cagioni da non essere qni
ricordate. E ninno ha mai persuaso a dimenticare o corrómpere alcuna delle
divine cose gii Egizj, i Lìbj, li Celti j gli Sciti, gl’ Indi # e generalmente
tutti i barbari, seppure caduti sotto il comando di altri non furono
necessitati ancora di volgersi ai riti loro. Roma però non fu mai ridotta a tal
sorte, anzi essa diede agli altri le leggi perpetuamente. Se traeva da’ barbari
l’origin sua, dovette pur da’barbari derivare s le istituzioni nazionali, per
le quali g[iunse a tanta fortuna : e quindi dovette astringere tutti i sudditi
a venerare gl' Iddj con le forme Romane come niigliori. Se dunque i Romani eran
barbari, niente poteva ritardare che barbara si rendesse tutta la Grecia che
ornai da sette generazioni ne porta il giogo. Alcuno forse crederà che bastino
per segno non piccolo delle pratiche antiche, quelle che ancor vi si usano. Ma
perchè altri noi prenda come insufhciente per la opinione non giusta, che i
Romani quando vinser la Grecia, con piacere ne assunsero i costumi come
migliori, ripudiando i proprj ; ho deliberato aiv _ gomentar dal tempo quando
essi non ci dominavano ancora, nè avevano olire mare 1’ impero, valendomi deir
autorità di Quinto Fabio senza che altra me ne bisogni. Imperocché antichissimo
tra quanti scrissero le cose ror.. .u., ce le accredita -non solo perciò che ne
ha udito, ma perciò che ne ha veduto ancora. Il Senato, come ho detto di sopra,
aveva decretato quella lesta, per adempiere il voto fattone da Aulo Postumio
dittatore, quando fu per combattere le cittàribellatesi de’Latini, che
tentavano rimettere Tarquinio sul trono: ed aveva decretato che si applicassero
ogni anno ptr li sagriGcj e pe’ giuochi cinquecento mine di argento ; e
puntualmente ve le applicarono fino alla guerra con i Cartaginesi. In questi
sacri giorni si faceano molte cose conformi alle greche usanze circa il
concorso, 1’ accoglienza de’ forestieri, e le immunità, cose tutte > ben
difficili a descriversi. Le cose poi, che concernono la pompa, i sagrifizj, ed
i certami, erano come sieguono, e ben da queste si possono argomentare, quali
fossero ancora, le tante cbe sen taciono. Prima cbe si desse principio ai
giuochi, le persone che aveano il potere più graude, avviavano dal Campidoglio
la pompa, conducendola pel Foro al Circo Massimo : e nella pompa eran primi i
lor figli prossimi alla pubertà : ma que’ garzoncelli che poteano per 1’ età
far parte della pompa ne andavano a cavallo se fossero di equestre famiglia, o
a piedi, se a piedi dovessero mili^'U'e; e .quali nc andavano ad ale e caterve,
e quali a corpi ed ordinanze maggiori come per essere istruiti: e ciò ptrcliò
fosse visibile ai forestieri la gioventù Romana che era per giungere alla età
militare, e quanto ne fosse il numero^ e quanta la bellezza. Venivano appresso
loro i guidatori di quadrighe, di bighe, ed altri che pompeggiavano su cavalli
non aggiogati. Seguivano quindi i combattitori di certami leggeri o gravi; e
nudi si vedevano, se non quanto velavano le parti del sesso. E tal costume
conservasi ancor tra' Romani come nei prìncipi aveasi pure tra’ Greci, finché
tra’ Greci vi fu tolto dai Spartani: Perchè il primo che prese a nudarsi il
corpo e nudo corse ne’ giuochi Olimpici nella olimpiade decimaquinta fu Acanto
di Lacedemonia; laddove innanzi lui vergognavansi i Gi'eci di avere tolto nudo il
corpo ne’ spettacoli, come certifica Omero scrittore antichissimo e degnissimo
più che tutti di fede, il quale introduce gli eroi cinti da una zona. Quindi
descrìvendo il certame di Ajace e di Ulisse ne’ funebri onori di Patroclo disse
: Sceser cimi di zona ambi alla pugna. E ciò dichiara ancor più nell’ Odissea,
narrando il pugilato di Irò e di Ulisse in tal modo : SI disse ; e tulli
encomiaro Ulisse, E di una zona circondàndo i lombi, Gli ampi e voghi suoi
femori scopria, ' E nude Sen vedean le vaste spalle,, Nudo il petto t e le
braccia. Ed introducendo quel misero che non volea combattere, ma ne temea ;
scrive : Cosi diceano : ad Irò il cor si scosse .•. Cinserlo i proci di una
zona, e tutto Tremante lo sospinsero alla pugna. Tal costume primitivo de’ Gred
serbato fino ali’ ultimo tempo dai Romani dimostra che questi non lo appresero
ultimamente da noi, anzi che non lo mutaron col • tempo, come abbiamo noi
fatto. Teneau dietro agli atleti, cori di saltatori divisi in tre bande : erano
i primi adulti, imberbi gli altri, e giovani gli ultimi ; venivano quindi
sonatori che davan fiato a tibie di antica forma, e picciole, come costumasi
ancora, e citaredi che toccavan col plettro lire eburnee di sette corde, ed
altre ancora di più, barbiti nominati. DI questi era mancato l’uso ne’ miei
tempi tra’ Greci quantunque fosse lor proprio : ma tra’ Romani conservasi In
tutti i sagrifizj 'di antico rito. Erano 1’ apparato de’ saltatori purpuree
toniche, cinte con metalliche fasce, e spade che ne pendeano, ed aste anzi
corte che giuste : vedeasi negli altri uomini elmo di bronzo con cimieri vaghi,
e pcnnacchj che P adornavano. Era di ogni coro il duce un uomo il qual dava
agli altri la forma del ballo ; rappresentando moti marziali e vivi, con ritmo
per lo più proceleusmatico. Era greca antichissima pratica anche quella di
saltare colle armi e Pirrica si chiamava, sia che Minerva cominciasse la prima
dopo la disfatta de’ Titani a danzare e saltare colle arme tra cantici
trionfali per la vittoria ; sia che prima ancora fosse il Proceleusmatico
cbiamaTasi no piè metrico di quattro sillabe brevi : e quiudi si diceauo fttrfi
i versi che conteueano que' piedi. Forse furono cosi detti perché soleano
premettersi, caulandoli, r7r rttXtvrfitiTt vuol dire alle esortazioni o comandi.
Quindi il ritmo proceleusmatico ne’ balli dovrebbe avere allusione a tali piedi
o versi, ed esortazioni. rito Introdotto da’ Cureti, quando educando Giova
voleano carezzarlo col suono delle arme, e con lièti moti e cadenze, come la
favola narra. Omero più volte, e principalmente nella foiDiazione dello' scudo
che dice donato da Vulcano ad Achille, mostra l’ antichità • di questo rito, e
la nascita sua tra’ Greci. Imperocché rappresentando in esso due città, l' una
ornata di pace bella, e l’ altra straziata dalla guerra, delinea, com’era
naturale, la felicità di quella con feste, con matrimonj, e conviti, e dice :
Faeton la danza i (Rovani, e frattanto Vdiati il suon di tibie, e cetre ; e
tutte, Meravigliando ai limitar di casa, Stavan le donne. E di nuovo elogiando
con vago ornamento nello scudo un altro coro di giovani e di vergini Cretesi
dice : Aveaci espresso V inclito Vulcano Un vario coro somigliante a quello.
Che Dedalo formò per Arianna, Che in si bei ricci avea la chioma attorta : Qui
giovinetti e ver^nelle vaghe. Tenendosi per man, facean lor dama. Ed esponendo
1’ ornamento di questo coro per dichiarare che i giovani saltavano colle arme,
scrive ' E quelle 'avean vaghe ghirlande, e questi Aurate spade a cinti
argentei appese. E parlando dei duci del salto loro, di quelli che davano agli
altri le prime mosse, dice :. Il popolo prendea dolce diletto Intorno al coro;
e due de' saltatori Clan cantando e danzando a tutti in mezzo, Nè solo potrem
yedere la somiglianza co’ greci riti da qnfsie danze marziali ed ordinale,
usate da' Romani ne’sagrifìcj e nelle pompe, ma dalle danze ancora sati ricFie
e derisorie. Dopo i cori armati vedeansi in mostra cori imitatori de’ satiri,
non dissimili dalla greca Sicinne. L’abito in chi Vappresentava un Sileno erano
ispide vesti, chiamale da alcuni Cortee ; e manti con ogni varietà di fiori: in
quelli poi che somigliavano un satiro erano perizomi e pelli caprine, e sui
capo criniere irte di lioni, e cose altrettali. Or questi beffavano e
contraffaceano serj moti, spargendovi del ridicolo : e gli andamenti de’
trionfi assai palesano che era antico e proprio de’ Romani il motteggio e la
satira. Imperocché permettevasi u quelli che segui van la pompa lanciar beffe e
giambi so gli uomini più riguardevoli, c fino su’ comandanti ; siccome un tempo
in Alene era^ permesso che nè lanciasser quelli che sul carro se^itavau la
pompa, e che ora cantan versi improvvisi. Eid io ne’ funerali di personaggi
cospicui, specialmente se già fortunati, vidi tra le altre pompe cori in forma
di satiri che precedevano il feretro, e saltavano come nella Sicinne. Che poi
il gioco e la danza alla guisa de’ satiri non fu ritrovamento de’ Liguri nè
degli Umbri nè di altri barbari, abitanti dell’ Italia, ma de’ Greci ; temo di
sembrare molesto, volendo a lungo convincere una cosa della quale già si
conviene. Dopo questi cori pasA Vossio scrive più cose intorno a qeeslo genere
di saltasione nel I. a c. 19. lusiiiul. Poei. (a) Cortee proviene questa voce
da ^cfTts r:hc siguitica Jìeno, erba CC. ’ e savano molti sonatori di tìbie e
di cetere : e poi quelli che portavano profumi di aromi e d’ Incensi, e quelli
che portavano lavori meravigliosi di oro e di argento sia de’templi, sia del
comune. Venivano In ukimo della pompa recati su le spalle di nomini I simulacri
divini foggiati come quelli de’ Greci quanto alla forma, agli, abiti, al
simboli ed al doni, secondo che que’ numi es-‘ sendooe stati I trovatori, gli
aveano, ciascuno., donati ai mortali, nè solo v’ erano I simulacri di Giove, di
Giunone, di Minerva, di Nettuno, e degli altri che li Greci contano tra I
dodici numi ; ma di altri più antichi da’ quali la favola origina i dodici ; io
dico i simulacri di Saturno, di Rea, di Temide, di Làlona, delle Parche, di
Miiemosine, in somma di lotti, quanti hao templi, ed are fra i Greci, come
quelli de’ numi che favoleggiansi nati dopo che Giove ottenne l’impero, vuol
dire quelli di Proserpina, di Lucina, delle Ninfe, delle Muse, delle Ore, delle
Grazie, di Bacco, e quelli de’ semidei, l’ anime de' quali spogliate de.l
corporeo frale diceansi andate in cielo, e goilervi onori simili ai divini,
cioè quelli di Ercole, di Esculapio, di Castore e Poi luce, di Elena, di Pane,
e di altri mille. Se dunque i fondatori di Roma eran barbari, e se v’istituiron
tal festa; com’era possibile mai che adorassero tutti I numi e genj della
Grecia, negligentando I propr) ? Almeno mi si dimostri un altra gente non
greca, la quale avesse Erodoto narra nel libro seconda che: i Greci derivarono
questi dodici Numi dagli Egiij. L’interprete di Apollonio scrive die questi
erano : Giove, Apollo, Mercurio, Nettuno, Marte, Vulcano, Giunone, Diana,
Pallade, Cerere, Venere, e Vesta. tali sante cose come nazionali ; ed allora si
condanni la mia dimostrazione come non buona. Terminata la pompa facean sagri
Gzio i consoli e que’ sacerdoti a’ quali spettavasi, e la forma del santo rito
era quale appunto tra noi. Lavatesi le mani, lustrate le vittime con acqua
pura, sparsi i frutti di Cerere sul capo di esse, e poi fatti de’ voti,
comandavano infine ai loro ministri d’ immolarle. E quale di questi mentre la
vittima era in piede ancora ne percotea le tempia colla mazza, e quale nel
cadere la trafiggeva colle coltella. E poi scorticandola c squartandola
prendean le primiziedi ciascuno de’ visceri e di ogni membro : e sparsele con
farina di fiiTo, le portavano ne’ bacini a quelli che sagrilìcavano : e questi
soprappostele all’ altare, le arde-^ vano, e spruzzavano intanto di vino. E poi
facile intendere dalle poesie di Omero essersi ciascuna di queste cose fatta
secondo le leggi istituite da’ Greci pe’sagrifizj: perciocché descrive gli eroi
che si lavan le mani ed usano farina di farro con sale dicendo : E lavaron le
mani, e sparser farro : E che ne tagliano i capelli e li gittano al foco in
quei detti : Ma cominciando il santo rito getta 1 capelli sul foco ; E li
descrive che colpiscono colle mazze in fronte le vittime, e che cadute le
immolano come fa nel sagrifizio di Emeo. Percotela, di quercia alzando un
tronco, Cui rapido poi lascia ; e lascia insieme Lo spirito la vittima, e qui
gli altri Miseria in inani, e ne arrostino. E descriveli che pigliano le
primizie delle viscere, e di altri membri, e le infarinano, e le bruciano su
gli altari: come fa nel sagri fì ciò medesimo. E da ogni parie le primìzie piglia
Be’ membri tutù, e crudi ancor li copre Di grasso, e di farina ; e dagli al
foco. Ora io so per averlo veduto, che i Romani osservano ancora tali riti ne'
loro sagrificj : e su questo argomento, anche solo, mi rendei certo, clie i
fondatori di Roma non furono barbari, ma grecivenuti da tutte le parti. Ben può
essere che alcuni baiiiari somiglino in pane ai Greci nelle istituzioni de’
sagriliz), e delle feste ; ma che in tutto somiglino loro, ciò non è
verisimile. Mi resta ora di dir brevemente de’ giuochi che faceano dopo la
pompa. Era prima la corsa delie quadrighe, delle bighe, e dei cavalli sciolti,
come nei giuochi Olimpiaci e Pitiaci de’ Greci in antico, e fiu di presente.
Ne’ certami equestri si conservano ancora tra’ Romani due istituzioni antiche,
come furono fondate in principio, quella cioè de’ carri a tre cavalli, la quale
ora in Grecia è cessata ; sebben vi fosse anticbissima e già ne’ tempi eroici ;
introducendo Omero de’ Greci che ne usarono nelle battaglie. Imperocché essendo
due cavalli congiunti come nelle bighe un terzo accompagnavali contenuto e
tratto colle redini, e chiamato parioron appunto dall’ esser più libero ; e non
come gli altri in biga. L’ altra cosa di cui restano ancor le vesiigie ne’ riti
aniichi di alcune poche città di Grecia è la corsa di quelli che anduvau su’
Carri ; peroccliè finite le gare a cavallo, smontati dal carro quelli clt e
sedere presso del focolare in silensio era un aulichissioia maniera di
supplicare. Addita anche ciò Tucidide nel t libro, discorrendo di Temistocle: e
si vede un tal rito piò chiaramente io Plutarco nella vita di Coriolano,
appunto iu questo luogo. le calamità che lo (lageilavaDO, e lo ìnchinaTano a
ricorrere perfino ai nemici, pregavalo ad avere idee miti e benevole verso chi
rivolgevasi a lui, non a tenerlo, mentre davaglisi nelle mani, come avvemrio,
nè a mostrar la sua forza contro gl' infelici e depressi, e ri flettere
piuttosto quanto istabili fossero le sorti degli uomini. £ ciò puoi, disse,
apprendere principidmente da me, che già potentissimo fra tutti in città
grandissima, ora derelitto, infelice, bandito, senza patria, debbo correr la
sorte che vuoi tu destinarmi. Io, se tu amico me ne rendi, io ti prometto far
tanto bene ai Volsci, quanto male ad essi cagionai, mentre ne era nemico. Ala
se prevedi tuU' altro di me, siegui r ira tua, dammi in sulC atto la morte,
immolando colle stesse tue mani il supplichevole tuo, presso a’ tuoi focolari.
IL Or lui cosi dicendo, Tulio gli stese la destra, e sollevandolo, animavaio a
confidare ; perocché non sof^ frirebbe cose indegne della sua virtù :
professavasi insieme obbligatissimo che avesse ricorso a lui, per essere questa
non picciola significazione di onore : promise che renderebbegli amici tutti i
Volsci, cominciando dalla patria sua, nè mentite ne furono le parole. Dopo non
molto tempo deliberandone da solo a solo, Marcio e Tulio, conchiuscro di movere
la guerra, Tulio, concentrando tutte le forze de' Volsci, voleva marciare
immantinente su Roma, mentre era agitata ancora dalla sedizione, e sotto
consoli imbelli. Marcio in opposito pensava che vi abbisognasse prima un titolo
onesto e giusto di guerra ; dicendo che gl’ Iddj mcschiavansi a tulle le cose,
e panico Urmenle a quelle della guerra quanto sono più rilevanti, ed oscure
nell’ esito. Aveaci allora tra’ Volsci e tra' Romani sospension d’arme, e
tregua ed amicizia, conchiusa poco innanzi per due anni. Se tnovi, disse,
inconsideratamente e precipitosamente la guerra, tu sarai colpevole di aver
rotti gli accordi, nè te ne avrai propizj gVIddj ; ma se aspetti che i Eomani
ciò facciano ; si giudicherà che tu risospingali, e protegga la confederazione
che violano. Ben ho io con assai provvidenza trovato come ciò facciasi, e come
essi i primi volgansi alle arme, e noi siam giudicati et imprendere una guerra
giusta e santa. Bisogna che per maneggio nostro essi i primi offendano il
giusto : e tale è questo maneggio che io finora ho celato profondamente,
aspettandone il tempo, e che ora di necessità, sollecitissimo, ti svelo,
procurandone tu la esecuzione. Debbono i Romani far sagrifizj e giuochi assai
sontuosi e magnifici, e molti accorreranno di fuori agli spettacoli. Attendi la
occasione, ed accorri tu pure a tanto apparato, dando opera insieme, che vi
accorra, il più che per te si possa de’ Volsci. Come tu sia in città, fa che
alcuno degli intimi tuoi vadane ai consoli, e dica loro secretissimamente, che
i Volsci tra la notte assaliranno Roma, e che perciò vengono in tanta
moltitudine. Tu ben sai quanto apprezzeranno la nuova : vi cacceran senza indugio
da Roma, e vi porgeranno un titolo giusto di risentimento. HI. Esultò Tulio
meravigliosamente, ciò udendo : e differito il tempo d’ imprendere ; diedesi ad
apparecchiare la gnerra. Approssimatisi poi gli spettacoli, ed essendo già
consoli Giulio e' Pinario ; am>rsevi da tutte le città la gioventà più
florida dei Yolsei, come Tulio bramava. La maggior parte non avendo ricetto
ndle case e preo degli ospiti, presero alloggio in sacri e pubblici luoghi; e
quando giravansi per le strade, ne andavano a crocchi e moltitudini : tantoché
già su loro in città si faceauo discorsi e sospetti non buoni. In questo mezzo
venne ai consoli un delatore apparecchiato da Tulio, come avea Marcio suggerito
: e quasi avesse a svelare a' nemici una pratirà arcana in danno degli amici
suoi, strinse ’i consoli a giurare di salvar lui, né mai dire ad alcuno de’
Yolsei chi avesse ciò palesato, e poi dinuneiò gli assalti mentiti. Parve ai
consoli vero il racconto, e ben tosto invitati i senatori ad uno ad uno, si
congregarono. Presentatovi il delatore, ed avutene le eguali promesse, replicò
la dinunzia medesima. Coloro a’ quali parea già cosa piena di sospetto che
venuta fosse agii spettacoli tanta gioventù di una sola nazione nemica, assai
più ne temerono, aggiungendovisi ora una dinunzia della quale ignoravano la
frodolenza. Parve a tutti che si cacciasser di città quei forestieri prima che
il di tramontasse con bando di morte a chi non ubbidisse; e che li consoli
invigilassero sicché tranquilla ne fosse la uscita, e senza offese. lY.
Decretato ciò dal Senato, altri scorrendo le strade intimavano ai Yolsei di
partire immantinente tutti per la porta detta Capena, ed altri con i consoli li
scortavano, mentre partivano. Or qui più che altrove si conobbe quanta mai
fosse, e quanta vigorosa quella moltiiadine ; uscendo In un tempo tutu per una
porU. Usci sollecitissimo Tulio prima che tutti, e prese non lungi da Roma un
tal posto, dove raccogliere gli altri che seguitavano. E quando tutti furono
giunti, convo> catane l' adunanza, assai v’ incolpò li Romani, dichia>
rando grave ed indicibile 1’ affronto de Volsci, unici ad essere espulsi fra
tanti forestieri : ed eccitandoli tulli perchè ciascuno lo raccontasse in sua
patria, e vi trattassero le maniere di vendicarsene e reprimere per l’avvenire
tanta insolenza ne’ Romani. Cosi dicendo ed infiammandoli, dolenti già per 1’
oltraggio, sciolse 1’ udienza. Ricondottisi in patria, ridissero ciascuno ai
compagni la ingiuria, esaggerandola, unto che ne furono tutti esacerbali, nè
poleano rattemperarne lo sdegno. E spedendo una città all’ altra degli
ambasciadori, chiesero un congresso generale, per concordarvisi intorno la
guerra. Succedeva tutto ciò per briga di Tulio principalmente. Cosi li
magistrati di tutte le città, e moltitudine grande ancora di altri adunaronsi
nella città di Eccetra, ripuUU la più acconcia per congregarvisi. Dettevi assai
cose dai capi di ogni città, si dispensarono i voli finalmente, e prevalse il
partito di mover la guerra, avendo primi i Romani conculcato gli accordi. Y. E qui
proponendo i magistrati varj che si discutesse la maniera di fare la guerra,
presentatosi Tulio consigliò che si chiamasse Marcio, e da lui si udissero i
metodi di abbattere la potenza Romana ; giacché ninno più di lui conoscea da
qual lato questa fosse inferma, e da quale vigorosa. Il consiglio piacque e
tutti cscla I I tnarono che si chiamasse immantinente il valentuomo. Marcio
ottenuta l’ occasion che volea, presentatosi mesto e piangente soprastette
alcun tempo e poi disse: Se 10 vedessi che tutti pensaste ad un modo su la mia
disgrazia, giudicherei non essere necessario difendermene. Ma considerando che
Ira indoli tante e varie evvene forse alcuna che forma concetti né veri nè
degni sopra di me, quasi il popolo m' abbia per cagioni solide e giuste espulso
di patria ; debbo innanzi tutto dir qui tra voi circa il mio esigilo. E voi che
ben sapete P infortunio che io m’ ho da' nemici, e come indegnamente io sia
perseguitalo dalla sorte, voi, mentre qui lo espongo, contenetevi, prego, nè
vogliate desiderare d intendere ciocché dee farsi, prima che ne abbiate
compreso chi sia che i^i consiglia. Breve ne sarà il discorso quantunque
pigliato dalle origini. Era 11 governo Romano da principio un tal misto del
comando di un solo e dei pochi ; fnchè Tarquinio, r ultimo de' monarchi, tentò
volgerlo tutto in tirannide. Adunque i capi nel comando de’ pochi insorgendone,
lo espulsero : e subentrando essi al maneggio del pubblico, basai orto una
reggenza più savia per confessione di tutti, e più buona. Ma da ora in dietro
non più che Ire o quattf anni, i più miseri, e li più oziosi de' cittadini,
dandosi capi scelerati, ne coperser d ingiurie ; tentando infine di abbattere
l' aulì] Queste lagrime forse le TÌile più Io storico che Marcio. It contegno
Ji >{uesto valoroso era stalo hen altro coi tribuni e col popolo li Roma
come apparisce dal libro antecclcnte j e 'come può coucloJersi dal $ del
presente. /oriUÌ de pochi. I capi del Senato ne incollerirono tutti, e
cercarono come reprimere la insolenza de' rivoltosi. Di mezzo a c/uegli
ottimati udppio C uno dei seniori, degnissimo di lode per tanti titoli, ed io V
uno de’ giovani, parlammo sempre liberissimamente non per combattere il popolo,
ma perchè sospetta ci era la prepotenza de' ribaldi; non per rendere schiavo
niuno, ma per garantire a tutti la libertà, come ai migliori il comando sul
pubblico. VI. Or ciò vedendo que’ tristissimi capipopolo vollero in priruipio
tor di mezzo noi franchissimi oppositori : e gittarono le mani, non già su
tutti due in un tempo perchè il fatto non fosse grave troppo ed esoso, ma su me
primieramente che era il più giovane, e men dijfcile da opprimere. Cosi
tentarono di perdere me prima senz' (uUorità di giudizio, e poi mi chiesero dal
Senato per la morte. Ala venuti lor meno ambedue que tentativi ; mi citarono ad
un giudizio ( ed essi aveano ad esserne i giudici ) per incolpazioni di bramala
tirannide ; nè videro che rùun tiranno tenendosela co’ pochi combatte il
popolo, e che piuttosto egli col popolo conquide il partito più valido nella città.
Un giudizio mi destinarono non per centurie, com’ era C uso della patria, ma un
giudizio come tutti consentono, iniquissimo, e, la prima e f unica volta, su me
praticato, un giudizio dove i merccnarj, li vagabondi, e quanti insidiano gli
averi altrui, preponderavano su' boni che voleano salvi i diritti ed il
pubblico. E tante erano in me le ragioni per non esserne condannato, che
sottomesso ai giu 1.3 ditj di una turba, odiatrice in gran parte de' buoni, e
però mia nemica^ non fui sopraffatto che per due voti: sebbene i tribuni
divulgassero che assai sarebbero disonorali nel loro comando, e patirebbono da
me l estremo de mali se io fossi assoluto, ed insi^ stessero intanto contro me
con tutto F ardore e la sollecitudine nella causa. Così malmenato damici cit^
ladini, reputai che più non sarebbe vita la mia, se non prendessi di loro
vendetta. Quindi sebbene il potessi, ricusai vivere senza cure, o tra’ parenti
nelle città de’ Latini, o nelle colonie fondale di recente dà miei maggiori : e
tra voi mi ricorsi, che io ben sapeva essere tanto -offesi da’ Romani e
nemicissimi loro, per farne con voi quanto -potessi le vendette colle parole,
se le parole vi bisognavano ; o colle opere, se le opere. Intanto io vi rendo
amplissime grazie ; perchè mi avete voi ricevuto, e perchè mi date tali
significazioni di onore, niente ricordando, nò contando i mali che un tempo voi
rtemici miei, avete da me sostenuto fra le arme. VU. Or dite, e qual genio
sarei io mai se spogliato da uomini per me beneficati, della riputazione e
degli onori quali tra miei mi si competevano, e privato della patria, della
famiglia, degli amici, dei numi patemi, delle tombe avite e di ogni altro bene;
se ritrovate tra voi tutte queste cose per le quali già in grazia ài essi v
infestai colia guerra ; ora terribile non mi dimostrassi con quelli che nemici
mi furono in luogo di cittadini, e propizio agli altri che amici mi si rerìdono
di nemici ? Io sicuramente non terrei nemmeno per uomo chiunque nè ax>esse
nitnicizia per chicli fa guerra, nè benevolenza per chi lo ha salitilo :non
iilitno mia patria una città che mi ha ripntliato, ma quella, dove sehben
forestiero divengovi cittadino : nè già reputo amica la terra ove sono
oltraggiato, ma quella ove trovo la sicurezza. E se Dio ne porga il favor suo,
e voi pronta, com’ è giusto, C opera vostra ; seguiranno, spero, grandi e
subiti cambiamenti, foi ben sapete che i Romani cimentatisi con tanti nemici
non han temuto niun più che voi ; e che niente cercati più attenti quanto
indebolire Ya vostra nazione. E pigliandole colle arme, e devUmdovele colle
speranze di amicizia, ritengonsi le vostre città per questo, appunto, perchè
unendovi tutti in un corpo non portiate su loro la guerra. Se voi dunque a
vicenda persevererete procurando il contrario ; e se avrete come ora, tutti un
animo per la guerra ; Jacìlmente abbcUterete la loro potenza. Vili. E poiché
ricercale il parer mio sul modo di entrate in campo e dirigervi, sia per
attestato della esperienza mia, sia della vostra benevolenza, sia per [ uno e {
altro ; io dirò tutto, e senza velo. Primieramente vi esorto a vedere che vi
abbiate una causa religiosa e giusta di guerra. E come religiosa, come giusta,
come utile insieme ve l’ abbiate ( in udite. Picciolo, sterile, aveano da
principio i Romani il lor territorio, ma vasto, e buono è quel che vi
aggiunseio, togliendolo a’ vicini ; e se ciascuno dei derubati tipela il suo,
tiiutia città diverrà quanto Roma picciola, debole, bisognosa. Or io penso che
voi doiHate i primi cominciare. Spedite ambasciadori che richiedano le vostre
città, quante ne tengono, e che intimino loro di abbandonare, quanto han
fabbricato per le vostre campagne, e li premano a rendervi, quanto si hanno di
vostro appropriato colle armi: nè vogliate prima che vi rispondano, romper la
guerra. Cosi facendo otterrete V una o t altra delle cose che più bramate. Vuol
dire, o ricupererete le cose vostre, senza pericoli e spese ; o rinvenuto
avrete il titolo onesto e giusto di prender le arme : giacché tutti confesseran
per bellissima la condotta di non chieder r altrui, ma il proprio; e di
combattere in fine se non ottengasi. Or su, qual cosa pensate, faranno i Eomani
a tali vostre proposte ? che renderanno forse le vosUe regioni ? ma qual cosa
impedirebbe più mai che lasciasser tutto t altrui? se verrebbero poi gli Equi e
gli Albani, se i Tirreni e tanti altri a ripetere ognun le sue terre. O pensate
che riterranno le vostre cose, nè vorranno affatto la giustizia ? Così appunto
io ne penso. Voi dunque protestandovi, i primi, offesi da loro; e volgervi per
sola necessità alla guerra ; avrete compagni, quanti spogliati de’ beni hanno
fin qui disperalo ricuperarli altrimenti, che per le arme. Bellissima è poi la
occasione, e di cui non avrete mai più la simile per andar su Bomani, preparata
fuori di ogni speranza dalla sorte propizia agli offesi; perciocché li Romani,
discordi e sospetti fra loro a vicenda, nemmeno luin capi idonei per la guerra.
E questo è quanto io poteva suggerire e raccomandar con parole agli amici,
detto lutto con cuor sincero e benevolo : quanto poi si dovrà provvedere e
compier colle opere, lasciate che i duci deli armata lo curino. RispeUo a me
son per voi, comunque di me disponiate; e mi sforzerò di non riuscirvi U pm
ignobile sia de’ soldati sia de’ centurioni, sia de' capitani. Spendetemi dove
pià vi son uUle, e tenetevi cerio, che io, che già contro voi guerreggiando,
tanto vi ho danneggiato; ora, per voi combattendo altrettanto vi gioverò. IX.
Marcio cosi disse, e U Volsci, menlre parlata ancora, davan segno di gradirne i
discorsi : ma poi che ucque, miti a gran voce allesUrono che benissimo
consigliava ; e senza concedere che altri più disputasse, ratificarono il parer
suo. Quindi stesone il decreto, e scelti immantinente i personaggi più
riguardevoli di ogni cillA, gl’ inviarono ambasciadori a Roma : dichiararono
Marcio membro de’ consigli in ogni città, e lo auumzzarono a conseguire in
ciascuna le magistrature e gli onori più grandi che vi erano. Per altro anche
innanzi le risposte de’ Romani, si diedero agli apparecchi di guerra. E quanti
erano ancora disaaimali per le perdite nelle battaglie antecedenti, tutù si
rincorarono quasi fossero per abbattere la potenza Romana. Gli oratori spediti
a Roma, presentali al Senato, dissero, che sarebbe a’ FoLsci carissimo cessare
le controversie coi Romani, e viverne da ora innanzi alleati ed amici senz
artifici ed inganni : e dichiarano che stabile sarà questa fede e quest'
amicizia, se riabbiano le terre e le città che furono tolta loro da’ Romani :
laddove in altro modo nò pace mai vi sarà, né amicizia coslan. 1-j te ; giacché
V offeso è naturalmente in guerra perpetua colf offensore. Cliiecleaao pertanto
di non essere colla esclusione delle giuste dimcuide necessitati alla guerra.
X. Detto dò, fecero i padri ritirar gli oratori, e consullaron fra loro. E
cónchiusa la risposta ^ li riobia> maroQO in Senato, e dissero : Conosciamo
o Fólsci che voi non f amicizia cercate ; ma pretesti splendidi di guerra :
perocché ben vedete che mai vi saran concedute le dimande, per le quali venite,
indegne, inammissibili. Se voi date ci aveste da voi stessi e pentitine' poi ci
raddomandaste le vostre terre ; non sareste affatto oltraggiati, non
riavendole. Ora però voi oltraggiate noi, pretendendo ciocché è degli altri:
giacché non eravate voi gli arbitri delle terre, se la légge delle armi ve le
toglieva. ^ noi teniam per giustissimo quanto possediamo. per le vittorie : nè
primi noi abbiamo fondata questa legge, nè la crediamo degli uomini, anziché
degli Dei. E se i Greci, se i barbari tutti se ne valgono ; noi non tlaremo già
in ciò segrà di debolezza, nè renderemo punto delle nostre conquiste.
Imperocché ben sarebbe vituperosissima cosa lasciarsi per timore e per
stoltezza ritogliere ciò che per senno e per nuignanimità si possiede. Noi nè a
combattere vi necessitiamo, se non volete ; nè se volete, ve ne ritiriamo. La
rispingeremo, se ce la incominciate, la guerra. Riportate ai Folsci queste
risposte, e dite, che se pigliano essi i primi le arme, noi gli ultimi lo
deporremo, Diomai, tomo ut. Prese qpeste risposle Je riferirono gli tmibascia
dori al Comune de Volaci. E convocato di bel nuovo U Consiglio, si concbiuse in
fine d’ intimare a nome di tutta la nazione la guerra ai Romani. Quindi
scelsero Tulio e Marcio con assoluto potere capitani di tutta 1’ armata, e
decretarono che si ascrivesser milizie, si contribuisser danari, c si facessero
altri apparecchi, quanti ne vedean necessarj per la impresa. 'E già essendo per
isciogliersi l’ adunanza ; Mar.io levatosi in piè disse e Bonissimo è quanto si
è qui decretato dal vostro Comune ; e facciasi pur tutto a suo tempo. Intanto
però che qui scrivonsi le milizie, e preparansi le altre cose che dimandano
cura e tempo ; io e Tulio ci porremo in su r opera.. Seguite noi, quanti
volete, saccheggiando le campagne nemiche, partecipare a gran prede. Io vi
prometto, se il del ne ajuta, molti e grandi vantaggi. Li Romani non sonasi
ancora apparecchiati, vedendo che noi non abbiamo riunito le forze; sicché
potremo senza paura scorrere a nostro bell agio tutte le loro campagne.
Accettato da’ Volsci anche questo partito, j duci uscirono immantinente, e
prima che in Roma se ne sapesse, con molta soldatesca volontaria. Tulio si
gettò con parte di essa nel territorio latino per impedire i soccorsi che di là
ne andrebbero al nemici, e Marcio guidò le altre aUe campagne di Roma. 11 male
giunse improvviso a quelli che vi erano ; e. caddero in poter de' nemici molti
ingenui Romani e molti schiavi; e bovi e giumenti’, ed altro bestiame non poco.
Quanto era derelitto di grano, di ferramenti, o di altro onde la terra
cohirasi, tutto fu predato, o disfatto. Dii uU timo recando 'fino il fuoco, lo
gettarono i Volscl pe’ca sali ; tanto che quelli che ne furono spogliati, non
po3 secondo Varrone c 486 aranii Cristo. perocché ne andarono ai Volsci appena
si ebbe la guep. ra, e concordarono, e giurarono T alleanza. Or questi
spedirono a Marcio la milizia più numerosa e più risolutai. Dato da questi un
principio, molti altri ancora favorivano occultamente i Volsci ; mandando loro
dei sussidi non però per decreto o pubblica approvazione. E se taluno de’ loro
voleva a quelli coogiungersi', 've gl’ incitavano, non che gl’ impedissero.
Dond’ è che i Volsci accozzarono in breve tempo tanta milizia, quanta mai più
per addietro, nemmen quando le loro città più 6orìvano. Marcio che ne era il
duce la gittò di bel nuovo su le campagne di Roma ; e tenendovisi molti giorni,
devastò quanto crasi lasciato nella prima incursione. Non prése però questa
volta prigionieri molti ingenui uomini, giacché, raccolte le cose più
pregévoli, ransl questi ritirati^ in Roma o ne’ castelli più vicini, e meglio
fortiGcalj. Ma depredò il bestiame che non arcano potpto ridurre altrove, e gli
uomini che lo pasturavano, come il grano tenuto ancora nelle aje ed altri
prodotti che raccoglie vanSi o che erano già pe’ grana). Cosi derubata 6'
guastata ogni cosa, non osando alcuno di conlrapporglisi, riportò nuovamente in
patria 1’ esercito, carico di grandi acquisti, e quindi lento in sua marcia. I
Volsci veduto'!’ ampio guadagno, e convintisi dell’ abbattimento de’ Romani,
che predatori già delle robbe altrui, miravano ora devastarsi impunemente le
proprie; ne imbaldanzirono soprammodo, e concepirono pur la speranza di
dominare, quasi fosse per loro facilissima e vicinissima cosa annientare il
potere degli avversar]. Adunque facaano agl’ Iddj sacriBzj di nngrauamento,
oraavapo i templi ed i pubblici fori di spoglie che dedicavano. E tutti iu
feste, in sollazzi, ammiravano e celebravano Marcio, qual uomo ipsignitaimo fra
gli altri nella guerra, e qual duce cui ntun pareggiava non Romano, non Greco,
non barbaro cajiitano.. Soprattutto lo felicitavano della sua prosperità ;
vedendo che quanto intraprendeva, riuscivagji tutto speditissimamenle, secondo
i disegni. Tanto che ninn v’era di età militare il qual, volesse non esser con
lui; ma spiccavansi, e venivano da tutte le città per aver parte nelle sue
gesta. Il duce, corroborato ]’ ardore dei Volici, e depresso il coor de’
nemici, e ridottolo ad irrisolutezza indegna de’ valentuomini, marciò coll’
esereito contro le città che alleate di essi teneansi ajncora fedeli:. ed
avendo ben tosto apparecchiato quanto ricercavasi per gli assedj, piombò su’
Tolerini, gente del, Lazio. I Tolerini, preparatisi molto prima per la gueiv
ra, e portalo in dllà, quanto^ bisognavacl della campagna, ne scontraron l’
assalto. Ben resisterono alcup tempo, combattendo e ferendo ip copia i nemici,
dalle mura, ma risospinti è travagliati poi fino a sera dai feombolierì, le
abbandonarono in gran parte. Marcio, compreso ciò, diede ordine ad altri che
applicasser le scalchila parte derelitta del ricinto: ed egli ne àndò col fior
de’ bravi alle porte ; sebbene infestato cogli strali dalle torri : e là
^^zzali i serragli, il primo si mise in città: ma perciocché si era disposta
alle porte una schiera folla e poderosa di nemici; questi lo riceverono
virilmente ; disputandogli lungo tempo intrepidi r intento, finché perdutine
molti, dieder volta, e sbanduiì fuj^ronsi jier le vie. Gl insegoi Marno,
acciden(Ione c|uanli ne sopraggiangeva ; se 'gettate le anni non volgeansi alle
preghiera. lolanto gli asc^i per le scale impadronironsi delle mura. Cosi la
città fu presa, e Marcio separò dalle prede quanto era donativo pe' numi, o
decorazione per le città de’ Yolsci, abbandonando il rea’ soldati, Aveanci
nell’acquisto uomini, danari, grani; tanto cUe non riuKl facil cosa a vincitori
tor via tutto in un giorno. Adunque menandoselo, o trasportandolo
successivamente di per seslessi, assalto, prese ad investirne in gran parte le
mura. I Bolani, aspettatane 1’ ora conveniente, spalancano le mura ; e
sboccandone in numero, a schiera, e con ordine ; si avventano su quelli che
stavano a fronte: ed uccisone molti, e più antera feritine, e ridotti gli altri
a turpissima fuga, cioulraron le mura. Marcio, che non era presente al sito
dell’ inforinnio, conosciuta la fuga de Volsci accorse di tutta fretta con
pochi : e raccogliendo quei che vagavan dispersi, li ticongiun^ e rìaoimò : poi
riordinatili, edimostrato ciocch’ era da fare; comandò loro di attaccar la
città verso le porte appunto. Ricorsero i Bedani a’ tentativi medesimi,
emergendo in gran mollitudine dalie porte. Non gli aspettarono i Volsci, ma
ripiegandosi fuggirono giù pel declivio come il duce avea già suggerito. Non
videro i Bolani l’ inganno, e tnoltissime li seguitarono : quando slontanatisi
già dalle mura ; Marcio che avea seco il fiore de’ giovani, diede su loro : e
qui molta ne fu la uccisione ; fuggissero o resistessero. Seguitando poi li
respinti fino alle porte, li prevenne; internandovisi a 'forza, prima che si
richiudessero. Impadronito^si il duce appeua delle porte ; ecco giugnere altra
moltitudine di Volaci. Li Bolani abbandonate le mura, rìpararonsi nelle case.
Divenuto in tal modo r arbitro anche di questa città, concedette a’ soldati di
farne schiavi gli uomini, e di porne a sacco le robe. E trasportatane, come
altre volte, successivamente, a grand’ agio, tutta la preda, abbandonò la città
finalmente alle fiamme. Pigliando quindi 1’ esercite, ne andò su’ Labicàni.
Eran questi, come altri, 'Colonia già degli Albani, ma popolo allora ancb’ esso
dei Latini. Or egli per atterrirli fin dentio le mura, sparse, giuntovi appena,
su’Joro campi il fuoco, principalmente in quelli donde era .per essere più
visibile. Ma i Labicani, avendo ben fortificate le mora nè sbigottirono p?r 1’
arrivo di lui, nè diedero segno alcuno di debolezza : ma si opposero e
pugnarono generosamente; trabalzandoli piùjvolte fin da sopra le mura. Non però
resisterono ' con successo; combattendo pochi contro di molli, e senza requie
mai, nemmen picciolissima i giacché 'frequenti erano intorno la città gli
assalti successivi de’ Volsci ; ritirandosene via via gli stanchi, e
cimentandosi altri l'ecpnti. Adunque data per un intero giorno battaglia, nè
fattasi pausa emmen su la notte-, furono dalla stanchezza astretti a lasciare
in fine le mura. Marcio, espugnatele, ne rendè é schiavi li cittadini, e dté
tutto in preda a’ soldati. Di là trasferendo 1’ esèrcito io ordinanza contro la
città' de’ Pedani, Latina anch’ essa di popolo, la pigliò di forza, giuntovi
appena. E trattatala come le' altre già prese, levandone in su 1’ alba le
truppe, le menò béntotfto sa Corbione. Ma nell' approssirharvisi gli abitanti
1’ apersero, ed uscirongli incontro, presentando simboli di pace, e la ' resa
loro senza combattcrè. Ed egli, encomiatili come savj nel provvedere a
séslessi, comandò che gli portassero grano ed argento, come l’ esercito ne
bisognava ; e ricevuto tutto secondo i comandi, marciò co snoi contro Coriolo.
Gederonò gli abitanti pur questa senza resistenza ; ma perciocché con
pienissima propensione supplirono viveri, danari, e quanto Kn chiese, nè ritirò
1 armata ; come su territorio àmico. E per fermo ; egli procurava! con ogni
sollecitudine che quelli che si rendevano non subissero i mali causati dalla
guerra ; ma riacquistassero, intatte le loro terre, e li bestiami, e gli
schiavi che aveano lasciati ne’ loro poderi : nè permetteva che le truppe
alloggiassero belle città di essi ; perchè non fossevi danno di furti o prede, ma
le accampava presso' le mura. XX. Di 'qua mosse l’esercito verso Bovilla città
cospicua allora è contata tra le primarie de’ Ladini, che Nel lesto dice Boia:
ma forse dee leggersi Bovilta \ percbl;' Coriolgoo già era stato ai Toleriai, a
Bota, a Labico, a Pedo, a Corbipne, ed a Coriolo. -Potrebbe dubiigrsi se sia
scritto Bovilla nel $180 nel presente di questo libro : Si descrivono tulle due
come so r alture ; parlandovisi di declivj ; e Boriila eia nella via Appia in
piano, secondo Cloretio. erair pochissime. Nod Io accolsero già quei che v’
erano dentro,' confidati nelle fortificazioni 'assai vàlide, e nel numero dei
difensori. Adunque egli eccitando le trupper a combattere generosanaente, e
proponendo amplissimi premj. a’ primi che ne salisser le mura; si accinse
all’as^ salto. Or qui vivissima sava ; n^i perchè, spalancate le porte ne
uscirono in furia ed in copia, e ne incalzarono' abbasso quanti ne erano a
fronte. Assai perirono di Voisci in quella sortita, e diuturna fu la zuffa
sopra le mura ; sicché mai più speravano d’ invaderle. Ma il duce supplendo
nuovi soldati non fe’ conoscere la perdita degli altri: e raccese l’ardore dei
vacillanti; portandosi egli ‘stesso alla parte di esercito che pericolava : Nè
spiravano coraggio i delti soli, ma i fatti ancora 'di lui : corse a tutti I
pericoli, nè lasciò tebtativo, finché non si preser le mura. Irilpadronitosi
poi della città, messa parte dei vinti a 61 di spada per. le leggi dei forti, e
parte rendulala schiava, ricotadusse f esercito. E^Ii rimenavalo dopo una
segnalala vittoria c^'co di spoglie bellissime, e ricco de’ tanti danari, ivi
presi, quanti in ninna delle città coqquistate. Dopo ciò tutta la regione
percorsa 'Era in po ter sùo, nè più gli resisteva ninna 'città se non Lavinia,
la -prima delle città fondate da’ Trojani approdati con Enea nell’ Italia,
dalla quale dm vano i Romani come di sopra fu dichiarato. Gli abitanti
pensavano dover prima incontrare ogni male, che 'mancar di fede ai discendenti
loro. Adunque vi ebbero attacchi terribili su le mura, e battaglie veementi per
le forltficazioiu:^non però sì espugnarono a prini impeto ; ma parve
abbisògnarvt assedio, e tempo. Postosene Marcio all’ assedio cinse intorno la
dtià di vailo e fossa, e guardò le strade, perché non le si recassero esterni
soccorsi e viveri. I Romani udita la rovina delle città vinte, compresa la
necessità delle Fendutesi a Marcio, pressati da’ messaggi quoiidiaid delle
altre, fedeli ancora, che imploravano ajulo,, spaventati insieme dalla
circonvallazione che tiravasi intorno Lavinia, e convinti che se cadea questo
iurte > la guerra verrebbe addirittura su loro, crederono uno solo il
rimedio a tanti mali, decretare il ritorno di Marcio. Tutto il popolo, gridava
questo, e li tribuni voleano lare. una legge per annullarne la condanna : ma^
li patrizj si opposero, ricusando che si ' annullassé alcuna sentenza enianàta.
E petuo. Che dunque impedisce che rivenghi alla dolce, alla carissima vista de'
tuoi pià congiunti, e ricuperi t amatissima patria, e comandi, come ti si conviene,
a chi comanda, e sii duce de' duci, e ne lasci C amplissima gloria a' tuoi
figli e nipoti ? E che tali e tante promesse avran prontissimo effetto, noi,
quanti qui vedi, noi tutti ne siamo i mallevadori. Finché nè stai di fronte col
campo e colla guerra, non parve al Senato nè al popolo far su te decisione
ninna di clemenza e di moderazione ; ma se ti levi dalle arme, avrai, né tardi,
e noi lo porteremo, il decreto del tuo ritorno. Tali sono i beni se alla patria
ti riconcilii: ma se ti ostini, se t odio non deponi verso noi ; dure e molte
ne saranno le conseguenze : ed io due le pià manifeste te ne addito ; vuol dire
: la prima che avresti il barbaro amore di un'ardua anzi impossibile cosa, di
abbattere cioè la potenza di Roma, e colle arme de' Volsci : C altra che quando
pure tu ben ^ indirizzi e riesca alf intento, ne sarai creduto il pià sciaurato
de' mortali. E perchè io così congetturi su te ; lo ascolta o Marcio, nè t’
inacerbare sul franco mio dire. E prima ne intendi la impossibilità. Molta è in
Roma, e tu U> sai, la gioventìi paesana : e se le si tolga ( e torrassele
per la necessità presente in tal guerra ) la sedizione, racchetando il timore
comune tutti i dissidj, non pià li V jIscì, ma niuna gente d’ Italia ci
abbatterrà. Molte sono le milizie de Latirù, molte quelle degli alleati, coloni
di Roma, le quali aspettati che in breve giungano per soccorrerci. 1 capitani,
come te, seniori o giovani, tand sono di moltitudine, quanti in tutte lo altre
città non sono. Ma t ajuto pià grande di tutti, quello che non ei ha mai deluso
ne’ grandi accidenti, e che pili vale di tutte le forze degli uomini, è la
beneifolenza de’ numi, per la quale teniamo questa città già da otto
generazioni non pur libera, ma felice, ed arbitra di tante nazioni, JVon
pareggiarci ai Pedani, ai Tollerim, agli altri popoletti, de’ quali sormontasti
le cittadelle. Anche un altro duce minore di te, e con esercita minore che
questa tuo, violentato avrebbe tali fiacche e poco presidiate munizioni. Ma
considera la grandezza della nostra città, la luce sua per tante imprese
guerriere, e C ajuto divino pel quale, già picchia, tanto s’ inff-andì : nè
concepire che si diversifichi codesta tua forza colla quale vieni a tanta
cimenta : anzi ricordati che un esercita meni di Folsci e di Equi che noi
stessi abbiam vinta in tanto battaglie in quante osarono di affrontarci :
Talché ben vedi che porti a combattere i men forti contro i pià valorosi, e chi
sempre perdette contro vincitori costanti, E quand’ anche fosse il contrario ;
pur sarebbe da meravigliare, che tu perita di guerra non sappi, che ne'
pericoli non è pari r artlire in ehi difende i suoi beni, ed in chi cerca gli
altrui ; che questi se non vincono, niente vi scapitano; ma niente agli altri
pià resta, se perdonoE questa principalmente è la causa che le grandi armate
svaniscono contro le piccole, e le migliori. contro le men buone. Chè può la
terribile necessità, ponno i pericoli estremi spirare' corono anche ad indoli
che non ne abbiano. E quanto alC arduità deb r impresa potrei dire piò cose, ma
bastino queste. Mi resta a fare un solo discorso, cui se accompagnerai colla
ragione non colf ira, vedrai che esso è giusto, e ti verrà pentimento del
procedere tuo : ma quat è mai questo discorso ? Gli Dei non concessero a niuno
che nasce mortale solida scienza delt avvenire : nè troverai da tutti i secoli
alcuno cui tutto riuscisse propizio senza mai contrarietà della sorte. Perciò
li piò awanzati in prudenza, quale il vivere lungo e la molta esperienza la
recano, deano prima di accingersi ad una impresa considerarne il termine, non
solo se riesca come pur lo vorrebbono, ma nel caso ancora che devii dai
disegni: e ciò deano i comandanti principalmente delle ‘ guerre, a' quali,
quanto piò essi dispongono gravissimi affari, tanto piò tutti ascrivon la
origine de' buoni o tristi successi ; tal che se vedono esser niuno, o
ristretto e piccolo il danno dell' azione se la sbagliano, allora la
intraprendono, ma se vario e grande lo vedono, la tralasciano. Or fa tu
similmente ; prevedi avanti di operare ciocché sia per incontrarti, se manchi,
o se tutto non ti viene a seconda nella guerra. Tu sarai colpevole presso gli
ospiti tuoi di aver tentato imprese, grandi piò che eseguibili. Concepisci ( nè
già lasceremo impuniti quelli che han preso ad offenderci ) che r esercito
nostro vengavi novamente ^ e devasti le loro campagne : non potrai evitare, 0
di essere obbrobriosamente trucidato da quelli a’ quali sei causa di mali sì
grandi, o da noi che ora vieni per uccidere e per soggiogare. Forse essi stessi
innanzi di patirne alcun male, tentando far pace con noi dovran consegnarti
alla patria che ti punisca : e già Greci e barbari assai, ridotti a pari
vicende, dm'ettero ciò sopportare. Or ti pajono queste picciolo cose, non degne
a discorrerle, o tali che debbansi trascurare, o non piuttosto mali estremi a
patirsi ^ fra tutti i mali? XXVni. Ma via; n abbi tu pure il buon termine; e
qual frutto allora ne avrai così desiderabile, così meraviglioso ? qual mai
gloria ne avrai ? Deh ! considera questo ancora. Ti succederà primieramente di
esser privo degli obbietti che piò, ami, e piò ti appartengono ; io dico della
madre alla quale porgi amara la ricompensa di averti generato e nudrito, e de'
tanti travagli che sostenne per te : dico della savia consorte la qual vedova e
solitaria sta desiderandoti, e deplorando dì e notte il tuo esilio : e
finalmente de' due tuoi figli a quali aspettavasi, come ai posteri di egregj
progenitori, che ne percepissero pieni di fama buona gli onori se la patria
fosse felice. Di questi tutti sarai costretto a vedere le dolorose e sfortunate
catastrofi, se ardirai sospingere fino alle mura la guerra ; giacché a ninno
de' tuoi perdoneranno gli altri che temono pe' ctai loro, e che patiscono
disastri eguali da te. Concitati dalla propria calamità doranti terribilmente e
spietatamente a balterli, ad ingiuriarli, e far loro ogni specie di vilipendj :
e di ciò non questi che il fanno ma tu ne sei r autore, che ve gli astringi.
Tali i frutti sono che gusterai, se ti giunge V intento. Or su contempla la
lode che te ne avrai, la emulazione, gli onori, cose tutte desiderevoli a
buoni: Z’ uccisore sarai nominato della madre, C uccisore de' figli, il
traditore della consorte y la rovina della patria. £ ninno buono, niun giusto
vorrà, dovunque tu capiti, partecipare ai tuoi sagrifizj, alle tue libagiorU,
al tuo consorzio : nè sarai caro a quelli nemmeno per la benevolenza de’ quali
ciò fai : ma godendo dascun d'essi il frutto della tua empietà, detesteranno la
ostinazion del tuo cuore. Lascio di dire come senza /’ odio che avrai fin da
piò miti, ti sarà intorno la invidia [non piccola degli eguali, il sospetto
degl’ inferiori, e per queste due emise, le insidie, c ta/ui altri infortunj,
quanti è verisimile che sopravvengano ad un uomo, privo di amici in terra di
estranei. Lascio di dire le furie che ispiransi da’ numi e da’ genj negli empj
e ne’ facinorosi, dalle quali, straziati ne’ corpi e nelC anima, vivono
sciaurata la vita, aspettandone misera ancora la fine. Tali cose considerando o
Marcio ' correggiti ; e cessa d’ inseguir la tua patria. Riguardando la sorte
come autrice de’ mali che hai da noi tollerato, o fatto a noi, toma felicissimo
a' tuoi, ricevi gli empiessi carissimi della tua madre, le amorevolezze
soavissime della tua sposa, ed i baci dolcissimi dei • tuoi figli : almen
simili cose di sè. Ma qual altro può gloriarsi o centurione, o comandante d
aver presa come io la città de’ Coriolani f O qual altro in un giorno stesso
ruppe f annetta nemica come io ruppi quella degli .daziati, che veniva per
soccorrere gli assediati 7 Lascio di ricordare che dopo tesi pegni di tnrtà
potendo io prendere in copia dalle prede oro, argettto, schiavi, giumenti,
gceggie, e terre vaste, e feconde, non volli : ma intento a serbarmi
principalmente senza invidia, pigliai per me solamente dalle prede un cavallo
militare, e da prigionieri t ospite mio, ponendo tutto il resto ad util comune.
Dite : era io per tanto degno di premj o di pene ? Dovea subire la legge da’
vilissimi cittadini, o darla io loro ? O non mi espulse il popolo pcf questo,
ma per La lode h, perebt Coriolano prese con pochi la città, sema essere ni
ooniaodanle, nà tribuno, a' qMii sarebbe alato unto piti facile invaderla colle
milisie dipendenti. chè io era nel retto della vita, un intemperante, un suntuoso,
un senza leggi? Ma chi potrà dimostrarmi un solo, pe miei piacer non legittimi
esule dalla pa^ trio, spogliato dalla libertà, privato degli averi, o ridotto
ad altra sciagura qualunque ? se nemmeno i nemici mai di tali cose m’
incolparono o calunniarono, contestando anzi tutti come irreprensibile la vita
mia quotidiana? La scelta, dirà taluno, abbonila de tuoi governamenti ti
procacciò questo male ; Ut polendo eleggere il meglio ti appigliavi al peggiore
: e dicesti e facesti tutto perchè in patria cadesse il comando degli Ottimati,
e s' impadronisse del comune la moltitudine imperita, e scellerata, O Minucio !
Ben io mi adoperava in contrario, e provvedeva che il Senato, maneggiasse in
perpetuo il comune, e restasse la patria forma di governo. Per tali belli
stabilimenti, creduti sì pregievoli da’ nostri antenati, io me n ebbi dalla
patria la si fausta e beata ricompensa, cacciatone non solo dal popolo, o
Minucio, ma molto innanzi pur dal Senato, il quale, quando io mi opposi a'
tribuni che m incolpavano di tirannide, mi animò da principio con vane
speranze, quasi osso fosse per operare la mia sicurezza, ma poi temendo de’
plebei mi si distolse, e mi cedette a’ nemici. O Minucio ! tu eri console
quando faceveui il previo decreto pel giudizio, e quando Falerio, cita tanto ne
fu lodato, esortava col dir suo, che io fossi al popolo consegnato. Ed io
temendo dal Senato un decreto che mi consegnasse ; condiscesi, e promisi di
andare f e presentarmi io stesso in giudizio. Ma dP Minucio, rispondi : parvi
al popolo solo, o pure al Senato ancora io parvi degno di castigo per lo buon
inaneggio e condotta mia pubblica ? Se così edlora a tutti ne parve ; e tutti
mi scacciavate; egli è chiaro che quanti così deliberavate, odiavate allora la
giustizia, nò restava in Roma alcun luogo che sostenesse il bene. Che se il
Senato, violentato, si rendette al popolo, e quella fu /’ opera della necessità
non del cuore ; confessate che siete il gioco degli scellerati, nè resta al
Senato podestà niuna su qurmto mai scelga, E ciò stando, mi chiederete che io
men venga ad una città dove i buoni son vittima dei ribaldi? Troppo di
stolidità mi condannate ! Or su: diamo che io persuadami, e che deposta, come
chiedete, la guerra, ne andiamo ; qual sarà dopo ciò f animo mio ? quale la vita
? Sebbene eletto il partito piò sicuro e meno pericoloso t cercando io poi li
magistrati, gli onori, ed altro che io credo competermi, soffrirò di adulare la
turba che li dispensa? vilissimo diventerei di magnanimo, e niente più V antica
virtù mi gioverebbe. O restando ne’ miei costumi, e serbando le istituzioni mie
del viver civile mi opporrò a quelli che diverse ne sieguono ? Or non è
manifesto che il popolo di nuovo mi combatterebbe, che a nuove pene mi
citerebbe, cominciando l'accusa da questo, che io ridonato da esso alla patria,
pure ai piaceri di lui non mi conformo ? Certo non dee dirsi cdtrimente. E qui
sorgerà tal altro insolente tribuno che simile agl'Icilj ed ai Decj m incolpi
di scindere i cittadini fra lorOf d insidiare il popolo, di tradire la patria
a' nemici, di tentare, come Decio me ne imputava, la tirannide, o taC altra
ingiustizia, come ad esso ne paja; giacché non mancano a chi ti odia i
pretesti. Pro durransi dopo queste, nè già tardi, le imputazioni ancora su le
cose da me fatte in tal guerra, che io percossi la vostra regione, che rapii
prede, che espugnai città, che di quelli che le difendevano parte ne uccisi, e
parte a’ nemici li consegnai. E se gli accusatori allegheran tali cause ; che
dirò io per ispedirmene ? o con quale soccorso sosterrommi ? Non è dunque
chiaro o. Minucio che belle v' avete, ma pur finte le parole, e che un bel velo
date ad un impuro disegno ? Non a me concedete il ritorno ; ma vittima al
popolo me portate ; e forse ( giacché buone idee su voi non mi vengono ) vi
siete concertali a ciò fare, seppure ciò non voleste, senza prevedere ( e vi si
accordi ) i mali che ne avrei da soffrire. Or che varrebbemi la vostra
ignoranza ? che la vostra stoltezza ? se non potreste, anche volendo, niente
impedire, necessitati di concedere anche questa colle altre cose alla plebe. Se
non che non piti bisognan parole a mostrare che questa, che io chiamo via
prontissima di rovina : niente, sebben voi la chiamate ritorno, gioverammi per
la salvezza. Che poi ( giacche m' invitavi a riguardare ancor questo ) niente o
Minucio mi giovi per la buona fama, niente per P onore, niente per la pietade,
anzi che io opererei turpissimamente ed empiiss imamente se a voi mi rendessi;
ascoltalo dalla mia parte. Io militai già contro questi Folsci, e molto nel
militare li danneggiai ; procacciando alla patria impero, forza, chiarezza. Non
convenivasi thè io fossi onorato dai beneficati, ed abborrito dagli offesi ?
jdppunto ; se a ragion si operava. Ma la sorte perverti tutto, e rivolse
ciocché t uno e C altro mi doveano in contrario. Voi per le cose onde io era a
questi nemico, mi spogliaste di tutto il mio, e, quasi ciò fosse nulla, mi
bandiste : laddove, questi che avean tanto infortunio da me, mi raccolsero
questi nelle proprie città povero, abbietto, senta casa e senza patriaNè
bastando loro questo splendido, questo generosissimo tratto ; mi han conceduto
cittadinanza, magistrature y onori, quanti ven sono piti grandi in tutte le
loro città. Ma lasciamo questo : ora mi han fatto comandante assoluto delV
esercito posto oltra iete a chiedere, e non 4^ me, la pace o la tregua.
Tuttavìa non vi do questa risposta : ma venerando gl’ Jddj patenti, rispettando
le tombe avite, commiserando la terra ove nacqui, le femmine, i fanciulli non
degni che su di essi ricadano le colpe de’ genitori e degli altri ; e j nommen
che per questo o Minucio, in grazia di voi che foste qua deputati dalla città ;
vi rispondo, che se i Romani rendono ai folsci le terre tolte loro, e le città
che ne tengono, richiamandone i proprj coloni; se fanno pace con essi comunanza
perpetua di diritti, come co’ Latini, e giuramenti ed esecrazioni contro de’
violatori de’ patti; io do fine alla guerra. Annunziate primieramente ad essi
questo, poi, come avete presso me perorato, aringate presso loro sul giusto : e
quanto è bella cosa che ognun s’ abbia il suo, e vivasi in pace : quanto
pregevole che niun tema nè i nemici, nè i tempi : e come è biasimevole che chi
ritiene l’ altrui si esponga senza necessità alla guerra con pericolo delle
cose anche proprie. Dimostrale loro che non eguali sono i premj vincendo o
perdendo per chi appetisce r altrui : e se vi piace aggiungete, che quelli che
han voluto prendere le città degli oltraggixti, se infine poi non prevalgono,
perdono pur la terra, e la città loro, e vedono malmenate obbrobriosamente le
mogli, portati i figli agli affronti, e li padri lorOj fatti schiavi di liberi,
nelC estrema vecchiezza ; Persuadete insieme il Senato che dovrà tanti mali
alla stoltezza sua non a Marcio. Terocchè potendo fcàre il giusto ; potendo non
incorrer ne’ mali ; corrono agli ultimi rischi, aspirando sentpre alC altrui.
Questa è la risposta; nè potreste altra averne dame: andate, ponderate ciocché
a fare v abbiate : io vi do trenta giorni per decidervi. In questo tempo ritiro
o Minwciò in riguardo tuo e degli altri t esercito da questi campi, che asscù
se vi rinuuiesse, ne sarebbero danneggiati, Al ventesimo giorno mi ci aspettate
a pigliarne la risposta. Ciò detto sorse, e sciolse 1’ adunanza : e nella notte
seguente presso 1’ ultima vigilia levò l' esercito, e lo condusse OMilro le
altre città Latine, sia ebe realmente fosse persuaso che di là verrebbono de’
sussid) a’ Romani, come 1’ ambasciadore avea detto, sia che egli ne spargesse
la voce per non sembrare d interromper la guerra in grazia de’ nemici. E
piombando sopra Longola, ed impadronitosene senza fatica, e fattovi come nelle
altre, dei schiavi, e delle prede; venne alla città de’ Satrìcani. Presala, e
tenutovisi pitxiolo tempo, ordinò che parte dell’ esercito recasse le spoglie
raccolte da ambedue queste città in Eccetra, ed egli marciando coir altra parte
venne a Ceda, che chiamano. Otte nutala, e derubatala -, si gittò nel teiritono
de’ Polu scani . Non valsero nemmen questi a resistere ; ed espugnatili, si avanzò
verso le altre città : prese di as Questa Toce è aiqbigaa. Lirio nooiioa
Tiebbia ; ed altri ia questo luogo di Oiooigi vorrebbe por Silia Seste : ma
questa par troppo lootaaa pel viaggio di Marcio. (ij Lapo parve leggere
Ttuelarù. salto gli Albieti ed i MugiUaui ; e ricevette a patti i Corani.
Divenuto in trenta giorni padrone di sette citti ; si rivolse a Roma con più
milizie che prima : e fermandosene lontano poco più che trenta stadj, si
accampò presso la via Tuscoiana. Intanto che prendeva ed univa a sé le città
de’ Latini, parve ai Romani, consultale lungamente le proposte di lai, di non
far cosa indegna della repubblica. Pertanto, se i Yolsci partissero dal
territorio loro, degli alleati e de’ sudditi, e lasciasser la guerra e
spedissero ambasciadori per trattare la pace ; il Senato decidesse allora e ne
riferisse al popolo le condizioni : non decidesse però mai nulla di umauo su
loro, finché stavano con ostili maniere su le campagne di Roma e degli alleati.
Couciossiachè li Romani (Muervarono sempre altamente di non far mai nulla pe
comandi, nè pel terror de’ nemici ; ma di compiacere, e contentare gli
avversar] pacificatisi, e rendutisi, nelle dimande se fosser discrete. E Roma
ha mantenuto tale sublimità di carattere in molti e grandi pericoli, nelle
guerre co cittadini e cogli esteri, e tuttavia lo mantiene. Deliberate tali
cose, il Senato scelse am)>asciadori altri dieci tra’ consolari, perchè
dimandassero a Marcio che non desse ordini duri nè indegni di Ro Silbnrgio
sospetta ebe io luogo di Albiètì debba leggersi Lahitiiati ciot Laviniaui di
Lauinio, la presa del quale era stata tralasciata, come si t veduto di sopra.
Il cognome di Lucio l'apirio Mugillaoo prova che vi ebbe una città Multila di
nome, donde tono i MugiUani. montai. ama Ili. t Digitized by Google 5o DELLE
Antichità’ romane ma, ma deponessc le nimicizie, ritirasse le truppe dal
territorio, e cercasse di trattare con modi persuasivi e conciliativi, se
voleva che gli accordi tra due popoli fossero permanenti ed eterni ; giacché
gli accordi sia privati, sia pubblici, conceduti per la necessità e pei tempi,
finiscono appunto co’ tempi e colla necessità. Or questi, eletti ambasciadori,
non si tosto. udirono l’ arrivo di Marcio, andatine a lui, dissero assai cose
atte a guadagnarlo, badando di non offendere co' discorsi la maestà della
repubblica. Marcio però non rispose altro se non che consigliavali ( e questa
era 1’ unica tregua che dava ) a tornar fra tre giorni con deliberazioni
migliori. E volendo essi replicare ; non lo permise : ma impose che partissero
immantinente dal campo. E minacciando che li tratterebbe come spie se non
ubbidivano ; quelli ammutoliti partirono incontanente. I senatori quantunque
udite le risposte ostinate e le minacce di Marcio, pnre non decretarono di
portare 1’ esercito di là dai confini, sia che ne temessero, come raccolto in
gran parte di fresco, la inesperienza, sia che 1’ abbattimento temessero dei
consoli, poco intraprendenti per sestessi, e giudicassero pericoloso il cimento
; sia che i segni celesti interdicessero loro quella uscita per mezzo degli
uccelli, degli oracoli Sibillini, o di altra visione : cose che non sapeano gli
uomini di allora, come i presenti, trascendere. Adunque deliberarono di
guardare la città con vigilantissima cura, e di respingere dalle fortificazioni
gli aggressori. Ciò fatto e preparato ; nè tuttavia disperando di piegar
Marcio, se lo pressassero con deputazione più augusta e più grande, decretarono
che pontefici ed auguri, e quanti arcano sacri onori e ministeri nelle pubbliche
divine cose ( e molti sono fra loro e sacerdoti e santi ministri, e questi i
più cospicui pel sangue paterno, o pel merito proprio) andassero in copia co’
simboli delle divinità riverite e festeggiate in Roma, e cinti di sacre vesti,
al campo nemico, e vi replicassero gli stessi discorsi. Giunti questi, e
dettovi quanto aveano dal Senato, Marcio non rispose nemmeno ad essi per ciò
che chiedevano; ma consigliò che partendo adempissero gli ordini se volevan la
pace; o la guerra in città si aspettassero : del resto intimò che non più
ritornassero a lui per far parlamento. Caduti ancora di questo tentativo, e
deposta ogni speranza di pace, si apparecchiavano i Romani per 1’ assedio ;,
collocando i giovani più vigorosi alle fosse ed alle porte, e li veterani già licenziati
ma pur buoni ancor per le armi, alle murai Le mogli loro, quasi approssimatasi
già la tempesta, lasciato il decoro col quale si tenevano in casa, correano ai
templi piangendo ed abbracciandosi a’ simulacri de’ numi. Ed ogni sacra
magione, specialmente quella di Giove in Campidoglio, risonava di ie minei
ululati e di suppliche : in questa una matrona preminente per lignaggio e per
dignità trovandosi allora nei meglio degli anni, attissima a provveder ciocché
deesi (Valeria ne era il nome) sorella di quel Poplicola il quale aveali già
liberati dai tiranni', eccitata da istinto divino, si fermò nel grado più alto
del tempio, convocate le donne compagne, primieramente le consolò ed animò a
non smarrini ne’ mali, poi diede a vedere che restavaci una speranza di scampo,
riposta in loro nniramente, se faceano quanto era d'uopo. Allora r una di esse
ripigliò : Con quale opera nostra mai potremo noi donne salvcwe la patria, non
sapendo più fare ciò gli uomini ? E qual forza ahhiam noi, deboli, sciaurate F
E Valeria, non le arme, disse, abbisognano, non le mani ; dispensandoci da ciò
la natura, ma le arnorevolezze e la persuasiva. Or qui, fàltusi clamore, e
pregandola tutte a svelarlo se pur ci avea rimedio alcuno, disse : In questo
lutto, in questo disordine di vestimenti prendete compagne anche altre donne, e
menando con voi li vostri figli, ne andiamo in casa di Veturia la madre di
Marcio. E ponendo i nostri figli dinanzi le ginocchia di essa, e lagrimando ;
scongiuriamola che impietosita di noi non colpevoli di male ninno, e della
patria ridotta in pericolo estremo, vada al campo nemico ; e vi meni i suoi
nipoti, la madre loro e noi tutte, le quali la seguiremo co' nostri figlioletti
: e che interceditrice presso del figlio, lo dimandi, lo supplichi a non fare
la calamità della patria. Lei piangendo e rimovendolo; nascerà forse alcuna
compassione o mite pensiero in quesF uomo, che già non ha si duro ed
impenetrabile il cuore da respingere fin la madre che abbraccigli le
giruscchia. Poiché le astanti ne approvarono il dire; ella supplicando i numi
di dare persuasiva e grazia alle istanze, loro pari) dal tempio. La seguitarono
le altre ; e prese dopo ciò per comp-igne alti’e donne, ne andarono in fòlla
alla casa della madre di Marcio. Volannia la mo glie di Marcio seduta presso la
suocera si meravigliò nel vederle, e disse : E che possiamo noi farvi, o donne,
cito in tanta moltitudine venite ad una casa di sciagura e di aflizione? E
Valeria soggiunse: i?tdoUe a pericoli estremi noi, con questi fanciullelli, veniamo
a te supplichevoli, o Feturia, per implorare^ tonico e solo ajulo, e
primieramente che abbi pietà della patria non mai fin qui stata in man de'
nemici, eicchè non vegli soffrire che ora la libertà le si tolga dai Folsci;
seppur conquistando la patria la rispar~ mieranno, non la struggeranno dai
Jondamenti. Dipoi per noi preghiamo e per questi miseri fgU, sicché non veniamo
tra gli strazj degf inimici, noi niente ree de mali accaduti. Se un cuor ti
resta in parte almeno, clemente ed umano; deh! tu ne compassiona, o F fluria,
tu donna, e tu partecipe de' diritti sacri, inviolati delle donne : prendi teco
Folunnia, questa ottima donna, e con essa i suoi figli, prendi coi figli nostri
pur noi supplichevoli a un tempo e magnanime, e vieni al tuo figlio, persuadi,
insisti, ni dar fine alle suppliche, finché pe' tanti benefizj tuoi non ottieni
da lui che si rappacifichi co’ suoi cittadini, e rendasi alla patria che lo
ridomanda'. Ut, ben 10 sai, trionferai di lui, che pietoso, certo te non
dispregierà prostrata a’ suoi piedi. E tu riconducendo 11 figlio tuo alta
patria, ne avrai, corni è giusto, splendore sempiterno, perchè C avrai liberala
da tale ()) Meli’ uso della Religione comune rischio e terrore: e sarai cagione
a noi di essere oHo~ rate presso degli uomini ; perchè avremo sciolta la guerra
che non potè da essi dissiparsi. Parremo cojI le discendenti veramente delle
femmine che mediatrici terminarono la guerra di Romolo co’ Sabini ; e conm
giunsero duci e nazioni, e grande renderono di piedola la città . Magnìfica
sarà t impresa, o Feturia, d' aver seco riportato il figlio, d’aver liberata la
patria > salvate le sue concittadine ; e di lasciare ai posteri suoi luce
indelebile di virtù. Dacci, o Fetum ria, con cuore spontaneo e vivido questa
grazia ; vieni, ti accelera ; poiché grande, imminente il pericolo non ammette
più indugio, o consiglio. XLI. Giù detto, tutta in pianto, si tacque. E
piangendo pur esse, e pregando vivamente le compagne; iVeturia, vinta dalle
lagrime, dopo breve silenzio, disse: Foi seguite, o Falena, leggera e fiacca
speranza ; promettendovi un ajulo da noi ; donne infelici. Ben abbiamo
tenerezza per la patria, e volontà di saL'ore I cittadini, qualunque mai siano;
ma la potenza e la efficacia ne mancano per compiere ciocché vogliamo. Marcio,
o F ileria, ne rifugge da che il popolo fe’ di lui r amara condanna, ed odia
tutta la casa insieme colla patria. E ciò diciamo, sapendolo da Marcio stesso',
non da altri; perocché quando soggiaciuto alla condanna venne in casa in mezzo
agli amici, trovando noi addolorate, abbattute, co’ figli suoi su le ginocchia,
e che piangevamo, corri era giusto, e Vedi 1. a, $ 4^ espone disicsantenle tale
storia deploravamo la sorte che ci soprastava nel perderlo ; egli fermatosi
alquanto da noi lontano, insensibile come una pietra, e co’ sguardi fissi,
partesi, disse ^ Marcio da voi, o madre, o Volunnia donna bonissima, cacciato
dai suoi cittadini perchè prode, perchè amico della repubblica, e perchè subito
ha tanti travagli per la patria. Voi sostenete, come si conviene a femmine
virtuose, tanta calamità, non facendo mai nulla d’ indegno, mai nulla di vile:
consolandovi in questi fanciulli sulla mia privazione, educateli degni di noi,
e della stirpe. Gli Dei concedano ad essi, uomini divenuti, sorte più buona ; ma
virtù non minore. Addio. Io vado, e lascio questa città che più non cape gli
onesti uomini. Addio numi tutelari, e tu Vesta, paterna divinità, e voi quanti
siete Dei di questo luogo. Appena ciò disse, noi misere, noi dal dolore
impedite, scoppiando in gemiti, e per^ cotendoci il petto portai'amo a lui, per
riceverli an~ cara, gli amplessi estremi : ed io menava meco il maggiore de’
figli, e la madre avevasi in braccio il minore. Quando egli, ritirandosi e
rispingendoci, disse: Da ora innanzi Marcio non più sarà tuo figlio, o madre,
togliendoti la patria in esso il sostenitore della tua cadente età, nè più sarà
da questo giorno il tuo sposo, o Volunnia: ma sii pur felice, un altro
cercandotene più di me fortunato : nè più sarà padre vostro o figli carissimi: ma
orfani e solitarj presso queste crescete fino agli anni virili. Ciò detto, nè
soggiungendo altro, nè comandando, e non significando nemmeno ove andasse, uscì
di casa, o donne, solo, senza servi, in disagio, senza portare seco delC aver
suo neppure il vitto di un giorno. E già volge t anno quarto eh’ egli fuggì
dalla patria, e riguarda noi tutto come straniere, niente scrivendo, niente
mandandoci a dire, e niente volendo di noi risapere. Or presso un cuore si
duro, si impenetrabile, o Troieria, qual forza avranno le preghiere di noi alle
quali non dava, partendo £ ultima volta, non un amplesso, non un bacio, non
significazione niuna dì affetto? Che se tuttavia domandate voi questo, e volete
in tutto vederne wniliate ; concepite, che io e Volunnia a lui ci presentiamo
co’ figli. Quali discorsi io madre, dirìgo la prima, quali preghiere porgo al
mio figlio ? Dite, ammaestratemi. Chiederò che per^ doni a suoi cittadini da
quali ( e senza che offesi gli Oi’esse ) fu privato della patria F Chiederò che
inteneriscasi o compassioni la plebe, che su lui non seppe intenerirsi, tré
compassionarlo? Che abbandoni e tradisca quelli che esule lo hanno raccolto, i
quali sebbene malmenati già un tempo da lui tanto e sì feralmente, pur non £
odio gli mostrarono di nemici, ma la benevolenza di amici e di congiunti ? E
con qual cuore pregherei io mai questo mio figlio che amasse chi lo sterminava,
ed oltraggiasse chi lo salvava ? Non sono questi i discorsi di una madre savia
al suo figlio, non di una moglie al marito : nè voi ci astringete, o donne, che
imploriamo da lui cose non giuste presso degli uomini, nè pietose presso gli
Iddii: piuttosto lasciate noi misere nella umiliamone ove siamo per la sorte,
senza che noi pure svergfsgniamo piu ancora noi stesse. Taciutasi lei, surse un
tanto lamentarsi di femmine, e tale un pianto ne riinbotnbò, che udendosene i •
clamori per gran parte della cUlà, si empierono di popolo le vie d’ intorno la
casa. Poi rinovando Valeria più lunghe e più commoventi preghiere, le altre
donne, com’ erano congiunte di amicizia o di sangue con r una o l’ altra di
loro, supplicavano ancora in atto di stringerne le ginocchia. Tantoché non più
restendo per l’ afflizione fra tanto piangere e supplicare; cedette infine
Vetutla, e promise di andarne oratrice per la patria co' figli e colla moglie
di Marcio, 'e^ con quante cittadine voleano. Racconsolatesi allora vivaiùeuté,
ed invocati i numi a favorire le loro speranze, partirono dàlia casa, e
nunziarono ai consoli il fatto. E questi, lodandone là buona volontà,
convocarono ed interrogarono i padri, se fosse da concedere che le femmine
^uscissero. Or molto, e da molti se ue disputò; tanto che giunti a sera
dubitavano ancora ciocché fosse da fare. Dicevano molti non essere piccolo
cimento permettere che le donne andassero co’ figli al campo dei nemici;
imperocché se questi, spregiando le leggi sacre degli ambasciadori e de’
supplichevoli, volessero che le femmine non più 'rìtornassero, prenderebbono
Roma senza combattere. Pertanto consigliavano che si lasciassero andare a
Marcio solamente le donne che a lui si appartenevano insieme cu’ figli. Altri
però giudicavano che non si concedesse che andassero nemmeno rpieste; anzi
esortavano di custodirle gelosamente, e di considerai le come ostaggi
sicuiissimi, perchè la città nou subuse grave disastro. Per l’ opposito altri
proponevano che si accordasse a quante donne volevano, di uscire, perchè^ le
donne congiunte a Marcio, fornissero con ' più dignità la mediazion per la
patria. Dicevano che non succederebbe ad esse niente di sinistro; giacché ne
sarebbero mallevadori primieramente i numi col favore santo de’ quali si
moveàno ad intercedere ; e poscia il duce stesso al quale ne andavano, come
uomo puro ed inviolato in sua vita da ogni ingiusto ed empio attentato. Vinse finalmente
il partito che accordava alle dònne di andare, e còn decoro amplissimo di
ambedue; del Senato come savio, perchè vide ciocché era a farsi il migliore,
senza punto turbarsi al grande perìcolo ; e di Marcio finalmente per la sua
pietà, perché fh confidato, che niènte oliraggerebbe tal parte imbelle,
espostasi a lui quantunque egli fosse nemico. Steso il decreto, e recausi l
consoli al Foro, e raccoltovi il popolo, essendo già notte, vi palesarouò il
voler del Senato, e preordinarono, che tutti al nuovo giorno accorresserò alle
porte per accompagnarvi le donne che uscireld)ero. Busi frattanto, diceano, che
curerebbero quanto era d'uopo. Era ornai l’alba vicina;, quando le donne
portando i figli loro, andarono colle faci, e presa in sua casa Vcinrìa, la
condussero alle porte. I consoli idlesUte mule da tiro, e carri, ed altri
trasporti moltissimi, ve le acconciarono, e seguironle per, lungo tratto: le
accommiatavano intanto i senatori ed altri in buon numero con auguri, con
preghiere, con eocomj, rendendone cosi più dignitoso il viaggio. Come si potè
dal campo distinguere, che donne, lontane ancora, si àvanzavano, Marcio spedi
de’ cavalieri per apprendere che fosse quella moltitudine, e perehé dalla catti
ne veoisse. E risapendo da loro che venivano le donne Romane oo 6gli, e che
innanzi -di tutte era la madre di lui, e la moglie co’ figli suoi; stupì da
principio che femmine potessero aver cuore di avanzarsi co’ Ggli senza guardie
al campo nemico, e darsi a vederè ad uomini insoliti, lasciata la verecondia
conveniente a matrone ingenue e pudiche, e la paura del pericolo nel quale
incorrerebbero, se questi volgendosi airutile più che al giusto, volessero
acquistarle,. e giovarsene. Ma posciacbè furono vicine, deliberò di uscire dal
campo con alquanti ' verso la madre, comandando ai littori che quapdo le
fossero dappresso deponessero le scuri, e le abbassassero i fasci. Usavano i
Romani questo rito quando i magistrati minori s’ incontravano co’ maggiori ; ed
il rito persevera ancora. Osservò Marcio allora tal pratica, e rimosse tutti i
segnali dell’ autorità sua ; quasi egli dovesse presentarsi ad una autorità
maggiore : tanta fa la riverenza, tanta' la sollecitudine sua per la pietà
verso la madre. Fattisi ornai vicini, si avanzò la prima per riceverlo la madre,
ahi ! quanto miseranda, squallida vestunenti, e logora gli occhi dal piatito.
Come la vide, Marcio, duro, imperturbabile fin’ allóra contro tutti gli
assalti, non più valse a persistere nel proposito suo: ma vinto dagli affetti
del cuore umano corse, la strinse, la baciò, la chiamò con tenerissimi nomi: e
molto lagrimandone, e curandone ; la sostenne, mentre venuta meno abbandonavasi
a terra. Soddisfiitta la tenerezza sna verso la madre, ricevendo la donna sna
che sea veniva co’ figli disse ^ Fornisti o Koluimia gli offizj di ottima
donna, > uh’endoli presso la mia genitrice: ed io godo come su dono
dolcissimo infia tutti, che non t qhbandonasli nella sua solitudine. Dopo ciò
chiamato a sé 1’ uno e l’altro de’ figli, e carezzatili come si conveniva ; si
rivolse noVamente alla madre, invitandola a dire per qual fine veniva: ed ella
soggiunse che il direbbe, udendola tutti ; giacché non chiederebbe se non
giustissime cose. Lo esortava dunque che sedesse nel luogo appunto dal quale
solea far giustizia a’ suoi militari. Con piacere udì Marcio la proposta, pen
hé varrebbesi di assai più regioni per rispondere alle istanze .di essa, e
darebbe dv opportunissimo luogo fra la turba la risposta . Adunque recatosi al
tribunal militare fe da indi rimovere e calarne al pianteiTeno la sedia,
giudicando non dover lui tenersi p’ù alto che la madre, nè còn maestà niuna
contro di lei. Poi fatti sedere presso di sé li più cospicui de’ capitani e dei
centurioni, e lasciando che intervenissero quanti volevano ; significò alla madre
che incominciasse. Veluria, poste innanzi del tribunale la donna di Marcio co’
figli e le altre più ragguardevoli tra le Romane, ' pHmieramente rivolti gli
occhi alla terra, pianse lungamente, p mosse tenera compassione negli astanti :
poi raccogliendo sé stessa disse : Le donne, o Perché sarebbe siala risposta
pubblica; udendolo cbi Tclcea ; e perché cjuel luogo stesso, di dignità e di
comando aerebbé ricordalo Ila madre le ubbligaiionf Che egli arcTa co' Votaci.
(a) Anni di Roma a06 sccoodu Calorie, a63 secondo Varoue, e 4^ arami Criaio.
Marcio figlio, considerando gC info rtunj che su di esse piomberebbero se la
città divenisse de nemici, diffidatesi di ogn altro soccorso, poiché tu davi le
sì dure, le jì ostinate risposte agU uomini che chiedeano un fine alla guerra ;
queste donne, o Marcio ^co’ /?glioletti, in questo lugubre apparato ricorsero a
me tuà madre, ed a V olunnia tua sposa per supplicarci 'a non permettere che
avessero tanto male ‘da te, più che da ogn altro, esse cfie non ci aveano offeso
punto nè pocO', e che grande ci aveano dimostrata la benevolenza nella nostra
sorte felice, e viva nommeno la compassione quando ne dec'ademmo. Noi ben
possiamo testificarti che dalf ora che tu lasciavi la patria, daW ora che noi
restavamo derelitte nella solitudine, e nel nulla, esse di continuo ci
visitarono, ci consoletrono, e piansero al pianto nostro. Memori di tanto io e
questa tua donna, coabilatHce mia, non abbiamo già ripudiato le loro preghiere,
ma preso abbiam cuore di cercarti ; e pregarti, corno ci atìdimandavano, per la
patria. E lei parlan(h> ancord, Marcio ripigliava : rnadre ! se' tu venuta
per un impossibile, venendomi a chiedere, che io Iralisca quelli che mi hanno
ricettato a quelli che mi bandivano, quelli che mi donavann i beni, più grandi
fra gli uomini a quelli che tutto il mio rn involavano. Io pigliando questo
cofnando, dos a malle\'adori i genj ed i numi,, che non avrei tiadito gU ospiti
miei, nè finita la guerra se cosi non fosse piaciuto a tutti i Volsci. Pertanto
adorando gt Iddìi su quali giurai, riverendò gli uomini a quali vincolai la mia
fede, guerreggieiò fino alla decisione co' Romani. Se renderanno mì f^olsci le
terre che" ne possiedono colla forza ; e se amici se ne fwanno,
accomunando ad essi tutto, come co' Latini ; deporrò ' le armi : altrimente mai
contro di essi le deporrò / Voi dunque andatene., o donne, riferite ai vostri
un tal dire, e persuadeteli a non pretendere ingiustamente [ altrui, ma
contentarsi del prpprio, quando altri lascia che lo abbiano. Non aspettino che
si ritolga loro colla guerra, quanto colla guerra usurparono ai. Volsci;
perocché li vincitori non saranno già paghi di ricuperate i lor beni, ma
vorranno quelli ancora de’, vinti. Se ritenendosi, e difendendo ostinatamente
ciocché lor uon si spetta, vanno incontro m pericoli, accusino sestessi, e non
Marcio, e non altri de' mali che piomberanno su loro. E tu -daW altra parte', o
madre, io figlio tuo le ne prego, non mi sollecitare a cose non degne, nè
giuste; nè, unendoti d miei e tuoi malevolissimi, volete credere a te contrarj
quelli che 'ti sono per natura amicissimi : ma standoti, coni è ragìc^nevole,
presso me, vegli riguardare per patria quella che io riguardo', e possedere
per' casa quella che io possiedo, e godere con me gli onori miei, e la mia
riputazióne, presi per parenti, per amici e nemici tuoi,, quelli appunto cK io
prendami. Bandisci, o misera, f afiìanno sostenuto finora per la mia fuga, e
pesfa in tale tua forma .di afliggermi. Gli altri beni, o madre, più belli
della speranza, più grandi del desiderio mi son dati da mimi, e dagli ùomini.
L’affanno che io prendea su te, non contraccambiandoti col nudrirli ne' senili
tuoi giorni, diffuso per le mie viscere, amareggiava e levava la mia vita da
ogni bene. Se meco ti rimani, se partecipe ti fai di ogni mia cosa; più non mi
mancherà alcuno -tra L mortali. E qui taciutosi lui, Veturia sopraslando breve
tempo &nchè, cessassero le lodi cbe molte e grandi gli si fecero da’
circostanti, soggiunse: Non io. Marcio figlio, ti voglio il traditore de'
Volsci, che ricevitori tuoi nelC esìlio, ti onorarono in iMtte guise, e ti
affidarono il comando di ses tessi ; nè voglio che. tu da te solo finisca senza
il voto comune, la guerra contro i patti e i giuramenti, chè facevi loro,
quando prendevi armata : nè temere che la madre tua siasi di tanta malvagità
riempiuta ; ‘ che inviti C unigenito e carissimo figlio a cose vituperose e non
giuste: ma cJtiedo che tu levi col pubblico voto la guerra, ridu^ cendo i V
ytsci a temperanza, e ponendo tra le due genti pace ì>ella e decorosa. E ciò
sarà fatto, se al presente movi t armata e la ritiri, e fai tregua per un anno
; perocché spedendo e ricevendo in questo tempo ambasciadori, procaccerai pace
stabile, e vera amicizia. Tu ben sai che f Romani, se il disonore, o la
impossibilità non lo vieta ; faranno vinti dalle persuasive ogni cpsa : laddove
violentali, come ora vuoi tu violentarli, non concederanno mai cosa picciola o
grande, come puoi tu conviruertene da tanti esempj, ed ultimamente dalle cose
concedute ai Latini che deposeco le ormL 1 Volsci, dirai, sono assai ' più
pertinaci, come avviene ai gran fortunati. Ma se ricordi loro che ogni pace vai
più della guerra: e che più stabile è quella che si fa per amicizia la quale
rende i cuori propizj, che non, f altra la quila per necessità si riceve: esser
proprio de’ sa>’i moderare la sorte, quando stimano averla; non però mai ft^
cosa indegna nelle vicende infelici e meste ; se dirai loro gli altri documenti
quanti sen trovano ( notissimi a voi che il pubblico maneggiate ) per indurre a
dolcezza a mansuetudine ; scenderanno dalt eUterigia ove sono, e concederanno
che facci quanto credi a loro giovevole, Ma se resister^anno, se non
ammetteranno il dir tuo, sollevati dalle belle Jbrluna provenute da te e dal
tuo comandare, cqme siati quéste immutabili ; rendi loro palesemente co lesto
tuo capitanato, nè il traditore sii di chi te lo afJidcR>a, nè il
combattitore de’ congiuntissimi tuoi ; cose, T una e t altra indegnissimo.
Queste soao, o Marcio figlio, le cose che io vengo a supplicarti che sian fatte
da te, non impossibili come tu dici, ma pure da ogni '' rimorso di ingiustizia,
e di malvagità. Tu temi '( sono questi i titoli che vai magn'ficanio col
discorso ) tu temi d’ incorrere sé fai quanto consiglioU, la taccia rea come d’
ingrato versa i tuoi benefaUori, i quali ti accolser nimico, e ti a nmisero a
tutti i-loro beni, quali se gli hanno co^ loro che nacquero cittadini. Ma dì j
non hai tu lendulo toro il molliplice e bel contraccambio ? non hai suj'ferato
i benefizj loro colt amplitudine immensa dei tuoi? Costoro che leneano pel
sommo e pel più amabil de beni viversi liberi usila patria ; gli hai tu ridutU
(fuesti non solo arbitri stabilmente di sestessi, ma tali infine da bilanciare,
se tornasse lor megliò, di abbattere la potenza de' Romani, o di partecipare,
ugualmente alla repubblica che Roma ha fondato. Lascio' di dire con quante
spoglie abbi ornalo le loro città per la guerra, e con quanta ricchezza
premiato quelli che vi militav vedo che^ gU orgogliosi che quei che' spregiano
le preghiere -de supplichevoli, corrono all ira de' numi ed alia sciagura
finalmente. Certo gl' Jddii • istituirono e ne dierono tale costume,essi i
pruni ptrdanano s e fqcili si rappaciane';, e molti si. placarono già pe’ voti
j e' pe' sagrifizj verso di uomini, lontani per grandi reità da loro".
Quando o A/arcio tu tioti vagli che. l’ irà de’ celesti sia mor-^ tale, ma
immortale quella, degli 'uoniini ; • forai con rettitudine f e con dignità tua
o della patria, se ne condoni gli errori, essa già correggendosene, e
placandotisi, e rendendoti quanto prima ti levava. Che se implacabile ti
rimani, rendimi questo deposito, questo benefizio y i quali niun altro può
ripeterti i e pe’ quùli hai tu non le minime, ma le auiplissinte è
pregiatissime doti,' onde tutto ottenesti,, rendimi il corpo tuò e l’ànima.
Derivate le hai queste da ma; ; nè luogo o tempo, nè beneficenze, nè • grazie
di Fblsci o di altri mai tanto ' eccederanno e saliran fino^ ai cieli ;. che tu
possi csmcellar la natura,,nò pù't udirne i diritti. Mio sarai pur tu semproj e
sempre il bene del vivere a me dovrai perla prima, e 'farai senza scusartend
quanto ti additnandoCiò prescrive la natura ai viventi che sentono e che
ragionano { >e di ciò confidata puf io, ti supplico o Marcio figlio a non
portaré guerra alla patria;, o qui sto per oppormiti se le fai violenza. O me
tua madre che mi ti oppongo sagrijicherai prjma di tua mano alle furie, e cosi
darai principio alla guerra; o, se temi la infamia di matricida, cedi o figlio
alla madrfi tua ; dammi, flie il puoi, questa grazia. Se questa leg^e che niun
tempo ha mai tolto, mi assiste, mi protegge > non è giusto o Marcio che io
sola sia da te priva degli onori che essà mi concede. Ma Icssciando questa
legge, ricordati la tanta e gran sc^ie de'miei benefizj. Io prendendo a curar
te fanciulletto, orfano del padre tuo védova me ne rimasi, e gli stenti tutti
soffersi onde allevasi, madre tua non solo, ma padre in ur[ tempo, educatore é
sorella dimoetrandomiti, ed ogni altra spficie . di teneri .oggetti. Divenuto
tu grande, potendo io liberarmi dalle • cure, nutritandomi ad •altri, e darmi
nuovi figli e nuove speranze sostenitrici della vecchiezza; non volli, hià
restài ne' tuoi lari 'domestici, contenta della vita medésima, e ristringendo a
'te sólo ogni mia consolazione, ogni bene. Di questi ine. ne privasti tu, parte
di voler tuo, parte senza volerlo, rendendomi infelicissima tra le madri. ^
qual tempo, da che toccasti l' età •virile, qual tempo io pissr mai sene’
agitazioni e terrori? e quando ebbi, mai l' anintà tranquilla so' pra di te,
vedendo che acciimolavi guerra a guerra, che passavi da battaglia a battaglia,
e ricevevi ferite su ferite ?. . Lll. E quando ti desti alla repubblica cd al
maDigilized by Google ’ Lifino vm. 69 ncggìo de' pubblici affari, gustai forse
io tua madre diletto alcuno ? Eh ! Che ne divenni allora più misera, mirandoti
in mezzo alla civil sedizione. Imperocché le uìe provvidenze pér le quali più
sembravi valere, e per le quali sostenendo i patrizj, spiravi indignazione
contro del popolo, queste mi spaventavano tutta, considerando, per quanto tenui
motivi tramutasi la sorte degli uomini: e sapendo dai tanti casi uditi che
qualche ira, divina traversa i valentuomini, e la invidia umana li perseguita.
E_ così non fossi stata, come io ' m' era troppo vera indovina degli eventi! fa
civile, invidia t' assalì, ti sopraf/kee, ti sifclse dalla patria,. Il refto
della vita mia, se vita può dirsi da che partendoti ' mi lasciasti co' figli
tui, passò tra questa desolazione., Va questo apparato di lutto. Per tutto
questo io che molèsta mai non ti fui, nè ti sarò finché vivo, ti prego che
vagli serenarti una volta co' tuoi cittadini f' c finir C Ira acerbissima che
nudri contro la paù'kt. E con ciò di cosa io ti prego non buona per me solq, ma
per ambedue. Per le Se tea persuadi, nè scorri ad azioni non degne ; perchè
avrai C anima immacolata e libera da ogn’ ira, da ogni^ terrore di furie
persecutrici, e p6r me poi, perchè la fama che men yetrà, mentre vivo, dai
cittadini, e dalle cittadine. Tenderà beati i miei .giorni f e quella che mi
sarà dispensata come io presagisco, dopo^ morte, renderà sempiterno il mio
nome. E se 'dopo morte riceve alcun luogo le anime sciolte da corpi; riOn
riceverà già la mia quel sotterràneo rp tenebroso ove dicono che i detnoni
soggiornano ; nq 1 il ampo che chianìdn di Lete; ma C etere sublime e puro, ove
dicono che albergano con prospera e beata sorte i JigUifoli de’ numi. JB’ià
divulgando anima min la pietà e le grazie onde m’hai riverita, ten chiederà per
sempre dagt Iddii la degna ricompensa. Ma se dispregi la madre tua, se
inonorata la' rimandi n per me fortunata nò per le, la quale hai salvato la
patria, e perduto insieme il pietoso ed amantissimo tuo figliuolo. Cosi detto,
si ritirò ne' siioi padiglioni ; comandando che lo seguitassero la inoglie; la
madre -,, i fi^i : é vi si. tenne tutto il resto dei giorno, eonsultaudo, con
esse ciocché era da fare. Enrono le risoluzioni : che nè il Senato proponetse
al popolo, nè il popolo decretasse nulla del suo ritorno, prima che .si
persuadesse aWolsci r amicizia e la cessaziofs della guèrra. Egli leverebbe e
ritirerebbe /' esercito, marciando cofne tu terre di amici: Dato conto del suo
capitanato, e dimostratina i beni; pregherebbe quelli. che glie lo aveano càtfi
flato, a’ volersi ricongiungere per giuste condizioni ai nemici,. ed incarieore
lui pefchè vi fosse ne patti t ofpùtà, senza niuna fmdolenza. Che se protervi
pei successi filici non aecettósser la. pace; egli si spoglie rebì>e del
comando. In. tal caso o non sosterrebbero essi di ^leggete un altro per
^mancanza di buoni capi ioni ; o cimentandosi di 'affidare le forze ad un altro
qualunque, imparerebbero a grande lor danno, ciocchi era V utile a Jare. Tali
sono le deliberazioni ira loro tenute, e riconosciute per eque e giuste, e
capaci presso tutti di buona faina, oggetto principalissimo delle cure del
valenluomo. Ben erano essi agitati da un timido sospetto che la turba
irragionevole speraozala di debellar riiiinii co, delusane, alfìne infuriasse;
e setiz’amihctter discorso trucidasse come traditore' quel suo capitarlo;
tuttavia deliberarono d’inedutrere non pur questo ma ogn^allro più tetro
pericolo, e serbare vh-tuosameule la fede. E poiché il giorno piegava a sera;
datesi vicendevoli signiflcaziout di affetto, uscirono da' padiglioni, e quindi
le donne tornarono a Rema. Esitose Marcio agli astanti le cause che lo
inducevano a scioglier là,guerra, e pregò lungamente t sòldan che'gb'el
condqnassero, e che tornati in patria, ricordevoli de’ suoi beneQzj,. non''
permettessero essi compagni suoi, che subisse alcun reo trattamento dagli
altri. Ej ragionate altre cose, tutte persuasive, t:omandò che iaces^erq le
b^gagHe, oude partire la notte 'seguentPi LVi Coinè seppero dalla fama,'
percorsa alle, donne, die Icvavasi il pericolo loro, uscirono lietissimi i
Romani dalia dtlà per incohlcarle; dicendo e fàcendo ora a cori, ora ad uno ad
uno, salutazioni e' cantici e tripudj, quali gli latino e li dicono quelli che'
da rischio terribile passano prosperità non pensata. Si menò poi Ja notte
tutta' In feste e conviti : nel giórno appresso il Senato adunato da consoli su
Marcio dichiarò che si differisse in tempo più acconcio a risolver gli onori da
farseglt : ma. che per lo zelo ditnostrato sì desse alle donne nc’ pubblici
antichi registri un elogio che ne'portasse eterna la memoria, tra’ posteri, ed
un donativo, qual sarebbe il pti\ car ed ' ' i Romani -colende ; giorno appunto
che disciolse la 1 “ ^, Cotiolano si approssioiò.due volte a Roma j 'la prima
volU ai accampò preaso le fosse delle Cluvìlie.-io distaosa di ciitipie miglia,
e la seconda io luogo anche piò vicino a Roma, iiitburgio scrive, che io questo
secondò luogo appunlo fu eretto il tempio delta Fortiuia Mulirhrc. A questa
sci\tei]sa sembra corritpondero ricchezze, noh ricéVò con dispiacere la iùtérro
zvon della guerra, e^ favorendo il valentuomo, escusavàlo se non la dltlmava,
mosso daUe prègbieve e dalla compassion della madre. Ma la gioveUtù rimaka
nelle città,, tocca da invidia per. le grandi prede fatte dalFe scrci'to, e’
delusa delle speranze che aveva, se prendei^ dosi Roma ne era Oaccàto
l’orgoglio; ne fremette, e fi esulcerò contrd'del capitano. £ finalmente
assunti, per ca|)i della scellcrsgginc uomini .potentissimi tra quelle genti,
imbarbarì, e commise nn indégnissimo fatto. Istigavala aoprattattO Azzio Tulio
circondato da non pochi di ogni città. Costui non polendo più la invidia sua
contro ‘Marcio; aveva già da uii tempo risolato di ucciderlo occultamente e
frt^dolentemeote, se quel duce xiuscendo ne’ disegni e 6accando Roma tort^Va
dal sottometterla ai Volsci, o di darlo manifestamente ai suoi partigiani ^d
ucciderlo come traditore, se falliva nella impresa, è tornavane senza l’
intento. Ora ciò fece appunto. Imperocché ' convocando gente non poca; le
accusò quel .valentuomo argomentando dal vero il falso, e conghietturando dalle
cose già' state, quelle -che non sarebbero mai t poi comandò che deponesse il
comando, e desse conto del suo capitanato. Once costui delle truppe rimaste
nelle città, come ho detto di sopra, ‘era l’arbitro di raccogliere le adunanze,
e di chiaipare chi voleva in giudizio. Marcio giudicava non dover contrapporsi
a ninna delle dué intimazio.ni ; solamente discordava nel metodo di soddisfarvi
; 'credendo che égli dovesse prima dar conto de’ fatti della ' guerra, e pqi
deporre, se così paresse a tutti i 'Volséi, il comando. Affermava che non
dovesse di tanto esser arbitra una sola città corrotta in gran, parte 'da
Tulio; ma tutta la nazione, raccolta in comizj legittimi, ove fossero spediti
deputati da 'ogni . città, come portava il 'costucrie, quando aveansi a
discutere i grandi jeffari. Opponevasi a ciò Tulio,' ben vedendo cbe se Marcio,
ahroòde parlatore, facciasi tra la pompa di capitano a dar conto delle 'tante e
belle sue gesta trionferebbe^ della moltitudine ; c non' cbe suhire le pene •
de’ traditori, ne diverrebbe più onorato e )>iù grande. Impe^occbé ’
sarebbero per concedergli tutti che solo finisse a piacer suo la guerra, ed
arbitro re stereljbe di ogni cosa. Adunque per molto tetnpo se no suscitarono
ogni giorno dicerie vicendevoli, e reclami in Senato, éd altercazioni vive nel
Foro ; uou essendo lecito a niun di essi 'far violenza all’ altro, garautito
dalla dignità pari della magistratura,. Or poiché non dovasi fine, alla disputa
; Tulio comandò a Marcio di venire in dato giorno a deporre il suo gradò, e
sottomettersi ai proressi di tradimento, E sollevati eon lusinghe' di benefizi
> uomini audacissimi, e messili per capi della scellcraggiuc indegna; si portò
nel Foro destinato. 'Asceso ' nel tribunale accusò Marcio con tòòlte
incolpazioni ; ed istigò la moltitudine a' degradarlo a fo4'za, se spontaneo
non lasciava il comando. ' LIX, Accese Marcio anch’ esso per;, far le difese ;
ma ì grandi clamori de’ seguaci di Tulio gli tolsero di parlare. Dopo ciò
gridandosi: {ira, ferisci, lo efreonJa' rouo, e con .nembo di sassi lo,
uccisero uomini inso-, lentissimi. Ed essendo lui strascinato Foro, quelli che
erano presenti allo spettacolo, e quelli che Vi sopravvennero dopo eh’ egli
erst spirato, deplorarono il valeniaoiiio ; perchè' non degna avea da loro la
ricatupensa. E Hdiceano quanto bene avea fatto al comune, e r arresto' .voleanO
degli uccisoci, perchè dato.aveano esempio di opèra. ingiusta, e lesiva delle
'.città, spegnendo senz’iimmelterne le difese violentemente un di loro, c
questo,, comaudante. Ne fremeauo soprattutto i compagni di lui uclle
spedizioni. Epoiché non erano stati da tanto d’ impedirne i mali mentre viveva
; delU berarono riconoscerlo de’benefizj, almeno dopo la morte; recando al Foro
quanto alla deliha onorificenza ricluedesT de’'valentoomini. Quando lutto fu
pronto > collocarono lui con veste di capitano, su letto vaghissimamente
ornato : poi facendo precedere quelli che recavano le prede, le spoglie, le
cotone, le immagini delle citli prese da lui ; ne sollevarono il feretro i
giovani più segnalati fra le armi. Lo portarono al sobborgo più ragguardevole,
accompagnandone il cadavere i 'cittadini tutti con gemiti e la^inDe. uomo il.
più grande di tutti 'al suo tgmpo' nelle armi. Continente da lutti i pacetri
che traspòrUmo i giovani, seguiva 'la giustizia ifon involontario per le leggi
che forzano col timore de’ supplizi', ma spontaneo, come per inclinazione
d’indole bennata. Non tenea per virtù non offendere ; e bramava non solo di
esser puro egli stestd da ogni malfare, ma credea giusto di astringervi -anche
gli '^allri. Magnanimo', liberale, intentissimo a soccorrere quando
cpnoscevalo, il bisogno degli amici, npn era inferiore a ninno de’ patrizj nel
roaneggio.del pnbblico. C se fa sedizione della città non lo avesse impedito
da' pubblici .•(Tari, forse' Roma preso avrebbe da' regolamenti suoi grande
aògumeolo d’iiQpero. Ma'già. non può farsi cbe tuKe le virtù si uniscanó nella
natura di un nomò ; nè da seme mortala e caduco sorgerà mai niutlo per ogni
parte peidetto. LXI. Il ‘destino che ' propizio area sparso in esso i germi di
tali virtù^ vé ne mise alfiri ancora di sciagure e dì mali. Non era dolcezza nè
illarità ne’ suoi modi, non degnevolezza ne salmi e ne’ colloqui, .. non'
facilità di placarsi, non moderazione nell’ ira se contro alcnno la concepisse,
grazia in6ne, quella die adorna tmte le nmane cose. ¥élnto lo avresti sempre
difficile, e sempre acerbo, f^ocquero a lui mólto tali maniere, e soprattutto
la severità sua ^moderata,' incredibile, e senza scintilla mai di chnuenza
ne|)ar custodia dei giusto e delle leggi. Ma ben sembra vero il detto^d^
filosofi antichi, che le virtù specialmente quelle delia giustizia,. sono
moderàzioni, e non estremità de costumi : perocché sia che la ginstizia manchi
dal mezzo, sia 'che lo ecceda ; non più giova i mortali, cagionando talvolta
gran danni, e ridùcendo a stragi > miserande, ed immedicabili inali. Nè fu
cbe la troppo sollecita e troppo austera esigenza del giusto la quale ridusse
Marcio fuori della patria, e senza il frutto delle altre belle sue doti.
Potendopiegarsi per atòunà maniera al popolo, e lasciare qualche cosa af loro
desiderj e divenire il primo fra loro ; non volle : ma contrariandoli in qualunque
cosà ' la quale ad essi non si dovea, se ne concilò l’ odio, c fu cacciato
dalla -patria. Potendo, appena ^ sciolse la guerra, lasciare il comando
deifarmata, e trasferire alet 8o trove la sua dirnora, Gncbè gli fossi!
conceduto il ri torno alU patria, anzi 'che esporre ^ stesso à nemici, ed alle
stoltezze della moltitudine ; ne vide la necessità di ‘farlo, e non volle. Ma
giudicando 'dovere affidare sè stesso a chi gli aveva affidata T armata, .c
conto del suo capitanalo, e se irovavasi. reo di co.sa alcuna subirne le pene
secondo le leggi; raccolse amaro U frano di tanta giustizia. Pertanto sé col
disciogìiersi de’ corpi aiicUo l’anima, qualunque' cosa ella sia, si
discioglic, né punto ne so^ravvanza; io non vedo come.chiamare beati quelli
elle non goderono della loro virtù niun frutto, anzi pci^ essa perirono. M.i se
le anime nostre ’Soprav- vivono Immortali affatto come pensano alcuni ;'0
qùalebe tempo almeno dopo la .-partenza' loro dal corpo, il più lungo quelle
do’, buon;, ed .il più breye quelle dei malvagi (it; certo parrà beq grande ai.
virtuosi l’ onore che li seguita, loipérocclié sebbene la fortuo' stasi loro
contrapposta; avranno buona fama e langbissima la ri cordanza tra’ vi vanti,
come appunto ' accadde a questo uomo. Perocché non solaincute ’mofto io
piansero e Io onorarono, i Yolsci come virtuosissimo; ma li Romaui,
conosciutone appena il caso, riputandolo sciagura altissima di Roma, ne fecero
pnvalo e pultbJ/co lutto. Le donne come usano in morie dei domestici loro
amaiiss.ifni, lasciarono da un canto l’ oro, la porpora, ei • V. [1 Vossio nel
lil> i ^ de IJoloturia dctltice d f|iicslo passo ch^ Diouigi crcdctle che le
auhne esùtono Jpu !a tnofie del colpo ma solo -per un tempo limitalo ; e per
ciò lo ridice nella classe dt (|iicl!i che pensavano quaulu alla durazioue
delle anime come gU Stoici \ 8 I atterono fra loro senza regola, senza comando,
misti e confusi: tanto che grande ne fu la strage in ambe le parti ; e forse
totale ne sarebbe stata la rovina, se il sole non tramontava. Ma cedendo, loro
malgrado, alla notte, che inipedivali di contendere, separaronsi, ed
alloggiaronsi ciascuno nel Aa. di Ruma aGG secondu Catoue, aGS secoudu
V'arrooe, e 48G 8T. Cristo.DJONICI. tomo Iti. fi proprio campo. La maltina i
duci lerando le truppe si ricondussero alle loro case. Udirono i consoli dai
diser.tori e da altri divenuti prigionieri col fuggire dalla battaglia, qual
furia e quale flagello divino fosse nell’esercito; non però colsero la
occasione tanto a proposito per essi non lontani più di trenta stadi, nè gl’
incalzarono nella ritirata : nel qual tempo se essi freschi, in buon ordine,
avessero perseguitato gli emoli stanchi, feriti, confusi, e già pochi di molti,
di leggieri gli avrebbero totalmente distmtu. Sciogliendo aneli’ essi il campo,
tornarono in patria sia che fossero paghi del bene dato loro dalla fortuna, sia
che non fidassero su r annata loro non disciplinata, sia che assai valutassero
il perdere anche pochi soldati. Ma giunti in città vi furono vituperati,
riportandovi fama di pusillanimi per tale condotta. Mè facendo altra
spedizione, rassegnarono il poter loro a’ consoli susseguenti. Presero l’ anno
appresso il consolato Cajo i^quilio e Tito Siccio, uomini periti di guerra . E
facendo questi proposizioni di guerra; il Senato decretò che si spedisse un’
ambasceria per chiedere soddisfazione secondo le leggi dagli Ernici, popolo
amico e confederato, il quale aveva offesa Roma nel tempo della guerra de’
Volsci e degli Equi con prede e scorrerie su le terre contigue : e decretò che
intanto che ne avessero la risposta i consoli iscrivessero milizie quante ne
potevano, convocassero con messaggi gli alleati, ed apparecchiassero
sollecitamente col mezzo di molti ministri Roma Catone Varrooe LiDno vili. 83
armi, grano, (lanari, e quanto è necessario ()cr la guerra. Tornali, cspcKero
gli ambasciadori le risposte degli Ernia, i quali diceano non esservi pubbliche
convenzioni tra loro e tra’ Romani, e che pensavano già sciolte quelle che vi
furono tra loro e tra Tarquinio, come detronizzato, e morto in terra straniera
: che le prede e le incursioni non furono ingiustizie del pubblico, ma di
privati intesi al guadagno: e che non doveano però nemmeno gii autori di quelle
consegnarsi al supplizio: e lamentandosi che avessero anche gli Eroici patito
altrettanto ; signiQcavano che volentieri accetterebbero la guerra. Il Senato,
ciò udendo, decretò che si dividessero in tre parti le nuove reclute descritte:
che il console Cajo Aquilio marciasse coll’ una sugli Eruict già in arme aneli’
essi: che Tito Siccio, l’altro console, ne andasse coll’ altra su i Volsci :
che Spurio Largio, nominato da’ consoli comandante della città, prend cero ciò
primi li Volsci ; e ben tosto la ottennero ; dando l' argento multato dal
console, e somministrando quani’ altro bisognava all’ esercito ; dopo avere
promesso che sarebbero ì sudditi de’ Romani, né più da tali ao> cordi si
leverebbono. In ultimo gli Eroici vedutisi rimasti soli, trattarono coi console
di amicizia e di pace. Ma Cassio assai richiamandosi di essi con gli
ambasciadori, disse, che prima doyeano far quanto conviene ai vinti ed ai
sudditi, e poi discorrer di pace; e soggiungendo gli ambasciadori che lo
farehhono se moderata e possibile ne fosse la esecuzione, comandò loro che gli
portassero in grasce i viveri di un mese, ed in argento la somma onde
stipeudiarue t soldati secondo il solito per sei mesi: e definendo un numero di
giorni entro cui potessero tutto apprestatali ; concedette intanto ad essi una
tregua. Presentarono gli Ernici ogni cosa con prestezza ed impegno, e spedirono
di bel nuovo i parlamentar] di pace. Li lodò Cassio c li rimise al Senato. Ne
deliberarono i padri a lungo; e piacque loro che si ammettessero questi all’
amicizia, c Cassio il console esaminasse, e decidesse le condizioni de’ trattati
da conchiudersi. Approverebbero i padri ciooch’ egli ne stabiliva. Prescritto
ciò dal Senato; Cassio tornando in città chiedeva un secondo trionfo per aver
sottomesso i popoli più riguardevoli : ant>gavasi però quest’ onore per le
aderenze, piuttosto che di giustizia lo ricevesse tinperocchc non avendo nè
prese città per assalto, nè disfatti eserciti in campo aperto ; non potca menar
seco in spettacolo i prigionieri e le spoglie che sono gli ornamenti dei
trionfi. Ma lo amare il piacer suo ; non le risoluzioni simili a quelle degli
altri, gli concitò subitissima invidia. Impetrato il trionfo pubblicò la
concordia, com’ aveala firmala con gli Eroici. Erano le condizioni trascritte
da quella conchiusa già co’ Latini. Dicchè mollo si dolsero i più provetti ed
autorevoli, e tennero lui per sospetto, sdegnati che gli Eroici, estraneo
popolo, fossero pareggiati di onore ai Latini loro congiunti ; e quelli che
dato non aveano neppur minimo segno di benevolenza partecipassero le cortesi
retribuzioni di chi tanti dati ne avea. Soffrivano ancora di mal' animo la
superbia di quest’ uomo, perché onorato dal Senato non aveali a vicenda
onorati, fissando e pultblicando i patti come glie ne parve ; non di concerto
comune coi padri. Così la troppa felicità nuoce, non giova ; divenendo
insensiòilmente per molli cagione di orgoglio incredibile, e stimolo di
desiderj superiori alla natura; come avvenne a costui. Condecorato allora dalla
città egli solo fra tutti con tre consolati e due trionfi ampliava l’
onorificenza sua, ambizioso del regio potere. Considerando però che la via più
sicura per chi ambisce il regno e la tirannide è quella di guadagnare il popolo
co’benefizj, e di costumarlo ad essere alinien tato da chi dispensa le
pubbliche cose ; a questa si rivolse, e senza manifestarsene ad alcuno. E
perocché ci aveva un terreno amplissimo del comune ma trascurato e goduto da^
ricchi ; deliberò di compartire questo tra’l popolo. E se contentato si fosse
di procedere fin qui ; forse riuscito sarebbe ue’ disegni. Ma trasportatosi a
troppo ; cagionò sedizione nou picciola, e fine sciaurato a sestesso.
Imperocché presunse congiungere alla divisioa del terreno non pure i Latini ;
ma gli Ernici, ricevuti ultimamente per cittadini. Tali cose ideando a
conciliarsi quelle nazioni, convocò nel glotoo dopo il trionfo il popolo a
parlamento. Quindi asceso in tribuna com’ è 1’ uso de’ trionfatori, prima dié
conto delle opere sue, delle quali era la sostanza : che fatto console Ut prima
%>oUa vinse i Sabini, e li rendè sudditi a Roma alla quale disputavano il
comando : che fatto console per la seconda, racchetò la civil sedizione, e
restituì la plebe alla patria : e ridusse amici e (compartecipi della
cittadinanza di Roma, i Latini che erano consanguinei, ed emoli eterni delt
impero e della gloria di lei; tantoché non più la contrariarono, ma
riguardarono Roma come patria loro. Chiamato la terza volta al consolato
necessitò li V ilsci ad essere amici, di nemici che erano, colle armi, e
sottomise spontanei gli Ernici, popolo vicino, grande, potente, ed attissimo a
nuocer molto, o giovare. Eisponendo queste e simili cose chiedeva al popolo che
attendesse a lui, provido soprattutti ora e per sempre della repubblica, e
chiudendo il discorso disse che farebbe e tra non molto tali e tante beneficenze
che supererebbe quanti erano encomiati di aver amato e salvato il popolo.
Oisciolta 1' adunanza invitò nel giorno appresso a raccogliersi il Senato
sospeso e timoroso pe’ delti antecedenti di lui. Prima di ogni altra cosa
propose un tal suo sentimento tenuto occulto alla plebe, e chiese ai padri che
giacché questa era stata si utile per la libertà dando mano a farli dominare su
gli altri, prendessero cura di lei e le dispensassero il terreno, pubblico in
sestesso per essere acquistalo colle armi, ma goduto in fatti senza niun dritto
da patrizj impudentissimi : e poi chiese che si rendesse dal pubiuale fu
sopraimominaiu Poplicola. potenti per aderenze e ricchezze, e tutto che
giovani, non inferiori a niun pari loro nei trattare le pubbliche cose esercitavano
la questura. Ed arbitri per questo -di intimar le adunanze accusarono al popolo
con incolpa zioni di tirannide Spurio Cassio il console dell’ anno precedente,
che osò d’introdurre le leggi su la partizione delle campagne ; e •
preGggendogli il giorno, lo citarono a giustiCcarsene presso del popolo.
Adunatasi nei giorno prescritto gran gente essi invitandola ad ascoltare
dimostrarono che le opere manifeste di quest’ uomo non comprendeano nulla di
buono : primieramente perchè mentre i Latini appagavansi di essere ammessi alla
cittadinanza, e riputavano sommo il favore se la ottenevano; egli console non
solamente concedè la cittadinanza che dimandavano, ma decretò che si desse loco
il terzo delie spoglie della guerra, se in comune la sostenessero: secondariamente
perché rendette amici in luogo di sudditi, concittadini in luogo di tributar)
gli Eroici che, vinti, doveano ben esser contenti se non erano danneggiati
collo smembramento delle lor terre; anzi ordinò che si desse loro pur la terza
parte delle prede e 'Tlelle campagne che fossero mai per conquisure. Tanto che
divisa la preda in tre parti doveano i sudditi e foresuerì pigliarne due parli,
ed i paesani e padroni una sola. Dimostravano che da questi due assurdi ne
segnirebbe r uno o altro, se volessero pe’ molti e segnalati servigi
condecorare un altro popolo come i Latini, o come gli Eroici che ninno prestato
ne aveano, vuol dire: o che non avrebbero che dar loro , o se volessero pareg
Il lesto di Rciske si togUmero e confiscassero i beni del padre che ne avea
svelato le brighe per la tirannide ; e per questo io decidomi piuttosto per la
prima narrazione. Le ho nondimeno riferite ambedue, perchè coloro che leggono
aderiscano a quale più vogliono. Insistendo poscia alcuni perché si uccidessero
i figli ancora di Cassio; parve al Senato aspra la inchiesta nè utile. E
congregatosi decretò che si rilasciassero, c vivessero sicurissimi da esilj, da
infamie, da ogni sciagura. Da quel fatto si stabili tra’ Romani r uso,
custoditovi fino a’ miei giorni, che vadano immuni da ogni pena i figli di
padri delinquenti, sian essi figli di tiranni, di parricidi o di traditori, che
tra loro è il massimo dei delitti. E quelli che vicini al nostro tempo, circa
il fine della guerra Marsia, e della guerra civile dandosi ad abolire quest’
uso, impedirono finché dominarono che i figli dei proscritti da Siila
giungessero agli onori paterni e prendessero posto in Senato, sembrarono far
opera degna della esecrazione degli uomini, e della vendetta de’ numi. Perocché
col volger degli anni raggiunse loro la giustizia, vendicatrice non riprovata,
per la quale furono dal colmo della gloria precipitati ai fondo delia miseria;
non lasciandosi del lignaggio loro se non la prole nata di femmine. E colui che
li distrusse riordinò quei costume com’era ne’ prìncipi. Pfeaso di alquanti
greci però non è così mite il costume; perchè alcuni credono giusto che i gli
de’ tiranni co’ tiranni finiscano; ed altri con perpetuo esilio li punistxtno;
quasi non consenta la natura che sorgano figli buoni da’ padri rei ; nè figli
rei da buoni padri. Ma su ciò lascio che altri discuta, se migliore è l’uso;
de’ Greci o migliore quel de’ Romani : ed io prosieguo la storia. Dopo la morte
di Cassio i fautori del comando de’ pochi divennero più baldanzosi, e spregiatori
del popolo. Laonde gl’ ignobili per nome e sostanze se ne abbatterono ;
accusando molto sestessi di stoltezza, perchè aveano colla condanna' di lui
distmito il custode fidissimo della fazion popolare. Era questa la causa per la
quale i consoli non eseguivano il decreto de’ senatori pel quale doveano
eleggere i dieci che determinassero la terra pubblica, e riferire in Senato
quanta parte ne fosse da dividere, ed a quali persone. Adunque si tenean de’
crocchi mormorandovisi in ciascuno so l’ inganno, ed incolpandovisi più che
tutti i tribuni precedenti come traditori del comune ; slmilmente faceansi dai
tribuni d’ allora continue le adunanze e le richieste della promessa. Or ciò
vedendo i consoli deliberarono rimovere col pretesto di guerra la parte sediziosa
della Aagatto. città ; percccbé di qae tempi il territorio era iofesiato da’
ladronecci, e dalle scorrerie de popoli circonvicini. Adunque per far la
vendetta degli aggressori aveano inalberato i segnali di guerra, ed iscriveano
le milizie della città. Ma, non dando i poveri il nome loro, non potevano
astringervi a nonna delle leggi gl indocili, {jerocchè li tribuni proteggevano
la moltitudine, e lo avrebbero impedito, se altri tentava portar la violenza su
le persone, o le robe di chi ricusava. Adunque lanciarono i consoli molte
minacce, che non permette rebbero che alcuno rivoltasse la moltitudine ; e
svegliarono ne’ cuori un secreto sospetto che nominerebbero un dittatore il
quale sospendesse tutti gli altri magistrati, ed avesse egli solo un potere supremo
ed irrefragabile. In tale apprensione i plebei temendo che il dittatore fosse
Appio, uomo duro e dlflìcile, piegaronsi a soffrire ogni cosa, piuttosto che
questa. Descrittone il molo, i consoli presero le milizie, e marciarono su l’
inimico. Gettatosi Cornelio nel territorio de’Vejenti ne portò via la preda
sorpresavi. Allora i Yejenti spedirono ambasciadori, ed egli rilasciò loro i
prigionieri per date somme, e concedè la tregua di un anno. Fabio coU’altr
armata piombò su la terra degli Equi, e quindi su quella de’ Volsci.
Pazientarouo i Yolsci alcun tempo, ma non molto, che fossero i campi loro
predati e devastati: poi spregiando i Romani come venuti con armata non grande
impugnarono in buon numero le armi, ed uscirono su le terre degli Anziati per Incontrarli
: se non che ne andarono anzi precipitosi che savj : perocché se giungevano
inaspettati, e K>rprendeano i Romani mentre erano qua e là dispersi; ne
avrebbero assai variato le vicende; ma il console istruito del giunger loro
dagli esploratori, richiamò bentosto i suoi, sbandati com’ erano, da’ foraggi,
e dié loro la ordinanza conveniente alla guerra. Come i Volaci che .-venivano
confidando e spregiando, videro fuori dell’ imaginazione tutte le forze nemiche
ordinate e raccolte, sbalordirono alio spettacolo inopinato : nè più curando la
salvezza comune, provvide ognuno alla sua, e dando volta, con quanto aveàno di
velocità, fuggirono tutti chi per una e chi per altra via; salvandosene la
maggior parte nella città . Solamente nu picciolo corpo il quale era più che
gli altri ordinato ritirandosi alla cima di un monte, quivi pose le armi e vi
pernottò. Ma ne’ giorni seguenti essendo dal console circondala 1’ altura e
chiusene tutte le uscite, necessitato dalla fame si sottomise, e cedette le
arme. 11 I console fe’ vendere pe’ questori quanto vi era, prede, spoglie,
prigionieri, onde riportarne danaro alla patria. Non molto dopo levò 1’
esercito dalle terre nemiche e a suoi lo ricondusse, ornai standosi 1’ anno per
terminare. Giunto il tempo da creare i magistrati, i patrizj che vedevano il
popolo irritato e pentito della condanna di Cassio, deliberarono di
sopravvegliare perchè non facesse movimenti elevato di nuovo a speranze di
donativi e di divisioni di terre da taluno che prendesse gli onori consolari
pieno della facondia per aringarlo e travolgerlo. Parve loro che se il popolo
desiderasse ponto di ciò, potesse impedirsegli con eleggere un console ad esso
non £tvorevole. Ck>nchiuso ciò confortano perchè aspirino al consolato Fabio
Cesone 1’ uno degli accusatori di Cassio fratello di Quinto, console attuale^ e
Lucio Emilio altro patrizio propensi^mo agli Otti mali. Non potendo il popolo
impedir questi due che aspirassero al consolato, usci dal campo e si levò dai
comizj. Perciocché ne’comizj centuriati tutto il poter de’snfiragj assorbivasi
da’ cittadini più illustri e primi di ordine ; e di raro cosa alcuna si
decideva col voto ancora delle centurie intermedie di ordine: la classe estrema
poi nrila quale votava la parte più misera e più numerosa non avea, come
innanzi fii detto, se non un voto solo, il quale era 1’ ultimo. Adunque negli
anni dugento settanta dalla fondazione di Roma essendo Nicodemo 1’ arconte di
Atene divennero consoli Lucio Emilio figliuolo di Mamerco, e Fabio Cesone
figliuolo 'di Cesone. Ora succedette loro secondo il desiderio di non essere
pertui> bati da sedizioni civili; per essere la repubblica investita di
fuori. E le cessazioni delle guerre esterne sogliono rieccitare le nazionali, e
dimestiche tra’ Greci, tra’ bar bari, e dovunque, principalmente tra’ popoli
che vivono Ira le armi e i travagli per amore della bbertà e del comando ;
perchè gli animi avvezzi a bramare ognora più, ridotti senza gli esercizj
consueti difficilmente si contengono. Su tal vista comandanti savissimi fomentano
sempre alcuna discordia cogli esteri; giudicando migliori le guerre nelle
regioni altrui che nella propria. Allora Roma Giatonc Varrone] I 1 I fecondo il
genio appunto de’ consoli, occorsero come bo detto, le insurrezioni de’
sudditi. Imperocché li Volsci sia che hdassero ne’juoti interni di Roma,
contendendo il popolo co’ magistrati ; sia che fremessero per la infamia della
precedente disfatta, ricevuta senza combattere; sia che insuperbissero per le
forze loro che eran grandissime; sia che seguissero tutte insieme queste
cagioni; aveano deliberato ikr guerra ai Romani. E raccogliendo i giovani da
tutte le dtté marciarono con parte dell’esercito contro le città de’ Latini e
degli Ernici, e coll’ altra che era la più numerosa e più forte teneansi pronti
a ribattere chiunque si avanzasse contro le loro. 1 Romani ciò saputo
deliberarono dividere 1’ armata in due corpi, e guardare con uno le terre degli
Ernici e de’ Latini, e correre coll’ altro a depredare quelle dei iVolsd.
Avendo i consoli, com’ è loro costume, tirato a sorte le milizie ; Fabio Cesone
assunse il comando di quelle che andavano a soccorrere gli alleati, e Lucio
marciò colle altre contro la città degli Anxiati. Avvicinatosene ai confini, e
vedutevi le armi nemiche, si accampò su di un colle a fronte di ^e. Ma uscendo
i nemici ne’ giorni consecutivi più volte in campo, e sfidando alia battaglia;
egli credette avere il buon punto, e cavò le sue schiere. Ed ammonitele, e
riammonitele prima del cimento ; alfine diedene il^egno e le avventò. Bentosto
i soldati alzato il grido consueto della battaglia pugnarono folli, a schiere e
coorti. Esaurite poi le lance, i dac;di cd ogni arme da tiro si scagliarono,
rotando le spade, gli uni su gli altri con ardire e desiderio eguale di
misurarsi. Era iu ambedue simi lissima la maniera di combattere : nè maggiore
tra Ro mani la saviezza e la sperieuza che gli aveva rendati già più volte
vincitori, nè maggiore la costanza e la sofferenza per 1 esercizio di tante
battaglie ; ma le doti stessissime brillavano pur tra’ nemici 6n dall’ ora, che
fu duce loro Marcio, famosissimo duce romano. Adun(jne gii uni resistevano agli
altri senza cedere il posto preso in principio. Ma dopo alquanto i Volaci a
poco a poco si ritirano, schierati, e con ordine, tenendo fronte ai Romani.
Tendea quel movimento a dividere le milizie di questi e combatterle da lut^o
elevato. In opposito i Romani credendo che questi principiasser la fuga tennero
anch’ essi a passo a passo in buon ordine dietro loro che si ritiravano. Ma
poiché videro che a rilancio conevano agli alloggiamenti anch’ essi
rapidissimi, in disordine li seguitarono. Intanto le centurie estreme e la
retroguardia, quasi già vincitrici, spogliavano i morti, e davansi a predare la
regione. Vedendo ciò li Voisci che facean credere di fuggire, giunti appena
alle Urincee, voltata faccia, si contrapposero : e quelli che erano negli
alloggiamenti, spalancate le porle, accorsero numerosi da più parti. Or qui
cambiarono le vicende della battaglia : chi perseguitava fugge, e chi fuggiva perseguita.
Perirono, com’ è naturale, molti bravi Romani incalzati giù pel declivio, e
circondati ; essi pochi, dai molti. Non dissimile sorte incontrarono quanti
eransi dati a spogliare e predare, impediti di retrocedere schierati e con oi^
dine ; imperocché sopraHatti ancor essi da' nemici restavano iracidali o
prìgiooierì. Quanti però di questi o di quelli respinti giù pel monte fuggivano
in salvo ; soccorsi, benché tardi, dalia cavalleria, tornavano al6ne a’ proprj
alloggiamenti : e parve che a non essere intc-ramenie distratti giovasse loro
un’acqua dirottissima dal cielo, ed un bujo qual formasi per nebbia
profondissima ; perocché non potendo i nemici vedere più di lon tano,
infkslidirottsi a seguitarli più oltre. La noue appresso il console movendo l’ armata
la ritirò cheta, in buon ordine, sicché 1’ inimico noi comprendesse. Al tornar
della sera mise il campo presso la ciué di Longòla t scegliendo un’altura
idonea, onde. respingerne gli assalitori. E qui fermatosi curava gli egri
.dalle ferite, e rianimava gli aiHitti dalla vergogna delia disfatta impensata.
Tale er^ lo stato de’ Romani. Li Volacipoi come al nascere dei giorno conobbero
che quelli eransi di loggiati; portarono più da vicino il campo loro. Quindi
spogliato avendo i cadaveri de’ nemici, raccolto i semivivi che davano speransa
di guarigione, e seppellito gli estinti loro compagni, rientrarono la città di
Anzio che prossima rimaneva. Qui cantando inni e porgendo in ogni tempio
sagrifìzi per la vittoria, si diedero ne’ giorni seguenti ai conviti e piaceri.
E se teneansi a quella vittoria, né intraprendevano altra cosa; la guerra
avrebbe avuto per essi nn esito fortunato. Imperocché li Romani non aveano
cuore di uscire dagli alloggiamenti per combattere ; anzi desideravano di
lasciare le terre nemiche, anteponendo nna fuga ingloriosa ad una morte
DIOIfJGI, tomo ut. manifesu. Infiammati però da speranae maggiori, perderoDO la
gloria ancora della prima vittoria. Udendo dagli eipioratori e dai disertori
che i Rbmani andati salvi eran pochi, e per lo più feriti ; ne concepirono
disprezzo grandissimo, ed impugnate le armi marciaron sa loroi Li seguitarono
senza 1’ armi moiri della città per vedor la batuglia, e per fare insieme prede
e guadagni. Ma quando giunti all altura circondarono gli alloggiamenti, e
presero a svellerne gli steccati ; proruppero prima su di essi i oivalieri
Romani, postiti a piede per la condizione del luogo, e poi li triarj,
schieratisi strettissimi. Sono questi i veterani a’ quali si dà la guardia
degli alloggiamenti, se le milizie escono per combattere, ed a’ quali per
mancanza di altri ripari si ha restrerao indispensahil ricorso quando avviene
strage funesta de’ giovani. Ne sostennero i iVolsci la irruzione e pugnarono
gran tempo pieni di valore. Ma non favoriti poi dalla natura del aito se ne
rimossero : e fatto a’ nemici danno tenue, nè degno di memoria, e ricevutolo
essi più grande ancora; calarono alia pianura. Messi quivi gli alloggiamenti,
schierarono ne’ giorni appresso 1’ armata, e provocarono i Romani alla
battaglia : nè pertanto uscirono questi al paragone. 1 Volsci vedendo ciò li
spregiarono : e convocate le milizie dalle loro città ; si ap pareccbiarono per
espugnarne le trincee colla moltitudine. E ben erano per fare alcuna cosa di
grande riducendo per patri e colla forza il console e i suoi che già
penuriavano ; ma giunse prima di loro il soccorso Romano, e furono traversati
da compiere con bellissimo (ìpe la guerra. Imperocché Fabio Cesoue l’altro
console,. I I 5 Mpen rono compartiti pe’ corpi varj. I consoli dopo avere
sup> plite le coorti mancanti, tirarono a sorte il comando degli eserciti.
Prese F abio l’ esercito sostenitore degli alleati, e Valerio 1’ altro che
accampava tra’Yolsci ; recandovi le nuove reclute. I nemici saputo il giugner
di lui, deliberarono far venir nuove troppe, trinderarsi in luogo più forte, nè
coìrere, come prima, per lo dispregio rovinose vicende. F orqirono i duci tutto
ciò speditissimàmente, intenti l’ uno, e l’ altro a guardare le trincere sue
dagli assalti, non ad assalir le inimiche, per espugnarle. Cosi decorse non
poco tempo fra terror vicendevole che 1’ ano 1’ altro investisse. Non poterono
però l’uno e l’altro osservare sino al fine il proposito. Imperocché quante
volte spedivasi alcuna parte di esercito pe’ frumenti o per altro bisogno ;
davansi attacchi e percosse, con esito non sempre vittorioso per ' Cesare (a)
Altenlare so’ Iribaoi era delitto graTÌssimo, perchè le persone loro si
riguardavano come sacre ed inviolabili : Quindi Cicerone nel lib. 3 de legibns
scrive: quodque ii prohibessint, quodque plcbem rogaisint ralitm està ^
taneiique turno. vin. I ig UD de' partiti. Ne perirono in tante scaramacce non
pochi ; restandone feriti ancor più. Non riparava le perdite Romane alcun nuovo
rinforzo venuto altronde ; mentre i Volsci, sopravvenendo ad essi schiere su
schiere, si erano moltissimo ampliati. Dond’è che animatine i duci loro,
cavarono dalle trincee 1’ esercito per la battaglia. Usciti i Romani nommeno e
schieratisi a fronte, insorse una mischia grandissima di cavalli, di fanti, di
soldati leggeri, pieni tutti di ardore e di > sperienza e ciascuno col
disegno che dipendesse da lui solamente la vittoria. Cadutine dall’ una e dall’
altra parte molti estinti, e piò ancor semivivi ; si ridussero a pochi quelli
che tuttavia rimanevano tra la mischia e il pericolo. Or non potendo questi
fare le azioni di guerra perchè gli scodi destinati a difendere, pieni di dardi
conGccativi ^ aggravavano la sinistra, né permettevano che si tenesse ferma in
atto di ripercotere i colpi, e perchè le spade erano ornai spuntate, rotte,
inutili ; tanto più che il combattere di tutto il giorno gli aveva stancati,
mer^ vati, illanguiditi a ferire, e la sete, il sudore, l’aiTanno travagliavali
come chi combatte a lungo nelle ardentissime ore di estate; la battaglia non
prese termine me morando, ma 1’ nnò e l’ altro duce ritirarono ben vo lentieri
le armate : e tornarono a’ proprj alloggiamenti^ Non uscivano più gli uni o gli
altri a combattere, ma standosi dirimpetto spiavano a vicenda le sortite degli
emoli pe’ bisogni di guerra. Parve nondimeno, e molto in Roma se ne discorse,
che la milizia Romana, potendolo, non facesse nulla di luminoso per odio contro
del console, e per indignazione su’ patrizj, mentitori nella dÌTÌsione delle
terre. In opposito i soldati acctisa vano il console come insulficiente ;
scrìvendone ognuno lettere ai suoi. Tali furono gli eventi nel campo in Roma
intanto molti segni celesti annunziarono l’ira divina con voci, e viste
inusitate. E tutti i segni concorrevano a questo, come i vati e gli spositorì
delle sante cose, te nutone consiglio, interpretavano, che alcuni de’ numi
erano esacerbati, perché non riceveano gli onori legit timi, o riceveano
sagrifizj non puri, nè pii. Faceasi dunque grande ricerca, 6nchè diedesi
indizio a’ sacerdoti che l’ una delie vergini, custodi del fuoco sacro ( Opimia
n’ era il nome) avea la verginità contaminato, e con la virginità le sante
cose. Or questi con indagini e discussioni chiarìtlsi .esser vero pur troppo il
fello indicato, spogliarono quella delie sacre bende, e condottala di su |1
foro, la seppellirono viva tra sotterranee pareti. Flagellarono poi nella
pubblica luce ed uccisero due convinti del fello con essa. E ben tosto
favorevoli le sante cose, e favorevoli si ebbero le risposte degl’indovini,
come per la pace venduta da’ numi. XC; Giunto il tempo de’comizj, e venutivi i
consoli, ebberì briga e contenzione assai viva tra’ patrìzj e tra ’l popolo su’
personaggi che avrebbero da pigiare il comando. Voleano quelli promovere al
consolalo giovani intraprendenti né amici della plebe ; e per insinuazione loro
chiedevalo il figlio di Appio Claudio, di quello riputato già si contrario al
popolo ; ed era questo figlio pieno di orgoglio e di audacia, e potente per
amicizie e clientele più che lutti dell’ età sua. Per l’ opposito il popolo
nominava a far l’ utile pubblico e volea per con vm: 1 3 1 soli personaggi
anziani, notissimi per le d^ci maniete sole vi marciasse colle armate. Fu tal
decreto un sub> bjetto di contraddizioni : perocché molti non lasciavano che
la guerra uscisse, ricordando a’ plebei la partizion delle terre decisa già da
cinque anni dal Senato, e come tra le belle speranze furono defraudati, e
protestando che non particolare ma comune sarebbe quella guerra, se la Etruria
tutta levavasi unanime a soccorrere ì suoi nazionali. Non poterono però nulla
tali sediziosi discorsi; imperocché per le insinuazioni di Spurio Largio anche
il popolo ratiScò la sentenza de’ padri : pertanto i consoh cavarono gli
eserciti, e gli accamparono separati r uno dall’ altro, non lungi da Yejo. Si
tennero in tal modo più giorni: non uscendone però l’inimico coll’armata ;
datisi a saccheggiarne i campi, sen tornarono con quanta poteano più preda in
patria. Or ciò e non altro vi ebbe di memorabile sotto questi consoli. L JLj
anno appresso nacque disparere tra ’l popolo e tra i senatori su la scelta de'
consoli : imperocché questi voleano promovere al consolato due di cuore
patrizio, laddove la moltitudine due ne volea popolareschi. Arse la disputa
finché tra loro si persuasero, che ambedue le parti dovessero nominare,
ciascuna, un console. Pertanto il Senato elesse Fabio Cesene per la seconda
volta, quello appunto che aveva accusato Cassio come reo di tirannide, ed il
popolo creò Spurio Furio Roma Catone Vairone. laS nella olimpiade settantesima
quinta ; essendo Calliade Arconte in Atene, al tempo appunto che Serse fece la
sua spedizione contro della Grecia. Or avendo questi preso appena il comando,
yennero in Senato gli ambasciadori Latini per supplicarvi, che si mandasse loro
coir esercito l’ uno de’ consoli, il quale non permettesse che la insolenza
degli Equi procedesse più oltre. Annunziavasì insieme che la Etruria tutta era
in moto, e che tra non molto uscirebbe colle armi per essersi già riunita in (x>mizj
generali : come pure che avendo i Vejenti insistito per congiungersele contro i
Romani, ne aveano Gnalmente ottenuto, che potesse ogni Tirreno parucipare alla
impresa: dond’ è che fatto, si era un corpo riguardevole di Vejenti volontari,
per militarvi. Or ciò vedendo i magistrati Romani deliberarono che si
recintasser le armate, e che li consoli uscissero con esse r uno per combattere
gli Equi, ed esser il vindice dei Latini ; e l' altro per marciare contro l’
Etruria. Opponessi a ciò Spurio Sidnio l’uno de’tribnoi, è con gregando ogni
giorno il popolo a conclone raddomandava le promesse dal Senato, e protestava
che non pen> metterebbe, che si eseguisse niuna delle cose decretate da’
padri su’ nemid o su la dttà, se prima non creavano i Died, per deBnire le
terre del pubblico, e non le compartivano, come eransi obbligati in verso dd
popolo. Implicavasi, nè sapeva che fare il Senato ; quando Ap> In atconì
codici ti legge Icilio: e Lirio stesso nel lib. 4, dice : auetoret fuitte tam
Uberi popolo mffrayì leitios accipio, ex famitia i/ifeetUtima patribue Irei in
eam antuun Uibunot plebù ereaioi. e pio Claudio suggerì che si procurasse la
dissensione tra questo e gli altri Tribuni ; perciocché vedea, eh' essendo r
oppositore inviolabile, ed impedendo col poter dei^ leggi i decreti de’ padri,
non rimaneva altra via da rintuzuraelo, se non quella che un altro di eguale
onore e potenza operasse in conurario, e proibisse ciocch’ egli proibiva:
consigliava inoltre che quanti prenderebbero successivamente il consolato si
adoperassero, e mirassero sempre ad avere iàmigliari ed amici de’' tribuni,
ripe tendo non esservi altr’ arte da iuvalidame il potere, se non quella di
ridurli discordi. II. Parve ai consoli che Appio ben consigliasse, ed essi, e
gii altri de’più potenti si afiàticarono vivamente, perchè quattro de’ tribuni
si dessero ai voleri del Se> nato. Or questi cercarono alcun tempo
persuadere colle parole Sicinio a desistere dalla mira che i terreni si'
dividessero innanzi la fin della guerra. Ripugnando e giurando, e dicendo però
costui protervissimamente, che vorrebbe piuttosto vedere la città caduta in
poter dei Tirreni e di altri nemici, che lasciare placidi a sestessi que’ che
godeansi le terre del pubblico, pensarono di prender quindi la bella occasione
di parlare, e di operare contro tanta arroganza, non udita con piacere, nemmeno
dal popolo. Adunque dichiararono che gliel proibivano ; e fecero svelatamente,
quanto piacque al Senato, ed ai consoli. Dond’ é che Sicinio rimasto solo non
era più 1’ arbitro di cosa niuna. Fecesi dopo ciò la iscrizion dell’ annata, e
si apparecchiarono dai privati, e dal pubblico con ogni diligenza le cose tutte
necessarie per la guerra. I consoli, tirata a sorte la spe. 127 dÌEioQ loro,
uscirono ben (osto all'aperto, Spurio Furio contro le città degli Equi, e Fabio
Casone contro i Tirreni. Corrispondevano i successi appunto ai disegni di
Spurio ; non avendo i nemici nemmen cuore di venire alle mani : e potè di
quella spedizione raccogliere danari e prigionieri in buon numero ; imperocché
per poco non scorse tutto il territorio nemico, menando o portando via. Concedè
tutte le prede in dono ai soldati : e se parea già da gran tempo l’amico del
popolo; più che mai se lo accarezzò con tal suo capitanato. Del quale, finito
il tempo, ricondusse l’ esercito intero, inviolato, ricchissimo divenuto, alla
patria. IIL Fabio Cesone diresse nemmeno bene il comando deir armata, por andò
privo delle lodi delle opere, non per colpa sua, ma perchè fin d’ allora che
fe’ giudicare, e dare a morte Cassio il console, come intento alla tirannide,
non avea più lafiètto del popolo. Donde che li soldati suoi non erano disposti
nè ad ubbidire colla prestezza la quale abbisogna al duce, che ordina, nè ad
espugnare con ardore quantunque muniti di fòrze convenienti, nè a guadagnare
colle insidie i posti opportuni al buon successo, nè a fare cosa niuna dalla
quale raccogliesse onore e fama buona pe’ comandi che dava. Le altre
iocongruenze poi colle quali spregiavano esso capitano erano per lui meno
gravi, nè di tanta rovina per la patria. Se non che quel che fecero in ultimo
creò pericolo non lieve, e grande ignominia per ambe> due. Imperocché scesi
a battaglia campale fra i due colli su quali alloggiavano diedero molte e
splendide prove di valore, fin a scingere i nemici a dar volta ; non però gl'
inseguirono nella fuga, sebbene il capitano ve gli scongiurasse, né vollero con
fermezza asserliame gli alloggiamenli ; ma lasciata la bell opera imperfetta,
si ritirarono alle proprie trincee. Anzi tentando il console capitano dire
alcune cose : molti a gran voce ne lo beffarono, e redarguironlo che avesse per
la im> perizia sua nei comandare, fatto tra lor la rovina di tanti
valentuommi: ed aggiungendo altre maldicenze e querele, esigerono che
sciogliesse il campo, e li riconducesse a Roma, come insufficienti ad una
seconda battaglia, se il nemico su loro tornasse. Nè puntò si pie garouo per le
ammonizioni, nè si commossero pe’ g> miti, e per le suppliche di lui, nè le
grandi minaccie ne riverirono { ma sd^nandosene ognora più si ostinarono. Per
le quali cose tanta, e tanto universale fu la insubordinazione, e il dispregio
pel capitano; che le-vatisi intorno la mezza notte, dismisero le tende, e
raccolsero le armi ; trasportandone li feriti, senza comando ninno. ly. Il duce
vedendo ciò fu costretto dare il segno per tutti della partenza ; temendo 1
audacia e l’ anarchia loro : ed essi come salvatisi colla fuga, pervennero in
gran fretta su 1’ alba presso di Roma. Le guardie delle mura ignorando che
fossero amici, brandirono le armi, e chiamaronsi a vicenda ; e tutto il resto
della ciltè si empiè di confusione e tumulto, come per grande sciagura : nè si
aprirono le porte, se non a di luminoso, quando si ravvisò eh’ era 1’ esercito
loro. Questo poi, Secondo ua’ altra leiione il teaio Mrebbe : ami tentando
aieuni dare ai cotuoU nome d' Imptradore ec. per tacere la infamia deli'
abbandono del campo, corse a riscbio non lieve, traversando disordinatamente di
notte le terre nemiche. Imperocché se gli emoli se ne avvedevano, e lo inseguivano,
niente impediva che lo sterminassero. Cagione, come ho detto, di questa
irragionevol partenza, o fuga, fu l’odio del popolo contr dei capitano, e la
invidia su la onoriBcenza di lui, af> finché più autorevole non divenisse
per la gloria del trionfo. I Tirreni conosciutane al quovo di la rimozione,
spogliarono i cadaveri de’ Romani, presero e trasportarono i feriti, e
saccheggiarono nelle trincee tutti gli apparecchi, certamente ben grandi, come
per guerra diuturna. Alfine dopo avere, quasi vincitori, depredate le terre
nemiche più prossime, ricondussero in patria 1’ armata. V. Creati consoli dopo
questi Cajo Malllo, e Marco F abio per la seconda volta, siccome il Senato
decretò, che marciassero contro Vejo con armata quanta po> teano numerosa, intimarono
il giorno per la iscrizioa dei soldati. Ben pose loro Impedimento per questa
Til>erio Pontificio T uno dei tribuni con reclamare il de-creto su la
partizione delle terre : ma essi, come aveano fatto i consoli antecedenti,
guadagnando altri de’ tribuni, disunirono que' magistrati, e cosi diedero
esecnzlone pienissima ai voleri del Senato. Finita in pochi di la coscrizion
militare, uscirono contro de’ nemici ; conducendo ciascuno due legioni,
reclutate dalf interno di Roma Catone Varrons] Roma, e milizia non minore ;
spedita dalle colonie e da’ sudditi. Giunse dai Latini e dagli Emici il doppio
del soccorso intimato, non però li consoli lo usarono tutto, ma rimandandone la
metà, li ringraziarono amplissimamente di tanto buon animo. Accamparono innanzi
di Roma una terza armata floridissima di due legioni, per guardia del
territorio, se mai vi si presentasse altro esercito nemico improvviso ; e
lasciarono a difenderne le fortezze e le mura gli altri non più compresi nella
iscrizion militare, ma validi ancora per le armi. Quindi guidando gli eserciti
fin presso di Vejo ne misero il campo su due colli non molto lontani fra loro.
Accampavasi davanti la città l’armata nemica, numerosa e buona pur essa ; anzi
maggiore non poco della Romana per esservi accorsi i primarj di tutta la Etmria
co'lor dipendenti. All’aspetto di tanta moltitudine, allo splendore delle armi,
assai temerono i consoli di non listare a vincere, se metteano l’ esercito loro
non bene concorde a fronte dell’ esercito unanime de’ nemici. Adunque
deliberarono i consoli fortificare il campo, e prender tempo, finché l’ audacia
nemica, elevata da un irragionevol disprezzo, desse loro la opportunità di ben
fare. Seguivano dopo ciò preludj continui di battaglie, e brevi scaramucce di
soldati leggeri ; non però mai nulla di grande o di lumino). VI. Mal soffrendo
t Tirreni la dilazion della guerra accusavano i Romani di viltà perchè non
uscivano a battaglia, e magnifica vansi, quasi avessero questi ceduta loro r
aperta campagna. Anzi tanto più si elevavano a spregiare le milizie nemiche e
vilipenderne i consoli ;. 1 3 I quanto che credeano gl’ Iddj combattere pc’
Tirreni. E certo caduto un fulmine nel quartiere di Cajo Mallio ]' uno de’
consoli, ne abbattè la tenda, ne mandò sosso pra i focolari, ne macchiò le
arme, le bruciò d’ intor no, o in tutto glie le distrusse ; e ne uccise il più
co spicuo de’ cavalli dei quali valessi nel combattere, ed alquanti de’ servi.
E condossiacbè gl’ indovini diceano che i numi annunziavano la presa del suo
campo, e la rovina de’ personaggi più riguardevoli ; Mallio levò l’ e centrò
nel campo stesso del compagno. I Tirreni conosciuta la traslazione, ed uditane
la causa da’ prigionieri, s’ ingrandirono tanto più nel cuor loro, quasi il
cielo ancora guerreggiasse i Romani; e moltissimo confidarono di vincerli. E
gl’indovini loro i quali sembrano aver meglio che quelli di altri popoli
esaminato i segni superni, e d’onde scoppino i fulmini, e dove finiscano dopo
il colpo, da qual Dio vengano, e con quale presagio di bene o dì male;
esortavano che si andasse al nemico, inlerpetrando il segno avvenuto a’ Romani
in tal modo : poiché il fulmine cadde nella tenda consolare ov' è il centro del
comando, e disfecevi tutto insino ai focolari ; egli è indizio divino a tutto
l’ esercilo deir abbandono del campo espugnato a forza, e della rovina de' più
riguardevoli. Se dunque, diceano, coloro che ebbero U fulmine restavansi nel
luogo fulminato, nè trasportavano ciocci erano significato infra gli altri ; la
presa di un campo, e la distruzione di un’armata sola avrebbe appagato lo
sdegno del nume cite U contrariava. Ma perciocché cercando precedere col senno
gli Dei si trassero aiì aluo campo, lasciato deserto il proprio, quasi il segno
celeste fosse pel luogo non per gli uomini ; quindi è che [ ira ' dà' ina
fulminerà lutti e chi trasmutatasi, e chi li raccolse. E siccome mentre la
necessità divina prenunziava la presa del campo essi non aspettarono, ma lo
cederono di per sestessi a nemici, così non il campo abbandonato sarà preso di
forza, ma quello che ricettò chi lo abbandonava. I Tirreni, udite tali cose
dagl’indovini, invasero con parte dell’ esercito il campo derelitto da’ Romani,
per valersene, contro dell’ altro. Erane il luogo ben forte, e mollo accomodato
per impedire chi da Roma andava all’ esercito. Fatte poi diligentemente altre
cose colle quali superar l’ inimico, recarono in campo 1’ armata. Ma standosene
i Romani in calma, i più audaci fra loro scorsi e fermatisi a cavallo presso le
trincee, rampognarono tutti, quasi femmine : e dicendo simili i duci loro agli
animali più timidi, gli sbeffavano, e chiedeano l’ una delle due, vuol dire ;
che se disputavano altrui la gloria delle armi ; scendessero in campo, e ne
decidessero con una sola battaglia : ma se riconosceansi per codardi ; cedessero
le arme ai più forti, subissero la pena delle opere, nè più aspirassero a nulla
di grande. Replicavano altrettanto ogni giorno: ma per ciocché niente ne
proGttavano ; deliberarono rinserrarli intorno intorno con muro, per
astringerli, almeno colla fame, alla resa. consoli lungo tempo guardarono
solamente ciocché facevasi non per codardia nè per molIcsza, essendo Tuno e l’
altro animoso e guerriero; ma perchè temevano il mal talento, e la ritrosia
nata e perpetuatasi ne’ soldati plebei fin d’ allora che il popolo tumultuò per
la division delle terre. Ancora stavano loro su gli orecchi, e su gli occhi le
cose che avea fatte nell’ anno precedente per astio sul console, vituperose né
degne di Roma, cedendo la vittoria ai vinti, e sostenendo fin gli obbrobrj di
una fuga non vera, affinchè colui non trionfasse. Vili. Volendo tor vii
finalmente dall’ esercito la sedizione e richiamare alla concordia primitiva la
moltitudine ; e dirigendo a ciò tutti i disegni e le providenEe ; poiché non
poteano ravvederla uè co’ supplizj parEÌali come protervissima ed armata, nè
co’ discorsi come insofferente di essere persuasa, concepirono che due vie
rimarrebbero per la riconciliazione; vuol dire; la infamia di essere vilipeso
da’ nemici per gli uomini (che pur ce ne avea ) d’ indole moderata, e la
necessitò, coi tutti paventano, per gl’ indocili al bene. Adunque per
effettuare ambedue queste cose, lasciarono che i nemici li disonorassero colle
parole, biasimando la calma loro come la calma de’ vili ; e li necessitassero
coi fatti pieni di arroganza e disprezzo a tornar valentuomini, se tali non
dimostravansi per sestessi. Speravano, se ciò faceasi, grandemente che
accorrerebbero tutti al quarlier generale fremendo, gridando, ed istando di
esser condotti al nemico. Or ciò appunto addivenne ; imperocché non si tosto
prese il nemico a rinchiudere con fossa e steccalo le uscite dal campo, i
Romani considerata la indegnità dell’ opera, ne andarono prima in pochi, indi
in folla alle tende dui consoli, c vi schiamazzarono, e come di tradimento li
redarguirono; protestando infine die se niun de’ due li guidava, essi di per
sestessi volerebbero colle armi alla roano su gli avversar). Ciò fatto da
tutti, giudicando i consoli venuta alfine la opportunità che aspettavano,
imposero agli araldi di chiamarli a parlamento. Allora Fabio recatosi innanzi
disse : Sohìati, capitani, tarda è la vostra indignazione su vilipendj che vi
si Jan da’ nemici ; nè più in tempo è la volontà che at'ete di combatterli,
pei'che m annestatasi troppo dopo il bisogno. Allora doveasi ciò fare quaruìo
li vedeste la prima volta scendete dalle trincee, e cercar la batiaglia:
jdllora bello era il combattere pel comando, e degno della sublimità de’
Romani. Ora necessario ne si è reso, e certo non di egtuile decoro, quatulo
ancora vincessimo. Nondimeno sta pur bene che vogliate una volta ri' scuotervi,
e riavervi delle occasioni tralasciate, E molto siete lodevoli per tale ardore
verso le nobili gesta ; imperocché procede da virtù, e vai meglio cominciar
ciocché deesi aruhe tardi, che mai. Ed oh! cosi tutti V abbiate sentimenti
consimili per t util vostro, e vi animi tutti uno zelo medesimo per combattere.
Paventiamo noi però che i trasporti de’ plebei contro de’ magist rati per la
division delle terre, siano cagione al pubblico di sciagure, E ciò noi
paventiamo, perché i clamori, e le istanze, e la insofferenza per uscire, non è
forse in tutti t ejffctto di un disegno medesimo. Ma quali di voi anelale uscir
dai campo per punir f inimico ; e quali per fuggirvenc. E cagione del tintor
nostro non sono già gl’indovini, non le congetture; ma fetui più che notorj e
non antichi, anzi freschi delt anno precedente, come tutti sapete, quando
uscendo contro questi nemici medesimi un esercito nostro numeroso e forte, e
pigliando fn la prima battaglia un esito propizio per noi, mentre Cesane mio
fratello, console condottiero poteva espugnare gli alloggiamenti loro e
riportare alla patria una vittoria luminosa, alquanti presi da invidia della
gloria di lui perchè nè era popolare nè mirava nel suo governo a far le voglie
de’ poveri, levarono le tende la notte stessa dopo la battaglia, e fuggirono
fuori di ogni comando, senza valutare il pericolo che comprendevali nelf andare
privi di ordine e di capitano per le terre nemiche, e fra la notte, e senza
riguardare quanta vergogna ri avrebbero, perchè quanto era in loro, cedevano C
impero a nemici, essi già vincitori ai viziti. Tribuni, centurioni, soldati !
in vista di tali uomini, non buoni nè per dominare, nè per farsi dominare, che
pur sono molti e caparbii, e colle armi, non abbiamo noi fin qui voluto la
battaglia, nè osiamo ancora per tali compagni decidere in campo la somma delle
cose, perchè non sian essi tT impedimento e di danno a chi presenta tutto il
buon animo. Ma se la divinità richiami ancor essi a buon senno, se, lasciate da
parte le discordie per le quali ha il nostro comune tanti mali e sì gravi, e
differitele ai tempi di pace, vorranno redimere ora col valore { obbmbrio
passalo: niente impedisce che ne andiamo caldi di belle speranze al nemico.
Oltre le tante opportunità di vinrere, le più. grandi e più solide ce le porge
la stoli^ dità degli avversar] medesimi. Costoro superiori a noi di molto nel n
limerò, ed atti con ciò solo a contrahhilanciare t animosità e perizia nostra,
han privato sestessi fin di quest’ unico vantaggio, consumando il più delle
milizie in guardia delle loro fortezze. Ap-presso, quantunque dovrebbero fare
ogni cosa con diligenza e saviezza considerando con quali e quanti grand uomini
abbiano a misurarsi, pur vanno conarroganza ed incuria al cimento, come sian
essi invincibili, e noi sopraffatti dal terrore di essi. E le fosse con che ci
cingevano, e le corse a cavallo fin sotto ai nostri alloggiamenti, e tan^ altre
ingiurie colle parole e colle opere, questo appunto dimostrano. Or via dunque,
ciò riguardando e le tante e sì belle antiche battaglie nelle quali gli avete
vinti : andatene con ardore a questa ancora. E quel luogo dove ciascuno sarà
collocato, quello concepisca essere la casa, i poderi, la patria sua :
concepisca che chi salva il vicino in battaglia salva sè ancora: e che
abbandona sestesso a nemici chi abbandona il compagno. Ilammentatevi
soprattutto che di quelli che persistono valorosi e combattono, pochi no
soccombono ; laddove pochi ne scampano, e a stento, di quelli che piegano, e
figgano. X. Egli seguitava ancora, in mezzo a lagrime copiose, tal discorso
animatore, e chiamava a nome ciascuno de’ tribuni, de’ centurioni, e de’
soldati, nolo a lui per le belle prove di valore date nel combattere, e
prometteva a chi più segnalato sarebbesi nella batlaglia molti e gran pegni di
benevolenza, onori, r;c> cliezze, soccorsi d’ ogni guisa in parità delle
imprese ; quando proruppe da tutti una voce che inviuvalo a con6dare, e
portarli al nemico. Cessata questa, gli si fece innanzi dalla moltitudine Marco
Flavoleio, plebeo di condizione ed arteGcc, non vile però, ma per le sue virtù
pregiato, e prode in guerra ; e per tali due rispetti condecorato in campo di
una presidenza luminosa, cui sieguono ed ubbidiscano per legge sessanta
centurie. I Romani chiamano primipili nel patrio idioma tali condottieri. Or
quest’ uomo, altronde grande e bello, postosi in parte, donde fosse a lutti
visibile, alfine disse: K oi temete, o consoli, che le opere nostre non corrispondano
alle parole ? Io per il primo vi darò su mestesso le assicurazioni meno
equivoche della mia promessa. E voi cittadini, voi compagni della sorte
medesima, voi che avete risoluto di pareggiare ai detti le opere, non
sbaglierete facendo quanto io fo. E qui, sollevando la spada, giurò con formola
sacra e solenne ai Romani, per la sua buona fede, di non tornare, se non dopo
vinti i nemici, alla patria. Sorsero al giuramento di Flavoleio lodi amplissime
d’ogn’intorno. Fecero bentosto altrettanto i consoli e mano a mano i duci
minori, tribuni e centurioni ; e la moltitudine finalmente. Yidesi dopo ciò
molto buon animo in tutti, molta benevolenza fra loro, molta confidenza, e
fermezza. Partiti dall’ adunanza, chi metteva il freno ai cavalli, chi le spade
aguzzava e le lance ; e chi riforbiva gli scudi ; ond’ è che tra poco tutta 1’
armala fu in pronto per la battaglia. I consoli, invocali gl' Iddìi con voti,
con ugrifizj, con suppliche, perchè fossero i duci essi stessi di quella
uscita, portavano fuori degli steccati l’esercito, schierato in buon ordine. I
Tirreni vedutili scendere dalle loro trincee, ne stupirono, e vennero ad
incontrarli con tutte le forze, XI. Come furono gli uni e gli altri sul campo,
e le trombe annunziarono il seguo delta battaglia, corsero quinci e quindi con
alti clamori. E fattisi i cavalieri su i cavalieri, ed i fanti so i fanti;
pugnarono, e molu fu la occisione in ambe le parti. I Bomani dell’ala destra
comandati dal console Mallìo malmenavano il corpo che li contrastava, e smontati
da cavallo combattevano appiedo: ma quelli dell’ala sinistra erano circondali
dal corno destro de’ nemici. Imperocdiè essendo ivi la milizia tirrena più
elevata e più numerosa, i Romani ne erano battuti, e coperti di ferite.
Comandava in questo corno Quinto Fabio luogotenente e già due volte console.
Egli resistè lungo tempo, ricevendovi ferite sopra ferite ; ma poi trafitto da
una lancia nel petto fino alle viscere, esangue ne stramazzù. Come ciò udì
Marco Fabio il console che crasi ordinalo nel centro, pigliò seco i più bravi,
e, chiamato Fabio Cesone l’uno dei fratelli, marciò verso 1’ altro Fabio . E
proceduto buon tratto, e trascorso all’ala destra de’ nemici, venne a quelli
che circoudavano i suoi. Dato l'assalto, causò strage cupa a quanti avea tra le
mani, e fuga ad altri che erano da lontano. Trovato il fratello che respirava
Il ferito. Par questo il senso migliore. Nel testo si legge in luogo di Fabio.
Qui dunque si hanno tre Fabj, Marco, Quinto, c Cesone, fiaiclli lutti tre.
ancora, lo soUcTÒ; ma questi non molto sopravvivendo, morì. Crebbe qui l’ira a’
vendicatori suoi su’ nemici. Nè più riguardando la propria salvezza lanciatisi
in piccieda sebiera nel mezzo di essi, dove erano più folti, vi alzarono monti
di cadaveri. Pericolò da questa |>arte la milizia toscana, ed essa che prima
incalzava en incalzata dai vinti. Per l’ opposto c|oelli dell’ala sinistra che
gii crollavano, e gii meticvansi in piega li dove era Mallio, quelli fugarono i
Romani contrapposti. Imperoo cbè trafitto Mallio con una lancia da banda a
banda in un ginocchi o, c riportato da’ suoi che lo circondavano agli
alloggiamenti ; i nemici lo credettero estinto, e se ne animarono ; ed
assistiti pur da altri forzavano i Romani, ridotti senza duce. I Fal^ dunque
lasdalo il corno sinistro furono di nuovo astretti a soccorrere il destro. I
Tirreni, vistfli che venivano con esercito poderoso, desisterono dall’
inseguire : e strettisi fra loro, combatterono io ordinanza, perdendovi molti
de’ loro ; e molti nocidendovi de’ Romani. XII. Intanto i Tirreni ebe avevano
invaso gli alloggia menti lasciati da Mallio, aizaione il segnale dal capitano,
marciarono con gran fretta ed ardore verso gli altri alloggiamenti Romani
perchè non bene forniti di guardie. Era il loro concetto verissimo ; perché
tolti i triarj e pochi giovani, non v’ erano se non mercadanii, e servi, ed
artefici. Ma ristringendosi molti in picciolo spazio presso le porte, ebbevi
una viva e terribile zuffa con strage copiosa e vicendevole. Accotzo con i
cavalieri Mallio il console per ajuto ; cadde col cavallo, nò potendo risorgere
per le molle ferite vi morì. Perirono ancora intorno a lui molti giovani
valorosi : e per tale infortunio gli alloggiamenti furono espugnati ; vcriGcan
dosi cosi li vaticini fatti ai Tirreni. E se avessero ben usato la sorte
presente, e guardato quegli alloggiamenti; sarebbero stati gli arbitri delle
provvigioni de’ Romani e gli avrebbero costretti a partire obbrobriosamente :
ma datisi a predare le cose rimastevi, e li più a ristorarsi ancora, lasciaronsi
fuggir di roano una bella occasione. Imperocché nunziatasi appena all’ altro
console la presa del campo, accorsevi co' fanti e cavalieri migliori. Li
Tirreni saputo che veniva cinsero le trincee ; e fecesi battaglia ardentissima
tra chi voleva ricuperar le sue cose, e chi temea, se ricuperavansi, 1’ ultimo
eccidio. Ma traendosi in lungo, e riuscendovi migliore assai la condizione de'
Tirreni, perchè combatteano da luogo elevato contra uomini stanchi dal
'combattere di tutto il giorno; Tito Siccio legato e propretore,
consigliatosene con il console, intimò la ritirata ; e che si riunissero ed
attaccassero tutti le trincee dal canto più facile. Trascurò la banda verso le
porte per un discorso plausibile che non lo ingannò; per questo cioè, che i
Tirreni sperando salvaf&i, ne uscirebbero : laddove se di ciò disperavano
circondati da nemici senza uscita niuna; sarebbero necessitati a far cuore.
Portatosi in una sola parte l’assalto; non più si diedero i Tirreni a
resistere; ma spalancate le porte, salvaronsi ne’ proprj alloggiamenti. II
console, rimosso il pericolo, scese di nuovo a dar soccorso nel piano. Dicesi
che questa battaglia de’ Romani fu maggiore di tutte le antecedenti per la
mollltudine degli uomini, per la durazione del tempo, e per l’ alleraarvi della
sorte ; imperocché venti mila erano i fanti, tutti di Roma, floridi e scelti,
oltre mille dugento cavalli che univansi alle quattro legioni ; ed aU trettanta
era la milizia de’ coloni, e degli alleati. La }>attaglia conunciaia poco
prima del mezzogiorno si estese 6no air occaso, e la sorte ondeggiò quinci e
quindi gran tempo tra vittorie e tra perdite. Occorsevi la morte di un console,
di un legato, stato due volte console, e di tanti altri capitani, tribuni, e
centurioni, quanti mai piu per addietro. Il buon esito della giornata fu
creduto de’ Romani non per altro, se non perché li Tirreni fra la notte
lasciarono il proprio campo, e passarono altrove. Il giorno appresso fattisi i
Romani a saccheggiare il campo Tirreno abbandonato, e seppellire le morte
spoglie dei loro,tornarono agli alloggiamenti. Dove riunitisi a parlamento
diedero i premj di onore a quelli che avevano combattuto da valorosi, e
primieramente a Fabio Gesone fratello del console, che avea fatto grandi, e
meravigliose gesta : in secondo luogo a Siedo, cagione che gli alloggiamenti si
ricuperassero ; ed in terzo a Marco Flavoleio duce di una legione, si pel
giuramento, che per la magnanimità sua tra pericoli. Rimasero dopo ciò per
alquanti giorni nel campo ; ma ninno più dimostrandosi per combatterli
tornarono alla patria. In Roma per battaglia si grande laquale prendea fine
bellissimo, voleano tutti aggiungere r onor del trionfo al console che tornava
: ma il console stesso noi consentì, dicendo, non essere pia cosa, nè giusta,
che egli s’ avesse pompa e corona trionfale per la morte del fratello e del
collega. E qui lasciate le insegne, e congedalo 1’ esercito, depose ancora i)
consolato due mesi prima del termine suo, non po> tendo ornai più sostenerlo
per la grande finta che lo travagliava e riduoevalo in letto. Il Senato scelse
gl’ interré pe’ comizj, e convocando il secondo interré la moltitudine nel
campo Marzo, vi fu nominato console Tito Yerginio, e per la terza volta Fabio
Cesone, colui che ebbe i primi premj della battaglia ed era fratello insieme
del console, che avea deposto il comando. Questi, decidendo ciascuno per sé
l’esercito col mezzo ddle sorti, uscirono in campo, Yerginio per combattere i
Yejenti e Fabio gli Equi che scorrevano, depredando, le campagne Latine . Gli
Equi all’ udire che i Romani venivano, si levarono iu fretta dalle terre
nemiche, e ritiraronsi alle proprie città, sopportando che si derubassero le
terre loro : tanto che il console col subito venir suo s impadroni di danari,
di persone, e di altre prede in copia. Si tennero i Vejenti in principio tra le
mura ; ma quando parve loro di avere il buon ponto, usarono su’ Romani
sbandati, ed intenti alla rapina delie campagne. E perciocché piombarono
numerosi, in buon ordine contro di essi, non sedo ue ritolser le prede; ma
uccisero, o fugarono quanti si opposero. E se Tito Siccio legato non accorreva,
e li frenava, con soldatesca ordinata appiedi e a cavallo, niente .impediva che
I’ esercito in tutto si distruggesse. Ma giunto lui per impedir ciò, si
affrettaci) Adoo di Room 37S aecaudo Catone, 377 secondo Marrone e 479 av.
Cristo] I 43 rono a rlunirsegli, senza eccettuarne alcuno, tutti i dispersi.
Coocenlralisi tutti occuparono a sera un colle, e vi pernottarono. Animati
dalla prosperità li Vejenti accamparonsi presso del colle e chiamarono altri
dalla città, quasi avessero addotti i Romani in luogo, privo in tutto de’
viveri, e poiessero tra non molto necessitarli ad arrendersi. Accorsavi gran
moltitudine, si misero due campi ne’ lati possibili ad espugnarsi del colle ;
ed altre picciole guarnigioni in siti men facili ; tanto che tutto ribbolliva
di armati. Fabio l’ altro console intendendo per le lettere del compagno che
gli assediati nel colle erano agli estremi, e sul punto ornai di rendersi per
la fame, se alcuno non li soccorreva ; raccolse 1’ esercito, e corse su’
Vejenti. E se giungeva un giorno più tardi; niente gli sarebbe valuto, ma
trovato avrebbe l’ esercito rovinato. Imperocché quei del colle costretti dalla
penuria ne uscirono per correre a morte più onorata ; e fattisi alle prese co’
nemici, combattevano esausti dalla fame, dalla sete, dalla veglia, da ogni
disagio. Ma dopo non molto, quando videsi l’esercito di Fabio che giungeva
numeroso, in buon ordine, tornò la conBdenza ne’ Romani, e la paura negli
avversar). Dond’ è che i Tirreni più non estimandosi acconci per fare giornata
cx>ntro di un esercito fresco e potente, abbandonarono l’ impresa, e
partirono. Ma non si tosto le due armate Romane si ricongiunsero, fecero un
amplisnmo campo in luogo munito presso della città. Trattenutisi quivi più
giorni, e saccheggiatone il meglio del territorio di Vejo; rimenarono in
‘patria gli eserciti. Avvedutisi i Vejenti che le milizie Romane eransi levate
dalle insegne, presa ia gioventù più spedita che essi tenevano ia arme, e
quanta ne era presente de’ loro vicini, si gettarono su campi confinanti, e li
depredarono pieni di fratti, di bestiami, di uomini ; per essere i contadini
calati da’ castelli a pascere i bestiami c lavorare le terre su la fiducia che
aveano nell’ esercito Romano trincierato innanzi di loro. Non eransi questi ai
partir dell’esercito affrettati a ritirarsi colle cose loro, non temendo che i
Vejenti, tanto danneggiati, dessero cosi pronta la ripercossa a’ nemici. Fu la
irruzione de’ Vejepti piccola se se ne guardi il tempo ; ma grandissima per la
quantità de’ campi saccheggiati : ed avanzatasi fino al Tevere verso il monte
Gianicolo a meno di venti stadj da Roma ; le recò dolore e vergogna insolita ;
non essendovi sotto le insegne milizie che impedissero a quella di estendersi.
Cosi l’esercito de’ Vejenti prima che queste si riunissero ed ordinassero,
corse desolando, e parti. XV. Adunatisi quindi il Senato e i consoli, c datisi
a considerare in qual modo fosse da far guerra a’ Vcjenti ; prevalse il partito
di tener ne’ conOni milizie di osservazione pronte sempre in campo per la
difesa del territorio. Couturbavali che grande ne diverrebbe il dispendio,
laddove l’ erario era esausto per le imprese continue, nè più bastavano i beni
ai tributi ; e molto più contnrbavali la recluta di tali presidj da spedirsi
perocché ninno voleva star in guardia per tutti: dovendosi travagliare non a
volta a volta, ma sempre. Essendo per tali due cause mesto il Senato; i due
Fabj (a) 1 due Fabj sono Marco Fabio, e Fabio Cesoue nomiaati di topna.; 145
convocarono qnanti partecipavano il loro lignaggio. Con saltatisi, promisero al
Senato di andare spontaneamente essi per tutti a tal rischio, conducendo seco
amici e clienti, e militandovi a proprie spese ; finché durerebbe la guerra. Ed
esaltandoli per la disposizion generosa, e contando tutti di vincere anche per
(jnesta opera sola, pigliarono essi famosi in città le aripe tra’sagrifizj e
tra i voti, e ne uscirono. Era duce loro Marco Fabio il console dell’ anno
precedente, quegli che vinse i Tirreni in batuglia. Esso menava presso a poco
quattro mila, clienti per la maggior parte ed, amici, ma trecento sei ve n’
erano delia stirpe de’Fabj. Usci non molto dopo su le orme loro l’armata
Romana, comandata da Fabio Cesone, Tuno de’ consoli. Avvicinatisi al Cremerà,
fiume non molto discosto da Vejo, fordficaroiio su di una balza precipitosa e
dirotta un castello opportuno a difendere tante milizie, e vi scavarono intorno
doppie fosse, e vi elevarono torri froquenti. Cremerà fu nominato ancor esso il
castello dal fiume. E conciosnachè molti esercitavano, ed il console stesso
coadiuvava quel lavoro, fu terminato prima che noi pensassero. Allora cavò r
esercito, e marciò su 1’ altra parte alle terre dei yejenti, poste incontra al resto
della Etruria, dove quelli tenevano i bestiami, non aspettandovi mai l’arme
Romane. Fattavi gran preda se la recò nel nuovo castello, esultandone per due
cause, cioè per la vendetta non tarda pigliata su’ nemici, e per 1’ abbondanza
che dava copiosissima ai soldati che lo presidiavano, percioc chè niente ne
riservò per l’ erario, o ne dispensò tra lo DIONIGZ, tomo in. 1 sue milizie, ma
tulio concedette a quelli che guarda^ vano la regione, greggi, giumenti, gioghi
di buoi, ferramenti, e quanto era utile per la coltura. E dopo ciò rlmenò 1’
esercito a Roma. Erano dopo fondato il cartello i Vejenti a mal termine ; non
polendo nè lavo t^re con sicurezza le terre, nè ricevere esterne vetto>
vaglie. Imperocché li Fabj diviso in quattro parti la gente loro, con una
difendevano il castello, e le tre altre scorrevano la regione nemica pigliando,
e traspor> landò. E quantunque molte volte i Vejenti gli assalirono con
truppe non poche nell’ aperto, e se li tirarono dietro in terre piene d'
insidie ; essi nondimeno vinsero r uno e r altro pericolo ; e fatta glande
uccisione, n ricondussero salvi al castello. Pertanto non osavano più li nemici
d’ investirli, ma tenendosi per Ib più tra le mura, np faceano furtive sortite.
E cosi ne andò quel r inverno. XVI. Entrati l’anno appresso (a) in consolato
Lucio Emilio, e Cajo Servilio, fu nunziato a’ Romani, che i Volsci e gli Equi
eransi convenuti di portare su loro la guerra, e d’ invaderne tra non molto le
terre; e verissimo ne era 1’ annunzio. Imperocché, armatisi gli uni e gli altri
prima dell’ aspettazione, corsero, e devastarono, ciascuno, la regione vicina a
sestesso, persuasi che non potrebbono i Romani combattere in un tempo i
Tirreni, e rispiiigere altri che gli assalissero. Poi so Cioè quelli i quali
prcaidiavauo il casiello aoUo gli auspicj di Marco Fabio. Roma Catone Varroae]
{iravveiiendo altri ridicevano che I’ Elriiiia tutta levavasi in guerra coulro
i Romani, e preparavasi di s[>edire ia comune un soccorso a’ Vejenti. Or lo
avevano i Ve> jenti f incapaci di espugnare il castello, imploralo qu>
sto soccorso ; commemorando la unità del sangue, 1’ amicizia, e le tante guerre
che aveano insieme combattute. Anzi aVeano dimandata l’ alleanza loro nella
guerra co’ Romani non si per questi riflessi, come per quello ancora, che i
Vejenti erano su la frontiera dell’ Etraria ; e frenavano una guerra, che
versavasi da Roma su tutta la nazione. Convinti di tanto i Tirreni promisero
mandare tutti i sussidj che richiedevano. Per 1’opposto il Senato, informatone,
risolvette spedire tre eserciti. Ed arrolate in fretta le milizie; fu spedito
Lucio Emilio sa i Tirreni. Usci pur con esso Fabio Ceso ne, colui che avea di
fresco deposto il comando, ottenuta dal .Senato la facoltà di ricongiungersi in
Cremerà, e partecipare t pericoli della guerra colle genti Fabie che il
fratello aveaci condotte in difesa del luogo : ma egli v’ andava co’ suoi
compagni ornato di autorità proconsolare. Cajo Srrvilio l'altro console marciò
contro i Volsci, e Servio Furio proconsole contro gli Equi. Seguivano ciascun
di essi due legioni Romane, e truppe alleate non minori di Eroici, di Latini, e
di altri. Servio il proconsole espedì la guerra con termine rapido e lieto ;
perciocché fugò gli Equi con una battaglia, e senza stento ; impaurendoli al
primo investirli : e poi rifuggitisi questi ne’ luoghi forti ; ne devastò le
campagne. Ma Serviliu il console fattosi a combattere con fretta ed orgoglio,
incontrò ben altra sorte da quella che ne aspettava: Opposiiglisi i Volsci
bravissimameote, vi perdette molti va lentuomini: tanto che si fidasse a non
far più battaglia: ma standosi negli alloggiamenti, deliberò di mantenere la
guerra con tenui mosse e scaramuccie de’ soldati leggeri. Lucio Emilio mandato
nell’ Etruria, trovando accampati innanzi della città li Yefenti con grandi
rinforzi di quella nazione, non indugiò per imprendere : ma dopo un giorno da
che erasi trincerato, presentò le schiere in battaglia. Vi si lanciarono' i
Vejenti arditissimamente: ma divenuta questa eguale in ambe le parti; prese i
cavalieri, e. gli avventò su 1’ ala destra de’ nemici ; e perturbatala; corse
su la sinistra, combattendo a cavallo dov’era luogo da cavalcarvi, e dove no,
smontando, e combattendo a piede. Venute in travaglio ambedue le ale, nemmeno '
il centro potè più sostenersi, forzato dalla fanteria : e fuggirono tutti verso
gli alloggitrmenti. Emilio allora gl’ inseguì con le milizie ordinate, e molti
ne uccise. Giunto presso gli alloggiamenti diedevi con mute continue 1’
assalto, ostinandovisi tutto quel giorno e la notte seguente : finché nel
giorno appresso languendo i nemici pel travaglio, per le ferite, e per la
veglia, se ne impadronì. Quando i Tirreni videro i Romani trascendere le
trincee, le abbandonarono, e fuggirono quali in città, e quali a’ monti vicini.
Tennesì il console per quel di negli alloggiamenti nemici ; ma nel giorno
prossimo onorò con doni convenienti i più segnalati in combattere, e concedette
a’ soldati quanto era ivi stato lasciato, giumenti, schiavi, c tende piene di
ogni ricchezza. E 1’ esercito Romano se ne ricolmò quanto non mai per altra
battaglia; impe 1 4p rDcclièJi Tirreni vivono vita delicata e sontuosa in
patria, ed in campo ; e portan seco, non che le cose necessarie, suppelletlili
ancora di pregio e di artifizio, ond’ esserne in piaceri e delizie. Ne’ giorni
appresso stanchi da’ mali i Vejenti spedirono ambasciadorì i più anziani della
città cq^ modi de’ supplichevoli per trattare intorno la pace col console. Or
questi sospirando, prostrandosi^ e dicendo,^ tra molte lagrime, quante cose mai
sogliono impietosire; indussero il console a questo, che permettesse loro
d’inviare oratori a Roma per dar fine in Senato alla guerra : e che non
danneggiasse in tanto la terra loro, finché ne tornassero colie risposte. Ad
ottenerne però questo, promisero, come volle il vincitore, dar grano per due
mesi, e danari per sei pe’ stipeudj di tutta V armata. E portate, e ricevute, e
dispensate tra' suoi tali cose, il console conchìuse con essi la tregua. Il
Senato, uditi gii ambasciadori, viste le lettere del console che molto pregava,
e raccomandava che si finisse il più presto la guerra co’ Tirreni ; deliberò
dar la pace che dimandavasi : e che nel darla il console Lucio Emilio
stabilisse le condizioni che gli sembrasser migliori. Il console a tale
risposta si concordò co’ Vejenti, facendo una pace anzi umana, che utile pe’
vincitori, senza riserbare per essi delle terre, senza impor nuòve multe, nè
garantire i patti cogli ostaggi. Or ciò lo mise in grand’ odio, e fu causa che
non avesse dal Senato ringraziamenti, come savio nel procedere suo. Imperocché
chiese il trionfo; ed i padri si opposero ; incolpando 1' arbitrio de' suoi
trattati, definiti senza il pubblico voto. AlìGaché però nou sei prendesse ad
ingiuria, nè sen corucciasse ; lo destinarono a portare le armi contro de’
Volaci in soccorso dell’altro console, perchè, come fortissimo nomo eh’ egli
era, desse ivi, se poteasi, buon fine alla guerra, e dissipasse 1’ odio dell’
azion precedente. Ma costui sdegnato sa la negazion degli onori fece presso del
popolo lunga accasa de’ senatori, cpiasi dolesse loro che spenta fosse la
'guerra co’ Tirreni. Diceva, che ciò facevano ad arte in conculcaménto de
poveri, perchè i poveri, delusine già tanto tempo, non insistessero per la
division delle terre, se tornavano dalle guerre di fuori. Queste e simili
contumelie lanciò con indignazione vivissima su’ patrizj, e sciolse 1 armata
che avea con lui combattuto, e richiamò, e congedò 1’ altra che era tra gii
Eqni sotto Furio proconsole. Con die renelle conti ricchi i poveri. Presero
quindi il consolato Cajo Orazio, e Tito Menenio nella olimpiade settantesima
sesta, quando vinse allo stadio Scamandro da Mitilene, essendo in Atene Fedone
P arconte^ Il torbido interno impedì questi a principio ne fatti del comune,
fremendo la moltitudine, nè tollerando che si fornisse niuna pubblica cosa
innanzi la divisione delle terre. Ma poi, vinto il popolo dalla necessità,
lasciò quanto facea sommossa e tumulto, e ne andò spontaneo in sul campo.
Imperocché le undici popolazioni Tirrene non comprese nella Roma Catone
Varrone. stimi molto potere ai tribuni di malignare doni contro del Senato,, e
di alienare n ciò principio alla guerra. Levaronsi, ciò convenuto, dal par-
lamento. Indi a non mollo spedirono i Yejenti a raddo mandare' da’ F abj il
castello, e già tutta 1' Etruria era sa r arme.I Romani, conosciuto ciò per
lettere spedite da’ F abj, decretarono che uscissero ambedue i consoli r uno
alla guerra che sorgea dall’ Etruria, e 1’ altro a quella che ardeva già co’
Yolsci. Orazio marciò con due legioni e con truppe alleate ben forti contro de’
Yolsci, Menenio dovea con altrettanta soldatesca incamminarsi contro r Etraria.
Ma intanto che si apparecchia, e s’in> dogia ; il castello di Cremerà fu
preso, e distratta la stirpe de’ F abj. La sciagura de’ quali si narra a due
modi r uno non persUadevole, 1’ altro piò prossimo al vero. Io gli esporrò
tutti due, come gli ebbi. XIX. Narraoo alcuni che sovrastando no patno
sagrideio che doveasi porger da’Fabj, uscirono gli uomini con pochi clienti per
compierlo, ed andarono, senza esplorare le strade, non ordinati sotto le
insegne, ma incauti e negligenti, quasi passassero terre amiche, nei giorni
lieti della pace. I Tirreni, saputane anzi tempo r andata, disposero tra via le
insidie con parte dell e> sercito, mentre 1’ altra parte veniva in ordinanza
non molto addietro. Approssimatisi i Fabj, sorsero i Tirreni dalle insidie, e
gl’ invasero di fronte, e di fianco ; assalendogli non molto dopo da tergo il
resto de’ Tirreni. Circondatili d’ ogn’ intorno con fionde, con archi, e dardi,
e lance ; gli uccisero tutti colla moltitudine dei colpi. Or tale racconto a me
sembra poco persuasivo. Imperocché non par verisimile, che tali uomini, addetti
com’ erano alla milizia, ne andassero dal campo in città senza il voto del
Senato per sagrìficarvi ; potendo il santo rito fornirsi per altri del
lignaggio medesimo, già provetti negli anni. Che se tutti erano partiti d Roma
senza che stesse ne’patrj lari alcuno de’ Fabj; nemmeno può credersi, che
uscissero dal castello quanti di questi il guardavano; imperciocché se ne
andavano tre o quat tro, bastavano a compiere il santo rito per tutta la
prosapia. Per tali cagioni a me non sembra credibile questo racconto. L’ altro
che io reputo piò verisimile su la distruzione di essi, come su la presa del
cartello, così procede. Andando questi di tempo in tempo per foraggiare, e.
spandendosi ognora più da largo, come quelli che prosperavano ne' tentativi ; i
Tirreni, raccolte gran forze,, si accamparono, senza che il nemico ne sapesse,
in luoghi vicini : poi facendo uscire da’ castelli masse di pecore, di buoi, di
cavalli, come per pascere, accendevano i Fabj ad invaderli: ond’ è che venendo
questi predavano i pastori, e menavano seco i bestiami. Davano i Tirreni di
continuo tal ca, traendo i nemici sempre piii lontani dal campo : or quando
ebbero con gli allstlameoti perpetui dell’ utile rallentate le provvidenze loro
per la sicurezza; misero di notte gli agguati in luoghi opportuni, intanto che
altri stavano su le allure per esplorare. Nel giorno appresso mandali innanzi
alcuni soldati, come per difesa de’ pastori, cavarono mollo bestiame da’
castelli. Come fu nunziato ai Fabj, che se andavano di ià dai colli vicini,
troverebbero ben tosto il piano ripieno d ogni bestiame senza valida guardia :
lasciarono nel castello un idoneo presidio, e vi si diressero. E trascorrendo
frettolosi, ardenti veri, e dicendo opera loro, quanto è l’opera di 'una sorte
improvveduta, ed inevitabile ; li renderono insolenti, se già erano esasperati.
Fra tanti mali i consoli spedirono con molti danari chi comperasse grano dai
luoghi vicini : e comandarono che chi teneane in casa oltre i bisogni moderati
della vita, lo recasse al pubblico: e destinatone i prezzi convenienti, e fatte
queste e cose altrettali, ammansarono i poveri che si sfrenavano, e si rivobero
di bel nuovo agli apparecchiamenti delia guerra. E certo tardando a giugnere le
vettovaglie di fuori, e finite in breve le interne, non aveaci altro scampo da’
mali: ma doveasi neceariamente o rischiare tntte le forze e snidare i nemici
dai territorio, o morire tra le mura per le discordie e la fame. Adunque
elessero farsi incontro ai nemici, come al meno dei mali. E levatbi di città
coll'esercito valicarono circa la mezza notte su picciole barche il fiume, e
prima che il giorno fosse luminoso, già teneano il campo presso a’ nemici.
Donde cavato nel giorno appresso 1’ esercito, 1’ ordiua Di ani illiberali •
sordide. Silbtirgio inleade (|r. Quindi è che se dividasi 390U per laS risulta
-i6. Casaub. le trasmutarono in, àlire di pecore e’ buoi, tassato anche il
numero di questi per le ammende avveniife, che i magistrati imporrebbero su’
privati. La condanna di Menenio fa causa che i patriaj si sdegoas'sero col
ppolo, nè più gli permettevano di fare la divisione delle terre, nè voleano in
cosa ninna condiscendergli. Ma tra non' molto lu potilo il pplo de’ suoi
giudizj, appunto nell’ udire la morte di Menenio.. Imperocché non crasi questi
mal p(ù veduto nelle adunanze, o" ne’ pubblici luoghi: e polendo pagare
l'ammenda (giacché non pochi de’ suoi eran pronti a soddisfarla pr esso ), e
con ciò non perdere' niun pubblico diritto j non volle : ma giudicando pri la
ingiuria alla morte; si tenne in casa, nè più ammise prsona, e rifinito dal
dolore e dalla ’ fame ' abbandonò la vita. E tali sono le Operazioni di quest’
anno. Divenuti consoli Pulsilo Valerio Poplicòla e Cajo Nauzio, fa condotto a
giudizio capitale anche un altro patrizio Servio Servilio, console dell’anno
precedente, non laokò -dopo che aveva lasciato il coma'udo. Due tribuni Ludo
Cedicio, e.Tito Stazk) erano quelli che lo accusavano’ al popolo chiedendo
ragione non d' ingiustizia alcuna, ma degl’ infortuni suoi, perchè nella
ballagUa co’ Tirreni spintosi egU fin sotto alle trincee nemiche con più ardirò
che prudenza, e rincalzatone da quei d’ entro' che ne uscirono in copia, vi
prJetle il meglio de’ giovani. Questo giudizio parve ai patrizi il più duro di
tutti.' E congregavansì, e doleansi, Abdo di Roma 979 Mcoado Catoast aSi
secondo Varrone, e 473 >r. Cristo] lG5 è teneano per gran male se il bell’
ardire, e il non ri cu sarsi ai pericoli accusarasi ne’ capitani che non tro
vavan propizia la. sorte, e da quelli che non erano nemmeno stati ne’ perìcoli
: dicevano, che qne’ giudizj aarebbero, coni’ era verìsimile, cagione di timori
e di ignavia ne’ comandanti, e di non &r loro mai piu con cepire nuovi
trovameoti : che perita ne sa.rebbe la libertà, come annientata.!’ antorità del
capitano. Ed insistevano caldamente presso la plebe >. perchè non conrebbe
il . danno se puoi vanti i dttci > pe’ successi non buoni. Venuto il tempo
del giudizio, fattosi innanzi Lneio Cedicio, uno de’ tribuni, accusò Servilio
di avere per imprudenza ed imperizia di comando menata i’ armata incontro a
pericoli manifesti, e rovinato il Bore della repubbnca : tanto ohe se informalo
beo tosto il console ' compagno della sciagura volando a lui coll’esercito, non
respingeva i nemici, e salvava i suoi; niente impediva che non fosse disfatta
anche tutta 1’ altra milizia, e che in avvenire per metà decadesse, non che si
ampliasse la'' potenza di Ronìa. E cosi dicendo presentava per testimOnj i
centurioni, quanti ve n’ erano, èd alcuni soldati, i quali, volendo rilevare
sestessi dall’ infamia della disfatta e della foga, d’ allora, versavano sul
capitano là colpa degl’ infortito) del combattimetnto. Quindi inspirando viva
compassione, verso gli estinti in quella giornata, exl esagerando quel male, ne
ricordò con. molto .disprezzo ancor altri, i quali detti in comune contro i '
patrìzj, scoraggiavano chiunque di loro volesse intercedere per Servilla ; é
dopo ciò gli concedè la diiE Servilio pigliando a difendersi disse ^ Ciftadini,
se mi chiamale al giudizio, e cìuedete ragione del "mio capitanalo ; san
pronto, a renderla : ma se mi oliiàmate ad una pena già risoluta, e' mente pift
giova eh’ io dimostri che non v oJ[esi; prendete fusa-, temi come avete già
stabilito. .Egli'è pur meglio eh’ io mora non giudicato cK ottener le difese,
nè persua-, dervele ; perciocché sembrerei patir con giustizia ogni cosa che su
me sentenziaste. Altronde voi meno sa~ rete colpevoli, se togliendomi le
difese, jnentre oscura ancora c la mia colpa, se colpa ho mai fatta ; secondate
1 vostri risentimenti. Il pensier vostro' dalla vostra udienza mi -sarà chiaro
: il silenzio o' il tumulto mi saran d argomento se m’ avete alle ^scolpo
chiamato, o alla pena. E biò detto si tacque. E fatto silenzio, e gridando ben
molli che facesse, cuore, e dicesse ciocché voleva, cosi ripigliò: Cittadini,
se .voi siete i‘ giudici, non i nemici miei ; di leggeri spero XOftVincervi,
che non v’ oj^esì ; e comincio da ciò cito' tutti sapete. Io fui scelto console
’coll ottimo V-erginio, quando i Tir^ reni fortificatisi nel colle imminente a
Ronìà, domi navano, tutta intorno la campagna, sperandosi di abolire ben tosto,
ambe il vostro f principato. Eravi in città fante, discordia, defeienza onde
risolvette. Incontratomi in tempi così. turbati e terribili ruppi, unito al
collega, due volte in battaglia i nemici, e gli astrinsi a lasciare, il
castello, 'che guardavano. Feci dopo non molto cessare la fame, ricondotta t
abbondanza npl Foro, e consegnai d consoli susseguenti sgombro da’ nemici il
territorio che n’ era pie-HO, e Roma sana da tutti i mali politici, i cot
pipopoU l’ avea/io inabissata. So dunque non è de^ litio vincere gt inimici, e di
che mai son io ’^lpevole presso vai ? O conte ha Servilio offeso il popolo', se
alcuni bravi incontraron la morte col, maU:hio combai tere ? Già non v’ è niun
Dio che asiicuri ai capitani la vita de suoi militari ; nè prendiamo, d,
comando con patti e formale di vincer lutti i nemici ^ e non perdervi aldino
de' nostri. E chi mai, s egli è uomo^ chi si offrirebbe di riunire in sè tutti
i bei tratti di consiglio buono, e di sorte ? Anzi i grandi risuUad con
pericoli grandi s' ottengono. Nè già io sono il primo éte m’ avessi tale
ÒKonlro in combattere, ma se l ebbero, dOei, quanti fecero pericolose battaglie
con poche schiere contro lè molte nemiche. Incalzarono alctzni i nemici, e poi
furono incalzati: ne uccisero, e ne furono decisi, anche in più nurhero.siri
capitani, riuscitici altri con termine buotto, ‘altri con doloroso ? E perchè
dunque^ lasciate gli altri, e me 'giudicale ; se a norma ponderale delle leggi
le opere, non degne della sapienma e del capitanato ? Quante imprese più audaci
ancor della' mia cadde in pensiero capitani^ di compierle, quando la
circostanza non ammetteva consigli sicuri,' é già maturati^ Chi strappando le
insegne dalle. mgni de' soldati, le gittò fra nemici, perchè i suoi scoraggiati
ed intimoriti d -rìànimassero a forza, istruiti, che chi non salvatale ne
avrebbe morte ingloriosa dal comandante, jiltri scorrendo sul territorio
nemico, ucdicarono e ruppero i ponti de' fiumi valicati, perchè i soldati non.
vedessero scampo nella fuga, se la tramavano, e com^battessero coji ardore e ferrnezza.
Altri dando alle fiamme le bagagUe e le tende, necessitarono ' i suoi a
ritrovare nelle terre nemiche quanto lor bisognava. 'Lascio' mille altre
imprese', audaci tutte, ed ideate da capitani, che ió .potrei pur dire 'su la
storia, e su la sperienza, e per le quali ninno mai, faUilagli .la prova,
soggiacque alle pena E già niuno può redarguirmi che mettendo i compagni ad
aperto pericolo, io xnen tenessi lontano. Se io mi vi esposi cogli .altri, se
ultimo me ne ritolsi, se vi 'corsi la sorte comune di tutti ; e diche • sono io
reo ? Ma basti il fin qui detto su me. Voglio ora dirvi alóune poche cose
intorno del Senato e de’ patrizj, perocché f odio pubblico contro di loro per
la division sospesa àeUe terre deot neggìa eutcora a me, nè l accusatore mio
occultò que-^ sto facendomene parte non piccola delt accusa. E questo dir mio
sarà libero ; giacché diversamente nè io saprei parlarvi, né > voi
profittarne Popolo! voi nè giusti siete nè retti non rendendo grazie al Senato
de' tanti e 'grandi benefit j che ne aveste ; e sdegnandovi che non 'per
invidia ma per calcolo di ben pubblico, vi si oppone .in cosa che' dimandate,
la quid conceduta tusai nocerebbe '.al comune. Piuttosto dovevate accettarne i
consigli pome' nati -da principj sol dissimi, pel bene di', tutti, e tenervi
dalle sedizioni'} 0 se non potevate con tal sano discorso frenar gli appetiti,
t non sani, dovevate implorar te dimande, persuadendo, non violentando,
Imfièroechè li doni spontanei titnpettp de’ violenti son più cari per chi li
dona y e più stabilì per . chi. H riceve.. Or • voi, viva Dio, non ' avete ciò
cónsiderato : nia commossi ed inaspriti dai capipopolo,. come il mare dai venti
che insorgano, F un. dopo F altro, non avete lasciato che la patria riposasse,
nemmen picciolotempo.,, tra la xoima, 'e il sereno. Dondt è che. noi. dobbiam
pensare migliore per noi la guerra, che la pace ;^iacchà nella guerra
maltrattiamo i nemici, ma gli amici nella pace. Se voi lipulate tutti burnii e
lutti utili, come sono, 1 decreti del Senato ; perchè, non avete riputato tale
anche questo ? E se credete che il Senato non provveda con semplicità, mq che
male, e vituperosamente amministri, 'perché noi degradate / voi tutto, e ven
prendete le cariche, e consultate e guerreggiale voi per la potenza di Roma,
ma, lo stuzzicate, e lo indebolite poco a poco, chiamandone i personaggi più
illustri in giudizio? Certo sarebbe pur meglio che fos situo tutti insieme
combattuti, che càìunmati ad -uno ad uno. Sebbene, non siete voi, con’ io
diceva, la cagione di ciò, ma i capi del popolo che vi sommovano, non sapet^o
essi nè ubbidire y nè comandare. E per ciò che spetta alla loro imprudenza ed
impe^ rizia', già più volte sarebbefi la nave rove^aicita. Eppure il Senato che
ha riparato tante volle i loro sbache. fa che la vostra repubblica navighi
rettamente, ' ascolta ^ peggio della maldicenza da loro. Or queste cose, vi
piacciano o no-, le ardisca io dire con ogni verità: e vorrei piuttosto
morire;, videndorm di una libertà 'profittevole ab pubblico {. che salvarmi adulandovi.
G}si, dicendo,, senza volgei^i a lamentare o deplorar la sciagura, senza
uniilianti a suppliche, e proslrai^ioni non degne y e senza' ..palesai^
affezione alcuna men che generosa, lasciò che parlassero gli altri, 'dogliosi
di ' coadiuvarlo arringando, o testificando: Lui di scolpavano, molti che eran
presenti, singoK\rmente Ver giuio, gii cpnsòle. co'n euo lui, riputato l’autore
della vittoria! Coitui non solamente dimostrò Servilio irreprensibile, ma degno
che si encomiasse ‘ed otiofasse come peritissimo in guerra, e savissimo tra’
capitani. Diceva che se credeano buono iì termine della gaerra dovevano
ringraziar lutti due ; o tutti dile punirli se sci aurato ; giacché avevano
.tntti;.dne avuto 'doiiiu ni i consìgli, le opere, la fortuna. Commovea non
solo il discorso di lui ma la vita intera, speriménUtta in tutte le belle
ationi. A^iungevasi, ciocché ispirò piò compassione, la forma addoloievole,
(piai suoL essere in qiielli che han sofferto, o siano per soffrire tamii
terribilL Tanto che li' congiunti degU uccisi, quelli che pareano più.
implacabili contro 1 autore tl^l danuo, Ia sciaronsi vincere-, e deposer lo
sdegno che ne aveano manifestato ; imperocché qinna tribù nel dare il voto ló
diede per la condanna. E tal fu la fine de’ pericoli di Servilio. Marciò non
mólto dòpo contro i Tirreni r armata Romana sotto gli auspicj dei console
Pubfio Valerio, perocché si era d^ bei nuovo levau in arme la città di Vejo,
ubendpsde i Sabini, alieni fino a quei giorno di unirsele, quasi aspirasse cose
impossibili : quando però vider(> Menenio in fuga e presidiato il monte
prossimo a Roma, giudicando ^ scadute le forze Romane, e sbaldanzito 1’ animo
di quella 'repuUilica, eoncertaronsi co’ Tirreni, spedendo loro milizie
numerose. I Vejenti confidati su le schiere proprie e su quelle giunte di
fresco^ da’ Sabini frattanto che aspettavano le ausiliarie degli altri Tirreni
anelavtino, di volarsene a Roma col più dell’ esercito, quasi ninno, ne
uscirebbe a combattere, ma dovessero per assalto espugnarla, o ridurla con la
fame. Indugiandosi però essi ed aspettando i confederati, lehti a ingiungersi,
Valerio ne prevenne i disegni, guidato contra loro il fiore de’ Romani, .e gli
alleati, con sortita non manifesta, ma occulta quanto polevasi. Imperocché
.uscito da Roma sul far della sera, e valicato il Tevere ; si accampò non
lontano dalla città. Poi levando F esercito su la mezza notte, si avanzò con
marcia oi-dinata; e prima che fosse il giorno, investi r nna de’ campi nemici.
Erano due questi campi ; di^ sgiunti, ma non molto, fra loro, l’ uno de’
Tirreni, r altro, de’ Sabini. Fattosi primieramente stil campo Sa bino,
assalirlo fb prenderlo ; ''dormendovi i più senza' guardia sufficiente, 'come
in terra amica, e liberi da ogni sospetto, nwntre non si annoqziavano in parte
ai cuna i nemici.Preso il campo, quali furono uccisi tra il sonno, quali ^orti
appena’, o mentre si armavano, e quali armati già, mal resistendo disordinati e
dispersi: la -più parte peri, fuggendo verso .1’ altro campo,' sorpresa dalla
cavalleria. Valerio', invaso' il 'campo Sabino, marciò su r altro de’ Vejenti,
postisi in luogo non abbastanza sicuro: ma non poteano più gli assalitori
ghingeM oc-' culti, per essere il giorno già chiaro ; e datoyi da fnggitivi r
avviso della strage Sabina, e di quella imminente ai Tirreni. Pertanto eca
necemario andar con fortezza al nemico. 'Ecco dunque resistere con ardore sommo
i. Tirreni avanti j^i alleggia'menti, e fervisi' aspra tenzone e strage
vicendevole.; stando 'lungo tempo incert^ e pendendo or quinci Or quindi la
sorte della guerra. Alfine dan volta i Tirreni, sospinti dalla cavalleria
Rpmana, e ricacciansi tra le uincee.. Segueli il consolé, ed approssimatosi
alle trinclere nè ben formate, nè in. luogo, come ho detto, abbastanza sicuro,
le assaU da più parti ; travagliandovi tutto il resto del giorno, nè
desistendone por nella notte appresso. I Tirrenivinti da’ mali incessanti /
a'bbandonano su l’ alba il CAmpo ; altri in città iuggeo4o$i, altri
dispergendosi pei boschi vicini. Il console, invaso par questo campo, diè
riposo ; in quel giorno all’ esercito : e net seguènte com> parti la preda
copiosa de’ due alloggiameuti tra le Site milizie, coronando co premi ^ usati
chiunque s’ era più segnalato nel 'combattere. SenrUio il console dell’ anno
precedente, quegli che sfuggi le ^ne popolari, mandato ora luogdtenente di
Valerio, parsé aver pià che tatti risplenduto fra le arme, e sospinto i Vejeqti
alla fuga; è per tale SUO merito ne ebbe il primo i premj, riputati' più grandi
tra' Roiliani. 'Fatti quindi spogliare i cadaveri nemici, e> seppellire
quelli de’suoi, marciando, e venendo il console coll’ esercito ne’ campi
prosskni a Vejo; sfidò quelli d’ entro per la battaglia. Ma non presentandovisi
alcono, e conoscendo altronde esser cosa ben ardua pigliarli di assalto, come
chiusi in città fortissima, scorse ingran parte il lor territorio, e si glttò
su s quello dé’ Sabini. E saccfaeggikto pei^., più giorni', pur questo, ^ che
era ancora intatto ; ricondusse l’ esercito carico di prede àmplissimi in
patria. ‘ Usci di città molto a dilungo per incontrarlo ' il popolo cintp di
ghir ciò Furio ; il Senalo decretò che Tnino de’due mar, classe ^contro di
Vejo, ed essi decisero, come u$ayasi, colle sortì, chi andasse. E 'toccato a
Malliq, vdlò colr armata, e mise il campo presso a’ nemici. I Vejenti
ristrettisi fra le mora, resisteroùO intanto,. e spedirono alle città Tirrene,
_ ed ai Sabini,' recenti loro ' alleati, chiedendone che mandassero sollecito
ajuto, .Ma perciocché non furono secondati -e consumarono .tra poco i viveri ;
alfine ^ necessitati dalla fame, uscirono, i personaggi più provetti e 'più
veóer;iodi e co’ simboli di. pace, ne andarono ambasaiadori ai console per
intercedere ' da esso il fin della guerra. M^o comandò che poetassero a lui li
viveri di due mesi per'.tulta.rarmsui). o tanto di argento da stipendiamela per
un’anno, e ciò.Roma fatoae Vacroae. fatto, perirebbero al Senato per trattarvi
la pace. Ac> cattarono i Vejenti le condiaioai, e dati beu^tosl gli
stipendi, e per concession del console, anche in luogo del grano il suo prezzo,
ne andarono a Roma. Introdotti in Senato cercarono perdono t delle cose operate
fin’ allora, e requie dalla guerra in tu.tio. l’ avvenire. Disputate più cose
per l’una e l'atra sentenza, al line prevalse quella che insinuava la
riconciliazione, e vennesi ad Una tregua di quaraot anni., Gli oratori, avuta
la pace, assai de ringraziarono Roofa, e partirono. In opposito Mallio vi tornò
finita la guerra, e vi chiese, e n’ebbe il trionfo a piede . Fecesi, reggendo
questi consoli, il censo ; ed i cittadini che assegnarono sè Stessi, i beni, e
li figli '^ià puberi, fotono, poco più. che cento fneUta' mila; Giunti dbpo
quesU al consolato . Lucio Emilio Mamertx) per la terza volta e Giulio Yopisco
nella olimpiade settantesima settima (a), nella quale vinsè allo stadio Date
Argivo, mentre Caritè era l’a ' contedi Atene ; ebbero assai travaglioso e
turbato il comando, sebben tacesse. la guerra di fuori. Standosi ogni nemico in
calma ; ineprsero per le se4izìoni interne, in pbricoti, prossimi a rovinar la
repubblica. Sciolto il popolo dalia otilizia insistè ben tosto per la division
delle' lem. 'Imperocché fra i tribuni aveacene uno baldanzoso, nè disacconcio
alle arringhe. Gneo Genuzib.eia deiso, l’ istigatore dei popolo. Egli ad ora
L’ovatiooe. Roma Catone Varrauc]. 177 nJ ora adunauJolo, per conciliarsi i
poveri ; pressava i consoli all eseguire il decreto del Senato sa la divi sion
delle terre. E questi ricusavano dicendo, non esserne la esecuzione stabilita
pel consolato loro, ma per quello di Vergiiiio, e di Cassio a’ quali era
diretto il decreto : similmente che gli ordini del Senato non erau leggi
perpetue, ma previdenze, valide per un anno. In mezzo a tali pretesti non
potendo costringere i consoli che aveano autorità più grande della sua ;
diedesi a protervi consigli. Mise in pubblica accasa Mallio e Lucio, consoli
dell’ anno precedente, e prescrisse loro il giorno nel quale dovésse
giudicarsene, pronunziando svelatamente per titolo dell' accasa, ch’essi aveano
offeso il popolo col non avere nominati i decemviri, com'era il decreto del
Senato, per dividere finalmente i terreni. Che se non menava in giudizio altri
consoli quando dodici erano i consolati dalla emanazione del decreto, ma faceva
rei, questi due soli, della promessa tradita; davano per cagione la
mansuetudine sua. In ultimo disse; che i consoli attuali allora unicamente
ridurrebbonsi a divìder le terre, quando vedessero alcuni de’ trasgressori
puniti dal popolo, considerando che avverrebbe anche ad essi altrettanto. Ciò
detto, esortati tutti a venir pel giudizio, giurò per le sante cose, che egli
osserverebbe il proposito, ed insisterebbe con tutto l’ardore su la condanna di
quelli, e prefisse il giorno in cui sen farebbe la causa. I patrizj, ciò udito,
caddero in molto timore e sollecitudine, come dovessero liberare que’ due, e
reprimere 1’ audacia del tribuno. Deliberarono resistere DIOXIGI . tomt Iti.
i> al popolo fortissimameote, e bisogoandovi, colie armi ancora, né
permettergli cosa ninna, se mai la decretasse contro la dignità consolare. Non
però vi bisognò violenza ninna, cessando il pericolo con risoluzione
inaspettata e repentina. Imperocché quando mancava al giudizio un giorno solo;
Genuzio fu rinvenuto morto nel suo letto p senza indizio niuno di uccisione non
per isu-azio, o capestro, o veleno, nè per altre insidiose maniere. Risaputosi
il caso, e portatone il cadavere nel Foro, parve questo come un impedimento
divino, e ben tostò il giudizio fu tolto. Imperocché niun tribuno osò di
riaccendere la sedizione, anzi molto condannò le lune di Genuzio. ' Se dunque i
consoli quando il cielo chetò la discordia avessero ceduto, non insistito in
contrario ; non sarebbero incorsi in altro pericolo. Ma datisi ad insolentire e
spregiare il popolo, e fatti vogliosi di mostrargli quanto era il potere del
loro comando ; causarono mali gravissimi. Intimata una iscrizioa militare, e
forzandovi chi ricusava, con multe e verghe : ridussero il più del popolo alla
disperazione, principalmente per tali motivi. Publio Valerone, un plebeo, d’ altronde
illustre fra le arme, e già capitano di centurie nelle guerre precedenti, fu
segnato da essi per semplice legionario. Or lui reclamando, e ricusando un
posto che lo disonorava quando non aveva demeriti anteriori, sdegnaronsi i
consoli de’ liberi modi, e comandarono ai Kttori di nudarlo a forza, e di
batterlo. Il giovine invocava i tribuni, e chiedeva, se era colpevole, di
essere giudicato dal popolo. Ma non udendolo, ed insistendo i consoli perchè i
latori sei menassero, e lo bal^ lessero; egli riguardò la ingiuria come
insoffribile, e divenne appunto il vindice di sè stesso. Imperocché, fortissimo
eh’ egli era, trae de’ pugni in faccia, ed atterra il littore che primo lo
investe, e poi l’ altro. Esasperandosene iconsoli, e comandando a tutti insieme
i satelliti di avventarsegli ; parve raiion superbissima ai plebei ebe eran
presenti. E congregandosi ; e schiamazzando per istigarsi 1’ uno V altro alla
vendetta; ritolsero il govane, e respinsero colle percosse i littori. Alfine si
spiccavan su i consoli, e se questi non isparivan dai F oro ; sarebbevisi fatto
male gravissimo. Per tale evento tutta la città se ne scinde ; ed i tribuni
placidi fin’ allora, fremendo ne accusano i consoli : e le contese per la
ditnsion de’ terreni cangiaronsi in altra più grave su la forma del governo.
Imperocché irritandosi i paU-isj come i consoli, quasi fosse l’ antorilà
conculcata di questi ; voleano precipiur dalla rupe l’ audace che insorse su i
littori. Per 1’ opposi to i plebei riuni vansi, e vociferavano e conciUvansi a
non tradire la libertà. Si rimettesse la causa al Senato, vi si accusassero i
consoli, e se n esigesse un castigo, perchè non lasciarono goder de’ suoi
dritti, e traturono come uno schiavo, e diedero a battere un uomo libero, un
cittadino, che chiedeva l’ ajuto de’ tribuni, e di essere, se fosse reo,
giudicato dai popolo. Fra tali contrasti e ritrosie di cedere gli uni agli
altri, decorse tutto il tempo di quel consolato senza fatti di guerra, o di
governo, belli e memorandi. Xh. Venuto il tempo de’comizj furono dichiarati
consoli Lucio Pina rio e Publio Furio . In principio di quest’ anno la cilià fu
piena ben tosto di religiosi e divini terrori pe’ molli portenti e segni che
apparvero. £ li vali, e gl' interpreti delle sante cose, dichiaravano tutti,
esser questi gl’ indizj dello sdegno celeste per alcuna sacra cosa, fatta con
ministero non pio, nè puro. E dopo non mollo ne venne su le donne un morbo,
chiamato contagioso, e tanta moruliià per le gravide principalmente, quanta mai
più per addietro. Imperocché partorendo prole immatura e già morta, perivan con
essa. IVè le suppliche ne’ templi e nelle are de’numi, nè i sagrifizj di
espiazione fatti a scampo della patria o delle famiglie, portarono un fine ai
mali. In tal rio stato un servo diè cenno a’ pontefici, che una delle vergini
sacre, custodi del foco inestinguibile, ( Orbilia ne era il nome ) avea la sua
verginità estinta, e che non pura sagrificava ; ed essi traendola dai
Santiìario, e dandola a giudicare ; poiché per gli argomenti fu rea manifesta,
la batterono, e condottala con pompa lugubre per la città, la seppellirono
viva. Di quelli poi che ebbero il mal' affar colla vergine, 1’ uno si diè la
morte di per sè stesso; l’altro fu preso nel Foro pe’ soprastanti delle sante
case, e flagellato come uno schiavo, ed ucciso. Dopo ciò fini ben tosto la
infermità sopravvenuta alle femmine, e la tanto lor perdita. La sedizione già
si diuturna in Roma de’plebet co’ patrizii, vi ribolli per opera di Publio
Valerone tribuno, quello che ntll' anno precedente aveva disubbi|i) Anno di
Roma aSa secoudo Catone, aS; secondo Varrone, e 4^0 av. Cristo] dito i consoli
Emilio e Giulio quando il segnavano per legionario, di centurione che era.
Costui nato di stirpe vilissima, e cresciuto in grande oscurità e disagio, fu
creato tribuno dal ceto de' poveri, appunto perchè sembrava che avesse il primo
tra’ privati umiliato il grado consolare, autorevole Gu’ allora come quello dei
monarchi, 'e molto più per le promesse che dava di togliere, giurilo al
tribunato, la potenza de’ patrizj. Costai quando l' ira del cielo era cheta,
convocando il popolo, fece uba legge su le elezioni popolari trasmutando i
comizj che i Romani chiamano per curie in quelli per tribù. Io sporrò qual sia
la differenza degli uni e degli altrL Li comizj curiati perchè fossero va^
lidi, conveniva che precedesseli il decreto del Senato, che il popolo vi desse
il voto di curia in curia ; e che oltre questi due requisiti, niun segno, nè
augurio celeste vi si opponesse : laddove gii altri comizj compivansi dalle
tribù con un giorno solo senza decreti anteriori del Senato, senza sagriGzj, e
senza le divinazioni degli auguri. Due degli altri quattro tribuni volean com’
egli la legge ; ed esso tenendosi amici que’ due ; ne andava superiore a fronte
degli altri che la ricusavano i quali eran meno. I consoli, il Senato, i
patrizj intendeano tutti a distoglierla e renderla vana. E recatisi in folla al
Foro nel giorno preGsso dai tribuni per fondare la legge, vi furono aringhe di
consoli, di senatori provetti, e di chiunque il volle, per dimostrare gli
assurdi di essa. Risposero i tribuni, e di bel nuovo i consoli ; e
prolungandosi mollo le altercazioni, fecesi notte, e l’ adunanza fu sciolta.
Proposero nuovamente i tribuni pel terzo mercato la diacussion su la legge ; ma
concorsavi gente anche in pi et copia, se n’ebbe un fine simile al precedente.
Or ciò vedendo Publio, deliberò di non permettere ai consoli di accasare la
legge, nè al patrizj di trovarsi al dar de’ sufiì'agj. Perocché questi co’ loro
amici e clienti non pochi, ingombravano gran parte del F oro, facendo animo a
chi denigrava la legge, e remore a chi difendevala, e cose altrettali che nel
dar dei voti sono indizio di violenza e disordine. XLII. Se non che ne
interruppe i disegni tirannici nn’ altra calamhé mandata dal cielo. Imperocché
sorse in città nn morbo pestilente che infuriò pnr nel resto d’ Italia ; non
però quanto in Roma. Nè valeva per gii infermi soccorso umano, morendovi del
pari e chi era con ogni diligenza curato, e chi non lo era. Nemmeno giovarono
allora suppliche, sagrifizj, espiazioni private o pubbliche, alle quali
necessitati si rivolgono gli uomini io tali casi per estremo rimedio. Il male
non distinse non età, non sesso, non vigore, non debolezza, non arte, non cosa
ninna di quelle che pajono renderlo più leggero; ma comprendea del paro Uomini
e donne, giovani e vecchi. Non però durò gran tempo, e questo impedì che la
città ne perisse totalmente. Si gettò come torrente o incendio su gli nomini
con impeto furibondo, ma passeggero. Quando il male diè requie ; Publio era per
uscire di carica. E siccome non potea stabilire in quel, resto di tempo la
legge ; soprastando i comizj j chiese di nuovo il tribunato per l’anno
seguente, fatte molte e grandi promesse al popolo: e di nuovo se lo ebbe egli,
e due de’ compagni. Per Topposito i patrizj tentarono far console un uomo
aspro, odiatore del popolo, e che non lascerebbe punto diminuire l’ autorità
de’ pochi : io dico Àppio Claudio, 6glio di queir Appio eh’ crasi tanto opposto
al ritorno del popolo. Or quest’uomo che moltissimo contraddiceva alla scelta
dei tribuni, questo che non avea nemmeno voluto venire al campo p’ comic], sei
crearono con- sole, quantunque assente, avutone precedentemente il decreto del
Senato. Terminati ben tosto i comic] > per esserne partiti i poveri appena
udito il nome di Appio ; pre^ sero il consolalo Tito Qninuo Capitolino ed Appio
Claudio Sabino, nomini non simili di caratteri e di voglie . Perocché Appio
voleva distrarre tra le milizie di fuori il popolo ozioso e povero, afGnchè coi
suoi travagli guadagnasse dai beni ' del nemico il vitto giornaliero, di cui
tanto penuriava, e rendendo UliK servigi alla patria, non fosse malafFelto e
molesto a’ padri che governano il comune. Dicea che avrebbe puiv le cagioni
plausibili di guerra una città che si procacciava il comando, e che era da
tutti invidiata : chiedeva che argomentassero dalle cose passate le future,
esponendo quanti moti erano stati' in città, e come sempre nella cessazion
della guerra. Quinzio però non pensava di portare ad altri guerra : dichiarando
che dovea bastar loro quando il popolo ubbidiva chiamato contro ai pericoli
esterni, che sopravvengono e stringono, e dimostrando, che se forzassero nel
caso preti) Anno di Roma a83 secondo Catone, aSS secondo Varrone, av. Cristo]
sente gl' indocili, indurrebbero la disperazione come i consoli precedenti 1’
avevano indotta. Dont} è che porrebbonsi essi a repentaglio o di opprimere la
sedizione col sangue e colle stragi, o di scendere con vitupero ad
appiacevolire la plebe. Comandava Quinzio in quel mese ; tantoché non potea 1’
altro console far nulla senza il consenso di esso.. Ma Publio e li compagni
ripigliarono senza indugio la legge, che non aveano potuto stabilire nell' anno
precedente, aggiungendo a questa, che si creassero ne' comizj stessi ancora gli
edili: o che tutto in fine, quanto si trattava o risolveva dal popolo, si
trattasse e risolvesse nel modo medesimo con i comizj per trìbùr Or ciò era l’
annientamento manifesto del Senato, e l’ inalzamento del popolo. A tale notizia
mpensierirono, e discussero i consoli, come togliere pronti e sicuri la
sommossa e la sedizione. Appio consigliava che si chiamassero alr armi quanti
volean salva la forma della repubblica ; e che si numerassero tra’ nemici
quanti si opporrebbero ad essi che le impugnavano. Ma Quinzio giudicava che si
dovesse prendere il po[x>lo colla persuasiva, e con.vincerlo die per
ignoranza de’ -veri interessi sla nciavansi a rovinose risoluzioni. Dicea esser
t estremo 'della de^ menta estorcere colla forza da’ cittadini ritrosi ciocché
aver ne poteano di buorr grado. Ora approvando pur gli altri senatori il parere
di Quinzio ; i consoli ne andarono al Foro, e chiesero da’ tribuni un’aringa,
ed il giorno in cui farla. Ottenuta a stento l’una e l’altra istanza, venuto il
giorno richiesto, e concorsa al Poro moltitudine d’ ogni genere preparata per
opera de’ due magistrati in favor loro, presenlaronsì i consoli per censurarvi
la legge. Quinzio, uomo altronde discreto, e persuaso che il popolo avessi a guadagnar
col discorrere, chiese il primo udienza, e ragionò cose a propo sito, e con
piacere di tutti ; cosicché li fautori delia legge impotenti a dir cose pii^
giuste o benigne, assai ne furono imbarazzati. B se il console collega non
lavasi ancora troppo gran moto ; forse i plebei riconoscendo che non cercavano
nè il giusto, nò il bene ripudiavan la legge. Ma perciocché colui tenne un
discorso superbo, e grave ad udirsi da’poveri ; il popolo ne fu crocciato,
implacabile, e discorde, quanto mai piò per addietro. Non parlò costui come a
uomini liberi, a cittadini arbìtri di fare e disfare le leggi : ma quasi
parlasse con nomini vili, forestieri, né liberi solidamente; vi lanciò detti
amari, insoffribili: vi lamentò le assoluzioni dei debiti, e ricordò la separazione
dai consoli ; quando dato di piglio alle insegne, che pur sono, santissima
cosa, abbandonarono il campo, volgendosi ad un esilio volontario. Richiamò li
giuramenti che avean fatti, quando presero per la patria le armi, che poi
contro lei sollevarono. Pertanto diceva che non sarebbe meraviglia se essi che
avevano spergiurato gl’iddj, lasciato i capitani, e diserta, quanto era in
loro, la p^ttria, e che vi erano tornati, confusavi la buona fede, e
sovvertitevi le leggi ed il governo, ora non si dimostrassero moderali ed utili
cittadini : mai incitati da nuòvi desideri ed eccessi, talvolta chiedessero
magistrati proprj, scelti dall’ordin loro, e questi iudipendentì, inviolabih ;
tal’ altra chiamassero in giudizio per cagioni turpissime que’palrizj che loro
paressero, trasferendo dal celo più puro al più sordido i poteri con cui Roma
faceva un tempo giudicare sull’ esilio e la morte; e talora i mercenari e privi
de’ palrj lari com’ erano, fissassero leggi ingiuste ed oppressive contea i
bennati, senza lasciare al Senato la facoltà di proporle prima col sno decreto,
tolta ad esso una prerogativa che aveva V sempre avuta senza contrasto, fin
sotto de’monarchi, e de' tiranni. E dette molte altre cose consimili, senza
lasciare indietro memorie amare, nè risparmiare nomi ingiuriosi ; alfine
pronunziò questo ancora per cni tntto il popolo ne infuriò, vale a dire che mai
la città che terebbesi totalmente dalle sedizioni ma che sempre infermerebbesi
per nuovi mali, finché fossevi il poter dei tribuni ; affermando che negli
affari politici si dee vedere che i principi sian buoni e giusti, giacché da
buon seme si ha frutto buono e felice, ma infelice e reo da reo seme. Diceva :
se questo potere fosse erttraio in città di buon accordo per ulil comune;
venutovi col favor degli augurj e della religione, sarebbe stalo a noi causa di
molti e gran beni, di unione, di leggi savie,di speranze belle dal ctmto dé’
numi, e di mille altre cose. Avendovelo però introdotto la violenza, la
prevaricazione, la discordia, il timore di una guerra interna, e tutti i mali
più odiati fra gli uomimf come con tali principii ne sarà mai fausto e
salutare? Ben è superfìua cosa cercar farmachi e cure quante sen possono ai
mali che ne germogliano finché restavi la radice viziata. Nè mai vi sarà termine,
mai requie alcuna dallo sdegno celeste, finché ques^ invìdia, in saziabile
furia in città s’ annida, e lorda, ed infracida tutto. Ma per tali cose vi sarà
discorso, e tempo più acconcio. Ora, poiché si vuole rimediare alle còse
presenti ; io lasciando ogni acerbità, vi dico : N& questa legge, nè altra
qualunque non approvata prima dal Senato sarà mai valida nei mio consolato. Ma
so> n Sterrò con parole gli ottimati, e quaudo anche 1’ o pere vi bisognino,
nemmeno in queste sarò vinto dagli avversar). E se non prima ayete saputo
quanta sia r /lutorità de' consoli, nel mio consolato lo saa prete, a Àppio
cosi disse, quando Cajo Lettorio il piò provetto e più venerabile de’ tribuni,
uomo riconosciuto non ignobile in guerra, e buono al maneggio degli affari,
sorse e replicò, cominciando da alto, e ragionando a luogo sul popolo, quante
diftìcili spedizioni avessero intrapreso i poveri, da lui vilipesi, nonsolo nel
tempo dei re, quando forse era necesiiià, ma dopo la espulsione loro per
acquistare alla patria la libertà e il comando. Pur non ebbero, dicea,
ricompensa ninna da palrizj, né goderono alcuno de' pubblici beni; ma quasi
presi in guerra, furono privati injino della libertà : e se volevano
conservarsela dovettero. abbandonare la patria, cercando una terra ove non
fossero, essi liberi uomini, insultati^ Senza violentare, senza obbligare colle
arme il Senato, ebbero nella patria il ritorno, condiscendendo a lui che
chiedeva e pregava che si rendessero alle abbandonate lor cose, fi qui spose i
giuramenti, e rammentò gii accordi fatti per questo ritorno; tra’ quali v’era I
amnistia di tutto il passato, e la concessione a’ poveri di eleggersi
magistrati i quali proteggessero loro, e resistessero a chiunque volesse mai
conculcarli. Scorrendo su ^li subjetd, aunoverò le leggi fondate poco prima dal
popolo ; come quella su la iraslasion dei giudizj per la quale il Senato cedeva
ài popolo che chiamasse in giudizio qual più volesse de’ patrizj ; e 1’ altra
sul dar dei suffragi, la qual rendeva arbitri de’ voti i comìzj per tribù, non
quelli per centurie. E così ragionato Sul popolo ; rivolgendosi ad Appio disse
: E tu ardisci et insultar quelli pe’ quali la repubblica divenne di piccola
grande, e luminosa d' ignobile ? tu chiami sediziosi gli altri ^ e rimproveri
loro tome fuorusciti ? Quasi non tutti rammentino ancora ciocché avvenne tra
noi, vuol dire che gli avi tuoi levarono il capo contro de’ magistrati,
abbandonaron Ut patria, e supplichevoli qui s' alloggiarono. Se non forse voi
che avete abbandonala la patria per amore della libertà, voi v avete fatto un
opera belìa^ fié ^ella è quella de’ Romani che han fatto altrettanto, Tu
ardisci calunniare l’ autorità de’ tribuni conte introdotta a mal fatto ; e
persuadi qui noi che c involiamo questo sacro, questo immobile rifugio de’
poveri, confermatoci da numi a dagli uomini per tanto grandi cagioni ? Ta
tirannissimo, ninUcissimo che sei del popolo ! E non giungi nemmeno dunque a
vedere, che ciò dicendo, oltraggi il Senato, oltraggi la tua mùgislratura ?
Insorse pure ' tutto il Senato contro dei re, più non potendo so ferirne la
superbia c gli affronti ; e fondò il consolalo, e prima di bandirli da Rema f
coesi altri ministri del regio potere. 2'antochè ciò che dici contro del
tribunato come introdotto mal fato, per la origine sediziosa, ciò dici ancora
contro del consolato ; giacché non altra causa il fé nascere se rwri lo
scuotersi de’ patrie j contro dei re. Ma che parlo io di queste cose con te
quasi con cittadino buono e Moderato, quando tutti sanno che tu sei di^ stirpe
mal grazioso, anzi acerbo, anzi infesto al popolo, nè buono da ingentilire la
salvatichezea tua ? X) perchè non pospongo i detti, e ^ investo co’ fatti, e ti
mostro che tu che non ti vergogni di chiamare il popolo un sordido, e senza
casa, tu non sai quanta sia la forza di lui ? quanta quella del suo magistrato
a cui le leggi ti obbligano di dar luogo e di cedere ? ma già lasciati 1
rammaricìd delle parole, comìncio le opere. E ciò detto giurò col giuramealo,
più rive reado infra loro, di sostenere la legge; o di morire. E qui taciutisi
lutti, e latti empiutisi di ansietà su ciò che farebbe : comandò che Appio ne
andasse dall adunanza. E perciocché non ubbidiva, ma cingendosi coi littori e
colia turba che aveasì perciò condotto di casa, ripugnava ad andare ; Lettorio,
intimato pe’ banditori silenzio, consigliò che i tribuni facessero portare il
console nella carcere. E qui la guardia di lui si avanzò, comandata, come ad
arrestarlo ; ma il littore, che il primo se la ebbe innanzi, la battè e respinse.
E levatosi romor grande e rammarico; v’accorse lo stesso Lettorìo, eccitando la
turba in ' suo ajulo. Se gli oppose Appio con giovani bravi e numerosi; ed
eccone quinci e quindi viluperauoni, grida, spinte ; talché la contesa
divenivane zuflà, ornai cominciandovisi il trar delle pietre. Se non che
ripresse tali colpi, e fece chn il male non procedesse più oltre Quinzio l’
altro console, cacciandosi egli c li più anziani de’ senatori, tra le minacce,
e supplicando e scongiurando tutti a desistere. Non avanzava allora se non
picciola parte del giorno, e però si divisero finalmente, ma di mal’ animo.
Incoiparonsi i magistrati a vicenda ne’ giorni appresso : il console accusava i
tribuni che tentassero di annientare il suo grado col volere in carcere chi lo
rappresentava ; ed i tribuui il console, pe’ colpi portati su persone, sacre ed
inviolabili per la legge ; e de’ colpi avea Lettorio i segni manifesti nel'
sembiante. Intanto stavasi la città scissa e fremente. I tribuni ed il popolo
occuparono il Campidoglio, non tralasciandone mai la guardia, giorno' e notte :
il Senato adunatosi tenne lunga e travagliosa discussione intorno ai modi di
chetar la discordia, considerando la gravezza del pericolo, e come nemmeno i
consoli fossero uniti fra loo); giacché volea Quinzio conr^dere al popolo le
istanze • moderate, ed Appio vi ripugnava, a costo ancora della vita. E poiché
ninna cosa avea termine, Quinzio presi nn per uno i tribuni ed Appio, orando,
scongiurando, raccomandava loro di antepoiTe il ben pubblico al proprio. E
vedendo alfine ornai rimplacidili quelli, ma duro in sua caparbietà il console
compagno; persuase Leitòrio e i seguaci di lui, sicché rimettessero al Senato
l’esame de’ privati e pubblici risentimenti. ConTocato quindi il Senato,
lodativi ampiamente i tribuni, e scongiurato il compagno a non contrastare la
salvezza pubblica, invitò tutti, secondo il solito, a dirne il parer suo.
Invitato per il primo Publio Valerio Poplicola, disse: che doveansi dal
pubblico condonare, non portare in giudizio le incolpazioni vicendevoli de'
tribuni e del console su quanto s’ avean fatto o sofferto nel tumulto; perchè
non erosi fatto per mal animo, nè per ben propiro, ma per gara di preminenza in
repubblica: quanto alla legge poi sen facesse previo decreto in Senato ; giacché
Appio console non voleva che senza questo al popolo si proponesse. Del resto
provvedessero tribuni e cofisoli insieme il buon ordino, e C armonia de'
cittadini nel dar de' suffragi. Approvarono lutti quel dire ; e ben tosto
Quinzio fe’ dare il volo a’ senatori su la legge. AcCusolla Appio per più capi,
e -molto i tribuni se gli opposero, ma vinse (ìnalmente di gran lunga il
partito per introdurla ì stesone il decreto del Senato, ne tacquero le gare de’
magistrati, il popplo di buon grado lo accolse, e fece co’ sufTragj suoi la
legge. Da>quelip fino a miei tempi i comizj per tribù decidono col volo loro
la scelta de’ tribuni e degli edili ^enza dipendenza ninna dagli augurj^e dalle
cose di religione. E tal fu la soluzione de’ dissidj che di que’ giorni conturbarono
Roma. L. Piacque dopo non molto ai Romani di arrolar le milizie, e spedire
ambedue ^ consoli contro gli Equi e li Volsci: perocché nunziavasi loro eh’
erano uscite truppe Roma Catone Varrone] in gran numero deli’ uno e dell’ altro
popolo e depredavano gli alleati Romani. Apparecchiati dunque in fretta gli
eserciti, e sceltone colle sorti il comando ; Quinzio marciò contro gli Equi,
ed Appio contro de’Volsci. Ma ciascun dei due consoli v’ ebbe le vicende che
meritava. Imperocché l’armata di Quinzio benevola al vaientQomo per la
moderazione, e per la dolcezza di lui, ne ubbidiva pronta i comandi, e le più
volte anche senza comandi affrontava i pericoli, per acquistargli fama ed
onore. Dond’è che scorse in gran parte, saccheggiando, la region de’ nemici ;
senza eh’ ardissero questi venirne alle mani : e raccoltevi amplissime prede, e
vantaggi, e dimoratavi alcun tempo scevra in tutto da mali; si presentò di bel
nuovo in patria, rimenandovi il suo capitano luminóso per le belle azioni. Ma
1’ arntata, andatane con Appio, lasciò per odio di lui ipulti patrj dovéri;
perocché fu mal animata in ogni spedizione e poco curante il suo duce: e quando
le bisognò far battaglia co’ Volscl, schieratavi da . esso, ricusò di venire
alle mani. Centurioni ed antesignani, chi lasciò la schiera sua, chi gettò 1’
insegna, e rifuggironsi agli alloggiamenti. E se gl’inimict, sorpresi dalla
stranissima fuga, ed' intimoriti per essa di un qualche inganno, non
desistevano dall’ incalzarli ; perivane il più de’Romani. Or ciò faceauo a mal
cuore del capitano, sicché egli sulr esito di fauste battaglie, non crescesse
col trionfo, e con altri onori. Nel giorno appresso ora il console
redarguendoli per la fuga -ingloriosa, ora esortandoli a cancellarne la infamia
con un generoso combattimento, ora minacciandoli che varrebbesi del rigor delle
leggi se ig3 non teneansi fermi contro a’ pericoK, essi ìadociii tut>' lavia
Io intronarono colle grida, e cltiesero che li ri> tirasse dalla guerra,
come invalidi a pi& resistervi per le ferite. E quasi feriti davvero, '
aveansi alcuni fasciate membra sanissime. Appio adunque, necessitatovi, ritirò
r esercito dalle terre nemiche; ed i Volaci tenendogli dietro, ne ticoisero'non
pochi. Giunti in terre amiche, il cònsole convocatili, e fintine i grandi
lamenti, annnnrìò che. punirebbeli come i disertori. E quantunque seniori e
magistrati militari assai lo pregassero a temperarsi, nè volgere la patria di
danno in danno ; egli non tenne conto di alcnno, e stabili la pena. Quindi i
centarìoni le cui centurie fuggirono 'e li portatori delie bandiere, che le
aveano peivlute, gli nm furono decapitati colle scuri, e gli altri Colle verghe
battuti e morti. Del resto della diilizia ne peri, tirata a sorte, la decima
parte per tatti. Tale fra Romani è il castigo per chi lascia l’ ordinanza, o
getta la insegna. .Dopo ciò egli, duce odióso, condocendo 1’ avanzo dell’
esercito mesto è disonoralo ; ornai sovrastando i oomiz), si rimise in patria.
Dichiarati consoli, dopo questi, Lncio Valerio per la seconda volta, e Tiberio
Emilio ; i Tribuni contenutisi già per qualche tempo, introdussero di bel nuovo
il discorso su la division de’ terreni. £d andatine ai consoli, chiesero
supplichevoli ed insistenti che si mantenessero al popolo le proihesse fattegli
dal Senato Addo di Roma 384 , piacciavi udirle o no, vi dico,, veracissimo e
libero, come utili di presente, e sicure per P avvenire, se lascerete mai
persuadervene ; quantunque per. me che affronto pel pubblico bene l'odio altrui
saran causa di mali non pochi. Imperocché ragionando antivedo, e presentami i
casi altrui come norma de'miei. Appio cosi disse, e consenlendo con lui quasi
tutti, fu sciolto il Senato. Irriuronsi i tribuni per la ripulsa : e partitisi,
considerarono come punirne un tal uomo. In mezEO al molto discutere piacque
loro di sottoporre Appio ad un giudizio capitale. Pertanto accu sandolo .nell’
adunanza del popolo, invitarono tutti a venire in giorno determinato, per
sentenziare su lui. Sarebbero queste le incolpazioni, vuol dire che stabiliva
massime ree cofilro il popolo ; che riaccese in città la sedizione ; che alzò
viqlento le mani sul tribuno ad onta delle leggi sacrosante ; e che duce delC
esercito, sen tornò pieno di sciagura, e (T infamia. Annunziate tali cose al
popolo, e destinato il giorno in cui di(^ vano che ne farebber la causa,
intimarono ad Appio di comparire a difendersi. Sen dolsero e prepararonsi i
padri Con tutto l’ ardore a salvarlo. Eid esortandolo a cedere al tempo, e
prender abito conveniente alle cir> costanze ; replicò che mai non farebbe
azione vile, nè degna delle precedenti; e che sosterrebbe anzi mille morti che
prostrarsi supplichevole ad alcuno. Rimosse alquanti ‘che eran pronti d’
Intercedere per lui, dicendo: die sarebbegli stata doppia vergogna, se vedesse
altri fare per lui ciocché non' dovea fare nemmeno per sè stesso. Dette queste,
e cose consimili, senza cambiar vestimenti, nè tener di sembiante, nè llul
fìnsero che per una Infermità morisse. Portatone quindi il cadavere nel Foro,
-il Gglio di lui fattosi innanzi ai tribuni ed ai consoli dimandò che
convocassero Tadananza legittima; e ^mettessero a lui di lare sul padre suo la
-funebre laudazione, usala in morte de’ Valentuomini. Intimarono ai consoli
l’adu nanzB ; ina vi ripugnarono itribuni, ed imposero al giovine di tor via
quei cadavere. Non sofferse il popolo né guardò con indifferenza clte inonorato
il cadavere si rimovesse ; ma concedette al > 6glU> di rendere i consueti
onori al padre : £ tale fu la fine di Appio. I consoli arrotarono, e cavarono
di città le milizie ; Lucio Valerio per combattere gli Equi e Tiberio Valerio i
Sabini ; perciocché gli ultimi ne’ tempi della sedizione entrarono il
territorio romano, e danneggiatane gran parte, ne partirono con amplissima
preda : gli Equi poi venuti più volte alle mani, e presevi molte ferite, eransi
riparati in luogo fortissimo, nè più ne scendevano per combattere. Ben tec^ò
Valerio di assediare quelle trincee, ma ne fu proibito dal cielo. Imperòcclié
mentre v’andava e ponessi all’opera; si mise il cielo in caligine, in pioggie,
in fulgori, e tuoni spaventevoli. Se ne sbandò l’ esercito, ma sbandatosi
appena cessò la procella : e fecesi grande serenità. Prese il console come cosa
di religione un tal fatto : e perciocché gl’ indovini diceano non essere da por
quell’assedio ; egli diè volta, e saccheggiò la terra; e lasciata in utile de
soldati la preda, ricondusse in patria l’eser cito. Tiberio Emilio però scOrrea
fin dal principio con assai negligenza le regioni" de’ nemici, nè
aspettavano ornai più le milizie; quando uscirono a fronte i Saliini, e sen
fece battaglia ordinata, quasi dal mezzodì fino a sera. Sorprese dalla notte
ritiraronsi le armate ciascuna aoi al suo campo, nè vincitori nè vinte.
Ne’giorai appresso i duci presero cura de’ loro estinti, e munirono di fossa
gli alloggiamenti ; ambedue con proposito di difender' visi, non di uscirne per
offendere. Poi col volger del tempo levarono le tende, e partironsi cogli
eserciti. L’ anno dopo nella olimpiade settantesima ottava in cui vinse nello
stadio Parmenide di Possido> nia, mentre Teagene vea l’ annuo magistrato di
Atene, furono in Roma consoli Aulo Verginio Cclimoutano e Tito Numicio Prisco.
Ascesi appena questi al comando, ridicevasi che giungevano i Volsci con
esercito poderoso. Nè mólto dopo fu invaso da essi, e dato alle Gamme un posto
ne’ dintorni di Roma : e non essendo questo mollo lontano ; il fumo stesso
annunziava alia città l’in ibrtunio. Immantinente, essendo ancor notte,
inviarono i consoli de’ cavalieri per osservare, e misero guardie su le mura; ed
essi stessi schieratisi fuori delle pqrte co’ soldati più spediti, v’
a^ettavano i ' rapporti de’ cavalieri. Fatto giorno raccolta la milizia che
avevasi iu Roma, andarono contro a’ nemici: ma questi, derubato il luogo' ed
incendiatolo, ne erano ben tosto partiti. Liberarono r consoli )e cose che
ardevano ancora, e lasciatovi un presidio sen tornarono a Roma. Pochi giorni
appresso usci coll’ armata propria, e con quella degli alleati l’ uno e 1’
altro console : Yergiulo contro degli Equi e Numicio contro de Volsci : e
ciascuno se n’ ebbe fra le armi il successo che desiderava. Devastando Verginio
le terre degli Equi non ardirono questi Attuo di Roma z85 tecondo Calotte,
>87 secondo Varroac, e 4^ av. Cristo. di venire alle mani. Ben posero nna
imboscata di uomini scelti ove speravano di piombare su l’inimico sban>
dato; ma vanissima ne fu la speranza. Imperocché saputosi ben tosto pe’ Romani,
fecevisi vigorosa battaglia: ove gli Equi tanto perderon de’ suoi die più
allora non vennero al paragone delle armi. Numicio marciò su la città degli
Anziati, 1’ uua allora delle primarie tra’VoIsci, ma non se gii oppose armata
niuna, riducendosi tutti a rispingerlo da entro le mura. Fu dunque saccheggiato
gran tratto della lor terra, e presa una cittadella in sui lido, la quale era
per essi come arsenale ed emporio, ove concentravano il molto che andavano
depredando sul mare. L’ esercito si attribuì per concessione dei console gli
schiavi, i danari, i bestiami, le merci : ma gli uomini liberi che non erano
periti tra la guerra furono presentati all’ incanto. Si acquistarono nommeno su
gli Anziati ventidue navi lunghe, ed apparecchi ed armi di navi. Alfine per
comando del console i Romani ne bruciarono le case, ne devastarono l’ arsenale,
e ne distrussero da’ fondamenti le mura; perchè, ritirandosene essi, quel luogo
non fosse un castello vantaggioso per gli Anziati. Tali furono le azioni
separate de’ consoli ; poi. gettatisi insieme sui territorio dei Sabini, e
depredatolo, rimenarono a Roma gli eserciti; e r anno finì. L’anno appresso
fatti appena consoli Tito Quinzio Capitolino, e Quinto Servilio Prisco, tutta
la milizia romana fu in arme, e spontanea si presentò Auno di Roma aS6, secondo
Catone, aS8 secondo Varrone, e 4^ av Cristo.. ao3 quella degli alleati, prima
che richiesti ne fossero. Dopo ciò fatte suppliche ai nami, ed espiato
l’esercito, mar> ciarono i consoli contro a nemici. Li Sabini contro ai
quali era andato Servilio, non che schierarsi in batta> glia, non nscirono
nemmenoall’ aperto: ma tenendoM dentro del chiuso, lascravano che si
devastassero loro le terre, s’ incendiasser ’ le case, e gli schiavi se ne
fuggis . sero. Dond’ i che i Romani tornarono a grand’ agio dalle lor terre,
carichi di preda, e risplendenti di glo ria. E cosi terminò la spedizion di Servilio.
Quinzio, ed il seguito suo, movendosi con marcia più che mili tare contro gli
Equi, ed i Volsci, venuti ambedue dalle regioni loro in un sito stesso a
combattere per gli altri, ed accampatisi davanti di • Anzio : diedesi a vedere
improvviso. E fermatosi non lungi dal campo loro in tm luogo, basso per sé
medesimo, che era quello ap> punto dove prima fa veduto e vide gli
avversar), posevi le bagaglie per far mostra di non temere i nemici, quantunque
superiori di numero. Or com’ ebbero ambedue tutto in punto per la battaglia,
uscirono in campo, cd avventatisi pugnarono infino al mezzogiorno. Non
cedevano, non superavano, quésti o quelli, ristorando sempre la parte che
vacillava, co’sussidj ordinàli per questo. Allora quando come superiori di nnmero,
cominciarono i Yolsci e gli Equi a vantaggiare ^ e pre> valerne; non avendo
i Romani moltitudine, pari all’ardore, Quinzio veduti estinti molti de’ suoi, e
ferito il più de’ superstiti, era per intima ve la ritirata : ma temendo poi di
dar vista ài nemici di fuggire; concluse, ch’egli dovea cimentarsi. E scelto il
nerbo de’cavalieri. Digitized by Google 2o4 delle antichità’ bomane vola in
soccorso de' laoi nell' ala destra, dove principalmente perìcclavaoOi Ed ora
sgridando di codardia li duci stessi, ora ricordando le passale battaglie, e
dipingendo la infamia ed il pericolo loro se fuggivano; alfine disse una cosa
Gota sì, ma cbe rincorò li suoi più che tutto, e sbigottì F ibiiuico. Egli
divulgò che r allr ala sua incalsava già gli avversar}, e già stava prossima
agli alloggiamenti r e divulgandolo, spronò sui nemici ; e sceso di cavallo co’
bravi suoi cavalieri, prese a combattere di piè fermo. Tornò l’ audacia aUora
nei suoi che ornai si abbandonavano, e divenuti quasi altri da quelli cbe
erano, fulminaronsi tutti sul nemico. Talché li Volsci contrapposti -appunto in
quella parte, dopo aver luogo tempo résislito, piegarono finalmente. Quinzio
fiigaiili appena, rimonta il cavallo e corre all’ altr’ala, e mostravi a’ fanti
suoi disfatta l’ala nemica, e raccomanda che non sieno per virtù minori
de’compagni. Dopo ciò niono più de' nemici 'tenne fronte, ma fuggirono tutti
alle trincee. Non gl’ inseguirono lungo tempo i Romani, ma beutoste se he
rivolsero forzali dalla stanchezza, nè più 'avendo ornai l’arme, pari al
bisogno. Decorsi alquanti giorni, convenuti per seppellire gli estinti e curare
i mal conci, avendo già riparato quanto mancava loro per combattere, fecero
nuovo conflitto intorno gli alloggiamenti romani. Imperoccliè venute nuove
reclute ai Volsci e agli Equi dalle terre circonvicine, inanimito il capitano
perchè i suoi erano il quintuplo de’ Romani, e perchè vedeva le trincee di
questi su luogo non abbastanza munito, credette il buon punto d’ assalirvegli.
Con tal disegno guidò. . ao5 su la mezza notte 1’ esercito intorno al vallo de’
Romani, e cinseli, e tineli in guardia, percbè inosservati non s’ involassero.
Quinzio saputa la moltitudine de’ nemici, ebbe caro di accoglierla. Ed
aspettaudo che fosse • giorno, e principalmente Tura nella quale il Foro suol
riempirsi, quando vide > che i nemici venivano ornai stanchi dalla vigilia e
dalle scaramucce, non per centurie, nè in schiera, ma confasi e sparsi;
immantinente, spalancale le porte, precipita su loro col nerbo de’ cavalieri,
mentre i fanti lo seguitavano serrati e stretti. Sbalorditi i Yolsci dall’
audacia, dopo aver sostenuta bteve tempo la furia della irruzione, rinculano, e
lasciano gli alloggiamenti. E percbè non lungi da questi aveasi un colle
alquanto elevato ; vi accorrono, come a riprendervi requie ed órdine. 'Non
riuscì però loro di fermarsi e di riaversi, giungendo ben tosto i nemici,
stretti quanto poteano colle coorti, per non esserne trabalzali, nell’
ascendere a forza la pendice. Fattasi azione vivissima per gran parte del
giorno, ne perirono molti diagli ani e degli altri. I Volaci, 'tuttoché
superiori nel numero,. e rassicurati dal posto occupalo, nou goderono alcuno
de’ dué vantaggi : ma violentati dall’ardore e dalla virtù de’ Romani,
abbandonarono il colle. F uggendo però verso le trincee, molti ne soccomberono.
Imperocché non cessarono i Romani d’inseguirli, ma tennero immantinente .dietro
loro, senza desisterne, finché ne presero a forza il campo. Impadronilivisi dei
prigionieri e di ogni cosa lasciatavi cavalli, armi, danari, che erau pur
molli, passarono ivi la notte. Nel giorno appresso il console, apparecchialo
ciocché bisoDigitized by Google 2o6 delle antichità’ romane goava per un
assedio, diresse 1’ esercito alla città degli Ansiati, uon lontana più di trenu
stadj. Per avvenlora ivi slavan di guardia alquanti Equi ausiliarj e custodivan
le mura, e questi per terrore della baldanza romana naacchinavan fuggirsene.
Saputo dagli Anziati, ed impediti partirne, congiurarono dar la cittade
a’Roraani che si appressavano. Gli Anziati avuto sentore pur di questo,
cedettero al tempo : E imnvenutisi cpn loro ; si diedero a Quinzio, in modo che
gli Equi pe^ patto si dimettessero, accettassero gli Anziati in città la
guarnigione, e seguissero i comandi de’ Romani. Divenuto pertanto il console
arbitro della città, pigliatine stipendi ed altri bisogni dell’ esercito, e
presidiatala, se ne ritirò. Uscitogli per tal gesta incontra il Senato, lo
accolse gratissimamente, e lo onorò del trionfo. L’anno -appresso furono
consoli Tiberio Emilio per la seconda volu, e Quinto Fabio Ggliuolo dell’ uno
dei tre fratelli, duci già della guarnigione spedita in Cremerà^ ed 'ivi periti
co’ loro clienti. Ora. favorendo Emilio console ai tribuni, e rimescendo qu^ti
di bel nuovo il popolo intorao la divisione de’ campi ; il Senato voglioso di
cattivarselo, e sollevarne i poveri, stabili di compartir loro uu tratto del
territoifio conquistato r anno avanti su gli Anziati. Furono deputati per la
divisione Tito Quinzio Capitolino, quello appunto a cui si erano gli Anziati
venduti, e Lucio Furio ed Àulo Verginio. Non stumio Albino per la prima volta,
e Quinto Servilio Prisco per la seconda. Nei lor giorni gli Equi risolvei Roma
Catone Vsrrone e tero vioiai-e i patti, recenti co’ Romani, per questa cagrane.
Gli Aoziati che avevano case e campi, rimasero nella lor patria, coltivando le
terre ad essi concedute, come quelle attribuite ai coloni, a’ quali davano con
regole Gsse parte del frutto :quelli perd che unila più avevan di questo, si
trasmigrarono. Gli accolsero di buon grado gli Equi fra loro ; ma uscendone,
d^>redavx> le terre latine : dond’ è cbe 'i più audaci, e più poveri
ancora degli Equi, fecero causa con essi. Lamentarono i' Latini r insulto in
Senato, e'tdiiesero che mandasse loro un esercito, o loro concedesse di
ribattere gli autori delia guerra. Il Senato, udito eiò, nè inviare un
esercito, né permise ai Latini che lo menassero : ma scelti tre ambasciadori,
capo de quali era Fa-,bio, quegli che l' anno avanti avea conchiuso il
trattato, ordinò loro di chiedere dai primarj della nazione, se mandava il
pdbtdico per qite’ latrocini ne’campi degli alleati di Roma, anzi di Roma
stessa, ne’ quali eransi anche fatte alcune scorrerie da, quegli esuli : o se
il pubblico non avea di ciò colpa ninna : E se diceano che r opera era de’
privati senza volere del popolo ; chiedessero nelle mani le predé nomuMno ohe i
predatori. Venuti gli oratori, ed ascoltatili ; gli Equi diedero oblique
risposte, dicendo, che 1’ opera non era certo fatta per pubblico voto, ma che
non istimavano bene consegnarne gli autori, perché, ridotti già senza patria, e
vaganti, erano come supplichevoli stati ricevuti nelle campagne (t).
AddoloravaSi Fabio, e reclamava i patti Vuol c^ita pareva loro come tradire la
fede oepiiale, $e ti conergnaTeoo. Linno IX. 209 traditi, pur vedendo che gli
Equi s’inGngevano, e dimandavano tempo a consultarsi, e lo intrattenevano come
pe’ doveri ospitali ; si rimase infra loro con di> segno di esplorare le
cose della città. E visitando ogni luogo sul titolo di vagheggiarvi le cose dei
templi e del popolo, gli opifizj delle arme da guerra o Gnite o che si
lavoravano, comprese i loro disegni. Tornato n Roma disse in Senato quanto
aveva udito, e veduto. Ed il Senato, non più dubbioso, decretò che si
mandassero i F eciali per intimare agli Equi la guerra, se non cacciavan da
loro i fuorusciti di Anzio, nè promettevano rintegrare i danneggiati.
Replicarono gli Equi baldanzosi, Gno a dir che accettavano, nè già di mala '
voglia, la guerra. Li nigione su’ turbolenti di Anzio, onde rassicurarsene, e
Spurio Furio l’altro de’consoli coll'esercito contro degli Equi. Marciò ben
tosto 1’ uno e 1’ altro ; nfa gli Equi udendo uscita già l’armata romana si
mq^sero da’ campi degli Ernici per incontrarla. Vedutisi appena fra loro, tutto
che non fossero molto distanti, per quel giorno si trìncierarono. Nel giorno
appresso i nemici vennero quasi alle trincee de’Romani per. esplorarvenè gli
animi. E poiché questi non uscivano alla battaglia, fattevi delle scaramucce, e
niente di memorando, sen partirono assai Allude ai Romaui' portali non molto
prima iif Aniio, come coloni pcrchi nel tempo slesto invigilassero e lenestero
iit soggeunn^ Ig città proclive alla ribellione magnificandosene. Il cohsole
lasciate nel giorno seguente quelle trincee, come non molto, sicure, trasposele
in sito più acconcio, e vi scavò fossa più profonda ^ e vi piantò steccati più
alti. Crebbe a tal vista il cuor dei nemici, e molto più quando ad essi
pervennero altri snssidj de’ Volaci e degli Equi ; tanto che senza più indugi
marciarono al campo romano. Il console considerando che a lui. non bastava
r>esercito contro le dpe nazioni, spedisce alcuni cavalieri con lettere' in
Roma perchè mandisi a lui pronto soccorso, pericolandogli tutta l’ armata.
Giuntivi questi su la mezza notte, Postumio il collega di lui ricevendole, fe’
convocare per via di molti araldi i padri in Senato: e prima che il di si
chiarisse, crasi decretato che Tito Quinzio già console per la terza volta
portasse bentosto con autorità proconsolare il fior de’ giovani a piedi ed a
cavallo sul nemico, c che Aulo Postumio il console raccolte il più presto le
altre milizie, a raccoglier le quali vi abbisognava più tempo, li soccorresse.
Quinzio riuniti sul principio del giorno presso a cinque mila volontari, dopo
non molto marciò. Gli Equi ciò sospettando non istavansi a bada : ma deliberati
d’ assalir le trincee de’ Romani prima che vi giungesse il soccorso, si
divisero in 'due corpi, e t’ andarono per espugnarle colla forza, e col numero.
Fecesi per tutto il giorno calda battaglia, spingendosi questi audacemente in
più parti su’ ripari, nè reprimendosene pe’ tiri continui delle lance, degli
archi, e delle fionde. Adunque, confortativisi a vicenda, il console ed il
legato spalancando in uri tempo le porte, ne sboccano, e piombando co’soldati
più validi da ambedue le parti del campo su i ne mici, ne rispingono quanti vi
salivano. Messili in fuga, il console insegai breve tempo i soldati a lui
coatraposti, e poi si ripiegò: ma il fratello suo e Publio F urio il legato
trasportati dalla impresa e dall’ ardore corsero incalzando e uccidendo fino al
campo nemico ; e non avean seco se non due coorti, numerose in .tutto di mille
uomini. Gli avversar) loro be erano intorno a cinque mila, osservato ciò, si
avventano dagli steccati.. E mentre questi vengon di fronte, la cavalleria,
fatto un giro, prende alle spalle i Romani. Publio ed il seguito suo cosi
circondato e disunito dal resto de suoi ben potea salvarsi se cedeva le arme,
esibendogli questo i nemici, cbe assai valutavano far prigionierì que’mille
bravi, quasi potessero in vista di essi ottener pace ono rata: ma i Romani
spregiato l’invito ed animatisi a non far cosa indegna della patria,
combatterono e spirarono tutti Ira’ cadaveri de’ nemici. Morti questi, gli Equi
inebbriati dal buon successo presentaronsi alle trincee romane elevando
confitto alle aste il capo di Publio e di altri cospicui, per iscoraggirne quei
d’ entro, e necessitarli a ceder le arme. Ma se venne ad essi pietà per la
sciagura degli estinti compagni, e se ne pianser la sorte, si moltiplicò ben
anche lo spirito per combattere e l’ onorato amore di vincere o di morir come
quelli prima che andar prigionieri. Circondati dunque, com’erano de’ nemici,
passarono i Romani senza' sonno là notte, riordinando le parli che aveano
soiferto nelle trincee, e quant’ altro mai potea respingere gl’ inimici se
tentavano un altra volta investirveli. F ecest nel giorno appresso di bel nuovo
r assalto, schiaotandovisi lo steccalo in più parti. Più volte furono gli Equi respinti
da quei d entro che ne uscivano a schiere, e più volte nell’ audacia delle
soi> lite, lo furono questi dagli Equi. Durò tutto il di la vicenda: quando
fu il console romano ferito nel femore da uno strale a traverso dello scudo, e
feriti pur furono ^ molti de’ più rignardevoli, quanti li combattevano
infoiano. Ornai vacillavano t Romani, quando su l’ imbrunir della sera ecco
inopinatamente apparire Quinzio per soccorrerli col corpo de’ prodi volontarj.
I nemici, vedutili che avanzavano, diedero di volta, lasciando l’assedio
imperfetto: ma quei d’ entro incalzandoli nella ritirata facean strazio della
retroguardia : se non che indeboliti per la più parte dalle ferite, non gl’
inseguirono a lungo ; ma presto si ripiegarono verso il lor campo. Dopo ciò si
tennero gli uhi e gli altri lungo tempo fra le trincee, guardando sestessi.
Quindi mentre il nerbo de’ Romani era impegnato in campo, altre milizie di Equi
e di Volaci credendo il buon punto d’ ime depredando la regione, uscirono tra
la notte ; ed invasala in parte lontanissima dove gli agricoltori viveano
scevri d’ogni paura, occuparono non poco di robe e di nomini. Non però ne
ebbero bella in,dné né facile la ritirata, imperocché Postumio il console
mepaudo agli assediati nel campo i soccorsi adunati, appena udì le operazioni
de' nemici, si presentò loro contro la espettazione. Non sbalordironsi essi, nè
tremarono, ma ponendo a bell’agio le bagaglio e le prede in luogo sicuro, e
lasciandovi guarnigione delle antichità’ romane che bastasse, marciarono ordinali
al nemico. Venuti alle mani, sebben pochi contro molli, fecero memorabili
prove. Imperocché precipitandosi giù dalle campagne uomini in copia cinti di
lieve armatura conir’ essi che eran tutto arme il corpo, fecero grande uccision
dei Romani ; e per poco non si ritirarono, lasciando nell’altrui territorio un
trofeo su gli assalitori. Ma il console e con esso i cavalieri più scelti
spronandosi a redini abbandonate su’ loro, dov^ erano il forte, e combattevano
; ve li sbaragliarono e prostrarono in copia. Battuti que’ pnmi, anche il resto
dell’ armata respinto fuggì : e la guaniigìone delle bagaglie, lasciatele, s
involò di su pe’ monti vicini. Cosi pochi moriron di essi nella battaglia ; ma
moltissimi nella fuga, perchè ignari de’ luoghi ed inseguiti dalla cavalleria
de’ Romani. Intanto Servio 1’ altro console persuaso che il collega ne veniva a
lui per soccorrerlo, e temendo che 1 nemici ^non gli uscissero incontra e glien
traversasser la strada ; risolvè frastornameli, con assalirli negli aU
loggiamenti. Questi però lo prevennero; perciocché sapuu la sciagura de’
compagni dai predatori salvatisi, levarono il campoj e nella notte, che fu la
prima dopo la battaglia, rientrarono in città, senza che avesser potuto tptanto
aveano disegnato. Ma se ne periron di loro tra le battaglie e i foraggi ; ne
soggiacquero nella fuga d’ allora assai più di prima (ra quelli che restavano
addietro. Aggravati questi dal travaglio e dalle ferite, Iraendosi a stento
innanzi, perchè non .prestavansi ad essi i lor membri, stramazzavano, vinti
principalmente dalla sete, presso de’ ruscelli e de’ dumi : e raggiunti
da’cavallert romani, erano trncidali. Netnraeno i Romani tornarono felici in
tutto da quella f guerra ; perdutivi molti valentuomini, ed il legato che vi si
.era segnalato, più che tutti, nel combattere. Non pertanto rivennero in patria
con una vittoria non inferiore a ninna. E ciù fecesi in quel consolato.
Sacceduti consoli Lucio Ebusio, e Pnblio Servilio Prisco ; k Romani plinti da
mori>o contagioso, quanto mai più per addietro, non fecero in queir anno
cosa ninna degna di rimembranza nè in guerra nè in pace. Gettatosi quel morbo
in prima tra gli armenti de’ cavalli, e de’ bovi, e poi delle capre e delle
pecore, disfece quasi tutti i quadrupedi. Quindi serpeggiando tra' pastori e
tra’ coloni via via per tutta la regione, in ultimo invase anche Roma. Non è
facile ridire quanti servi, quanti mercenàrj, quanti della, classe indigente
perissero. Da principio se ne trasportavano i cadaveri a mucchi su’ carri : ma
poi quelli. de’, men riguardevoli si gettarono nella corrente del fiume.
Contasene perito il quarto de’ senatori, e con essi i due consoli, ed il più
de’ tribuni. Cominciò quel morbo intorno a’ primi di settembre, e prosegui per
un anno in^ro, investendo e consumandone di ogni, sesso e di ogni età. Saputosi
tra’ vicini il disastro romano, gli Equi ed i Yolsci lo riputarono occasione
bonissima da levare sene il giogo, e fecero patti, e giuramenti, di alleanza
fra loro. Quindi preparato quant’ era d' uopo per 1’ assedio, uscirono gli uni
e gli altri il più presto colle Roma Catone Vartoae milizie; inondando su le
prime il territorio de Latini e degli Emici, onde precludere a Roma il soccorso
degli alleati. E nel giorno che giunsero ai Senato gli oratori de’ due popoli
assaliti per ottenerne ajuto, in quei giorno appunto era morto Ebuzio 1’ uno de
consoli standosi già Servilio, eh era 1’ altro, per morire. Or questo,
sopravvivendo anche un poco, convocò il Sepa to. Portativi i più de’ padri
malvivi su le lettighe dichiararono ai legati di annunziare a lor popoli ^ che
U Senato concedeva ad essi di respingere col proprio valore i nemici, finché il
consolo si risanasse, e fosse raccolto un esercito per soccorrerli. A tali
risposte i Latini concentrato ciocché poteano dalie campagne, guardavano le
mura, trascurando ogni altro danno. Ma gli Eroici non reggendo al guasto ed al
sacco de’ campi, diedero all’ armi, ed uscirono. Infine dopo fatte luminose
battaglie con perdervi molti ^de’ loro ed uccidervi molto più de nemici, fuggirono,
necessitati, fra le mura, né tentarono più di combattere. Pertanto gli Equi ed
i Volsci, depredatone il territorio, si avvanzarono impunemente ai campi
Tuscolani. E derubati pur questi senza che ninno li respingesse, scorsero fino
ai Sabini ; e giratisi impunemente anche su le terre loro, avviaronsi a Roma.
Ben poterono essi turbarla; non però conquistarla. Quanlun que languidi nella
persona, e perduta 1 uno e F altro console, mortone di fresco ancora Servilio,
armatisi oltre le forze i Romani, si misero su le mura. Estese allora per
circuito quanto quelle di Atene, sorgeano queste parte su i colli e su. scogli
dirotti, fortissimi per, a 19 natura, e bisogoevoli appena di difesa, e parte
assicurate dall’ alveo del Tevere, fiume largo quattrocento piedi , profondo da
navigarvisi con legni grandi; rapido quant altri e vorticoso nel corso. Non
passasi questo appiedi se non per vìa de’ ponti, de’ quali ve n era allora sol
uno, e di legno, cui disfacevano nei tempi di guerra. Il lato di Roma men arduo
ad espu gnarsi dalla porta chiamata Esquilina fino alla Collina era fortificalo
eoli’ arte; imperocché scavata innanzi ci avevano una fossa, larga, dove' eralo
il meno, più di cento piedi, e cupa di trenta, è quinci e quindi su la fossa
elevavasi un moro, cinto da argine interno ampio ed alto, talché né battere
quello si potrebbe cogli arieti, né rovesciar sbucandone le fondamenta. Lungo
questo lato circa sette stadj spandesi cinquanta piedi per largo. Or qui
schieratisi in folla i Romani respingevano 1’ as salto nemico :perocché noù
sapevano allora i mortali né far testuggini sotterranee, né macchine
espugnatrict delle mura. Diffidatisi gli assalitori di prendere la città
ritiraronsi dalle mura, e devastandone, ovunque passavano la campagna, sea
tornarono in>patria. I Romani come sogliono quando restano senza chi
comandi, scelsero gl’ interré per tenere i comizj, e vi crearono consoli .Lucio
Lucrezio e Tito Veturio Gemino (z). Sotto questi ebbe requie la pestilenza; puc
'Wel testo: ntritfit rìkirftr : la toco rXtrftr ’ interpreta da altri per
jugero : Svida la interpreta per cesto piedi. Ma tale cspoiisione noa
corrisponde. ' (a) Aano di Roma aga secondo Catone, 394 secondo Varrone, e 46a
av. Qrisio. 1 furono diflerite le controversie civili private o pubbliche: e
tentando Sesto Tito T uno dé’ tribuni >, riaccendere quella su la division
de’ terreni; il popolo gli si oppose, e rimisela a tempi più acconci. Eccitossi
in tutti in vece I un desiderio di punire quanti aveano dato guerra alla
repubblica ne’ giorni del morbo. Cosi decretata la guerra dal Senato, e
ratiScata ' dal popolo, si arrolarono le soldatesche : e ninno di anni
militari, quantunque pri> vilegiatone per le leggi, cercò sottrarsi da
quell’ impresa. Diviso r esercito in tre parti 1 una fu lasciata in guardia di
Roma sotto gli auspicj di Quinto Fabio, uomo consolare ; e le altre seguirono i
consoli contro i Yolsci e gli Equi. Aveano gii' fatto altrettanto i nemici.
Riunitesi le milizie migliori d’ ambedue quelle nazioni, teneano il campo
aperto sotto due capitani per cominciare dalla terra degli Ernici, dove ' allor
si trovavano, a devastarne quanta ne soggiaceva ai Romani : la parte men atta
delle ipilizie crasi lasciata in custodia delle città, perchè su di esse' ngn
venisse irruzione improvvisa dagli emoli. Avuto infra loro consiglio, crederono
i consoli il meglio d’ investire innanzi tutto le lorp città sul riflesso che
la unione delle armate si scioglierebbe, se ciascuno udisse ridotta in pericolo
estremo la sua patria ; giacché riputerebbero assai meglio salivare le proprie
cose che guastar le ini miche. G)sl Lucrezio piotnbò su gli Equi, e Yeturio su
i Yolsci. Gli Equi trascurando ogni rovina di fuòri guardavano la città e li
castelli. In opposito i Yolsci ardimentosi, arroganti, spregiando 1’ armata Romana
come diseguale contro la Lisno IX. 221 lor ffloltitudiae, uscirooo 4 combattere
pel territorio proprio, e misero il campo presso di Yeturio Ma come accade a
milizie receuti, raccolte per la circostanza alla rinfusa di mezzo a villani e
cittadini, privi in gran parte di arme o di sperienza, non ebbero cuore nemmen
di venire alle mani : e perturbatine i più fin dal primo avventarsi de’ Romani,
non reggendo nè al suono delle arme percosse, nè ai gridi, preludio della
battaglia, tornarono con dirottissima fuga in città. Dond’ è che incalzati
dalia cavallwia ne perirono molti nello stretto de’ sentieri, e più ancora
mentre a gara si cacciano tra le porte. A tale disastro accusarono i Yolsct
sestessi d’ imprudenza, nè più tentarono di cimenUrsi. Li capitani però che
tenevano in campo aperto le milizie dei Yolsci e degli Equi all’ udire, com’
erano investite le loro città, deliberano di fare ancor essi alcuna magnanima
impresa, levandosi dalle terre de’ Latini e degli Eroici, e marciando on quanta
avean furia e prestezza su Roma. .Ancor essi avean mira che rinscisse loro r
uno o 1’ altro de’ due belli disegni, cioè d’ invadere Roma,improvvista, o di
richiamarvene le armate di lei dai loro territori, necessitando ti consoli a
soccorrer la patria. Su tale pensiero marciarono a gran fretta per essere
inaspettati su Rotna, coll’ effetto delr opera. Avvicinatisi di nuovo al
Tuscolo, udendo che le mura di Roma erano tutte piene di arme, e che in
antecedente aveva tentalo il primo d’ iikrodiuTe tale eguaglianza ; ma dovette
lasciar I opera imperfetta, tro-; vandosi U gran numero del popolo nell' armata
in sai' campi nemici, tenutovi ad arte.,da’ consoli, finché il tempo finisse
del loro governo. IL Postisi quindi a tale impresa il uibubo Aulo Veoginio’e li
colleghi, t voleano consumarla: ma i consoli, col Senato, e. con altri in
città. più potenti adoperavansi costantemente per ogni maniera,, affinchè ciò
non seguisse, nè dovessero governare secondo le leggi : e. più volle sen tenne
1’ adunanza del Senato, piA volte quella del popolo ; facendo i lor magistrati
ogni sforzo gli uni contro degli altri ; doiid’ era a tutti viàbile che
verreb!>e da' tanto Jisàdio alla città disastro insanabile e grande. A tali
|>resagj. dai canto degli uomini agglongevansi i terrori dal canto del cielo,
d’ alcuni de' quali non Irovavansi L àmili ne’ pubblici scritti, né, par
monumento qualunque. Ben trovavanà occorse ancora in antico e coiTuacazioni
soorrenti pelcielo ed. accensioni fissa in un luogo, muggiti e scosse continue
delia terra,. e larve qua e là vaganti per l’aere, e voci desolatrioi, e cose
alirallali: ma ciò che non erasi mai nè sperimentalo nà udito, e che più che
lutti perturbava., era che il cielo navigò. dirottamente pQngià con nembo, dii
neve, ma con brani, più o men grandi di carne; che tali cairn momot, ltrio di
''contndirla fino al ritorno del terso mercato. Or molti, d^l Seoatè giovani e
vecch), nè giè de’ più dispregevoli, la contraddissero per più giorni cou as^ai
studiati discorsi. Stanchi poscia 1 tribuoi per tanto consumarsi di tempo, più
non per> misero che altri aringasse in contrario: ma predesti Dando il
giorno nel quale espedire la legge, invitarono i plebei a raccogliersi appunto
in quello, giacché non sarebbero più conturbati dalle lunghe concioni, ma
voterebbero su di essa per tribù. Cosi promisero, e sciolsero 4’ adunanza. Dopo
ciò li consoli e li patrizj più potenti andatine più esasperali ad essi
reclamarono, e dissero che non permetterebbero che introducessero leggi senza
previo decreto del Senato : SSSMUS IM lecci t patti DELLE ANTICHITÀ’ ROMANE DSL
COMVNS DELLB ClTtjC IfOTf DI ONA PARTE DS~. GLI ABlTAafl DI QUESTE : CHE QUAWDO
LA PARTE-, MEIf SANA VI da' leggi ALLA MIGLIORE A PRSf.UDlO MANIFESTO DI DANNO
TRISTO, INSANABILE, SCON GISSIMO. Quale., aggiuDgevaQO qtuU potere avete voi o.
tribuni di far leggi o distruggerle ? Voi non avete con questi diritti ricevuta
dal Senato là magistratura: voi chiedeste il tribunato in difesa de' poveri
offesi o soverchiati, non per altra briga niuna. Che se aveste già prima tal
potenza cedendo il Senato ad ogni vostra pretensione ; non C avete voi questa,
perduta col mutar dei comizj ? perciocché non i Pereti, del Sornald', non i
voti dati per centurie destinano voi per tiibuni: voi non premettete ai comizj
per la vostra creazione nè i sagfijicj dovuti per legge, né altri ossequj verso
de' numi, nè pietose -opere verso degli uomini. Come a voi si appartiene far
cose ( quali appunto sono le leggi) che ahbisognavtmo' di culto e di sagrifizj
di un dato rito, se i riti tutti violate f Coai lissero ai tribuni i patrixj
seniori, cosi li giovani, .che andarono cinti da un seguito per la città : e
rìcuperà^ rono colle dolci i cittadini più miti spaventando i ca-, parbj e K
turbolenti se non faceano, senno, col terroc de’ pericoli : anzi battendo come
schiavi, ed^ escludendo dal Foro alcuni de’ più bisognosi ed abjelti, i qualt
non curavano se non l’ utile proprio. • V. L’ uno di quelli ebe ebbe maggior
seguilo, e che poteva aUora più di lutti i giovani fu Quinzio Cesone, figlio di
Lucio Quinzio chiamato Cincinnato, nobile, Straricco, bellissimo, valentissimo
nelle armi, e nel dire Or questi molto allora si scaricò su' plebei, non aste
nendosi' nè da parole, molesiissitne ad uomini liberi, nè da’ fatti
corrispondenti alle parole, Pertanto i pairizj lo onoravano, e ^istigavanlò più
a tener fronte ai perìcoli, promettendogli sicurezza essi stessi : ma i plebei
r odiavano più che ogni altro. Or da 'un tal uomo risolverono liberarsi i
tribuni avanti tutto per abbattere in esso gli altri giovani, e necessitarli ad
esser più savj. Ciò risoluto, e preparati assai discorsi e lestimon}^, lo
dtardno come reo di pubblica offesa per punirlo 'di morte. Intimatogli di
presentarsi al popolo, venutone il giorno, e convocata 1’ adunanza, perorarono
a lungo coofra lui ; nunierando tutte le violente fatte, ed allegandone gli
offesi stessi per teslimonii. -Or .qui data licenza di parlare ; il giovine
chiamato a difendersi non ubbidiva : ma volea soddisfare ai privati in 'quanto
diceansi oltraggiati da loi > secondo le leggi, tenutone il giudizio innanzi
de’ consoli : ma, il padre di lui vedendo i plebei sofferime malamente le
ritrosie, prese a difen’^erlo egli stesso ; dimostrando le tante delle accuse
coqic false f ed insidiose, e dimostrandole,. quando negar non poteansi, come
picciole, leggere, nè dégne dell’ ira del popolo, e su cose, fatte non per
trama o disprezzo, ma piuttosto per enfasi giovanile di gloria. Per questa
diceva eh’ eragli occorso talora di fare e tal altra di pa> rire forse
incautamente nelle contese; non essendo lui nel fiore degli anni e del senno.
Pertanto pregava il popolo non solamente che non se gli adirasse pel discorrere
suo, ma che giel condonasse in vista delle belle gesta di esso le quali
operarono fra le armi la libertà de’ privati ed il comando della patria, ed
invocavano fin d’ allora per lai quando Avesse mancato la clemenaa ed il
soccorso di tcuti. E qui narrò le campagne da lai sosténute, -e le battaglie
nelle quali avea riportato dai capitani la corona de’ prodi, quante volte eravi
stato la diiesa de’ cittadini, e quante avea primo salito le mura de’ nemici :
da ultimo ri rivolse ad impietosire e scongiurare il popolo in riguardo della
modera^'one sua verso tutti, e del vivere ‘suo conosduto sempre come innocente
; chiedendo che in grazia almeno gli salvassero il figlio. Compiacevasi il
popolo a tali discorsi, e deliboravasi rendere H 6glio al padre. Se non che
riflettendo Yerginio che se costai non subiva le pene ; ne diverrebbe
intollerabile 1’ audacia, e la caparbietà de’ giovani, sorse e disse :
Contestata o Quinzio è la tua virA, la tua benevolenza verso del Spopolo e te
ten debbe tutta la stima: ma la molestia, e la insolenza di codesto tuo figlio
verso tutti non ammette escusàzione o perdono. Egli educato con la tua disciplinà
sì discreta, cpme tutti sappiamo, e si popolare ; ne abbandonò gli
ammaestramenti e seguì V arroganza de tiranni, e la sfrenatezza de' barbari,
portando in città gf incentivi a tristissiiHe opere. E sia che tu noi
conoscessi per tale ; ora che tei conosci ben dei con noi e per noi
concitartene : che se per tale il sapevi, e lo coadiuvavi in quanto egli
inviliva ognora pià' la sorte dei poveri ; eri anche tu lo scellerato, e mal
souavati intorno la fama di uom probo. Afa tu non vedevi ( ed io stesso potrei contestartelo
) quanto egli dalla. . a3i tma uirtà degenerava. Sebbene io tenga però, che
allora tu non partecipavi con esso. nelF offenderci ; dolgomif che ora come noi
non te ne sdegni. Ma. perchè tu meglio conosca qual niostro' abbi nudrito senza
avvedertene contro la patria, quanto tirannico, c non . puro nemmeno tlal
sangue.. dk' cittadini ^ odi la egregia opera sua, e contrapponi a questa, se
puoi, U bellici suoi prèmji E voi, quanti siete imo pioto siti al pianger di un
padre, considerate se stia bene che risparmisi un tal cittadino. E qui fe'
cenno a Marco Volscio T uno de’ suoi colleghi perchè sorgesse e dicesse quanto
sapeva di quel giovane. E fatto silenzio, e grande espettazioiie ; V(d> scio
soprastando alcun poco-, disse : Oltraggiato, e pià che oltraggiato che io fui
da quest’uomo, ben avréi voluto pigliarmene, o cittadini, le pene che ut erano
concedute dalle leggi : ma impeditovi allora, dalla mia debolezza, dalf esser
mio di plebeo, prenderò ora che mi è dato f le parti di testimonio, se quelle
non posso di accusatore. Udite le acerbità, le indegnità che men ebbi. Era
Lucio, fraltel mio,,che io amava piti che tutti i mortali Avea \ questi cenato
mecò. presse di un amico, quando al giungere della notte di levammo, e
partimmo. E già passavamo per il Foro, quando si abbattè con noi codesto
petuUui-,te, seguito da giouani pari suoi: li quali, ebbrj ed 'arroganti che
erano, beffarono ed insultarono noi, quanto, insultato e beffato avrebbero i
meschini e gli .ignobili. Così provocati j V uno di noi parlò liberissimamente.
Or codesto Cesane estintando . ria cosa ttdire ' ciocché non voleva, gU s'
avventò, lo battè : e mainìenalolo con i calci e con ogni guisa di sevizio^ e
cT ingiurie; io uccise. Ucciso lui, manomise ancor me, che ne gridava, e ne repugnava
quanto io po~ tev'a : nè mi lasciò, se non dopo credutomi estinto, ài vedermi
immobile in terra, e senza voce. Allora se no' andò giubilando come per
bellissima prova ; ed allora' gli astanti raccòlsero noi lordi dal sangue j e
riportarono a casp Lucio il fnio fratello, morto, come ho detto, e me presso
che morto, e che certo ornai poco sperava di sopravvivere. Occorse ciò. sotto i
consoli P^ublio Servilio, e Lucio Ebuzio, quando spaziava in Boma la ff-an-'
pestilenza, alla quale eravamo soggiaciuti atKor noi. Quindi non potei
dimandarne ragione, morti /essendo i consoli tutti due. Succederono poi consoli
Luaezio e Tito Terginio. Io voleva allora ' citarlo in giudizio ; ma ne fui
impedito dalia guerra, fasciando ambedue per essa la città. Jiitomati .questi
dal campo, quanto volte 16 citai presso de òiagittrati, quante volte mi vi
accostai, tante ( e ben molti lo sannò ) fui da esso ferito. E questo, 'o
popolo, che io ne ho tollerato, questo vi ho detto con tutta la verità.
Alzarono a quel dire, gli astanti le grida, (eolandone molti la vendetta colie
lor inani. Ma vi si opposero i consoli, ed i più de’ tribuni, alieni che in
città s’ introducesse la tea consuetudine ; tanto più che la parte più sana del
popolo non voleva che si toglicssero le difese a chi pericolava in giudizio
della vita. La cura duirque della ginsUzut represse allora gii empiti della iur
scienza, ed il giudizio fii differito non, senza contenzioni e dobbj non
piccioli, se dovesse' intanto il reo serbarsi neiia carcere, o dare i mallevadori
per la sua dimissione, come il padre di lui dimandava.' Il Senato adunatosi
decretò che se no desse malleverìa • sotto ob-> biigazion pecuniaria ; ed
egli libero andasse finché di lui si giudicasse. Or mancando il giovine di
comparire • al suo tempo ;. i tribuni convocarono il giorno appresso la
molthndine, e contro lui sentenziarono ; dond’ è che i mallevadori, eh’ eran
dieci, pagarono là multa convenuta in sicurezza delia sua presentazione. Colto
dunque fra tali insidie dai tribuni che guidavano tutta la trama, colle
itestimobianze di Volscio, che poi false si riconóbbero, Cesone fuggi nell’
Etruria. Il padre di lui venduto il più di sue cose, e rintegrati i mallevadori
delle multe obbligate visse tra il disagio e lo stento in un poderétto; che aveasi
con picciolo abituro lasciato di là dal Tevere, coltivandolo con ponchi servi,
né più rècandosi in città per 1’ afflizione, b la inopia, nè riabbracciando gli
mici, né iniramettendosi -a festa, o ricreazione niuna. Ai tribuni però succedé
ben altro che le loro speranze: imperocché non .solo qon se ne chetò pér alcun
modo la gioventù contenziosa ammaestrata dai mali di Cesone ; -ma ne imperversò
più ancora, contrastando co' detti e co’ fatti la legge; talché non poterono
affatto stabilirla, cousumandosi in brighe la loro magistratura. Pertanto il
popolo confermò pel nuovo anno i tribuni medesimi. ' fX. Ascesi ai grado
consolare Valerio Popiicola, e Cajo .Claudio Sabino , Roma corse in pericoli
quanti Anoo di Roma 39! secondo Catons, 396 secondo Varrone, c 4''8 av. Cristo.
uiai più ^ per la guerra cogli i esteri, attiratale dalle d!i cordie
domestiche, come af eano j preoooziato i libri sibillini, e li segui dimostrati
1’ anno precedente dai numi. Io sporrò cagione, che suscitò U guerra, e ciò che
fu per queau operato allora da’ consoli. Li tribuni preso di nuovo il lor grado
su la speranza di fondare la legge, vedendo console Ca)o Claudio pieno di odio
ereditario contro del popolo, e sollecito per ogni guisa nd impedire quanto
facevano ; e vedendo i più potenti de’ giovani trascorsi -iu fùria manifesta da
non combatterli colla forza, ed i più della plebe obbligati da' servigi de’
patrizj, e rimasti senza il primo ardore per la leggQ deliberarono spingersi
all’ intento con mezzi più risoluti, onde atterrire quei della plebe, e far
desistere il console. Su le prime procurarono spargere voci varie per la città,
poi sederono da mattina a sera coosultaudosi visibiloRate senza comunicarne ad
alcuno nè consigli nè parole. Ma quando parve loro tempo di .eseguire i disegni,
finsero delle lettere ; facendosele recare mentre sedeano nel Foro da un
ignoto. E come prima Je lessero,, battendosi la .fronte, e contristandosi ne’
set^bi^nti ; levaronsi in piede. Accorsa gran moltitudine, ed insospettitasi
che fosse in quelle lettere indicato alcun grande infortunio, essi or
dioaroiio,pe’ banditori silenzio e dissero; La repubblica o cittadini sta.
negli estremi pericoli. E sé la benevo^ lenza degl iddj non avesse provveduto a
chi era per. incorrervi : noi tutti saremmo in fetali sciagure. Chiediamo che
vi tfiniale qui breve tempo, finché riferiamo al Senato eiocohè ne si avvisa, e
facciamo di cornuti volo oiocché si debbo ; E ciò detto, ne andarono ai
consoli. Frattanto che il Senato si radunava, faceansi pel Foro molti e svariati
discorsi; ripetendo altri appo> stalaroente ne’crocchj ciocché era stato
intimato loro da’ tribuni ; ed altri pubblicando, come detto ai tribuni,
ciocché temeano essi stessi, che succedesse. Chi dicea che i Volsci e gli Equi
aveano accolto Quinzio Cesone il giovine condannalo dal popolo, creandolo
comandante assoluto delle due genti e che leverebbe .gran forze e marcerebbe
contro di Roma: echi dicea che quel giovine d’ accordo cp’ patrizj tornava con
esterne. milizie, perché si abolisce una volta per sempre il magistrato che era
il presidio de’plebei : altri aggiungeva che eosì non sentivano tutti i patrizj
ma i giovani soli: e. vi fu chi ardi fino dire che colui si stava occulto in
città, e che occnpenebbe i posti più acconci. Ondeggiando cosi tutta la città
per |a espeUazioue de’ mali, e sospettandosi tutti, e guardandosi gli uni dagli
altri : i consoli convocano il Senato : ed i tribuni vengono e palesano ciocché
avvisavasi loro: parlava, per tutti Aulo Yerginlo e disse : • f > X. Finché
gli annunzj che ci si davan de' medi ^ ci sembrarono non accureUi, ma vani e
senza fondai mento, sdegnefmmo o padri coscritti, di pubblicarlit tal timore
che non.se ne eccitassero grandi txirbamenti, come sogliono, alP udirsi triste
cose, e con riguardo di non essere da voi creduti anzi precipitosi che savj.
Non però lasciammo tali annunzj, trascu^ rondo li eiffaUo : anzi ne abbiamo i
investigata la ver rità, quanto per noi si potè.. Ora. poiché la provit denzu
celeste, la quale ci ha ‘sempre salvato la repubblica, ci benefica p svela i
segreti consigli y e le ree macchinazioni di uomini nemici agt iddj, e teniamo
fin delle lettere che abbiamo di fresco ricevute in pegno di benevolenza da
ospiti, che voi poscia adirete, e poiché concorrono e concordano gC indizf
Interni con gli^ altri di fuori, e gli affari che abbiam tra le mani non
ammettono più. indugio e riserva i deliberiamo, com’ è giusto, palesarli a vói,
prima che al popolo. Sappiale dunque che hanno contro il popolo congiuralo
uomini non ignobili, tra' quali dipèsi-esser parte, non grande però, degli
anziani, ascritti al Senato, ma più grande de’ cavalieri che ascritti non vi
sono ; e questi, quali siano, non è tempo ancora di rivelarlo. Questi, come
udiamo, colta una notte oscura, sono per assalirci tra’l sonno, quando nè può
risapersi ciocché è fatto, nè vaUomo a congregarci e difenderci. Fermi sono
d'investire ‘e di uccidere nelle case noi tribuni e quei plebei che st opposero
iy o fossero mai per opporsi ad essi circa la libertà. Quando avran tolto noi,
pensano di aver da voi ciò che resta, sicurissima ' mente, cioè che revochiate
di comun voto le concessioni da voi fatte alla plebe. Fedendo però che han
bisogno per compiere ciò di prepararsi occultamente una milizia di fuori, e non
piccola, si hanno eletto capo queir esule nostro, quel Ceso e, convinto delV
eccidio di cittadini, e della discordia della città, • e pure fatto per alcuni
di qua entro, fuggir salvo dal giudizio e da Roma, con promettere di
procurargli il ritorno, magistrature, onorificenze, ed altri, compensi de'
servigj. E questo Cesene ha protnesso di conduf loro, milizia di Equi e di
Eplsci, quanta abbisognane. Egli verrà tra non molto co’ più audaci,
introducendoli a pochi a pochi e '.sparsamente in ci/r tà: l^ altre milizie,
quando saremo periti noi capi del popolo si avventeranno su gli alpi del popolo
stesso, i quali difendessero ancora la libertà. Queste, o padri coscritti sono
le terribili, le impurissime opere che disegnano far tra le tenebre, senza
temere r ira degli iddj, nè riguai dare, la vendetta degli uomini. Agitati da
tanto pericolo, a voi ne veniamo supplichevoli, o padri, voi scongiuriamo per
gf iddj, voi pe genj adorati dalla patria, voi per la memoria dei tanti e gravi
nemici da noi combattuti in coma-, ne, affinchè non lasciate che noi patiamo le
sì dure, ed indegnissime offese : ma v’ 'empiate come noi di risentimento, e ne
soccorriate, e puniate, come delf~ Lesi, tali macchinatori tutti, o nei capi
almeno della infame congiura. E prima che tutto, dimandiamo o padri che
decretiate, come è giusto,. che inquisiscasi da noi tribuni su le cose
deferiteci; perciocché oltre, la giustizia, la necessità dee rendere,
inquisitori di-, agentissimi gV investiti dal pericolo. Che se alcuni tra voi
son disposti di non compiacerci punto, anzi di contrariarne in, quanto vi
diciamo del popolo ; volsntieri conoscerò da essi quale vi disgusti delle.
nosVe dimande, e ciò che vogliate da noi finalmente Che non facciamo forse
niuna ricerca, ma trascu~ riamo la si bufa e si rea tempesta che pende sul
popolo ? E chi direbbe li sì fatti decisori esser sani, e non corrotti) e non'
partecipi della congiura anzi chi non direbbe che temono per sestessi, temono
di essere scoperti, e quindi scansano che si esamini • il vero ? Perciò non
debbesi attendere a tali uomini. O vorranno forse che non siamo noi gl'
inquisitori 'di dò; ma il Senato e li consoli? Ma che impedirebbe che i tribuni
pure dicessero, che a loro che han preso a difendere il popolo / a loro si
spetta la inquisizione de plebei, se alcuni mai congiurassero contro de' padri
e de'consoli, e macchinassero la rovina del Senato ? Or che seguirebbe da ciò ?
questo appunto, che mai la indagine si farebbe maneggi reconditi. Noi però mai
ciò nort faremmo, perchè sospetta ne sarebbe f ambizione : e così voi non bene
adopererete dando mente a coloro che non vogliono che noi pure slam pari a voi
ne’ casi nostri, per fare F esame; ma benissimo adopererete riguardando questi,
come nemici comuni. Al presente, o padri coscritti, niuna cosa tanto bisogna,
quanto la sollecitudine: glande, imminente è il pericolo; e C indugio a
salvarsi è sempre intempestivo ne’ mali che non indugiano. Lasciando dunque le
altercazioni, e i lunghi discorsi decretate ornai ciocché F utile vi sembra
della' repubblica. eraoo i padri come rìsolfere: e riflettevano seco stessi, e
ripetevano 'fra loro, come fosse ugualmente arduissima cosa concedere e non
concedere ai tribùni di fare inquisiaione su loro, in affane comune e
gravissimo. Ma Cajo Claudio 1’ uno ajg de consoli, che tenea per obliqua quella
loi^ proposta, sorse e disse : iVon penso, o Kergìnio, che costoro sospettino
me come partecipe della congiura che dite macchinata cantra voi, e cantra il
popolo e sospettino che io sorga a contraddire, perchè temo per me o per alcuno
de miei che n è complice ; giacché il tenore della mia vita esclude in tutto da
me tali sospetti. Io dirò sincerissimamente e sema riguardi ciocché reputo £
utile del Senato c del popolo. Molta, anzi affatto s’ inganna Ferginio, se
concepisce che alcun di noi sia per dire ohe si lasci,, sema discuterlo, im tal
affare sì grande e necessario ; e che non debbono aver parte, nè star presenti
alla indagine i magistrati del popolo. Niuno è sì stolido, niuno sì malevole al
popolo che voglia ciò dire: Che se dunque alcun chiede, qual ne ho male, ohe
insorgo contra cose che io concedo per giuste; e che presumo io mai col mio
dire ; io, viva Dio, ve' lo esporrò: Io penso, o padri coscritti, che i savj
debbano considerar sottilmente i germi e le linee prime di ogni affare :
imperocché deesi di ogni affare discorrere secondo che ne stanno i principj.
Ora udite da me ciocch' è V intrinseco del subietto presente, e quale il
disegno de tribuni. Non riesce ora loro di ultimare ninna delle cose
incominciate nè proseguite nelC anno antecedente, perchè voi vi opponete ad
essi come allora, nè pià il popolo li favorisce. E ciò conoscendo cercano
necessitare voi, sicché cediate loro anche vostro malgrado, ed il popolo,
sicché cooperi a quanto mai vogliono. Ma per quanto se ne consultassero, per quanto
volgessero da,' ogni banda, V affare, non trovando mezzi semplici e buoni per V
uno e V altro intento ; alfine così la discorsero.. Lainenliamoci che alenai
nobili han congiurano di> abballcre il popolo / e di uccidere quanti ne
proca nino la salvezza. E quando avrem &UO, che tali cose, preparale da
gran tempo, siano. in cittA disseminate,; e sembrino credibili I popolo (e
credibili le renderà a la paura)} allora fiugeremo delle lettere da presenti
larcisi per un ignoto in presenza di molti. Ne amdre> mo quindi In Senato,
ci> sdegneremo, ci dorremo, e cercheremo il poter d’ inquisire su le
dinunzie dateci. Se i patria) ci si oppongono, prenderemo ‘da indi ^argomento
di calunniaiii presso del popolo; ed il a popolo esacerbato contro di essi
diverrà ^ propizio a X .quanto noi vogliamo. Che se cel concedono leveremo X di
città, come trovati complici, i più misgnanimi frA loro, e più nemici nostri,
vecch j ^o giovani. Impe rocchè coloro intimoriti di essere condannati o pat
tuiranno con noi di non più contrariarci ; o saran costretti a lasciare la
patria : e co^ la fàzipn contrap posta sarà desolata . Tali sono i loro disegni
p padri coscritti, e quando li vedevate che sedeano o consultavano ^ al~ lora
tesseano C inganno contro i più riguwrdevoli tra, voi, allora complicavan la
rete contro i cavalieri più puri. E che ciò sia vero ; presto ve lo dimostro.
Dì, yèrginio, dite voi, su quali pende il pericolo, da quali ospiti aveste la
lettera ? dove abitano, come vi conoscono', come seppero tali nostre cose ?
Perché differiste a svelare i lor nomi, perchè prometteste dirceli poi, nè li
avete già detti ? Qual fu V uomo che vi portava le lettere ? che noi menate voi
qui y sicché su lui cominciamo a diicutere, se vere elle siano y o se
piuttosto, come io penso finte da voi ? E gt indizj interni che si accordano
co’ segni di fuori quali sono mai questi? o chi mai ve li diede ? Perchè ne
celate, non ne pubblicate le prove ? Se non. che mal si trovano prove di cose
che non furono mai come io credo, nè mai saranno. Questi o padri coscritti non
sono indizj di una congiura contro loro ma piuttosto delle insidie e del mal
animo che essi covano contro di voi, come C affare dichiaralo • per sè stesso.
Ma voi siete -di ciò la causa, voi che concedeste loro le prime cose, e
portaste a tanta potenza codesto insano 1 loro magistrato, quando lasciaste
nell’ anno antecedente che giudicassero per falsi titoli Quinzio Cesone y 'e
soffriste che strappasSer dal seno un tanto difensor de'patrizj. Da ciò nasce
chepili non serban misura, nè tolgon di mira i nobili ad ano ad uno, ma
investono e scacciatio in un globo tutti i migliori della città : Eciò che è
peggio j non permettono nemméno che contraddiciate Biro, e V atterriscono con
darvi per i sospetti, e calunniarvi come complici de’ segreti disegni ^ con
dirvi ben tosto inimici del popolo, e citarvi al popolo stesso, perchè -subiate
la pena de’ discorsi qui fatti. Ma su ciò diremo altrove pià acconciamente. Ora
per istringere e non prolungare il discorso, ammoniscavi che vi PTOIftCr, tomo
in. ' it guardiate da codesti turbatori di 'Jioma, dti codesti seminatori de’
mali. Nè celerò già al popolo quanto qui dico ; ma gli sporrò liberissimo che
non pendo su lui niente di. male, se non quanto glien fanno i tristi ed
insidiosi ..tribuni, benevoli ne' sembianti e nemici ne' fatti. Sorse al dire
del console clamore m tomo ed applauso ben grande, e sciolsero 1’ adunanza
senza ^pertncHve che '^pià i tribuni parlassero. Dopo ciò Yergiaio convocato il
popolò, vi accusò il Senato ed i consoli. Ma Clandio ve li escusava apptmio co’
discorsi tenuti in Senato. Presero i più discreti del popolo per vana quella
paura: ma i più sjolidi per -vera, credendo le dicerie : e quanti ne erano I
più soellerali, ^anti i più bisognosi ognora di un cambiamento, vi xercaròno un
pretesto -di sedizione, je di torbido, doù che mi> ressero a far disceraere
il Vero dal falso. Intanto un Sabino non ignobile di lignaggio, potente in
averi (Appio Erdonio ih chiamavano.) si pose in cuore di abbattere la potenza
romana, sia che ne cercasse per sé la tirannide, sia che una grandezza ed un
dominio, ai -Sabini, sia che tina fama luminosa al suo nome. Comnni'catosi, in
quanto a tale idea, con' molti amici, divisata là maniera dell’ impresa, ed
approvatone ; riuni li clienti, e li più baldanzosi de’ servi suoi. Concentrati
In poco tempo intorno a quattro mila uomini, ed apparecchiate arme, viveri, e
quanto bisognava per una guerra, gl’ imbarcò su legni fluviali. ?iavigando sul
Tevere, gli approssimò a Roma dalla banda, ove sorge il Campidoglio, non
lontana nemmeno uno stadio dal fiume. Era la notte in sul mezzo: ed in Roma
calma grandissima. Egli dunque al favore di queo ottenuti i luoghi piu acconci,
ricever^ gli esuli,, liberare, gli schiavi, sdebitar con promesse i poveri, e
consociare a sestesso 4utti gli akti cittadini clie dal basso loro stato
invidiavano ..ed odiavano i potenti, e seguivano con diletto la mutazione. La
iipniagine. che deludevalo intanto che lo isperariziva di ottenere quanto
aspettava, era la civil sedizione, per la quale concepiva che più non vi fosse
amicizia, nè ligame tra i plebei e tra’ patrizj. Che non fosse a lui riuscita
ninna di tali cose r allora disegnava chiamare con tutte le milizie i Sabini, i
Yolsci ed altri vicini, quanti voleano iredimerst dal giogo esecrato de’
Romani. . Occorse, però che s’ ingannasse in lutto ; jmpe> aocchè nè si
diedero a lui gli schiavi, dè gli esuli ripatriaronb, nè gl’ indebitati q
disonorali 'anteposero'!’ utile proprio al comune, nè i sqcj esterni ebbero
spaziò abbastanza da preparare la guerra: giacché tale affare, che diede tanta
paura e turbamento a^ Romani, ebbe Gne ben tosto ne’ primi tre o quattro
giorni. E per verità, presa appena la fortezza, datisi gli abitanti dei luoglù
Questa porta fu chiamala ancora scellerata perchè poterono per essa uscire ma
non tornare i Pabj che andarono a Cremerà contro i Toscani j come iuiUcano
Testo ed Ovidio. Fasi. a. intorao che non erano rimasti uccisi, a gridare e
fug-' gire ; il popolo non sapendo che mai fosse, impugnò le armi, e Corse parte
ne siti eminenti y o ne’ spaziosi, che eran molti, della città, e parte ne’
campi vicini. Quanti perduto il fiore degli anni erano nella impotenza delle
forze, salirono colle, mogi) ai tetti delle case per combattere di là li
forestieri, parendo loro ogni luogo pieno di nemici. Fatto giorno, come seppesi
che 'erano in città prese^ le fortezze, e chi prese le avesse ; i coasoli
andarono al Foro, e chiamarono i cittadini alle arme. Li tribuni convooita la '
moltitudine dissero che non voleano far cosa contraria, alla patria ne’ suoi
pericoli ; ma che riputavaào giusto, che il popolo il 'quale espoùevasi a tanto
cimento vi si esponesse con patti espressi : Se i patrìzj, diceano, promettono,
chiamarti done mallevadori gli Dei, che Jinifa la guerra cìoon^ cederanno di
creare i legislatori, e di vivere pari a noi ne diritti per t avvenire;
liberiamo con essi 'la patria : ma se ricusano ogni partito di moderaziode ; e
perchè mai cimentarsi ?' perchè gettile la vita, quando niun bene' ce ne
ridonda ? Mentre cosi dicevano ed il popolo se >ne persuadeva tiè udiva le
voci di chi altro gli suggerisse ; Claudio. disse ohe non tJ>bisognavasi di
tali che soccorressero la patria non volontari, ma per prezzo e non ' lieve :
che i pcurizj armando sestessi e i clienti, e chiunque univasi loro
spontaneamente assedierebbero le fortezze ; Che se tali milizie non pareano
sufficienti; ne chiamerebbero ancora dai Latini e dagU Ernici : e se la
necessità stringesse, prometterebbero la libertà agli schiavi : cAe infine
inviterebbero, tutti, piuttosto che quelli che in tal congiuntura profittavano
della odiosità de' vec~ chj fatti. Contraddiceva a tanto Valerio 1’ altro
console : e giudicando che non dovesse mettersi in guerra coi patris) la plebe
già adirata con essi .-consigliava che si cedesse al tempo : si pretendesse da'
nemici esterni il diritto: ma si usasse helle gare domestiche equità e
dolcetta, E sembrato egli al più dei padri di aver dato il consiglio migliore,
ne venne all’ adunanza del popolo,e tenutovi un ' conveniente discorso, lo
terminò, giu> rando, che se i plebei si unissero a, lui con ardore sella
guerra, q, riordinassero le cose della città; concederebbe ai tribuni di far
discutere al popolo la legge che essi progettavano su la eguaglianza ne’
diritti, e che terrebbe modo onde ciò che fosse à questo piaciuto si eseguisse
nel suo consolato. Ma ‘non portava il destinò eh’ egli adempiesse alcuno de’
patti, seguendolo ornai da presso la morte. Sciolu i’ adunanza, intorno a’
crepuscoli vespertini accorse ciascuno a’ suoi posti per dare a’ capi il suo
nome, ed il militar giuramento; e fra tali due cure si consnmò qncl giorno e la
notte che lo segui. Nel giorno appresso furono compartiti e còllocati da’
consoli i tribuni sotto le insegne sante, aiTollandovisi la nioltitndine ancora
abitatrice della campagna. Ordinata così ben tosto ogni cosa, i consoli
divisero le milizie, e ne tirarono a sorte il comando. A Claudio toccò d’
invigilare innanzi le mura, aIBnché non entrasse in sussidio altr’ armata di
fuori ; perocché sospettavasi di un moto assai grande, e temeasi che
piomberebbero forse tutti i nemici su loro. Portò la sorte che Valerio si
mettesse all’ assedio delle fortezze. Altri duci furouò destinati sb I di altri
luoghi muniti, interni alla città ^ ed altri su le vie che menano al
Cartipidoglio per impedire che vi passassero al nemico gli schiavi e li
bisognosi temuti soprattutto. Non venne a Roma sussidio di alieniti, se non de’
Tnscolaili, informati ed apparecchiati in una notte e guidati da Lucio Mamilio,
uomo operosissimo, e capo allora della nazione. Questi soli entrarono con
Valerlo a parte de’ pericoli, et dimostrandovi Ihtta la benevolenza e lo zelo ;
rivendicarono con eSso le fortezze. Diedevisi da tutte le parti 1’ assalto :
chi adattava su le donde vasi pieni di bitume e pece incendiaria, e lanciavali
dalle case vicine in sul colle : chi recava, fasci di sarmenti, e fattine
cumoli ben àltj su lo sco' sceso della rupe gli ardeva, lasciando che il vento
ne trasportasse le damme: i più magnanimi ristrettisi nelle Schiere salivan
alto di su per vie manufatte : ma la motti(udine colla quale tanto sorpassavano
1 inimico, niente giovava ad essi che ascendevano per sentiero angusto, pièno
sopra di sassi da trabalzameli, e tale che i pochi vL divenivano bastanti
contro i mólti : nè la costanza acquistala tra le molle ‘‘guerre incontro ai
pericoli valeva punto per chi rampicavasi diritto sa pei scogli. Pcroccliò
facessi la battaglia con colpi lontani e Dòn a corpo a corpo onde moslraiwi
audacia e forza ; le arme lanciate da basso in alto giungevano, cotn -è
verisimile, se colpivano, languide e tarde ; laddove quelle scagliate dall’
alto in basso piombavano penetranti e piene, secondandone il peso, \ lor tiri.
Non però invilivano gli assalitori, ma persistevano, necessitati, tra' mali,
senza rèquie alcuna diurna o notturna : tanto che mancate finalmente agli
assediati le arme e le forze, dopo il terzo giorno gii espugnarono. Perdeèouo i
Ro mani in questa battaglia molti valentuomini, ed il console', valentissfmo,
come tutti concedono. Costui sebbene ricevute molte ferite, non si levava da’
perìcoli : ma saliva tuttavia la rocca, finché gli precipitarono ad dosso un
macigno, che gli tolse • la vittoria e la vita. Espugnata la fortezza, Erdonid
robustissimo che era di corpo-, e bravissimo in arme, destò strage incredibile
idtornct di sé, ma sopraffatto infine dai colpi morì. Tra quelli che -avevano
occupato con esso il castello, pochi furoRO pigliali vivigli più trafissero
sestessi, o perirono precipitandosi dalla rupe. Finito cosi l’attacco de’
Ladroni, i tribuni riprodussero le ‘interne discordie, chiedendo dal console
superstite che adempisse le promesse circa la istituzioa della legge fatte loro
da Valerio, estinto nella battaglia. Trasse GlandLò in lungo qualche tempo, ora
con espiar la città, ora con fare agl’ Iddii sagrifiz) di ringraziamento, ed
ora dilettando il popolo con spettacoli e giuochi. Alfine mancatigli tutti'!
pretesti disse, che dovessi nominare. in luogo del defunto un altro console,
perocché le cose, fìtte da lui solo non sarebbero né legutime ', né salde,' ma
salde saqebbero, e legittime fatte da ambedue. Respintili con 'questa replica,
prefisse il giorno pe’ oomizj ove farsi un collega. Intanto i capi dei Senato
concertarono con maneggi occulti fra loro il console da eleggersi. Venuto il
giorno de’comizj, quando il baDclitore chiamò la prima classe, le diclotto
ceniarie de’ cavalieri e le ottanta de’fanti ricchi di più possideusa entrate
nel luogo dimostrato nominarono console Lncio Quìdeìo Cincinnato, il cui figlio
Cesone ridotto a già di^o capitale da’ tribuni, avea per necessità lasciato la
patria: >nè più si > chiamarono altre classi a dare il lor voto, giacché
le centurie che lo aveano dato superavano per tre centone le rimanenti. Il
popolo si ritirò pronosticando il suo male, perché sarebbe il consolato in mano
di chi lì odiava. Il Senato spedi uomini che prendessero e menassero il suo
console al comando. Quinzio arava allora per avventura un campo per seminarvi,
ed egli stesso scinto di^ tonica, col pilco in testa, e con fascia ai lombi,
teneva dietro ai bovi che lo fendevano. Or vedendo i molti che a lui si
recavano, fermò 1’ aratro, e dubitò buon tempo chi fossero, e perchè sen
venissero ; ma precorrendo un tale ed ammonendolo ad acconciarsi, andò nell’
abituro, e acconciatovisi riuscì. Gli uomini spediti a riceverlo, lo salutarono
tolti non dal suo nome, ma come console : e messagli la veste circondata di
porpora, e dategli le scuri, e le altre insegne de’ consoli, lo pregarono che
in città si portasse. £ colui soprastando alcun tempo e lagrimandone disse :
questo mio campiceUo. in qilesto anno restar^ dunque non seminato, ed io
correrò pericolo di non avere come alimentarmene. E qui salutata la consorte,
ed intimatole che provvedesse alle coso dimestiche, sen venne a Roma. Or questo
mi son’ io condotto a dirlo non per altra cagione, se non perchè sì conosca
quali erano allora i primarj di Roma, come operosi, collie savj ; e come, non
che gravarsi di noa povertà onorata, ricusavano, non ambivano i sovrani poteri.
Dal che. sarà manifesto, che i moderni non so migliano a quelli nemmen per
poco, eccettuatine aiquanli, pe’ quali vive ancora la maestà romana e serbasi
una. immagine di que tempi. Ma basti su ciò. Quinzio preso il consolato chetò
li tribuni dalle innovazioni e dalle brighe su la legge, con intimare, ehe àc
non la finivano, porterebbe tutti i cittadini fuori di ' Roma, minacciando una
spedizione sui Volsci. E replicando i tribuni che lo avrebbero impedito di
arrolare l’esercito; egli convocata un’ adunanza, disse che lutti si erano
vincolati col giuramento militare di seguire a qualunque guerra fossero
chiamati, li con soli; come di non lasciar le bandiere e di non far cosa contro
Ja legge. Diceva che con assumere il consolato, ei tenevali tutti sotto quel
giuramento. Ciò detto, giu-> rando che si varrebbe delle leggi contro gl’
indocili, fe’ cavar le bandiere da’ tèmpli. £ perchè disperiate di ogni
aggiramento di pòpolo nel mio consolato, non tornerò, disse', da cnmpi nemici
se non dopo Jinitone il tempo. Apparecchiatevi dunque in quanto v è necessario,
come per isvernare nel campo. Sbalorditili con tal parlare, quando li vide
alquanto più mansuefatti supplicarlo di esser liberi dalla spedizione, dichiarò
che sospenderebbe in grazia loro la guerra, purché non fa cessero movimenti,
lasciassero eh’ egli reggesse il con[fi) Roma Catone Varrone] -solato a suo
modo, e dessero ed esigessero scambievole mente il giusto. Calmata la
turbòienza, ristabilì su le istanze loro li giudizj interrotti da tanto tempo,
ed egli straso decise il più delle cause colla equità e colla giustizia,
sedendosi quasi tutto il giorno nel tribunale, > io atto sempre
compiacevole, mite, umano verso de’ ricorrenti. Operò con questo die il,
governo non sembrale aristo cratico, che i poveri, gl' ignobili, ed altri
infelici comunque conculcati da’ potenti, OOn avessero bisogno dei tribuni, 'nè
desiderassero piu nuova legislazione per essere trattati cOn eguaglianza, anzi
che amassero e gradissero tutti il ben essere attuale delie leggi. Fu iodato
nel valentuomo questo procedere, òome pure, che fluito il suo comando,
ricusasse non che lieto riaccettasse il consolato offertogli nuovamente.
Imperocché il Sanato che vedea la moltitudine non alièna di obbedire aU’uom
buono, rivolealo a grand’ istanza nel consolato, perché li tribuni brigavansi a
non lasciare uemmen pel terzo anno il magistrato, ed egli sarebbesi ad essi
contrapposto rattenendoli dalle innovazioni colla verecondia o col terrore.
Disse che non appcovava cJte i tribuni non cedessero il grado loro ^ ma che
egli non incorrerebbe ' neir acciua di essi. E convocato il popolo e
lamentatovisi lungamente de’ riottosi a deporre, il comando, giurò
solennissimamente di non ricevere il consolato innanzi di averlo ceduto. E
prefisse il giorno pe’ comizi, e designativi i consoli, si ritirò di bel nuovo
nel suo picciolo abituro, c visse, come dianzi, col travaglio delle sue mtini.
> X aSi Divenuti consoli Fabio Ylbolano per la terza volta, e Lucio Cornelio
, e celebrando i patrj spet> tacoli, frattanto circa eeì mila Eqof, uomini
scelti, marciarono in lieve armatura nella notte, e la notte durando ancora
giunsero al Tuscolo, città latina, distante nemmeno di cento stadj da Roma.
Trovatene aperte come in tempo di pace, le porte, nè '"custodite le mura,
la invasero al giunger primo, in odio de’Tuscolaci > perchè erano gli
ardenti cooperatori dei Ror mani, e principalmente perchè essi gli unici aveano
fatto causa di guerra con loro nell’ assedio del Campidoglio. Uccisero certo
degir^uomini, non però molti nella invasione della città ; perocché mentre
prendeasi quei che v’ -erano, eccetto gl invalidi per vecchiezza e per mali,
fuggirono ^ spingendosene fuori per le porte. Fecero prigionieri, le donne, i
fanciulli, i servi, e diedero il sacco alle robe. Nunziatasi in Roma la
espugnazione,, i consoli conclusero che si dovesse bemosto provvedere ai
fuggitivi e rendere loro la patria. Opponendosi però U tribuni, non
permettevano che si arrolasscr soldati, se prima non si desse il voto su la
legge. Cònlurbandosene il Senato, e ritardandosi là spedizione, sopravvennero
altri messi 'da’ Latini colia nuova che là città di Anzio erasi manifestamente
ribellata, accordandoviki i Volsci, antichi abitatori di essa, e, li Romani
venutivi come coloni, e compartecipi de’ terreni. Giunsero contemporaneamente
de’ nunzj ancora dagli Eroici e dissero, che già era' uscita, e già stava nel
lor ter Adqu li Roma' 395 secondo Catone, 397 secondo Varrone-, 457 av. Cristo]
-ritorio un armata grande di Volaci e di Equi. A tali a^unzj parve al Senato
che dovesse > ornai,non indù giarsi, ma corrersi con tutte le forze da
entrambi i consoli : e che chiunque ciò ricusasse, romano o confederato : si
avesse per inimico. Or qui li tribuni cederono, e li consoli descrissero quanti
aveano età militare, e convocate le truppe alleate, uscirono bentosto in campo
; lasciando il terzo delle milizie urbane in guardia di Roma. Fabio n andò di
fretta coIF esercito su gli Equi fra’ Tuscolani : li più di quelli saccheggiata
la città, sen’ erano già ritirati : ma pochi ne difendevano ancora il castello.
E questo assai forte, uè bisognavi molto presidio. Adunque alcuni dicono che le
guardie del castello, dal quale, come elevato, scopronsi dj leggeri tutti i
dintorni, vedendo uscire da Roma un’ armata, lo abbandonassero spontaneamente:
altri però dicono, ebe postovi da Fabio l’ assedio si renderono a patti, e
passando sotto giogo ebbero in dono lai vita. Fabio venduta la patria ai
Tnscolani, levò l’eaercito sul far della sera, e marciò di tutta fretta coiv
tro a’ nemici ^ Equi e Volsci che accampavano, come udiva, con armata numerosa
intorno alla città dell’ Algido. Viaggiando tutta la notte si trovò su l' alba
a fronte dei nemici alloggiati nel piano senza vallo, senza fossa, come nel
proprio territorio', con disprezzo degli avversar). Or qui confortati i suoi a
farla da valentnqmini, piombò prima sul campo nemico con la cavalleria, mentre
i frati alzato il grido militare la seguitavanoAltri furono uccisi che
dormivauo, altri che sorti appena davano all’ armi, e volgeansi a resistere :
ma li. a53 più gettaronsi alla fuga e si dispet^ro. Presi con molta fiicilltà
gli alloggiamenti, concedette a’ suoi che vi s’impadronissero di robe e
persone, salvo quanto era dei Tuscolani. Non istette quivi gran tenapo, e menò
1’ armata'su la città degli Eccctrani, riguardevolissima allora tra quelle de’
Volaci, e fondata in fortissimo luogo. Tenutovisi più giorni da presso coll’
esercito su la Speranza che quei d’ entro uscissero per combattere, nè
uscendone ; diedesi a devastare la loro campagna piena di bestiami e di uomini;
non avendone gii assediati ritirato prima ciò che v’ era pel troppo repentino
giungere dèi nemici. Fabio 'lasciò che i soldati facessero anche qui le prede
per loro, e consumati più giorni nel farle ; alfine con essi ripatriò. Cornelio
T altro console mossosi contro i Romani di Anzio, e li Volsci sen’ imbattè colr
esercito loro che l’aspettava a’ confini. Fattovisi alle mani, uccisine molti,
e fugatine gli altri, s’ avanzò col campo fin presso fe mura: ma non osandovisi
più uscirne a combattere ; prima desolò la lor terra, e poi ne rinchiuse la
città con fossi e steccati. Vinti allora dalla necessità, ne uscirono novamente
con tutte le forze, che erano molte si, ma disordinate. Paragonatisi in
battaglia, sostenutala, ancor peggio, e fuggitine scoraggiti e svergognati, si
rinserrarono un’ altra volta tra le mura. Il console non dando ad essi tempo di
riaversi, portò le scale alle mura,, e ne abbattè con gli arieti le porte: e
cenciossiachè da entro vi resistevano affaticati e languidi; ve li espugnò
senza molto travaglio. Quanto eravi monetato, quanto di oro, di attuto, di
rame, fe’ portarlo neU'erario : gli schiavi, e le altre prede le fe’
raccogliere e venderle da’ questori ; lasciando a’ soldati, quanto ve n era,
alimenti, vesti, e cose • altretuli di lor giovamento. Poi scelti tra i coloni
e t^a gli Anziaii nativi i capi, clie eran, molti, più cospicui della rivolta,
e battutili lungamente e decapitatili inSne, si ravviò coir esercito alla
patria. Il Senato usci all incontro dei consoli che tornavano, decretando che
ambedue trion lasserò: si concordò, per finire la guerra, cogli Equi, che
aveano perciò spediti oratori, e nei patti fu, che ritenessero le cittò, e eie
terre che aveauo nel tempo che si conehindeva la pace, ma ubbidissero ai
Romani; non pagassero tributi, ma somministrassero ideile guerre, come gli
altri alleati, truppe ausiliarie. secondo >1 bisogno : e con ciò l’ anno
spirò. XXII. L’anno appresso fatti consoli Cajo Nauzio per la seconda volta, e
Lucio Minu^io ebbero per qualche tempo guerra domestica su’ diritti civili con
Verginio e li compagni di lui, tribuni già da quattro anni. Ma poi venendo alla
città guerra da-’ popoli iotorno, e paura che le tógliessero il régno ; presero
con trasporto l’ evento come dalla fortuna : e fatti i cataloghi militari,
divise in tre parti le milizie interne e confederate, e bsciatane una in città
sotto' gK ordini di Fabio Vibolano ; essi alia testa delle ^ altre uscirono
immantinente, Nauzio contro de’ Sabini, e Minucio contro degli Equi.
Iniperoccbé questi due popoli s’ erano di que’ giorni ribellati a’ Romani : li
Sabini manifestamente tanto, che si erano avanzati sino a Fideue, città
dominati da Roma, Roma Catone Varrone. I. a55 che ne era distante quaranta
stadj ; laddove gli Equi ferbavano colle parole i ^diritti dell’ ultima pace ;
facendola nelle opere da nemici, con movere guerra ai Latini, confederati di
Roma, quasi i^el trattato di pace non ressero mcbiuSo ancor essi. Comandava
l’armata loro Gracco delio ^ uomo intraprendente, che avea renduto quasi regio
il potere arbitrario di cui era stato adornato. Costui ne andò fino al Tuscolo,
città pigliata e saccheggiata ancora nell’ anno antecedente dagli E^ui, che poi
ne furono espulsi dai Romani, e rapi dalle campagne quanti uq sorprese‘ uomini
in copia e bestiami, guastandovi i fruiti, buoni già da ricoglierli. E giunta
un’ ambasceria, dal Senato per intendere le cause per le quali guerreggiavano
contro gli alleati de’Romani quando erasi di fresco giurata pace^con essi, nè
frattanto era occorso disturbo alcuno tra’due popoli, e dovendo questa ammonir
Clelio a dimettere i prigionieri che avea di quelli, a ritirare 1’ armata, e ‘
subire il giudizio su le ingiurie o danni fatti a’ Tuscolani ; colui s’ indugiò
lungamente scuz’ abboccarsele come impedito dalle occupazioni. Alfine quando
gli parve tempo di ammettere r ambasceria, e quando i. membri di essa ebbero
espresso gli annunzi del Senato $ egli Soggiunse: Mi meraviglio, o Romani, come
voi per^dominare e tiranneggiare., temale per Turnici lutti gli uomini, anche
senza esserne offesi. Voi non permettete che gli Equi si venr dichino de'
Tuscolani, contrarj loro., senza che ciò si concordasse nella pace, firmala con
voi. Se dite che abbiamo oltraggiato e danneggialo voi ; vi rinlegretemo a
norma de' patti : ma se venite a chieder conto Digilized by Goc^le 2 56 dell?:
Antichità.’ romane su Tuscolani ; nienle vale, che a me parliató, o vai quanto
parliate con quella pianta; e frattanto additò loro un &ggio , che prossimo
frondeggiava. I Romani cosi vilipesi da colui non cavarono subito,
abbandonandosi all ira, gli eserciti : ma repUcarono un altr ambasceria, e
mandarono i Feriali che chiamano, uomini sacrosanti,. per attestare i genj ed i
numi, che essi porterebbero, necessitati, una guerra legittima, se non erano
soddisbuti ; e dòpo ciò spedirono il console colle milizie. Gracco all’,
intendere che i Romani venivano, levò l’esercito, e lo portò più ad dietro,
seguendolo pasto passo i nemici. Egli volea ridurli in luoghi da vantaggiarsene
^ come addivenne. Imperocché tenendo in mira una valle cinta da monti, non si
tostò i Romani vi s’ internarono, egli voltò faccia, e si accampò su la strada
che conduce fuori di quella. Segui da questo,.che i Romeni misero il campo non
dove il volevano, ma dove la circostanza lo permetteva. Ivi nè era facile il
pascolo pe’ cavalli, per. essere il luogo chiuso da monti ripidissimi e nudi ;
nè facile I dopo aver' consumato quelli che portavano, procacciare a sestessi
gli idimenti dalle terre nemiche, o mutare il campo; standogli a fronte i
nemici, e, proibendone r uscita. Risolverono dunque usar la violenza, e
cacCiaronsi avanti per la battaglia : ma respinti e feritivi largamente si
richiusero fra le loro trincee, delio inanimato dal buon succedo li circondò
con fosse e steccali, su la fiducia che premuti dalla fame gli si (>) Lìtio
chiama quèrcia quella che i delta fiisgìo da Dioiùgi.. 2,5'J reoJerpbbero.
Giupta in i\oma la ao|ia di ciò. Quinto FabÌ9 lasciatovi comandaute, scelse il
fiore ed il nerbo suoi militari,, e li spedi per soccortere il console, sotto
gli ordini di -Tito Quinzio uome cousoUre, e questore. Mapdò, oopomeno letiére
a rCsuaio ra, e le .altre insegne ornamento un tempo de\. re. Saputo^ che Roma
.oIeggeval(> diltàtore, non solo non ' si rallegrò di up 4anio onore, ina
conr tuebandoseoe disse, adiaufue per io mio occupdzioni perud',pw e il fi allo
di ifUest' unno e noi.tidti rje avremo grande il', disàgio ! Dopò ciò recatosi
a Roma ( 1^, confortò su le prime i cittadini con discorso al (•y'-Amio li Roma
agS secu'mla Caloof, ajS fecondo Vsernas, t 4^ sv. Lfista. •. ZJYw.v/(;/. /tZf
'popolò' dà'enapierlo di beile speranze! Poi'^coavocAti mai i giovani dalia
Oittà' e dalia campagnì, soncenlrate le truppe ausiliarie, e nominalo maestret
de’ cavalieri .Lucio ' Tarquinio, 'ignobile per la povertà ma nobilissimo in
arme, Usci coll’esercito riuaiio e gianto >af questore Tito Quinzio c6e io
aspettava, prese ' pur le sue schiere, e né andò' sul nemico. Appe'Oi# ebbe
considerata la natura de' luoghi ov’ erano gli accampamenti cOilooò parte
dell'armatA ntdie aliuiié onde precladerc agli ^quà i sussidi ed i meri, e'
riieneodo 'seco le ah re naHizie lé avanzò cOn -ordiqe de 'battaglia, GleliO
phnto tion si sbietti, perocché nè la sua gente era poca, 'Oè poco il cor suo
nella guerra, e lo seooti^ nel sUo^ giagnerè, e ne sorse una pugna ostinata;
Era decorso buon tempo, e li Romani oom'e cresciuti ’fi'à''' le arme
rinovavansi Ognora al travaglio, e la cévallérià soccorrea |yron;a ove erano ì
iaHti'iti pericolo. Criccò dunque Eopra0altone, si ritirò nel suo cantpo.
Quinzio ' éllora 10 cifis^e con aho steccato e torri frequenti, e' quando seppe
a!6nc che penuriava' de’ vivevi, lo investi con assalii contigui nel stio
oéntfpo,' ordinando a hSinucfó che uscisse dall^altVà parte. Esausti gli Equi
di viveri, disperaii di un soccorso, -e streiii per ogn’ intorno Halr assedm,
furouo nécéssitéti à prender ibr&a dì ' su[^ {tlichevbli, e spedire a
Qoìozìq per la pace. E colai replicò che la daitebbe, 'e lasccrebbe agli Equi
iSalva la persona, se deponessero le arme, é passassero ad' uno ad uno sotto
giogo: traliersbbe però' qual nemico Gracco 11 capo tkUa guerra,, e gli altri
consiglieri delia rivolu. £ qui comandò che gli 'recassero tali '^ùoraiai in
ferri. l turno X. a59 [/milìaVaiui gli Equi' a lutto; quando' egli ordioó, che
giacobè aveano senza "esserne oilest previamettie, soggettilo e derubato
il Tuscolo città coufederau di Ruma, essi consegnassero a lui ' CorbioBe -,
città loro perchè ne lutasse altrettanto. Prese tali -rrsposta partirono gli
oratori, e dopo non molto tornarono traendo .con st Gracoo è i Compagni
incatenali. Essi poi cedute le arme, e lasciate 'le trincee t ne andarono ^so
t(o ^iogo, come era il volere del diltaiort,. à traverso .del.èaiupo romano.
Consegnarono tiorbione, e ebn restituire,i prigionieri tuscolaai ottennero
soUmeotè che ialiti prima ne uscissero gli uomini iagfenai. Quinrio ricevuta
ht" città, comaodd che. le prede pià -wgqardevoU sr trasportassero in
Roma, .concedéndo che le altre si dispensassero tra’ soldati venuti con esso, e
tragir altri spediti prima con Quinzio il questore ;, e" soggiungendo, che
a^ soldati rinchiusi mi console. Miiiudo avea dato ànjplissimó lono, quando li
rivenaiet dajla morte. Ciò 'fano, obbligando Minucio.a dhnettérsi djl suo
grado, si ripiegò verso IVoma, e'ne menò. Uionfo luminoio, più. che tutti .i
duci meuatoIo avessero perche in sedici giorni de’ die avea preso il còniaotfo,
'uvea salvalo l’ esercilò anaico, disfatto i’ altro floridissilno de’ nemici ;
saccheggiata la loto città, messavi guarnigione, e comku va • séco In catene il
capo, e. gli altri primarj di’qneUa gueira. . FaoeVa soprattutto ùieravigliu
die avtmdo ricevuto quel magistrato per sci mési non sei tenne quuito eonòedeva
la'> legge : • ma coni vocata la plebe, e ragipjiatuJe delie cosr operate ;
lo depose. E pregandolo il Schato che prendesse quanto vote delleterre, degli
schiavi delle prede conquistate colle armi, e pressandolo che vivificasse la
tenaiti sua con ricchexaa ginata, ché egli possederebbe 'glónosrsaitna, come
'tratta colle proprie iàticbe dal nemico', ed=o(fe rendo'gli' amici e pai'enli
amplissimi doni, e pregiando più che tutto' adagiare un tal uomo, egli '
lodatane la cortesia, non prese nulla, ma si ricondusse nel piodolo suo
campicello „ ' ed antepose ad nna splendida vita la vita 'tua travagliósa,
nobiliubdosi per la ^povertà, più che altri .non. sogliaho per l’ opulenta.
Dopo non molto Nanzio f altro console vinse in battaglia i vamente le armi
contro de’ Romani, e scorKroacchegjgiando assdi della lòr terra tanto che quei
che' veai vano int.copia fuggendo dalle campagne, dicevano tatto in poter loro,
quanto è tra Fidene e Cmstumera^ Anche gli .Equi sottomessi ultimamente
sorsero^ im’ afira volta alle armi: e recandosene > tra la notte i più
robusti a Corbìone, città ceduta da essi Panno antecedente ai Romani, c
sorpresavi, la gnamigioDe nel sonno >; ve la uccisero, salvo podhi‘^
che" per .ventura non v’ erano. Gli altri marciarono ju gran moltitudine
contro 'di Ottona, Anno di Roma 397 'secondo Catone, 399 seconda Varronc, a 4S5
Cristo.' . olimpiàde otlan dr Gitene vinse cìni de Latini, e -presala a prim’
impeto, fecero per la rabbia su gli alleati de’ -domani, docebè non potevano
su’ Romani medesimi ' uccisero tutti > puberi, eccetto quelli -ette efan
fuggiti udì’ invadersi della' cillà-r rende-, rono prigionieri, donne,
fanciulli, vecchj,, e raccoltovi in fretta quanto poteano trasportar di
pregevole,' ripar tirono prima'' che v’accorressero tutti.! Latini.,11 Senato
saputo ciò da’ Latini, e da’ militari salvatisi della guarr. nigione, decretò
di 'iàr uscir le milqsie y e con ùse i due consoli. Ma Verginio e i colieghi,
tribuni già da cinque anni davano a ciò ritardo, opponendosi come negli -anni
antecedenti alla scelta militare,, che faceasi pe’coqsojij.u reclamando che. si
Sdisse prima la guerra domestica, -con rimettere al popolo l’esame della.
legge, che davano sò la eguagliauaa .dei diritti : e la plebe ooadjuvava t
ttibaui che asiaf malignavano, contro, del Senato. Imapto temporeggiandosi, nè
comportando i consoli,’ che si facesse in Senato il previo decreto su la legge
e si proponesse al popolo né volendo i tribuni concedere la leva e la marcia
delle, milizie, an^i facendosi accuse inutili e dice^e vicendevoli belle
concioni e nella curia,, alSne fu ideato da’ tribuni -uu altro disegno^ che
sorprese l padri e chetò >U sedizione attuale,^~ma fu causa di molto
ingrandimento per il popolo: ed io sporrò .come il popolo se lo ebbe questo
incremento. Essendo manomesso e predato il. territorio de’ Romani e de’
cOufederati, e spaziandovisi i nemici come per una solitudine su la speranza
che nou 'Uscirebbe oontr’ essi esercito. alcuno a causa dcHe sedizioni di Róma,
i consoli -adunarono il Senato per consultare come sy pericolo estcetno.
Tenutisi raoUi discórsi, liichestò il primo dei parer suo Lucio(^uiozio, il>
dit latore dellVarìBO, aotecedents, >ttomq,noo/^solo -il più grande allora
fra le armi',; ina creduto ancora savissimo nel govefoo', propose il coniglio d
^ale poi persuase più che tnttq'i tribuni e gli altri, che si dij^erine in
tempo più accóncio t esame allora ‘non riecessario della legge, è si /accise
con tutta prontezza la guerra alfutJe’, scorsa ornai /no, su la etllà r nè si
perdesse imbeflemente e Mtuperosasnente il comando con tanti stenti acqmstato.
H che se il popolo non -ià-s' tmiceva; si armassero patrizj e clienti,
conguanti altri vòleano far causa con essi in qaeil aringo ‘nobilissimo della
patria, e ne andassero ardenti al nemico,pren^ dendo per duci dell andafpiento
i Numi 'protettori di Roma. Imperocché ne verrebbe lune 'o laUi^ buono e bel
fratto^ vuoi dire ò che riporferebbefo ima vittoria la più gloriósa fra tutte
le riportate "dai loro ptaggiori, o che magfianimi' niorirebbero pe' beni
che sìeguòno la vittoria. 'Annnnzìaira c4e> egli stesso ^n si ricuserebbe a
tanto .esperimento, ma presento vi pugnerebbe' qeaniq i più coraggiosi', e ‘che
rpempieno manchérebbevi alcuno seniori che amasse-.la libertà e li buon nome.
Così piacitito a tutti, Senza che alouna vi ù -óppon%sc, i consoli convocarduo
il popolo.' Cbacorsi quanti erano in Roma come per ndieofa di nuov^ co se,
fattosi innanzi Cajo Orazio, l’uno de^ consoli, tentò volgere spontaneamente i
plebei anche alia guerra pre sente. Ma perciocché i tribuni vi 'ripugnavano,
'ed i LTUno X., 263 plebei,!a> senti vn coq essi; recatoseli console Un
altra volta in tneszo disse : Beìia marlwigliasa impr^a ifi vero é^la vostra -o
f^ejrginìo ck^. abbiale stacpatò U popolo dal Senato ! e cho. dal^ canto vostro
avesstmo già perduto quanto abbiamo, ereditato dagli .avi, e ffuanlo .oUepiUo
co')Ttoftrì sudori Ma noij npn, cederemo noi questo, senza lordarsi nemmeno di
polvere) ma impugnando le orini con .quanti vprrap salva la patria ne andremo
al cimento, i^erantiti su la bontà dell’impresa. E se àLui}' Dio rimìui. le
belle.,, le' giustissime imprese') se la sorte che da tanto ' tc/Apo prò •
spera questa cillà -, non t ahbqndona sqibnontereniò il nemico., Ma se alcun,
Dio me gravita. sopra 4 c’ ci si oppope per, bt salvezza . di -Jiqma ) certo JC
voler nostro x di nostra propensione non perirà-; che Jortissimamente per la
pat/ia moriremo. 'E voi li belli, U generosi capi che siete di ' Roma, guardata
pure colle vostre mogli le case, abbandonando e tradendo noi:,, ma nà te noi
vinciamo onoràta sarà la vostra vita, nè sicura se perderemo. Se pur non siete
‘animali (lidia misera speranza che inémici dàpo.' rovinati i patrizj,
preserveranno voi per gratitudine, a coricederànuo che godiate la vostrd
patria, la libèrtà, il comando, e tuUi t befù -^/ie ora v’ avete. Sb, questo
appunto a voi copeederanao cfue’ nemici a' quali men / tre vói pensavate pìà
'saviamehte avete levato tardo iersìtorio, distratte ttgtle c'ktà, JaUine'
schià^i i >popoli, ed irudzati toni itrofei, tanti manUmérUi di nemicizfa, e
sì luminosi, che mai^per età non perirahpo. Ma perchè io mi addoloro còl popolo
il qtude non fu mqi taUù’o ài voter non piit tosto o Vt^fginìo con Voi che per
si bella maniero, io dirigete ? Noi' certo necessitali b. non -pensar bassamente
noi deliberata abbiamo, e ninno cel vielirà, 'difarci a combattere per la
patria: jna voi che abbandonate, voi che ^ tradite il comune, voi neavrete
condegna, irreprensibil vendetta dal cielo: nè' fuggirete ‘già questa, se
quella fuggite degli uomini. Nè crediate già che io ciò dica pertatterrirvi :
'ma sappiate che quanti siano qui lasciati per guardia dèlia città, se mai gf
inimici prevalilo Ho ^ ne destineremo come a noi si conviene.' Se od alcuni^
ìfarbatì, ornai tra le unghie de' nomici, venne in cuore di non lasciare ad
essi' non le mogli, ~hon i figli, non le cùlà, ma di ardere .gueste, e di
uccidere 'quelli; non farànno altrettanto sé" li Èomani de' quali è
proprio il dominare.? ' Certo' degeneri non saratmo : ma còmi notando da vqi
> che' nemicissimi Stata,s. ogrii amica\lor cosa distruggeranno. ^onsidarMe
ora up'i questo, ié> considerandolo ; fatevi -le adunatvte e le leggi. ' ~ •
Detto tali ^ose e ‘molte consimili, presentò li più provetii de patrie] che
piangevano. A tale''s[>euaoolo molti del popolo boa contennero nemmeno essi
le la gtime: t destatasi grande commoxlone per gli acmi e per la maestà di tali
uomini, il console sopraÀandò alquanto disse : 'Impugneranno questi seniori le
'armi per voi giovani nè' voi ve nè' vèrgognelete, occultandovi' fin .sollotarm
é" vi terrete lontani da questi duci, che padri sempre, avete nominati ?
'Sciaguo^i voi ! nè degni pure di èsser detti cittadini -di questa èittà
fonSala "da c'olbro che àveano por iole fpaile il padre, aperto loro dà
numi lo teatnpo ^ra le armi e le fiàmmè Catm Yergioìo temè ciré il pòpolo fosse
commosso dà) quel discorso per non SDfhii{V 'dl dover mettersi quella guerra
coOlro il sub dire, fecési avanti' e soggiunse; Noi non vi abbandoniamo'né. Vt'
6-adiamo, Hè mai vi .abbandoneremo o padrii come per addietro mai'^ foste da
noi derelitti su, et impresa niurtae di mettere custodi' delia libertà te leggi
a cui tutti ubbidiscano^ Che se ciò vi .sa male p, Se sdegriate concederle a'
vostri cittadini questa grazia,' e'^ riputate com’ essere la mocte. vostra
ammetlére il popolo nelC eguaglianzd; non' pià vi darem briga su dà, ma vi
chiederemo ' altro' dono, avuto il quale farse noh avrem pià bisognò di nuova
legislazione: se nonché ci vien paura che non ottérremo nemttten questo,
sebbene non sia ponto lesivo dei Senato, e sia ^uUo bmief ceedonorevole al
popolo. E replicando il 'consoleche se rimetteanb la istanza vai Senato, non
sarebbe oegata loro cosa, che discrcia fosse-; ed invitandoio a dire ciocché
dimandasero, ' Verginio abboccatosene alquanto ^co’-suoi colleght rispose, che
lo dirèbbe al Senato, 'fiopo ciò Ji consoli adnnarooo il Senato, ed egli
venutovi ^ e divisatovi quanto edmpetevasi al po>pólo, chiede che si
duplicassero i magistrati del pòpolo, ed .ogni anno in luogo ;d> ciò que ài
nonaipaiserD dieci', tiibuni. Alcuoi, ca{>0 de’qaaii era Laoio QuipzioV
àatorevolissinto Pilota, in v Senato, pensavano clie.ciò pon. offenderebbe Ja
repubblica e ooDsigll nico vi si'dppose Cajo Claadio, figlio di Appio /dau dio,
deir avvertano 'perpetuo a voleri del popolo, se non erano ^a nórma 'delle,
leggi. Egli ereditati i ' sentimenti del padre, impedì quando. fu console che
si concedesse ai' tribpni d. inquisire contro de’ cavalieri, calunniati di
congiure, ed ora con iuiligo ragionamento di^ mostrava, che il popolo non
diverrebbe più moderato e più docile y ma più incansiderato e più grave.
lùiperocchù appelli che sarebbero ' dt poi giunti 'al iribonaio noi
prenderebbero gii' per questo eoa. legame' .che li tenesse ai patti, ma beP.
presto tratter^bero di divìsioue di 'terre 4^ dl,e^[}ia|ità dì drritir',,e
certdtei;ebbera parlando e ..brigando de cqiUe cose, estensive 'delia potenta
del popolo, eotne dmpaqenti 1 onor del .Seoato^.-ìlfosse ntolti tH^ tal dire
graodemeote i. ma Quinzio a ritrasse ammaestrandoli voler 1’ otite del Sedato
che i tribooS si moltipKcttseil, giacché i molti men 8’ at^rdan dei poclii t
esser rocspediziooe>^ Toccò a MìducÌo Ja gaem co’ Sabfm ad Orazio 1 altra'
eoo gli Eqaiye ben lostb marciarono ‘atubedi^e. L Sabini gtuuy dando le Idko
città.; non curarono .'che' ì Romani si menassero >6 portasae.ro quanto .r’
era pez le campagne. Gii Equi a|ledirono 'Ito’ armala' per coalrxitarli; ma
-tutto ebe pugnassero nobilissimamente / non poterono superarli, e si
ritirarono ne^sitatt oeile loro^ città, perduto il castello pel quale avaano
co/nbattùlo'. Orazio respinti i nemici, -iPatto assai danno alle, lor itette.^
abbattè le mura di Corbinne r ne rovesciò da’ fondamenti' le mse, e -ricondusse
in Roma l e(wreito. Sotto Marco Vaieriòy e Spurio Verìpoio consoli delH anno
segne'nte, non osci dà’ confini nato, e • convoràlv. il Senato. E condosslachè
un littóre, comandatone, rispinse Taraldo ; icilio e i suoi coUeghi degnatine
presero e trassero 'il littore me per balzarlo ^la ‘ rupe I consoli tuttoché
sen tenesseró 's[^giatls$inù non poteano.fiir violenza, e redimere quel
prigioniero: e''^i volsero ptf ajuto agli altri' tribuni-: 'Perooché niuu pifò
sospendere p proibire gli atti di alcun tribuno, se non quegli che tribuno, sia
parimente giaqchéji tribuni s’ erano preoccupati già, da molti e potenti. Unico
-contraddisse .a.tal dire Caju Claudio, comprovandolo molti ; ma -si decretò
che il silo al -popolo sì concedesse. Dopo ciò. presenti i pontefici,‘ gli
auguri, e due sagrificatori, fatti secondo il rito.sà^ifizj e preghiere, e
convocati da’ consoli i 00niizj centurìati si 'confermò la leg^e, e descritla
sQ colonna^ metallica, e portata ne|l’ Avventiòq ' fu collocata nel tempio di
Diana. Poscia coqgregatisi J plebei tirarono a sorte il suolo dove fabbricare e
fabbricarono, occupando ciascuno, lo spa^o che poteva. Unironsi al-r. • i r
edifiso dì qò^lcke cak due o M' pèrsone, e talvoiu piùancora, prendendosi uno i
pianterreni . e gl! ahri i piani,'àupdnori. E 'cosi tl’. armo si consumò
eoj^i^bbricare. Riusoi pesò complicatò e varìo e pieo di grandi avVenluee l’
anno seguente (j)’, nel optale eletti consoli .T'ito' Ro™iliO e Cafo Veturio,
furono riassunti al Hribanale ‘Icilio e i coUegbi. {mperoccfaè fu di nuoro
suscitata da’ tribuni la dril sedizione ebe parea venuta ihene; e sorsero
guerre dagli' esteri : ma queste non 4^e danneggiarla, ' giovaróno non poco la
repubblica, non toglierne gl’ in^rlH diSsidj ; essendole’ consueto e
viceodevole di ' esaére ’anaoime tra le guerie, ma discor> diosa' nella
pace, distraiti - di ciò quanti salirano al con- solato prendevano eoo
trat^rtOi se nascevaoo,Te guerre cogli esteri. E ce i ^oemìd erim' 'cheti ;
essi stèssi finge- vano’ manoanze pretesti 0' debi- ^litavasi tra lo
sedizioni.' Animati nel modo 'stesso i-'oOn soli 'di quest’'am^, deliberarono
cavar 1' esercito' contro L taemìci spi timore che i' poveri e gli oziosi.
qoaiìn- ctassero a perturbare - la pacel Or essi- ben la rutebde vano,'cbe
'vuoisi- distrarre la mollitudioe ndle gtiè'rre cogli esteri i’hia non beò
intendevano com’ eseguiscasi.' ' Quando avrebbero dovuto flir leve moderate ì
Qotìae ilo città mal affetta ; si diedero a 'castigarvi colla forzà tùtii i
’ranitenti i senza Cfonsazione o dispensa, iriando ine- sorabili ^il rigor
4elie. leggi sù gli àVen> e su le persone. 'ny Anqo di' Roma agg secoodo
Calooc, joi seoondo Varroue, a 453 av. Critto.. Presero da tal proceder^
occasioae di bel onovo i tri buoi di concitare la plebe ; e radonatala, vi
strepitarono per più cause, come ancora, perchè aveano. .fatto portar nella
carcere molti che reclamavano 1’ ajuto de’ iriboni: e dissero che' essi che
soli he aveano l’ autorità dalle leggi, gli assolveano da quel rechi [amento. '
Vedendo però che niente ne profittavano, anzi ' che laccasi la coscrizione piti
severamente, incominciarono ad oppor visi co’ fatti. E resistendo I conscM
.colla forza del grado loro ; sen fecero altercazioni e scaramnCce. La tenea
pei consoli la . gioventù patrizia, ma teneala • pe’ tribuni la turba oziosa e
povera : e quel giorno assai prevalsero i LODSolif su' tribuni. Ne' giorni
appresso versandosi in> città più turba. dalle campagne, i tribuni, vedutisi
òmai con forze' da contrapporsi, convocarono assai spesso il popolò-, ^e
mostratigli'! ‘minbui loro malconèr ' dalle piaghe, prolestaropo che
deporrebbero il magistrato se non erano da esso gàraoliti. Irritatasene la
nioltitudiée ; dt^'no i coiv soli a ' dar conto al popolo del procedete' loro.
Nóp gli attesero questi; ed andatine i 'iribòni alia curia ove il Senato ^a^e
va 'già consultandoqe lo.aupplicaroooi a non trascurare essi tribuni, offesi
-bruttisiihiàmrate, uè il spopolo, che era dell’ aita loro privato. -^E qui
ùàrracono quante ne aveano sopportate da’ consoli, e le mapohinazioni di quesb
contr essi ond’ erano svergognati' non pure flel grado ) ma' nelle penonc.
Laonde chiedeaao che ^.consoli facessero l Una delle due, vuol dire, se
negavano di aver fatto . cesa vietata datie leggi controde’ tribuni vemsserò e
giurando Ift negassero all’ adoaaaza ; se di giurare non sostenevano,
venissero, c vi rendessero, conto ; e le tribù entenziereLbero su loro. Si
difesero i cousoli,. dando a vedere ebe i tribuni erano la origine de’, mali,
per la caparbieti, per l’audacia di profanare Je persone de’ consoli, prima con
avere imposto aisatelliti jorp 'e agli edili di portare in carcere uonjini
rivesliti di ogni potere, e poi con tentar di assalirli col raeazo de' plebei
più temerarj ; e qui sponeano quanto fosse il^ divari a dalla tribunizia alla,
consolar dignità, piena 'questa di regio potere, e nata l’altra solo per
protegger' gli ttppressi. Tanto esser lungi che potes^ro far votare la
moltitudine contro de' consoli, che noi póteauo nemmeno contro il minimo de’
patriz| senza un decreto espresso del Senato. Pertanto 'minacciavano, se i, tribuni
faceano' votar la moltitudine di dàr. rju’me a patria). Continuandosi ‘ppr
tutto.il giorno i pochi contro de) ' r • . Vedi Ii che si ripiegasse lo sdegno
su’ lor fautori, castigandoli a norma delle leggi. Se quel giorno i tribuni
trasportati dall’ira lanciavansi a far cosa alcuda contro del Senato, p de
consoli, niente avrebbe impedito che la città di per sé rovinasse. Tanto eran
tutti pronti per armarsi e .combat Uni t Ma perché sospeser 1’ afiàre, dando '
a sé tempo per meglio consigliartene; serbarono essi ' moderazione, e r fra del
popolo n'n fu mitigÀa. Intimarono pel tc^'zo mercato dopo quel giorno una
assemblea popolareove condannire; i consoli ad una emenda in mgeoto, e
sciolsero 1’ adunanza. Approssimandoti pe^ò quel -giórno desisterono anche da
lah intrapreta dicendo, di coneedecp ciò alle istanze di uomini i più
'venerandi per anni e • per grado. Poi congreg-indo il popolo; dichiararono die
essi rimettevano le offese proprie, sul desiderio di motti buoni, a’ quali nop
era lecito contraddire : ma che le ingiuri^ fette al popolo e punirebbero
queste, anzi le toglierebbero. Imperocché diretumente aggiùngerebbero tra le
leggi pnr quella su la divisiori delle terre differìlit ornai da treni’ anni, e
quella su’ diritti eguali r • N. ’ Kel lesto v^it nuot’aiiante, forse ot nè per
dono,> nè per compera, nè per altro legittimo mezzo che^ possa
dimòstrarvisi. Se ne avessero questi dimandata parte pià grande, che noi dopo •
avere come noi tra~ vagliato neW acquistarle ; certo non sarebbe stato de gno
di uomini, degno di cittadini che pochi si ap propiassero" ciocché era di
tutti; ma pur stata una causa vi sarebbe a tanta ingordigia^ Ma quando non
potendo dimostrare alcuna opera grande e magnanima per la quale si tengono
ciocché è nostro, non sen vergognano 'né lo rilasjdano y nemmeno convintine ;
chi potrà comportarli? Or su, per Dio, se io nfetilo in ciò, venga chiunque di
questi onorandissimi, venga, e dimostri per quali splendide e belle gesta
presuma pià parte di me. Forse ha guerreggiato pià anni, in pià battaglie, con
pià ferite, con pià onore di po rotte di spoglie, di prede, o di cUtre marcfm
da vincitore, per le quali /’ inimico se ne umilia, e la, patria >
magnificata ne sfol^ra ? Dimostri il decima almeno di quanto io v ho
dimostrato. Per, certo i pià d’ essi non potrebbero allegare nemmen. la minima
parte delle mie gesta : anzi alcuni di loro non par.^ rebbero di' avere
sofferto nemmen quanto il popoletlo pià basso. Grandi essi ne detti, noi sono
certo nelle armi, pià vagliano contro l' amico, che a fronte dell' inimico: non
pensano essi di avere una patria a tutti comune, ma propria di loro, quasi non
siano stati per noi liberati da’ tiranni, ma dà tiranni ab-^ biano noi preso
come un lòt bene. Questi (perocché bacaselo /e ingiuriò continue pià o men
^andi j eh tutti sapete ) sono giunti a tanta in scienza ^ efu^.non soffrono
che alcuno di noi dica libere yoci, o che solo apra la bocca su la patria. E
'Sputió Cassio, quello che ptimó^ parlò su la le^e agraria-, quello che
illuitre per tre eonsólati, e per, due trionfi gloriosi, e che avea dimostrato
tanta solerzia nel comando nplitare e civile, quanto niun altro in quei tempii
qùeH' uomo si grande lo accusarono i con•soU’j come intento alla tirannide, lo
sopraffecero con falsi teslìmonj, e, Jìnalniente^ precipitandolo dalla rupe,,
Io uccisero', nè per altra cagione se iwn perché era V amico della patria e del
popolo.' E Cajo Genuzh) tribuno' vòstroche riproduceva dopo undici anni la
stessa legge, e citM>a in giudizio i consoli deir anno antecedente come
trascurati 'a compiere i v decreti del Senato tu la partition delle terre, lo
lèvaron di mezzo appunta il giorno avanti, il giudizio con occulte maniere i
non potendolo colle manifeste. Donde tte venne .a successori grave timore, e
niun più st mise a quel rischio : e già sono trend anni che sopportiamo, quasi
perduta il nostro potere nella tirannide. Ma lasciamo il resta. I magistrati
vostri attuali, quelli che voi avete rendati siseri per le^e ed mvMabili, a
quanti mali non incorsero per voglia di difendere gli oppressi tra 7 popolo ?
Non furono questi ètpulsi dal Foro a pugni e calci, e con ogni altra guisa di
vilipendj ? Vò 'siro era V affronto; e voi vel comportaste nè cercaste
vendicarvene con., i'^g darne i voti almeno, in che solo vi resta la libertà. e
Ma su prendete spirita o miei cpmpopoUiri. Presene tino i tribuni la legge su
la partizione dellecampagne'; _e voi la confermate co’ voti vostri, nè soffrite
pur voce chi reclami. Voi non abbisognate o tribuni di esortazione a questi
opera ; voi posti vi ci siete, e benissimo fate a non desisterne. E se la
caparbietà', se là insolenza de’ giovani vi' si opponga, e rovesci le urne in''
che i voti raccolgonsi, o./i voti vi levino, o scondita tal, altra cosa nel'
dar de sofì fragi ntastrate -loro quanta ' il potere siasi del tri i bunato.
Che se non è lecito degradar^ i constai, sot topOnete ai. giudizio i privati,
de’ quali si vatgonó per le violenze ; e fate che il popolo' voti su loro come
su conculcatori delie leggi sacre y e distruttori del dostro magistrato. Or Jui
cosi dicendo, ta moltiludibe nè fa cóm> mossa tanto intimainente, e
manifestò tanta ira contro gU oppositori, che, copie ho divisato dai
princt[yio, non vofesa memmen tollerarne t discorsi. Quaodo sorgendo Icilio
tribuno dii^e : che eran pur buoni 1 suggerimenti di Siccio, e lan^mcnte lo
encomiò, tuttavia dimostrò cìie non era cosa nè giusta, nè sociale negar la
parola a chi vojeya perorare in contrario, prìncipalmeote' di> acutendosi
una legge colia quale far prevalece il diritto alla Ibraa varrebboosi di
occasioni consitnili, qpelK che non avevano pensieri eqni uè ginstì sul popolo,
a turbar la pUè novamentp, e'rimovetae ciocché le gio /asse. E ciò detto
prescrivendo ^ il giorno seguente ai, contraddittori della legge, sciolse 1’
adunanza. I consoli a4umildjili oiuiglio privato de^'pairìxj più energici al
lora e più floridi, dimostrarono cbe dovea leg^ impedirsi per ogni modo prima'
colie parole, è poi colle opere, se il popolo non lasciasse persuadérsi.
AdunqH^ raccomandavano a tutti che andassero la ma^a al poro ciascuno quanto
più poteva con amici e cliènti:, e quindi che alcuni ài stessero .ed
aspettassero intorno la tributiti onde parlasi all’ adunanaa, ed altri in più
crttcchj tna>. versassero il Foro, per intraccbiudere, il popolo, é vietarne
la riunione. Parve questo U partito migliore, e prima cbe il di si chiarisse,
erano molli posò del Forò presi gii 'da’ patriÉj. Vennero dopo ^ciò li' Iriboni
e li consoli, quando il banditore invitò chiunque voleva dir contro la legger
Presemaronsi perciò molti onesti uomini, ma il remore e il disordine non
lasciai ascoltarne le voci. Imperocché qoal déflli astanti esortava 'ed animava
i di ^ cuori, e quale gli urlava e'rigettavali nè la lode'preyalèva de’fautori,
né lo strepito degli avversar): Sdegna ronsi .protestarono r consoli, che il
popolo dava prìn cipio alla vioTenza col non volere ascoltare: ma replicarono i
triboni che avendo essi ascoltato ben per cinque anni, non laceano cosa da
odiarnéli, se non voileaoo più tollerare trite contraddizioni, e rant^de. Còsi
ne andara il più delia giornata, quando il popolo chiese di votare/ Allora i
giovani patria) credendo che più non iCoise da sufferire, impedirono il popolo
che si raccogliesse in tribù, tolsero a chi li portava i vasi de' voti, e battendo
e spiugendo, cacciarono quanti erano a ciò deputati, nè $en parlivauo. Alzarono
le grida i tribadi e géttaronsi nel _ méz^o di essi : e questi cederono e là
sciarono die ipvioiati ' passassero ovnnqne, ina passare ovnnque nob Isàdavano
il popolo'xbe li seguitava, o quello che tumultuando e disordinandosi qua e là
per lo Foro moveasi verso di loro. Cosi divenne inutile al popolo il soccorso
de’ tribuni : ed i patrizj ila. vinsero, nè lasciarono che si ammettesse la
legge. Le famiglie che più sembrarono coadjuvare i consoli furono le tre de’
Posiumj, de’ Sempronj, de’ Clelj, cospicuissime tutte per lo splendor de’
natali, e potenti assai per amicizie; per ricchezze, e riputazione, .come
insigni per le imprese nella guèrra. Si consente che da questi -dipendè
prìncipalmebte che la legge non si ammettesse. Nel giorno, appresso i tribuni
prendendo i l>le bei più rlguardevolT discùssero ciocché fosse da ‘fare: e
tutti di comun voto statuirono di non citare in giudizio i cposoli, ma i'
privati che erano stati loro! minjstrij; la punizione de qudi ecciterebbe come
Siccio' avvertiva meno diceria contro del popolo. Adunque cominciarono
dih'geotemcnte a discutere, quabti 'fossero da : processare, qpal titolo
Ressero al giudizio e qtialé. ne sarebbe, '.e quanta la pena. 1 più buj di
carattere consigliava nò che si desse a tutta un aria di graveùa e di terrore f
in opposito i' più miti voleano moderazione e ^clemenza, é Siccio era,il' capo
di questi, e ve li persuase ; io djco colui che perorò per la partizion delie terre
diuonti del popolo. Parve loro che si trascùraaserogli àitri patrizi, e si
menassero al popolo i Clelj, i Posiumj, i Sempronj a subirne le pene 'delle
opere' fotte : si ! accusassero,’ .di aver soverrbiato .ed rnipedUo i tribuni
dal forc'uliiiiutre la deftsioQ 'della legger qaido lè l^gt facre -dei Senato-e
del popolo,hqn tsoucedoM ad; alcuno, di p/dl^i ri chiuso t ed alfine sen venne
il tempo di giudicare coloro. I cooteli ed i, patria] (rau questi i migliori)
a^^ sunti per consultatvisi -opinavano che si dovesse concedere a! tribuni, la
punigione, affinché i|upedki Uoa causassero male tpaggiore 1 e lasciare che i
^plebei furi-' Ixmdi versassero r ira loro sù le.soÀanxe degli accusati
affiprhè paesane arendeita quanta ne voleanp, V iirq>Ucidnsero pér l’
avveAire prinoipalmente ché il danno negli averi potrebbe risarcirai a chi
aosteuevalo. Or Unto appunto àddivénne. Imperocché condannati questi,
scnaaapptfrìre in giudizio, il popolo Inasprito se ne^raddolci,ì tribuni
pensarono che fossè rendalo, loro un moderato eivil potere e sostegno: ed
i'patrizj -restituirono ai condannati le lo'to ^stanze reiHmendole, a prezzo
eguale da chi areale dal pubblico comperate. Con tali riparisidissiparono i
mali imminenti ^lla repubblica. Dopo non molto riprodussero i. tribuni il
discorso su la legg^y àia l’avviso deliairmzioae repeatina de’ucjidci sul
Tusoolo fu causa bastante ad im^edirneli. ^ceeiuccliè precipitandosi li
Tuscolani in folta a, Roma 'dicendo essere giunta una artnaNi grande di Equi,
che ava già devaatatq le foro campagne, e ohe tra pochi gieini ne
espugnerebbero fin k ciwà se ben tosto non sibccorpeTauo ; iK Senato decretò
‘che v’ andassero entrambi U consolù .ed i consoli, intimata la leva, fchk
tnarono tutti i dttsdini alle anni. Ebbevi anche allora del snsurro,
oppibnendovisi i tribnni alla iscrizion mili^ tare, né. volendo die gl’
indocili si pòm'ssei'O col rigor delie leggi: ma tutto io indarno.’ Imperocché
-il Senato, raccoltosi, decretò che uscissero alia guerra i ' patck) coi loro
clienti : che quanti voleano avér parie nel aalvaro la patria, avessero ancor
parte nelle sante cose de’ numi, ma che niuna più ve n’ avessero quei -che
lasciavano i consoli. Saputosi il decreto del'Sen^o nell’ adunanza del popolo
mólti si misero spontaneamente all' impresa. Vi si misero i p{ù ingenui per la
verecondia 'di non soccorrere toha città confederata,' diauuta wmpre per r
aderenza sua con Roma : tra questi fu Siceio 1’ accusatore presso del popolo
degli usurpatori delle 'pobblidie terre, -il quale menava seco -ottocento
uomini, timi co me -lui di età superiore, nè piè vincolati dalla legge ^a
combattere ma pieni della riverenza del valentuomo pe’ grandi benefizj
ricevutine aveano ripntato cosa non degna di abbandonarlo, mentre rinsciva egli
a fitr guerra. Òr questa tra la milizia d’ allora fu di gran lunga la' migliore
per la perizia iu combattere, Come per T'ardire tra’ pericoli. Seguitarono
anepr altri T eaercito vinti dall’ aderenza e dalle istanze de' seniori. E il
èri pur k milizia 'pronta sempre a tnui {.pericoli per amor deUe prede, che si
fan tra4e arme.. Pertanto in poco tempo ebbest un armata numerosa, e .'fornita
splendidissimameute. .! nemici udite che i Romani marcercbbero contre ^ essi,
ravviafóQO terso la" patria r esercito : ma i consoli avanzando,a .gran
>freilao per 6eno, e gl investirono improvvisi, mentre scendevano a tor r
acqua ; e più volte a battaglia li provocarono. -Or attagiia ; e cavò le
milizie dalle trincee#. e comparti fcavslieriie fanti per coorti, ciascuno
ne’luoghi' Convenienti ; alfine chiamando Siede gli disse : iVbi combattiamo da
quindi o Succio, 1 nemicL Tw mentre noi ed efsi ci risparmiamo
apparecchiandocip va di fianco per quella via sul monte ove è il.eaatpo nemico,
e v assalùci quei che ilo guardano, affinchè gli altri che slan contro’ noi ne
teman la perdita, e tentando soccQnjerlo ci volgari le spalle ; e cor/ie.
avviene ^in una subita ritirata, si affi. foUirt tutti per una strada, e con
fUcilità li., conquidiamo : o se qui si rimangono ; lo perdano il^ campo ^
loro. La milizia che -lo presidia, per quanto seti concepisce, già non è. per
sè foige, ma pan mettere tutta la fiducia bliquamente per quella slracbi,
impossibile a salirsi di, rutscosòr dei nemici: ma io vi condurrò per vie non,
visibili ad essi; e ben mi presagisco trovarle tali òhe ci -guidino sul morite,
e sul campo. Inanimiìevi dunque i e speràlCk Ciò detto s avviò Wk fa selva,
'> eorsooe buoa tratto, a’ imbattè con un 'cHtadioo, parti tosi non so d’
onde, e fattolo arrestare ;, sei prese a guida. E colui rigirandoli gran tempo
attorno del mon te, li pose al fine su di nn colle rimpetto degli aHog la
battaglia ebb^ un fine decisoli Imperocché -Siccio co’ suoi, non Si toifo fu
-presso degli alloggiamenti, trovalbne'' il danto verso di sè derelitto dalla
iniliiia, intenta tutta, come n spetta cólo dal canto verio del combattimento
> vi diede faci lissimitmente assaltò, -e sonrontpvvi :. e prorompendo in
grida ; corsele come dall’ alto ^ addosso. Sopraffatta quella dal mate
impensato e concependo che venisse non qne’ pochi ma l' altro console colle
> sue schiere si precipitò fuori delle trincee, per la 'più. gran parte
senz’arme. Que’di Siccio ne' uccisero 'qua uà ne presero, e signori già degli
alloggiamenti, ripiombarono sa gli altri nel piano. Gli Equi, conoscintadalla foga
e dar damori la presa degli alloggiamenti,’ e veduti dopo non molti^.i nemici
correre loro alle spalle, noo 'mostraùlno .già cnof 'generóso, ma dnordinadsi,
ceecàrono scanapo per varj sentieri. Ma iu questi appunto fecesi strage
copiosa, non avendo i Romani lasciato d’ iusegnirli a trucIdarvegU fino alla
notte. Siccio ne era l’uccisor più graude Ira Ilice d’imprese bellissime: e
quando vide le cose. nemiche ornai ridolte al suo temiihe, egli già fatta
notte, tripudiando e forte magnificandosene rimenò la sua coorte agli
alloggiamenti espuguati. 1 suoi npn sedo illesi ed inviolati da’ mali che ne
temeyanó „ ma 'empiutisi tutti di gloria vivissima, lo chiamavano padre y
salvatore, Dio, ed ogni altro bel nome, nè finivano di felicitarlo con amplèssi
ed -altre esuberanze di 'gioja. Intanto r altra. milizia romana tornava al
campo tuo ‘ dall’ inseguire i nemici. Era già la mezza notte, quando' Sfecio
raminando 1’ odio suo 'bontro de’ (Gasoli che,lo oveano spedito alia morte -,
si pose in ' animo, dì tor loro la gloria 4el buon' successo. Rivelato il cor
suo tra’ compagni, e sembratone a tatti benissimp, anzi ammirandone Ognuno i
concetti e F ardire, .^li prese e fe’' prender le armi, e prima uccise guanti
trovò 't|tnvi nomini, cavalli, ed altri animali degli Equi, e pòi mise in
fiamme i padiglioni, pieni di arme, di vesti, di apparecchi di guerra, e di
robbe moltissìmé, recàtevi dalla [ureda tascoiaua : al fine, dopo svanita ogni
cosa tra r incendio, parti su I’ alba senza altro che le arme, e rientrò con marcia
rapidissima in Roma. Osservativisi questi appena, solleciti tra le arme, tra ’b
sangue, tra i cantici della vittoria, eccovi grande il concorso, e la smania di
visitarli, ed intenderne le cose .operate., Ed essi, andatine alForo, ve le
narrarono ài tribuni: ed i tribuni, intimata un’adunanza; comandarono loro che
vi favellassero. Era già grandè la moltitudine ; quando Siedo recatolesi
iunanzi narrò la. vittoria \ e' le maniere del combatlimentp j >e come il
campo nemico era preso per ie ' forze sae>e degK ottocento suoi, spediti dal
console a morire, e come infine le altre • milizie combattute^ dai -consoli ne
ifurono ridotte a fiìggjre, Chiedea per tanto che non sapessero grado, se non a
luì dèlia vittoria dicendo in' ultimo : noi veniamo sMve le persone e le arme,
nè pattiamo coià ninna grande o picciola delle involate ài 'nemico. Il' popolo
-alf udirli', impietosì, lagrìmò, vedendo la età, considerando la fortezza de’
valentuomini, e crucciandosi, • e smabiandó so chi voluto ne aveva privare la
patria.' Sorkène, come era l’intento di Siccio, l’odio di tutti contro de’ con
soli. Il Senato srésso'non soffrì ciò di buon animo, nè decretò per essi il
trionfo' o altro pe’ fausti cornettimenti. H popolo poi veduto if tempo della
scelta dei magistrati, nominò 'Siedo tribuno ; conferendogli la dignità della •
qpale erà' 1’ arbitro. E tali furono le cose più rilevanti operate in
qòeiranno. Spurio Tarpeo, ed A11I9 (i^ Térmipio pr^ sero il consolato per l’
anno seguente (0). Questi carezzarono di continuo il popolo con più medi, ccène
col previo decreto del Senato su’ magistrati; imperocché “ Si coniulti SigoDÌo
su Livio. Di là si raccoglie cìie forse dea Irggtt ti' jfterh. \ ' Anna di
'Roma 3ao. secondo Catone.. ^o secoado Varrone, e av'. Cristo.,. ' (3) Cioi che
si potessero multare i magistrati arrogami o clie trascendevano i limili^dei
loro poteri. Vedi.g 5o^i rjueito libro. Nondimeno vi è chi crede che vi si
parli del senatusconialto fallo emanare dai consoli perchè li tribuni potessctp
ìar approvare dal DlOillGT, amo Iti. • ' ' ' nsoli ultiini. Intanto prima che d
di Sén Venisse 'di' quella causa.^ facendo l’uno e^l’ altro d^li accusati calde
brighe e raccomandaziodi, essi, come già consoli, assai speravano su del $éQato
; • e teneano per leggero., il pericolo, promettendo i seniori di quel ceto ed
i giovani che ilon lascerebbero far tal giudizio. Ma ì tribuni prevependo tutto
da lontabo, e non valutando preghiere; non minacce, non pericoli ; a{q>ena
giunsene il tèmpo,' convocarono .il popolo. Eransi già riversati da’ campi in
città poveri e lavoranti in gran numero : or .-questi aggiunti alla moltitudine
interna 'empierono il Foro, e le vie che vi conduconp. popolo il progetto sa la
formasione del.le leggi, eguali per tatti ; 'argomeaio allora di controTeraie,
-come apparisce dalle, coa'e precedenti/'’ -• (r) Forae Icilio tribuno dell’
anno precedente. ..., laQ^oUo.per il primo il gÌRdluo' tU' Romi lio, .Sieda
fattoti (^vaati .accurà le> violenze di lui nel •DO consolato contro de’
tribuni, e le insidie contro di aè e della sua coorte nel suo capitanato. E
endo egli voluto esimere' da quella spedizione. Matxo .Jciiio, coetaneo ed
qmico'SUOf figlio di' uri tale dellfi coorte^, perchè qifesti non ujttme. ài un
tempo col ^adre -à morire ^ e che avendo ottenuto da Aulo V srginio, zio suo, e
luogotenente afiqrq delle nfilizie di recarsi' ai consoli^ chiederne quésta
grazia ; i coruiyli ebbero cuore di .coatraddirh, ed egli, fa ridotto al
conforto nùsero delle lagrime ^ non restar^do à (iti che dèplorarela calamità,
delf amico : che t antico pel quale pregqvaf udito ciò, se_n venni, 9 chiesto
di parlate protestò choj avea pur grandi gli obblighi agi inteAiessori suoi,
rna che. mai grad^ebbe anche ottenutala una concessione che levavagli d' esser
pietoso inverso del sangue suo : nè nidi si Hmove/ubbe dal padre quanto più si
avyiava a. morte, certa come tutti sapeane : anzi ne andrebbe con lui pey
difenderlo fin dove potrebbe, e correrne, la sorte medesima, Or costui
ridicendo tali cose, niun fu " che nou commiscrasse la sorte di tali
uomini : ma quando poi chiamati, comparvero per attestarla, (cilio ' padre, e
figlio, e oarrarono cioochè era. di loro; non poterono i più del popolo
contenere le lagrime. 'Perorò, se ne difese Ròmilk>,'non ossequioso, non
pi^érole-ai tem pi ; ma fastoso, e, grande ne’ concetti ' suoi, coÉàe non si
avesse a dar cónto del consolato. Adunque l’ira ne crebbe de’ cittadini, e
rendati arbhri di sentenziame, deliberarono ripercoterlo,' e condannarlo
co’voti di' tutte le tribù ;. talché la' condanna fosse una ' multa di assi
dieci mila. Siccio, 'sembrami, risolvè ciò non senza nna .provi denza : ma
perchè scadesse il favór de' patrizj su costui, nè facessero broglio nel
darsene ih voto, considerando che la emenda era in danari e non ‘altro ; e
perchè li plebei fossero più pronti a .pronunziarne la pena, non dovendo
spogliare l’àom consolare di patria, nò di yita. Condannato Romilio fu dopo
pochi giorni condannato eziandio Yeturio.' Anche la multa suafa pecuniarìa, ma
suddupla di quella del consolato. Adunque non \ più governavano
misteriosamente, ma Con intento manifesto ai vantaggi del popolo. E priipa
stabilirono ne’comizj benturiati per legge: che tutti i magistrati potessero
punire quelli i quedi ecce devono o disordinavano i loro poteri, perchè per addietro
non altri che i consoli pòteano far questo. Per Qoi di'cinqoa mila aui. Ora ciò
sembra ragionevòle; perchè esseodo Romilio oppositore più che Velario de’
tribooi, dovea sentirne danno maggiore. Nondimeno Livio afTerma che Romilio fa
condannalo per dieci mila assi, e Velario per (piiadjci mila ; il che ha
-fallo, interpreiare la voce a/oUssi qui dire minatamente, a voi, che vef.
sapete, quanto ho sofferto dal pòpolo non per mie private ingiustizie i ma per
la henevolenza mia verso di voi; tuttavia ciò ricordo per neceisità, affinchè
vediate che io parlo per lo migliore,, non per adulare il popoìp, che mi è
eontrarioi Nè alcuno si meravigli, -je io che fui d altro asviso più volte, e
quando fui ^console e prima, ora mutato mi sia sttbitamenté ;J nè vogliate
concepire che non bene consigliassi allora,, o non bene mi ritratti ah
presente. Io finché vidi, o padri,, superiore lo .stato de nobili, lo favorii,
come doveasi, non. curando quello dei popolo. Ma poiché fatto savio da’ mali
miei, vidi. a gran costo che il poter vostrq è minore dei vostri voleri ; e che
piegaridovi alta necessild più volle avete lasdèUo manometter dal popolo quelli
che vi sostetievimA, rdiora più,non tenni gh antichi pensieri. E ben vorrei che
rion fossero a me, nè al collega mio succedute le cose per le tjtiali voi tutti
su noi'vi condolete. Ma poiché finite sono, tali nostre vieef^e, e possiamo
solo curar' t avvenire, provvedendo 'che ailri non soffran Iq stesso, v'i
esorto ad uno. xid uno I é tutti insieme che órdinialé m bene, almeno il
presente: àmpcrocchò'JèUcissimamente governasi una repubBlica, la qual si
èontempera alle sue cose; quegli è il consiglierò migliòre che pòrge il parer
suo per cònio di utile pubblico^ -non di nirnidxte private o furóri; e
benissimo lei. porgerà su'tempi di poi chi pigha esempio delle cose JWhtre
dalle passale. Noi., o padri, quante sfolte si disputò, si 'donlése tra'l
Senato e tra ’l popolò ; tante ne àvemmo per alcun modo lapeggio con morti, v
esilj, con sfingi' (T Uomini insigni. Or quale sciagura maggiore per una.
repubblica che le si tolgano i cittadini migliori, ò senza Una cauia ? Pertanto
io vi esorto che questi ve ù risparmiate; nè gettiate i consoli presenti
a''màmfesti pericoli, abbandonaisdoli poi tra la tempesta, al pentimento. Deh!
che non gettiate ai ‘pericoli niim altro qualunque, e sia pur egli piccolissimo
per la repubblica. La principale fierò delle cose che vi' raccomando, è che
mandiate deputati,'qiusli nelle grecite città d" Italia, e quali in Alene
; perchè vi cerchìn le leg'gi migliori, e più confacevoli a’ nostri costumi, e
Sce le fìpot'i.iio: che Ibrnnti questi, i consoli propongano al Senato, quali
debbansi 'scegliere per legitlatori con Jfual potere,, per quanto tempo, e cosp
altrettali come egli le crederà spedienti : finalmente che lasciate le
discordie col popolo, e di cofinetlervi disgrafia a disgrazia, principalmente
per una legislazione, la quale ha seoo, se tiòn altro uM apparqto 'almeno di
maestà. . Seooodarooo i dpe consoli ài parer di Rqntiliò con più ragioni
premediut^ e, molti altri xonsiglieri lo secoodaronof; tanto cbè la
plorftità'vi ^ deprsj^. E già già se ne slendeva ài decreto, quando Slocio'.il^
trtbimot quegli cbe zyevz accusalo iLomilio sorse, e fattone ekn gio copioso,
ne laudò la mutazione, e cbe non ayesse anteposto Je nimicizie sue all’ util
comune,-,ma ^tto ingennào^entè 9ÌÒ. eb’era il bene. Peritai meritp^ soggiunse,
IO gir rendo qvesC ossequio, 0 ^ptesta ricono^ saenza : io U> assolvo dalla
multa impostagli' nel giudizià, e dà pra in poi, me ^ riconcilio : perocché ci
ha sopra^atlo ftel .bpne. Egli disse } e già altri tribuni presenti
acconsenlironò. I^on sostenne RomiUodà, prenderne quel conlnccambio ; ma lodati
i .tribuni protestò cbe pagherebbe la multa, essere questa sacra ai numi: e non
fare cosa né giusta nè pia, chi spoglia h numi di quanto si dee laro per legge
: e. coti £e$;9. Steso il decreto dal Senato, 'e confermato dal popolo, '
furono eletti a prendere le leggi da Greci Spurio Posiiunio, Setvio. Sulpicio,
ed Aulo MalHò . Furono, questi a ' ., " ^ „ In Lirio si legge PuM Sulpicio
.in laog'o di Servio Salpido come scrivesi '.in Dionigi. Servio Sulpicio fu
eOosdle l'anno 193, ma Publio non si trova cbe 'mai lo fosso. Tanto Liiio
quanto Dionigi numeraao Aulo Manlio Ua i depùiati, cd. Aulo Maoliq seooado pubbliche
spese forn^ di triremie > di ogni arredo ; quanto si convenisse ialia maestà
' dell' impéno ; e cosi l’anno -spirò. Nella olimpiade ottantesima seconda,
quando Lieo Tessalo' di Larissa vinse allo stadio, e Cherofiino era l’arconte
di Atene, compiutosi 1’ anno,trecentimo dalla fondasionb di Roma, cretti
consoli ' Publio Orazio, e Sesto Qaintilip j, proruppe nella ^città up morbo
coptagioso, il inaggioi% di quanti ue erano ricordatL Vi 'perirono quasi tutti
i sèrvi, e circa .Una metà di cittadini. Non. piò i medici avean cuore d(
curare gl’ iniermi, non i domestici, non gli amici di porgere loro le cose
necessarie ; perocché volendo 'assistere gU -altri còl tatto e col commercio ne
coutr^evan i malu Donde è che piò famiglie si^ desolarono per, deficiènza di
assistenti. Non era la minima delle sciagure quella so la esportazion
decadaveri, ^ certo era causa'.cliè il morbo non venisse meno subitamente. Su
le prime per la verecondia, e la copia de’ funebri apparecchi bruciavano o
seppellivano i -morti : ma poi curando poco la verecondia, o non avendo ciocché
bisognava, ne gettavano molti nelle chiaviche, e più ancora nella corrente del
fiume. nd’ è che spinti ai scogli e alle arene delle rive, songeane danno
gravissimo ; perchè spiccavasene Oiooipi fu contotq r aono s8o i laddove io
Livio leguaai .ia quell’anno per coufole G. Manlio. S; dunque ì deputali erano,
còm'a veri$imile, tuui uomini co^olari, il tèstodi Dionigi in questi -luegbi
trovasi più eastigato che quello di LCvio. t .- Aono di Roma 3oi secondo
Catone,, 3o3. secondo Varrone, e 45 av. Crisio. "‘uBao x; '7 un odor
fetidissimo, il quf^e col corso dé’ reali causava subite mutezioni ai corpi
anche saqi. Nè l’acqua portatq dal dame era più buona da beveme si per 1’ odor
tri sto, ri per le ree digestioni a designarvi i consoli, e designatili ',
propoiTebbero' io sieme con questi ai padri la scelta de’ legislatori. ^
Aocordativisi i tribuni, essi intimarono -i comizj prima assai deir usato, e
destinaieno consoli Appio Clandio, 0 Tito 'Genuzio. Dopo questo .omettendo,
quasi già fòsser di altri, .tutte -li cure {fùbliliche, più non datano ascolto
ai tribuni ', e solo miravano a sottrarsi di briga nel resto delia loro
raagistratnra. Occorse intanto cbo Mencaio l’ iroò de’ consoli s’ ìnfernuMe di
juna' lunga malattia, e vi fu chi disSe che il languore sopravvenutogli per -l’
affanno e per 1’ abbattimento, la rendeva in sanabile. E' Séstio sol titolo che
egli non "potea’ solo per. . 1, a()9 aè fiir aiedle,' respingeva 4e
istanzt de’ tribuni,^ e voleva che si vbigessero a miO^i niagislrati. E questi
non avendo altoo lYiodó, furono astretti in privato, e nelle adunanze
pufablicbe dirigersi ad Appio, e suo collega, quantun> qùe non avessero
ancora preso il coniando. Or gli ridussero alQue questi uomini, empiendoli' di
grande spe> ranza di onori e, di potere, se prendessero a” cuore gli
interessi del'popdfo. Imperocché -Appio iu invaso dal1’ ambizione di avere una
qualche nuova magistratura, di fondare leggi di cònCordia e di pace", e di
far che tulli estimassero 'che la patria sola comandava^u‘ citu dini. Ornato
però di una' grande magistratura non vi à contenne; ma inebbriàtone da’ poteri
sublimi,^^tr^orse ai furori di perpetuarsela, e per poco non giuose alla
tirannide ; cqme spbirò ne’ suoi tempi. Allora dunque cosi pensaodota con cuore
-buono, '6no a {lersuademe il. collega egl’ invitato più' volte dai tribupi
alle adunanae, vi 'si (^dusSe, e 'tenpevi molti ed umani ragionamenti. I quali
rigiravansi. ip t^eslo che piaceva a hd come al collega suo', prÌTtcipalmeiUe
che si destinassér le leggi, e si chetassero. le discara die civili su diritti
; e diceano ciò ' palesissimàmeute ; come pure che ''essi ', perchè non entrati
al comando, non aveano 'facoltà di nominare i cosUtutori' delle leggp ‘ che noH
si opporrebbero per ' mòdo 'alcuno a Menenio’ console e suo ^collega se dava
esecuzione al decreto delSenato, anzi’ che do coadj'uverebbero e
ringràzierebbyo ; che' se Menenio e il compiano reylica e protesta(
Soggiungevano), che trovandoci noi designati per consoli f Tton ^uo ' nominare
altre' magislrature lé quali prendano podestà pari' alla consolare ; noi dal
canto, nostro non saremo V ostacolo della operazione : perchè sporttanoi
cederemo la nostra soprastanza, se cosi • piace in Senato, ai nuovi che
sceglieransi in. ^ogo de' consoli. Elocomiava it popolo' la buona volonlà di
tali .uomini ; e spiolMÌ, tutti ia /olla nella curht, Sesto ( non poiendoviai
tcovare Menenjo per la iufern^ità ) costretto a convocare egli solo il Senato,
propose la deliberazione su le. leggi. Ben si disputò qninci e quindi
copiosaiaeute da. chi lodava l’essere coiuanihto dalle leggi, e da chi chiedeva
che si ritenessero le costumanze paterne: ma prevale il, parere de’ consoli
designati propostovi da Appio Claudio, interrogatone per il pritpo : vuol dire
cAe si icegliessero dieci i più cospicui tra padri : che forrtandastero su
tutta la repubblica per un anno dal giorno deità elezione'col potere' che 'ci
aveatip i consoli', e primari re : e che-.fiotànto che governavanp i decemviri
.cessasse ogni altra .màgislralura: che qqesti proponessero le leggi più utili
alla ivpubblica, scegliendone le migliori da quelle riportate pe' deputali
dalla Grecia, e dalle usante. della patria; che le leggi scritte da decemviri,
approvale • che fissero dal Senato e ratificate dal popolo,, valessero per
tutto f avvenire; e che i magistrati che si creerebbero a norma di queste
leggi, discutesteror a rtórma appunto di esso i, conti atti d'e' privali, e
pròvyedessero al pubblico. .,LYL. Preso questo decreto ne anderonò i tribuni
al/ adunanza, e letto velo; assai vi encomiarono i padri, ed Appio che lo aveva
proposto. Giunto poscia il tempo :^ . ‘ 3oi de’ comizj, i iribun! convocatovi
il popolo, fecero ve Dirvi i censoU/ designiti perchè g[li osservà^ro le
promesse: e questi presentatisi ; deposero il consolato. Non finiva il popolo
di encomiarli e lodarli: fattosi quindi a dare il voto pe’ legislatori scelse a
tal grado -ipiestl due per i 'primi. Imperocché, ne’ comizj per centurie furono
eletti legislatori Appio (gaudio, e>Tito Genuzio^ li due' che doveano èsser
consoli l’anno seguente : Pu blio 'Sestiò., insqle ^ dell’ anno corrente, li
tre Publio Postnmió, Cervio Sulpicio, ed -Aulo Mallio -,. r qusfli aveano
riportate le leggi da’ Greci; Romilio il console dell’ anno antecedente il
quale condannato peo le accuse^ di' Sfócio dal popolo, fu poi sentito il primo
a dir senlèDEe fautrici ^ cemVirato • f Dettesi quinci 0 quindi più cose'
vinse' finaltnente.il partito di chi consigliava che sì tenesse ancorsi il
decemvirato su -là repubblica; peroccbè' compilata in picciolo,t$mpo la
legislazione non pareva La .tutto ultiosata., e -pareva ancora ;che bisognasse
un magistrato assoluto per .obbligare, volessero 0 no, tutti, a quanta ne èpa
già -stata decretata. Ma ciò-,cbe gl’. indusse più che tutto, a preeleggere i
dieci. fu, rinlenlo di spegnereil tribunato, ciocché bramavano sommanaenie.
''Tali fatono i risaltati delle pùbbliche cousuUaziom : ma. in privato i primi
del Senato disegnavano procurare per sè quel magistrato Sui timore che
intrqduceodovisi uomini turbolenti nen cagionassero grandi sciagure. Il po polo
ricevè con diletto, e ratificò Con pieno trasporto, dandone -il voto, le
sentenze -dej Senato.. I dieci prefissero il tempo de’.comiàj-, e li più
provetti e più rispettabili de’ patrizi ambirono quel' magistrato, b fptì molto
ebeomiato da tutti JVppio, il pruno ^allora del decemvirato, ed il popoip vo)ea
.couifermarvelo, -come se niou altro meglip di lui -lo remerebbe. Egli fingea
su le prime di escusarsene e 'cbiodeva ebe Ip esimessero da nn incarico, pieno
di travagli e d invidia : ma poi Btimolandovelo tutti; fecesi a chiederlo
nottamenle ; anzi dolendosi dei migliori ' de’ competitori, come di animo non
buono verso lui per 4a ' invidia ; favori gli amici suoi palesissimamente. Egli
dunque nc’comizj per centurie fu crealo per la seconda volta datore di leggi: e
eoa esso'lai furono creati' Quinto Fabio detto Vibo^ lado, già 'per 'tre volte
console; edirreprensibile 6no a quel tempo in ogni bel costume : e ira gli
altri pa-^ trii) diletti ^uoi; Mai‘co' Cornelio, Marco Sergio, Lucio MinuCio,
Tito Antonio, e Manio Rabulejo, .uomiut non molto chiari : de’ plebei poi
Quinto Poetelio, Cesbne Duellio, e Spurio Oppio. Aveaci Appio assunti por
questi per adulare il popolo coi dire che', 1’ equità voleva, • he,
stabilendosi una magistratura uòica su tutte le -còse ; aves^ro parie in essa
anche i plebei. Applaudito in unte' queste cose,. e ‘parendone il migliore dei
re, e de’ soprastand annuali ; prese la magi.i stratura per l’ anno che
seguiva. Or questo e non altro ' è quanto si operò degno di ricordauza nel
primo decemvirato presso de’ Romani. Presero nell' anno ^guente -la podestà
suprema i dieci con Appio alle idi di maggio. Allora i mesi legolavausi colla
Iona, e cadeva in quelle' idi appunto il plenilooio. Or prima legandosi tra
sagrifizl, arcani alla plebe, convennero di non contrariarsi mai fra loro, 'di
ratificare tutti quanto ciascuno giùdicherebbe: di ritenersi la magistratura ih
vìta\ nè Jasciare che altri vi sottentrasse : di aventi' tutti onore e potere
eguali : di ricorrere di rarii, e per necessità sola, ai. . 3o5 i>oti del
Senato e del popòlo, e di ultimare per lo più le cose colC autorità propria.
Poi jrenuto il gio;^o da pigliare il comando, ( è questo giorno sacro ai Romani,
e guardansi tutti di ascoltare o vedere cose non liete ) ^ fatto prima
sagrifìzio agl’ Iddìi secondo il rito, uscirono ben tosto i. dieci su la
mattina con tutti i distintivi di nn regio potere . Come il popolo vide, che
non osservavano più |e mauiere popolari e, modeste di preminenza, e che non
avvicendavan fra loro come prima i segni del comando supremo; assai ne decadde
nell’ aspetto e nell’animo. Temè le scuri messe tra’ fasci portati da dodici
licori dinanzi a ciascuno, i quali facean largo, dando de’ colpi come prima ai
tempo dei re. Era stator questo costume abolito ben tosto. dopo la espulsione
dei ré da Publio Valerio, uomo popolare, quando ne succedette al comando. E
paréndo essere stato autóre di ottima cosa; tutti i consoli posteriore fe>
cero come lui, nè più misero tra’ fasci le scuri, se non quando marciavano,
all’ armata, o per altro intento uscivano da Roma’. Or quando portavano guerra
agii esteri, quando visitavano i sudditi, assuiueans le scuri ; .perchè r
aspetto terribile di esse-,. come dirette contro de’ nemici e de’ servi, si
rendeva mec grave pe’ cittadini. LX. Veduto ciò, che riputavasi il segnate di
nn regno, si temè, come ho detto, moltissimo, credendosi pòduta la libertà, e
creati dieci per un solo monarca. Con. tal modo sbalordirono i dieci la
moltitudine : e Roma Catone Varrous, e 448 ar. CrJslo. ' '1 PlOStGt, Itipu) in.
'. IO fermi, cbe avrebbero a dominare per 1’ avvenire col terrore ; ciascuno
fecesi Un seguilo dì ^oyanl i più leDterarj, e opporiuui per esso. Ben era da
aspettare, o sperare cbe i più de’ poveri e sciaurati si dimostrassero fautori
della tirannide ; anteponendo l’ utile proprio al pubblico ; ma non era da
aspettare, nè da sperare, e certo egli fu meravigliosissimo^ che molli patrizj
potendo grandeggiare per 'sestauze e per, sangue soffrissero di opprimere co’
decemviri la liberi^ della patria. ' Costoro datisi a tutti i piaceri, quanti
sottopongono 1’ uomo, comandavano superbissitnamente : e legislatori insieme e
giudici, tcncano per niente il Senato ed il popolo, ed uccidevano e
spogliavano, conculcando ogni diritto. E perchè azioni illegittime e
biasimevoli sembrassero noux indegne, anzi operale per giiislizia; nomsi
accingevano a farle se non previo esame, ed'uu giudizio. Erano gli accusatori
inandaii da fondatori stessi delta tirannide, creali i giudici dal ceto de’
loro amici; laDlochè solcano questi in coniraccaràbio sentenziarne per
compiacerli. Molte cause però', nè di poco rilievo, le defìnivano i dieci per
sesiessi. Cosi quelli che erano per essere defraudali del loro diritto, non
trovando altro scampo, conducevansi necessariamente a renderseli amici. Ood’ è
che col volgere del tempo videsi la parte corrotta ed inferma maggiore della
innocente. Imperocché coloro che v' erano concul^cati da’ decemviri sdegnavano
di rimanervi, e si ritiravano nelle campagne, Bspettandovi il tempo de comizj,
^quasi coloro finito 1’ apno fossèro per deporre il comando, ed eleggete nuovi
^nagislrali. Appio intanto £ i colleghi ^crisscA) le. leggi che rimanevano in
altre due tavole, e le aulroao alle prime. In queste eravt traile altre
lajegge, che non concodeàsi a^atrizj il matrimonio co’ plebei: e ciò non per
altro, io t j , !• OLGENDO la olimpiade ottantesipia ' terza nella quale
Grisoue Imero vinse allo stadio mentre Filisco era 1 arconte di Atene, i Romani
annientarono il decemvirato il quale governava già da tre anni la repubblica.
Ora, io tenterò descrivere dalle origini per qual modo, quali nomini, con
i|uali cause e pretesti, seguendo la libertà, si lanciassero a schiantare una
signoria che ovea già profonde le radici ; perciocché ne reputo la cognizione
bella e necessaria principalmente al Glosofo die contempla, ed all’ uomo dr
stato che amministra, per non dire a tutti. E certo .molti non si contentano ^
conoscere dalia storia, solamente come gli Ateniesi ed i Lacedemoni vinsero,
per esempio', la ^ guerra col Persiano, aiTrontandosi in due battaglie navali
ed nna campale contro un barbaro che area tre milioni di nomini, essi che
'aveano appena cento dieci mila nomini insieme cogli alleali; ma vogliono' por
co, noscere dalla storia i luoghi ove occorsero, .ed kiten dere le cagioni per
lè quali si compiecono le meravigliose ed incredibili gesta, come apprendere
quali fossero i duci delle armate greche e persiane, nè essere, per cosi dire,
defraudati, di cosa niuna fatta ne’ combattimenti. Imperocché dilettasi la
mente dell’ nomo por, tata quasi per mano dai racconti alle opere, e come a
vederle dopo ascoltatele; E quando gli uomini odono le civili vicende, non
appagansi di udire la somma ed il termine degli ’ affari, per esempio., come
gli. Ateniesi permettessero el^e gli Spartani demolissero le mura,
conquassassero le navi di Atene, ponessero guarnigionè nella Iqr cittadella è
vi trasmutassero il governo del popolo in quello de’pochi^ senza nemmeno
combattere (.i); ma. bentosto dimandano quali erano le angustie di 'quella
città, onde incorse in tali orrori è miserie, quali e di chi li discorsi che ve
1’ acchetarono, e quanto seguila tali cose. Dilettarsi poi della contemplazione
totale di quanto concerne gli affari è cQmifuq a tutti,. come agli uomini,
pubblici, tra’ quali colloco àncora i fUosofì, quelli almeno che pongono la
filosofìa non già nelle Occorsero tali fatti oelf''aoao Hltimo detta goeri'a
del Pelopoaneso ; conws pu& vedersi io Senofoute nel libro secoado lAasxnel
lib. -i3 di Di odoro, t nel LitandrQ di Plutarco., I parole, ma nelf esercizio
delle opere belle. Cd oltre questo diletto, ne segue, > no, e riducendd'
quanti ner credevano IntorTerablle il giogo ; a lasciare colle -mogli e co’
figli lo^ patria, ed alloggiarsi nelle città vicine, ricevutivi da’Lallni in
forza de'parentadi, e dagli Eroici per essere stati di fresco creati cittadini
da' Romani. DI guisa teaoo traversarne 'le opere ; nè vi rimasero nemmeno gli
asciiitl al Sentito I qu^li doveano per necessità star pronti pe’ decemviri ;
ma l più trasferendosi con quanto aveano in famiglia; dimoravano, abbandonate
lo case, per le carrqiagne. Non dispiaceano gli allontanamenti de’ grandi
personaggi agli amatori del decemvirato per più cause, e principalmente, perchè
I più 'giovani di questi erano divenuti don che scellerati, molto insoleati, né
poteauo tollerare. 1’ aspetto di qtielll, innanzi dei quali doveano arrossirsi
della loro impudenza. III. Derelitta cosi la città dal fior degli uomiai (^), e
cadùlavi ogni libertà ; gli Equi già vinti da' Romani, cogliendo la Occasion
propizia di combatterli, di con Anuo di Roma 3o5 Mcondo Caioua, ìof ascondo
Vartoae, c av. Cristo. Digitized by Googie 3i2 delle antichità’ romane
traecambiarlt delle iogiorie sostennlene, e riveodicarsi quanto perduto ci
aveano, apparecchiaronsi all’ armi, e marciarono con grandi eserciti contro di
lei', malconcia pel comando de’ pochi nè idonea a tener fronte, nè a
concordarsi, nè a' cura fecesi innanzi e disse che portavasi a -Roma, la
guerra, da due parti, quinci dagli Equ^, e quindi da’ Sabini ; tenendovi un
discorso ariifiziosissimo, indirilto a far votare la leva delle milizie e
condurle imipzntioeDtc in campagna, non peùnetteodo T Ifare che indagiasse. Or
lui cosi dicendo insorse Lucio Valerio, soprannominato Polito, uomo che grande
tenessi |>e' grandi genitori: certamente era stalo padre di lui più,
importano, conte sarebbe il buon ordine della moltitudine, e che la cosa stessa
apparisca utile a tutti, rimovendo dalla città la ingiustizia e la soverchieria
che vi domina, e rendendo l’ antica forma al governo; in tal caso sbattuti
quelli che ora inorgogliano, e gettate le armi, verranno a noi tra non molto
per saldarne le ingiurie, e trattare la pace : e noi, ciocché i savj tutti
desiderano, potrein finir senza le armi, la guerra con essi. Or ciò
considerando, poiché sì grave tra le mura è la turbolenza ; io giudico che
debbasi per ora sospendere ogìti cura di guerra, e concedere a chi vuole di
proporre mezzi di concordia, e buon ordine interno. Noi chiamati da queste
magistrato non abbiamo potuto già prima di essere addotti a questa guerra,
consultare su lo stato^ de’ nostri pubblici affari, e conoscere se scóncio
alcuno ci avesse. Ed ora assai riprensibile sarebbe chi, lasciata la occasione,
•cercasse di altro discorrere : e niuno dir può con sicurezza che trascurato
questo tempo, come men congruo, un altro ne avremo pià acconcio. Anzi se alcuno
vuol concludere V avvenire dal passato ; trascorrerà gran tempo senza che
possiamo qui riunirci per deliberare. IX.' Io prego te, Appio, e voi tutti
presidenti di Honta, voi che dovete provvedere non al bene vostro privato, ma a
quello Ai tutti, a non corucciarvi, se io parlo secondo la verità, non secondo
il genio vostro. Voi dovete por mente, che io parlo, non per malignare, o
vilipendere il vostro magistrtUo; ma per additare, se pur vi è, una via di
salvare, e dirigere la repubblica, dopo mostratine i /lutti da’ quali è
sbattuta. Quanti han cara la patria, debbono forse qui tutti discorrere dell’
util comune, ma io principalmente. Imperocché io debbo per la onorificenza
fattami dar principia ad opinare : e saria vergogna e stoltezza grande, se io
che sorgo il primo non dicessi le cose che prime son da correggere : Appresso
trovandomi io zio paterno di Appio il capo decemviro, accade che più di tutti
mi consolo, o rattristomi secondo che bene o non bene governano la repubblica.
Aggiungi che ho io ricevuto da’ maggiori miei la civil consuetudine di curare
anzi l' utile -pubblico che il mio, senza guartlare a privati pericoli ; nè io,
la tradirò io questa civil consuetudine, nè profanerò le gesta di que'
valentuomini. Orjt, che il governo presente male a .noi si conviene anzi che
incomoda, direi quasi tutti ; siane questo l’ argomento gravissimo, che quanti
trattavano le cose civili ( nè già potete voi soli ignorarlo ) ràiransi ogni
giorno da Ho 3ai ma, lasciando le paterne case deserte. Qual de' plebei più
rìguardevoli trasferisce la propria sede colle mogli e co' figli nelle città
più vicine, e quale nelle campagne più lontane da Roma : E molti de' patrizj
nemmen essi in città se ne vivono, ma li più si dimorano per le campagne. Ma
che giova parlare degli altri j quando appena in città se ne stanno alcuni
pochi senatori uniti a voi per amicizia o per sangue, e cercan gli altri la
solitudine più che la patria? E quando voi v'aveste il bisogno di adunche il
Senato, tornarono invitati ad uno ad uno dalle campagne que' dessi che solcano
insieme co' magistrati guardare la patria, nè mancare mai da affare niuno della
repubblica. Or tdie pensate voi che gli uomini ahbandonande la patria fugano i
beni o li mali ? certo che i mali. E t essere abbandonata da plebei, derelitta
da' pevrizii senza incontri di guerra, di pestilenze, e di altri disastri
mandati dal deh,, ella è sciagitra questa non seconda a niuna per una città,
massimamente per Roma, la quale abbisogna di molle milizie, tutte sue ; se vuoi
dominare stabilmente su' vicini. X. Folete udir voi le cagioni che riducono i
popoli ad abbandonare i templi e le tombe degli avi, e lasciar diserti i poderi
e le case paterne' ^ e credere ogni altra terra più necessaria della patria ?
Certamente tali cose non avvengono^ senza cagioni, ed io sporrovele queste, non
occulterowele. Molte Appio sono le accuse e di molti sul vostro magistrato :
vere o false che siano, noi cerco per ora : certo che vi si fatino. Ninno, se
non del vostro seguito j trova il ben suo nell' orditi presente. I ^andi, figli
pur essi di grandi, à quali spettavano i sacerdozj, le magistrature, e gli
altri onori goduti dai loro padri, fremono di essere da voi respinti e tolti
dalle dignità degli antenati. Quei del celo di mezzo che cercati la calma del
vivere, v imputano lo spoglio ingiusto de beni loro, lamentano il disonore che
fate alle lor mogli, la effrenatezza verso le loro figliuole nubili, ed altri
oltraggi molti e gravi: e la parte più. bassa del popolo, non più arbitra per
voi de' voti e delle elezioni, non più chiamata alle a4unanze, nè, partecipe di
alcuna civile uguaglianza, ve ne maledice appunto per questo, e tirannico
chiama il vostro governo. XI. Ora come voi correggerete questi abusi, come la
lingua, incolpati che ne siete, accheterete del popolo ? questo è ciò, che
rimanemi a dire. Facciane il Senato previamente il decreto : fate che il popolo
deliberi, se torni a lui meglio ripristinare i consoli, i tribuni e gli altri
magistrali della patria, o continuare r ordin presente : se tutti i Romani
avran caro il comando de' pochi, e dinoteran co’ lor voti, che ve lo abbiate
voi questo comando ; voi terrete un magistrato legittimo, non violento. Ma se
vorranno di nuovo i consoli, di nuovo gli altri mostrati ; voi sarete decaduti
per legge, nò più crediate dominare, se ìton da tiranni su gli eguali, non
prendendo gli ottimati il comando, se non da' cittadini spontanei. E nel far
questo, o u4ppio, tu dei dar principio, c tu disciogliere un comando da te
stahilUo, utile un tempo, ed ora noceyole. E m’ odi ciocché ne guadagni, se mi
ti arrendi, se ne deponi codesto malveliuto comando. Se li tuoi colleghi a ciò
s’ indurranno'; ciascwi dirà che buoni fatti su /’ esempio tuo vi si indussero
t laddove se questi si ostinano a tenere un dominio illegittimo ; sarai tu
benedetto che volesti, altnen solo, compiere il giusto ; mentre i contumaci
saran con infamia e danno gravissimo degracUtti. Che se mai ( lo che potria ben
essere ) fermato v' aveste infra voi secreti trattali e parole, pigliandovi i
Dei per mallevadori, fa pur conto che siasi empietadv osservarli, e vera pietà
vilipenderli, come contrarf ai cittadini, e alla patria. Imperocché sogliono i
numi esser presi mallevadori su gli accordi buoni e giusti; non su gV ingiusti
e vergognosi. XII. Che se tu esiti lasciare il comando per timor de' nemici, sicché
non ten venga pericolo, nè sii stretto a dar conto delle opete tue ; certo non
è ragionevole questo timore. Non è sì picciolo, non sì sconoscente il Romano da
ricordare i tuoi sbagli, c scortlarc i tuoi benefizj : ma contrapponendo i beni
presenti ai mali passati giudicherà degni questi di perdono, c quelli di lode.
Potrai tu rappresentare al popolo' le tante belle tue gesta innanzi del
Decemvirato, ed in .vista di queste ottenerne ajuto e salvezza, e difenderti in
più modi dalle accuse, come ad esempio, che non eri tu che abusavi, ma un altro
senza tua saputa; che non bastavi a reprimerlo come tuo pari: o che eri
necessitato a soffrire per areme altra cosa più utile. Ma troppo lungo sarebbe
il discorso, se numerare volessi tutti i modi delle difese. Coloro che non han
discolpa niuna giusta, nè plausibile, pur confessando il delitto, e
raccomandandosi, ammolliscono il cuor degli offesi, con allegare il poco
giudizio degli anni, la pravità de' tompagnì, la vastità del comando, o la
sorte che travia ne calcoli loro tutti i mortali. Or tu se deponi il comando,
tu n avrai, lo prometto, amnistia generale de’ mancamenti, e riconciliazione
col popolo, decorosa in mezzo de' mali. Ma io temo, che il pericolo siati
pretesto non vero a non lasciare il comando ] essendo a mille riuscito di
rinunciar la tirannide, nè scontrarne alcun danno da cittadini. Le cagioni non
dubbie sono un ambizione vana che cerca le apparenze di una gloria vera, una
propensione pe' rei piaceri, quali il vivere concedegli de’ tiranni. Ma se pià
che andar dietro alte immagini, e alle ombre degli onori, e de’ piaceri, ne
vuoi tu ciò che è solido; rendi alla patria la tua preminenza, ricevi le
dignità dagli eguali tuoi, acquistati la emulazione de’ posteri, e lascia loro
in luogo del mortala tuo corpo, sempiterna la fama. Questi sono gli onori
fondati e veri, questi gt indelebili e cari nè rincrescevoli mai. Pasci V animo
ti.'o de’ beni della patria: già non parrai di averglìt.^e dato la menorna
parte, liberandola da signoria ce'ti dura. Prendi esempio dagli antenati,
considera chs^ niun d’ essi mise affetto ad un potere dispotico ^ nè fu lo
schiavo vilissimo de piaceri del corpo ; eppur furono onorati in vita, e morti
sono celebrati da posteri ; giacché tutti fan loro testùnoniama, che furon custodi
fidissimi delC aristocrazia ^ che Roma fondò, dopo espulsi i monarchi. Non
dimenticare i detti ^ non i fatti tuoi gloriosi; perciocché belle pur furono le
prime tue mosse nella repubblicUf e pur grandi per la speranza ^ che davano
della tua virtù. Deh ! che siano consentanee ancor le altre tue opere. Deh !
ritorna a quella indole tua Jlppio figliuolo : sii nel genio del governo un
ottimate, non un tiranno. Fuggi quelli, che adulando, ti parlano, quelli pe'
quali, se’ lungi dalle utili istituzioni, errante dal diritto sentiero, già’
wotr È rzRtstitiLE, CHS AtTSt SIA DI SSL HVOrO SXWDUTO BDOIfO, DA CHI già’
FSSSIXO lo RStfDk. Xiy. Quante volte dir ti volli tali cose da solo a solo j
per instruirviti dove le ignoravi, o per ammonirtene, dove vi mancavi! Nè già
venni, per ciò sola una volta in tua casa, ma i servi tuoi,me ne rimandarono, e
con dire, che non avevi tu ozio da inti'attenerd con un tuo congiunto ; ma clu:
avevi a fare cose più necessarie ; seppur v è cosa più necessaria della pietà
verso i suoi. Forse, i tuoi servi, ciò conoscendo y mi vietarono di per sé
stessi t entrata, e non per tuo comando. E ben io vorrei, che così fosse.
Certamente questo mi ridusse a parlarti di ciò. che io volea nel Senato, non
avendolo mai potuto da solo a solo. Ma .le buone, e le utili cose dovunque, 0
rippùj y son da dire tra gli uomini, piuttosto che 'JaG sempre tacerle. E che
io a le rendessi gli ojfizj dovuti alla nostra prosapia ; ne attesto gl' Iddj
de' quali noi dell’ Appio sangue veneriamo i templi e gli altari con sagrifiej
comuni: ne attesto i genj degli antenati, a’ quali porgiamo del paro gli onori
secondi, e li ringraziamenti, dopo de’ numi : e soprattiMo attesto questa
terra, la qual tiene nelle sue viscere il padre, ed il fratello mio, che io
dedicava a te la vita e la voce per sit^erire il tuo meglio. Pertanto
desideroso di rettificare, per quanto io posso, gli sbagli tuoi ti prego a non
rimediare male con male } à non perdere le cose tue mentre aspiri ad altre pià
gratuli ; e finalmente a non dominare agli eguali e a maggiori, ed essere
dominato da' pià vili, c più tristi. Se noti che, volendoti io ra^nar di più
cose e più a lungo, non so ridurmici : perocché se Dio ti rivuole a buon senno;
sóprawanzano le cose anzidetle: ma seti abhandona al tuo peggio, sarebbero
indarno, quante io ne aggiungessi. Eccovi, o padri coscritti, e capi tutti di
Poma, il mio sentimento per dar fine alla guerra, ed ordine alla repubblica
perturbata.' Se altri tien cose migliori a ridirne ; vincano pure te ottime.
Cosi disse Claudio ; assai speranzandosene i paIri, che i Dieci deporrebbero il
loro magistrato. Non replicava Appio nulla in contrario ; quando fattosi
innanzi Marco Cornelio altro Decemviro disse : Non abbisognano, o Claudio, i
tuoi consìgli: su Futile nostro provvederemo noi da noi stessi; perocché tale
appunto ò' la nostra olà, da non disconoscere ciò che ne giova, nè scarsi siamo
di (uaici, età consultar nel bisogno. Pertanto dispensati da opera intempestiva
; non dare o gran veccJào consigli, ove non se ne richiedono. Che se vuoi di
cosa alcuna ammonire t o pià propriamente, inveire su di Appio ; inveisci a tua
voglia y ma quando se’ fuor di Senato. Quivi entro però di ciò, che ten pare su
la guerra t co’ Sabini, e con gli Equi, circa la quale se’ chiesto del parer
tuo ; e cessa da vaniloqui fuori di argomento. Sorse a lai voci Claudio
nuovamente tutto mesto, e pieno gli occhi di lagrime, e disse: Appio o padri,
Appio, presenti voi, non reputa me, lo suo zio, degno nemmeno di risposta. Egli
precludemi, quanto è da esso, il Senato, come già la sua casa. Anzi levami, a
dirlo più veramente, dalla città ; perocché non io potrei rimirarvi di buon
occhio un indegno degli antentUi, un emulatore de' tiranni. Io dunque raccolti
i miei, e le mie cose, vammene tra i Sabini, per abitarvi la città di Jiegillo,
dond’ è la oiigine mia, e tenermivi finché questi trionfano nel sì bel
magistrato, ma quando ( nè dee molto tardare ) fta di questo decemvirato,
ciocché ne antivedo ; allora tra voi mi renderò. Ma ciò basà su me. Quanto alla
guerra, e sue cose, consigliavi o padri, che non diate sentenza niuna, finché i
nuovi magistrati non si abbiano. Cosi dicendo, e svegliando grandi ap>
plausi nel Senato pel maschio e libero suo spirito; sedette. E qi)i rizzandosi
in piede Lucio Quinzio Cincinnato, Tito Quinzio Capitolino, Lucio Lucrezio, e
lutti i primari 1 senatori, seguirono il parere di Claudio. Comarbatine i
coilegbi di Appio; risolverono di non più chiamare, a dir la sua mente, niodo
io vista degli anni, e dell’autorità sua nel consigliare; ma solo in vista
delia intrinsichezza, e dell’ aderenza con esso loro. E qui procedendo in
mezzo, Marco Cornelio fe’ sorgere Lucio, Cornelio il fratello suo, uomo operoso
nè infacondo nella ragione politica, e già compagno di consolato a Quinto Fabio
Vibulano, mentre Fabio era. • console per -la terza volta. Ora costui sorto
disse: Egli r è mirabile, o padri, che uomini di tatua età quanta ne kan quelli
li quali hanno prima opinato, e li quali cercano primeggiar nel SeiuUo, portino
per gare politiche, un odio implacabile ai capi dello stato, quando dovrebbero,
quanto è d'uopo difenderli, animare i giovani a combattere intrepidi per la
buona causa, e tener per amici, non, per nimici i sostenitori del pubblico
bene. Ma mollo pià mirabile egli è, che trasferiscano là malvolenza privata
alle atse della repubblica, e vogliano anzi perir co’ nemici, che con tutti gli
amici salvarsi. Eccesso di furore, e direi accecamento divino egli è questo;
eppure cosi li capi si comportano del nostro Senato. Sdegnati questi che nel
concoirere al decemvirato, che ora accusano, furon vinti da altri che apparvcr
pià idonei, fan loro eterna, irreconciliabile guerra: e sì stolida, e sì
furiosa ; da ìovesciare da capo a fondo la pàtria, per calunniare presso voi li
Decemviri. Vedon essi la nostra regione in preda a nemici : vedono che ornai
giungono a Roma, giacché breve è lo spazio che ne li separa ; ed in luogo di
esortare, e d’incitare i giovani a combattere per la patria, e di soccorrerla
essi stessi con tutta la diligenza, e l’ ordorè, quanto la età loro ne ammette
; vogliono che ora voi provvediate ad ordinare il governo, a creare nuovi
magistrati, e far tutto piuttosto-, che conquidere gC inimici : nè san vedere
che danno sentenze, anzi che tengono desiderj impossibili. XVII. E certo, fate
cosi ragione : il Senato emani il decreto de' comizj : i Decemviri lo
riferiscano al popolo, destinando il giorno del terzo mercato dal giorno
presente ) perocché -, e come staà mai valido ciocché si vota dal popolo j se
non compiasi a norma delle leggi ? Poi quando abbiano le tribà dato il voto,
prendano i nuovi magistrati la repubblica, e propongano a voi la guerra perchè
ne discutiate. Se in tempo sì grande, quanto ve n ha da ora ai comizj, si
avanzino intanto i nemici, e vengano fino alle mura; noi che faremo, o Claudio?
Diremo loro: atpettate per Dio, finché ci avrem fatti nuovi magi a straM ?
Certo Claudio suggerìvaci a non decretare, a nè riferire mai cosa al popolo, nè
scriver le leve, a se prima non siasi deciso come vogliamo su' magia strati.
Itene dunque, e quando udirete creati ì cona soli, creati i magistrati, e tutto
pronto per le armi a tornate allora per trattare con noi della pace ; giacB cbè
voi senza essere offesi da nei d avete i primi a oltraggiato ; e d
ricompenserete, secondo la giusti a zia, in danaro i danni delle vostre
incursioni : non a però vi conteremo le stragi degli agricoltori, non le a
inginrie, e le insolenze sperimentate da femmine in M guuc, nè altro male
insanabile . Ed essi li nemici a tal nostro invito useranno moderazione, e
lasciato che la repubblica crei li nuovi maestrali, e faccia gli apparecchi di
guerra ; tomeran poi portando ùi luogo delle armi, suppliche per la pace ; ed
arren dendo a voi sè medesimi. Xyni. O pur stolti coloro d quali van pel pensiero
tali delirj ! e milènsi noi se non ci corucciamo con quei che li propongono:
anzi sosteniamo di udirli, quasi consultino su nemici, non su la patria e su
noi! Che non leviamo di mezzo i cianciatori sì fatti? che non decretiamo sul
punto, che marcisi a difendere il territorio, il quale ci si devasta ? che non
armiamo quanti vi sono idonei de cittadini ? anzi, che non portiamo le armi
contro le città loro ; ma ce ne stiamo qui a bada, ed accusando i Decemviri,
ideando nuovi magistrati, e discutendo forme di governo, lasciamo quant' è
nelle nostre campagne, come nella pace, esposto al nemico ? Che sì ; che
infine, se permetteremo che la guerra giunga alle mura, corriamo noi rischio di
essere schiavi, e che ne sia lì orna stessa distrutta. Non sono queste, o padri
coscritti, le maniere di uomini sani, non le maniere di una social provvidenza,
la quale antepone al ben pubblico gli odj privati ; ma le maniere piuttosto tli
una contenzione intempestiva, di un disamar sconsigliato, di una invidia
sciaurata, la qual non lascia esser savio chi ne vieti preso. Tacciano per Dio
le controversie ; che tenterò di esporre ciò che avete a decretare salutevole
per la patria, ed espediente per 1 101, come terribile pe’ nemici. Stabilite
ora la guerra co Sabini f e cogli Equi : arrolate diligentissinù e prontissimi
le milizie da guidare contro ambedue : e quando la guerra abbia avuto buon,
termine, quando siansi in città ricondotte le milizie ^ quando sia già rinata
la pace ; allora volgetevi ad ordinare il governo, allora chiedete conto dai
dieci delle operazipni loro nel mostrato, allora createvi nuovi magistrati,
fondatevi nuovi tribunali ; e quando da voi dipendono queste cariche onoratene
i personaggi che ne son degni ; avvertendo, che pud tboppo non seb FONO I TEMPI
Alts COSE MA LE COSE AI TEMPI. Spiegatosi Cornelio in questa sentenza vi
aderirono, toltine pochi, anche gli altri che dopo lui ragionarono, altri
perchè la stimavano necessaria, come -convcnien' lissima a' fatti presenti, ed
altri perchè piegavansi e blandivano i Dieci per timore delia loro autorità, la
quale avea costernato non picciofa parte de’ padri. XIX. 'Alfine essendosi
opinato dalla più parte, e cora parendo quelli che volcano la guerra superiori
di numero agli altri ; invitaron tra gli ultimi a dire Lucio Valerio, quello
che volea fin da principio proporre la sentenza sua, ma se fu ritardato, come
già scrissi. Or costui sorgendo tenne questo ragionamento : Fedele, o padri j C
inganno dei Dieci] Non permisero questi che a voi favellassi, com' io volea,
nel principio, ed ora tra gli ultimi mel permettono ! quando pendano che io
punto non giovi la repubblica, sebbene io segua il partito di Claudio, perchè
ben pochi vi si appigliarono. Che se io mi dichiaro per altro consigilo, sia
quanto si vuole bonissimo, ne sarò vanissimo difensore ove io contraddica gli
espósti da loro. Annoverar si possono facilmente quei che dopo me sorgeranno
per dire : e quando pure consentano tutti con me, che può mai risultarmene, non
facendo essi nemmen picciola parte rimpetto ai fautori di Cornelio ? Ma sebbene
io ciò veda ; pur non dubito dire il mio sentimento: a voi si spetta, quando
udito lo avrete, di volgervi al meglio. Quanto al Decemvirato, e le cure sue
del ben pubblico^ concepite che io ven dica le cose tutte, che il prestantissimo
Claudio ven diceva : e che debbesi far nuovi magistrati prima che votisi per la
guerra, giacché pur questo chiedea con purissimo 'fine quel valentuomo. Tentò
Cornelio mostrarvi impossibili i cos/.ui su^erimenli, pretestando il gran tempo
che abbisognavi per le civili r forme, quando la guerra ne ò sopra. Egli mise
in burla, cose niente burlevoli, e con ciò commosse, ed ebbe molti di voi: ma
io, fofò vedervi, che non è impossibile, no, la sentenza di Claudio ; come
niuno di quanti la derisero osò dirla nocevole : e vi mostrerò come salvisi il
territorio,' e puniscasi chi temerario danneggialo : come ristabiliscasi
intanto il comando, che era qui degli ottimati; e come tutto si compia,
cooperandovi i cittadini, senza che niuno tenti il contrario. Nè sarà già
questa una mia saviezza ; ma io non vi addurrò se non gli esempli di cose
operate da voi; imperocché qual luogo hanno tnai gli argomenti dove la
sperienza stessa ne ammaestra su ciò che giova ? Fi ricorda che i popbli stessi
che ora le manti a/w, spedirono ancora milizie in un tempo stesso, già è r mino
nono o decimo^ su le terre nostre e de^ gli alleati, sotto i consoli Cajo
Nauzio, e Lucio A/i maio F Foi mandando allora molta florida gioventà contro i
due popoli ; f uno de' consoli ridotto a triocerarsi in luoghi disastrosi, non
potè far nulla, anzi videsi assediato nel >suo campo medesimo, e, sul
rischio di esservi preso per la penuria de' viveri. Nauzio poi contrapposto a'
Sabini, impegnato da battaglie continue, non potea nemmeno accorrere verso i
suoi che pericolavano : non ignoravasi che se periva V esercito contro degli
Equi, non avrebbe nemmeno potuto resistere V altro contro de’ Sabini,
riunendosi insieme i nemici. E fra tanti pericoli intorno della città, mentre
nemmen ci avea nelC interno suo la concordia, qual rimedio voi ritrovaste ?
Congregativi su la mezza notte in Senato ( lo. che giovò sicuramente ogni cosa,
e dirizzò la patria che rovinava ornai miseramente ), creaste un magistrato
solo, arbitro della guerra e della pace, sospendendo tutti gli altri ; e prima
che fosse giorno, ebbesi un dittatore neir ottimo Lucio Quinzio, sebbene si
trovasse allora non in città, ma in campagna. Foi ben sapete le imprese operate
dipoi dal valentuomo, come apprestò forze idonee, liberò V armata che pericolava,
e punì gV inimici, pigliandone fino il duce prigioniero. E fatto ciò con soli
quattordici giorni, e riparlato quan^ altro pur v era di male nella repubblica,
depose il comando. Così niente impedì, volendolo voi che si creasse il imovo
magistrato, solamente in un giorno ; e così dovete > credo, imitarne V
esempio, e scegliere, poiché altro non potete, un dittatore, prima che di quivi
usciate. Se trapassiam questo tempo, i Dièci non pià vi aduneranno per
consultazione alcuna. E perchè sia il dittatore nominato legittimamente
eleggete un interré nel pià idoneo de cittadini; come solcasi fare quando i re
mancavano, o li con. soli, nò si aveano affatto, come ora non le avete,
legittime autorità. Spirato che fosse per questi il tempo del comarulo ; la le^e
a sé ne richiamava i poteri. Or questo o padri, che è sì fattibile ed utile, è
ciò che vi eswlo di fare. La opinion di Cornelio porta la dissoluzion manifesta
del comando degli ottimati ; imperocché se i Dieci divengano una volta padroni
delle arme per tale occasione di guerra ; temo che. valercnisene contro di noi.
(^uei che non voglion deporre i fasci, depotranno essi mai le armi f
Considerate ciò : "'guardatevi da tali uomini ; provvedete contro tutti gC
inganni ; poiché vai meglio provveder che pentirsi; cotne é cosa pià savia
discredere gli empj ; che, credutili, accusarli. Piacque il dir di Valerio ai
più come potè rilevarsi dalle voci loro e da quelli che sorsero dopo di lui ;
perciocché doveano opinare ancora i giovani, e questi, eccetto pochi, lenean
per bonissitno,quel consiglio. Cosi quando tutti ebbero opinato, e le
deliberazioni aver dovevano un termine ; Valerio chiese che i decemviri
proponessero la ritrattazion dei pareri, c che di nnovo s invitassero a dire
tutti i senatori ; c persuase ciò fàcilmente, volendo molti di loro cangiar eli
partito. Cornelio che avea consigliato che si desse a decemviri il tornando
deHa guerra, opponeasi potentissimamente; dicendo esser questo un affare già
discusso, e portato giurìdicamente al suo fine col voto di tutti : pertanto si
annoverassero i voti nè cosa ninna si rìnovasse. Alternavansi tali detti
ostinatamente a gran voce da ambe le parti, essendone scisso il Senato;
perocché tutti quelli che voleano riformato il disordiu civile, favorivan
Valerio ; ma peroravano per Cornelio quanti preferivano il peggio, e temeano
de’ perìcoli da un cambiamento. I decemviri presa occasione di fare a lor modo
per la turbolenza del Senato, si -attennero al parer di Cornelio. Ed Appio,
quell’ uno di essi, re. catosi in mezzo disse : JVoi v abbiamo qua convocati o
padri perchè deliberaste su la guerra cogli Equi e co’ Sabini, e per questo
abbiam /alto che interloquissero quanti il volevano ^ chiamando voi tutti dal
primo aia ultimo, ciascuno ordinatamente, al suo tempo. I tre uomini • Claudio,
Cornelio, e Valerio in fine, ne diedero tre pareri ; e voi tutti, quanti altri
qui restavate, li ponderaste : e ciascuno, udendolo tutti, espose il partito al
qual si appigliava Tutto fu a norma delie leggi : ed essendo ai pià di voi parato
che Cornelio abbia presentata la sentenza mi^ gliore ; dichiariamo che questa
prepondefa ; e scritta Ut pubblicfdamo. f^alerio e ti' suoi partitoni,
annullino se vogliono, ma quando sian consoli, i giudizj già finiti : ed
invalidino le sentenze già firmale da tutti. E' cosi dicendo, c comandando che
io scriba legesse 3 decreto del Senato, col quale ordinava che i dieci làcesser
la leva delle milizie, e ammiuistrasser la guerra ; sciolse 1’ adunanza. Quei
della panie decemvirale ne andavano dopo ciò superbi e gonfi, come vincitori, e
come riusciti con esser gli arbitri delie arme, nell’ intento, che non si
abolisse il loro comando. Per contrario quelli che aveano voluto il bene della
repubblica suvansi timidi e mesti; come se non più ne sarebbero gli arbitri in
maneggio ninno. Dond’ è che si divisero con risoluzioni diverse ; riducendosi i
meno ' generosi per indcde a concedere tutto ai vincitori, e consociarvisi ;
laddove i men paventosi teneansi in placida vita lontani dalie pubbliche cure ;
e li più eccelsi di spìrito faceansi ua seguito proprio, intenti a difènder
sestessi, e trasmutare il governo. Capi di queste unioni erano Lucio Valerio e
Marco Orazio, que’ dessi appunto che intrepidi, proposero i primi al Senato di
ritogliersi al decemvirato : e questi custodivano la propria casa colle armi, e
sestessi con valida guardia di 'clienti e .di servi per non patir violenza, e
non mostrar di temerla insidiosa o palese. Quelli che non voleano in Roma
part^giar coi più forti, nè brigarvisi in cure pubbliche, nè giudicavano
intanto ben fatto di starvi in ozio indolente ; ne uscivano,. parendo loro cosa
non facile di vincere i dieci colle arme, anzi impossibile di abbatterne la
grande potenza ; ed era lor condottiero 1’ insignissimo uomo Ca)o Claudio, lo
zio di Appio Clandio capo decemviro^ il quale adempiva le promesse fatte in
Senato al figlio del fratello quando stimolavalo a deporre 3 comando. xr., 337
ne T Io indusse . Lui seguivano torbe di amici e clienti; ma, datovi da esso il
principio, abbandonarono la patria ancor altri colle mogli e co’ Ggli, non già
di nascosto ed in pochi; ma a moltitudini ed in pubblico. Altronde i compagni
di Appio indispettiti del fatto si misero ad impedirlo, cbiudendo le porte, e
ritraendone alquanti de’ profughi. Ma poi venuti in paura, che gli impediti si
rivolgessero alla forza, e considerando più rettamente come era meglio che
uscissero che rimanessero, nemici loro, a conturbarli; spalancarono le porte, e
lasciarono andarne quanti mai vollero; incolpatili però come disertori, ne
invasero le case, i poderi, ed ogni cosa non potata portar via per l’esilio,
apparentemente a conto del fisco, ma in sostanza beneficandone i loro fautori,
quasi comperata l’avessero. Or tali imputazioni date a’ primarj esasperarono
più ancora i patrizj e i plebei contro ai decemviri. Nondimeno se qiiesti non
aggiungevano novi errori ai già detti; parmi che avrebbero tenuto ancora lungo
tempo il comando. Imperocché stavasi ancora in città la sedizione, mallevadrice
del poter loro, cresciuta da tanto tempo, e per tante cagioni : le quali
facevano esultare a vicenda gli uni pei mali degli altri ; li plebei perchè
vedevano, mancato il cuor ne’ patrizj, e nel Senato ogni arbitrio su la
repubblica; e li patrizj, perchè vedevano il popolo ridotto in tutto senza
libertà e senza forze, fin d’ allora che i dieci gli tolsero l’autorità de’
tribuni. Ma perciocché tali decemviri nè moderali in campo, nè prudenti ìu
Roma, Vedi S i5 di questo libro. 4 v ptONlGl > ITI’, la iasistevaDO con
assai durezza centra l'uno e Tallro par ti(o, lo astrinsero infine a riunirsi,
e deporli colle arme stesse, avute per la guerra. Tali poi furono gli ulllmi
delitti pe’ quali svergognato il popolo, ne infuriò. Dopo che ebbero stabilito
.in Senato il de creio per la guerra ; descrissero in fretta le milizie, e
divisele in tre parti, ne serbarono due legioni per guar dia deir interno della
città. Piesedeva a queste due Ap pio Claudio il capo decemviro insieme uon^
Spurio Op pio. Intanto Quinto Fabio, Quinto Poeteiio e Manio Rabuleio nè andarono
con tre legiodi contro de' Sabini: partirono con altre cinque per la guerra
.contro degli Equi Marco Cornelio, Lucio Minucio, Marco Sergio, Tito Antonio, e
Cesone Duvilio finalmente. Militarono con essi le truppe latine, e di altri
alleati, non meno numerose delle romane. Ma con tantb milizie urbane, con tante
ausiliarie, niente riuscì loro secondo il disegno. Imperocché li nem'tci
spregiandoli come nuove re clute, si accamparono vicinissimi a loro; e ne
invadevano i viveri che erano ad èssi portati, insidiando le strade, e gli
assalivano mentre uscivano ai pascoli. E se mai venivano ordinati alle mani,
cavalieri con cavalieri, e fanti con fami; riuscivano da per tutto vincitori i
nemici ; perocché non pochi Romani mandavano alla peggio ogni cosa, indocili al
capitano, come restii per combattere. Quelli che erano tra’ Sabini, renduti
sav) da mali minori, deliberarono da seslessi di abbandonare il campo: e
levandosene circa la mezza notte ripassarono con una ritirata, simile ad una
fuga, dal territorio nemico nel proprio; fino a Crustumero, città nou lontana
Digitized by Google tiBno jfi. 339 da Roma. Gli altri che. teneano il campo
nell’ Algido della regione degli Equi, ne riceverono ancor essi non poebe^
percosse. Ma ostinandosi incontro a’ pericoli, quasi a riaversi' dalie perdite,
incorsero in danni lagrimevoli. Imperocché spintisi i nemici su loro,
cacciarono quelli che erano in guardia degli steccati; e salite le trincee,
occuparono il campo, e vi uccisero i pochi che resistevano, uccidendone anche più
nell’ inseguirli. Quelli che scamparono colla fhga, feriti in gran parte, e
quasi tutti privi di arme, ripararonsi al Tuscolo. Del resto tende, giumenti,
danari, schiavi e tutti gli altri apparecchi furono preda ai nemici. Saputasene
in Roipa la nuova i nemici del decemvirato, quelli ancora che ne occultavano 1
odio, si dichiararono, esultando su la rea condotta de’ capitani. E già grande
era Ja moltitudine presso di Orazio e di Valerio, capi, come fu detto, de'
crocchi aristocratici. XXIV. Appio e Spurio somministrarono a quelli che
comandavano in campo arme, danari, grano, ed ogni bisogno, pigliandone
superbissimamente da’ privati e dai pubblico: e reclutando dalle tribù tutti
gl’idonei a combattere ; gl’' inviarono loro in supplemento de’ morti, e delle
schiere. Invigilarono diligentissimi su Roma, presidiandovi i luoghi più
acconci; talché il seguito di Valerio non fosse occulto nel sommoversi.
Commisero per vie sécretissime ai capi dell’esercito di sterminare i loro
contrari, in occulto se riguardevoli, ma palesemente se ignobili, sempre però
con qualche pretesta, perchè paressero giustamente levati. Altri mandati da
essi a foraggiare, altri a proteggere i trasporti de’ viveri ; ed altri ad
altre belliche incombenEe lisciti dagli alloggiamenti, non furono mai più
vedùti in alcun luogo. Ma li più ignobili accusati _ di aver dato princi'pio
alla fuga, o portato secreto notizie ài nemico, o non mantenuto r ordine, erano
in pubblico trucidati per ispavento comune. Così le milizie erano in due modi
disfatte : le fautrici del -decemvirato pe’ cimenti col nemico, e pei capitani
le altre che ridesideravano jl governo degli ottimati. Appio co’ suoi
commetteva in città delitti consimili e non pochi : la plebe tenne picciolo
conto di alcuni estinti quantunque fossero molti di numel-o : ma la morte
barbara, ingiusta di uno de’ plebei più cospicui, celeberrimo per le belle
virtù sue nel combattere, operata nell’ accampamento ov’ erano i tre capitani,
decise quanti vi erano alla ribellione. Sicciu fu I’ ucciso, quegli che avea
combattuto le cento v^nti battaglie, raccogliendone sempre' il premio de’
prodi, quegli che disobbligato già per gli anni dal > guerreggiàre, si diè
spontaneo per 'la guerra,con gli Equi menandovi per r amor che gli avcano,
altri ottocento, già liberi ancor essi a norma delle leggi da’ servigj militari
: quegli che spedito dall’ uno de’ consoli contro le. trincee nemiche a rovina
come parea manifesta; pur le invase, e preparò pienissima la vittoria pe’
consoli. Or quest’ uomo, cercando Appio co’ suoi di levarsel d’intorno, perchè
avea molto parlato in città contro i duci del campo come codardi e imperiti io
trassero a discorsi amichevoli, lo invitarono a deliberare con essi intorno le
cose del campo, e dire come fossero da emendare gli errori de’ capitani i e Io
indussero infine ad andare in forma di legato all’ armata di Crustumero. È tra’
Romani il legalo onoratissima e santa rappresentanza, con l’ autorità de’
comandanti, e con la riverenza e la inviolabilità de’ sacerdoti. Lo accolsero
al giunger suo con benevolenza i duci, e lo stimolarono affinchè stesse e
comandasse con essi ; anticipandogli de’ doni, e promettendogliene ancora.
L’uom d'arme, tutto ingenuo in seslesso, deluso dai scellerati, come lui che
non capiva i presti gj delle parole, e quanto erano ingannevoli ; suggerì loro
le cose che utili riputava, e soprattutto che trasferissero il campo dal
territorio proprio a quello de’ nemici ; additando i mali che ivi soffrivano, c
rilevando i beni che da tale passaggio nascerebbero. Fingeano que’duci udirne
con diletto gli ammpnimenti : Adunque che non ti. fai tu duce, gli dissero, di
questo transito, preeleggendone il sito opportuno, tu si perito do' f ioghi por
le tante tufi spedizioni ? Noi ti daremo schiera eletta di uomini, espediti per
armamento leggiero. Avrai tu cavallo come alT età tua si com’iene, ed armatura
degita. dei tuoi pari. Tenne Siccio l’invito, e chiese cento uomini scelti.
Quegli, essendo ancor notte, spediscono lui senza indugio, c con lui cento i
più baldanzosi de’ loto fautori, istrutti, e mossi ad ucciderlo con lusinga
ahiplissima di ricompense. Or questi giunti, ornai ben, lungi dal campo, in
luogo montuoso, angusto, e difficile di ascenderlo a cavallo, se non di passo,
ordinaronsi, datone il segno, in maniera da serrarsi in folla su lui. Un tale,
sostenitore e servo di Siccio, valoroso tra le 34 a, arme, indovinando il cor
loro, diedene cenho al padrone. Il quale vedutosi in tanto disagio di sito da
noa potervi nemmen slanciar con forza il cavallo', ne salta, e postosi coir
unico sostenitore suo in una balza per non esservi circondato, aspetta che ve
lo assalgano. Or tutti ( ed erano molti ) assalendovelo ; ne uccide intorno a
quindici, feritone il doppio : e parca, se lo assaliva da presso, che avrebbe,
combattendo, straziato ancor gli altri. Ma questi, conceputolo per invincibile,
e come non era dà prenderlo a corpo a corpo ; non vennero in tal modo alle
mani: ma tenendosi lontani da lui; lo fulminarono con dardi, sassi, e legni. Ed
altri avanzandosi di fianco in &ul motttc, e riuscendogli a tergo,
rotolavano dall’ alto macigni stragrandi : talché per la moltitudine de’ dardi
lanciatigli conira, e per la enormità de’ sassi che cade.mu romorosi dall’
alto, lo oppressero in 'fine: e questo fu il termine incontrato da Siccio.
Tornaitono gli uccisori co’ feriti nel campo, e vi pubblicarono che una insidia
ióiprovvisa di nenrici avea spento Siccio, e gli altri, che assalirono i primi,
e che essi he erano a stento scampati, ricevutine molle ferite. Pareano questi
dir vero ; non però si giaeque occulta la loro per6dia : ma sebbene avvenisse
1’ eccidio in luoghi deserti e senza testiinonj ; i fati stessi e la giustìzia
che invigila le cose umane, lo diedero a conoscere per segni indubitati -.
Imperocché quei del campo riputando 1’ uom forte degno di pubblica sepol A
quella icotenza somiglia quella lauto vera di Arioslo can. 6 e tanto poco
tenuta in peotieio dagli nomini. tara. e di onori distinti rispetto degli
altri, per più cause, e' principalmente pel carattere suo di legato, e per cbè
libero già da’ servigj militari, eravisi cimentata di nuovo per util comune;
decisero di unirsi dal complesso di tre legioni e di uscjre cosi per
investigarne il cadavere, onde riportarselo con pieno decoro e sicurezza.
Concederono questo i capitani per non dare sospetto alcuno delle insidie : e
prese le arme uscirono intenti all’^opcra bella e degna. Giunti al sito e
vistovi non selve, non valli, non luoghi consueti per le insidie, ma una balta
tuttar nuda ed aperta,.ed angusta a passarla; sospettaron bentosto ciocch’era.
Avvicinatisi quindi ai cadaveri % mirato Siccio e gli altri derelitti, ma senza
essere spqgliati; si meravigliarono che-i nemici, vincendo, non avessero levate
loro non le vesti, nè le anni. E specolando ihtoroo ogni cosa, nè trovando
vcstigia di cavalli o di uomini se non le impresse nel sentiero; tennero per
impossibile che i nemici fossero su loro venuti improvvisi, quasi uccelli., o
uomini discesi dal cielo. Ma, più che questi e simili indi^, il non trovarsi
ivi cadaveri, di avversar) fu. loro argomento evidentissimo, che gli amici ne
erano stati gii uccisori e non i nemici. Imperocché non parea loro che Siccio,
e quel Miscr chi maV oprando si confida, Che ngnor star debba il maleficio
occulto ; Che quando ogn’ altro taccia intorno grida V aria e la terra ittetsa
in che-d tepultq^ . E Dio fa spesso che 'I peccato guida Il peccator, poi cV
alcun di gli ha indultoChe" si medesmo, seni' altrui richiesta
JnavOedutamstnle mastifesla. ^44 nF.LT,E sosteuitore suo, e gli altri, che seco
perìroofi, sarebbero morti inulti, specialmente se venuta si fosse, quanto si
può, (la vicino alle mani. Rac(:olsero. ciò ancora dalle ferite : perocché
Siccio, come quel suo, sostenitore, ne avea molte per colpi di sassi o di
strali e di spade ; laddove gli uccisi da loro avean colpi di spade si, non di
sassi, o di strali e di saette. Adunque .ne sorse indignazione, e claipore, e
lutto. Alfine compianta la disgrazia ; raccolsero e portarono il cadavere ai
campo : e là gridarono altamente contro de’ capuani, esigendo allora allora
secondo la legge militare la morte degli uccisori ; o che sen fidasse almeno il
giudizio ; e già molti erano pèr,farvisi accusatori. Ma conciossiaché non
davano loro udienza, e nascondeano gli uccisori, e^ne differivano il giudizio,
con dire che in Roma darebr bero a chi la volea la podestà di accusarli ; ben
vtdesi che la trama era de’ (ùpitani. Adunque portarono (xm magnifica pompa
Siccio al sepolcro, alzandogli una pira meravigliosa, e tributandogli secondo
il loro potere altre primizie che la legge concede negli onori estremi dei
valentuomini. Alienaronsi allora tutti dal decemvirato; e pensarono come
liberarsene. Cosi l’ esercito presso Chistumero r Fideue era nimico a’ suoi
capi per la morte di Siccio legato. L' esercito acc;impato nell’ Algido della
regione degli Equi, e la molutudiiie in Roma crasi per tali cagioni esacerbata
tutta con essi. Lucio Verginio un plebeo, non secondo a niuuo nella milizia,
starasi capo di una centuria nelle cinque legioni, belligeranti con gli Equi. Avea
costui per avventura una figlia vaghissima fra ratte le donzelle romane. Ella
portava il nome del padre, ed avealasi pattuita in isposa Lucio Icilio, uomo
tribunizio, qome 6glio di quell’ Icilio che primo fe’ stabilire, e primo
assunse T autorità di tribuno. Appio Claudio il capo decemviro vista la
verginella che leggeva in una scuola ( stavansi allora le scuole pe’ giovinetti
intorno del Foro) bentosto ne fu preso dalla. bellezza ; anzi vinto dalla
passione era così tòlto a sestes-^ so, che non potea non passare più volte
intorno della scuola. Or non potendo torlasi sposa come già sacra ad altri,
anzi perchè egli avea pur moglie, e perchè non istavagli bene donna plebea di
lignaggio contro il suo grado e la legge scrìtta da lui nelle dodCci tavole ; su
le prime tentò corrompere co’ danari la giovinetta. Egli mandava ad pra ad ora
delle donne con doni e promesse maggiori' alle nudrici di essa, orfana già
della madre ^ avea però comandate le donne che tentavano le nudrici a non dire
chi fosse l’amante della fanciulla, ma solo eh’ egli erg un tale che potea,
volendo, -beneficare e nuocere. Non potendo però^ guadagnarle, anzi vrt.duta la
donzella guardata più che prima, si mise, caldissimo che ne era d’ amore, a
camminare altra via con meno ancora di sénno. Fattosi chiamare Marco Claudio, r
uno de’ suoi clienti, uomo ardito e pronto ad ogni servigio, gli additò la
Gamma sua : e prescrit(t) Forse nipote’, perchfc dalla islitusione del
tribonato all' anso prescote decorsero 45 aooi. Pertanto Lucio Icilio di cui qui
ai ragiona o era nipote ni, Icilio Ruga, o coOTÌen dire che di molto eccedesse
gli anni di Virginia destinatagli sposa ; seppure non voglia dirsi che Icilio
Ruga generasse beo tardi quel figlio. > togli cioccliè volea che facesse, e
dicesse ; lo spedi con allato uomini impudentissimi. Costui recatosi alla
stuoia, vi tolse la vergine, b volea recarsela palesemente pel Ford. Impedito
però dai clamori e dal grande oucorso, di recarsela dove avea stabilito; venne
al magistrato. Sedessi allora nel tribunale Appio' solo, rendendo risposte e
r&gioni a chi ne chiedeva. Or volendo colui dire, sòrsene rumore e sdegno
tra circostanti, i quali tutti reclamavano, perché si aspettasse 6nchè
venissero i parenti della fanciulla ; ed Appio ordinò che in tal modo appunto
si facesse. Passato appena picciolo tempo; ecco presentarsi 'Publio Numitore
nomo insigne tra i plebei, zio materno di lei, con, seguito di molti amici e
parenti; e dopo non molto ecco giungere con numero poderoso di giovani plebei
Lucio Icilio, quegli che per le promesse dèi padre aver dovea la donzella in
isposa. E questi, tutto sospeso ed ansio nel respiro, avanzandosi al tribunale,
addimandò chi osato avesse toccare la giovine' cittadina, g (die mai ne
pretendesse. Fattosi intanto silenzio. Marco Claudio, quegli appunto che avessi
preso la donzella, così ragion:^; O j^ppio Claudio, niente ho io fatto di
temerario, niente di violento contro la fanciulla. Signore, come io tono di
lei, secondo le leggi me la conduco. Or odi comi ella siasi la mia. Ho io una
tal serva paterna che ministrami già da tempo lunghissimo. Or questa, familiare
che ne era, usava di andare alla mo"liè di f^érginio; e la moglie di
Ferginio persuase lei gravida a concederle, quando che fosse, il frutto del suo
ventre. La donna, partoiita una figlia, ( ed era questa ) serlà le promesse ; e
àiedela a Numitoria, con fingere presso noi che uscita fosse la di lei prole
già morta. Numitorià tuttoché madre non fosse di fanciulli o fanciulle, la
pigliò, la fé' sua, la nudrì, senza che io sapessi nel principio la vicenda.'
Or la so per indizj di molti e buoni testimonj : io ho fatto t esame di quella
serva, e ricorro alla legge comune per tutti ha quale vuole che sia la prole
non di chi la impostura per sua, ma di chi 1’ ha gene rata ; e che libera sia
se nata di libera, e serva, se nata di serva, de’ padroni stessi delle madri u.
Su questa legge esigo di riportarmi la figlia della mia serva, pronto a subirne
il giudizio: Che se alcuno la reclama per sua, dia certi mallevadori di
riprodurla in giudizio : ma se anzi vuole chi^ ora qui sen tratti la causa io
lo secondo, voglioso c^e si espedisca anzi che si procrastini, e che io mi
assicuri con mallevadoii la vergine. Scelgano qual più vogliono di questi
partiti. Claudio cosi disse aggiungendo vive preghiere di non essere
considerato meno de’‘suoi competitori per amici, e torlasi a forza quando glie
la ripresent'avano per la sentenza. E perchè 11 giudizio fosse con buona forma,
sul pretesto che il padre di lèi non erasi presentato ; diè lettere a cavalieri
fedelissimi, e li spedi nel campo ad Antonio, cdroandante della legione ov’ era
Verglnio, con ordine che ritenesse quest’ uomo cautissima mente, talché udite
le vicende della figlia, da fui non s’ involasse. Ma Io prejr vennero,
attinenti che erano alla donzella, il figlio di Numitorio, cd il fratello d’
Icilio, spediti avanti, sul nascere appena della sommossa. Giovani pieni di
coraggio fornirono prima il vaggio sferzando i cavalli ed abbaudonando loro le
redini j e _ narrarono a Vergitiio l’evento. E Verginio, ^cimane ad ^Antonio la
cagione vera, e fintogli di aver udita la morte di un suo pa rente di' cui
doveasi fare il trasporto, e la sepoltura secondo la legge, ebbe il congedo. E
presso 1' ora in cbe accendonii i lumi ; se ne andò con que’ giovini, ma per
altra via, temendo, come avvenne, di essere inseguito da quei del campo e della
città; perocché Antonio, ricevuta la lettera circa la prima vigilia, spedi
contr esso una banda di cavalieri, mentre un’altra spe dita da Roma guardò per'
tutta la notte la strada che vi conduceva dal campo. Ma non si tosto un tale
ridisse ad Appio che Yerginio era l’unto contro la espettazione; egli, uscito
di' senno, ne andò con gran seguilo al tribunale, e fece che a lui si
chiamassero i congiunti della donzella. Venuti' questi, Claudio ripetè lo
stesso discorso, e dimandò cbe Appio senza indugio decidesse l’affare; dicendo
esser pronto chi lo esponeva, e chi lo attestava, fin la serva, madre vera
della fanciulla. Simulava in tutti questi atti. che assai si sdegnerebbe, se
esso per essere cliente di lui non ottenea come prima la giustizia egualmente
che gli altri ; e dimandava che ajutasse chi dicea cose più vere, non chi più
lamentevoli. Il padre della donzella e gli altri patenti escludcano la
supposizione del parto con molti argomenti giusti e veri, per esempio che non
ebbe cagion plausibile di farla la sorella di Numitorio c moglie di Verginio
maritatasi vergine ad utl giovine la quale partorì tra non molto : appresso
perchè sebbene voluto avesse iotradere in sua casa un 6glio altrui ; v’ avrebbe
intruso non il figlio di, una donna schiava, ma quello di una ingenua, amica o
parente sua, onde ritener fedelmente e stabilmente ciocché TÌce'’eaiée : ed
arbitra in tutto di Scersela Come volea, scelta s’ avrebbe la prole non
femipea, ma > vivile} imperocché la donna che partorisce, vinta dall'
aderenza pe’ 6gli che partorisce, ama e nudre ciocché la ‘natura le porge:
laddove, la donna che imposturasi un 6g)fO sei' cerca del > sesso migliore,
non del più ignobile. Contro lui poi che dava .l’ indizio,'e .contro i molti
tesu'monjedibili da Claudio come degni di fede. allegavano cagioni tratte dal
verisimile : vuol dire che Numitoria non avrebbe operalo imai palesemente e
presenti molti ingenui tekùmònj tur fatto che abbisognava di silenzio, e che
-pbtea' fornirsi col ministero di un solo ; e c|ò perché la prole edncatà non
fosse col tempo ritolta dai padroni delia madre. Agginngeano che la dilazione
non picoiola' era segno evidente che il calunniatore non prolTeriva niente di
vero: perocché colui che dié l’ indiziò 'della supposlzioue e gli altri che la
cooteslano -l’avrebbero molto 'iuoansi svelata, non tenuta Segretissima per
quindi^, anni. Frattanto redarguivano le pròve degli accusatori, come non vere
'né credibili, e chiedeano che si paragoudssero colle altre loro, nominando
molte doqpe non ignobili le quali dicevano aver veduta Numitoria gravida cOn
pienezza di utero. Olirà queste ne additavano altre che in fom del parentado
venute pel parto o per la pimrpera aveano mirato k prole, ed iuasievano perché
s’ iuViomci terrogassero. Era poi di siderando queste e simili cose, e fra lóro
discorrendole, ne piangevano. Appjo altronde, come non cauto, per matura, e
corrotto dalia grandezto del potere, invanito di sestcsso, e caldo ' di amore
nelle viscere, non ohe attendere al parlare dei difensori, e commoversi alle
lagrime della vergine, adiravasi per la compassione che di -lèi' Sentivano
>i circostanti (Juasi di compassitme egli fosse più degno, e patisse mali
più grandi, ridotto prigioniero dì quella bellezza. Da tali cause infuriato
ardi fin di 'fare' impudenti discorsi (pe’ quali, coloro che già ne
sospettavano,' foron -chiari, 'che sua era 1 impostura contro la donzella )
> e compiere infine la barbara c tirannica azione. Àncora parlavano, quando
egli iuUqoò sUeniiio ; e. feoesi. jbtanlò la moilitudine che era nel Foro,
^ntenendo lo adegno si spinge innanzi per desiderio d’ intendere ciocché
direbbe ; ed esso volgeo'. dosi qua c là per numerare col guardo i crocchi
degli amici co quali avea p|:ima occupato il Foro cosi favellò: O Verginio j o
voi qui presenti con, esso f fiqn io sento ora la prima voltd un tal fatto, ma
lo sentii prima ancora di giutfgere a questo magistrato. Or udite ; Come ' lo
sentàsL 11 padre di questo Marco Claudio ornai. spiratido la fitfl y pregavnmi
die io prendessi la tutela del figlio lascialo da lui piccélo ; giqcchò essi
fin. dagli antichi loro son . clienti della ìiostra famiglifc. Or mentre io rn
era il tutore di esso udii della donzella e .come Numitoria sala suppone;
prendendola dalla sert>à di Claudio: ed esaminatala; trovai che appupto cosi
pava •' dettai c, giudico esser Claudio padrone della serva. Udito ciò, quanti
ivi erano fiomlni iniegrì, sostenitori di que’ che dicevano il giusto, levarono
le mani al cielo, con “"un grido misto d’ indignazione, e di pianto : per
1’ opposlto i partigiani de’ Decemviri, mandavano voci atte ' a confortarli ed
animarli. Irritatasi però l’adubanza, e riempiuta di ogni guisa di afTetti, e
discorri ; Appio intimo silenzio, e disse : O tutbolenti, o inutìii a tutto
nella guerra e nella pace !• se non cessale di sonunover la' patria, e di
controporvici ; farete alfin senno per forza. Non pensate, jche abbiamo noi
messo un presidio nel Campidoglio, e nella fortezza soltanto contro i nemici di
fuori, e che lascèremb poi fare quei iT entro, i quali sconciano ih Roma, ogni
cosa. 'Prendete consiglio migliore ^ thè non avete o. voi tutti a quali non
spetta C affare ; andatene per le cose vostre in buon ora. £ tu Claudio recati ria
pel toro ' la donzella : non temere ; giacche i dodici miei Colle scuri ti
saran guardia. A ul dire gli altri ululando, battendosi la froòte, nè potendo
raffrenare le lagrime, partirono dal Foro; e Claudio succò via la donzella, che
stringeva, che baciava il padre suo, e con voci affettuosissime lo invocava.
Fra tanti mali, Yerginio si mise in pensiero un’ azione, amara, addolorevole ad
un padre, ma degna di ud nomo liberò, -di un Uomo generoso. Egli intercedette
di salutare ancora una volta la 6glia, e di parlare a lei le cose, che volea da
solo a solo ; prima che dal Foro la involassero. Condiscesone dal capitano, e
ritiratisene alquanto i satelliti, abbraccia la figlia che sviene, che
abbandonasi ; e cosi la sostiene, richiamandola, baciandola', rasciugandola
dalle lagnile, che la inondavano. Poi^ trattala seco un poco, non si tosto fu
presso la officina di un niacellajo, rapiscene di su dal banco la coltella, ed
immersela nelle viscere della figlia gridando: Figlia (i mando Ubera e casta ai
nostri sotterra: per colpa del tìrarmo già ntm potevi tu viva serbare questi
pregi.. SóHevatisi intanto de' clamóri ; tenendo in pugno il ferro
insanguinato, egli stesso grondante del sangue, sebitaato su lui, nell’
uccidere della figlia, corse furibondo, peó la città, reclamandovi la libertà ;
de cittadini. Passate a fona le porte, àìcese il cavallo, ebe tenessi per Ini'
preparatp, e rivelò nel campo, riaccompagnatovi dà Icilio, e da' Knmitórlo, i
giovanetti ebe ne 1 cavarono. Teneano loc' dietro anche altri plebei non pochi,
Jn numero quasi di ^attro. cento. j ' ;Appio al caso della ^giovinetta,.
levatosi da sedere, si slanciò cpme per inseguire Verginio, dicendo, e facendo
cose non degne : ma eiroondandolo, e pressandolo gli, amici a non traviare, si
ritirò, pieno di rabbia su tutti : quando ornai -presso della sua casa udì da
taluni de' suoi fautori, che Icilio il .suocero, e Nut raitore lo zio,
ridottici con altri amici, e congiunti intorno al cadavere, gridavano conteaIni
an colpe no> te, e non note concitando tutti a rendersene liberi una volta.
Colui spedì per la rabbia che ne' ebbe, alcuni de’ littori, -con ordine d’
imprigionare i maledici, e di levare dal Foro il cadavere; opera, insana in
v?ro, sconvenientissima al tempo. Imperocché mentre doveacarezzar la
moltitudine incollerita giusUmente, e-jóedere in principio al tempo, e poi
rdifendersi, pregare, beneficare onde’ riconciliarsela ; egli 'corso Alla
violenza, ridusse tutti. a disperarsi. Pertanto non permisero che gl’ inviati
levassero la estinta, o' portassero alcuno nella carcere : ma gridando, ed
animandosi gli uni gli altri ; cacciarono dai Foro coll’impeto, e oolle
percosse i mi'nistri della violenza. Talché Appio, ciò udendo, fu costretto dì
recarsi con molte partigiani e clienti nel F oro, e comandare 'che battessero,
e sbandissero, chi v era, ne’ capi delle vie. Orazio e Valerio, duci come ho
detto degli altri a riprendere la libeiné, sentito il disegno dell’ uscir di
colpi, menarono' con sé molti bravi giovani, e si' misero dinanzi k estinta. E qpando
ebbero più \icini {'compagni di ‘Appio, prima inveirono, (jnanto poterono, su
loro cOn -clamori .ed ingiurie ; é quindi, pareggiando ai detti le opere,
ferirono e rovesciaronoquanti osarono lanciarsi su lOro. Appio mal .sofferendo
l’ostacolo impreveduto, nè trovando come trattare tali nomini \ risolvette di
correre Una viaria più rOvinOk. Impéròccbè portatosi al tempio di Vulcano ;
invitavi a parlamento la ' plebe, quasi' benevola ancora verso di esso: e
prendevi ad accasare la inginslizia, t la dnsojenza di tali uomini,
lusingandosi per l’ autorità sua .tribunizia, e per le vane speranze, ebe la
moltitudine gli concedesse di precipitarli dalTa' rupe.. Afa i compagni di
Valerio occupata l’altra parte del Forò, e postovi il cadavere della vergine
visibilissimo a .tutti, ''convocarono un altra adu.'nahza; facendovi vivissime
aCcusé di Appio e de’ suoi. Occorse, com’era vcrisimile’, che’aUÌt'andovene
altri 'la riverenza per ^questi ' nomioi,, altri la commiserazioae vereo la
dctazella soggiaciuta a vicènde dure,,e più, che dure per la sv>a bellezza
infelice, ed, altri H. desiderio stesso della forma .precedente df governo, vi
si rioni più gente che intorno di Appio : tanto che non rima-c seto presso
questo 'se non pochi, appunto i partigianir ira'qtuli cc ne^avéa pur alèoni,
che per molte cagìoivi mal più si acconcravano eoi Decemvirato,, contèntissimi
di rivolgersi agli avversar), sé il partito loro si fortiGeasse. Appio
vedendosi derelitto ^ -fo cpstretio i mutar COtasigHo,'e ' ritnrarsi dèi
Fpro^cioecll&' moitissiUo gii giovò. Imperocché prèso a cólpi'dalia
moltitadioe pagata le avrebbe le giustissime pene. Dopò .ciò Valerio .
acquistata preponderanza, quanta 'ne volle, si sfogò perorando contro ai
'Decemvirato, e decise in favor suo perGno i dubbiosi. Molto. più' poi
conjpccia'rono la moU titudiiie contro ai Dètèiòviri i parenti della vergine,
recando -al Foro .il feretro, -e T altro lagubre apparato, maguiGco quanto
potevano, è facendo ..la traslazione del cadavere per le .vie più illustri, di
Roma, onde fóssevi più rimiralo; imperocché còrreabu fuori di casa matrone e
donzelle per piangere la sciagura e qual d’esse gettava su la bava Gori^e
ghirlande', e qual veli e. nastri . e fiV;gi pel capo di .una vergine, e quale,
in Gne.te anella de’ Vecisi capelli : iiratlantor molti uomini •nobilita vano
'la liinèbre pómpa con' doni convenienti, presi grsìtnitamente’ o con pfeézró
dalie prossime olBcIce. Tanto che divulgaiissima era per' la citrii la
lagrimevole cerimònia, éd avea tulli acceso il desiderio di -spègnerti la'
lirannlde. Ma qnei chè la difeudeano f isirntii che 1 ' ; ‘ ".jd ny erano
di arme, davano grande spavento ; laddove Va^ lerio W SUOI non volea finire col
sangue de’ duadim la disputa. ". Tale era in Roma la turbolenza. Intanto
Verginio che avea^ come ho detto ^ itccisa di sua mano la figlia spronando.' a
briglia sciolta il .cavallo i giunse agli alloggiamenti presse l' Algido su l’
imbruttir della sera, tutto lordo -di sangue, e. colla ooltelitt, in pugno,
appunto. com’ era fuggito da Roma. Vedi^tolo, i soldati che stavansi a guardia
innanzr del campo ^ non sapeano indovinare ciocché . avessè patito^ e lo
accompagnarono per intenderne 1 alto.' e terribile caso. E colui tuttavia
camminava piàngendo, e significando a quanti gli erano intorno di .seguitarlo.
Uscivano fin di mezzo alJf cena da’ padiglioni, presso i quali passava, soldati
Jn folla y con faci e làmpade, pieni di mestizia e tumulto, e fa cendogli
corona^ lo accompagn#ano. Alfine giunto in un luogo spaziose del campo.,' e
salita una eminenza ov’ essere da tutti veduto, nar^ò. le disavventure sue,
dandone per testimou) quanti erano con esso, venati da Roma. E quando infine
videne molti addolorati e piangenti-; fecesi allora a supplicarli e
scongiurarli di non permettere che restassero,. egli invendicato, ^
concaicataria patria. E lui coti dicendo, ecco. in tuttigrande la voglia di.
udirlo e viva 1. istigazione perchè parlasse. Adunque tamtx più animoso 'inveì
su’ Decemviri, mostrando di quanti, aveano essi tolte le sostanze, di quanti
flagellato il corpo, e quanti ne aveano ridotti senza colpa niuna a lasciare la
patria ^ e numerando insieme le ingiurie verso le matrone, i ratti delle
donzelle. nubili, i '.disoBoramenti de’ liberi > garzoncelli, e, le, tante
altre ingiustizie e tirannidi. E così, disse, ci calpestano (Questi, senza che
ne aibiano il poterti non dulia legge, non dal Senato, non dal popolo.
Imperocché spirato è /’ anno dflla loro magistratura ; e spirato ; doveano in
altre mani> trasmetterla'.' violentissimi però la ritengono ; spregiando in
noi, quasi in femmine, la paura grande e' la codardia. Ognun • di voi qui
ricordi quanti^ mali ha da loro sofferti, o veduto sofferirsi dagli e^i. Che se
alcuni qui blanditi da essi mai con' piaceri o favori, non temete il
Decemvirato, ne apprendete che eguali mali siano per., venire un giorno su voi,
sappiate che non vi è fede pe tiranni, sitppicUe che non donano t' potenti per
benevolenza, e sapendo queste e simili, cose, Uorreggetévene : ed unanimi tutti
Iterate da tù'onni la patria, quella dove sono i templi de\ vostri Dii, dove le
tombe dei vo.stri maggiori, ! quali voi riverite appresso gV Iddj, dove li
veóchi genitori che .dimandano il premio dei travasi e delle tante cure per voi
^ dove le mogli, vostre legittime ^ dove le figlie nubili, alle quali deesi non
tenue Id Vigilanza: dove infine \i vostri figli maschi, che aspettano da voi
cose degne dèlia natura loro^ e de’ progenitóri. Taccia le vostre case, i
vostri poderi, i vostri danari acquistati con tome fatiche dagli antenati e
>da^ voi :, delle, quali cose tutte pià non pofrtle essere i certi, padroni
'finché i Dieci qui tiranneggianox ' .Già non è da savj,. non da valenùtompii
cer care colla fortezza le cose altrui ^ nè curare poi che per viltà si
rovinin. le proprie far co gli Equi ^ co’ Fblsci, co’ Sabini, a ' con tutti
intorbo i vicini guerre diuturne indefesse per la indipendenza e pel
principato, nè vbter poi nemmeno prendere le armi per la vostra sicurezza e la
libertà cantra uomini illegittimi che fi comandano. Che nòn ripigliate lo
spirito' delia patria ? Che non tornano in voi li sensi degni degli' antenati?
cU quelli che per V oltra^ìo di una femmina solà profanata da un de •Tarquìnj
ed ucàisasi da sestessa per le^ vergogna, 'tanto rie incollerirono e
infierirono, e tanto comune tipqtaron la ingiuria'; che sbandirono di Roma non
il solo Tqrquinio,maJ re-: nè piti soffersero^ die magistrato alciùfó vi
comandasse in vita, e senza doverne far conto : di quelli che ne fecero
altisiunto giuramento fitto con imprecazione su paetèri' se noi' compievano ?
Of essi non avran sopportata la incuria di un sol giovinastro su di una libera
donna' soltanto ; e voi vi state Comportando una tirannide di tante teste,
•ehé’ scorre ad ogti ingiustizia e libidine ^ è scorrerawi anche pià se pià tra
vói la tenete ? Non laebbi io sole una. figlia vaghissima, che
jippìò-accirigevasi palesemente a violentare e lordare : le avete anche molti
infra voi‘'rhogli o ; figlie e figli avvenenti: Or chi difhn'dele mai che ' '
alcuno de' Dièci nón fàccia loro come /dppio ? Vi raccertano forse gt Iddf che
so lasciate impunita la insolenza ' a me fatta, no/i si avanzi questa fin su
molti di voi; e che ^ nmor ti~ tannò, giunto alla mia figlia, ivi si 'rimanga e
si plachi rispetto degli altri fanciulli e faiKÌiille? Quanto stolula, quanto
atfena cosa è dire che mai tali idee si -effettuerànno ! Illimitate sono de'
tiranni le passioni, perchè superiori alle leggi, e al^ timore. Su dunque fate
le mie vendette, prepardte la sicurezza vostra, per non subire egual male,
rompete o miseri una volta la^ cótena: riguardate ‘con intenti sguardi la
libertà : ~E per qual altra occasione mai fremerete pià che per queéta; quando
ne si tolgon le figlie prètestandooele per ischiave, e quando via ne si porlan
le spose" co’ littori? E se'ora che siete tutti cinti di arme la
trascurate la occasione e: quando mài \ quando il geniadi libertà ripiglierete?
-, Ma iotaato cKe egli parlava molti gli promctteanò, gridando, la vendetta: e
chiamati a nomr i dnci delle schiere gl’ invitaronó a por mano aff impresa ;
molli ancora, se ne avéano riéeTuto alcun danno, faceansi coraggiosi innanzi, e
lo rivelavano'. 'Udito ciò li cinque, capi come ho detto delle legioni, temendo
che la moltitudine facesse qualche soròmossa ' Cóntro di essi corsero tutti 'al
pretorio e vi consultarono con gli amici, se poteanO chetarne il tumulto cinti
dalle arme de par ' tigiani. non si tosto intesero che i soldati eransi .tri
tirati 'nelle tende, che caduto e cessato era il tumulto, senza sapere intanto
che il piò de’cènturioni aveva congiuralo occultissimamente d’ insórgere e
liberare la patria ; destinarono, appena fosse giorno, imprigionare Verginió
che istigava la^ moltitudine, e raccolto l’ esercitò condurlo ed acc^parlo tra’
nemici,. e desolarvi H meglio elei lor lerritorj ; nè più' lasciare chè ognuno
investigasse Curioso ciocché facevasi in Roma, ma tutti perocché, chiamato
Vergioio ai pretorio, i ceatnriooi non permisero che v’ andasse pel sospetto
che vi peri colasse: e scoperto com’era ne’ratpi 'il proposito di portare l’armata
tra’ nemici. Io riprovavano, dicendo: Meramente ci avete prima comandato
benissimo, perchè ora isperanzili vi seguitiamo f Duci voi di 'tanta milizia,
quanta ninna ntai ne portò da Roma f e dagli alleati non sapeste nè vincere, nè
danneggiare i nemiti. Voi dimostrandovici odi, imperiti, colf accamparci male,
e col desolare, quasi asversarj, le terre nostre, ci rendes^ poveri, e
bisognosi delle cose le quali noi conqOistayamo col prev/dere in bailaglia,
quando i nostri capitani \ eran migliori che voi. Ora il nordico inalza contro
noi li trofei i il nemico si. porta le cose nostre; saccheggiandoci tende ^
schiavi y ottm, danari.Verginio per la rabbia, e perché non più temea que’
capitani .inveiva più libero conti di essi, 'chiamandoli corruttori e distruttori
delia patria, ed animando i centurioni a tor le insegne,, e ricondursi in Roma
colle milizie. Molti non ardivano ancora movere le insegne, che sono
inviolabili ; né riputavano cosa onesta e. sicura abbandonare i loro capitani '
e ^i comandanti ; perocché il giuramento militare, die i Romani avvalorano più
che tutti,, (à che il soldato siegua i suoi comandanù, dovunque Io guidino : e
la legge concede a questi di. uccidere, nemmen giudicandoli . gl’ indocili e li
disertori. Verginio, vedendoli tenuti ancora da tal riverenza, mostrò ' loro
che La le^e stessa avea sciolto quel giuramento : giacché dea ehi cómanda gli
eserciti, esser scelto a norma delle leggi ; e r autorità de’ decemviri era
tutt^ contro le leggi, trapassalo t anno per cui fu destinata ; far poi gli
ordini di chi comanda contro le leggi non è ubbidienza, nè pietà, ma demenza e
furore. Or ciò adendo, giudicarono udire il vero : e suscitatisi a vicenda ; e
quasi dato lor cuore’ dagl’ Iddi!; tolser le insegne, e ne andarono.' In mezzo
d’ indoli tanto varie, nè tutte conoscitrici del meglio, si rimasero, co’
decemviri, com’è verisimile, centurioni e soldati', minori però molto, non
eguali di numero agli altri. Quelli clie partirono dal campo, viaggiando tutto
il giorno, giunsero al far della sera in città, seuzaqhè alcuno ve li
annunziasse ; nè poco la costernarono, credula cbe giugnesse il ne> mica.
Adunque tutto tri divenne clamore, moto, disordine ; ' ma non sì a lungo, da
nascerne òiale : perocché quelli passando pe’capi strada, vi gridavano che eran
gli amici, e venivano in bene della pàtrio: e conformarono le Opere ai detti,
non offendendovi alcuno. Recatisi ali' Aventino,' colle il piò acconcio entro
Roma per accamparvisi, allogaronsi presso il tempio di Diana. Nel giorno
seguente fortificato il campo, e destinati dieci tribuni miljtàri, de' quali
era capo' Marco Oppio, sul comune, si tennero in calma. Dopo non molto giunsero
in sussidio loro con molta milizia dal campo di Fidene i centuribni migliori
delle tre' legioni, alienatisi da’ comandanti fin di allora che fecero
trucidare, come ho detto, Siedo il legato ; .e timidi non pertanto di
cominciare i primi la ribellione in vista . delle cinque legioni delK Algido,
quasi fossero amiclie ai Decemviri. Ora però saputane la insurrezione; acceuarotjo
di tatto buon grado il favor della sorte :> anche di queste milizie eran
capi dieci tribuni eletti in mezzo alla marcia, ma Sesto Manlio ne era il più
ragguardevole. Congiuatisi tutti, e deposte le arme, incaricarono i venti
tribuni a poter. dire e fare quanto dovessi pel comune. .Elessero di questi
venti come capi consiglieri i due più rispettabili,. Marco Oppio, e Sesto
Manlio. E questi .formata un coùsigUo dei centurióni maneggiavano tutto,cpn,.
essi. .Non essendo ancor c^arl al popolo i (prò disegni, Appio .consaperóle a
ses tesso di essere la cagione di quella turbolenza, e de’ìUali che ne
verrebbero, tenòvasi in casa, non 'ehe ardisse far pubblici atti. Sbigottì su
le prime anche Spurio Oppio, costituito, come lui, su la città, quasi fossero
ben tosto per assalirlo nemici, e fossato appunto per questo venutL Quando però
vide che‘'uon fàceano innovazioni] rallentando le paure ^ convocò li Senatori
nell.^ curia, intimatili ad uno ad ano per le case. E ' standovi questi ancora
adunati: ecco giungere i cpmandanii dall’ armata di Fidane, irritati che la
milizia avesse abbandonato T uno e.T altro' campo, -.ed. insistere col Senato
perché ne prendesse degna vendetta. Ora dovendo ciascuno dare il sno voto su
questo. Ludo Cornelio disse, porlqre il dovere,che tornussero i spillali 'ttcl
giorno stesso daW Avenlitto lot' campi, ed eseguissero gli ordini des
comandanti. Con ciò non sa'rebhero tenuti rei di quanto s' era fatto, so noti
gli autori sali, della ribellione ; à qvudi imporrebbe la pena' il duce ^medesimo
: ma se non ubbidwanq ; il Senato delibererebbe su loro,, camq su disertori dei
posti, affidati ad essi da' capitani, e come su violatori del giuramento
ipiUtare. Lucio .Valerio gli contrae riava .... Ma nè conviene che no facclaosi
af&tto' parole delle leggi romane ehe troviamo nello dodici tavole, essendo
tanto venerande e più insigni delia grecai legislazione ; nè conviene che sen
facciano oltre il dovere, prolungando la storia delle leggi medesime. Tolto il
decemvirato ebbero i primi ne’oomizj cenluriati la dignità consolare, dal
popolò come ho ‘detto Lucio Valerio Potilo, -e Marco Orazio Barbato, uomini
popolari per indole, come per educazione ereditari'. Fidi alla promessa che
avcan fatta al popolo quando lo indussero a, deporre le armi, di maneggiare
sempre il governò in suo bene ; stabilirono ne’ coraizj centuriati, mal grado i
palrizj che vergognavansi di reclamarvi, oltre le leggi che non rileva qdi
scrivere, anche quella coUa quale ordinavasi, che i decreti faixi dal popolo ne
comizj per tribù valessero conìé i decreti emanati ne' comizj ceniuriati per
ogni classe di cittadini ; sotto pena t in caso 'di convinzione, per chiunque^
abrogasse o trasgredisse questa legge, della Qdì miaca 1’ aliimo SYÌluppo de
fatti co quali fa tolta la eppreaaione Decemvirale. -Perdita non ignobile ;
traltSadoYiti di uno de graudi oambiameati di stato. dalla fondaiiooe di
Aoma,3o6 secondo Catone^ Quest anuo è tralasciato nella cronologia di Varroue e
però/ le dne cronologie differiscono dopo questo per un anno solo, non per due
com^ per I addietro. morie e della confisca de'heni. Questa risoluzione levò le
controversie tra’ plebei e tra' patrizj, i quali ricusavano di ubbidire ai
d^eti latti dai primi, e riguardavano i decreti emanati ne’comizj per 'tribù
come leggi singolari di 'esse non 'come universali di' Roma intera: laddove
ciocché fosse stabilito ne’comizj per centurie lo riputavano ordinato a
sestessi come a tutti i cittadini. Fu gié détto innanzi che ne’ comiz) per
tribù li poveri e li plebei prevaleano su’ patrizj, come i patrizj/ quantunque
assai minori di numero, prevalevano su’^plebei ne’ comizj per centurie.
Stabilita da’ consoli questa legge con altre leggi, fautrici ’anch’ esse, 'come
ho detto, del popolo ; ben tosto i tribuni credendo vénnto il tempo di
vendicami di Appio e de’ colleghi di' esso, pensarono d’ intimar loro il
giudizio >e chiam'arveli non tutti insieme perchè gli uni non giovassero gli
altri ; ma l’ uno dopo l’altro, su la idea di convioceryeli più facilmente. Ora
considerandu su chi prima incominciassero più a proposito, deliberarono mettere
in istato di accusa Appio, il più esoso al pqpolo per le oppressioni, e per le
indegnità recenti contrò la vergine. Parea (oro che assicuratisi ''di questo,
disporrebbono' facilmente pur degli altri; laddove se cominoiassero dai men
furti, parea loro che l’ira de’ cilladtni, calda oe’ primi gludizj
s’indebolirebbe, come spesso accadde, per giudicare in ultimo i rei più
segnalati. Deliberato ciò, sopravvegliarono i rei, ordinando a Verginìo di accusare
Appio', senza, ' t |i) Cioè gli aliti DeceniTiri aùìaebè non soccorceMcto Appio
nemmeno decidere colle sorti chi Io accusasse. Appio dunque accusato da
Yerginio nell’ adunanza fu citato al giudizio del popolo, e chiese tempo per
giustificarvisi. £ siccome non si ammisero per v lui mélievadorì ; fu tratto in
carcere per custodii^elo finché di lui si giudicasse. Ma prima ' chu giùngesse
il di prescritto pel giudizio mori nella carcere, per opera come molfi
sospettano de’ tribuni : ma secondo che divulgarono altri, che li discolpano,
egli, appiccò sé medesimo. Dopo lui fu tradotio al popolo Spurio Oppio da
Publio Numitorio altro tribuno : ma', dategli, le difese, vi fu condannata a
pienissimi voti : e portato in carcere fini nel giorno stesso la vita. Gli
altri decemviri pfima di essere necessitati al giudizio, condannarono sestessi
all’ esilio. 1 questori incorporarono all’eràrto i beni degli uccisi e degli
esuli. Fu nommeno citato Marco Claudio quegli che si accinse a tor via come
schiava la donzella da Icilio lo sposo : ma preiéstando i comandi di Appio fu
scampato da morte ^ e 'gettato' in esilio perpetuo. Gli altri' ministri ^elle
ingrastizie 'dèi decemviri non .subi-' irono giudizio pubblico ma diedesi a
tutti la impunità. Suggerì pari economìa Marco Duilh'o il tribuno per essere
ornai turbati i cittadini, e. timorosi di -essere finalinente anch’ essi
giudicati. XLyiI. Chetate le turbolenze interne', raccolto il Senato,
decretatio che esca immantinente T armata con tro, a’ nemici. Ratificato dal
popolo il decreto del Senato, Valerio l’uno de’ cònsoli, marciò eoa metà delle
schiere contro gli Equi e li Yolsci i quali miliuvano ' PtOSIGt, itmo III.
insieme. (Consapevole però thè gli Equi, imbaldanzili pe’ vantaggiprecedenti,
elevavansi fino a sprecar grandemente la milizia romana, cercò renderli ancora
più temerari e vani con'^are di sé vista ingannevole, pra de’ Romani r -ma
dimostrando r cavalieri un ardor sommo ottenne una segnalata vittoria, nccisivi
molti nemici, imprigionativene pii^ ancora, e preso' i loro alloggiamenti
dereKtti. IvÙ trovò •molte provvigioni da guerra, e tutta la preda già tolta,
dal terchoi^'dé’'Romani : anzi' detenuti molti de’ suoi che liberò; non.
essendosi alTretlati i Sabini pel disprezzo che aveano del nemico a riporre in
sictirb 4anti loro vantaggi. 'Adunque diede a’ soldati la roba nemica,
preelcggeudone ciocché era da offerire agl’ Iddii 1 ' ma ‘ rendette te prede a
chi n^era stato spogliato. Fatto ciò ricondusse 1’ eserdto in Roms ove
giunse)contemporaneamente anche . Valerio : ambedue sentivansi grandi per là
vittoria, e' se ue auguravano luminosi trioufi. Non però uiccedette cobi’ essi
ne sperayano .imperocché Raccoltosi il Senato' per essi 'dtieefae stavansi
coli’ esercito sul campo -Marzo, ed esaminatine'le gesta, non accordò loro il
sagrifizio per 1 vittoria : essendo oontrarìati da molti., e da alcuni
manifestamente, soprattutto da Cajo Claudio, zio come scrissi di Appio, vuol
dire del fondatore dei decemviri, e tolto non ha guari di mezzo .da’ tribuni.
Cajo ricordava le leggi colle quali ajrean essi ‘ diminuita rautorilà del
Senato, e ricordava le altre maniere da essi tenute perpetuamente ' nel
gorernare : ricordava ‘ le morti o le conCfohe'de’beni dc’decemviri, traditi da
esu ài tribuni contro i patti ed i giuramenti essendosi in mezEO alle vittime
convendta tra’ patrizi e tra’ plebei la dimenti canza, e la impunità su tutto
il passato. Protestava cbe Appia non era caduto morto innanzi al giudizio di
sua mano, ma per malizia de’ tribuni : aflìncbè nell’ essere giudicato non
ottenesse nè difese, nè misericordia : co me polea ben ottenerle, se potatalo
in giudizio metteva ÌDuanzi al guardo la nobiltà della sua gente, e le molle
beoefìcenze di essa verso la repubblica ; se reclamava i giuramenti e' la buona
^fedesu la quale gli uomini riposano) e rendonsi a far pace; se veniva, co’
suoi figli co’ parenti., jn àbito di umiliazione ; in somma con -gli altri modi
pe’ quali uo popolo si disacerba, s’ intenerisce, e perdona. '{fra tali
rimproveri dati loro da Cajo Claudio, e da altri presenti, fu coucluso, che si
contentassero i' due, di non pagarne le pene: del resto non essere nemmeno in
picciobssima parte d^gui del trionfo, o,di concessioni non dissìmili. L.
Valerio ed il coUega esclusi ^al trionfo,' lenendosene ofTcsìssimi, e
sdegnandosene ; convocano il popolo, e vi accusano vivamente il Settato.
.Peroravano per loro i tribuni^ e proposero e ne ottennero dal popolo il
trionfo: ed essi ..primi di tutti i Romani pro> dussero tal cot^uetudine.
Dopo ciò rinacquero ‘i dissid), e le incolpazioni tra’ patrizj f e tra’ plebei.
Li tribuni raccendeano questi ogni giorno concionandoti. Irriuyali soprattutto
il sospetto cbe li tribuui cercavano di corroborare con romori incerti, e di
amfdìare con divinazioni varie, come se li patriz) fossero per' )tnnienUre le
leggi stabilite dai consoli, Valerio e suo collega: c quel lupetto ornai tanto
prevaleva che degenerava la fede. E tati sona gli eventi di qnel consolalo. LI.
Nell’ anno appresso foron consoli Laro Erminio, e Tito Verginio . Snccederon
loro Marco Geganio..>(a). LH. Nè rispondondo essi, ma sdegnandosene; Scatùo
fecesi di nuovo innanzi e disse : ecco o cittadini che si concede dai litiganti
medesimi che essi pretumonb, parte che a lor non compete f della noslrà
campagna', or voi considerando ciò decidete ciò che é giusto e congruo co'
giuramenti. Scattio cosi diceva : ma i consoli ardevano dalia vergogna in
riflettere, che il giudi aio prenderebbe un ' termine. nè giusto, uè onorato,
se’ il popolo il quale qiai non aveast attribuito ' la campagnar disputata,
ora, elettone giudice, se T attribuisse, con toglierla ai litigami. Adunque ad
iscansare èiò si tennero dai consoli" e dai capi del Senato molli e molti
discorsi ; ma ihvauo. Impetocchè quelli' che aveano pi Ando di Roma 3o7 fecondo
Catone,, 3o3 fecondo Varrone, e 445 v. Ctifio. E C. Giulio secondo che si
ricava dà Livio. Net consolato di Erminio e venissero persuasi in contrario,
annullerebbero alcuna delle rìsokizioni proprie. LV.' In vista di .tali minacce
.adunati gli Ottimati Ji piu anziani e principali da' consoli a consiglio
privato, ponderavano ciocché ''fosse da fare. Cajo Claudio come U men popdiarc,
ed erede degli antenati in tal genio di procedere, inculcava ostinatissimo, che
non si cedessero al popolo né i consolati, nè altro magistrate qualunque; e che
senza riguardo di persona. privata o pubblica si frenasse colle armi, se. non
l'eodeasi per le parole, chiunque tentasse il contrario. (mpero.cché chiunque
tentava sommovere le patrie costumanze o disciogliere la forma primitiva del
governo era non cittadino ma nimico. Per 1’ opposito Tito Quinzio non voleva
che si reprintessero gli avversari colla violenza, .né si venisse alle armi ed
al sangue civile colla plebe: tanto più diceva che. -noi abbiamo contrarj i
tribuni, che i nostri padri dichiararono sacri ed inviolabili;' facendo igenj e
gl' fddj mallevadori dell’ accordo con imprecatone gravissima delia rovina loro
e' de’ figli, se da indi in poi lo avessero mai violato anche in parte.Accosta
vansi. a questo partito . ancor gli altri chiamati a' congresso, quando.
Claudio pigliando la parola disse : Non ignoio quaji Jòndamento pongasi di
mali, per tulli noi,, se^-concediamo che il popolo facciasi a volare su questa
legge': ma non avendo cosa pià farmi, nè come resistere a voi; che tanti siete
; ahbattdonomi ' ai vostri consigli. Ben è giusto cJte LIBHOXI.. 377 ognun dica
Ciò che sente deU util comune: ma poi siegua ciò che i più ne conchiudono. Jar,
eome esortasi in c^fan che aggravano, nè si vogliono, vi esorterei che non cedeste
nè ora nè poscia il consolato a ninno, se non ai patrtzj, i quali è giusta è
pia cosa che lo abbiano : ma qustndo come cd presente, siete alla ncessità
ridotti di far partecipi anche gli altri cittadini del grado e del potere più
grande ; vi dico che assu^ miate i tribuni militari in luogo de' consoli,
defineieione un numero { otto -o sèi forse, chè tanti credo bastarne ) riel
quale i patrizj e i plebei si pareggino. Così Jrscendo nò renderete il
córuolato magistratura di uomini indegni ed abbietti •, oè parrete per voi f
ohe hricare un comando ingiusto, coll escluderne affatto i plebei. Ed
approvando tatti, senza reòlamt> niuno un lai voto} udite soggiunse,
.ciocché restami a dire a voi consoli. Prefisso il giorno in cui^ stabiliate
quel previo decreto ^ e ciò che daf Senato si giudica, lasciale che parlino su
Ha legge chi la difende e chi C accusa. Fi~ mia la disputa, quando fio t ora d’
irttendeme i voti, non. vogliate da me cominciare, non da, codesto Quirtr zio,
nè' da altro seniore ma dsU popolafissimo senatore Lucio Valerio; interrogando
appresso Orazio, se punto vuol dire, Bicercate così le .loro .sentènze,
ordinale che noi seniori diciamo. Jq sporrò liberissirrtamente il parer mio
'contrqrio ai tribuni,• e fa questo [ utile della repubblica. .Questo Tito
Genuzio, se il volete, dia la proposta su tribuni militari. Parrà questo il
partilo più congruo e meno sospetto se progettisi o Marco Genuzio dal tuo
fratello. I( consiglio senal brò giusto, e parlironsi' dU oiAigresso. T^merbuo
i tri buui la secretissima aduuanza, come intenta a gran danno de’ plebei,
perché fatta in casa, _ non in pubblico, e senz' .ammettervi alcuno de’ capi
'del popolo. Adunque raccogliendo anch’ essi un consiglio di uomini, amantis
simi della plebe ^ idewono ript|ri e guardie contro le iusidìe che aspeitavansi
da’ patrizj.. LVIL Giunto il tempo preacritlo per fare 'il previo decreto, i
consoli convocato il Senato, ed esortatolo grandemente al buon ordine ed alla
concordia; invitarono, prima di ogn’ altro j a parlare i tribuni deUik. plebe,
i quali propónevano la legge. Fe^i avanti Cajo Canule)o, un di loro ; ma egli
non che dimostrarla, bon mentovò nemmeno la giustizia e la utilità della legge.
Diceva c/te si stupiva de consoli che avendo fra loro ponderato ù deciso '
ciocché jsra da fare, ora quasi pi abbisognasi sero consigli e decisioni,
metteansì a proporlo ai Pa dri, e 'davano facoltà di cBingaxyi con simulakione
non cbnvèniente nè alt età loro, r\è alla ' grandezza del comando. Diceva che
irttroducevan t esempio di tristissime' pratiche, quando umvansi in casa et
congressi recondite, jtè vi chiamavano tutti i Senatori, ma i soli
favorevolissimi loro. E qui soggiungeva che poco faceva^li meraviglia che
fossero esclusi da^quel coa1 sigho edtri sonatori;, ma ^grandissima gliene
ftcevache 'avessero tenuti indegni da invitarveli Marco Grazia, e Lucio L
aierio, qaell( che avetìno. tolto il Decemvirotò, ambedue uomini consplari %nè
idonei' -men di chiunque a deliberare su la repubblica: lui non poter,
concludere appunto In cauta .di tal procedere ; indovinco iie però quest'
unica: valé^ a direi cfie essendo essi per allegare -disegni' ingiusti
trovinosi alla piche, non vollero, convocarvf persone di essa amantissime, per
' chè sdegnate arti popolaresche ; numerando fin da principio, tutti i
|>ericoli venuti su Roma per colpa di quelli phe volevano conU'ario governo;
rilevando come l’odio versola plebe crasi renduto dannoso a quanti lo ebbero; e
lodando amplìssimamente il popolo .come, autor principale delia libertà e del
comando delia repubblica; alfine ragionate queste e simili cose, concluse non
poter e^ser libera quella città dalla quale tolgasi /’ eguaglianza z e quindi
sembrare a lui giusta, la legge laqual vuole che concorrano al consolalo/ tutti
i Boinani purché siano irreprensibili ne costumi e degni per le opere di lai
tanto onore : non essere però, quello il tempo opportuno da trattare legge
siffatta in tanta turbolenza di guerra per la repubblica. Pertanto consigliava,
ai tribuni di permettere che si réclutassèro i soldati, e che reclutati
uscissero: ai consoli poi di pubblicare, appe-j \ Digitized by Coogle V',
i.iBHó xr.' ' 38 1 na detto buon alla guerra il previa decreto su la legge: e
si scrivessero e si corueruissero fin et alloratali cose da ambe ’ie, parti.
Ta^è fu la senteuza di Vail secoudo da' consoli: non ^ però ne fu pari 1
affetto io tutti gli astanti. Imperocché quelli, che voleaoo preclusa la legge,
ne udirono f!Ot> piacere la dilazione, non'peré con piacere ne adirono éhe
essa dovesse decretarsi dopo la guerra: air opposito quelli che volevano che sì
accattasse la legge dal Senato iotesero con trasporlo che giusta si dichiarava
: ma con isdegno intesero che se ne ritardasse il decreto. j > LX. filato
taraulto ('oom' è verisimile, perchè questa sentenza non soddisfaceva in tutto
ad ainhe le parti, il console fattosi innanzi interrogò per il terzo Cajo
Claudio il quale sembrava ostinatissimo e/ potentinimo fra tutti i primari
della fazione opposta alla |>lebe. Costui tenne un dùtcorso premeditato
contro del popolo-, rilevando di luì tutte le cose che gPien parevano contrarie
a begli usi della patria, fra lo scopo principale ove tendeva il dir suo, che i
consoli non pcoponessero al Senato l’^esar me di quella legge nè allora' uè
mai, ooine diretta a distruggere il comando degli Ottimati, e confondere ogni
buon ordine. Cresciuto a tal dire il tumulto, sorse invitato il quarto,
Genuzio, fratello dell a^tro console.-Costui j discorse breveménce le
circostanze della città, e come la cótnplicav^^no all uno o all’ altro disastro,
o di far prosperare ^i nemici per la discordia e 1 ambiziojie de’ citudinij e,
di dare mal termine alla guerra interna e domestica .|>er espedirsi dajl’
altra che le era portata di fuori, disse, che essendo' due i maiì' ed essendo
necessità d’ inwyrreme, loro mal grado,' l’^udo o Y altro, credeva coufacevole
ai Padri lasciar che il popolo urtasse alcune istituzioni proprie, anzi che
rendere la patria Io scherno di forestieri' e nemici^ E cosi dicendo"
propose la sentenza approvata nel congresso di ^elli che si erano in casa
riuniti, sentenza come io dichiarai suggerita da Claudio, che si eleggessero
ift luogo de' consoli i tribuni militari, tre de’ patrizj, e tre dd plebei,
tutti con' potestà superiore : chè quando -^nìrebbefo questi il lor tempo, e si
dovrebbero creare i nuovi magistrati ; allora unitisi di bel nuovo il SerUUo ed
il popolo decidessero quali più voleano riassumesre al cornando li tribuni
militari o li consoli : che per valido si tenesse quello che il voto comune
destinerebbe: e che pari decreto si rinovpsse ogni anno. Eu la opinion di
Genuzto acclamata da tutti: e gli altri che sorsero a sentenziar dopo lui -la
tennero, quasi tutti, per b migliore. ' Se ne stese dunque da' consoli il
decreto, ed i tribuni della plebe, pigliatolo, oe andarono, tripudiando, al'
Foro. E convocatovi il popolò, vi lodarono amplissimamente il Senato^ e vi di
nunziaronoV cbe doncorresse pure a’ magistrati .‘insieme co' patrizj chiunque
il volea de plebei. '.Se non ohe il desiderio senza cagione, Speciàlmemc' nel popolo
^ è per sé" dori vano, e cori pronto ' a dar luogo arcOnirario ; ohe
quelli i quali facevano ogni prova per essere a parte ' del magistrato,
risoluti se non concedeasi ciò da’ patrlz}, di abbandonare la patria come 1'
avevano abbandonata altra volta, o dì usurparselo colle armi, ottenutane appena
la pertnissione, rattemperacono sestessi, e rivolsero altrove i loro favori. E
quantunque molti de’ plebei aspirassero al militar tribunato, e" facessero
per giungervi insistenze caldissime ; non riputarbno alcuno degno del grande
onore.Cosi quando vennesì al voti nominarono al militar tribunato tra’ patria)
che yi còneorrevano, Aulo Sèmpronio Atratino^ Lucio Attilio Longo, e Tito delio
Sieelo. Questi assunsero i piWi qu^ grado in luogo del consolare nell’ anno
terzo della olimpiade ottantesima quarta essendo Di61o arconte in Atene : ma
ritenutolo settantatrè' giorni lo deposerq secondò gli usi della patria’
spontan^atOébte ;• perché alquanti segni celesti vietavano loro il maneggio de’
pubblici affari. ' Levatisi questi dal comando; il Senatosi raccolse, e nominò
gr;ìn(errè. U quali prefìssero il tempo de’ comizj e proposero; da risolvere al
popolo se voleat rieleggere li tribuni o li 008011 1 il popolo decise attenersi
agl) nsi primitivi; ed essi contderono che chiunque il volea de palrizj
concorresse al consolato." Adunque si elessero di' nuovo i' consoli’ dell’
ordin patriuo, e fuf'onò' Lucio Papirio Mugiliano, e Lucio Sempronio Atratino,
fratello di uti de tribuni che s’ eran dimessi. Dond è che furono in -fiLoma tu
un anno stesso due magistrature supreme. Non però comparisce 1’ una e l’ altra
magistratut^ in tutù gli annali Romani : ma in alcuni trova'nsi i 'soli
tribuni, Aodo di Roma 3ii $ècon{lo Catone, 3ia secondo Varronc, e 44 ^v.
Ccisle. Tilo Livio dice cbv i tribuni militari entrarono maghtraii sul
termidare dall anno 3io, e perciò toccarono anche l’inno 3 11. ÌD altri i
consoli soli, osservandosi in non molti T .una e r altra. Noi ci atteniamo agli
ultimi nè senza ragione, affidandoci alla testimonianza de' libri sacri
'recònditi. Sotto, questi consoli nou occorse altra cosa civile o militare
degna di ricordanza; fecesi però trattato di amicizia e di alleanza colla cidi
degli Ardeali, peroccliè spedirono ambasciadori, pe qliali, lasciate le
querimonie intorno la campagna, dimandarono di essere gli amici e gli alleati
de’ Romani. I consoli ratificarono questo trattato. Il popolo confermò co' suoi
voti che si cf'eas s^ i consoli anche per 1’ anqo seguente ; e nel. plenilunio
di Dicembre presero il consolato Marco. Geganio Macerinó per la secotula volta,
e Tito Quinzio Capitolino per la quinta . Questi rimostrarono mentre i più
inutili e più svergognati eran fuori ài ogni registro, e cangiavano luogo con
luogo affine di viverci come loro piaceva., i. Addo di Roma 3ia se'coado
Catone, 3i3 seeuado, Yatione, 41 ar. Cristo. U tomai dì AUcartiosso scrìsse le
Antichità Romane dalie orìgini di Roma fino alla prima guerra Punica in venti
libri estesissimamente, e di questi, poi diede un compendio in cinque libri come
fu già detto nella prefazione al tomo primo. De' venti libri perirono qualche
parte deW undecimo, e tutti i nove ultimi, salvo alcuni frammenti pubblicati
più volle e ridotti in fine secondo P ordine de' tempi in ciò che narrano. ’
Avendo io trasportato nel nostro idioma gli undici primi libri, e li frammenti
già noti de' rimónéitti, fu tutto dato in luce U anno ii5ia per Fìncenm
Poggioli, editore in Roma della Collana Greca tradotta in Italiano. Quattro
anni appresso però, cioè nel 1816, apparve in Milano una stampa Grecolatina
della quale il titolo latino è: DiONTsii Halicarnassei RomaDarum AntiquitaUim
pars hactenus desiderata nunc denique ope codicum Ambrostanorum ab Angelo MaJO
Ambrosiani Coliegii doctore, quantam licuit, restitala. Quella stampa comprende
gli antichi frammenti dei nove libri smarriti, e parti riguardevoli derivate
dal compendio, collocate prima c dopo di essi frammenti per ordinare un tutto
il quale dia compenso e lume di ciò che erano i nove libri perduti di Dionigi.
Jn questo letterario ordinamento ci si dà ciò che si è trovato, e non sopra.
Del resto la versione latina è precisa, corrispondente, elegante, buona, anzi
molto : te note opportune, nè vi si desidera diligenza : e ciò basti su quell’
opera. Considerando come i frammenti veri de’ nove libri presentati di nuovo in
quella stampa erano già volgarizzati, C editore in Roma della Collana Greca
tradotta, cercò più volte di avere anche il volgare di que’ supplementi
raccolti come si potè dalla Epitome o Compendio di Dionigi: ed uUirnumente vi
aggiunse pur le sue premure il nuovo editore in Milano della Collana' Greca,
presa la occasione dal valersi egli ancora della mia traduzione. Su tali
istanze ho consegnato il volgare di que’ Supplementi ordinato coi vecchi
frammenti appunto come si ha nel testo Grecolatino. E ciò è quanto basta a dar
luce alla giunta seguente. i • £jglI avendo radtinato Intorno a sé uomini di
ogni reo genio, li nudrìva, quasi fiere, contro la patria. Suppiementi. Cos\ li
chiamo per dittiogaerli dai Frammenti. Qnetti tono parti vere^ dei libp perduti
f gli altri tono parti deriTite dal compendio de’ Tenti libri delie anpchilà di
Dionigi troraio in Milano ueil’ Ambr>a°a io due dodici, l'nno intitolato: Di
Dionigi di jilicarnatto Archeologo Romano t l’altro: Dionigi di Alitarna$$o
Archeologo dplle cote Romane. E chiaro che questo titolo i dato da altri. Li
supplementi avran sempre doe TÌrgole in principio ed in fine dei paragrafi per
dùtiognerli dai frammenti., DELLE antichità’ ROMANE Tuttavia se ascoltava me, se
confofmavast alle leggi, egli faceva un gran colpo per la difesa, dando segno
non piccolo di non aver cospirato. Ma sbattuto dalla sua cosdenza si ridusse
dove quelli si riducono, i quali siegnono scellerati disegni contro dei loro
più congiunti; deliberò di non presentarsi al giudizio ; e respinse a colpi di
mannaja li cavalieri spediti su lui .... li suolo -della sua casa i Romani Io
chiamano equimelio: conciossiacbè equo è detto da loro, ciò cbc non ha
prominenze. Cosi il luogo soprannominato Mclio in principio fu di poi detto
Equimelio alterandosi i dne nómi in un solo . II. Guerreggiando i Tirreni, i
Fidenati, e li Vejenti co’ Romani (3j, Laro Tolumuio re de’ Tirreni
segnalandovisi spaventosamente ; un tribuno romano, Aulo Cornelio cognominato
Cosso, spronò il cavallo su lui. F attisi a combattere già moveano ai colpi le
aste ; quando Tolumnio feri nel petto il cavallo dell’ emulo, talché il cavallo
ne infuria e lo atterra. Ma Cornelio internando I’ asta per lo scudo e 1’
usbergo nel fianco di Tolumnio rovesciò pur lui da cavallo. Ben sorgea questi
ancora, quando fu colto nell' anguinaja. Con ciò Cosso Io ucdsc e lo ' spogliò,
non solo respingendo quanti accorrevano fanti e cavalieri, ma disanimando e t.
Qosla h parte òel discorso di Cineinnato sa Spn^o Melio Deciso come reo di
ambita lirannido. La occisione di Spurio Melio co4) corre con l’anno 3r5. II
libro XI di Dionigi non eccede 1 anno Sia. Pertanto cib ebe manca a dar
conliuna la storia delle Àniichiià Romane con quella del Cocapendio b la serie
dei fatti dell’ anno 3i2 e dell! due sdenti. impaurando quanti erano alle mani
neN' uno e nell altro cornò. Essendo consoli' ntiovamenie Aulo Gjmelio Cosso, e
Tito Qtrinzio ; penuriò la terra per gran siccità; mancando non che le pio^e,
fin le acque nelle sorgenti. Donde nniversaie fa lo scapito 'di pecore, di
giumenti, di bovi : e moitè -fra gli uomini le. malattie, quella principalmente
che scabbia à detta, assai molesta per lo rosore nella cute, c più Rtolesta
ancora se inniceravasi : infermità miserabile in vero, e cagione sollecitissima
di rovina . IV. .... Mal sembrava a’ primarj del Senato addimesticare il popolo
alla pace e prolungargliene la calma, sul riflesso che per la pace si schiudono
in città, vizj, piaceri, e sedizioni, e solean queste prorompere ad ogni
occasione, difficili nè interrotte, appena si logliean le guerre di fuori ....
E meglio superar 1 initnico beneficando, che punendo : imperocché di là sie gue
se ' hon altro, almeno la speranza loro più dolce sopra de’ Numi V. . . a
Appena conobbe che i nemid Io assalivano alle spalle, chioso com’ era per ogn’
intorno da, essif disperò di retrocedere. Egli tenea grave sul cuore che nel
pericolo comune, essi pochi contro de' molti, essi gravati dalie arme conira
milizie leggere perirebbero turpissimamente senza dar segno di opera generosa.
Adunque vista un’ allora conveniente nè lontana destinò di occuparla VI.
Agrippa Menenio, e Publio Lucrezio e Servio Nauzio tra gli ODorì di tribuai
militari scopersero and insurrezione di servi destinata coaUx>'di Roma.
Disegnavano i congiurati dar fuoco tra la notte in un tempo a più case in più
luoghi, e quando vedeano gli altri intenti a reprima. L’incendio, allora
invaderne il campidoglio, ed altre parti munite, e quindi provocare ad esser
liberi tutti gl’altri servi, e con essi ucciderne i padrom', onde averae le
mogli e li, beni. Manifestatasi la prauca, i capi d’essa furono presi, battuti,
e crociassi: e que’due servi che la manifestarono, ottennero essi la libertà
veramente, e miUe dramme a testa dal pubblico erario a. Adoperavasi il tribuno
romano a compiere la guerra iu pochi giorni, come lui che credea facilissimo, e
quasi posto nelle sue mani, sottomettere còn una batuglia i nemici. Per
contrario.Jl comandante nemico apprendendo la perizia de’Romani tra le armi, e
la costanza ne’pericoli, non avea cara una battaglia in campo aperto con pari
circostanze; ma Uaeva la guerra tra le arti e 1’inganno, aspettandone chq gli
si presentasse un vantaggio. ferito e morto venuto appena. In quest’anno fu
l’inverno rigidissimo, in Roma, tanto che dove la neve caduta era meno, .tnno
di Roma Il mille mauca oel lesto. È presso a pòco il nomerò pbe dee supplirai
consideralo ciò che se ne ha presso di LIVIO (vedasi), o. aS. Questo racconto
consente per qualche modo con ciò che narra LIVIO (vedasi) intorno la disfalla
dei Romani contro degli Equi. ivi era alta li sette piedi. Vi perirono alquanti
uomini, e molte greggi, ed altro bestiame non poco, sopraffatto dal gelo o
dalla fame per mancanza de’pasccdi. Le arbori firuuifere inusitate alle grandi
nevi o perirono in tutto, o seccate ne’tempo in tali regioni alquanto più
boreali del mezzo, seguendo il circolo parallelo il qual viene per 1’Ellesponto
sopra di Atene. Allora, per la prima ed unica volta 1’ambiente di questa
regione s’allontanò dalla sua temperatura fa). I romani fecero le feste dette
letxistermi nelr idioma, dei luog.o. Or furono ammoniti a tanto pe’libri
Sibillini: giacché gli astrinse a consultarne l’oracolo nn morbo pestilenziale
mandato loro da'Nomi, nè sanabile'per cura umana. Adunque acconciarono, come
voiea r oracolo tre ietti, T uno ad Apollo e Latona, r altro ad Ercole e Diana,
ed il terzo a Vulcano e Nettuno. Fot per,s?'tte giorni fecero pubblici
sagrifizj, come pur fecero, ciascuno secondo le forze sue, private offerté ai
Numi, e conviti sontuosi ed accoglienze di forestieri. , I I LIVIO (vedasi)
raeconu I., c. i3 cb il Tevere non pelea navigard. Questo fraocbiaaiUko tcnvere
et desiderare le cautele dell’aatore dei veoli. libri delle Aulichità Aooiaae.
Le muiasioai anche rarieeime dcll'elmosfera ooa perché non sono scriue pel
tempo paalaio, può concludersi che non avvenissero mai piò. (3j LIVIO (vedasi)
parla di ul festa nel lib. t, 0. i3, la dice occorsa Pìsone il censore fa negli
annaK suoi quest’ag> giunta: cioè, che sebbene fossero sciolti tutti i servi
^ tenuti io ferri dai padroni, sebbene Roma si empisse di forestieri, e sebbene
si tenessero dì e notte spalan cate le case, penetrandovi chi volea, senz
ostacolo; pur ninno si dolse che avessene furio, nè oltraggio; quan tnnque i
giorni festivi sogliano per 'le brìachesze dar largo il campo a disordini ed
ingiustizie. Stando i Romani all’assedio di Vejo sul nascere delia canicola
quando gli stagni diminuisconsi e tutti li fiumi all’infuori dell’Egizio {filo,
il lago de’monti Albani, distante non meno di quindici miglia da Roma, presso
al quale fu già la città madre de’Romani, crebbe senza piogge, senza nevi, e
senz’altre apparenti cagioni, per le sole inteMe sue fonti a tal dismisura, che
inondò buon tratto delle adiacenze con molte case di agricokorì. E finalmente
aprendosi a forza, il passo tra monti si versò con terribile sbocco ne’campi
sottoposti, Della estate contagiosa, la qual s^cedcltc all'inverao rigidissimo
descritto diantì. Addo di Roma. Aie infuori delV Egitto Nilo Questa cceetione,
&t conoscere, parmi, che l’autore del compendio non i Dionigi. Imperocché
egli nato in Alicamasso città dell’Asia, e già spettante al regno di Persia,
come tatto il corso dell'Eufrate, non poterà, e certo non dorerà ignorare in
tanta naturai tua diligenia che P Eufrate anch esso nel luglio assai cresce e
trabbocca, come si legge in Arriano iibro ni, par. ao, greco per esso, e
scrittore delle gesta d’Alessandro. Lo stesso Arriano scrire nel lib. r,
paragr.7 secondo la nostra tradusione, che anche i fiumi Indiani nell’estate
ingrossano fuor di modo e neU’inrerno scemano. Vedalo ciò li Romaai, da
princìpio, (jQast 10 sdegno del cielo minacciasse Roma, decretarono pia care
con sagrifizj i Nomi ed i Genj del luogo, consaltandovene pur gl’indovini, se
ne eressero mai co$a da SIGNIFICARE GRICE: Se non che né il Iago ripigliava
l'ordine SQO, nè gl’iinterpetri sapean dirne a proposito, ma snggerirono che si
mandasse per intenderne l’oracolo in Delfo. Intanto un di Vejo perito, per Ipmc
avutone da’maggiori, dell'arte divinatoria di'qne luoghi, sfavasi per avventura
in gnardiè'deNe mura/ Era cosini noto ad un centurione romano. E quél
centurione venato una volta presso le mura lo saluta come usa; aggiugnendogli
di commiserare Ini come tutti i suoi pe’mali imminenti nella espugnazione
dellai cittè. Per l’opposito il Tirreno, il qual già sapeva In inóndàziooe del
lago Albano, e sapeva gl’antichi oracoli intorno di questa, replica,
sorridendo, guanto é bene conoscere t ot'tvnt're. Voi per non conoscerne
sostenete una guerra senza fine, e travagli irriuscibili, disegnandovi la
distruzione di Vejo. Se alcuno vi rivelasse portare il destino di questa città
che allora sia presa, quandó U lago Albano impoverendo nelle acque sue, non più
si mescoli al mare, cessereste di tenere voi nella fatica, e noi tra le
molestie. Assai ne impensierì ciò udendo il romano, e parti. Nel giorno
appresso il romano, comunicatone il disegno co’tribuni, rivenne allo stesso
luogo, ma senza le armi, onde il Tirreno non sospetta affatto d’insidie.
Ripiglia I’usato saluto, e poi disse innanzi tutto l’incertezza la quale
agitava il campo de! Romani, e cose altrettali da rallegrarne, com’egli crede,
il Tirreno. Poi chiedealo spositore di alquanti segni e portenti occorsi di recente
ai tribuni. Gnidiscese colui niente sospettando d’inganni. E fatto ritirare
gl’altri i quali erano con lui si mise egli solo col centurione: £ questi U
passo a passo lo allontanò dalle mura con discorsi diretti a deluderlo; Or come
fu presso alle muniuoni romane. lo abbracciò con ambe le mani, e sei portò
negli alloggiamenti. Quivi i tribuni or lusihgando or minacciando lo ridussero
a dire quanto cela sul lago Albano, e poi lo mandano al Senato. Non parvene u
tutti i padri in un modo: e chi tenea costui per pno scaltro ^ per un
impostore, per uno che MENTE GRICE MEAN MENTIRE MENTE -- sugl’oracoli de’ Numi,
e chi dicea lui parlare a punto il vero. Fluttuando fra tali incertezze H
Senato, ecco i deputati al Nome in Delfo riportarne le divine risposte,
concordi a quelle, date già dal Tirreno: vncd dire che gli Dei e li Genj li
quali aveano in sorte la città di Vejo promettevano mantenervi costante la
prosperità trasmessavi dagl’antenati finché le acque sorgenti del lago Albano
ne Uaboocassero e corressero al mare: Ma quando quelle acque, mutata la fonte e
il corso antico, deviassero altrpve, nè più si mescolassero al mare, allora pur
Vejo ne andrebbe sossopra. Parve che potesse pianto ottenersi da’Romàni, se
scavando delle fosse intorno al lago V’incanalavano l’acque le quali
sboccavano, dirìgendole in campi lontani dal mare. G>DOsc!ato ciò li Romaai
bentosto misero gli operaj su r intento, Rendutine i Vejenti consapevoli per nn
prigioniero, deliberarono spedire a chi li assedia, a fine di toglier la guerra
innanzi ch^ la città soccombesse: e scelsero de’seniori per deputati. Rigettata
dal Senato la pace, lasciano questi, taciuirni, la curia: quando il più
Cospicuo fra loro e più famoso nel divinare, fermatosene alla porta e girato lo
sguardo su tutti senatori disse: bel decreto v avete voi fatto o Romani! e
degno di voi U quali cercate dominare er tutto intorbo, quando ricusate aver
suddita una città nè piccola nè ignobile la qual depone le armi e si rende, e
destinata abbatterla da’fondamenti senza tememe^t ira de'^Numiy nè la vendetta
degli uomini. Or ne verrà per questo su voi la giustizia punitriea de’Numi con
pari vicenda; Voi che spogliate li Vejenti di patria, voi, tra non molto
perderete la vostra. Prendendosi dopo breve tempo Yejo, taluni de’cittadini ne
andano, e stettero da valebtnomini contro a’nemici, e ne uccisero e furono
uccisù: altri diedero a sé stessi la morte: ma quanti per codardia, e bassezza
di spirito risguardavano ogni altro successo come più mite della morte,
abbandonarono le armi e sè stessi al inncitore. Anche CICERONE (vedasi) nel
lib. r, èe Natura Deoram fa menxione di quella ambasceria, e dell'annunxio del
castigo, succeduto, ^oni’ egli scrive, sei auui dopo la presa di Vejo, col
piombare dei Galli su Roma. GatniUo sotto la dittatitra del quale Ve)o fu
presa, stando co’Romani pili insigni su luogo elevato donde tutta quella città
si scopriva, prknieramente fèliqitava té stesso^della' Iiella avventura con che
gl’era accaduto d’espugnare e senza gran costo una città grande e prosperosa,
la quale erà parte, uè gii la più ignobile 'della Etmria, allora fiorentissima,
e potentissvna tra'popoli dell’Italia, e la quale avea disputato |1 principato
ai Romani con guerre moltiplicate per dieci generazioni con cimentarsi alfine a
tutti i mali tra r assedio non interrotto di nove, anni. Di poi ponsiderando
per qual lievissimo billico trascende la sorte umana, e come nino bene tien
fermezza, alzò le mani, sopplichevole a Giove e agK altri Nomi, perchè tanta
felicilà non chiama l’invidia su lui principalmente, nè sulla patria: e se per
Contrario pubblici disastri pendeano su Roma, o privati sa lui, almen fossero
questi i più lievi e più tollerabili. Non minore di Roma per gli cdificj, godea
Vejo terreni ampj, d’assai frutto, dove piani, e dove montuosi in aere
purissimo e salutevolissimo, senza paludi vicine, dalle quali sorgono aliti
gravi ed ingrati, e senza ninn fiume il qual dia troppe fredde le aure del
mattino: nè scarse vi son Tacque, nè condotti) Ciok per circa irecento anni
asjegaaado treni' anni ad ogni generaaione; Imptroccbè Vejo cominciò tali tae
gaerre con Romolo: poco prima della aua morte, e loocomM LIVIO (vedasi) ed
aliti dicono durato quello asi^io dieci anni: vuol diro nove furono gli anni'
interi ciocché scrive I’autore dell’Epitome, ma non intero fu 1’ultimo. Dionigi
nel paragr. i5 del libro iz scrive che non lungi da levi altronde, ma vi
scatnrtacono copiose nommeoo, ohe bouissime a beverne a. Dicono, che quando
Enea figlio di Anchise e di Venere approdò nell'Italia volesse, far sagrìfizio
ad un tale de’Numi; e che fatte già le preghiere, stando ornai per operare
sulla vittima apparecchiata, mirasse venir da lontano tm greco, Ulisse forse
quando fu per r oracolo d’Avemo, o Diomede quando si recò per soccorso di
Danno. E dicono che disgustato Enea dell’incontro, tenesse come inaugurata la
vista dell’inimico tra le sante cose, e che volendo respingerla si bendasse e
volgesse altrove; finché dopo la sparizione di colui lavatesi di nuovo le mani
fece il sagrìfizio: e siccome vi si rendè fàusta ogni cosa, e^U ne fu dilettato
per .'nodo da custodihie di poi nelle sante cose la cerimonia; conservandola
per ciò li posteri di Ini quasi legge dei sacro ministero, In conformità
de’patrii riti, fatta la supplica Camillo ancora si trasse in sul capo il
manto, e volea rivoltarsi. Ma travoltoglisi ciò che avea di sotto a piedi, nè
potendosene rattenere, ne andò supino a terra. Or questo rovescio, indizio che
egli di necessità cadrebbe per una miseranda caduta, questo rovescio
fàcilissimo da intenderlo senza calcoli e divinazioni, anVejo è il fiume
Cremerà, e che da questo fiume fu denomioaio Cremerà il caetello edificato da
Romani contro di Vejo. Qui ai •crÌT che non vi è niun fiume il ^oalc dia troppo
fredde le aure del mattino : che anche senza fiume vi abbondano le acque.
Questo esservi e non esservi un fiume et concepire che lo scritture del com'.^
pendio non è Dionigi.] che da’ meoo periti, questo egli noi pensò degno da
guardarsene e da espiarsene f ma lo ridusse tale da. consolarsene come se li
Numi avessero ‘esaudito le pre glie pii\ illustri a' quali esso era maestro di.
lettere, li \ ' • t Narrano che Dionigi divise il suo campcndie in cinque
libri. Ambedue li codici trovati del compendio delle aiilicbilà non hanno 0 non
ritenpoiio indiaio ninno della distinsiooa in libii. BfOHlGI, urna III. j,S
cavò fuori delie porte come per passeggiare dinanzi le mura, e far loro
visibile il campo romano. Poi sionla nandoli poco a poco dalla città, li
ridusse presso le guardie Romane:^ queste accorsero; ed egli cedè sé stesso, e
gii altri. Menato a Camillo disse, che da gran tempo egli volea rendere la
città de’ Romani : ma non avendo in sua balla nè la fortezza, nè le porte, nè
le armi, si argomentò di mettere nelle mani di lui li 6gli ^e’dtta^ dini primarj,
consideràndo cbe necessiterebbe li padri, solleciti di salvarli, a dar la città
quanto prima ai Romani. E cosi diceva, immaginandosene maravigliòsi pre^ mj pel
tradimento, a II. Camillo, dati da custodire. il maestro e (i fanciulli,
scrisse al Senato il successo, chiedendone cièche fosse da fare. Lasciatogli
dal Senato di lÀrne il lueglio che a lui ne paresse, egli cavò dagli
alloggiamenti' il maestro e li fanciulli, e fece alzare il suo tribunale non
lungi dalle porte, presentandosi immensa la folla su le mura, e dalle porte.
Quindi primieramente distinse ai Falisci quanto il maestro fosse stato ardito
di olTeuderli. Appresso ordinò che i servi gli traesscr la veste, e lo
canninasser ben bene colle sferzate ; e quando tal pena gli parve bastare ^ .allóra
‘diè delle' verghe ai fanciulli, e fece che sèi menassero innanzi alla città,
legato colle mani al t&rgo, battendolo e malmenandolo per ogni maniera. I
Falisci ricuperalo i fanciulli, e punito il maestro in proporzione del suo
malfare, sottomisero la patria a Camillo. Lo stesso Camillo nella spedizione su
Vejo lece volo a Giunone^ 'Dea sovrana del luogo, di collocarle se prendea
Yejo, la statua iu Roma', istitoendoveue insiemé cpito magnidco. Pertanto dopo
espugnalo Vejo, man^ò de’ cavalieri più rìguardevoli a prendere dalla sua sede
it simulacro. Appena gl’ inviati vennero al tempio, r uno (K loro sia.
p^erilmeitte e per beflTarsene, sia per fame l’augurio, addimandò la Dea se
voleva tra^mn grarsi a Roma, e colèi soggronsè volere con chiarissima voce della
statua ; e due volte lo aggiunse. Impérocchè non potendo que’ giovani
peiiuadersi che la statua fosse quella che vea parlato, replicarono la dimanda,
e ne adirono un altra volta la voce stessa . IV. 'Tra il comando de’ consoli
dopo Camillo proruppe in Roma un morbo contagioso, apparecchiato dal non
piovere e dall' anura estrema. Afflitti con 4:iò git' albereti e li senànati
porsero frutti pochi, e nocevoli' agli uomini, e pascoli scarsi e malsani ai
bestiami. Odd’ è che il male consuase pecore e giumenti senta numero non sedo
per. • quantunque non ignorassero che U multa eccedèVa non poco gli averi di
]ui: ma ciò vollero perchè messo ' in fcavcere scapitasse nella riputazione chi
tanta ne avea per 'hobitissiole guerre, amministrate per^ eecellenia. Li ‘congiunti
e li clienti accozzarono e diedero la son^ma richiesta afBnchè egli non
soggiacesse a vilipendj ; ma H valentnonio riputando intollerabile la
ingiuria., abbandonò (a patriq. Nel giungere alle porte fra gli astanti • addo
lorati e piangenti per la perdita che farebboho, bagnò di largo pianto
anch'esso il senAbiante, -e lamentò la infamia in che era mesio dicendo : >
^ Adunque disperando i barbari prendere la fortezza per inganno o di furto-, si
diedero a trattare del prezzo, cui dato, i Romani riavessero la cittù. Dopò
giurati gli accordi; i Romani portarono r oro, e Vckiticinqae talenti era la
somiina'.la quale' doveano ricevere i Galli. Disposta la bilancia ècco il Gàllp
imporvi un peso maggiore deKgiusto: se ne querelarono i Romani : ma. il nemicò tanto
fu alieno dal rettificarlo, che lo aopmccaricò delia sua spada, levatosela dal
cinta E chiedendo il questore che volea mai significate quel fatto ; rispose,
^ubt pò vinti. E poi che il peso ivi posto, ampliato com’ era-, non si
pareggiava, anzi mancava un terzo' di tanto, i Romani si ritirarono chiesto
tempo da raccoglier l’ intero. Sosteneano tanta insolenza ignari delle cose
operate ] come al>biàm detto, in campo dpe il 'corpo ad un tempo e lo
spirito; converseodola oibei Uòndi nasposto^ma palesemente. Addolorato Arante
per lo distacco della donzella non più reggeva alia ingiuria-, cbe ne avea da
ambedue : né potendo pigliarne Vendetta si mise' ad -ùn viaggio sótto .vista di
liegoziare. Udì con trasporto il giovine lo andare, dandogli ciò che era l^sogao
ai goadàgiii,' e T altro poftò, nelle Gallie molli earri eoa Q^i di vinoV di
olio ^ e 'tnollr.'ata ceste >di fichi, a ' r ‘. a I Galli di quel di' non
conoseeano il vino delle, vili, nè 1’ olio-, quale fi'a-uoi 1q danno ie olive:
ma.teneano vin d’orab, festnefatato in acqqà, ó fogliame. tetro all odore,
usando per olio ^assi vecebj di porco, ingrati a odorarne e gustarné/> CoiQe
provarono frutti non prima gustati ne presero dilatto masaviglioso,
iuierrogaodo il forestiere, dove e come ciascuno di questi si generasse, n -'t
E. colai replica, the.'iimpìa e buona è la terra che li produci, è questa
posseduta da uomini, pochi di numero: uè punto. migliori delle Jìemraine in far
guen'a. Suggeriva;,chc'non ricevessero più 'tali cose dagli altri ad on péezzq,
ma cacciassero i possessori antichi, e se le appropriassero. (Mossi da quel
dire ven mi. Ma i 'GaRii ne misero in fuga la molhtudine, ed occuparono tutta
Róma, salvo il Campidoglio. v Con c'ò gran eommrrcio praesdente. Cioachè non ti
accorda con la DoTÌlà deacriiia .dei prodotti recati da Aruoti nelle Gallif.
Won a facile a connidemi ube una natione ai ecciti e commo^a a tfatmtgrare pa’
racpooti dì un aTTeuttrriero. Livio tcrive Iv 5. i4> .Eoa ( Gallt ) ^lu
oppufinavtrunt CUuiunì. non fuh$t qui primi alpet trantUrint^ latù óonstat.
0uel .aarii eo/iitat impoHa Alt lai nidiaione era comune in Roma a'iAreno Ira!
leueraii 'oi t,empi di Livio, che sod (joelli di Augatcn,, .nel cui regno^^
anche Dionigi vino, io Roma luogo tempo. Panai duiiqae da coocluderbe che lo scritto
ai risente di alquanto nosiooi te 'quali .uoo erano del diligentissimo aatore
della aiilicbità : ciot questo tjompoodio k di t>n greco il quale non
essendo £>rao vivulo nell Italia, S compendiando Dionigi, 'vi lasciava
conoscere la vena dell ingrfpio ano non ai para quanto quella di Dionigi.] \, •
rodar(7ao, nel lesto edeltan, donde celtico e poi ceillca,,, Digitized by
Googlc 4i3 delle Antichità.’ romane dopo V incendio generò dal ceppo un
tirgnlto, come dì Un cubito, volendo gli Dei manifestare ^e ben presto la'
città, ricreando se stessa, darebbe germi novi in vece degli antichi. Anche in
‘Roma il picciolo tempio di Marte in cima alPalatino, 'i Romani pensano' chò
debbasi operare ben alirimen)Ì debbasi a’ vecchj benefìzi sagrificare la
coliéra per gli oltraggi recenti. Cerltmenle della Romana grandezza ben. fu
meraviglioso. quel ^axto, che non malmenarono, pia lasciarono ille^ tjttti i
Tuscolani ‘^u^ntuòque colpevoli f tna più meraviglioso ancora fu quanto
eòncedesouo ad essi dopo il perdono. Imperocché fattisi % provvedere che non
.saccedesse più nòlla di Simile., nella loro città, né più ci avessero alcuni
comodità di far cose nuove, non conclusero già di mettervi guarnigione nella
fortezza, nè Questo e li tre seguenti paragrafi sono fratOmeaii dei venti libri
delle autichltà Romane acUtte da bioaigt e àul'' dal Gomptndjo ; aono picciolo
parti dèli’ opera vara' e noi parti derivata altronde per supplirla, il tasto
grec e-la tradaàioqe latina ai ara atampata più volte. Li framosenti ai
dislingtsuao dal non avere l virgole nè in principio nù in fin^ dei paragrafi.
lasciarono contro il sangue loco eccessi ùi oltraggi che i barbari più empj
potessero sopraggiungervi. . ^ 'i' . 'XI.tE potrei allegare’ altri errori'
infìnhi 'di quelle repubbliche ; ma' li tralascio; giaocbè spiaeemi ; fino
l’aver menzionato gli ànzidetti. Imperocché vorrei che la nazione Greca. si
distinguesse '‘dà . quelle de’ barbari non col nome solo. e col dialetto; ma
per la.inlelligeoza eia scelta delle utili costumanze; c sopratthtto che infra
loro noit si desolassero con ingiurie più che disumane. E ad esercitare i lor
corpi o faticare nelle armìv ne ausavano di continuo, e vi grondavano dal
sudore, costretti a desisterne innanzi P awiSo de’ capitani. Udito ciò f '
Camillo dittatore de’ RomaOi, adunò le sue milizie, e condonò • tra loro,.
assai vivifi(ndole ad imprèndere: 0 ‘Romani ^ e^i disse, nói abbiamo assai più
cùU it nemici benfatte le arme, le corazze y gli elmi, gli stivali, gli teuài
saldi, coi tiuaU guardiamo tutto il corpo, le spade' d due tagli, ed in luogo
dell asta, saette iP irreparaòH colpo. Le armi colle qutdi ci copriamo son
tali'da ndn> fdcilitare su noi le ferite: laddove quelle con lè quedi
nodiamo 'ci abilitano per ogn impresa. B poi ruiao è il càpo dei nemici, nudo
il petto ed i lati, 'nudo il,fem&re è la gamba mfino piedi. Altro noti
hanno die li. munisca se nonf lò' scudo : nè adiro tanto picchiar degli scudi,
e guani altro ostentano di barbara e stolido a bravar t inimico, guai vantaggio
daranno ad essi i guali assalgono senza regola, .a-, guai mai terrore a chi con
tanta re^la sta tra i pericoli? Considerando tali cose: voi tutti guanti ne
foste nella prima guerra cpì Galli e guanti non vi foste, non ‘diserrate.' o
voi ohe vi foste C arUica virtù, col temere, e; vai che non virfbste non siate
da meno che gli altri net jegntdarvi co' fatti . Andate La prima gnarra ocoqrae
l’ aooo I acMiida ueii’bravi giovani : dimostratevi degni de' padri valorosi,
correte intrepidamente al nemico ; Sarà con voi la ' mano degC Iddìi per
tentarvi à punire • quanto volete, questiimpìacabili. Io vi son duce, al qucde
tanto teslificate buon senno e Jbrlunà. Da ora in poi saréte felici, sia che
riporterete alla patria la iwbilo corona della vostra virtù, sia che qui
finendo la vita lascorete a’ teneri' figli] e ai vecxhj padri per un fragile
corpo una splendida fama immortale.^ Ma già non è più da tenervi, Ecco t
irUaùco sen viene ; ofidaie, presentatevi in schiera . Era ‘'il combattere de’
Barbari ansi brutab: e maniaco senza le cure e la scienza delle e vi ascese.
Accorsa la molUtudine 'urbana allo spettacolo, egli primieramente fece voti
alBncbè 11 ^umi avvèrsaaero l’ oracolo, e facessero nascere molti, eguali a lui
di valore bella patria. Dopo ciò lasciate le redini e ' dato di sprone cavallò
precipitò nella voraginet Sopra lui furono gittate in quell’ abisso nioltè.
vittime, nìolti frutti, molte ricchezze, molte preziose Vesti ^ 'molti oggetti
di arti di ogni maniera, e senza più la terra si ricongiunse Il Gallo area
corpo straordinario, il quale molto eccedeva la proporzione comnne ....Licinio Stolone
stato dieci volte tribuno, quegli il ‘‘quale fu capo alla fstitnzlone delle
leggi, per la 'quale dieci anni fu sedizione, alfine' vinto iu giudizio e
condannato ad una multa in danaro ()) disse: che non vi è bestia alcuna pià
callivà del popolo, il qutde non nsparmia nemmeno chi lo sostenta . Assediando
Marcio console que’di Piperno, ridotti senz’ altra speranza spedirono a lui. E
Marcio, indicatemi, disse, come solete voi trattare li servi li quali dà voi si
ribellano ? tome si dee, soggiunse il legato più anziano, punir chi desidera
ricupenve la r Sie mai ri fu questa Toragiae, ciò che può beo essere, ta
ricoopuDtione di lai mode ò tutta (àvolosa. Livio assai propiiio a tali
raceopti aon lafiiTorisce. liberti ncUiva. DlIetUtosL Marcio del franco parlare,
e se nei, dicea, se noi ci lasciassimo piegare a' lispar^ miarvi ogni cruccio,
quali pegni ne darete voi di non farla mai più da nemici ? q V anziano
tipigUava. Sta in te o Marcio e ne' tuoi Romani' sperimetttm-lo. So con la
patria Uberi torniamo, vi ci terremo • pen sèmpre costanti amici : ma tali mai
vi saremo, 'se ci astringerete a servire. Marcio ne ammirò li magnanimi M‘q^i,
e sciolse 1’ assedio .. L IV^EMTAE i GaQi guerreggiavano Roma, un priil' cipe
di questi sfidò qm^lunque de’ Romani a venire con esso al paragone dello armi,.
Un Marco Valerio tribuno proveniente da Valerio PopUcola il quale insieme con
altri ' Ubera la città dai tiranni, si fa innansi pel combattimento. Venuti
alle mani, un ooryo si mise in su r elmo di Valerio, sgrid^do e guardando
terribilmente il barbaro f e se mai lo vede portare de’colpi sul romano / gli
si avventa ora colie unghie alle Addo di Roma. j. ' ; guance lacerando, ed ora
col rostro agli'occhi, pungendo. Tanto che il Gallo ne anda fuori di se, non
potendo trovare come ribatter 1'emolo, nè come guardarsi dal corvo! Ma
traendosi la zuffa in lungo, il Gallo fu col ft;rro sU l’altro per
internarglielo coll'impeto nel seno. Corsogli il corvo agl’occhi Onde
forarglieli, colui alza Io scudo a respingerlo: e tenendolo alzato, il Romano
che ne seguiva le mosse, menò da basso la spada, e lo uccise, Camillo il
comandante lo insigni con aurea corona soprapnominaudolo Corvino dall’uccello
compagno di lui nel combattimento; perocchò li Romani chiamano corvi, gli
oicoelll che noi coracas chiamiamo. E costui da quel fatto ha 1’elmo ornato
d’un corvo. In guisa che quanti fecero statue o pitture di lui, lutti
gl’acconciarono sul capo quell’uccello. Devastavano le campagne ricche d’ogni
bene nomini sfìaiti dalla guerra e simili ai cadaveri, se non quanto
respiravano. Essendo calda ancora la penero come dicono dell’ucciso. Fu vittin
miseranda delr inimicO’Uomo il quale sazia la invidia sua poi sangue civile.
Dispensò tra soldati parte de vantaggi nè questa la più piccola, ma tale da sommergéK
frà le ricchezze la inopia dt ciascùtlo diedero il guasto ài seminati già colmi
per h raccolta tnalmetiando il meglio dellB^ terre fruttifere: ' i I • f I ' t,
Queste Cemitlo il quale apparisce ora aalHaaao'4e& Roma i Uli tìglio del
ftmoso Furio Csmiflo morto i6 ano,! adòiciro. Aucb'esso viute S fugò con ifna
iniigue battaglia i galli, tuttavia molesti ai romani. LIVIO (vedasi) aS. aC.
'Ma percl^è spesso e molto danneggiavano i Campani come iorp' amici. Pertanto
il senato romano sulle istanze e lamenti replicati de campani contro de
napoletani spedi a questi ordinando che non più nocessero ai sudditi della
repubblica; ma ne avessero e rendessero ciò ch’era ^usto: e nascendo
coih(roversìe fra loro, le dJscutesserò co’gindizj non'cqlle armi, secQudo le
convenzioni che ne farcbbono: del resto mantenessero la pace con tutti ìntorno
i popoli, non corseggiassero il mare tirreno né tentassero eséi per sé nè
CO-OPERASSERO GRICE con altri imprese disdicevoli ai greci. Soprattutto istmi,
gl’ambasciadori che cercassero, Se venivano il destro, di alienare co’bei modi
verso de’potenti la loro città dai sanniti, e renderla amica di Roma. ',. y.
Ti-òvavansi di quel tempo in Napoli come ambasciadori di Taranto uomini
rispettabili, e, po’ligami del sangue, ospiti antichi di que’cittadini: ma por
altri, vi si trovavano inviativi da nolani, cooSuanti dei napoletani, e tutti
dediti ai greci, i quali vi brigavano in contrario onde non copcórdassero co’
Ifomani nè co'sudditi d’essi) nè lasciassero l'amicizia verso dei sanniti. Che
se r Romani set pigliassero a pretesto di guerra { rton temessero, nè
invilissero, come in^ su^rabile rie fosse la forza; ma, perseverassero, e
combattessero come i jbraoi Grecf., confidando sù le Manca il principio dj
questo raccolto: puj> coninliar^i LIVIO (vedasi), c. aa. Questo pangrafo e
tutto il resto del libto sono frammenti veri dei libri perduti dell’antichità
di Dionigi. schiere proprie e sulle ausiìiane che verrehhono dai sanniti.
Riceverebbero se ne abbisognano, pià delle loro, le forte navali dà' TaretUim,
le quali eran tanUs e. si buone. Adunato il Sanato, e tenutivi molti dlsconi
dai legati loro fautori, vi si divisero i sentimenti: ma li piu autorevoli
parfianO tenerla pe’Romani. Non fecesi per quel giorno decreto alcuno, ma
riserbato per, altra sessìone l’esame intorno ai legati; recaronsi a Napoli in
folla i primarj de’Sanniti. Or quésti Conciliandosi con ossequióse manio:e i
capi del comune, pregarono il Senato a far si che decide il popolo dell’utile
pubblico. Quindi recandosene all’adunanza, vi ricordarono i loro benefizj, poi
vi fecero le mille accuse di Roma come d’una ingannevole e perfida: e
finalntente promiserole meraviglie ai Napoletani se deliberavann pella guerra:
vale a dire che mauderèbbero loro milizie, quante ne bisognassero per difender
le ptura, come l’armata e 4utta la ciurma pelle na#I. Davano insieme a vedere
che subirebbero tutte le speso guerra non solo pe’soldati proprj, m pe’loro;
che respinto l’esercito romano ricupererebbero, Cuma, occupata dai Campani,
erano già due generazioni, .cén esdnderM gli abitanti: che renderebbero la
patria ai Cumani, accolti, quando U perderono, dai Napoletani, e fatti
partecipi d’ogni lor bene: che darebbero ai Napoletani un trat^ assai grande
del territorio che tenevasi dai Catppihi., -, ' r ', vn. Ih mezzo a tal dire,
la parte calcolatrice dei Ntpoletani, la quale vedea da lontano i mali xhe ver
rri>bero colle battaglie, sulla città, dimanda che ai conservasse la ^ace:
ma' la parte amante di cose nuove ^Ja quale cerca insieme un mezsp arricchire
nelle ttsbolenze lanciavasi verso le guerra: Pertanto, elevafonsi a vicenda e
voci e mani; procedendo la contesa fino al tiro delsàss). Alfine prevalendo il
partito men buono, gli oratori di Roma dovettero tornarsene senza Tintento. Dond’^è
che il Senato romano decreti 'd’inviare un eseacito contro de’Napoletani. I
romani all’udire 5^10 i Sanniti apprestavano un esercito, vi spedirono prima
Rmbasciadori. E di essi quelli eh’erano scelti dell’ordine senatorio venuti ai
consiglieri de’Sanniti dissero: Voi fatfi ÌQgiustamonte o Sanniti violando i
p'attati cha ovate con noi concordato. Amici vi eijt^nete di nome, nemici che
ne siete di fattL Vìnti, voi da Romani in tanti condtattimenti, sciolti pelle
istanze vostre caldissime dalla f. . guerra j oiténuta la pace come la volevate
e desiderosi poi di essere gli amici e gli alleati di Roma; giuraste, alfine,
di avere amici e nemici quelli appvinto che per tali riconosce la nostra
repubblica. Ed ora immemori di tutto questo, e fin posti in non cale i,
giuramenti, avete abbandonato noi nella jguerra co'Latini e ci>i Volsci,,
cpn que’ pòpoli io dioOf che sono divenuti nemici nostri appunto per voi,
perchè avevamo noi ricusqtò di unirci con essi net dare a wi guerra. JE nelt
anno. J precedente voi avete istigato con tutta la premura e l’ardore, anzi voi
avete necessitato i Napoletani che temevano farlo, a prendere contro noi la
guerra^ e voi ne supplite le spese: voi la loro città ven tenete. Ed ora tutti
intenti INTENT INTENZIONE GRICE ad apparecchiarvi raccogliete d'ogn intorno
milizie, coh pretesto, come pare, innocente, ma: in realtà con disegno di
guidarle contro i nostri cotoni. Ed a tanta ingiustizia invitate i .Fdndiani e
i Formiqni ed altri, i (fuaii abbiamo no,i pOr^^iato ne'diritti ai nostri cittadini.
Or 'voi profanando così scopertamente 9 turpemente i trattati di amicizia GRICE
LOGICALLY DEVELOPING SERIES e di alleanza; il Senato ed il popolo romano
deliberarono di spedirvi ambasciadori, e iperitnentai'vi colle parole, innanzi
di procedere ai'fatti. E queste sono le cose che ami tutto vi dimandiamo,
queste quelle, ottenute le quali, crederemo soddisfatti i nostri risentimertti:
Chiediamo primieramente che ritiriate, le truppe inviate in soccorso ai
Napoletani:, e poi che non mandiate milizie condro i nostri coloni, nè
provochiate affatto i sudditi nostri a voglie ambiziose. Che se dite che tali
cose non piacciono a tutti fra voi, ma che le fitnno alcuni solamente contro il
voto comune; cónsegHàteci dunque voi questi perchè ne giudichiamo, 0 cen terremo
contenti: ma se non gli avremo noi tjuesti nelle mani j né prenderemo in )
testimonia i Numi, ed i Genj invocati da voi nel giurare i trattati; e pSrciò
siam qua venuti co Eeciali. Dòpo H parlar del romano consaìlatisl infra loro
quei capi de’Sanniti diedero questa risposta: Non è già colpa del comune che i
nostri sussidj giungessero a poi tardi per Ut guerra cóntro i latini,
Imperocché si era appunto decretato che questi a voi s’inviassero: ma i
capitani assai s’irtdugiOrono nell’àpprestarveli; come voi troppo vi
acceleraste a dar la battaglia] e coti giunsero quelli tre o Quattro giorni
dopo il bisogno. Jiispetto a Napoli poi dove sono alquanti, de nostri, tanto
siamo lantàni dcUt oltraggiarvi soccorrendola in qualche fnodo mentre perico
la; che noi pensiamo d’essere piuttosto gl’oltraggiati e gravemente da voi.
Foi, tutto che non òjfesi, v'adoperale a soggiogare questa città, confederata
ed amica nostra non già da poco, né d^ allora che con voi ci concordammo, ma da
due generaeioni en>antS, e per grandi e copiosi ben^tij ricevutine. Tuttavia
non é la comun dei Sanniti che offendavi nepimeno in questo; imperocché di
propria voglia ìóccorpono Napoli, come udiamo, alcuni nostri, ospiti ed amici
loro, o stipendiati, pella indi^nta’fbrse del vivere. Nè abbiam poi bisogno di
staccare da voi li sudditi vostri; imperocché senza que’di Fondi, e. li
Formiesi, noi, necessitati alla guerra, bastiamo a noi stessi. Apparecchiamo un
esercito non per levare: a vostri colorii le cose loro; ma per difendere le
nostre propriamente. A vicenda noi dimandiamo da voi j se volete far la
GIUSTIZIA GRICE ESCHATOLOGY, che partiate da Fregelli, città da noi conquistata
tanto priiHa col mezzo dell’armi, che è mezzo dirittissimo di possedere; e voi
sera alcun titolo ve t avete, già sono due anni, appropriata. Or tali cose ci
si concedano nè crederemo di essere stati oltraggiati. Allora subentrando al
discorso il Pedale Romano, ripiglia: Niente impedisce che violando voi così
manifestamente i trattati di pacOy i romani passino all’armi: nè già ponete
lepnerUarvi d’essi, ma de'non sani vostri consigli. Ornai da loro si è /atto
qtuuUo doveàsi pelle leggi rsacre e civili della patria, o di pio verso i Numi,
o di giusto GRICE GIUSTIZIA ESCHATOLOGY verso i mortali. Gli dei che per sorte
soprawegliano alla guerra, giudicheranno tfuale de due popoli osservasse i
tràttati. £/ qpi recatosi in atto di partire, e tiratosi al capo il lembo onde
cingevasi gli omeri, alzò come era il costume j le mani al cielo, orando don.
imprecazione gl’iddii : che se Roma ingiuriata da Sarmio, non potendo riaversi
dalla ingiuria cotle jrsfrole e co'tribunali procede finabnerite all’opere, U
dessero pella mente ctmsigU bùqni, e condotta, propizia pella guerra. Afa se in
opposito Rorna ìràscurando i legami santi dell’amicizia, accattava pretesti non
giusti onde romperla, non la dirigessero 0 ne consigli o ftelle opere. Levatisi
gli uni e gli altri dal colloquio; e dichiarate alle loro città le CMe
disputatevi; dascuno dei due popoli pensò molto diversamente su Tabro. I
Sanniti come £an essi quando iqtprendon la guerra, tendano per lent^ assai |e
operazioni de’romani; laddove i romani immaginavano rannata di Sannio ornai
prossima a piombare ^u i Fregèllaui’, loro còloni. Donde ne avvenne a ciascuno
ciocché erane consentaneo: Imperocché li primi, apparecchiandosi e indugiandosi
rovinarono la opportunità d’imprendere: per l’opposito i romani tenendo tutto
pronto, udita appena la risponsóli. E prima che i nemici ne udissero la marcia;
tanto le milizie reclutate V, ‘non. di:etidere in teiTa, ma dalla terra
elevarsi. Imperocché nell’ e^ero stan le sorgenti del fuoco divino. a Ciò che
si dimo^ra pel fuora nostro sia che lo abbiam 'da. Prometeo, sia che da
Vulcano. Impe^ rocché quando è sciolto da’vincoli pe’quali è necessiuto a
rimanere fra noi, corre subitamente pell’aria verso 1’altro fuoco, suo
connaturale, ed Q quale doge d’interno' tutta la natura del mondo^ Cosi donque
l’al. l6 e LIVIO (vedasi) più dislesamente. Il tratto aegnenic sembra parte
della ri^tosia di Poaaio airinviato de’romani. neUe guerre han perduto i jìgti,
quanti i fraleìli, e quanti gli amici? Ne’quali tutti come pensi che dee
traboccatne la bile se alcuno ' gf impedisca placare ^ue' morti eoa tante vite
di nemici le quali sole son credute un ossequio in verso gU estinti. Ma
supponiamo che persuasi, o forzali o per qualunque maniera vinti mi si
arrendano, e contxdano che questi continuino tìi vita, or ti pare, che sian per
cqnce'dere'che ritengano insieme ogni lor cesa, q sema pur neo di vergogna se
ne vadano quando, a tbr pia ce, quasi eroi qui apparsi per felicitàrne? O non
piuttosto sopravvenendomi j quasi fiere, mi sbranerebbero appena tentassi dit
questo? O non vedi come i cani da caccia quando è presa la fiera la qual chiusa
dà essi va nella rete, circondano il ceuciatort, chiedendo parte della preda? e
se non ottengono bttntosto il sangue o le viscere, non yédi come lo sieguonó, e
pressano, e malmenano, nè respinti sèn pdrtono, nè percossi? Faticarono tuUo'il
di cotnbaltendd, ma^i che le ombre tobero di rafhgurare gii amici e i nemici,
tornarono a proprj alloggiamenti. Appio Gaudio non so per qual mancanza intorno
de sagrifizj perdé la vista, e ne fu denominato ->^f£'eco; 'perocché li'
Romani cosi chiamano chi non vede le scritluce custodite tra 1 murs, formate
con lettere/ accuratissime, odo'rifere pello misto in che sono, presentano tal
iloridez È diifieite iotarpetrare dove miri iitesio rottame. Fn detto che alle
nti Freoettine. • i u.. I RonUuii ckUmaQO calende le ncòmeaie come none
dtiamano la mezza IbQa, ed idi il pleoiluaio. Era la falange nel rnsAZO
disgiunta ié mal piena: cori quelli che ivi erano disposti id òontrario, le
furono sopra, e ne 'respinsero i>coDÒfc|auenli l’'iaosa, guàra aitàccò tutto
il fiore dc^ cita Uomini sacerdoti, onorati Co’sacri minirieii. Quest’uomo pien
di trasporti senza consiglro, insolentissimo, deliberando e ctmcentrando in sé
tutti i poteri pella guerra E poi tu ardisci d’accusare ia sorte, turche la
usavi pessimarnente, postola su barca già rovesciata? Così eri stolto? \,
.^jilcuni i membri abbisognano di cura, e tali altri cicalritzcmdosene. VQt Ma
vo’ricordare ancora un’arion' dvile de gna degli noom) di tutti i mortali,
dalla iquale sia chiaroai Greci quanto Roma allora abborrisse soellerati, e
come fosse inesorabile contro chi viola i diritti comuni della natura. Cajo
Letorìo soprannominato Mergo, uomo illtutre pe’natali, còme non ignobile per le
belliche imprese; dichiarato trìbW>' militare nefia guetta sannitica
Ittsiqgò per un tempo un giovinetto sub camerata, vago più eh’altri di aspetto,
perchè rendere si volesse agli amorosi AMICIZIA GRICE diletti di lui. Ma perchè
noi guadagna cb’'donl, uè còlle gentili maniere, ornai più non bastando a
sesiesM, cpr§e alla violen^. Divulgatosene il disordine tra le miliziè, i tribuni
della plebe y; Qoaoto SigoJa questo libro, er^etlaato. it paragrafo lO'A lutto
frammenti. ripuUQ^Io oltraggiò comune della {repubblica, me die dero accusa
pubblica al reo, cpudannatone quindi dal popolò a Qiorte eoo voti pieqi.
Peroécbè non tollerò questo ebe uomini di grado nell',;fsercilo profanassero
con ingiurie‘ùmpìabili e contrarie ali^ natura Tirile, persone iagentté, mentre
esse pella libertà co njballe-; vano i . Se non che non molto prima di questo
fece^ttn’ opera‘ aaeor piò tp^evigliosa pell’ingiuria recata ad un altra
persona, quantunque servile. Il (àglio di PubKo, io dico t di uno di
que’tribuni milUari che umiliarono ai sanniti l’esercito e n& andarono,
sotto giogo, fa costiletto, come lasciato iir grave pénuria, a ter danari ad usura
pe’funerali del padre,^qtfasi ch% sarebbene quanto prima rilegato da’parenti.
Ma deinsò nelle sue speranze, e scadutone il termine {vfa présir'egU Stesso
pel: debito, giovinetto èòm’ era. e vaghissimo nc’ sem Valtrìo Masshiro pirla
di a( capo primo Le deecrjsione qui ecala b l'una' de’ tram meati de’libri
perdoti di Oiop^i.,II'£|ito fi narra pur aél compendio in tal modo: Ua tal
Romano^, Cajo Leutrio, intUleva cpn un giovine, suo eumerata, ond’avir tUo
diletto da lui y vago della persona. Ma non essendo il giovane goodagnalq nb
per doni v né pér eavetse, alta Jiite divalgato il disordine dell’uomo, i
tribuni lo condannaranò. -'IXdnigi, ’Oòm'Vne'^reaiaieoii, leone per ciseostinta
gravissima del fitto la vipleoia, usala in noe dg Letorio: Se cglf compendia sè
atess >Ta le carni ^acci&ct^ appena-^ si'riseajtooo e commoTOusi ifid
tanto eh gli piriti nalnrali di esse yio lentano i p.ori, e $i dissipa'no.
Questa •>, pur la cagione de’terremolwià Roma. Conciossiaché tutta vuota di
setto per grandi e contiqùatl canali pe’quali conducesi Tafana tien m'ohe
sflatatoje^ per le quali sen.esca. il vento rior. hiusovit ma quando il vento
rimastovi prigiohiero sia troppo e veemente questo somioove Roriù e rompene il
suolo, a •' Si^ consenta in generata ani liplo rfi qi|eSto, giATÌnetto: ma si
discorda autonome, sulla famìglia, e sul ten^)0. Valerio Massimo nel lihA lo
chiama fity Vetório figlto noa di Pubblio ma di quel Tito Veturio che net aifq
consolato fu dato ai Saooiti (lal. cfattaio obbrobrioso coocluso con essi.
LIVIO (vedasi) chiama it giovine Cajo Publicio, ed assegna il fauo all’anqo
.'4^7 di lioma aolto i oontoli C. Poeleliu fc Lucjo Pepino, vispi 4irùclusa la
pace co’Romani, soprastettero breve tempo i Saiteiti, e poi, stimolati dà un
antiéa ingiuria, mar 'ciaróno coll'armata tra i Lucani, loro cónfinauti. Questi
affidati da principio alle forze proprie sosienner la guérra: ma pòi vinti in
tutte le battaglie, pelòta gran parte del territorio, e già prossimi perdere
anche il resto, si videro necessitali ad implorare rajuto di Roma J£ quantunque
consapevoli a sestessi di aver tradito i patti cdnclusi Uria volta con lei di
antiòizia e di alleanzaf non disperSròne ch^ concorderebbe di nuovo, se le
inviassero in ostaggio insibme òon gli oratori i giovinetti più rignardèvoti di
tutta la repubblica loro. Qr questo appunto ne seguitò. Perciocché Venutivi
gl’oratori e supplicandovi ca^dissimamente; il Senato deliberò di ricever gli
ostaggi e render^ ai Lo cani l’amicizia GRICE FRIENDSHIP; ed il popolo né
comprovò la sentenza. Firmati gii accordi con gl'inviati de'Lh'cani, il Senato
elesse i più provetti per anni è per onori ^ e li diresse ambasciadori al
consiglio generale dèi Sanniti; affinchè dichiarassero ad èssi che‘i Luoùni
erano git amici GRICE FRIENSHIP, e gli alleati .di Bontà, e gli esortassero a
render lóro le terre usurpatene, nè più tramarli ostilmente: già non
permetterebbe la repubblica che alleati suoi che a ' lei ricorret'àna,
rinutnessero esclusi, dal proprio, territorio. • tata levar tutu levando, i
oaneli. Pìi( volentieri diremo che le mosee de' venti ttnterranei seno éfletlo
4ie'unemoti ausi che la priout eafione. I Sanniti gli mnbasciadcwi
incollerìrono e replicarono primicramentò; che i trattati di pace non erano
Jdtt} Con accordo che essi non mossero per amico; o, nemicò se /ton ^quello che
assegnassero loro per tale i romani i Appresso, che i romani ~s' avjevano
renàuto amici GRICE FRIENDSHIP i Lficani non già in antico, ma di recerite
quand'erano questi già inoolli nella guerra co'Sanniti; oh A è che non avevano
titolo nè, giusto nè decoroso per romperla co' Sanniti Risposero i
Rotofiixì''che coloro i quaU avevano promesso di soggiacere, ottenendo appuntò
con ciò la pace, dovevano obbedire in tutto, a chi presede.; '.e minacciavano
in caso contrario di portare sa essi la guerra. I 3aimiù ripuianjlo
intollerabile |a ptresunaione di Roma intimaroflo agli ambasciadori cht
partiasero sull’istante; e dentarono che sL apparecchiasse spianto bisogna
pella guerra di tutta .1 fazione, e d’ogni citti^ Pèrtanto la; cigìon
manifesta, nè ingloriosa a raccontarla, della guerra Sanuiliea, fu .la voglia
di socQ>rrere i Lucani caccòmmuidatisi a Roma quasi fosse già pubblico e^
vecchio costume di essa difendere gli oppressi, che la invocavano: ma la oagion
recondiu., e che più \li sospinse a romper la pace, era la potenza Saimitica,
divenuta già grande, e la qnal$' crescerebhene ancora, se domati i.l, ucani ed
i confinanti di questi si volgessero ad essi anche le barbare genti che
stayansf appresso. Cosi tornati appena gli ambasciadori la pace fu rotta, e sì
àfrolarono due armate. Postumio già console, venuta 1 oca di esserlo
iivatneiue, teniasi grande per to splendor de’nataii, come pel gemino consdato
Doleasene sa ie prime il collega di Ini quasi escluso daU’essergli Uguale, e più
volle ne fece 'in Senato rimostranxa. Alfine qUah plebeo venuto in luce da
poco, riconosoendosegli' mìAore per gli antenati, per gli amici GRICE
FRIENDSHIP, e per àltre eccellènze, .n'mi liossegli, e gli concedette di per si
stesso il comandò della guerra Sanuitica. Diede grande invidia a Postumio un
tal fatto, come nato dalla media arroganza sua; ma poi glien ' diede un altN,
ancona più indegno di un duce Romano. linperoccbè separali due mila difi
esercito suo li ridusse nelle campagne sue proprie' senza i fèrri con ordine
l'nsieme ebe potassero un qùerceto, leneudoK gran tempo in òpere ài mercenari e
dà schiavi. E superbo tanto prima di Uscire |Kr la s|>èdizione, apparve, più
InioUeraUle ancora nel compierla; dando al Senato ed al popolo catise giustissime
òndè r abborrissero. E ceno, avendo. i| Senato definitó'che Fabio il console
dell’àttnò precedente, il quale area vinto i Sanniti cbiamali' ’FeHtri' si
rimanesse nei campo con aniorità proconsolare per guefreg^are colla parte
stessa de' Sanniti, ^gli.oon ieiterrs(ia' gl'intimò di par tirne, come
spettasse e lui sólo còmaudarvi. Spedirono i FUdtì'a ^chiederlo ebe non
impedisse al proconsole di stTtre, nè ripugnaste 'ài loro decreti; ed 'agli non
diede se nOn. òrgegboae e tiranne rlsposfe, dicèndó:cAe finAocbe Litio fa
mauaionè di quelli SaoaÌM: nondimeau Clatetio li tralatoia Della ina Italia
antica..- beticippe IvaocdeaiOBe-ìùteyVÓgÀido Fatta sedizione, vinti quei delle
vergini e ritiratisi dalla cità, spedirono a Delfo, e ne udirono che
navigassero per l'Italia: che trovato nella japigia il luogo Satirio ed il
fiume Taranto dove mirerebbero un capro tinger la barba nel mare, ivi fondasser
la sede. Fatta vela, e trovato il fiume, videro un caprifico (1) nato in riva
del mare con una vite la quale al caprifico si abbracciava, intanto che una
parte di essa vite toccava il mare. Interpretando che questo fosse il capro cui
l' oracolo prediceva, che mirerebbero tingere in mare la barba, si fermarono in
quel luogo, e vinsero li japigi, e fondarono la città cui Taranto nominarono
dal fiume. " III. « Artemide Calcidese avea dall' oracolo che dove
trovasse il maschio soggiacere alla femmina ivi si fer- masse senza navigare
più innanzi. Navigando intorno al Pallanteo d'Italia, e uniratavi una vite
intorno di un caprifico, femmina quella, e maschio l'altro, talchè questo ne
era coperto, concepì che l' oracolo fosse adem-pito. Ed espulsi i barbari che
vi erano, vi si accasò... Regio fu detto il luogo sia perchè fosse uno scoglio
dirotto, sia perché ivi interrotta la terra tien disgiunta l'Italia dalla
Sicilia coutrapposta: sia che tal nome fusse il nome eziandio di chi vi
dominava. » IV. « Leucippo Lacedemone interrogando l' oracolo, dove portasse il
destino che egli co' suoi prendessero sede, se ascoltò che dovessero navigare
all' Italia, ed ivi (1) Caprifico, fico silvestre. La voce greca payos
significa capro e presso alcuni popoli caprifico. Quindi l'ambiguità d'
interpretare la voce per capro o caprifico. Fatta sedizione, vinti quei delle
vergini e ritiratisi dalla cità, spedirono a Delfo, e ne udirono che
navigassero per l'Italia: che trovato nella japigia il luogo Satirio ed il
fiume Taranto dove MIREREBBERO UN CAPRO un capro tinger la barba nel mare, ivi
fondasser la sede. Fatta vela, e trovato il fiume, VIDERO UN CAPRIFICO [nota
[Caprifico, fico silvestre. La voce greca “tragos” SIGNIFICA GRICE SIGNIFICARE
‘capro’ e presso alcuui popoli ‘caprifico.’Quindi l’ambiguita d’interpretare la
voce tragos per ‘capro’ o ‘capritico’. GRICE: AVOID AMBIGUITY – unless you are
a Pitonisa.] nato in riva del mare con una vite la quale al CAPRIFICO
s’abbracciava, intanto che una parte di essa vite toccava il mare.
INTERPRETANDO CHE QUESTO FOSSE IL CAPRO CUI L’ORACOLO PREDICEVA, che
mirerebbero tingere in mare la barba, si fermarono in quel luogo, e vinsero li
japigi, e fondarono la città cui Taranto nominarono dal fiume. " III. «
Artemide Calcidese avea dall' oracolo che dove trovasse il maschio soggiacere
alla femmina ivi si fer- masse senza navigare più innanzi. Navigando intorno al
Pallanteo d'Italia, e uniratavi una vite intorno di un caprifico, femmina
quella, e maschio l'altro, talchè questo ne era coperto, concepì che l' oracolo
fosse adem-pito. Ed espulsi i barbari che vi erano, vi si accasò... Regio fu
detto il luogo sia perchè fosse uno scoglio dirotto, sia perché ivi interrotta
la terra tien disgiunta l'Italia dalla Sicilia coutrapposta: sia che tal nome
fusse il nome eziandio di chi vi dominava. » IV. « Leucippo Lacedemone
interrogando l' oracolo, dove portasse il destino che egli co' suoi prendessero
sede, se ascoltò che dovessero navigare all' Italia, ed ivi (1) Caprifico, fico
silvestre. La voce greca payos significa capro e presso alcuni popoli
caprifico. Quindi l'ambiguità d' interpretare la voce per capro o caprifico.l’ORACOLO,
dove portaste il destino che egli cc/’^stiei prendessero tede, né ascoltò chè
dovessero Aavìgare-AllMuiia, ed ivi [Caprifico, fico silvestre. La voce greca
“tragos” SIGNIFICA GRICE SIGNIFICARE ‘capro’ e presso alcuui popoli
‘caprifico.’Quindi l’ambiguita d’interpretare la voce tragos per ‘capro’ o
‘capritico’. GRICE: AVOID AMBIGUITY – unless you are a Pitonisa. [ahbìtàre dove
approdati rimanessero un 'giorno ed una notte. Approdata la flotta intorno di
Gallipoli in un tal campo de^T^renlinì, dilelliito'Leacippo della aalbra del
luogo, operò coi Tarenlini afllnchè gli isonCedessero di stanisi ii giorno e la
notte. Cosi passatine più giorni ;voleano i ^Tarentini che ne partissero ì -ma
colui noti ditd^ lor mente, dicendo che secondò ^li accordi uvea iU loì^ quel
tUoigo pel giorno e per la notte", e però sino a Umto^che fosse o furio o
f altra non se ne partirebbe. I Taréalini vistisi, nell’ inganno,' coQsentirono
che rimanessero. u I Looresi popolando Zefirio, Ina punta d’Itali; ne flirtino
soprannominati' Epizeflrii. Stav tniropo. che rimanesse nel hiogo in che era,
sostenendone la ^ecn. che ne deriva furono dissipati tra selve e valli e
ripidezze. Un TarentiOo, uomo empio, e deditO/-à tatti i piaderf p la
incpntinenztr e prostituzione della Sua bellezza fln'da ^ovinetto / ne' iu
nominato Taide. Fatta ià' scelta dal popolò erano' partiti. Vilissimi e
petulaaUssìml tra cinadini. Fu Postumio spedito ambàsciadore ai Tarentinr: ma'
facendovr rimostranza; questi non-T iitte> sero, nò ' pigliaronp il contegno
de’ saVf i quali -òòmuliino su là patria che pericola: anzi, se nieoiotavitno
mai che cóldi non parla accuratissimo il greco 'Idioola, ve! Siraboàs pel libro
setto dà questo 'Sdetiaid racconto pell’origine di Melapoalo. Cosi detto perebà
risolte al vento Ztflro ciot di Ponente. Questo e li tre paragrafi srgoenti
tono frammenti. deridevano, ed elevando 1i;m le mani o la voce, se ne
irritavano, e barbaro lo chiamarono; jtantt> che 1q espulsero infine dal
teatro. E già costui m ne anda co’suoi, quando per istrada s’avvenne con
essi,.Filopide, un accattone di Tasanto il quale sopran-j nominavasi Colila
dall’uso che avea, continyo di briacarsi. Caldo del vino, ancora del di
precedente, come ebbe vicini i Romani, si tirò su la veste: e scompóstosi in
atto indegnissimo da vederlo, sbrufTè sul manto sacro de’Legati ciocché non.
può nominarsi nemmeno con decenza. Scoppiatene da tutto '3 teatro le visa, e
sbattendoglisi per fino le mani da'più protervi, EoStumio riguardandolo dice:
accettiamo o tvtissimo uomo / augurio: giacché ci date fin le cose che nòn
chiedi/ama. Poi rivoltosi alla moltitndine, mostratovi contaminato il suo
manto, e sentitevi uuiversaliN aucora e più, grandi le risa, anzi le voci
nemmeno, di àlcUni che'sen compiacevano, e lodavansi, della contutUelid:
-ridete f dice, finché V é dato ; ridete, pure o "Tarenùni; ehè assai ne
sospirerete dii j>oi. Fremendo alquanti alla minaccia iò ; replica, perchè
pià Jremiale vi aggungo; che assai laverete col sangue: quesUi, mia Cosi
spregiati dai prijvati e(kl pubblico, e tosi •pcoaunziatp quasi come un
vaticinio divino, su loro / sciolsero, d legati dal porto da Taranto. Giunti
questi sotto Emilio fiarbula magisti^to Aono di Roma al Altri all’idea-dj
acoattonesoatitaiacono quella di od aomo brflardo t garrulo, ellione de’Lucani
e de Bruzj ‘j e finch’era' indomita la nazione grande le bellicosa de Sanniti,
e1 altra de questi son fatti a dar buoni auguri, a chi cerca mantenne i beni
pri>prii. Ma chi cerca r altra!, spii queiU augnrf d’uccelli di pronto e
rapido impeto per lontauT Via^. Ginciossiaché questi uccelli sieguooo e
pcocacciansi ciò che nbn hanno: ma gl’altri guardano e''cnstodiscòno ciò
saltité. Pormi saviezza mandar lettere di minàcce aC sudditi: ma vi&t
pendere come uomini da pocoro da nulla Uomini dei quali non siansi considerate
le milizie -nò conosciuto il valore, questo è indizio di forsennato, o di chi
non sa ciò che è senno. 3Ia noi sogliamo punire i nemici co folti, non colle
parole. Nè fàteiamo te giudice de’nostri richiami co’Tapentùti, co’Sanniti, e
con altri: nè prendiam te garantedà far valere ciò che tu giudichi. Decideremo
colle armi nostre la disputa pigliandone la pena che ne vohemo. Su tali
'notizie apparecchiati come nimico ^ noa come giudice nostro. Vagli poi
considerare quali’garanti ne darai per te da soddisfare le ingiurie >che tu
ci fai: non ricevere a carico tuo che nè^farentim. né sdtri nemici opprimeranno
i diritti. Se luti deliberato d’intprendere per ogni rqdnierà la guerra contro
di noi, tieni certo che ti succede dò Se di ^ necessità succede a chi vuole
combattere innanzi di, aver ponderalo con chi siaper combatterò. Abbi tutto in
pensiero, e poi se cosa ti bisogna da noi, aìlo'ntànale minacce, pon già.
quella tua regia fierezza V vieni al senato, informalo, persuadilo uè' vedrai -mtuteanS
non 'il tjlirilto, e non £ equità a. V i'9 • JLìevino console romano, preso un
esploratore li Puro (e prendorfe alle sue milizie le armi e schie>r rarsì:
poi mostratone a lui lo spettacolo gl’impose di riferirne a cbv lo manda, tutta
la verità: e che oltre le cose vedute dicesse che Levino il console de’romani
lo ammoniva a non inviare occultamente altri per osservare: venisse egli e vede
palesissipiameate, e sperimenta ciò che-gian l’armi romane. Addo (li Roma.
474n/ÓJV/C/. lówà Ua tal Oblaco, soprannominato.VuUinlo, dace de'Fereatani, al
vedere che Pirro non avea posto certo, ma presentavasi rapido dòvuoqnc.
tra’soldati, diresse r attenzione. a.' lui solo: e dove' che, ne anda il re
cavalcando, ivi piega anch’esso il proprio cavallo. Osservando 'ciò Leonnato di
Macedonia figlio di Leofante, .l’nno de compagni del re, se ne empi di
sospetto, e scoprendolo a Pirro dice fvMarortaro(^o. Dopo quell’incontro il
monarca afEne fidisstihó e valorosissimo fra’ coin|>kgni la da mide sua di
porpora e d’oro usata da Ibi nel combattere, c l’armatura, migliore delle altre
pella materia e pei 'tavqro, ed Segii prese la clamide bruna, e 1’usbergo e la
causia colla quale, Megacle difende il capo dagl’ardori. E questo fu cagione,
sembra, a lui dj salute a. ‘V. Dopo (Jbe Pirro signore degl’epiroti porta
l’esercito contro ai romani, deliberarono spe dirgl’ambasdadoH pel riscatto
de'prigionieri, sia che colui volesse restituirii'cambiandoli, sia che tassando
un prezzo per ciascuuo d’essi. Pertanto dichiararono ambasciadori CAJO FABRIZIO
(vedasi), il quale gii console, addietro da tre anni, vinte i sanniti, i
lucani, i bruzj con strepitose battaglie, e disciolse 1’assedio di Turi, e
Quinto Etnilio il quale éelTega un tempo di Fabrizio fece la guerht co’Tircehi,
è Pdbiio Cornelio il quale gii console addiètrct da quattré' atini atuccò ^utti
i Galli chiamati Scnoni, nenvcilsfmi'de’^omani, 'e 'mitene a 61 di spada tutù
gl’adulti.' Venuti quésti a Pirro, e -discorsogli qninto concerne il subjelto,
come la sorte non Imttoposta a calcoli, corno repentini sOno i eangiamenti fra
l’armi, e come niun può' di leggieri antivederne il futbro; proposera alui che
sceglieste dì rendere i prigionieri a p-szzo o permuta. ( ' 001101 rispose:
jirduo cimento è il vostror o romani, che ricusate can^iungervi meco di
aiaicieia, e richied/ete i vostri prigionieri d’usarli in altre battaglie in
mio dannoi Voi se desiderate il bene, se intenti siete tdX utile comune a noi
due; pacificatevi con me, e ee’ miei confederati, e ripigliatevi gratuitamente
1vostri prigionieri, alleati, o cittadini che sieno. In altra moda non soffrirò
che vi abbiate un'altra volta tanti, Je ^tanto valorosi. Coì dice presenti i
tre 'legéti, ma poi prendendo Pabrizio in disparte soggiunse:, Vili. Odo o
Fabrizio che tu se prestantissimo nel guidare una guerra, che se’giusto, e
sobbrio e pieno d’^ogni virtù, dell’uomo privato, ma che intanto sei povero di
sostanze, e depresso in ciò solò dalfis sorte; onde noli vivi tù eoa più agio
cher. gV infimi senatori. Ora io volendo sollevarti anche in ciò, ti afferò
tanta quantità d’argento e d’oro da superarne il più facoltoso tra Romìmi.
Imperocché io reputo liberalità bellissima, e degna di citi presiede,
beneficare i valentuomini i qiysli. per, la povertà non vivono con dignità
de’lor genj bennati, equesti io reputo doni, questi monunten{i luminosi per
/una regià potenza. Or tu vedendo o Fabrizio il voler mio, lascia ogni
verecondia, vieni, a parte de’miei beni; e concepisci che mi farai piacer
grande, e che sarai presso me riverito come un amico, o un congiunto, o certo
coni uno degli ospiti più onorevoli. Nè già per questo mi dovrai tu p/eslare
l’opera tha in cose ' xvnì. 4'^non giuste, o non degne, md in coj& onde tu
ne sia piti stimabile e grande ancora nella tua patria. E primieramente
pròvecherai spianto puoi perchè faccia la pace cotesto tu& Senato, fin qui
duro, e privo di niodprati contigli. Dirai che ia venni in danno' di Roma
promettendo soccorrere i tarentini ed altri d'Italia: che ora non sarebbe
giusto, né decoroso che gli cdibandonassi io presente qui coll'esercito, e
vincitore già., di tuia battaglia: che nondimeno affari imperiosi e molti
avvenutimi poscia -mi richiamano alla reggia. Ed io qui ne do, sii tu solo o am
gli altri compagni, le assicurazioni più. ferme, c&è io son intento a
tornarmene se ì romani mi si concordano per la pace: talché puoi dirlo pur
francamente ai tuoi cittadini se alcuni mai ve ne fossero d quali mal suona, il
mme di un re, come quello di un fi4o, ne’trattati, e-témessero di me similmente
perchè taluni monarchi si videro, sorpassare i giuramenti, e tradire
gl’accordi.. Fatta la Magro ò il nfio poderetto: eppure amando io di lavorarvi
ed appiicàndomene prudenzialmente -> i frutti t somministramb tutto il
bisognevole; riè la natura ci viohnUf a cercare pià che il bisogiievole. Soave
m’è falimento cui la fame còridiscemi, dolce la bevanda Cui la seté procurasi,
e molle il sonno cui la stanchezza precede. '&ijfèientissima rrì è la vèste
Che mi difènde dal fredda, come acconcissimo, il -vose meri prezioso fra quanti
datino P uso medesimo. Noti saria ^unquè giusto accusare la sorte, la quale mi
pòrge quanto basta alla natura, e la quale se 'non dovami H'abbondanza, non
tri'impresse netntnèno desiderf superflui. Io non hb mètri' è vero dasoccorrere
ritisi debbe;~'ma nemmeno diedemi ''Dio. su le ricchezze quella cognizione
certa j 'o divinatoria pella qualegioitasi chi he'abbisogna, come nemmeno
diedemi tante altre cose. Partecipo ciocché ho colla patria e gliamici; porgo
loro còme comuni le cose mie, beneficando come posso chi ne abbisogtia, nà
quindi io credo mancare. K quesfe sono quelle maniere mie che tu giudichi,
prestantissime, e else sei pronto di comperale a sì gran prezzo. Che se poi la
gran possidenza sia degna che procqrisi po/t tante premure, e gare appunto per
benefitare chi ne abbisogna e se questa rende più Jelici i pià ricchi come
sembra a voi re j qaoii vie saran le migliori, da pi'ocurarsela, quellè pelle
quali vuoi tu che io me l'abbia ingloriosamente, o quelle pelle quali io
l’avrei prima ottenuta con decoro? Certamente gl’affari di stato mi diedero
tante volte per addietro > mezzi d’arricchirne principalmente quando già da
tre anni fui consolo, spedito colf esercito cantra, K potendo di^ tali acquifU
applicarmene quanto.iovoleva; non veppi toccarne I 0 trascurai per amor della
gloria uua ricbhezza anche giusta; come, fece falcfio Poplicola,' e, come pur
fecero, altri moltissimi pc’quali Roma tante 'ne è grandiosa, Ma da te quali
doni mi si, apparecchìanà? Non canshierei forse il meglio col peggio? Sal'ebbe
quella prima maiiiera di possedimento stata uiùin colla soddisjazione del
cuore, con un apparalo di giustizia, e decoro; ma da codesta tua Ujopfia tatto
ciò manca. Imperocché qpAttVO uquo^accstta dall’nomò k cotta ca knseTiro csb-gu
gravita iNTOthro riw cuk SOL oottrairifA i k NAseoaDASf purb . la etATORÀ DBL
PRESTITO .co' tfÙMI SPSCIOSf, DI DONLf Dt favori; DI BiOfBFfCBmBE.',, o Or su
poni che io uscendo da me prenda C oro che mi offerì, e ciò divulghisi tra
romani. I magistrati irreformabiU, quelli che noi chiamiamo censori, a’quali
spetta esaminare U'vivete de' ife> mani e castigar ehi devia dalle
cóasuetadini della patria, quelli mi citino e m’astringano a dar conto de’doni
ricevuti, al cospetto del pubblico e, dicano: ;,xt. Noi ti abbiamo inviato o.
Fabticio con due consoUpi al monarca per trattare il riscatto dei prigionieri.
Tu rivieni dalla spedizione ‘feoza li prigio/tieri, e sene’altro bene por, la
eittà: Bitorni col mà, e m solo^ e npn. i tuoi compagni, delle regie.( se non
da ciò die tu ne tradisci al nemico, sì che egli coi tùo mezzo soggioghi per sè
/’/talia, e tu col mezzo di lid tòlga alla patria la libertà? Così fan tutti
gli nomini di una v^tà simulata, e non vera, quando si sono avanzati al grande
e forte degl’affari . , w Che^fe non tuadorno ddla dignità senatoria, e non da
nemici, cnom^per tradire e far tiranneggiare la patria avessi accettato que
doni, ma soltanto come privato da'-un re cotfederato, e senza ombra di male pel
comune, dì, non saresti da punire anche per questo che depravi li giovani,
insinuando nella loro vita il genio pella ricphezza, pelle delizie, e per Its
sontuosità dd monarchi-^quando abbisognavi condnenza estrema a preservar la
repubblica? Svergogni, li tuoi maggiori de'qu^i niuno deviò dagli usi della patria
nè mutò la povertà decorosa con turpi ricchezze: Si tennero tutti nel tenue
patrimonio, che fu riceyesti, ma poi riputasti minore di tC n' ., K ' u Anzi tu
dissipi la gloria a te risultata pe’fatti anteèedenli, la qiiaL possedevi di
uom temperante, e superiore ai bassi desìderj. Ti diletterai d’esser fatto
malvagio di proho, quando dovevi anche cessare dall'esSer inalvagió, se eri mai
tale? O sarai da ora in -poi messo a parte mai più degl’onori dovuti ai buoni?
anzi levati piuttosto dalla città, o dal foro almeno. E se ciò dicendo mi casi.
sasserp dal Senato, e mi riducessero. disonnati, qual cosa ftqtrei replicare,
o. quid Jar giustamente in contrario? E, dopo ciò qital vita vivrei io mai,
caduto in tanta, infamia t‘~e versatola in tutti i iniei posteri? n • Quanto a
te poi come darò segno mai più di giovarti, se tra miei perdo la influenza e Ut
riputazione, pelle qatdi ora cerchi, di afJezionap~miti? Quando non potessi più
nuUa nella patria, non mi rimarrebbe che uscirne cottr tutta la Jìtmiglia, condannandomi
da me stesso ad un obbrobrioso esilio. Ma dove mi starei da indi in poi, qual
luogo mi ricetterebbe ridotto^' ^eom’ è conseguenza, senza la libertà del
parlare? Forse il tue regno? VivaGiovo se mi apprestassi tutta la règia tua
prosperità, non mi daresti tanto bene quanto mé ne togli'. levatami la libertà,
preziosissima innanzi,n. . u Còihe potrei tener vita tanto divérta ^ tardi
ammaestrato a servire? Se cJù è nato ne’regni e nelle tirannidi quando abbia
cuor generoso, ama la libertà, stì/nando ogni benè meno difessa; come chi è
cresciuto ùt città libbra e consueta dominare sugl’altri, passerà volentieri di
bpie in -mole, di libero in suddito per imbandire laàte ogni giorno le mense,
pie aver gran seguito intorno di servi, e pigliar diletto senza rifeèya eoa''
femmine e donzelli formosi quasi la umana felicità sia riposta in questo 0 non
già nella virtù?-n. u'Ma sùm pure questo e cose altrettali degnissime \di esser
cercate, or quando l’uso ne sarà / tnai lieto se non sono mai stabili? Se a voi
sta concedere tali amabili cose; voi le ritogliete uguale mente, quando vi
piace. Lascio di ridire le gelosie, le calunnie, la vita sempre in pericolo,
sempre in timore, e tutti gl’altri sconci, non degni del wx lentuomo, quanti ne
porta lo sfar presso ai moìiarchi. Già non colpirà tanta stoltezza Fabrizio
d’abbandonare la famosissima Roma per vivere nelC Epiro; o da ridurlo chk
merUre può far da capo nella città dominante, voglia essere dominato da un
solo, pien di sestesso, e còhsueto d’udire dagl’altri soltanto ciò che diletHa.
Già non potrei levare il grandioso nei pensieri t nè impiccolirmiti, anche
volendo, sicché tu non debba sospettare niun danno. E rimanendomi come la
natura e-'glt usi della patria mi han fatto, ti parfè grave, e quasi tirare, da
ogni pòrte il comando verso di me. Generalmente debbo avvertirti ctie non vagli
ricevere nel tuo regno, nè Fabràio, nè altri, sia maggiore sia 'pòri tuo nella
virtà, ni affatto chiunque sia'crescitUò iti, città Ubère con sensi più grandi
deiiP nomo privato. Già non è sicura ai principi nè cara la dimestichezza con
uomini, di mente eccelsa. Mà sull’utile tuo vagli tu da te, discernere ciò eli
è da fare:.-quaoto a prigionieri nostri scéndi ai miti consigli, lasciane
aitdare. Appena Fabrizio (ìae, maraviglialo della magnanimità sua, lo prese
pella (lesira dibendo: Già non mi vlen maraviglia che la vostra città sia tanto
celebrala, la cresciuta a tanta signoria, dap. 4^1 poiché dia nudre tali
valentuomini. Ben avrei caro che non fosse stata fra noi briga ninna fin dall’origini,
fifa poiché vi fu, poiché taluno de'numi volle che noi misurassimo a vicenda le
nostre forze e iL valore, misuratolo ci riconciliassimo; son pronto. E
cominciando io la benignità la quale dimandate, restituisco 'in dono, e non a
prezzo i suoi prigionieri a Roma « X^ECto, un. Campano, lasciàtd da Fabrizio
console romano per capo ddia gbarnìgione di Regio, invaghito dei beni di
questa, finse venutagli lettera da un ospite suo nella quale s’annunzia che il
re Pirro manderebbe cinque mila soldati a Reggio per invaderla, promettendogli
li cittadini, d’aprir loro le porte. Su tale pretesto uccise cinque di Reggio,
e poi comparti le maritate e le nobili tnt suoi militari, vi si fa tiranno.
Alfine caduto nudato degl’occhi manda cercando in Messina Dessicrate medico
prestaatissimo secondo che udiva. .>,. r Pirro recita li versi che Omero
mise, in bocca d’Ettore verso Achille, 'qnast detti da’romani verso di Pirro;
., Ma te tale e Xaot’ nomo io gHi non voglio, col guardo seguitandoti,
di.'forto, Ma palese ferir^ se mi riesca i ' . Poi soggitmgendo che egli
seguiva forse nn tristo $u> bjetto di guerra contro Greci, buonissimi e
giustissimi, ma rimanevaci un solo e bel termine; che li rendesse 4 amici di
nemici, con' principio magnifico di BENEVOLENZA – GRICE CONVERSATIONAL
BENEVOLENZA. Quindi fattisi veaire li prigionieri de’romani, diede a tutti
vesti convenienti ad uomini liberi, e le spese del viaggio, Con esortargli
infine a ricordarsi quale egli foése staio inverso d’essi, a manifestarlo agh
altri, e CO-OPERARE GRICE con (utlb 1’impegno a rendergli amiche le patrie
loro, quando vi giungessero, 'i . Certamenté r oro de’principi' ticn forza
insuperabile, hè fu dagl’uomini trovato fin qui riparo contro di arme siffatta.
CKnia da Crotone uomo soperchiatore privò di libertà le cittadi, 'cOn dar
fritnehigia ad esuli e schiavi numerosi de’luoghi intorno. Fondata là tirannide
Quel di Reggio '«ve vano cercalo il presidio romano, temendo tanto de
Cariagipeai quanto di Pirrol Dacib uccise li cinque qni SIGNIFICALI GRICE in un
convito. Ma li soldati ne uccisero assai più pelle case, come sì raccoglie da
Dione. Questo paragraie, e l( tegajeuti lino al duodeoimo sono frammenti. col
mezEO di questi uccise o bandi li Grotoniati più rìguardevòli. Anassilao oocopò
la fortezza di Reggio, e ritennela per tutta la vita, lasciandola appresso al
figlio suo Leofrone. Dopo questi anche altri facendosi a dominar le città vi
sconvolsero ogni cosa. Ma il dispotismo, ultimo a nascere e massimo ad
opprimere le città d’Italia, fu quello di Dionigi, tiranno della Sicilia.
Imperocché passato nella Italia in soccorso de’Locresi che vel chiamavano a
danno di que’di Reggio, che sono loro nemici, ha incontro eserciti italiani
numerosissimi; ma postovisi in battaglia uccise moltissimi, e presevi a forza
due città. Poi tornato un’altra volta in Italia svelge dalle loro sedi
gl’ipponiesi traendoli nella Sicilia: invade Crotone e Reggio e vi tiranneggia
fiqché queste città sopraffatte dal timore di lui si danno ai barbariv Ma poi
premuti pur da’barbari come nemici, si rimisero nelle numi del tiranno. E
fluttuando, come le acque dqli’Euripo, si volgevano senza requie qua e là
fortuitamente, levandosi da chiunque li malmenasse. Scese PiiTo di bel nuovo
nell’Italia, non riuscendogli nella Sicilia le cose come le idea, perchè il
governo di Ini sembra dispotico anzi che 'regio alle città principali. E per
vero dire, iutrodoftp questo in Siracusa da Sosistrato che allora vi presede,
e^da Toinone capitano della fortezza, e ricevnto d’essi r erario, e presso che
dngento navi rostrate, e sotto Ciurlino uel lil>. a fa mcniione di più
zelante per pubblica confessione e più attivo nel dar mano a Pirro pèrcbé
scende nell’isola e vi regnas, giacché si eca costui recate colla fidUar^er
incontrarlo e gli av^a renduta l’isoletta, da Idi, presidiata in Siracusa.. Ma
tentando sorprèndere ugualmente Sosistrato fu ddosò; perocché costui previde le
insidie, e fùggì. ' r ' ' i ’, ^irapnsiT'pcr quatuo rileviamo da Lucio l^loro
era coma aoa ciùà composta da tre cittàio delle quali ngoiina /ra ciroonJata di
mora. Vedi le uote lib.' a, c. nella faoSlra tlraduxKltoe ^i quello icritìera.
Poi coniinciaiKlo a scouyolgeoi le cose di Itti; Cartagine crede avere il buon
tempo da riprender nell’isola i luoghi perdniivt, e' ti spedi sollecita
un’arinata. Evagora figlioolo di Teodoro, ^alacro ' figliuolo di Mieapdro, e
Dinarco figliuolo di Nicia, tristi, infàmi sopra tutti gl’amici di Pirro, emoli
com’erano in dar consigli, alieni da’Dumi e dal culto, vedendo il monarca in
disagio, cercar vie da conseguire danari, glie ne proposero una indegnissitna
i^e era quella d’aprire i tèsoli sacri di Prosèrpina. Imperocché nella città
stessa eravene un tempio aaitvo, il quale serba oro in copia, intatto da tempo
antichissimo, e dove altro ven'era invisibile a tutti, come posto
occnltistimamente sotterra. Sedotto da tali adulatori, e riputando la necessità
superiore a'tutto, si valse de’consiglieri medesimi pello spaglio sacrilego.
Quindi tutto riconfortato imbarca con altre ricckecze Toro venutogli'! dal
tempio, spendendolo a Taranto. Ma la provvidenza giusta degl’Iddj maoifcslò T
efficacia sua. Perocché ariose dai porto pròcéderono in principio le nari' col
fi^re A t/n. venm terra; ma poi cambiatosi questo iu altro coo^rìo ii^pestà per
tutta la notte, e quali ne affonda, quali'ne miruse al golfo di Sicilia; e
spinse ai fidi, di liocrs quelle ov’èrano portati i doni', già votivi ne’tempj,
e Poro 'amJtnas&atooe: e qui disfacendosene i legni foce perire i nocchieri
naufoaghi pel riflusso deUe onde, e sparse )’ oro sacra su la spiaggia appunto
più prossima a Ix>cri. Donde costernato rese il mouaroa alla Dea tulli gli
ornamenti e i tesori, quasi per allontanare con collera. 4G7 ciò' (a Stollo !
che non vede t/ùali tormenti Tf« ìncorrerì: 'chè facili non tono,. Thnla a
mutarti le celesti menti, Come' Ai détto d’Omero. Dappoiché stese la mano
lemerliria sul1’oro sacro, onde valersene in guerra, la Dea lo iniìitQÒ nè*
Consigli per esempio e documento de’posteri. E per questo appunto io vlcrto
colle armi da’ Ro praticati don éagli uomini, ma dàlie capre per lo selvoso e
scosceso in che sorto: ed erano, per andare senza ordine alcùno spossandosi
dalla sete e Odissea 111-,, ):^micllUà Romane di Dionigi. Tulio il resto t
auppliio col compendio formala su li medesimi verni libri. parecchio.
Conciossiachè ivi crescono in copia abeti altissimi e pioppi, e la pingue
picea, e il pioppo e il pino > e r ampio fàggio, e il frassino, fecondati
dàlie acque che vi trascorrono ^ed ogni altra sorta di alberi, la qual densa
ne’rami tiene continua 1’ombra sulla montagna 1). s \ VI. a Eh questa sélva gir
alberi prossimi al mare e ai fiutni tagliati interi dal ceppo e recati ai porti
ricini forniscono a tuttà l’Italia materiali per navi e case: gU alberi lontani
dal mare e da fiumi, ridotti in pezzi, e riportati sulle spalle dagl’uomini
somministrano remi V " Stra'bufu nel lilwo V-I di« che questa selva eré
lunga tcllccento stadj. e pertiche, e mezzi d’ogni arme, e rasi domestici: fi*
naimcnie la parte di piante più grande, e più oleosa vien preparata a dar le
resine, e scn fornia la resina chiamata. Bruzia-., la più odorata, -e la piu
soave infra quante io ^ne conosca. Or dagli affitti di unto Roma ne ha ciascon
anno cospicue rendite. Io Reggio, iecesi un’altra sommossa dal presidio lasciatovi
di Romani e di confederati: seguitatidone da' ciò stragi ed esilii noti pochi.
Per tanto Gajo Gemicio r altro de’consoli usci coll’esercito a punir quei
ribelli. Presa la città colle ardii rendette ai citudini pròfughi gli averi
loro, edarresuto il presidio lo condusse prigioniero in Roma. Or su questi
tanta fu' Pira, c tanto il dispeuo.-Dcl Senato e uel popolo che non vi fu I
pietà di partiti: nm da tutte le tribù (ù senlenziau su tutti la pena di morte
come presciivono le leggi su tali malfattori. Vili, a Stabilita la sentenza di
morte furono pianUti de’tronchi nel foro e condottivi e legati trecento a corpo
nudo i quali aveanq già i cubiti avvinti dietro le spalle: e poi battuti, e poi
decapitati colle scuri. Dopo ì primi vi furono puniti altri trecento, e quindi
altrettanti ancora 4 findiè in t'uttO furono quaMro m'da dn La Irgiooe Campaoa
con Decio capitano occupi Ecgg'o l'anno 4/4 Roma poco ifopo la venuta di Pirro
nM’ ftalia, occorsa appunto in quell’ann^. La legione ribelle fu punita l’anno
4^^ sotto il contole Genucioi Livio dice clic la pena fu dicci anni dopo il
delitto, é ebe li póniti in Roma furono quattro rada. Nel testo ai parla della
ribellione come aeconda. Non k chiaro se l’indicata io questo luogo eia detta
seconda in rispetto a quella di Dcciu, o di altra antecedente. quecento. Non
ebbero questi sepoltura, ma tirati dal foro in luogo aperto dinanzi la città vi
s’abbandonarono, pascolo d’uccelli e di cat^i. La turba mendica non tenea cura
dell’onesto nè del giusto. Però sedotta dal Sannite si raccolse in un corpo, e
su le prime vivea por lo più pei monti nelle campagne. Ma poi cbe fu cresciuta
in numero ornai da tener fronte occupi una città forte, dalla quale prendea le
mosse a depredare le terre ihtomo. ÌÀ consoli, cavarono la milizia, contro di
questi. Ricuperata senza gran briga la città batterono ed uccisero gl’autori
della ribellione, véndendone gli altri all’incanto. Era già 1’anno avanti stata
venduta la terra e g^i altriacquisti fatti colle armi e l’argento risultatone
dal prezzo èra stato comparilo ai cittadini. 4^Qui 81 attude «Ila guerra
concitata da LoUio Sannite il quale fuggito da Roma dove era ostaggio, raccolse
gente, prese un luogo munito della sua regione, e vi padrone'ggiava, e predata.
Dionigi nel lib. 1. 9 dice di tessere la storia sua fioo al principio della
prima guerra punica. Tanto che il eoiApendio ha prossima corrispondensa alla
storia delle aSA*itA «Usa in venta libri. Marco Mastrofini. Mastrofini.
Keywords: implicature, Delle cose romane di Floro, l’antichita romane di
Dionigio, le cose memorabilia di Ampelio, il sistema verbale della lingua
Latina – del verbo latino, aspetto verbale – la filosofia del verbo – tempus,
azione, la concettualizazione dell’evento e l’azione nel verbo latino --,
categorie sintattiche e morfologiche e semantiche e prammatiche dell’aspetto
verbale nella lingua Latina. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Mastrofini” – The
Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Masullo:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale e la scissione dell’inter-soggetivo
– i lottatori della tribuna – la scuola d’Avellino -- filosofia campanese -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Avellino).
Filosofo italiano. Avellino, Campania. Insegna a Napoli. Ha trascorso vari
periodi di ricerca e di insegnamento in Germania. Direttore del
Dipartimento di Filosofia dell'Napoli. È stato socio dell'Accademia
Pontaniana, della Società Nazionale di Scienze Lettere ed Arti di Napoli e
dell'Accademia Pugliese delle Scienze. È stato insignito della medaglia
d'oro del Ministero per la Pubblica Istruzione. Candidato nelle liste del
Partito Comunista Italiano prima e in quelle dei Democratici di Sinistra poi, ha
ricoperto la carica di Deputato, è stato Senatore della Repubblica. Trascorre i
primi anni della sua vita a Torino. Si trasferisce a a Nola, dove compie gli
studi superiori frequentando il liceo classico Carducci. Fequenta il corso
di laurea in Filosofia a Napoli. Si laurea con Nobile discutendo una tesi su
Benda. Napoli era dominata prevalentemente da Croce; esistevano comunque altri
personaggi capaci di una riflessione autonoma e originale come fu Aliotta che
con il suo sperimentalismo offrì importanti stimoli a M.. Studia
l'esistenzialismo che andava diffondendosi in Italia. Assistente volontario alle
cattedre di filosofia e tiene seminari per Nobile, Aliotta, e Valle. Compie
la sua formazione filosofica a Napoli soprattutto con Carbonara. Carbonara era
impegnato attraverso i suoi studi di estetica a ripensare l'attualismo
gentiliano. La sua posizione prende il nome di materialismo critico. Attraverso
il confronto con Carbonara, M. si addestra al rigore concettuale e inizia
ad elaborare una propria posizione originale. Nella formazione e nella
costruzione della prospettiva filosofica di Masullo si combinano diverse
componenti. Il neoidealismo, crociano e gentiliano, lo sperimentalismo d’Aliotta,
e, tra idealismo e materialismo, il materialismo critico di Cleto
Carbonara. M. però, mosso dalle proprie inquietudini e dalle impressioni
suscitate dai tragici eventi bellici, studia anche l'esistenzialismo e lo
spiritualismo. Infine il bisogno di comprendere l'uomo concreto e le sue reali
tribolazioni lo conducono ad avvicinarsi alla fenomenologia. Il soggiorno
di studio a Friburgo gli consente di approfondire lo studio della fenomenologia
e di conoscere Weizsäcker, il quale aveva introdotto nel filosofese il concetto
di “patico.” (cf. anti-patico, sim-patico, em-patico). Esistenzialismo,
spiritualismo, idealismo e fenomenologia sono correnti di pensiero variamente
intrecciate tra di loro. Ciò che attraversa trasversalmente questi movimenti di
pensiero è la radicale problematizzazione del rapporto tra pensiero e vita, tra
il pensiero e il suo negativo, ciò che pensiero non è. Il pensiero
Intuizione e discorso è un testo in cui, avvalendosi degli stimoli che
provenivano dalla epistemologia, M. si confronta con l'idealismo attualistico e
storicistico per riflettere sul carattere “difettivo” della coscienza e sul suo
rapporto con la conoscenza. M. in Intuizione e discorso sostiene che i
poli del fatto e dell'idea, del senso e della coscienza, della vita e delle
forme dello spirito sono legati da un vincolo dialettico. Voler ridurre l'uno
all'altro conduce ad un idealismo soggettivistico o ad un empirismo cieco alle
dimensioni dello spirito. Bisogna comprendere le modalità del vincolo che lega
spirito e corpo. Il pensiero che voglia essere critico, cioè che non voglia
ingannarsi, deve riconoscere che esso si fonda su processi biologici e
fisiologici che gli sono irriducibili. M. approfondisce in Germania lo
studio della fenomenologia, ancora poco diffusa in Italia. A Friburgo frequenta
i circoli husserliani capeggiati dall'allievo di Husserl Fink e conosce Weizsacker
del quale M. svilupperà il concetto di "patico". M. stesso, tornato
in Italia, traduce e commenta alcuni testi di Husserl in un piccolo libriccino
ormai introvabile -- Logica, psicologia, filosofia. Un'introduzione alla
fenomenologia, Napoli, Il Tripode -- il cui contenuto in parte è poi confluito
nel successivo truttura, soggetto, prassi. M. considera Husserl un
grande esploratore della coscienza. Husserl cerca di dare un fondamento
filosofico alle scienze positive indagando il modo in cui la coscienza
costituisce il mondo che la scienza prende ad oggetto delle proprie particolari
ricerche. Masullo però, elaborando gli stimoli dell'antropologia medica di
Weizsacker, lavora al passaggio dalla fenomenologia alla patosofia.
Struttura, soggetto, prassi è il testo che documenta il rinnovamento della
ricerca di Masullo. Fa riferimento alle scienze positive per mostrare che la
coscienza è qualcosa di vivo e concreto e non è «intellettualisticamente
sofisticata, trasparente a sé stessa, come vorrebbero le filosofie speculative
le quali riducono la vita psichica alla vita cosciente e non tengono conto o
minimizzano il peso della dimensione psichica inconscia, svalutata come
qualcosa di filosoficamente irrilevante. S. Non è possibile una
conoscenza diretta, per introspezione/riflessionecome vorrebbero le filosofie
speculativedi ciò che pensiero non è. Il pensiero come esperienza
intersoggettiva, sociale (lo Spirito, il Soggetto) può conoscere i suoi
prodotti, i pensieri, il pensato, ma non può conoscersi come processo,
esperienza del pensare, atto, tempo, «paticità» (cioè il pensare come
esperienza soggettiva, esistenza). D'altronde il pensiero come processo non può
essere conosciuto neanche per inferenza da parte delle scienze
positivo-sperimentali. Queste possono misurare i processi, ma non possono misurarne
i vissuti. Lo scacco, il limite della conoscenza è l'apertura alla prassi
e all'etica: riconoscere il nesso operativo tra senso e significato, crisi e
ordine, «patico» e cognitivo, corpo e mente. Analizza i grandi modelli
idealistici e fenomenologici della soggettività. In particolare, seguendo
un'indicazione di Fichte, sviluppa la tesi secondo la quale il fondamento
dell'uomo, cioè la condizione per la quale l'uomo assume i caratteri della
soggettività (libertà, storia, ricerca, progetto, autodeterminazione) è
l'intersoggettività. Di questo fondamento Masullo analizza le modalità di
funzionamento. M., con i suoi studi sulla «intersoggettività» e il
«fondamento» degli anni sessanta e settanta (Lezioni sull'intersoggettività.
Fichte e Husserl, Napoli, Libreria Scientifica Editrice, La storia e la morte, Napoli, Libreria
Scientifica, La comunità come fondamento. Fichte, Husserl, Sartre, Napoli,
Libreria Scientifica; Il senso del fondamento, Napoli, Libreria Scientifica
Editrice, Antimetafisica del fondamento, Napoli, Guida), analizza le
«operazioni nascoste» in base alle quali si costituisce l'io e in base alle
quali si costituisce l'oggettività del mondo e individua nella originaria
struttura intersoggettiva il fondamento del mondo umano. Il fondamento è la
comunità, ma essa funzionalmente rimane nascosta all'io per permettergli di
istituirsi ed operare, come ben spiega nell'importante saggio Il fondamento
perduto, in cui rielabora e sviluppa spunti presenti negli ultimi capitoli di
Il senso del fondamento e raccoglie in
modo compiuto i risultati teoretici di due decenni di ricerche intorno al tema
della comunità-intersoggettività come fondamento. M. pubblica inoltre il testo
Fichte. “L'intersoggettività e l'originario” in cui riprende e aggiorna il saggio
su Fichte contenuto in La comunità come fondamento. Fichte, Husserl, Sartre. Pubblica
Metafisica. Storia di un'idea. Il capitolo finale, Il sentimento metafisico, è
l'indicazione del passaggio a una nuova fase del pensiero di M., una fase in
cui il tema dell'intersoggettività lascia il posto alla esplorazione delle
dimensioni del vissuto del soggetto, quindi lascia il posto ai temi della
paticità, del senso, del tempo. In effetti anche i suoi corsi
universitari di quegli anni rivelano questo momento di transizione. Si
dedicati al tema dell'inter-soggettività ma vengono trattati anche i temi
caratteristici della seconda stagione della sua riflessione. Tratta della
“difettività del soggetto”; nel corso invece si occupa di “comprensione del
tempo e interpretazione morale, definitivamente centrati su “i patemi della
ragione e l'inter-esse etico.” Nei studi
su «tempo», «senso», «paticità» (Filosofie del soggetto e diritto del senso,
Genova, Marietti, “Il tempo e la grazia. Per un'etica attiva della salvezza, Roma,
Donzelli, “Paticità e indifferenza” (Genova, Melangolo). Sostiene che il
pensiero critico, nella sua incapacità di pensare il passaggio, il processo, la
trasformazione, il cambiamento (sustenuto in La problematica del continuo in
Aristotele e Zenone di Elea, seppure solo sul piano logico) è incapace anche di
pensare la soggettività la quale è una forma particolare di cambiamento, è
tempo, prodursi delle differenze all'interno di un campo strutturato,
fortemente centralizzato, l'organismo umano, portatore della coscienza di
sé. In questi studi degli anni ottanta e novanta Masullo considera le
modalità affettive e psicobiologiche dell'esser soggetto. In “Filosofie del soggetto
e diritto del senso” Masullo si confronta con Kant, Hegel, Dilthey, Heidegger e
Merleau-Ponty, i quali storicamente hanno posto il tema della soggettività non
riconoscendo però la differenza tra «significato» e «senso». M. rivendica il
«diritto del senso» ad essere riconosciuto nella sua radicale e irriducibile
diversità dal significato. Molto più rilevante nella costruzione della sua
prospettiva filosofica è invece il saggio intitolato Il tempo e la grazia. Per
un'etica attiva della salvezza, nel quale M. illustra la sua concezione della
frammentazione della soggettività a partire da alcune considerazioni sui
concetti di esperienza e di tempo. I lessici delle lingue europee antiche e
moderne consentono di distinguere la dimensione orizzontale dell'esperienza
propriamente detta (έμττεŀρία, experientia, Erfahrung) la quale ha un carattere
prevalentemente cognitivo rispetto alla dimensione verticale dell'esperienza
meno propriamente detta (πάθος, affectio, Erlebnis), cioè il vissuto, il quale
ha invece un carattere affettivo anziché cognitivo. Da una parte abbiamo il
giudizio su ciò che abbiamo provato, dall'altra abbiamo il provare come
avvertimento immediato dell'accadermi di qualcosa. Ciò introduce a
un'ulteriore precisazione filologica che riguarda la differenza tra il
cambiamento e il tempo. Il tempo non è il cambiamento. Il cambiamento è il
continuo prodursi delle differenze nell'organizzazione delle forme della vita.
Il tempo è l'avvertimento interiore di questo cambiamento, cioè l'avvertimento
di sé attraverso il cambiamento. L'uomo, a differenza degli altri
viventi, è intrinsecamente tempo. Egli istituisce il tempo nel senso che mette
in relazione i cambiamenti a dei sistemi oggettivi di riferimento, ma ancor più
radicalmente l'uomo è tempo in quanto avverte i cambiamenti del mondo esterno
solo in relazione al proprio modificarsi. Questo avvertimento, il «senso»,
è l'indice della soggettività. L'avvertimento della perdita, il senso del
cambiamento, in una parola il tempo, accende l'allucinazione del sé, scatena il
desiderio di permanenza. Parallelamente alla esplorazione della
soggettività, in Il tempo e la grazia M. segue gli sviluppi di un'emergente
epistemologia caratterizzata anch'essa dalla contingenza e irreversibilità del
tempo fisico così come la cosmogenetica ce lo illustra. Il versante umanistico
e quello scientifico convergono nel disegnare un'antropologia la cui etica non
è più la moderna e rassicurante etica reattiva che salva la società con le sue
formulazioni sull'ordine del mondo. L'etica che M. vede in prospettiva
scaturire da questo nuovo contesto è un'etica attiva che salva il tempo, cioè
il soggetto, dal vivere la perdita prodotta dal cambiamento come «disgrazia»,
mutilazione. La perdita è un momento necessario nella vita di un essere,
l'umano, che non semplicemente cambia, ma si rinnova e costruisce
intenzionalmente il proprio futuro. Una volta riconosciuto il diritto del
senso ad essere inteso nella sua irriducibilità al cognitive; una volta esplorato il campo del
senso-tempo-patico alla luce della psicanalisi, della letteratura e della
filologia; una volta riconosciute le epocali trasformazioni degli scenari
epistemologici, antropologici ed etici, M. in Paticità e indifferenza, si
chiede quale può essere ancora, in questo nuovo contesto, il ruolo della
filosofia. La filosofia è «saper assaporare i sapori della vita, gustare a
fondo i sensi vissuti, … elevare i sensi sensibili a sensi ideali e cogliere nei
sensi ideali la possibilità dei sensibili, è la “sapienza del patico” ovvero,
se si ricalca interamente l'etimo greco, è la “patosofia”». Da un pensiero
così articolato derivano alcune indicazioni e cautele etico-pedagogiche.
Essendo l'uomo intrinsecamente temporale, essendo la temporalità umana
irreversibile, l'uomo non può essere fatto oggetto di conoscenza come un
qualsiasi ente. M. distingue la conoscenza dalla cura. Egli inoltre distingue
le esperienze (che sono comunicabili e sono i materiali sui quali si costruisce
la conoscenza) dai vissuti (che sono invece costitutivamente «incomunicativi»
in quanto riguardano l'immediatezza del sentire individuale che non è mai
trasparente neanche all'individuo stesso che li vive). La conoscenza è la
dimensione orizzontale dell'esistenza. Essa guarda alla universalità. Mentre la
cura ne è la dimensione verticale. Essa invece guarda alla unicità-identità, ai
vissuti da assaporare e da sublimare in valori da condividere. Mentre la
ricerca di Masullo prosegue in questi anni curvando verso nuove direzioni,
pubblica alcuni nuovi libri. Sscrive Filosofia morale per una collana di libri
che illustrano ciascuno il nucleo delle varie discipline filosofiche. In
effetti Filosofia morale non è un elenco di temi, personaggi, concetti ma un
percorso molto personale all'interno delle questioni e dei nodi fondanti della
disciplina: la specificità della filosofia morale e la distinzione tra morale
ed etica; il bene quale orientamento dell'azione umana; il soggetto della vita
morale, la persona; il dovere, la responsabilità e il vincolo che ci lega agli
altri. Scrive, intervistato dal giornalista de Il Mattino, Scamardella,
Napoli siccome immobile. Scamardella, in uno degli ennesimi momenti difficili
per la città di Napoli, cerca la figura di un saggio, di un'autorità morale
capace di interpretare il presente e prefigurare il futuro di questa città
malata. Trova questa figura in M., filosofo ma anche protagonista della vita
civile e politica della città con concrete iniziative quali, nel 2006, gli
incontri con i giovani e la popolazione nell'ambito del “Manifesto per salvare
Napoli”. Il libro è un lungo dialogo sulle tante debolezze della città presente
che si conclude con un'analisi delle risorse che danno speranza nel
futuro. M. pubblica La libertà e le occasioni, che sviluppa il tema del
suo ultimo seminario all'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di
Napoli. L'impegno politico Negli anni sessanta e settanta la
contestazione studentesca segnalava il bisogno di rinnovamento dell'università
italiana. M., per i caratteri originali del proprio insegnamento, è considerato
dagli studenti uno dei professori progressisti. Egli in quegli anni fu eletto
deputato come indipendente nelle liste del Partito Comunista Italiano, ed in
seguito come senatore, si occupò sempre
dei problemi del sistema scolastico. Inoltre come parlamentare europeo lavorò
al fianco di Nilde Iotti nella Commissione legale. All'inizio degli anni
ottanta alcuni importanti provvedimenti modificano l'organizzazione didattica e
gestionale dell'università (vengono istituiti i dottorati di ricerca,
riordinate le scuole di specializzazione, creati i Dipartimenti). Terminato
l'impegno parlamentare Masullo dirige per due mandati il nuovo Dipartimento di
Studi Filosofici dell'Napoli intitolato ad Aliotta. Anche attraverso questo
incarico egli incide sulle direzioni della ricerca filosofica a Napoli. M.
si mette di nuovo al servizio della
politica quando dopo la crisi politica e sociale degli anni ottanta, agli inizi
degli anni novanta si verifica un generale risveglio della coscienza
collettiva. A livello locale egli dapprima anima per oltre un anno, ale “Assise
di Palazzo Marigliano”, un movimento che si opponeva al progetto NeoNapoli
previsto dal preliminare di Piano Regolatore.l, del quale ottenne il rigetto,
suggerendo la demolizione e il rifacimento integrale dei Quartieri Spagnoli.
Forte della popolarità acquistata con questa esperienza è capolista del PDS
nelle elezioni amministrative e poi, protagonista a Napoli della innovativa
esperienza della "giunta del sindaco". A livello di politica nazionale
M. è di nuovo impegnato per due legislature al Senato. Egli è membro della
Commissione di vigilanza dei servizi radiotelevisivi e, come negli anni
settanta, della Commissione per l'istruzione pubblica e i beni culturali in
anni nei quali i provvedimenti relativi a istruzione, università e ricerca sono
numerosi e importanti. Amante dei libri e della cultura dei bambini, lo
spessore del Maestro filosofo emerge inoltre quando in aula si discutono
disegni di legge relativi a temi quali l'ergastolo o la procreazione
assistita. Saggi: “Intuizione e discorso,” – Grice: “Good connection.” (Napoli,
Scientifica); “La problematica del infinito del continuo – l’infinitesmale – la
categoria della quantita – flat and variable,” – Grice: “Excellent
philosophical problem.” Napoli, scientifica,
“Struttura soggetto prassi,”Napoli, scientifica “La comunità come fondamento,” Grice:
“Masullo’s first attempt at a conceptual analysis of the inter-subjective; but
it takes a philosopher to understand that that is what stands behind
‘community,’ or ‘population,’ as I prefer, or the conversational dyad.” Napoli,
scientifica, “Anti-metafisica del
fondamento” Napoli, Guida, “L'inter-soggettivo” Napoli, Guida, “Filosofie del
soggetto e diritto del senso,” Genova, Marietti, “Il tempo e la grazia. Per un'etica attiva
della salvezza,” Roma, Donzelli, “Meta-fisica:
storia di un'idea,” – Grice: “Perhaps Aristotle never had an idea; after all
‘ta meta ta physica’ is later and means: “the stuff the master wrote after the
‘physika’!” Roma, Donzelli, “La potenza della scissione” o diaresis, Napoli, Scientifiche,
“Gografia e storia dell'idea di libertà,” Reggio Calabria, Falzea. – cfr.
Grice: “The history of ‘free’ is hardly a ‘natural history’!” “Paticità e in-differenza,”
Genova, Melangolo, -- Grice: “Masullo’s concept of ‘pathos’ is essential –
while you may have self-pathos, the implicaure is that there is ‘empathy.’” “Inter-soggettivo”
G. Cantillo, Napoli, Scientifica, “Filosofia
morale,” Roma, Riuniti, “Scienza e co-scienza” – Grice: “This pun is only
possible in Italian: conscious and science are less of a parallel word
formation!” “tra parola e silenzio” Grice: “This is my reading between the
lines – i. e. the implicature” atti del convegno (Monte Compatri), P.
Ciaravolo, Roma, Aracne, “Il senso del fondamento,” Napoli, scientifica, G.
Cantillo, Napoli, scientifica, Napoli, siccome immobile. Intervistato, Napoli,
Guida, La libertà e le occasioni,
Milano, Jaca, I linguaggi della follia e
i passi della salvezza. Il lavoro psichiatrico, in S. Piro. Maestri e allievi,
Napoli, Scientifica,. Il filosofo della coscienza, Corriere della Sera, La
grazia della filosofia e della politica, su rainews, Napoli, chi era il più
grande filosofo, su interris, A. Fioccola, Magazine dell'Università degli Studi
di Napoli l'Orientale. Aldo Masullo. Masullo. Keywords: l’intersoggetivo, la
scissione di Hegel, il continuo dei velini – velia, infinitesimal –
l’innamorato di Parmenide -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Masullo” – The
Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Matassi:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale e la filosofia della
seduzione dei giocatori di calcio – la scuola di San Benedetto del Tronto -- filosofia
marchese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (San Benedetto del Tronto). Filosofo italiano. San
Benedetto del Tronto, Ascoli Piceno, Marche. Grice: “I like Matassi; but then I
like football – I was the football team captain at Corpus – and aesthesis, the
seductor seduced – “la condizione desiderante” indeed!” Allievo di Garroni, è stato Professore di Filosofia
morale, coordinatore scientifico della sezione Filosofia, Comunicazione, Storia
e Scienze del Linguaggio del Dipartimento di Filosofia, Comunicazione e
Spettacolo dell'Università Roma Tre; in precedenza era stato direttore del Dipartimento
di Filosofia. Si è occupato anche di Estetica musicale. È stato Presidente della Società Filosofica
Romana e ha fatto parte del comitato direttivo nazionale della Società
Filosofica Italiana. È stato nel
comitato d'onore della Fondazione Amadeus. Presidente dell’Accademia Estetica
di Rapallo, responsabile della sezione filosofica di Villa Sciarra, Roma, membro
della giunta del CAFIS dell'Università Roma Tre. È stato anche membro del
Comitato scientifico della Fondazione Résonnance dell'Losanna. Ha diretto la collana Musica e Filosofia per
la Mimesis Edizioni di Milano e quella su I Dilemmi dell'Etica per la casa
editrice Epos di Palermo. Ha tenuto un blog sul "Fatto quotidiano"
sui temi che legano la filosofia alle dimensioni del contemporaneo. Ha
collaborato con la rubrica Ricercare, dedicata alla filosofia della musica, al
mensile Amadeus e al mensile Stilos. È stato direttore della collana Italiana
per Orthotes Editrice (Napoli). È stato anche membro del comitato
scientifico-direttivo delle seguenti riviste: Colloquium philosophicum,
Paradigmi, Quaderni di estetica e di critica, Bollettino di studi sartriani,
Filosofia e questioni pubbliche, Links, Lettera Internazionale, Phasis,
Itinerari, Prospettiva Persona, Metabolè, Babel online, Civitas et Humanitas.
Annali di cultura etico-politica. Per quanto concerne il settore
estetico-musicale è presente nel comitato direttivo della rivista internazionale
Ad Parnassum. Hortus Musicus, Civiltà musicale, Orpheus, Itamar. a ricoperto la
presidenza di giuria per il Premio Frascati Filosofia. Menzione speciale della giuria al premio di
saggistica “Salvatore Valitutti”, per Bloch e la musica. È stato uno dei principali collezionisti al
mondo di incisioni relative alle esecuzioni delle sinfonie e della liederistica
di Mahler (circa mille tra vinili e compact disc). Si è occupato di filosofia
tedesca, in particolare di Hegel, delle scuole hegeliane, del criticismo
tedesco, del marxismo occidentale e della scuola di Francoforte. Un suo saggio è
stato dedicato alle Vorlesungen hegeliane di filosofia del diritto e
all'interpretazione fornitane da Gans. Si è occupato di Lukács, iutilizzando
per la prima volta il celebre manoscritto "Dostoevskij" si è poi occupato
di Hemsterhuis, l'autore della celebre Lettera sui Desider e del dialogo
Alessio o dell'età dell'oro. Le sue ricerche
hanno riguardato la filosofia della musica moderna e contemporanea e in
particolare su quella di Bloch, di Benjamin e Adorno, fino ad elaborare un'originale
filosofia dell'ascolto, le cui suggestioni si possono rintracciare nella teoria
musicale moderna di Ernst Kurth, elaborata nei Fondamenti del contrappunto
lineare. In tale prospettiva di ricerca, filosofia della musica e filosofia
dell'ascolto sono strettamente compenetrate, fino a diventare il paradigma di
una rivoluzione formativa che mette al centro del sistema educativo
contemporaneo la musica nella sua declinazione storico-teorica come in quella
pratica. All'interno di tale prospettiva
svolge un ruolo centrale Mozart, il "più ascoltante tra gli
ascoltanti" come lo definì Martin Heidegger. Saggi: Le Vorlesungen-Nachschriften hegeliane
di filosofia del diritto” (Roma, Sansoni, Lukàcs. Saggio e sistema” Napoli,
Guida); “Hemsterhuis. Istanza critica e filosofia della storia, Napoli, Guida);
“Eredità hegeliane, Napoli, Morano, “Terra, Natura, Storia,” Soveria Mannelli,
Rubettino, “Bloch e la musica,” Salerno, Fondazione Menna, Marte editore, Musica
(Napoli, Guida) “Bellezza,” Soveria Mannelli, Rubettino); L'estetica. L'etica, Donzelli,
Roma, L'idea di musica assoluta, Nietzsche e Benjamin, Rapallo, Il ramo, “La
condizione desiderante. Le seduzioni dell'estetico”- Il nuovo melangolo,
Genova; Filosofia dell'ascolto” (Rapallo, Ramo); “Lukàcs. Saggio e Sistema”
(Milano, Mimesis); “La Pausa del Calcio, Rapallo, Il ramo. “Il calcio,” Rapallo..
In: Du Nihilism à l'hermenéutique, Hemsterhuis Franciscus “Sulla scultura; a c.
di M. Palermo. Convegno sulla bellezza", presso il Centro di Studi
Rosminiani di Stresa, Musica e Creatività Intervista a Rai Notte "La
musica assoluta" Inconscio e Magia, Teatro dell'Opera di Roma, Seminario
di formazione del PD Le parole e le cose dei democratici Pisa, Palazzo dei
Congressi, Intervento alla Summer School della Fondazione Italiani-Europei, sui
rapporti tra democrazia e capitalismo, Commento al concerto jazz di Donà, "Tutti
in gioco", Porto Civitanova, Bloch e la musica. Utopia a misura d'uomo.
Intervista, Ornamenti, Arte, filosofia, letteratura, M. Latini, Armando, Roma, RAI
Filosofia, su filosofia.rai. Il Potere e la Gloria. Juventus e Inter Il Fatto Quotidiano,
s MLatini, in. tervista su Amare, ieri, di Anders, rivista on-line «SWIF-Recensioni
filosofiche», M. Latini, Doppia risonanza sul mondo (a
proposito di "Musica" Napoli), “Il Manifesto”, C. Serra, Recensione a
"Musica". Grice:
“Unfortunately, Matassi, being Italian, or an Italian, is more interested in
Nordic Kierkegaard, to pour sorn on their coldness, than in Ovid’s ‘ars
amatoria’ which would interest an Oxonian!” -- Cf. “La palestra di Platone”. Elio Matassi. Matassi.
Keywords: la filosofia del calcio, in-duzione, se-duzione – Ovidio, ars
amatoria, desiderio. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Matassi” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia Grice e Matera: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – i segni del zodiaco e
la semiotica di Peirce – filosofia basilicatese -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Matera). Filosofo italiano. Matera, Basilicata. Grice: “Only in Southern Italy is a
philosopher also responsible for the astrological edification of the city’s
cathedral!” Uno dei più grandi studiosi e divulgatori
di astrologia occidentale e filosofia dell'epoca. Insegna dapprima a Matera, e
successivamente a Napoli. Vive nel
periodo in cui la Contea materana era dominio degli Angioini e su richiesta di Filippo
IV detto "il bello", il re di Napoli Carlo II d'Angiò, detto "lo
zoppo", invia Alano a Parigi. Lì insegna e divenne noto come dottore
universale, profondamente versato in filosofia. In quegli anni infatti
astronomia e astrologia vieneno collegate poiché si crede che gli astri
potessero esercitare un influsso sulle azioni umane. Nei periodi di soggiorno a
Matera, abita, secondo Verricelli nella contrada di Lo Lapillo tra il castello
e il puzzo dove sorge l’acqua della fontana hera la sua vigna con una casuccia
di pietre, piccola, mal fatta casa propria di filosofo quale oggidì si chiama
la vigna e casa di Alano. Si tratta della collina dove poi fu edificato il
Castello Tramontano. In quella casetta il grande filosofo passava intere notti
ad osservare il cielo e gli astri con strumenti rudimentali. Di Alano è il motto
presente nel “Glora mundis”: La goccia perfora la pietra non colpendola due
volte con forza, bensì colpendola continuamente, così tu trai profitto
studiando non due volte ma continuamente. È l'esortazione con cui invita a
raddoppiare impegno e curiosità sulla strada della conoscenza. Secondo alcuni,
il perfetto orientamento delle facciate della Cattedrale di Matera e del suo
campanile lungo i punti cardinali si deve alle osservazioni astronomiche di
Alano.A Matera una strada, trasversale di via Nazionale, tra le vie Salvemini e
Di Vittorio, è dedicata ad Alano. G. Fortunato, Badie, feudi e baroni della
Valle di Vitalba, ed.Lacaita, Personaggi della storia materana, Altrimedia, per
i Quaderni della Biblioteca provinciale di Matera Morelli, Storia di Matera, Montemurro,Volpe,
Memorie storiche di Matera, ed. Atesa, Dizionario corografico del Reame di Napoli,
ed. Civelli, Biografie dei personaggi illustri di Matera, sassiweb. ntonio Giampietro, Personaggi della storia
materana, Alano di Matera. Matera. Matera. Keywords: implicature, la collina
del castello tramontanto, la catedrale di Matera, astrologia, astronomia,
dottore universale, Napoli, Bologna, Parigi, the semiotics of astrology, Grice
on zodiac signs, semiotic, semiology, astrology, astronomical chart. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Matera” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Mathieu:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’uomo animale
ermeneutico – filosofia ligure – la scuola di Varazze -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (Varazze). Filosofo ligure. Filosofo italiano. Varazze, Savona, Liguria. Grice: “There are various
things I love about Mathieu: his idea of the ‘uomo, animale ermeneutico’ is
genial – and true!” Grice: “Mathieu rightly focuses on Kant’s problems with
emergentism, i.e. the fact that life (or ‘vivente’) cannot be reduced. I love
that.” Grice: “Mathieu has emphasised the irreductionism alla Bergson. I like
that.” Grice: “Mathieu makes an apt analogy between Goedel’s work for alethic
systems – that they cannot self-reflect, and deontic systems --.” Dopo il liceo, si iscrisse a orino. Si laureò con Guzzo,
filosofo rappresentante dello spiritualismo ced autore di importanti studi
su Kant (un filosofo che sarebbe stato
centrale nella vita intellettuale di Mathieu). Libero docente nella
filosofia, è stato professore incaricato, e Professore di filosofia teoretica a Trieste.
Primo vincitore del concorso di Storia della filosofia, è stato ordinario di
filosofia fino al ruolo di professore emerito di filosofia morale a Torino -- è
stato membro del Comitato del CNR; è
stato membro e poi vicepresidente del Consiglio esecutivo dell'UNESCO (Parigi).
È stato membro del Comitato Nazionale di Bioetic; è socio dell'Accademia dei
Lincei e membro del Comitato Premi della Fondazione Balzan. Ha fondato
con Berlusconi, Colletti ed altri il
movimento politico Forza Italia. Si è candidato al Senato della Repubblica nel
collegio di Settimo Torinese: sostenuto dal centro-destra (ma non dalla Lega
Nord), ottenne il 33,2% e venne sconfitto dal rappresentante dell'Ulivo, Tapparo.
Con il sindaco di Brindisi Mennitti ha dato vita alla Fondazione Ideazione, per
il cui quotidiano ha curato una rubrica fino alla chiusura della testata. Nel
luglio (in connessione con la sua carica
di presidente del collegio dei probiviri del PdL che è chiamato a giudicare
l'operato dei finiani di Generazione Italia) diversi organi di stampa
riprendono la voce, già circolante da tempo, di una sua adesione all'”Opus
Dei.” A tale proposito sono giunte alla redazione del Corriere della Sera che
aveva pubblicato la notizia le smentite sia dell'Opus Dei che dell'interessato. Ha
offerto contributi significativi in almeno quattro ambiti della ricerca
filosofica: la filosofia della scienza; la storia della filosofia;
l'estetica; la filosofia civile. Ha indagato i limiti interni ed i limiti
esterni della scienza. Tale indagine ha avuto due filosofi del passato come
suoi principali punti di riferimento: Kant e Bergson. Ha infatti ripreso e
sviluppato le ricerche di Kant sui limiti interni della scienza e sulla sua
fondazione. A tale riguardo pubblicò il saggio "Limitazione qualitativa
della conoscenza umana" a cui fece seguito, "L'oggettività nella
scienza e nella filosofia". Seguendo Bergson, ha valorizzato anche
altre forme della conoscenza e della espressività umane non riducibili alla
cienza, ma non per questo ad esse opposte. Ha infatti sempre ritenuto che la
realtà, e segnatamente la realtà umana, non possa essere esaurita dalla
scienza, e richieda invece una costante attività interpretativa.. L'uomo,
dunque, è chiamato ad essere scienziato della natura ed ermeneuta della
cultura. Sarebbe però riduttivo non ricordare che i suoi contributi alla
filosofia della scienza riguardano una pluralità estremamente diversificata di temi.
Ad esempio, sono ddue studi pionieristici sull'applicabilità del teorema di
Gödel al diritto. Gödel aveva scoperto che non si può dimostrare la coerenza di
un sistema all'interno del sistema stesso; M. ritiene che, almeno
analogicamente, la scoperta di Gödel possa applicarsi al problema della fondazione
di un sistema deontico. Uun'autorità non può legittimarsi da sola in modo
formale e, dunque, anche il diritto richiede fondamenti esterni (etici, non
emici): l'efficacia e la giustizia. Ha realizzato alcune traduzioni
fondamentali. E forse il suo contributo maggiore alla storia della filosofia è
consistito proprio in un'opera che combina traduzione e ricostruzione critica,
ovvero l'opus postumum di Kant. Tale opera affronta questioni teoriche
tutt'oggi aperte (soprattutto nella fisica e nella biologia teoriche), come il
problema della forma degli oggetti solidi o il problema del “vivente,” cioè il
problema della vita in quanto tale e non ridotta a semplice. Ha curato poi
le edizioni di opere di Leibniz: si è trattato di un ampio lavoro che si è
raccolto in "Scritti politici e di diritto naturale" "Leibniz e
des Bosses" "Saggi filosofici e lettere" e "Saggi di
teodicea: sulla bontà di Dio, sulla libertà dell'uomo, sull'origine del male.”
La sua estetica, pur nella varietà dei temi trattati, rimanda ad una
problematica essenzialmente ontologica: lo svelarsi dell'ente. Cioè, l'opera
d'arte è heideggerianamente concepita come il modo attraverso cui gli uomini
possono cogliere il passaggio dal nulla all'essere. Di estetica è "Goethe
e il suo diavolo custode", edito per i tipi di Adelphi. Al centro di
questa ricerca vi è la figura di Mefistofele, analizzata in tutta la sua
profondità e capacità genealogica. Nei suoi volumi
sull'estetica della musica sviluppa la tesi affascinante che ascoltare la
musica è un ascoltare il silenzio. Grande è la potenza significante di ciò che
non significa nulla, perché è il nulla a far emergere l'essere delle cose. E la
musica e la luce si situano proprio in questo iato insuperabile fra l'essere e
il nulla. Entro i suoi molteplici contributi alla filosofia civile, si staglia
netta, per importanza e originalità, una triade di saggi edicati a quello che
potremmo chiamare "stato spirituale dell'Occidente". Si tratta di
opere scritte in un periodo dunque estremamente critico per l'Italia, ma che
mantengono ancora una grande attualità. Fa percepire al lettore il pericolo
valoriale in cui è venuto a trovarsi l'Occidente e pone in essere una critica
serrata alle ideologie totalitarie o nichiliste. In questo senso, vi è un'aria
di famiglia con i lavori di quei filosofii come Horkheimerche ha prospettato i
rischi di un'eclisse dell'individuo nella società tecnologica di massa. Un
articolo sul Corriere della Sera
rettifica sul Corriere della Sera
smentita sul Corriere della Sera. Saggi: “Bergson, Torino); “La
filosofia trascendentale” (Bibliopolis, Torino); Leibniz e Des Bosses, Torino);
“L'oggettività nella scienza e nella filosofia contemporanea, Torino; L’esperienza”
(Trieste); Dio nel "Libro d'ore" di Rilke, Olschki); “Dialettica
della libertà, Napoli); “La speranza nella rivoluzione, Milano, Vincenzo Filippone-Thaulero,
Salerno Temi e problemi della filosofia, Roma, Perché punire, Milano, Cancro in
Occidente, Milano, La voce, la musica, il demoniaco. Con un saggio
sull'interpretazione musicale, Spirali, Filosofia del denaro, Roma, Elzeviri
swiftiani, Spirali, La mia prospettiv, Barone; Melchiorre, Gregoriana Libreria,
Gioco e lavoro, Spirali, La speranza nella rivoluzione, Spirali); “Nazionalismo”;
S. Cotta, Japadre, Perché leggere Plotino, Rusconi); Tipologia dei sistemi e
origine della loro unità, Lincei, Orfeo e il suo canto. Scritti, Zamorani, Il nulla, la musica, la luce, Spirali, La fedeltà
ermeneutica, Paoletti Laura, Armando, Per una cultura dell'essere, Armando L'uomo
animale ermeneutico, Giappichelli, Le radici classiche dell'Europa, Spirali, Goethe
e il suo diavolo custode, Adelphi, Privacy e dignità dell'uomo. Una teoria della
persona, Giappichelli, Plotino, Bompiani, Perché punire. Il collasso della
giustizia penale, Liberi libri, Introduzione a Leibniz, Laterza, In tre giorni, Mursia,; La filosofia,
Marcovalerio, Kant Bergson. quotidiano
Ideazione, il fatto quotidiano. 3del portavoce dell'Opus Dei sulla non
appartenenza alla Prelatura dell'Opus Dei, su archive ostorico.corriere. Vittorio
Mathieu. Mathieu. Keywords: al di la del bene e del male, la fedelta
ermeneutica, l’uomo animale ermeneutico, il demoniaco, l’angelo custode, il
demonio custode, il diavolo custode. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Mathieu” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice e Matraja – grammatica razionale – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Roma). Filosofo
italiano. Roma, Lazio. Una lingua numerica viene progettata da M. nella sua “Genigrafia
italiana: nuovo metodo di scrivere quest'idioma affinché riesca identicamente
leggibile in tutti gl’altri idiomi del mondo” (Lucca, Tipografia genigrafica),
lingua di cui discusse più tardi anche La Société de Linguistique. M. è l'unico
ideatore ITALIANO di una lingua razionale a essere preso in considerazione da
questa ‘société’ galla nel corso del dibattito sulle lingue ausiliarie. La
Genico-grafia, lett. 'scrittura generale' e di cui ‘genigrafia’ è la forma
sincopata -- è un modo di scrivere che non ha relazione con le parole e che
permette di comunicar tutti i concetti senza dipendenza dall'idioma ne dell’emittente
o del recettore, ma di un modo, che il messaggio risulta interpretabile in
tutti quelli del mondo. Nasce quindi come progetto di lingua universale che si
prefigge di comunicare chiaramente, ma che non è concepita per sostituire gl’idiomi
presenti nelle varie nazioni. Si nota che l'ordine e il modo in cui M. nomina i
grandi filosofi, Cartesio, Leibnitz, Wolfio, Wilkio, Kircher, Dalhgarne,
Beclero, Solbrig, e Lambert, è lo stesso con cui SOAVE (vedasi) li cita nelle
sue Riflessioni: “da Cartesio, Leibnizio, Wolfio, Wilkins, Kirchero, Dahlgarne,
Beclero, Solbrig, e Lambert”. Interessante è anche il fatto che di seguito
aggiunga: “e Demaimieux e RICHERI (vedasi), oggi Richieri, anche Richer), di
TORINO. Maimieux pubblica i suoi studi sulla lingua universale dopo Soave e RICHERI
(vedasi) prima. M. quindi dove certamente conoscere (oltre agl’ultimi due filosofi)
anche il lavoro di SOAVE (vedasi), vista l'evidente citazione. Decide di non
farne nome. Anzi, dopo aver sostenuto che al momento della stesura dei lavori
dei filosofi sopracitati non è ancora giunto il giusto momento per comporre una
tale lingua, asserisce che finalmente quel momento è arrivato e che lui, ha
adempiuto positivamente tale onere – “while lying in the bath, I would presume”
– Grice. Dopo aver proceduto all'analisi strutturale di “alcuni idiomi,” – cf.
Grice, ‘some establised idioms, like ‘pushing up daisies’ – M. asserisce che e
possibile riconoscere nei vari sistemi linguistici delle caratteristiche
ricorrenti denominate concorrenze generali - quelli che oggigiorno chiameremmo
universali linguistici - da questi comunemente
condivise. Molte di queste caratteristiche sono ad oggi discutibili. Ogni
idioma umano concorre nelle cose seguenti. Nell’idea essenziale delle cose.
Ogni dizionario nazionale da di queste cose una MEDESIMA DEFINIZIONE (Grice:
“bachelor”, ‘unmarried male’ – cf. Strawson, “Anglo-linguistic” – “into any
language into which it may be translated” – cf. Jones on Welsh not having the
concept of ‘I’, but of ‘the self’ (criticised by Grice’s pupil Flew) -- e solo
diversa nel suono delle parole (“shaggy,” hairy-coated – revolution,
revoluzione. Nell'origine, poiché tutti gl’arii occidentali sono figli più, o
meno immediati del latino, di cui ne confessano la discendenza, tanto per la
sua grammatica – morfo-sintattica --, quanto con la edizione del suo dizionario
etimologico comparato coll’idioma volgare.
Nel mezzo istrumentale, con cui comunicano in distanza (‘tele-mentazionale,’
nelle parole di McGinn, of Oxford) i suoi concetti, poiché tutti usano
dell'alfabeto originale. Nel modo di rap-presentare nella carta i sopra-detti
concetti poiché tutte le nazioni lo eseguiscono per mezzo del discorso o
meglio, la conversazione, espresso conforme al genio di ciascuno idioma. Nella TESSITURA (o implicatura) del discorso
e la conversazionae; poiché è indiscusso, che non solo le nazioni del mondo
antico, ma ancora ITALIA, senz'altra istruzione, che la infusale dalla NATURA,
lo dividono egualmente nelle medesime
parti. Nella generale ammissione, ed egual valore delle cifre aritmetiche, per
esprimere le quantità numeriche della scuola di Crotone. Nell'uso universale
delle medesime note ortografiche per VIVIFICARE (o accentuare) il discorso o la
propria mozione conversazionale, rappresentato dai caratteri nazionali; come
ancora quello delle cifre scientifiche usate dalle nazioni culte. Nella comune
accettazione finalmente della carta rigata per comunicare inerrabilmente le
note musicali: Home, home, sweet, sweet home. Queste caratteristiche, proprio
perché considerate universali, non possono che essere presenti anche nel
sistema immaginato da M. Si nota poi che con la sua lingua non è possibile
comunicare attraverso l'uso della parola, giacché, a detta di M., questa mal si
presta alla comunicazione precisa – cf.
Grice’s irritation on dialect speakers saying ‘soot,’ when they mean ‘suit’. M. distingue nove parti del discorso -- articolo,
nome (“shaggy”), pronome, avverbio, verbo, participio, preposizione e
interiezione -- a cui associa un numero da I a VII, che, in esponente alla “caratteristica”
- con accezione leibniziana, cioè al “segno” - determina la parte del discorso
di cui questa fa parte. Ogni idea deve
essere assolutamente riconoscibile ed espressa da una “caratteristica”
specificata fino alla sua ultima differenza da cifre numeriche, che sempre la
precederanno a guisa di coefficienti algebrici. Cf. Grice’s subscript notation for ‘She wanted him –
She-1 wanted-2 him-3” (Vacuous Names). Questi
co-efficienti vanno letti separatamente gl’uni dagl’altri, mai assieme. Ad
esempio il coefficiente 123 si legge 'uno due tre', e non 'centroventitré.’ Al
contrario, vanno letti assieme nel caso in cui seguano la caratteristica e ne
siano quindi esponenti. Poiché nella genigrafia italiana di M. le
caratteristiche esauriscono tutto l'esprimibile in loro potere, non è necessario l'uso dell’articoli – cf. Grice on
the definability of ‘the’ in terms of ‘some (at least one) – apres Peano. Il
genere del nome deve essere sempre specificato (A = maschile, e. g. aquila A; B
= femminile, e. g. cane F; C = neutro – e g. ‘rain N’. I nomi possono essere
singolari o plurali (1 = singolare – ‘some (at least one), ‘re’, il re di
Francia; 2 = plurale, i re di Francia) e avere sei casi (1 = nominativo; 2 = genitivo; 3 = dativo; 4 = accusativo o
causativo; 5 = vocativo; e 6 = ablativo). Ne consegue che il nome deve sempre essere preceduto da due cifre, dette
co-efficienti, la prima delle quali indica il numero e la seconda il caso.Si distinguono nelle due
classi. Sostantivi (comuni – shaggy thing’ -- e propri – The Shaggy One. Se il sostantivo
comune non subisce alterazione va indicato con la caratteristica che il
dizionario di M. vi assegna, dopo i co-efficienti stabiliti. Se, ad esempio, al
concetto di 'gatto' e associato il carattere (accezione leibniziana) «G», esso si rappresenta “A11G.” (cf. Grice on
K as ‘king’). Un sostantivo comune poi puo essere alterati. Il sostantivo diminutivo
si indica *triplicando* la caratteristica del sostantivo -- es. «A11GGG» 'gattino'. Nel sostantivo aumentativo
si la duplica: gattone: A11GG. Il sostantivo apprezzativo si segnan una riga
sotto la caratteristica -- es. «A11g» 'gattuccio.’ Il sostantivo disprezzativo
si indica ponendo *due* righe sotto la
caratteristica: gattuzzo – A11gg. Se il sostantivo
comune deriva d’un verbo (‘shag’, ‘shaggy’) e detto ‘sostantivo verbale’ – es. amare
> amore, e non amazione). Il sostantivo comune si dice “nominale” se deriva
d’un aggettivo (buono › bontà, bonitas – but cf. Grice on Plato, horseness. Per
non ampliare ulteriormente il vocabolario, basta sovrapporre una linea sopra la
caratteristica del verbo qualora questo indica un sostantivo verbale (se per
esempio 'amare' = «A» allora l'amore è «-A»);
*due* linee (--B) qualora indichi sostantivo nominale (bonta). Il sostantivo
proprio si indica per esteso corsivo nella lingua dello scrivente e, nei
manoscritti, devono essere rigati al di sotto (es. “marco”, o “pietro” o
“paulo”) di modo che il recettore capisce che si tratta di un nome proprio. Gl’aggettivi
(‘shaggy’) possono essere originali, se non derivano da alcuna parte del
discorso, o al contrario derivati. S’il nome aggetivo deriva da un nome
sostantivo (es. virtù > virtuoso) si indica con la caratteristica del
sostantivo ma in corsivo e, se in manoscritto, rigandola al di sotto una volta.
S’il nome aggetivo derivata da un verbo (es. amato > amatorio) si indica con
la caratteristica del verbo ma in *semi-gotico* e, se in manoscritto, rigandola
al di sotto due volte. L’aggettivp deve concordare con il sostantivo in genere,
in numero, e in caso (“ho visto i promessi sposi M M”). Esistono due differenti specie di nomi aggettivi:
graduali -- cioè di grado positivo, comparativo - ottenuto dalla mera *duplicazione*
del carattere - e superlativo - ottenuto dalla *tri-*plicazione del carattere
-- e numerali (cardinali, ordinali, distributivi - cioè quelli che noi
chiameremmo frazioni o numeri razionali, che si indicano con numeri arabi
rigati nella loro parte superiore - e molteplici (‘a double burgher’)- che
veicolano i significati di doppio, triplo, quadruplo, ecc. – ‘a triple paradox’
--, e che sono scritti come gl’ordinali, ma rigati nella parte inferiore. Il
pro-nome deve possedere tutte le caratteristiche del nome sostantivo che
sostituisce e concordare con esso in genere, caso e numero. Ve ne sono di due
tipi. I pronomi primitivi sono *personali* - a sostituire le persone - che a
loro volta si distinguono in relativi, dimostrativi e indeterminati – o pronomi
*reali* - a sostituire le cose. Un pro-nome *derivato* puo essere o possessivo
o relativi. Ogni pronome ha una
caratteristica propria inconfondibile. Non è necessario indicare caso, numero e
genere sulla caratteristica del pronome qualora questi concordino con quelli
del nome. Se invece il caso *non* concorda, si scrive solo quello. Ogni
avverbio, parte dell'orazione indeclinabile, ha una caratteristica associata
peculiare e inconfondibile. Gl’avverbi si dividono in originali -- che non
hanno bisogno di specificazioni -- e derivati, indicati con la caratteristica
della parte del discorso da cui derivano, ma in corsivo. Quanto ai gradi di comparazione, questi
vengono indicati come si fa pel nome aggettivo. Ogni verbo e di voce attiva ed
e rappresentato d’una sola specie di caratteristica. Il verbo – che ha la
funzione di predicato – accezione leibniziana -- dove concordare nel numero
(singolare o plurale) coll nome sostantivo suggeto, da cui derivano la
coniugazione. La coniuazione si compone del modo -- Esistono quattro modi -- infinito
, indicativo , imperativo (3) e congiuntivo
(4) -- e questi sono indicati da una cifra co-efficiente. Il tempo puo
essere presente (1), preterito IM-perfetto (2), preterito PERFETTO semplice (3)
solo
all'indicativo -, preterito perfetto COMPOSTO (4), preterito PIU CHE perfetto
(5), e futuro (6). I numeri nella coniuazione puo essere singolare (1) o
plurale (2). La persona nella coniugazione e prima (1), seconda (2) o terza (3)
– la porta sta aperta (e persona?). Ognuno di questi co-efficienti deve essere
scritto prima della caratteristica specifica del verbo che si intende usare. Il
participio dove essere ben distinguibili, così come le altre parti del
discorso. Ne esistono di cinque tipi: presente – IMPLICANTE (1), preterito IMPLICATO
(2), futuro attivo IMPLICATURUM (3), futuro passivo IMPLICANDUM (4), gerundio IMPLICANDO
(5), e indeclinabile. Alla
caratteristica del verbo somo premessi il co-efficiente che indica il TEMPO del
participio e il co-efficiente zero, per distinguerlo dal resto dei verbi. È
necessario inoltre, poiché essi si declinano anche come i nomi e gli aggettivi,
indicare le caratteristiche di GENERE (IMPLICATO, IMPLICATA) e numero (IMPLICATO,
IMPLICATI) che posseggono. La pre-posizione (e. g. ‘to’, ‘betweeen’ – both discussed by Grice:
‘does it make sense to speak of the SENSE of ‘to’? When I say, Jones is between
Richards and Williams, do I mean in a mere spatial sense or in some moral
ordering – does this change the sense? I
don’t think so!) e una parole indeclinabili che determinano le relazioni che
hanno tra loro le referenti delle parti del discorso. Ogni preposizione ha carattere proprio e
inequivocabile. Ogni interiezione ha un
carattere particolare. La congiunzione,
composta da una parola indeclinabile e breve, unisce parti diverse del
discorso. Essa può essere
avversativa (“She was poor BUT she was honest” – Grice), disgiuntiva (“My wife
is in the kitchen or the bedroom” – Grice), alternativa, ecc. Anch'essa possede
un carattere specifico. Note ortografiche
e scientifiche Anche la punteggiatura
(segno grafico delle pause e delle enfasi del discorso) deve far parte di un
sistema universale di comunicazione e Matraja sceglie di mantenere il sistema
di punteggiatura in uso per la lingua italiana. Allo stesso modo, anche i segni
matematici d'uso comune devono essere mantenuti come tali. Esempio.
Una volta stilate le regole precedenti si dove essere in grado di
trascrivere in lingua genigrafica la frase. La natura insegna comunicare i
concetti mentali per le parti dell'orazione del proprio idioma. L'azione che
bisogna fare è una sorta di analisi grammaticale della frase, per cui, prendendo
il soggetto «la natura» si converrà che esso è un nome sostantivo comune,
femminile, singolare, nominativo (perciò «B°.1.1») e nella tabella essa è
descritta come «A'. 236». Il risultato allora e «Bº. 1.1 A'.236». Lavorando
allo stesso modo per tutte le parti del discorso presenti, alla fine si
avrebbe: B°.1.1 A':236 - 2.1.13Y5.37 -I.
H5.37 - A°. 2.4. X' 83. N?. 32 - E7.3 - Bº
9. 2.4 P'. 257 - B°. 1.2 L'. 245 - A°. 1.2 A'. 174. D'. 42.88. Giovanni
Giuseppe Matraja. Matraja. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Matraja”.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Maturi:
la ragione conversazionale e l’ implicatura conversazionale -- l’io e l’altro – io e l’altro – i duellisti – la
scuola d’Amorosi -- filosofia campanese -- filosofia italiana -- Luigi Speranza
(Amorosi). Filosofo. Amorosi, Benevento, Campania. Grice: “There
are two main things I love about Maturi, and I hate it when philosophers just
dismiss him as an ‘Italian,’ or worse, ‘Neapolitan’ Hegelian – as when they
refer to me as a member of the Oxford school of ordinary language philosophy!
The first is his typically Neapolitan-hegelian school account of what he calls
‘autocoscienza recognoscitiva,’ which is something I do take for granted in my
conversational theory of inter-ratiationality; the second is his elaboration of
what he calls the passage from the non-human animal to the ‘human-animal’ in a
sort of pirotological passage.” Grice: “What I like about him is that he
considers each ‘stage’ as just as fundamental as the other; which implicates
that actually the ‘higher’ stage has a ‘foundation’ on the previous one. Here
‘foundational’ makes perfect sense; and it gives Maturi an excuse to rather
pompously label the concept: ‘forma fondamentali’ of the ‘vita.’ It’s exactly
like my soul progression, -- which I explore in ‘Philosophy of Life.’” It is
not surprising that Gentile loved Maturi and forwarded his “Introduction to
philosophy.” sDocente prima nei licei e poi nell'Napoli. Dopo i primi studi nella cittadina natale, si
trasferì a Napoli ove conseguì la licenza liceale. La frequentazione di
Bertrando Spaventa e di Augusto Vera, lo introdusse alla filosofia
hegeliana destinata ad esercitare nel
suo pensiero un'influenza duratura.
Laureatosi in giurisprudenza, tre anni dopo vinse un concorso per
uditore giudiziario. Ottenuta
l'abilitazione, insegnò filosofia nei licei di varie città. Conseguita la
libera docenza, tenne corsi di filosofia hegeliana nell'Napoli quando ritornò
all'insegnamento liceale presso l'istituto Umberto I della città partenopea.
Inizia una corrispondenza con Croce e Gentile, i maggiori esponenti
dell'idealismo italiano, ai quali fu legato da un rapporto di amicizia. Saggi: “Soluzione
del problema fondamentale della filosofia” – Grice: “He implicates there is
one. Cf. Strawson,
Solution to the problem of the king of France’s hair loss.” “Bruno.” Grice:
“Italians seem to have a predilection for philosophers who were burned.” “L'ideale del pensiero umano; ossia, la esistenza
assoluta di Dio.” Grice: “For Kant,
and my friend D. F. Pears, existence is not a predicate, for another of my
friends, J. F. Thomson, it is!” “Uno
sguardo generale sulle forme fondamentali della vita” Grice: “The key concept
is ‘forma fondamentale’ as applied to ‘vita.’ -- Grice: “My favourite is his description of
the ‘forma fondamentale’ of the ‘vita’ of the non-human animal to the ‘forma
fondamentale’ of the ‘vita’ of the human animal.” L'idea di Hegel. Grice: “When
I told Hardie that I was reading “The idea of Hegel,” he said, ‘what do you
mean, ‘of’?” “For Maturi, it’s the same, and it is delightful to see that he
can quote Hegel in ‘Deutsche’ without caring to translate! Them was the days
when European languages counted!” La filosofia e la metafisica” Grice: “The
‘and’ is aequivocal: cf. Durrell, “My family and the animals.”“Principî di
filosofia” (apparently by Spaventa – Maturi has an introduction to philosophy).
Grice: “I must confess that I love the word principle, but again, Hardie would
say, what do you mean ‘of’ – my principle of conversational helpfulness – or
when I speak of the principle of conversational self-love and the complementary
principle of conversational benevolence,” I’m not sure who I apply it to! The
conversationalist like me, I s’ppose.” “Una
relazione scolastica.” Grice: “He doesn’t mean Russell.” “But what he means is
a syllabus which is illustrative of Neapolitan Hegelianism!” Dizionario Biografico degli Italiani, riferimenti in.
Mario Dal Pra, Milano, Bocca, Guzzo, Brescia, Morcelliana, A. Gisondi, Forme
dell'Assoluto. Idealismo e filosofia tra Maturi, Croce e Gentile, Soveria
Mannelli, Rubbettino, G. Giovanni, "Filosofia hegeliana e religione.
Osservazioni", Benevento, ed. Natan,.
Hegelismo Idealismo Neoidealismo italiano. G. Calogero, Enciclopedia
Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Dizionario Biografico
degli Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. LA FILOSOFIA DI BRUNO, Festa letteraria nel T{_. Liceo di
Trapani AVELLINO TIPOGRAFIA TULIMIERO. Bruno appartiene alla
illustre falange degli eroi del Risorgimento . I quali, scuotendo il
pesante giogo, che gravava da lunghi secoli sullo spirito umano,
inalberarono la bandiera di quella indipendenza e sovranità del pensiero,
donde si origina tutta quanta la civiltà moderna. La più parte di questa
illustre falange di eroi furono figli dell’ Italia nostra, ma,la figura più
spiccata, il genio più alto e più originale, la tempra più ferma e più
ga- i gliarda, che allora onorasse l’Italia e in cui si annunziasse più
chiara la bella aurora del nuovo spirito del mondo, fu senza fallo il
Bruno. Ma Bruno, o Signori, non fu soltanto un grande eroe;
egli fu eziandio un gran filosofo. Anzi, esprimendo liberamente il mio
pensiero, aggiungerò che, sotto un ceno riguardo, Bruno è il piu g rande
filosofo italiano. Imperocché, fra tutti i nostri pensatori, quello che è
penetrato più addentro nei segreti della scienza, quello che più
profondamente ne ha compresa la vera natura, quello che più d’ogni altro
ha sostenuto a spada tratta e a visiera levata gli etem.i dirilt i Jclla
Ugjfipe si è appunto il filosofo di Nola. Egli è vero che, se si
considera il Bruno per ciò che riguarda la trattazione speciale e
determinata delle singole dottrine filosofiche, si deve confessare
che, per questa parte, egli si trova inferiore a molti altri; ma,
sejij)on mente alla sostanza del pensiero speculativo, bisogna allora convenire
che questa sostanza, come c ò nel Bruno, non c’ è in nessun altro filosofo
italiano. In questo discorso io non posso trattenermi su tutti gli
aspetti del Bruno, perchè, quando si tratta di un personaggio gigantesco e
moltilatero come questo, è già ben troppo, se si piglia ad abbozzarne un
lato solo nella brevità del tempo, di cui io posso disporre. Costretto adunque
a limitarmi, io mi farò a guardare nel Bruno soltanto la stia dottrina
filosofica. E fo questa scelta tra perchè è la filosofia quella, che
costituisce il titolo maggiore della grandezza del Nolano, e perchè questa è la
scelta, cui mi astringe con debito speciale il posto, che ho l’onore di
occupare in questo liceo. Signori, se noi ci facciamo a considerare in un
modo generale il carattere proprio della speculazione nel periodo
del Risorgimento, scorgiamo soprattutto due cose. In primo luogo, tutti questi
filosofi, quantunque con forze disuguali, pure, chi più chi meno, combattono la
Scolastica. In secondo luogo, questi stessi filosofi, se da una
parte combattono la Scolastica, dall’ altra ciascuno di essi
esplica in certa guisa, o almeno avvia la esplicazione delle profonde
esigenze, che in quella si acchiudono. Ma, fra tutti questi filosofi, ò
Bruno quello, che più fieramente guerreggia la Scolastica, e nel medesimo tempo
è lo stesso Bruno quello, che più di tutti gli altri traduce in atto, per
quanto è possibile ai suoi tempi, le esigenze poste dalla Scolastica
nella storia della filosofia. Per occuparmi adunque, con quella
brevità che sappia maggiore, della filosofia Bruniana, io devo innanzi
tutto accennare quale sia la posizione del pensiero filosofico
nella Scolastica, e quali siano quelle esigenze dell’attività
speculativa, che in siffatta posizione si rivelano. Ebbene la
posizione del pensiero filosofico nella et |^^ca^ è la seguente. In questa filosofia
l’intelletto concepisce la verità come es istente della natura e f dell’
uomo; c quindi considera tanto F una che P altro come affatto destituiti di
ogni elemento divino. La natura, Wi Mimi*
/sJaVu'M W” te 1 dinanzi allo intendimento scolastico,
non ha valore di sorta; essa è pura ombra, puro giuoco, e onninamente
sfornita di qualsiasi significazione ideale ed assoluta. Per la stessa
ragione, l’uomo è considerato come una semplice creatura e come
essenzialmente contaminato dalla colpa: tutto quello che riguarda 1’ uomo,
tutto che gli si attiene in proprio comecchessia non è altro che miseria,
abiettezza, vanità. Per tal modo, dinanzi allo intendimento scolastico,
Dio resta spogliato di tutti quei principii ideali, che si svolgono nella
natura e nello spirito umano; appunto perchè tanto il mondo naturale che
il mondo umano sono considerati come una sfera ed una evoluzione del
tutto estrinseca al1 assoluto, e non già come la estrinsecazione propria del1
assoluto medesimo e la effettuazione sempre più verace della sua
unità (i). » Intanto, mentre da una parte il pensiero
scolastico (l) « In der tibersinnlichen Welt war keine
Wirklichkcit dcs denkenden, allgeuaeincn, vernùnftigcn Selbstbewusstseyns
anzutreffen: in der umnittelbaren Welt der sinnlichen Natur dagegen keine
Gòttlichkeit, weil sie nur das Grab des Gottes, wie der Gott ausser ihr,
war. Gott war wohl im Selbstbewusstesyn, dodi von Aussen und zugleich ein
ihm Anderes, eint andere Wirklichkeit: die Natur von Gott gemacht, sein
Geschòpf, kein Bild seiner » (Hegel, Geschichte der Philosopliie, Zweiter
Theil, S. 178, 204, Zweite Auflage). rimuove in tal guisa e discaccia la
verità da tutti gli esseri, e quindi anche da £è stesso, dall’altra parte poi
ha la pretesa di voler comprendere la verità medesima colle
semplici forme vuote ed astratte della propria attività. Questa pretesa è
quella che spiega perchè gli Scolastici dettero tanta^ im portane d
lo^iudio^ldwPgllsi^rg, fletto, cioè, al^) studio ^ di_g^m^^|^ch£poi a
ragione fu appellata logica scolastica. Ed in effetti dovea esser cosi, perchè
quante v volte, ad onta che si sostiene essere la verità estrinseca
al pensiero, si fa tuttavia ogni sforzo per arrivare a determinarla mediante le
forme proprie del pensiero, egli è giuocoforza che tutto il lavorio
preliminare e fondamentale della speculazione si faccia consistere nello studio
di queste forme. Considerando però attesamente questa
posizione del 9 l’intelletto scolastico t non si può non
iscorgere in essa una profonda e radicale contraddizione. Imperocché,
affermando che la verità è affatto l«ori del mondo, quella ragione, che è nel
mondo, dovrebbe abbandonare qualsiasi aspirazione alla conoscenza di
essa, e quindi rassegnarsi a non cercare altrove il proprio obbietto che
nella bassa sfera della esistenza puran^nte fenomenica e peritura.
Ma la Scolastica, ardente come è dell’ amore della verità, e
profondamente agitata dal bisogno dell’ eterno c dell’ as
ro soluto, non potrebbe,
per certo, acconciarsi a questa d 9 miliante condizione. Ed è
per questo die, quantunque ella abbia collocata la verità fuori della
natura e fuori dello s pirito, tuttavia si fa a, cercarla con un ardore
indescrivibile, e il cielo, in cui intende a trasportarla, si è appunto
il cielo del pensiero. Ma, siccome un simile tentativo quando si è
stabilito un ra pporto di asso luta estrinseche zza tra la verità ed il
pensiero deve tornare necessariamenie infruttuoso ed inane, cosi è che,
mentre la Scolastica si argomenta con tutte le sue forze di raggiungere
la verità, non riesce che a notomizzare le forme del proprio intelletto,
e, in vece della verità, non ottiene altro che tritumi, sottigliezze
ed astrattaggini. Sotto questo rapporto adunque si può ben dire
clic la j _^|^srica è una barbara filosofia dell’ intelletto astratto,
una filosofia senza contenuto suo proprio, una filosofia, che non offre nessun
verace interesse ed alla quale non ò più possibile ritornare (i).
Mi limito a queste poche riflessioni per ciò che ri [So hoch auch die
Gegenstàndc waren, die sie (die ScholaStikcr) untersuchten, so cdele,
tiefsinnige, gelelirte Individucn es auch unter ihnen gab: so ist doch
diess Ganze eine barbarischc Philosophie dcs Vcrstandes, oline realen
Inhalt, effe uns kein wahrhaftes Interesse erregt, und zu dcr wir nicht
zuruckkehren kOnnen » Hegel, Geschichte der Philosophie] riguarda il lato
debole della Scolastica. Ma oltre questo lato f? - -L.W -- 4'Ji i k
- uli-^ .r-t - ‘ la Scolastica ne Ita anche un altro, ed è quello
appunto in cui, se io non m’ingannò, cpnsiste il suo vero significato,
e-per cui essa si connette colle filosofie posteriori, e trova nelle
medesime il suo proprio esplicamento. Qui intanto mi si permetta una
breve digressione. Ordinariamente, quando si fa la critica di una dottrina
filosofica, si crede esser bastevole mostrare gli errori, che in essa si
acchiudono. Eppure egli è un fatto che, in quella guisa stessa che nel
mondo della realtà etica il male ha la sua ragione e il suo principio nel
bene, cosi simigliantemente, nella realtà storica del pensiero
filosofico, l’errore ha la sua segreta radice nella verità. Per la qual
cosa la semplice confutazione dell’ errore non può costituire che il lato
meramente astratto e negativo della critica filosofica, il cui arduo
e gravissimo compito' consiste, in vece, nello investigare quella
verità, che si nasconde sotto lo involucro apparente dell’ errore, e
senza di cui terrore stesso non sarebbe possibile. La storia della filosofia,
che è appunto 1’obbietto della critica filosofica, e che ò critica
filosofica essa stessa, non è un’arena di dispute infeconde, non è una
vicenda di avventure di cavalieri erranti, clic si vadan battendo
soltanto per proprio conto, che si agitino e si affannino senza scopo, e
le cui gesta si dileguino, senza che resti di loro la menoma traccia. Egli
è, nella stessa guisa, assolutamente falso che la storia della filosofia ci
presenti lo spettacolo di tale, che arzigogoli di qua, e di tale altro,
che almanacchi di là a suo proprio talento: egli havvi, all’ incontrario,
nel movimento storico del pensiero speculativo, una continuità ideale e
necessaria, ed un procedere determinato dalle leggi stesse della ragione. Chi
non è convinto di questo vero, chi non ammette questo governo della Provvidenza
nella storia della filosofia, come nella storia dell’ umanità in generale, non.
può intendere affatto il valore intrinseco di nessun sistema filosofico,
e non può investigare, mediante la critica, quelle ragioni ideali,
che fecero apparire i diversi sistemi, e che, ad onta di tutte le
contraddizioni, fecero passare gli anteriori nei posteriori, come nella
loro propria espressione e nella loro verità. È con questa convinzione
adunque che io mi fo a determina [Die Thaten der Geschichte der Philosophie.sind
nicht nur eine Saramlung von zufàlligen Begebenheiten, Fahrten irrender
llìtter, die sich fur sich heruraschlagen, absichtlos abmOhen, und deren
W’irksamkeit spurlos verschwunden ist. Eben so wenig hat sich hier Einer
etwas ausgeklfigelt, dort ein Anderer nach Villkùr; sondern in der
Bewegung des denkenden Geistes ist wesentlich Zusamraenhang, und es geht
darin vernùnftig zu (Id. ib. Einleitung] re brevissimamente iMato vero della
Scolastica, quel lato, cioè, in cui consiste il significato storico e
razionale della medesima. Come ho già innanzi accennato, la scolastica
fa due cose: da ^yjyyxt^e^one la verità fujp della natura e fuori
dello spirito, e dall’ altra si argomenta, benché indarno, di trasformare
la medesima in contenuto razionale. Ora io domando in primo luogo: perchè
la Scolastica pone la verità fuori della natura e fuori dello
spirito? Ebbene la risposta vera per me è questa. L^^jcok^stica ha un
profondo sentimento dell’infimtacmKretezza dell’ Idea cristiana; essa sa
che questa Idea è superiore alla natura ed allo spirito finito, e che la
sua realtà non è quella isolata, astratta e fugace, che ha luogo nella
sfera delle cose sensibili £d illusorie. Egli è vero che, mentre la
Scolastica ha questo profondo sentimento dell’ infinita concretezza
dell’Idea cristiana, dall’altra parte poi non si avvede che questa concretezza
si trasforma in una mera astrazione, qualora le si sottraggano tutti quei
principii, che si manifestano nella natura e nella spirito; imperocché,
in tal caso, in vece di avere 1’ ente realissimo, la realtà delle
realtà, la idea delle idee, non si ottiene altro che un assoluto indeterminato,
solitario e trascendente, un assoluto, a cui fu tolto tutto quanto il
regno della realtà e della vita. Ma la Scolastica non poteva accorgersi di
questo errore; imperocché, non essendo ancora sceverata nella naura e nello
spirito la esistenza ideale ed eterna dalla esistenza empirica e passeggera,
essa non potea fare altro, che quello che fece: dov ea porre P assoluto
fuori della natura e fuori dello spirito. Però, se i grandi
pensatori della Scolastica ritornassero in questi tempi, nei quali la scienza ha
messo in rilievo la forma eterna ed immutabile delle cose, certamente
essi non esiterebbero un istante a riconoscere la vita stessa di Dio in
tutto questo contenuto infinito ed imperituro della realtà naturale e
della realtà umana (i). Se adunque la Scolastica vilipende e degrada in
tal guisa la realtà della natura e dello spirito, questo sbaglio non
appartiene a quel pensiero interiore, da cui essa è animata e a quelle
ragioni ideali, che l’hanno fatta sorgere nella storia, ma
appartiene, in vece, alla semplice posizione immediata e, dirò
cosi, provvisoria, in cui si muove. Quello che appartiene al suo
pensiero Interiore c profondamente speculativo si è il concetto, benché vago,
di una più alta realtà, si ò il bisogno di un mondo migliore, si è la
esigenza di una natura spi (i) È inutile dire che questa scienza, di cui
qui parlo, non è certamente il trasformismo, i rituale,
redenta, deificata, di una natura, in cui ci sia dato ravvisare la realtà
stessa di Dio e quindi scernere in ogni cosa un’ idea assoluta ed
immutabile. E difatti, se la Scolastica rifugge dal mondo, se lo dichiara una
vanità, ciò è perchè nella sua coscienza si agita 1* idea del vero mondo,
di quel mondo, in cui ha luogo la vera presenza dell’infinito, e in cui perciò
si trova realmente conciliato l’elemento mondano col divino. Egli è
vero che fu questa stessa idea quella, che produsse nel medio evo la più
mostruosa confusione del divino e dell’ umano, e la più spaventevole barbarie,
che immaginar si possa; ma egli è vero altresì che, in fondo a quella
confusione e a quella barbarie, vi è un significato della più alta"
importanza, vi è la sorgente di quella verace conciliazione, in cui consiste il
fondamento incrollabile della vita moderna (i). La seconda cosa,
che troviamo nella Scolastica, si è lo ^ (i) Es hilft nichts, das
Mittelalter eine barbariche Zeit zu nennen. Es ist eben eine eigenthùmliche Art
der Barbarei, nicht eine unbefangene, rohe, sondern die absolute Idee und
die hòchste Bildung ist, und zwar durchs Denken, zur Barbarei geworden; was
einerseits die gràsslichste Gestalt der Barbarei und Verkehsung ist,
andererseits aber auch der unendliche Quellpunkt einer hòhern Versóhnung (Id.
ib. Zweiter Thell, S.). sforzo di riprodurre il contenuto della fede in
una forma razionale. Ora io domando di nuovo: che cosa vuol dire
questo sforzo? Vuol dire, naturalmente, che la Scolastica, ad onta di
tutte le apparenze contrarie, non si accontenta affatto di una verità
inaccessibile, di una verità, che non sia fatta per r intelletto umano.
Quello, in vece, che essa cerca, quello, a cui aspira ardentamente, si è
appunto la forma razionale della verità della fede, e tutta l’attività,
tutta l’energia infaticabile delle sue profonde meditazioni non tende ad
altro che a tradurre queste verità nel linguaggio proprio della
ragione. Ed in effetti tutti i grandi pensatori della Scolastica non si
accontentano della pura e semplice fede: essi vogliono credere e credono
davvero, ma vogliono credere pensando ed intendendo; essi, come dice S.
Anseimo, non cercano d’intendere per credere, ma credono per intendere; e tutto
ciò perchè sanno che la religione è fatta per 1’ uomo, non per l’animale e che
le verità, che in essa si contengono sono state rivelate da Dio,
che è la ragione assoluta, e che perciò devono essere necessariamente
razionali (i). Egli è vero che gli Scola Hegel, parlando di S. Anseimo, dice
cosi: Sehr merkwùrdig sagt er, was das Ganze seines Sinnes enthàlt, in
seiner Abhandlung Cur Deus homo, die reich an speculationen ist: Es
scheint stici fanno distinzione di verità intelligibile e di verità
sovrintelligibile, ma questa distinzione ha tutt’altro significato da quello
che si crede ordinariamente. In effetti la Scolastica non fa questa
distinzione, perchè forse ritenga essere davvero sovrintelligibili in sè
stesse quelle verità, che essa chiama con siffatto appellativo, ma la fa
in vece perchè, fino ad un certo punto, essa supera sè stessa, ed ha una
certa coscienza della posizione storica in cui si muove. In altri termini la
Scolastica si accorge che quell’ intelletto, di cui fa uso e i criteri
logici, di cui dispone, non sono sufficienti a far comprendere la natura
e le determinazioni della verità cristiana. Ma con tutto ciò ess? non si
arrende e non si scoraggia, ma si fa in vece a lottare
gagliardamente colla sua stessa posizione storica e dichiara, per cosi
dire, col fatto stesso delle sue profonde lucubrazioni, che 1’impotenza
del pensiero non può essere assoluta ed insupera mir eine Nachlàssigkeit
zu seyn, wenn wir ini Glauben fest sind, und nicht suchen, das, was wir
glauben, auch zu begreifen ». Utzt erklàrt
man diess fur Hochmuth; unmittelbares Wissen, Glauben hall man fur bòiler
als Erkennen. Anselmus aber und die Scholastiker haben das
Gegentheil sich zum Zweck gemaclit.Dénn der Gedanke, durch ein
einfackes Raisonnement zu beweisen, was geglaubt wurde das Gott ist —, liess
ihm Tag und Naclit keine Ruhe, und quàlte ihn lange.] bile. Ed
è per questo che il perpetuo tormento, che travaglia quei {orti intelletti di
Anseimo, di Abelardo, di Pietro Lombardo, di Duns Scoto, e via dicendo, è
riposto addirittura in quelle verità, che chiamano
sovrintelligibili. Dal che si può scorgere che, in quehe mjjjafoU^ri^
ed asmuu^jgmdella Scolastica, vi è un arditissimo ed immenso
tentatm^w ò il tentativo dell’ assoluta autonomia, del1’ attualità
infinita della ragione. In altri termini, vi è quel colossale tentativo,
che poi produsse, sotto lo aspetto religioso, la Riforma, sotto lo aspetto
sociale, la rivoluzione francese, e che alla fine divenne filosofia
tedesca e particolarmente filosofia Hegeliana. E fu appunto in questa filosofia
che venne soddisfatta l’aspirazione divina del pensiero scolastico, e trovò il
suo adempimento il vaticinio di Cristo: Ego rogabo Patron et alitivi
Paracletum dabit vobis, S piritimi Veritatis : ille vos docebit
omnia. Come è chiaro adunque da questi pochi cenni, quel1’ attività
filosofica, che si agitava nella Scolastica, studiata nelle sue intime
ragioni, ha il significato di una duplice esigenz a, che essa pone nella
storia della filosofia. La prima è quella che ho già detta, cioè la esigenza di
una naura ideale, di una natura spiritualizzata e in cui si possa
daddovero ravvisare il regno e la realtà di Dio. La seconda esigenza, la
quale deriva dalla prima, si è quella di un intelletto superiore, di un
pensiero tale che, contenendo in sè la verità, sia, per ciò stesso, in grado
di attingerla dal suo fondo medesimo e di provarla in un modo
assolutamente razionale. Ebbene tutta la storia della filosofìa moderna
altro \ non è che 1’ attuazione successiva e sempre
progrediente di questa duplice esigenza; e la prima, benché parziale,
attuazione df essa si è appunto la filosofìa del Risorgimento. A me qui spetta
di mettere in rilievo brevemente la gran parte, che ebbe il Bruno nell’
attuazione di questa duplice esigenza, £ di chiarire come egli, per
servirmi delle sue stesse parole, sia davvero nella mattina per dar
fine alla notte, e notì nellà sera per dar fine al giorno. È stato
detto che ogni scoperta della scienza È una detronizzazione di Dio. Questo
pronunziato è vero soltanto per rispetto al falso concetto di Dio. Quanto
al Dio vero, al Dio cristiano la sentenza giusta è, in vece, che ogni
scoperta della scienza non può^ essere che una nuova affermazione, una
nuova prova della esistenza di Dio. cacaXcip ^tf
cVi\> Signori, il principio fondamentale della filosofia Bruniana è il
seguente. Bruno concepisce Dio come essenzialmente creatore. Il che vuol dire
che nella creazione il Bruno non vede già un fatto accidentale ed
arbitrario, nè una verità di second’ordine, ma ci vede la essenza
stessa di Dio. Dinanzi alla mente di Bruno, Dio in tanto è quello
che^ è, in quanto crea; se non creasse, non sarebbe Dio, perchè non
farebbe atto di divinità. Il Dio del Bruno, in somma, è il Dio cristiano,
è il Dio creatore, o per dir meglio, è il Creatore. Anchejhniobe'p^nj pjqmi
nostri. lia conshi^gw^uestaveritj^igji^J^jjigjj^jj^jjj^jjh^^^la
ma nel Gioberti però questa verità non è accompagnata da una chiara
coscienza. Gioberti dice sempre che 1 ’ atto creativo è la verità sup rema. e
che nella contemplazione di quest’ atto, tanto in sè stesso che
nelle forme particolari della natura e dello spirito umano, consiste
appunto la vera riflessione filosofica. Il fatto è però che, quando si*
va a vedere, questa grande verità (e che è realmente il principio e la
radice di ogni verità), nella filosofia di Gioberti, si riduce ad una
semplice parola: Sulla imperl'ezioue di questo concetto come è nel
Brnno vedi in fine.] è un detto, di cui egli stesso non si rende conto, e
che perciò non gli giova nè alla sistemazione generale della sua
dottrina, nè, molto meno, alla trattazione speculativa di una parte
qualsiasi della scienza. In Bruno in vece almeno fino ad un certo punto,
la cosa non va così. E U v,» per verità il Bruno dice nettamente: «
In Dio il potere e il f are è tutt’ uno . Egli non può essere altro che
quello che è; non può essere tale, quale non è; non può. .potere
altro che que llo che può: non può. volere altro che quello che
vuole, e necessariamente non può fare altro che quello che fa. L’ ajone^
sua è_ necessaria, perchè procede data- -t~ le volontà che è la stes sa n
ecessità. In lui libertà, volontà, necessità sono affatto medesima cosa, e il
fare col potere volere ed essere. Ed è per questo appunto che egli
arriva a concepire il principio universale del tutto come unità di
materia e forma. È vero che anche il De l’infinito Universo e Mondi, Opere
itti. Wagner. Hegel, dopo di aver citato il bellissimo luogo di Bruno (De
la Causa, Principio et Uno, Dial. dove dice: « Se sempre è stata l a
potenza di far e, di produrre, di creare, sempre è s tata la p o tenza di
esser fatto, prodotto e creato; perchè l’una potenza implica l’altra ecc,
soggiunge: Diese Simultancitàt der wir l ujtl* 4/C
[rifa Gioberti ha detto che il principio universale non è nè l’
idea, nè il fatto, ma il fatto ideale. Però questo fatto ideale del Gioberti
non è che una espressione diversa del lo stesso atto creativo, e perciò
non aggiunge nessun valore veramente filosofico al principio medesimo.
Questo principio, nella filosofia del Bruno, è la chiave di tutto
il sistema, è il centro vero c produttivo di tutta la sua dottrina, ed è
come la fonte, da cui scaturisce liberamente e consapevolmente tutta la
ricchezza delle sue meditazioni. Nella filosofia del Gioberti, in vece, quantunque
la parola non manchi mai, tuttavia il principio stesso dell’ atto
creativo ci si trova, come dire a pigione, rincantucciato ora in nn
angolo, ora in un altro, senza aver mai la forza di girare la mazza a
tondo, di cacciare via tutte le rappresentazioni della coscienza ordinaria, e
di dichiarare solennemente che la casa della filosofia è casa sua.
Egli è d’uopo però confessare che, anche nella filosofia del Bruno,
questo principio non arriva a spiegare tutto kenden Hraft und des BeWìrktwerdens
ist eine sebi 1 wichtige Bestimmung; die Materie ist nichts ohne die
Wirksatrilfeit, die Form also das Verm&gen und innere Leben der
Materie. Vare die Materie bloss die unbestimmte Móglichkeit, wie k-ame
man zum Be'stimniten? il suo valore. Ciò si può vedere, chiaramente quando
si osservi che, se da una parte il Bruno pone la rivelazione di Dio
come essenza stessa di lui, dall’ altra poi non fa consistere tutta
quanta la essenza di Dio in questa rivelazione medesima. Secondo Bruno, Dio
rivela^ solo una gran parte di sò stess o; un’ altra parte, quantunque
minima e quasi ridotta ad un punto microscopico ed insignificante, resta però
assolutamente irrivelabile. Dal che si scorge che Bruno non sa disfarsi
in tutto del vecchio sovrannaturale della Scolastica, e mettersi cosi pienamente
d’ accordo con sé medesimo. Imperocché, quantunque egli, tr asfon d endo
la vita di_ Dio nella realtà della natura, riduca quel sovrannaturale a minime
proporzioni, lo assottigli, lo scarnifichi e scheletrizzi in guisa da
poterlo anche mettere in canzonatura ed abbandonarlo quasi balocco alla
meditazione dei teologi, ciò non ostante lo lascia li come qualcosa che
non si estrinseca, che non cade nella creazione, che non diviene materia di
quell’ atto assolutissimo, nel quale, secondo lui stesso, consiste la
vera essenza di Dio. Quantuque però quest’ultima .ombra del vecchio
Dio tenebroso induca un grave difetto nella filosofia Bruniana,
tuttavia egli è da osservare che la correzione di questo difetto è data
già, implicitamente, nello stesso concetto, che il Bruno si forma del
principio universale delle cose. Ed è per questo che Spinoza, continuatore
di Bruno, potò sbarazzarsi totalmente di quel caput mortuum del
medio evo, e recare così a grado di esplicamento più compiuto il
concetto di Dio, o della verità che dicasi, come atto creativo. La necessità di
questo esplicamento storico e razionale del principio del Bruno si può vedere
agevolmente, quando si rifletta che la idea di Dio come il Creatore
importa che, non potendo egli avere una doppia natura, non può, per ciò
stesso, nulla contenere, che rimanga al disopra dell’ atto creativo, e non
giunga a grado di esplicazione reale e vivente nella realtà infinita
dell’universo. Dire da una parte che al disopra dell’ atto creativo resta
nell’ assoluto qualche cosa, che non si rivela e non piglia il suo posto
nè nella natura, nè nello spirito, e dire poi dall’altra che la essenza
di Dio consiste nella rivelazione ^di sè medesimo, sarebbero pronunziati
contradditori. Spinoza adunque, rompendola assolutamente con quella falsa
idea dell’ estramondano, non fece che esplicare logicamente il principio
fondamentale della filosofia del Bruno. Da questo principio, di cui
ho brevemente discorso e che costituisce quello, che vi ha di più intimo
nella filosofia Bruniana, come in ogni vera filosofia, perchè non esprime
questa o quella forma dell’ Idea, ma l’Idea stessa nella sua
intrinsechezza ed universalità, da questo principio, dico, ne scaturiscono due
altri, c sono: la esistenza j / eterna ed ideale di tutte le cose, e
quindi la vera immanenza di Dio nell’universo. Questi due principii, veramente,
non sono che due modi diversi di considerare, e direi quasi di esprimere,
lo stesso concetto; ma questi due modi hanno una cosi grande importanza
nella filosofia di Bruno e nella filosofia in generale, che io credo mio debito
fare una parola e dell’ uno e dell’ altro. Cito un breve tratto relativamente
al primo modo di considerare il detto principio. Bruno adunque dice cosi:
« Le sole forme esteriori delle cose si cangiano e si annullano, perchè
non sono cosi) ma delle cose, non sono sostanze, ma delle sostanze sono
accidenti e circostanze. Che se delle sostanze si annullasse qualche
cosa, verrebbe ad evacuarsi ^ il mondo. Nulla cosa si annichila e perde
1’ esserg^eflffi- Jj to che la forma accideittidL£atSàQtS-0^£S2Ì£? P c ™
tiUV to la materia quanto la forma sostanziale di che si voglia
cosa sono indissolubili e non annichilabili » (i). Da queste poche
parole, che ho citato, si può vedere, senza una difficoltà al mondo,
comedi Bruno sia davvero un idealista di prima forza. Per Bruno ogni
cosa, considerata nella sua forma interiore, è una natura determinaV. Dialogo
5-° e 4.° De la Causa, Principio et Uno.] ta, eterna ed immutabile; ogni cosa
ha la sua idea. Tutto 1’ universo non è che una trama di principii o forme
assolute, le quali si sviluppano e si rinnovano eterna mente nella loro
esistenza esteriore e sensibile, ma conservano eternamente la loro natura
ideale ed incorruttibile. Per tal modo la essenza di tutte le cose dell’
universo non è niente di indefinito o di arbitrario. Tutto ciò che è ha
la sua legge, in fondo a tutte le cose vi è un eterno statuto che le
modera e governa; ed è questo statuto appunto quello, in cui deve travagliarsi
la meditazione del filosofo. Egli ò vero che in tutti gli esseri vi ha
numero, differenze e moltiformiti, ma il numero, le differenze e la
moltiformità di un essere qualsiasi altro non è che lo sviluppo di un
principio unico e fecondo; e quin di anziché importare mutazione o cangiamento
nella na- . tura di esso, ò in questo sviluppo, in vece, che si effettua
e s’invera sempre più compiutamente la natura del1’ essere medesimo.
Signori, se Bruno avesse spinta più oltre la investigazione di questo
principio, e si fosse fatto ad applicarlo alla storia, egli avrebbe potuto
porre un secolo prima, almeno in un certo qual modo generale, quel gran
concetto, che forma la gloria di Giambattista Vico. E
s^pWtt^rió^che^èhah^uaidea. se tutto quello che si svolge nell’ universo
ha la sua legge, e come dire, il suo codice eterno ed immutabile, anc he
la storia dev e a vere la sua legge e il suo statuto; e quindi deve
esser possibile la ricerca di questo eterno statuto della storia,
deve esser possibile, io voglio dire, l a^ filosofia della sto ria. Il Bruno
però, bisogna confessarlo, non ha piena coscienza di tutti quei tesori, che si
acchiudono nella sua dottrina. Ciò derivi, in parte, dal soverchio entusiasmo,
ond’ egli si abbandona e si dimentica nella contemplazione della infinita
natura; e, in parte e principalmente, dalla profondità stessa e dalla
fecondità inesauribile dei suoi principi, dei quali, certamente, non si poteva
avere ai suoi tempi una chiara e perfetta coscienza.
Confessando però che il Bruno non giunse a questo gran concetto del
Vico, io debbo aggiungere che, con tutto ciò, Bruno non è affatto
inferiore a Vico; anzi, esprimendo liberamente quel che penso, dirò che Bqjqq,
come metafisico, gli $ di gran lunga superiore. Nel Vico que. sto
gran concetto della storia ideale ed eterna non si appoggia su di una
metafisica seria e profonda, anzi questo concetto è in assoluta
opposizione colla metafisica del Vico. E per vero, quanto a metafisica,
il Vici) non esce dalla posizione dello intendimento scolastico; e credo
anche non sia ingiustizia lo aggiungere che, se si paragona il
filosofo 1AV la tettar napoletano coi più grandi pensatori
della Scolastica, questo riscontro non può riuscirgli molto favorevole. Dal
che si può inferire, che il gran concetto della storia ideale ed
eterna, se da un lato e per ragion di scoperta è tutto proprio del Vico, dall’
altro poi e per ragion di natura, esso fa parte della dottrina del Bruno.
Imperocché, quantunque il Bruno non si sia innalzato alla contemplazione
del disegno ideale della storia, tuttavolta è nella metafisica del Bruno
e non in quella del Vico il fondamento e la possibilità di siffatta
contemplazione. Egli è vero che il merito del Vico non consiste soltanto nell’ avere
ammessa una storia ideale ed eterna, e perciò nell’ avere
ricono- differisce essenzialmente da quella, che governa la
natura. Nella natura, dice Vico, è Dio che ope ra, mentre nella
storia opera 1’ uomo, e pure, operati lo lui, compie il disegno eterno della
storia, effettua gli eterni decreti della Provvidenza. Cosi l’uomo, in
questa nuova posizione, non è soltanto /’ infinito effetto della infinita
causa, non è semplicemente /’ eterna genitura dell’ eterno generante, ma
è eziandio qualche cosa di più. E in questa posizione soltanto è possibile
la vera filosofia compiuta, la vera contemplazione di Dio come Causa sui.
Questo concetto della Causa sui, cioè della Causa della Causa non c’
è_^_davvero nell' assoluto Bruniano (come non c’ è neppure in quello di
Spinoza), quantunque sia appunto questo concetto quello, che travaglia
incessantemente la sua coscienza e quello stesso di cui fa uso, come mostrerò
in appresso, nella sua dbttrina della conoscenza e della libertà.
Tutto ciò adunque non si nega. Ma non si può negare però, d’ altra parte,
che questa nuova e più alta posizione, in cui ci colloca la dottrina del Vico,
è resa possibile soltanto dalla posizione Bruniana. Solo ammettendo l’Idea,
come essenzialmente manifestazione di sè medesima, si può e si deve arrivare,
quandochessia, al concetto di quella tale manifestazione, la quale esprimendo
davvero V Idea, ed essendo essa proprio quello stesso che è I Idea, e
perciò rappresentando non più una manifestazione esteriore, ma il ritorno dell’
Idea in sè medesima, deve necessariamente essere governata da una legge
affatto differente da quella, che governa le manifestazioni esteriori,
non effettuatrici esse stesse del principio assoluto. Stando in vece alla
posizione della metafisica'del Vico, non solo non è possibile ammettere
questa legge fondamentale della storia, ma non si può neppure ammettere
il concetto generale di una storia ideale ed eterna. Passando ora al
secondo aspetto del principio che sto esponendo, cito in prima un breve
tratto del Bruno. Nel primo dialogo della Cena delle ceneri il Bruno si
esprime cosi: Noi « conoscemo tante stelle, tanti astri, tanti numi, che
son quelle tante centinaia di migliaia eh’ assistono al ministerio e
contemplazione del primo, universale, infinito cd eterno efficiente. Non è più
imprigionata la nostra ragione con ceppi di fantastici mobili e
motori. Conoscemo che non è eh’ un cielo, una eterea regione
immensa, dove questi magnifici lumi serbano le proprie distanze, per comodità
de la partecipazione de la perpetua vita. Questi fiammeggianti corpi sono
que’ ambasciatori che annunziano 1’ eccellenza de la gloria e maestà di
Dio. Cosi siamo promossi a scoprire V infinito effetto de
l’infinita causa, il vero e vivo vestigio dell’ infinito vigore, et
abbiamo dottrina di non cercare la divinità rimossa da noi, se l’abbiamo
a presso, anfi di dentro, più che noi medesimi siamo dentro a noi
». Signori, questo principio della imma nenza di.Dio ne^Ja
natura e nello j>£Ìrito sorge la prima volta col Bruno nella storia
della filosofia. Fu Bruno il primo che si fece a cercare davvero la Divinità
nell’ infinito mondo e nelle infinite cose, e fece di questa ricerca la
esigenza fondamentale e lo scopo unico di tutto quanto il sapere
filosofico. « Di questa infinita presenza di Dio nell’ universo, dirò
colle belle parole del nostro più profondo pensatore vivente,
nessun filosofo ha discorso con tanto entusiasmo e convinzione, quanto Bruno.
La sua voce era come il primo grido di gioia della natura che ora
cominciava a scoprire sè stessa e a conoscersi n#l suo reale
valore. Premesse queste poche cose, io posso ora determinare il
significato che ha nella filosofia Bruniana la dottrina dell unita dell
universo. Ciò facendo, resterà meglio dualità la importanza di quel poco
che ho esposto finora. Ma prima cito un breve tratto del nostro filosofo.
« Quando l’intelletto, dice Bruno, vuol comprendere la essenza di una
cosa, va semplificando quanto può; voglio dire, da la moltitudine si
ritira, rigettando gli accidenti corruttibili... Cosi la lunga scrittura e la
prolissa orazione non intendemo, se non per contrazione ad una semplice
intenzione. I.’ intelletto in questo dimostra apertamente come ne P unità
consiste la sostanza de le cose, la quale va cercando o in verità, o in
similitudine. Quindi è il grado de le intelligenze, perchè le inferiori non
possono intendere molte cose, se non con molte specie, similitudini e
forme; le superiori intendeno migliormente con poche; le altissime con SPAVENTA
(vedasi), Saggi di Critica] pochissime perfettamente; la prima intelligenza in
una idea perfettissimamente comprende il tutto... Cosi adunque, montando
noi a la perfetta cognizione, andiamo complicando la moltitudine, come,
discendendosi a la produzione de le cose, si va esplicando l’unità.
Quindi è che « ogni cosa che prendemo nell’ universo, perchè ha in sè
tutto quello che è tulio per tutto, comprende in suo modo tutta l’anima
del mondo. E cosi non è stato vanamente detto, che Giove empie
tutte le cose, inabita tutte le parti dell’ universo. È per questa
ragione che « quelli filosofi hanno ritrovato la sua amica Sofia, li
quali hanno ritrovato questa unità. Medesima cosa a fatto è la Sofia, la
verità, la unità » (i). La ragione di questo principio nella
filosofia del Bruno risulta già chiaramente da quel poco che ho detto fin
qui. Imperocché se Dio è immanente nella natura e nello spirito, egli è
manifesto che quel principio, che si attua nell’ uomo e che dà luogo a
tutte le forme del suo sviluppo, non può, considerato in sè, essere altra cosa
dal principio che pone la natura. Ammessa la dottrina della
immanenza, /’ arte interna del pensiero, per servirmi delle stesse parole
del Bruno, deve necessariamente appartenere (i) De la Causa,
Principio et Uno] allo stesso artefice- interno della natura; e quindi quel
principio, che forma i minerali, le piante, gli animali, deve essere
quello stesso principio, che pensa nell’uomo. Il che vuol dire che, se da
una parte tutte le forme della natura e dello spirito hanno una sostanzialità
loro propria, una loro natura specifica e diferenziale, dall’ altra cosi
le prime come le seconde non possono essere che gradi diversi della
stessa unità fondamentale del tutto, di quell unità della materia e della
forma, del reale e dell’ ideale, in cui consiste la radice di ogni
esistenza. Ed ò per tal modo soltanto che si può cessare l’assoluta
separazione di spirito e materia, di realtà consciente e di realtà
naturale, separazione che degrada tanto 1’ una che l’altra, e che fa
dello spirito qualcosa di astratto e d’inconcepibile, e della natura un
mondo senza vita, senza ragione e senza finalità. Signori, per
questa dottrina il Bruno è stato generalmente accusato di panteismo; ed anche
in questi ultimi anni la maggior parte di coloro, che in Italia hanno
trattato del Nolano, si son fatti a rinnovare questa vecchia accusa,
senza però investigare seriamente, e spogli di preconcetti, il vero senso della
dottrina Bruniana e il significato preciso della teoria panteistica. Io qui,
naturalmente, non posso far la critica di questa accusa. Dirò soltanto alcune
cose principali. E in primo luogo osservo che, anche quando il Bruno non
fosse altro che un semplice panteista, bisognerebbe sapergli grado almeno
per questo: voglio dire che bisognerebbe sapergli grado perchè, dop
o le astrattezze della Scolastica, egli avrebbe posto almeno il principio della
unità del mondo, e quindi ricollocata la filosofia sul suo terreno
naturale. Imperocché, si dica pure tutto quel che si voglia, il principio
su cui si fonda il panteismo, c che è l’unità dell’infinito e del finito,
dell’ideale e del reale, è quel principio, da cui appunto comincia la
filosofia, e senza di cui nessuna filosofia è possibile. E per vero dal momento
medesimo che comincia la speculazione filosofica, e quindi la ricerca
della essenza universale di tutti gli esseri, comincia per ciò stesso una
certa unificazione, o identificazione, se così piace dire, di tutte le
cose in un principio unico ed assoluto. Questo principio adunque è
come la prima lettera dell’ alfabeto del pensiero; e chi non ha
pronunziato ancora questa lettera, chi, cioè, non si è ancora innalzato a
questo nesso universale in cui si unifica e cielo e terra, e che è come il
pernio, a cui si appunta tutto quanto 1’ universo, chi, dirò colla bella
immagine dell’ Hegel, non si è ancora bagnato in questo etere purissimo
della unità del mondo, deve essere ancora certamente assai lontano dall’
augusto santuario della coscienza filosofica (i). Fino a questo punto adunque
la dottrina panteistica, anziché essere un sistema particolare di
filosofia, é la filosofia stessa nella sua più intima essenza. Onde
è che, se una filosofia si differenzia da un’ altra, questa differenza
non può nascere dilli’ ammettere o non ammet tere l’unità, ma soltanto dal modo
diverso di concepirla e di determinarla; imperocché, come ha già detto
bellamente il Bruno, medesima cosa affatto è la Sofia, la verità, P unità. La
qual cosa è stata vista lucidamente anche dal nostro acutissimo filosofo
Roveretano, Rosmini. Il quale, pur respingendo da sé ogni possibile
accusa di panteismo, ha tuttavia sostenuto anch’egli un principio
unico universale, ed ha considerato tutte le forme della realtà natur
ale, della realtà upiana, e della realtà di Dio come diversi modi di
essere, come diverse determinazioni del principio medesimo.
Che se poi noi ci facciamo a considerare la dottrina panteistica
non più rispetto a quell’ idea fondamentale che Ile r-
<K Wenn man anfangt ni philosophiren, muss die Seele zuerst sich
in diesem Aether der Einen Substanz baden, in der Alles, was man fur wahr
gehalten hat, untergegangen ist; diese Negation alles Besondern, zu der
jeder Philosoph gekommen seyn muss, ist die Befreiung des Geistes und
scine absolute Grundlage.] in essa si contiene, e per cui il panteismo e la
speculazione filosofica in generale fanno tutt’uno, ma rispetto a quella
determinazione particolare della stessa idea, dalla quale solamente la
dottrina panteistica attinge il suo significato e 1’ essere proprio di sistema
speciale di filosofia, in tal caso non possiamo avere che due soli ed
opposti concetti di siffatto sistema. Imperocché, o il panteismo si concepisce
come identificazione dell’ infinito col finito nella sua immediatezza e
quindi come deificazione di tutte le cose, ovvero come risoluzione ed
annullamento di unte le differenze ideali dell’ universo nella vuota
identità della pura sostanza. Il primo concetto del panteismo, che è
appunto quello che hanno avuto in mente i nostri critici del Bruno, non
trova affatto qualsiasi riscontro nella filosofia del Nolano. Bruno non
ha mai confuso l’infinito col finito, non ha fatto mai 1’ apoteosi della
esistenza caduca e corruttibile delle cose, non ha mai deificato le
forme accidentali, esteriori e materiali, le quali per lui, come
per ogni vero filosofo, non sono cose, ma delle cose, non sono sostanze,
ma delle sostanze sono accidenti e circostanze. Bruno ha deificato soltanto /’
infinito mondo, la infinita natura, le infinite cose, ha deificato la eterna
genitura dello eterno generante; la qual dottrina non ha nulla che
fare col panteismo. Questa dottrina è in vece eminentemente cristiana, anzi è
la essenza stessa del cristianesimo; e la negazione di questa dottrina
non è solamente la negazione della vera filosofia, ma è la negazione altresì
di tutti i principii del sapere moderno, e della possibilità stessa della
scienza in generale. Ma c’è di più; imperocché questa pretesa
confusione dell’ infinito col finito non pure non si trova affatto nella
filosofia Bruniana, ma non ha nemmeno il suo riscontro in qualsiasi
sistema di filosofia. Tutta la storia della filosofia, per quanto è lunga e
larga, non ci presenta alcun sistema, in cui si possa ravvisare questa strana
confusione ; in quella guisa medesima che la storia della religione non ci
mostra nessun popolo, che abbia proprio adorato il finito come finito. Lo
stesso Bruno, parlando degli Egizi, dice a questo riguardo, le seguenti
memorabili parole: Non furono mai adorati coccodrilli, galli, Diejenigen,
welche irgend eine Philosophie fiiir Pantheis mus ausgeben.. batteri. es
vor Alleni aus nur als Faktum zu konstatiren, dass irgend ein
Philosoph oder irgend ein Mensch in der That den Alien Dingen an und fur
sich seiende Realitat, Substantialitat zugeschrieben und sie fur Gott
angesehen, dass irgend einem Menschen solche Vorstellung in den Kopf
gekommen sei ausser ihnen selbst allein. Id. Encyklopàdie. Vedi anche:
Aesthetik, Zweiter Theil.]cipolle e rape, ma la Divinità in coccodrilli, galli,
cipolle e rape ». E parlando dei Greci, si esprime cosi: « I Greci
non adoravano Giove come fosse la Divinità, ma adoravano la Divinità come fosse
in Giove; il che, come ognun vede, è cosa assolutamente diversa. Quanto
poi all’ altro concetto del panteismo, cioè a quel concetto secondo il
quale Dio non è altro che la semplice unità astratta dell’ infinito e del
finito, dell’ ideale c del reale, egli è d’uopo riconoscere che una tal
dottrina c’ è davvero nella storia della filosofia. Forse non sarebbe
difficile provare che questa dottrina, considerata nella sua assoluta
purezza non ha luogo, in una forma veramente speculativa, che soltanto
nella filosofia Parmenidea. Anche la filosofia di Spinoza, quando la si intenda
bene, non è poi addirittura quel rigido panteismo che ordinariamente si crede.
Ma, lasciando stare queste riflessioni, il fatto è che nella filosofia Bruniana
il princip io dell’ unità dell’ ideale e del reale, il concetto della
identità non ha affatto quello stesso significato, che ha nella dottrina
panteistica pnra. Imperocché nel puro panteismo questa unità esclude
assolutamente ogni qualsiasi determinazione, ogni differenza, e perciò è la
negazione di tutto V. Spaccio
della Bestia Trionfante, Dial.]quanto 1’universo intelligibile, mentre, nella
filosofia Bru% niana, questa unità si muove, si distingue, si va specificando
e, come dire, spezzando in tutte le forme della natura e dello spirito.
Ammettere questo dirompimento dell’unità universale, guardare in tutte le
cose un principio eterno ed immutabile come forma vera e totale dell’
unità medesima, riconoscere in somma un mondo infinito, tutto questo non
è affatto panteismo; anzi è la critica vera e positiva della dottrina
panteistica. E tale è in fondo, considerata nel suo spirito, la filosofia
Bruniana. Il che è tanto vero che BRUNO è arrivato fino a vedere cosa degna
veramente della più alta ammirazione — che la vera esigenza della
filosofia, che il vero segreto dell’ arte, come egli dice, consiste
appunto, non già nel semplice innalzarsi all’ unità del mondo, ma nel procedere
dall’ unità stessa a tutte le forme differenziali ed opposte, in cui essa
si va esplicando, e in cui si manifesta la vita tutta dell’ universo.
Profonda magia, ha detto il Bruno, è trarre il contrario, dopo aver
trovato il punto dell’unione. Se adunque, io dico, L’ Hegel dopo di aver
citato questo passo di Bruno: « Aber den Punkt der Vereinigung zu finden,
ist nicht das Gròsste; sondern aus Demselben auch sein Entgegengesetztes
zu entwickeln, dieses ist das eigentliche und tiefste Geheiranis der
Kunst » soggiunge enfaticamente: « Dicss ist ein grosses Wort, die Entwickelung
der Idee Bruno ha visto financo che il segreto della filosofia sta
nel tirare le differenze ideali dell’ universo dalla sua unità, o, in
altri termini, nel contemplare 1’ atto proprio del differenziarsi dell’ unità,
quell’ atto, che, come egli dice, non pure è potenza di tutto, ma è atto
di tutto, come si può sostenere che la sua filosofia sia panteismo ? Ha
forse il Bruno inabissate, ha forse estinte nell’ unità assoluta
tutte le forme ideali dell’universo? E non è vero in vece che la
esigenza della sua dottrina si è appunto quella di distinguere nell’ unità
assoluta un mondo intelligibile, un universo infinito? Ovvero si vuol sostenere
che il Bruno è panteista sol perchè non ci ha presentato, ai suoi
tempi, in una forma veramente speculativa, tutto questo suo
u è niverso infinito? perchè, in altri termini, non ci ha
dato una filosofia della natura e una filosofia dello spirito ? Una
simile pretesa non sarebbe certamente degna di una mente sana. Ma altro è
dir questo, anzi altro è anche aggiungere che la dottrina di Bruno non è
nemmeno un sistema nel senso vero della parola, altro è affermare
che so zu erkennen, dass sie eine Nothwendigkeit von
Bestimmungen ist ». Geschichte der Philosophie, Zweiter Tchil.] 1’
assoluto Bramano sia addirittura come la notte, in cui tutte le vacche
son nere. Ma io mi avveggo, o Signori, di essermi soverchiamente dilungato
su questo punto. Dirò dunque ora proprio di volo, prima di conchiudere,
pochissime parole sull’applicazione di questi primi principi più generali
della filosofia del Bruno alla teoria della conoscenza e della libertà.
Senza fare ciò non si può vedere la vera importanza di questa grande
filosofia. Bruno si può dire pant eista in un senso solo, cioè nel
senso che nella sua filosofia manca il concetto della vera ed assoluta
esistenza di Dio, manc^lconcettodiDio^conHSjjersonalità assoluta. Il
Dio di Bruno vive nell’ infinito universo, ma non ha una vita sua propria
come principio assoluto, non ha una sua realtà distinta, nella quale si
raccolga tutto il mondo intelligibile; inso mma il Dio del m Bruno non è l’Idea
come autocoscienza assoluta, e perciò non è ancora realmente Dio=Dio.
Tutto questo è vero. Ma siffatta critica della dottrina Bruniana si può
fare soltanto dal punto di vista dell’Hegel, non già dal punto di vista
de’nostri critici del Bruno. È l’Hegel soltanto, che ha dritto di
chiamare il Bruno panteista. La spiegazione e la critica del Bruno, a me
pare la seguente. Bruno^contempla Dio come cosmogonia, come attivitàcosmogonica
(ciclo di origine), ma non contempla il cosmo come teogonia, come attività
teogonica (ciclo di ritorno). Egli è vero che non c’ è cosmogonia senza
teogonia, come non c’ è intuito senza riflessione; ma c’ è teogonia e [In
ordine alla conoscenza il Bruno insegna che la verità di essa non si ha e non
si può avere immediatamente, cioè nella sua forma originaria c primitiva,
e finché dura il carattere proprio della medesima. Il carattere di questo
primo grado della conoscenza si è quello di essere legata alla natura
esteriore, sensibile, accidentale, e quindi è la estrinsechczza del pensiero a
sè medesimo. Per potersi sciogliere da questi legami col mondo esteriore e
fenomenico, e giungere davvero a possedere sò stesso, lo spirito ha d
uopo o della fede o della scienza. Ma, nella fede, l’uomo non s’innalza
alla verità colle sole forze della ragione e in un modo assolutamente
libero: nella fede 1 uomo, fino ad un certo punto, accoglie in sè la
verità come vaso o recipiente, e perciò in guisa non corrispondente del
tutto teogonia, come c’è riflessione e riflessione. Ora il Bruno non
arriva al concetto di quella forma del cosmo che non è solamente una
certa teogonia, ma che è la vera ed effettiva teogonia; non arriva al concetto
del cosmo veramente teogonico; e perciò non arriva alla vera esistenza di Dio.
Dunque la personalità assoluta di Dio, in questa filosofia, è
impossibile. Ma d’ altra parte neppure è possibile arrivare a questa idea,
uscendo da Bruno assolutamente. È sulla via aperta dal Bruno che bisogna
camminare per raggiungerla. Chi vuole adunque questa idea, accetti il
Bruno, vada avanti, e la troverà. ] alla vera eccellenza della
propria natura. Nella scienza, al contrario, lo spirito si eleva alla
contemplazione della verità colla sola libera energia della sua mente, e
produce la coscienza di essa come vero artefice ed efficiente. Il processo
della contemplazione della verità consiste nel profondarsi nel profondo della
mente e nel circuire per i gradi della perfezione, cioè nel percorrere col
pensiero le diverse manifestazioni dell’ infinito vigore, e perciò nell andare
non già dal finito all’infinito, o viceversa, ma nell’andare dall’infinito
all’infinito. Lo scopo ultimo di siffatta contemplazione si è di capire quell '
atto assolutissimo che t medesimo coll’ assolutissima potenza, e di
effettuare così la vera immanenza di Dio in noi colla virtù stessa
della nostra mente. In conformità di questo concetto della
conoscenza, Bruno determina il concetto della libertà nel modo che segue.
La verità e, la legge sono tutt’uno. Perciò, come VC/àU la verità è
intima allo spirito umano, cosi anche la legge è intima all’umana
volontà. Questa adunque non si può considerare come una facoltà vuota ed
indeterminata. D altra parte, nella guisa medesima che la verità non è
posseduta dallo spirito originariamente c senza la sua stessa attività,
così anche la volontà non è oggettivamente libera, e quindi non è vera ed
assoluta volontà, finché non si ò elevata alla legge ed alla verità. La
verità adunqne è il fondamento ed il contenuto della libertà. Fuori della
verità, fuori della legge la vera libertà non è possibile. Per tal modo
la libertà non è arbitrio, ma è necessità. Questa necessità però non è esterna,
non è fatalità, ma appunto perchè s’immedesima colla stessa verità, è necessità
interna e razionale. M. non ha bisogno di fermarsi sulla importanza
pratica di questo concetto bruniano della libertà. Senza che il dica,
ognun vede come in questo concetto si acchiuda ad un tempo la critica
della falsa libertà, e della falsa autorità, e come sia appunto in questo
concetto che sta il fondamento della nuova vita sociale e il principio
animatore di tutta la civiltà moderna. A me qui spetta soltanto di
chiarire brevemente il valore speculativo di queste applicazioni dei
principi metafisici del Bruno, e di mostrare come in queste applicazioni
si possa scorgere il germe di una più alta filosofia. Ebbene egli è
facile vedere che queste idee di Bruno, relativamente alla conoscenza ed alla
libertà, più che semplici applicazioni del suo principio metafisico, sono
in vece delle conseguenze, che hanno una portata di gran lunga
superiore allo stesso principio. Bruno in queste applicazioni supera
davvero sè stesso, egli va al di là dello jtesso suo punto di partenza. E
per vero il punto di partenza del Brudo è Dio come semplice atto creativo,
Dio come semplice creare, e perciò come generare ; e quindi l’universo Bruniano
è si la infinita, la eterna creatura o genitura di Dio, ma non è
altro che la eterna, la infinita creatura o genitura di Lui. Intanto il
concetto Bruniano della libertà e della conoscenza ci presenta una vera
reazione sullo stesso principio assoluto: esso importa un’ attività
superiore al semplice creare, importa un’ attività, che non è mera
estrinsecazione del principio eterno delle cose, ma ò una effettuazione
vera del principio medesimo, come atto dello stessa creatura fi'). GIOBERTI
(vedasi) ha detto ai giorni nostri, in un momento di profondo intuito
filosofico, che l’uomo rende a Dio la pariglia; anzi egli ha detto anche in
generale che l’atto creativo è essenzialmente atto teogonico. Ora questo
rendere a Dio la pariglia, questa forma di atto creativo, che è nel medesimo
tempo atto teogonico, è appunto O meglio: come atto di Dio stesso, ma in
quanto creatura. Col linguaggio della religione si direbbe: come atto
dello stesso Padre, ma m quanto Figlio. Si sa poi che questo atto del
Padre, che è atto di lui in quanto Figlio, è quello che là la verità del
Figlio e la verità del Padre ; e che questo atto è appunto lo Spirito: la
vera Ferità. quella idea, che noi non possiamo ravvisare nel principio
metafisico del Bruno, ma che però troviamo adoperata nella sua dottrina
della conoscenza e della libertà. Si può adunque affermare che, nella
filosofia del Bruno, le conseguenze contengono più delle premesse; ma siffatta
contraddizione anziché menomare il merito del nostro filosofo, è appunto
quella, se io non mi sbaglio, in cui si rivela la più alta potenza della sua
speculazione. Nè varrebbe il dire che il Bruno non finisce come comincia;
imperocché il Bruno, ha cominciato bene, come era possibile ai suoi
tempi, ed ha finito molto meglio. E se tra il Principio ed il Fine, tra 1’origine
ed il Intorno la sua filosofia non pone quell’ accordo, in cui consiste
la vera Idea, di ciò non si può fare un’accusa al nostro grande
pensatore, stante che un tale accordo è il risultato di tutta quanta
la speculazione moderna; e perciò non si può pretendere dalla filosofia
del Bruno. Nè si può pretendere dal Bruno la coscienza della
contraddizione, che corre tra il suo principio metafisico e la sua dottrina della
conoscenza e della libertà, perchè una tal coscienza non poteva sorgere
nella storia, se prima i due estremi, cioè il Principio ed il Fine,
1’ Origine ed il PJtorno, non avessero spiegato separata- mente tutto il
loro valore e non si fossero presentati dinanzi al pensiero speculativo come le
due somme ed opposte potenze (Teli* universo, 1’ una predominante nel
mondo della natura, 1’altra in quello dello spirito. La filosofia cartesiana
rivelò il potere del Trincipio, la filosofia Kantiana (precorsa solo da Vico)
mise in evidemza l’attività indi- pendente ed assoluta del Fine, e fu
perciò solamente la posteriore filosofia tedesca quella, che potè
innalzarsi alla contemplazione del Principio-Fine, dell’ Origine-Ritorno,
e porre cosi un nuovo e più alto concetto di Dio, il concetto di Dio come
sviluppo, come Spirito, e quindi una nuova filosofia: la filosofia dello
Spirito. Raccogliendo adesso le fila del mio ragionamento, io posso
conchiudere così. La filosofia del Bruno ha riabilitata e {ligni
ficat a la e l ia restituito il suo vero valore, 1’ ha innalzata a
manifestazione reale e vivente di Dio; dunque il primo ardente desiderato del
pensiero scolastico, in questa filosofia, è soddisfatto. Ma c’ è di più;
imperocché il Bruno, avendo concepito Dio come immaii ^q^ nella coscienza
umana in lorza dell’ attività stess^ai^ essa, ha posto in questo
concetto la possibilità di quella intelligenza superiore, che formava la
seconda e più alta aspirazione dei grandi pensatori della Scolastica, e la cui
attuazione non poteva essere che il risultato finale di tutta quanta la
filosofia moderna. Sebastiano Maturi. Maturi. Keywords: implicature,
Bruno, Vico, Aquino, Spaventa, I duellisti, l'io e l’altro – riconoscimento, la
dialettica del signore e del servo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Maturi” –
The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Maturi:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – filosofia
campanese -- filosofia napoletana – filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo italiano. Napoli, Campania. Grice: “People
sometimes asks me how my intentionalist approach can be applied to history. I
always respond: Read Maturi!” Grice: “Maturi’s ‘Interpretazioni,’ thus in
plural, ‘del risorgimento’ is a classic --.” Grice:: “Even in London, the
risorgimento had at least two interpretations! One in Woolwich, and another one
elsewhere! And there is possibly a gender distinction too with “Speranza,”
Wilde’s mother, being somewhat fanatic about it!” – Compe la sua formazione
culturale a Napoli dove si laurea con SCHIPA, uno dei firmatari del manifesto
degli intellettuali antifascisti redatto da CROCE. Del suo maestro, per la lezione di rigore che gli
aveva impartito, Maturi conservò un commosso ricordo ed ebbe modo di esprimere
pubblicamente la sua gratitudine in occasione della morte di Schipa,
pronunciandone il necrologio. Seguì con attenzione ed interesse, ma anche con
spirito critico, le lezioni di Croce conseguendo una laurea in filosofia con Gentile
con una tesi su Maistre. Impostato sulla lezione crociana è il saggio “La
crisi della storiografia politica italiana” a cui seguì quello dedicato a Gli
studi di storia moderna e contemporanea, inserito nel primo dei due volumi dell'opera
del “La vita intellettuale italiana.” Il suo primo lavoro Il concordato tra la
Santa Sede e le Due Sicilie pubblicato fu giudicato positivamente dalla critica
s di Omodeo che lo recensì ne La Critica. Frequenta la Scuola storica per l'età
moderna e contemporanea diretta da Volpe e fu segretario e bibliotecario
dell'Istituto storico per l'età moderna e contemporanea. Collaboratore
dell'Enciclopedia italiana per la quale scrisse numerose voci tra le quali
quella dedicata al "Risorgimento" ispirata alle sue idee
liberali. A causa di questo episodio, nonostante il suo disinteresse per la
vita politica attiva, fu allontanato dall'Istituto storico per l'età moderna e
contemporanea. Nei suoi saggi di storia politica i suoi punti di
riferimento sono Croce, Meinecke, Salvemini, e Volpe. Dapprima come
incaricato di storia del ri-sorgimento e poi come ordinario tenne le sue
lezioni a Pisa dove ha modo di scrivere numerosi saggi come alcune importanti
voci nel Dizionario di politica a cura del Partito nazionale fascista, il
saggio Partiti politici e correnti di pensiero nel Risorgimento, e l'accurata
biografia Il principe di Canosa. I corsi di storia della storiografia tenuti a
Pisa furono continuati a Torino quando ha la cattedra di Storia del
Risorgimento e quella di Storia delle dottrine politiche che occupa sino alla
sua inaspettata scomparsa. Le sue lezioni di quest'ultimo periodo furono
raccolte nell'opera postuma Interpretazioni del Risorgimento considerata di
primaria importanza dagli storici. Saggi: “Interpretazioni del
Risorgimento, coll. Biblioteca di cultura storica Einaudi,'Enciclopedia
italiana, Accademia delle scienze di Torino, In memoria, Istituto per la storia
del Risorgimento italiano, Roma 1Interpretazioni storiografiche del
Risorgimento. Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Dizionario
biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Walter Maturi.
Maturi. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Maturi” – The Swimming-Pool
Library.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Maurizi:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della vendetta di
Bacco – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano.
Grice: “I like Maurizi; of course his ‘vendetta di Bacco’ makes sense only
in the context of Nietzsche’s rather recherché dichotomy!” – Grice: “His idea
of the ‘suspected ‘I’’ is good, but he is not, as I was, having in mind Reid,
but Freud!” Si è laureato in filosofia della storia
presso l'Università degli Studi di Roma "Tor Vergata" e ha conseguito
il dottorato di ricerca nella medesima università discutendo una tesi su Cusano
e il concetto di non altro da cui è nato il volume La nostalgia del totalmente
non altro. Cusano e la genesi della modernità (Rubbettino). Dopo un periodo di
formazione in Germania attualmente svolge la sua attività di ricerca presso
l'Università degli Studi di Bergamo. Pubblica le sue ricerche su alcune
prestigiose riviste come la Rivista di filosofia neo-scolastica, il Journal of
Critical Animal Studies, Dialegesthai, Alfabeta, Lettera Internazionale, e
collaborando, inoltre, con i quotidiani Liberazione e L'Osservatore Romano. Partecipa
alla stesura del secondo volume di L'Altronovecento. Comunismo eretico e
pensiero critico (Jaca) ed è il traduttore e curatore dell'edizione italiana di
Lukács, Coscienza di classe e storia. Codismo e dialettica, Alegre, Roma di
Acampora, Fenomenologia della Compassione, Sonda, Casale Monferrato,, e ha
tradotto, con Dalmasso, Derrida, Teoria
e prassi. Corso dell'École Normale Supérieure Jaca, Milano,. Ha contribuito
alla fondazione delle riviste scientifiche "Liberazioni" e Animal
Studies. Rivista italiana di antispecismo. Pensiero Maurizi ha suddiviso
i suoi interessi di ricerca tra la filosofia dialettica (Cusano, Hegel, Marx,
Adorno), la teoria critica della società e le implicazioni politiche di una
visione "sociale" dell'antispecismo a partire da una rielaborazione
del pensiero della scuola di Francoforte. Tanto le sue ricerche su Adorno, quanto
quelle su Cusano si incentrano sul tentativo di porre in evidenza il tema della
storicità dell'umano non in termini di un astratto e formale
"essere-nel-tempo", quanto più propriamente nel vedere nell'essere
storico, in tutta la sua determinatezza, l'irriducibile istanza di verità
dell'umano stesso: l'essere storico è in tal senso irriducibile ad ogni
ontologia dell'essere temporale seppure ciò non porti necessariamente ad un
relativismo storicista. Prendendo spunto dalla lettura critico-negativa di
Hegel portata avanti da Adorno, infatti, M. sostiene la leggibilità e
razionalità della storia come segno del dominio, l'universale storico non come
traccia di un positivo che si farebbe strada attraverso il negativo delle
vicende umane, bensì come questo stesso negativo che informa di sé la civiltà,
imprimendo ad essa la direttrice di un progresso della razionalità strumentale
che è l'antitesi della redenzione. La sua rilettura del pensiero della
filosofia di Francoforte ha così costituito un punto di partenza per una ridefinizione
dell'opposizione natura/cultura e lo ha portato ad estendere la critica ai
meccanismi di dominio anche al controllo e allo sfruttamento del non umano, e
più in generale della Natura. Il suo pensiero riguardo alla filosofia
antispecista è in continuità con quello espresso dal sociologo David Nibert ed
in netta opposizione all'utilitarismo di Peter Singer criticato da M. come un
antispecista metafisico. Un punto centrale nell'argomentazione filosofica di M.,
che rende originale il suo lavoro rispetto a quello degli altri teorici dei
diritti animali, riguarda l'interpretazione in termini storico-sociali dello
specismo. Ogni attività intellettuale «antispecista», secondo Maurizi, consiste
quindi essenzialmente nel fare propria questa scelta di campo: sottolineare
come la questione animale sia un aspetto irrinunciabile di ogni ipotesi di
trasformazione dell'esistente. Secondo Maurizi l'antispecismo è dunque
essenzialmente politico e non possiamo
affrontare, come fanno Peter Singer o Tom Regan, la questione animale da una
prospettiva astrattamente morale. All'attività di filosofo, Maurizi ha così
affiancato quella di attivista per i diritti animali, intrecciando l'attività
speculativa con quella politica; risultato di questa attività è il libro Al di
là della Natura: gli animali, il capitale e la libertà (Novalogos, ). M. è
stato inoltre fondatore delle riviste di critica antispecista Liberazioni e
Animal Studies, della rivista online Asinus Novus che prende il nome dal suo
breve testo Asinus Novus: lettere dal carcere dell'umanità (Ortica, ). Nel l'associazione Per Animalia Veritas raccoglie
alcuni suoi scritti che rappresentano un sunto aggiornato del suo pensiero
sulla filosofia antispecista: Cos'è l'antispecismo politico (Per Animalia
Veritas, ). Sulla scia delle riflessioni adorniane, Maurizi ha anche lavorato
sulla filosofia della musica e la teoria critica musicale. Le sue teorie
sull'antispecismo politico sono abbondantemente discusse nel libro di Lorenzo
Guadagnucci Restiamo Animali: vivere vegan è una questione di giustizia (Terre
di Mezzo, ), da Matthias Rude Antispeziesismus. Die Befreiung von Mensch und
Tier in der Tierrechtsbewegung und der Linken (Schmetterling, Stuttgart ) e
altri autori della scena antispecista di lingua tedesca. Saggi: “Il tempo del
non-identico,” Jaca); “La nostalgia del totalmente non altro” – La genesi della
modernità, Rubettino, “Al di là della natura: gli animali, il capitale e la
libertà,” Novalogos, “Asinus Novus: lettere dal carcere dell'umanità,” Ortica,
“Cos'è l'anti-specismo?” Per animalia veritas, “L'io sospeso: l'immaginario tra
psicanalisi e sociologia, Jaca, Grice: “This reminds me of my fantasies on ‘I’
– “The suspected I’ is a genial phrase!” -- “Chimere e passaggi” Mimesis, “Altra
specie di politica, Mimesis, “Musica per il pensiero. Filosofia del
progressive” -- Mincione, “La vendetta di Dioniso” -- la musica contemporanea da Schönberg ai
Nirvana, Jaca, “Quanto lucente la tua in-esistenza” --- L'Ottobre, il
Sessantotto e il socialismo che viene, Jaca. Intervento di M. su questi temi
per la Casa della Cultura di Milano: youtube.com/watch?v= ZNfJrRx-7fo Intervista su questo tema a cura del
collettivo Tierrechtsgruppe Zürich (Zurigo) M. La genesi dell'ideologia
specista in Liberazioni:/ M. Per una cultura antispecista in Asinus Novus:
rivista di antispecismo e filosofia: Copia archiviata, su asinusnovus.wordpress.
com. Intervento M. per il primo convegno nazionale antispecista:
youtube.com/watch?v= JwZiW4ngrag
Intervista a M. e Caffo sulle nuove prospettive dell'animalismo: youtube
Testo recensito da L. Pigliucci per la rivista "Lo Straniero" di
Aprile: Copia archiviata, su asinusnovus. wordpress Intervista di F. Pullia sul
quotidiano "Notizie Radicali" Una recensione del testo: Copia archiviata,
su asinusnovus.wordpress B. Le GocM. M., Musica per il pensiero. Filosofia del
progressive italiano, Mincione, Roma.
Antispecismo Diritti degli animali Scuola di Francoforte. Asinus Novus.
Antispecismo e Filosofia, su asinusnovus.net. Animal Studies. Rivista Italiana
di Antispecismo, su rivistaanimal studies. wordpress. Marco Maurizi. Maurizi.
Keywords: la vendetta di Bacco -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Maurizi” –
The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice e Mazio: la ragione conversazionale all’orto romano -- Roma
– filosofia italiana – Luigi Speranza
(Roma). Filosofo italiano. Friend of GIULIO (si veda) Cesare and Cicerone. He writes on food and trees
and takes an interest in the philosophy of the Garden. Gaio Mazio.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Mazzarella:
l’implicatura conversazionale – filosofia campanese -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (Napoli). Filosofo italiano. Napoli,
Campania. Grice: “I love Mazzarella’s ‘necessary word’ – not precisely what I
was thinking when philosophising about conversation, but for Mazzarella, the
conversational motivation is to HELP in the most authentic fashion – Compared
to his ‘parola necessaria,’ my principle of conversational helpfulness, while
based in part in the desideratum of conversational benevolence, looks pretty
lame!” -- Grice: “I like Mazzarella. The fuss he makes in translating
Heidegger, whom I have elsewhere called ‘the greatest living philosopher’ – he was
living then –.” Grice: “Mazzarella, who is relying on somebody else’s
translation, is especially focused on Heidegger’s Latinate ‘fakt.’ From ‘Fakt,’
Heidegger gets an abstract noun. But he also uses the Germanic for ‘deed.’
Relying on the cognateness of ‘fakt’ with ‘fatto’ – cognate itself with
‘effetto,’ Mazarella agrees that the translation goes from ‘factivity’ to
‘effectivity.’ And it should inspire all philosophers into seeing how similar
these two concepts are – if indeed two concepts they are, seeing that they come
from the same Roman root! But M.
would know that – you wouldn’t!” – Professore
a Napoli, è tra i principali interpreti
di Heidegger. Deputato al Parlamento nella XVI Legislatura per il Partito
Democratico. Dopo essersi laureato
presso l'Università degli Studi di Napoli “Federico II” con Masullo, inizia la
sua attività di ricerca come borsista DAAD in Germania, e successivamente
presso l'Salerno. In seguito è professore incaricato di Estetica presso
l'Università dell'Aquila. Dopo essere stato professore associato di Filosofia
Teoretica presso l'Catania e di Filosofia della storia presso l'Napoli
“Federico II”, diventa professore straordinario di Storia della filosofia
presso la Facoltà di Magistero dell'Salerno e dal 1993 Professore di Filosofia
Teoretica presso l'Napoli “Federico II”. Dirige il Dottorato di Ricerca in
“Scienze Filosofiche” dell'Napoli “Federico II” e cura la programmazione e le
relazioni internazionali per la Facoltà di Lettere e Filosofia, di cui è
Preside. Deputato del Parlamento italiano, divenendo componente della VII
Commissione Cultura della Camera. Opere
In una delle sue opere principali, Tecnica e Metafisica. Saggio su Heidegger,
Mazzarella indaga i processi decostruttivo-ermeneutici sottintesi
all'heideggeriana storia della metafisica occidentale, fino a formulare
un'ipotesi "ecologica"(in senso originario, come pensiero relativo
all'abitare dell'uomo) relativa alle interpretazioni del "logos"
eracliteo e della categoria aristotelica della "physis" riscontrate
nei saggi successivi alla cosiddetta "svolta" del pensiero di
Heidegger. In Vie d'uscita. L'identità
umana come programma stazionario metafisico, le aporie di una metafisica del
fondamento sono affiancate alla dimensione tecnica della contemporaneità,
intesa storicisticamente come epoca del compimento del nichilismo. Centrale
diventa l'idea di un "essere-alla-vita", categoria che richiama in
modo lampante l'"essere-nel-mondo" di heideggeriana memoria; le
questioni teoretiche vengono così ridotte a questioni etiche riguardanti
un'ontologia minima, ove la filosofia prima si trasformi in filosofia seconda,
lasciando il posto ad un programma metafisico-antropologico di custodia e
mantenimento della e nella propria epoca. L'essere-alla-vita necessita di
intendere la cultura come “endiadi di natura e storia, ma in questa endiadi
natura prima ancora che storia”. Pensare
e credere. Tre scritti cristiani rappresenta un altro orizzonte del pensiero di
M.; il rapporto tra religione rivelata e filosofia si gioca sullo sfondo di una
prospettiva storicista di matrice diltheyana, sebbene non siano esenti dalla
riflessione Hegel, Schelling e la teologia dialettica contemporanea.
Interessante è la prospettiva di una religione come "integrazione" e
apertura all'amore fraterno, configurato nel concetto di
"agape". I suoi scritti sono
in ogni caso contrassegnati, com'è tipico della recente scuola di pensiero
napoletana, sorta sulla scia delle dottrine di Croce, da una ripresa di temi
propri dello storicismo (Nietzsche e la storia. Storicità e ontologia della
vita). In un dialogo costante con i
teologi più liberali e moderni, quale ad es. Forte, M. si è occupato
specificamente dei temi della bioetica, coniugando il tema della tutela della
vita alla ripresa del concetto di sacralità (Sacralità e vita). In Opera media ha inoltre messo in luce un
talento poetico non indifferente, che gli è valso l'apprezzamento della critica
e diversi riconoscimenti. Ha composto quattro raccolte di poesie, e pubblicato
singoli componimenti in diverse antologie.Finalista al Premio di poesia “Città
di Vita”, Firenze, e nel 1999 ha vinto il Premio Speciale “La finestra” al
Premio Nazionale di poesia “Alessandro Tanzi” perUn mondo ordinato. Saggi: “Tecnica e metafisica” -- saggio su Heidegger
(Guida, Napoli); “Nietzsche e la storia: ontologia della vita” (Guida, Napoli);
“Storia metafisica ontologia” -- Per una storia della metafisica” (Morano,
Napoli, -- Grice: “What Mazzarella is proposing is what I did for the BBC: a
history of metaphysics; philosophical tutees are too accustomed to ‘history of
philosophy,’ but surely each branch requires a separate history! “storia della
metafisica” does just that!” – “storia della semantica” hardly sounds as sexy,
and “storia della pragmatica” sounds repugnantly academese!” -- “Ermeneutica dell'effettività” -- Prospettive
ontiche dell'ontologia” (Guida, Napoli, -- Grice: “Note that Mazzarella is
exploring the ‘effectivity,’ not the ‘affectivity’ – ex-fecto, not ad-fecto – “Filosofia
e teo-logia” -- di fronte a Cristo (Cronopio,
Napoli); “Sacralità” -- e vita, Quale etica per la bio-etica? (Guida, Napoli); Heidegger
oggi, M., Mulino, Bologna, “Pensare e credere” Morcelliana, Brescia, “Vie
d'uscita. L'identità umana come programma stazionario metafisico” (Melangolo,
Genova); Opera media. Poesie, Melangolo, Genova, Lirica e filosofia,
Morcelliana, Brescia, Vita Politica Valori. Sensibilità individuali e sentire
comunitario, Guida, Napoli, “Anima madre,” Art studio Paparo, Napoli, “L'uomo
che deve rimanere,” Quodlibet, Macerata,. S. Venezia, Nota bio-bibliografica,
in Amato, Catena, Russo, L'ethos teoretico. Scritti in onore di M., Napoli,
Guida, Archivio degli articoli di
Eugenio Mazzarella nel sito "ilsussidario.net". Curriculum vitae,
pubblicazioni e attività di ricerca nel sito dell'Università degli Studi di
Napoli Federico II, su docenti.unina. Grice: “The fact that he calls himself a
Christian has me calling him a NON-PHILOSOPHER!” – Eugenio Mazzarella. Mazzarella.
Keywords: implicatura. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Mazzarellla” – The
Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!;
ossia, Grice e Mazzei: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale
– filosofia toscana – filosofia fiorentina -- -- filosofia italiana -- Luigi
Speranza (Poggio a Caiano). Filosofo
italiano. Poggio, Toscana. Grice: “Not every philosopher has a city, ‘Colle,’
named after him!” -- Grice: “I like Mazzei; he is hardly a philosopher, but the
Italians consider among the ‘filosofi italiani,’ – there is a good wine,
“Mazzei,” since Mazzei, when travelling to the Americas, transplanted a grape
from his paese – the descendants still grow it! In oltre, he was influential in the
‘risorgimento’!” -- essential Italian philosopher.Massone e cadetto di una nobile famiglia toscana di
viticoltori, probabilmente risalente all'XI secolo e ancora esistente nel XXI
secolo, fu personaggio energico ed eclettico, illuminista, promulgatore delle
libertà individuali, dei diritti civili e della tolleranza religiosa. Visse una
vita avventurosa e movimentata, con alterne fortune economiche. Sebbene
sia sconosciuto al grande pubblico, partecipò attivamente alla guerra
d'indipendenza americana come agente mediatore all'acquisto di armi per la
Virginia, ed è ritenuto dagli storici uno dei padri della Dichiarazione
d'Indipendenza americana, in quanto intimo amico dei primi cinque presidenti
statunitensi: George Washington, John Adams, James Madison, James Monroe e
soprattutto Thomas Jefferson, di cui fu ispiratore, vicino di casa, socio in
affari e con cui rimase in contatto epistolare fino alla morte. Iniziato
alla Massoneria, fu poi spettatore privilegiato della rivoluzione
francese. La sua figura storica è riemersa alla fine Professoregrazie
all'infittirsi degli studi accademici in occasione del bicentenario della
rivoluzione americana, fino ad essere onorato in occasione del 250º
anniversario della sua nascita nel 1980 con un'emissione filatelica congiunta
speciale delle poste italiane e statunitensi. Dopo gli studi
compiuti tra Prato e Firenze, nel 1752, in seguito a dissapori con il fratello
maggiore Jacopo sulla gestione del patrimonio familiare, si stabilì a Pisa e
poi a Livorno, intraprendendo con successo l'attività di medico. Dopo solo due
anni lasciò la città e si trasferì a Smirne (Turchia) come chirurgo a seguito di
un medico locale. Gunse a Londra dove, dopo un iniziale periodo irto di
difficoltà economiche che lo vide arrangiarsi con l'insegnamento dell'italiano,
riuscì nel corso dei tre lustri successivi ad arricchirsi con il commercio dei
prodotti mediterranei, principalmente del vino, inserendosi lentamente nei
salotti dell'alta borghesia londinese. Una breve parentesi italiana si
concluse con un precipitoso ritorno in Inghilterra, a seguito di una denuncia
al tribunale dell’Inquisizione per “importazione di libri proibiti”.
L'illuminismo e le idee di libertà religiosa che animavano il Mazzei, ben tollerate
nella Londra di fine XVIII secolo, erano ancora tabù nella realtà
italiana. La Rivoluzione americana In questi circoli londinesi Filippo M.
conobbe Franklin e Adams, che da lì a pochi anni sarebbero stati tra i
protagonisti della rivoluzione americana. Le colonie americane si
autogovernavano, perlomeno sulle questioni locali, tramite assemblee di
delegati liberamente eletti dai capifamiglia, e l'ordinamento giuridico era
ispirato al meglio della legislazione inglese, che pure in quegli anni era
probabilmente la più avanzata, garantista e liberale che esistesse.
Invitato dagli amici d'oltreoceano, spinto sia dalla curiosità dell'inedita
forma di governo, ma soprattutto dalla disponibilità di terre e quindi dalla
prospettiva di impiantare nel nuovo mondo coltivazioni mediterranee, Mazzei si
trasferì in Virginia, con al seguito un gruppo di agricoltori toscani. A lui si
unirono anche una vedova Maria Martin, che egli sposò, e l'amico Bellini che
sarebbe divenuto il primo insegnante di italiano in un'università americana, il
College of William and Mary in Virginia. Inizialmente diretto in altro
sito, Mazzei si fermò presso la tenuta di Monticello per incontrare Jefferson,
con il quale già intratteneva rapporti epistolari e vantava amicizie comuni, e
fu da lui convinto a trattenersi in loco, arrivando a cedere circa 0,75 km²
della sua tenuta in favore dell'italiano. Da questa cessione nacque la tenuta
di Colle (il nome deriva da Colle di Val d'Elsa, perché il Mazzei aveva preso
ad esempio la campagna attorno alla città toscana), successivamente ampliata.
Lo univa a Jefferson un sodalizio commerciale, con il primo impianto di una
vigna nella colonia della Virginia, ma soprattutto un sodalizio intellettuale,
frutto di una comune visione politica e di ideali condivisi, che si sarebbe
protratto per oltre 40 anni. Il livello delle frequentazioni americane
trascinò velocemente Mazzei, arrivato con mere intenzioni imprenditoriali,
nella vita politica della ribollente colonia della Virginia. Fu autore di veementi
libelli contro l'opprimente dominazione inglese, inneggianti alla libertà ed
all'uguaglianza. Alcuni di questi scritti furono tradotti in inglese dallo
stesso Jefferson, che rimase influenzato da tali ideali, tanto da ritrovare
successivamente alcune frasi di Mazzei trasposte nella Dichiarazione
d'indipendenza degli Stati Uniti d'America. Eletto speaker dell'assemblea
parrocchiale dopo solo sei mesi dal suo arrivo in Virginia, ebbe modo di
esporre le sue idee sulla libertà religiosa e politica a un vasto oratorio,
composto anche di persone umili e ignoranti, che lo ascoltavano assorte. Un suo
scritto, Instructions of the Freeholders of Albemarle County to their Delegates
in Convention, redatto come istruzioni per i delegati della contea di Albemarle
alla convenzione autoconvocatasi dopo lo scioglimento forzato dell'assemblea
della Virginia imposto dal governatore inglese, fu utilizzato da Jefferson come
bozza per il primo tentativo di scrittura della costituzione dello Stato della
Virginia. La sua affermazione politica seguiva di pari passo i rovesci
economici, perché il clima e il terreno della Virginia non si erano dimostrati
particolarmente graditi a vite e olivo, e nel 1774 un'eccezionale gelata aveva
distrutto buona parte delle stentate coltivazioni impiantate con tanta
fatica. Naturalizzato cittadino della Virginia, volontario delle prime
ore nella guerra d'indipendenza americana, e inviato in Europa da Jefferson e
Madison per cercare prestiti, acquistareo meglio, contrabbandarearmi e ottenere
informazioni politiche e militari utili alla nascente nazione. In questo
periodo scrisse articoli, fece interventi pubblici e cercò di avviare rapporti
commerciali e politici tra gli Stati europei e la Virginia. Per tali servizi fu
ufficialmente retribuito dallo Stato dell Virginia. Rientrato in Virginia,
con suo grande disappunto non fu nominato console. Ricevette I'incarico di
amministratore della contea di Albemarle, ma solo due anni dopo nel 1785 lasciò
per l'ultima volta il suolo americano, mantenendo comunque contatti epistolari
con molti di quelli che sono definiti “padri della patria” statunitensi e in
particolare con Jefferson, che ebbe modo di reincontrare successivamente a
Parigi. Sua moglie rimase fino alla sua morte alla tenuta del Colle, che Mazzei
aveva donato alla figliastra, Margherita Maria Martini e al di lei marito, il
francese Plumard, Comte De Rieux. La Rivoluzione francese e le vicende
europee Targa a Pisa, sulla casa in cui morì/ A Parigi pubblicò una
voluminosa opera in quattro volumi Recherches historiques et politiques sur les
États-Unis de l'Amérique Septentrionale. Si trattava della prima storia della
rivoluzione americana pubblicata in francese. L'opera è tuttora una preziosa
fonte di informazioni sul movimento che innescò la rivoluzione americana.
Il successo del libro e la notorietà delle sue idee, uniti alla costante
attività di propaganda a favore dei neonati Stati Uniti d'America, lo fece
venire in contatto con re Stanislao Augusto di Polonia, illuminato sovrano liberale,
di cui divenne prima consigliere e poi rappresentante a Parigi. Da questa
posizione privilegiata poté seguire la rivoluzione francese, di cui condannò la
deriva giacobina. Preso atto della rovina economica, nel 1791 si trasferì a
Varsavia, assumendo la cittadinanza polacca e contribuendo alla stesura della
costituzione. Dopo un anno passato a Varsavia, a seguito della
spartizione della Polonia nel 1792 rientrò definitivamente in Toscana,
stabilendosi a Pisa. Lì sposa Antonina Tonini, da cui ebbe una figlia,
Elisabetta. E testimone dell'arrivo delle truppe repubblicane francesi a Pisa e
poi della loro cacciata, e fu coinvolto pur senza danni nei successivi processi
intentati dal bargello ai liberali pisani che si riunivano durante la breve
occupazione al Caffè dell'Ussero sul lungarno. Ultimi anni M. visse
quietamente altri 17 anni, dedicandosi ai propri studi di orticoltura e
limitandosi a frequentare una ristretta cerchia di salotti praticati da giovani
liberali, di cui era ispiratore. In conseguenza del dissolvimento della Polonia
operata da Russia e Prussia nel 1795, lo zar Alessandro I si accollò i debiti
della corte polacca e Mazzei poté fruire di un vitalizio. M. rimase sempre
nostalgico della Virginia e dei suoi amici americani, che ne auspicavano il
ritorno e con i quali mai interruppe il contatto epistolare. Nonostante i
ripetuti progetti di un viaggio in America, Mazzei non fu mai capace di
affrontare questa nuova avventura. Ebbe modo di assistere all'ascesa e alla
caduta di Napoleone Bonaparte e scrisse le proprie memorie, pubblicate nel
1848, oltre trent'anni dopo la sua morte a Pisa. Saggi: “Stanislao Re di Polonia” (Roma:
Istituto storico italiano per l'età moderna e contemporanea); “Ricerche
storiche sull’America” (Firenze, Ponte
alle Grazie); “Memorie” Gino Capponi, Lugano, Tip. della Svizzera Italiana); “Del
commercio della seta fatto in Inghilterra dalla Compagnia delle Indie
Orientali” S. Gelli, Poggio a Caiano, Comune di Poggio a Caiano); “Le
istruzioni per i delegati alla convenzione” (Firenze, Morgana); “Opere di suor
Margherita Marchione “Scelta di scritti e lettere,”“Agente di Virginia durante
la rivoluzione americana” “Agente del Re di Polonia durante la Rivoluzione
Francese”“La vita avventurosa di M,” Cassa di Risparmi e Depositi, Prato. Marchione
Margherita: La vita avventurosa Marchione Margherita, Curiosità.A inizio degli
anni 2000, fra alcuni intellettuali toscani appassionati della sua figura è
circolata la speculazione che Mazzei potrebbe aver ispirato persino la bandiera
statunitense, adottata dal Congresso un
anno dopo la Dichiarazione d'Indipendenza. La suggestione nasce dall'importanza
che l'alternanza dei colori rosso e bianco ha nell'araldica toscana e non solo
e di cui un esempio famoso è l'insegna di Ugo di Toscana. Potrebbe forse aver
discusso anche di araldica con gl’americani. Le radici storiche della bandiera
americana sono, in realtà, nella Grand Union Flag. In suo ricordo è stato
istituito il premio The Bridge. La cerimonia è stata istituita a Roma per
celebrare un toscano che insieme ai padri costituenti degli Stati Uniti
d'America da vita alla stesura della dichiarazione d'indipendenza. Sua era la
frase. Tutti gli uomini sono per natura liberi ed indipendenti. Russo, Nasce a
Firenze un museo che racconta la massoneria, in La Repubblica, Firenze,
Riferito al museo dedicato alla storia della Massoneria in Italia. Premio. Dalla Toscana all'America: il suo contributo,
Poggio a Caiano, Comune di Poggio a Caiano, Becattini Massimo, Mercante italiano
a Londra, Poggio a Caiano, Comune di Poggio a Caiano, Bolognesi Andrea, L. Corsetti,
L. Stadio, Mostra di cimeli e scritti, catalogo della mostra a cura di, Poggio
a Caiano, palazzo Comunale, Comune di Poggio a Caiano. Camajani Guelfo Guelfi,
un illustre Toscano: medico, agricoltore, scrittore, giornalista, diplomatico,
Firenze, Associazione Toscani, Ciampini Raffaele, Lettere alla corte di Polonia
Bologna: N. Zanichelli, Corsetti Luigi, Gradi Renzo, Avventuriero della Libertà,
con scritti di Marchione e Tortarolo, Poggio a Caiano, C.I.C. Associazione Culturale
"Ardengo Soffici", Di Stadio Luigi, Tra pubblico e privato. Raccolta
di documenti inediti, Poggio a Caiano, Biblioteca Comunale di Poggio a Caiano,
Fazzini Gianni, "Il gentiluomo dei tre mondi", Roma: Gaffi, Gerosa
Guido, Il fiorentino che fece l'America. Vita e avventure Milano, Sugar, Gradi
Renzo, Un bastimento carico di Roba bestie e uomini in un manoscritto, Poggio a
Caiano, Comune di Poggio a Caiano, Gradi Renzo, Parigi: Scritti e memorie, Comune
di Poggio a Caiano, Giovanni, Figure dimenticate dell'indipendenza, Francesco
Vigo, Roma: Il Veltro, Giancarlo, Iacopo, L'America fu concepita a Firenze,
Firenze: Bonechi,Tognetti Burigana Sara, Tra riformismo illuminato e dispotismo
napoleonico; esperienze del cittadino americano, Roma, Edizioni di Storia e
letteratura, Tortarolo Edoardo, Illuminismo e Rivoluzioni. Biografia politica
di M., Milano, Angeli, Łukaszewicz, M., Mazzini; saggi sui rapporti italo-polacchi
Abolizionismo Rivoluzione americana Rivoluzione francese Franklin Henry
Jefferson Mason Monroe William Paca Stanisław August Poniatowski Padri
fondatori degli Stati Uniti d'America Italo-Americani Dichiarazione
d'indipendenza degli Stati Uniti. Treccani Enciclopedie on line, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Enciclopedia
Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario biografico degli
italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana su siusa.archivi.beniculturali,
Sistema Informativo Unificato per le Soprintendenze Archivistiche. Jefferson, e
Vigo (video), su youtube. com. Jefferson Encyclopedia, su monticello. org. Il
circolo Filippo Mazzei Pisa, su circolo filippomazzei. net. M., chi era costui?, su mltoscana. blogspot.com.
Clan Libertario Toscano M., su mltoscana. blogspot.com. Il circolo Filippo
Mazzei, su geocities. com. Carteggio Thomas Jefferson M. I processi contro ed i liberali pisani, su idr.unipi. Monticello
the home of Thomas Jefferson, su monticello.org. famous americans. net. Another Site about P.Mazzei and
other famous Italian American, su Cleveland memory.org. M.,
Thomas Jefferson e gli scultori carraresi per la costruzione del Campidoglio
degli Stati Uniti di Nicola Guerra su farefuturofondazione. premio Filippo mazzei.
com. Memorie della
vita e delle peregrinazioni del fiorentino. Grice:
“The more Italian historians of philosophy, in their pretentiously and fake
patriotic prose, keep referring to this or that as ‘un illustre toscano’, the
less I am leaned to see Mazzei as ITALIAN at all!” – Paeseism with a
vengeance!” – Grice: “As a Brit, I find Mazzei a traitor – to his country, and
to mine!” -- Filippo Mazzei. Mazzei. Keywords: implicature, mazzei wine, vino mazzei, la
rivoluzione del nuovo mondo. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Mazzei,"
per il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria,
Italia.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Mazzini:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – la giovine italia
– la scuola di Genova -- filosofia ligure -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Genova). Filosofo ligure. Filosofo italiano. Genova, Liguria. Grice:
“Of course it is difficult for an Italian philosopher to approach the
philosophy of Mazzini cooly; it would be like me approaching the philosophy of
Horatio Nelson!” – Grice: “I’ve found ‘Il pensiero filosofico di Giuseppe
Mazzini’ quite helpful – the equivalent would be the pretentious sounding, “The
philosophical thought of Sir Winston Churchill,’ say!” -- Grice: “Luigi Speranza loves to cherish the
fact that an old street in Woolwich, of all places, is named after him, in a
way ‘Speranza,’ just because Garibaldi visited!” Grice: “Luigi Speranza also
cherishes the fact that Lady Wilde preferred ‘Speranza’ just to defend
Mazzini!” Esponente di punta del patriottismo
risorgimentale, le sue idee e la sua azione politica contribusceno in maniera
decisiva alla nascita dello STATO UNITARIO ITALIANO. Le condanne subite in
diversi tribunali d'Italia lo costringeno però alla latitanza fino alla morte.
Le teorie mazziniane sono di grande importanza nella definizione dei moderni
movimenti europei per l'affermazione della democrazia attraverso la forma
repubblicana dello stato. Nacque a Genova, allora capoluogo dell'omonimo
dipartimento francese costituito da parte del regime di Bonaparte. Il padre,
Giacomo, e medico e docente universitario d'anatomia originario di Chiavari,
una cittadina del Tigullio all'epoca capoluogo del dipartimento francese degli
Appennini, successivamente parte della provincia di Genova, figura
politicamente attiva nella scena pubblica locale, sia durante l'epoca della
precedente repubblica ligure, sia, in tempi successivi, dell'Impero
napoleonico. Alla madre, Maria Drago, una fervente giansenista originaria di Pegli,
un comune autonomo, accorpato nel comune di Genova, fu molto legato per tutta
la vita. Affettuosamente chiamato "Pippo" dalla famiglia, una volta
terminati gli studi superiori presso il cittadino Liceo classico Cristoforo
Colombo, si iscrisse a Genova. Si segnala per la sua ribellione ai regolamenti
di stampo religioso che imponeno di andare a messa e di confessarsi. E arrestato
perché, proprio in chiesa, si rifiuta di lasciare il posto a un generale
austriaco. Lo appassiona la letteratura: si innamorò delle letture di Goethe,
Shakespeare e Foscolo (pur senza condividerne la filosofia materialista),
restando così colpito dalle Ultime lettere di Jacopo Ortis da volersi vestire
sempre di nero, in segno di lutto per la patria oppressa. La passione per
la letteratura, insieme a quella per la musica (e un abile suonatore di
chitarra), la ha per tutta la vita:
oltre agli autori citati, lesse Dante, Schiller, Alfieri, i grandi poeti
romantici come Byron, Shelley, Keats, Wordsworth, Coleridge e i narratori come Dumas
padre e le sorelle Brontë. Ha il suo trauma rivelatore. Al passaggio a Genova
dei federati piemontesi reduci dal loro tentativo di rivolta, si affacciò in
lui il pensiero che si puo, e quindi si deve, lottare per la libertà della
patria. Cominciò ad esercitare la professione nello studio di un avvocato, ma
l'attività che lo impegnava era quella di giornalista presso l'Indicatore
genovese, sul quale inizia a pubblicare recensioni di saggi patriottici. La
censura lascia fare per un po', ma poi soppresse il giornale. Compone il
saggio, “Dell'amor patrio d’Aligheri”. Ottenne la laurea “in utroque iure”.
Entra nella carboneria, della quale divenne segretario in Valtellina. Ho
a lottare con il più grande dei soldati, Napoleone. Giunsi a mettere d'accordo
tra loro imperatori, re e papi. Nessuno mi dette maggiori fastidi di un
brigante italiano: magro, pallido, cencioso, ma eloquente come la tempesta,
ardente come un apostolo, astuto come un ladro, disinvolto come un commediante,
infaticabile come un innamorato, il quale ha nome: Giuseppe M.. (Klemens von
Metternich, Memorie ed. Bonacci). Per la sua attività cospirativa e arrestato
su ordine di Felice di Savoia e detenuto a Savona nella Fortezza del Priamar.
Durante la detenzione idea e formula il programma di un nuovo movimento
politico chiamato “Giovine Italia” che, dopo essere stato liberato per mancanza
di prove, presenta e organizzò a Marsiglia dove e costretto a rifugiarsi in
esilio. I motti dell'associazione erano Dio e popolo e unione, forza e libertà
e il suo scopo era l'unione degli stati italiani in un'unica repubblica con un
governo centrale quale sola condizione possibile per la liberazione del popolo
italiano dagli invasori stranieri. Il progetto federalista infatti, poiché senza
unità non c'è forza, ha fatto dell'Italia una nazione debole, naturalmente
destinata a essere soggetta ai potenti stati unitari a lei vicini. Il
federalismo inoltre avrebbe reso inefficace il progetto risorgimentale, facendo
rinascere quelle rivalità municipali, ancora vive, che avevano caratterizzato
la peggiore storia dell'Italia medioevale. L'obiettivo repubblicano e
unitario avrebbe dovuto essere raggiunto con un'insurrezione popolare condotta
attraverso una guerra per bande. Durante l'esilio in Francia, ha una relazione
con la nobildonna repubblicana Giuditta Bellerio Sidoli, vedova di Giovanni
Sidoli, ricco patriota di Montecchio Emilia. Giuditta aveva condiviso con il
marito la fede politica che, portandolo a cospirare contro la corte estense,
aveva costretto la coppia a esiliare in Svizzera. Colpito da una grave malattia
polmonare, muore a Montpellier. Poiché la vedova non aveva ricevuto alcuna
condanna, ritorna a Reggio Emilia presso la famiglia del marito con i suoi
quattro figli: Maria, Elvira, Corinna e Achille. Dopo il fallimento dei moti
dove fuggire in Francia dove conobbe Mazzini a cui si legò sentimentalmente. Dopo
il vano tentativo del 1831 di portare dalla parte liberale il nuovo re Carlo
Alberto di Savoia con la celebre lettera firmata "un italiano",
insieme a Berghini e Barberis, M. fu condannato in contumacia a "morte
ignominiosa" dal Consiglio Divisionario di Guerra, presieduto dal maggior
generale Saluzzo Lamanta. La condanna venne poi revocata nel 1848, quando Carlo
Alberto decise di concedere un'amnistia generale. Rifugiatosi nella cittadina svizzera di Grenchen, nel
canton Soletta, vi rimase sino a quando fu arrestato dalla polizia cantonale
che gli ingiunse di lasciare la Confederazione entro 24 ore. Per impedirne
l'allontanamento l'assemblea dei cittadini di Grenchen conferì al giovane
profugo la cittadinanza con 122 voti a favore e 22 contrari, invalidata però
dal governo cantonale. Mazzini, nascostosi nel frattempo, fu scoperto e dovette
lasciare la Svizzera assieme ad altri esuli, tra i quali Agostino e Giovanni
Ruffini. Comincia il lungo soggiorno a Londra, dove M. raccolse attorno a
sé esuli italiani e persone favorevoli al repubblicanesimo in Italia,
dedicandosi, per vivere, all'attività di insegnante dei figli degli italiani;
qui conobbe e frequentò anche diverse personalità inglesi, tra cui Mary Shelley
(vedova del poeta P.B. Shelley), Anne Isabella Milbanke (vedova di Lord Byron,
idolo di gioventù di M.), il filosofo ed economista John Stuart Mill, Thomas
Carlyle e sua moglie Jane Welsh, lo scrittore Charles Dickens, che finanziò la
sua scuola. Il poeta decadente Algernon Swinburne gli dedicò Ode a Mazzini.
Nello stesso quartiere di M. visse anche Marx. Durante il soggiorno
londinese M. ebbe una lunga relazione di amicizia con la famiglia Craufurd,
documentata da copiosa corrispondenza epistolare. Sempre a Londra ebbe rapporti
con la famiglia di Ashurst e con il genero di questi, il politico Stansfeld, la
cui consorte Caroline Ashurst Stansfeld e sostenitrice della società
"Society of the Friends of Italy". Per la causa dell'unificazione
italiana M. collaborò anche con il secolarista George Holyoake. Fondò poi
altri movimenti politici per la liberazione e l'unificazione di vari stati
europei: la Giovine Germania, la Giovine Polonia e infine la Giovine Europa.
Quest'ultima, fondata a Berna in accordo con altri rivoluzionari stranieri,
aveva tra i suoi principi ispiratori la costituzione degli Stati Uniti
d'Europa. In questa occasione Mazzini estese dunque il desiderio di libertà del
popolo italiano (che si sarebbe attuato con la repubblica) a tutte le nazioni
europee. L'associazione rivoluzionaria europea aveva come scopo specifico
l'agire dal basso in modo comune e, usando strumenti insurrezionali e
democratici, realizzare nei singoli stati una coscienza nazionale e
rivoluzionaria. Sulla scia della Giovine Europa M. fonda anche l'Alleanza
Repubblicana Universale. Il movimento della Giovine Europa ebbe anche un
forte ruolo di promozione dei diritti della donna, come testimonia l'opera di
numerose mazziniane, tra cui la citata Bellerio Sidoli, ma anche Cristina Trivulzio
di Belgiojoso e Saffi, la moglie di Saffi, uno dei più stretti collaboratori di
M. e suo erede per quanto riguarda il mazzinianesimo politico. M. continuò a
perseguire il suo obiettivo dall'esilio e tra le avversità con inflessibile
costanza, convinto che questo fosse il destino dell'Italia e che nessuno
avrebbe potuto cambiarlo. Tuttavia, nonostante la sua perseveranza,
l'importanza delle sue azioni fu più ideologica che pratica. Dopo il
fallimento dei moti del 1848, durante i quali M. era stato a capo della breve
Repubblica Romana insieme ad Aurelio Saffi e Carlo Armellini, i nazionalisti
italiani cominciarono a vedere nel re del Regno di Sardegna e nel suo Primo
Ministro Camillo Benso conte di Cavour le guide del movimento di
riunificazione. Ciò volle dire separare l'unificazione dell'Italia dalla
riforma sociale e politica invocata da M.. Cavour fu abile nello stringere
un'alleanza con la Francia e nel condurre una serie di guerre che portarono
alla nascita dello STATO ITALIANO ma la natura politica della nuova compagine
statale era ben lontana dalla repubblica mazziniana. A Londra per reagire
alla caduta della Repubblica Romana e in continuità con essa, M. fonda il Comitato Centrale Democratico Europeo
e il Comitato Nazionale Italiano, lanciando il Prestito Nazionale Italiano, le
cui cartelle portavano appunto lo stemma della Repubblica romana e
l'intitolazione del prestito «diretto unicamente ad affrettare l'indipendenza e
l'unità d'Italia». A garanzia del prestito le cartelle recavano la firma degli
ex triumviri Mazzini, Saffi e, in assenza dell'irreperibile Armellini, Mattia
Montecchi. La diffusione delle cartelle nel Lombardo-Veneto ebbe come immediata
conseguenza la ripresa dell'attività cospirativa e rivoluzionaria, soprattutto
a Mantova.. Messina fu chiamata al voto per eleggere i suoi deputati al
nuovo parlamento di Firenze. M. era candidato, nel secondo collegio, ma non
poté fare campagna elettorale perché esule a Londra. Pendevano sul suo capo due
condanne a morte: una inflitta dal tribunale di Genova per i moti (in primo
grado e in appello); un'analoga condanna a morte era stata inflitta dal
tribunale di Parigi per complicità in un attentato contro Napoleone III.
Inaspettatamente, M. vinse con larga messe di voti (446). Dopo due giorni di
discussione, la Camera annullava l'elezione in virtù delle condanne
precedenti. Il letto di morte di M., distrutto dagli aerei degli
Stati Uniti durante il bombardamento di Pisa. Maschera mortuaria di M., gesso,
Domus Mazziniana, Pisa Due mesi dopo gli elettori del secondo collegio di
Messina tornarono alle urne: vinse di nuovo M. La Camera, dopo una nuova
discussione, il 18 giugno riannullò l'elezione. IM. viene rieletto una terza
volta; dalla Camera, questa volta, arrivò la convalida. Mazzini, tuttavia,
anche nel caso fosse giunta un'amnistia o una grazia, decise di rifiutare la
carica per non dover giurare fedeltà allo Statuto Albertino, la costituzione dei
monarchi sabaudi. Egli infatti non accettò mai la monarchia e continuò a
lottare per gli ideali repubblicani. Lascia Londra e si stabilì in
Svizzera, a Lugano. Due anni dopo furono amnistiate le due condanne a morte
inflitte al tempo del Regno di Sardegna: Mazzini quindi poté rientrare in
Italia e, una volta tornato, si dedicò subito all'organizzazione di moti
popolari in appoggio alla conquista dello Stato Pontificio. L'11 agosto partì
in nave per la Sicilia, ma il 14, all'arrivo nel porto di Palermo, fu tratto in
arresto (la quarta volta nella sua vita) e recluso nel carcere militare di
Gaeta. Partito da Basilea e in viaggio nel passo del San Gottardo, conobbe
in una carrozza Nietzsche, allora poco conosciuto filologo e docente. Questo
incontro sarà testimoniato dallo stesso Nietzsche anni dopo. Costretto di
nuovo all'esilio, riuscì a rientrare in Italia sotto il falso nome di Giorgio
Brown (forse un riferimento a John Brown) a Pisa. Qui, malato già da tempo,
visse nascosto nell'abitazione di Pellegrino Rosselli, antenato dei fratelli
Rosselli e zio della moglie di Nathan, fino al giorno della sua morte, avvenuta
quando la polizia stava ormai per arrestarlo nuovamente. Traversie della
salma M. morente, Silvestro Lega La notizia della sua morte si diffuse
rapidamente, commuovendo l'Italia; il suo corpo fu imbalsamato dallo scienziato
Paolo Gorini, appositamente fatto accorrere da Lodi su incarico di Bertani:
Gorini disinfettò la salma per permettere l'esposizione. Una folla immensa
partecipò ai funerali, svoltisi nella città toscana il pomeriggio del 14 marzo,
accompagnando il feretro al treno in partenza per Genova, dove venne sepolto al
Cimitero monumentale di Staglieno. Le esequie furono accompagnate dalla
musica della storica Filarmonica Sestrese C. Corradi G. Secondo.
Successivamente Gorini ricominciò a lavorare sul corpo di M., onde
pietrificarlo secondo la sua tecnica di mummificazione; terminò il lavoro
qualche anno dopo. Avvenne la ricognizione della mummia, che fu sistemata ed
esposta al pubblico in occasione della nascita della Repubblica Italiana: da
allora riposa nuovamente nel sarcofago del mausoleo. Mausoleo Benché sia
incerta l'affiliazione di M. alla Massoneria fu l'associazione stessa a
commissionare il mausoleo all'architetto mazziniano Grasso che lo realizzò in
stile neoclassico adornandolo con alcuni simboli massonici. Il sepolcro
reca all'esterno la scritta “M” e all'interno sono presenti numerose bandiere
tricolori repubblicane e iscrizioni lasciate da gruppi mazziniani o da
personalità come Carducci. Sulla lapide è scolpita la scritta "M.. Un
Italiano" che era la firma da lui apposta nella lettera a Carlo Alberto, e
l'epitaffio: «Il corpo a Genova, il nome ai secoli, l'anima all'umanità. Testimonianze
di alcuni personaggi storici e una corrispondenza dello stesso M., citati
nell'opera dello studioso Luigi Polo Friz fanno ritenere che verosimilmente M.,
a differenza di altri celebri personaggi dell'epoca, come Garibaldi, non sia
mai stato affiliato alla massoneria, anche se questa ha ripreso molti degli
ideali mazziniani, simili ai suoi. La principale obbedienza italiana,
l'unica attiva all'epoca di Mazzini in Italia, il Grande Oriente d'Italia,
afferma l'impossibilità di provare l'appartenenza di Mazzini, che pure ebbe
influenza nella società, anche se non partecipò mai alla vita
dell'associazione, occupato com'era nella causa della "sua" società
segreta, la Giovine Italia. In effetti M. fu carbonaro, ma la Carboneria fu
presto distinta dalla massoneria. Montanelli afferma invece che probabilmente
Mazzini fu massone. Dello stesso parere è Massimo Della Campa, che in una
"Nota su Mazzini" fa riferimento al libro dell'ex-Gran Maestro del
grande Oriente d'Italia Giordano Gamberini, Mille volti di massoni (Erasmo,
Roma), che a119 scrive a proposito di M.: «Iniziato a Genova, secondo G.
Fazzari e F. Borsari (Luce e concordia). Ricevette dal Fr. Passano il 32° grado
del R.S.A.A., necessario per corrispondere in Carboneria al livello di Vendita
Suprema, nelle carceri di Savona. Con decreto del S. C. di Palermo ricevette
l'aumento di luce al 33° grado e la qualifica di membro onorario del medesimo
Supremo Consiglio. Fu membro onorario delle LL. Lincoln di Lodi e Stella
d'Italia di Genova. Scrivendo a Logge, Corpi rituali e Fratelli usò sempre i
segni massonici. Nessun contemporaneo mise mai in dubbio l'appartenenza di M.
alla Massoneria.» M. stesso sembrerebbe però smentire la sua
partecipazione all'associazione in una lettera al massone Campanella, Sovrano
Gran Commendatore del Supremo Consiglio del Rito scozzese antico ed accettato
di Palermo, in cui, restituendogli le carte che questi gli aveva fatto
recapitare scriveva. La Massoneria accettando da anni e anni ogni uomo, senza
dichiarazioni d'opinioni politiche, s'è fatta assolutamente inutile a ogni
scopo nazionale. Per farne qualche cosa bisognerebbe prima una misura
d'eliminazione ed una di revisione delle file, poi una formula nazionale o
politica per l'iniziazione... Chi vuol intendere intenda. La patria è la casa
dell'uomo, non dello schiavo – M. Ai giovani d'Italia) Per comprendere a pieno
la dottrina politica di Mazzini bisogna rifarsi al pensiero religioso che
ispira il periodo della Restaurazione seguito alla caduta dell'impero
napoleonico. Nasce allora una nuova concezione della storia che smentiva quella
degli illuministi basata sulla capacità degli uomini di costruire e guidare la
storia con la ragione. Le vicende della Rivoluzione francese e il periodo
napoleonico avevano dimostrato che gli uomini si propongono di perseguire alti
e nobili fini che s'infrangono dinanzi alla realtà storica. Il secolo dei lumi
era infatti tramontato nelle stragi del Terrore e il sogno di libertà nella
tirannide napoleonica che, mirando alla realizzazione di un'Europa al di sopra
delle singole nazioni, aveva determinato invece la ribellione dei singoli
popoli proprio in nome del loro sentimento di nazionalità. Secondo questa
visione romantica dunque la storia non è guidata dagli uomini ma è Dio che
agisce nella storia; esisterebbe dunque una Provvidenza divina che s'incarica
di perseguire fini al di là di quelli che gli uomini si propongono di
conseguire con la loro meschina ragione. Da questa concezione romantica della
storia, intesa come opera della volontà divina si promanano due visioni
contrapposte: una è la prospettiva reazionaria che vede nell'intervento di Dio
nella storia una sorta di avvento di un'apocalisse che metta fine alla storia
degli uomini. Napoleone I è stato, con le sue continue guerre,
l'Anticristo di questa apocalisse: Dio segnerà la fine della storia malvagia e
falsamente progressiva e allora agli uomini non rimarrà che volgersi al passato
per preservare e conservare quanto di buono era stato realizzato. Si cercherà
dunque in ogni modo di cancellare tutto ciò che è accaduto dalla Rivoluzione a
Napoleone restaurando il passato. La concezione reazionaria contro cui M.
combatté strenuamente assume un aspetto politico-religioso che troviamo nel
pensiero di Chateaubriand che nel Génie du christianisme (Genio del
Cristianesimo) attaccava le dottrine illuministiche prendendo le difese del
cristianesimo e soprattutto nell'ideologia mistica teocratica di Joseph de
Maistre, che arriva nell'opera Du pape (Il papa) al punto di auspicare un ritorno dell'alleanza
tra il trono e l'altare riproponendo il modello delle comunità medioevali
protette dalla religione tradizionale contro le insidie del liberalismo e del
razionalismo. Un'altra prospettiva, che nasce paradossalmente dalla stessa
concezione della storia guidata dalla divinità, è quella che potremo definire
liberale che vede nell'azione divina una volontà diretta, nonostante tutto, al
bene degli uomini escludendo che nei tempi nuovi ci sia una sorta di vendetta
di Dio che voglia far espiare agli uomini la loro presunzione di creatori di
storia. È questa una visione provvidenziale, dinamica della storia che troviamo
in Saint Simon con la concezione di un nuovo cristianesimo per una nuova
società o in Lamennais che vede nel cattolicesimo una forza rigeneratrice della
vita sociale. Una concezione progressiva quindi che è presente in Italia
nell'opera letteraria di Manzoni e nel pensiero politico di Gioberti con il
progetto neoguelfo e nell'ideologia mazziniana. Concezione mazziniana
«Costituire l'Italia in Nazione Una, Indipendente, Libera, Repubblicana – M., Istruzione generale per gli affratellati nella
Giovine Italia) Magnifying glass icon mgx2.svg Mazzinianesimo. Dio e popolo
«Noi cademmo come partito politico. Dobbiamo risorgere come partito religioso.
L'elemento religioso è universale, immortale: universalizza e collega. Ogni
grande rivoluzione ne serba impronta, e lo rivela nella propria origine o nel
fine che si propone. Per esso si fonda l'associazione. Iniziatori d'un nuovo
mondo, noi dobbiamo fondare l'unità morale, il cattolicismo Umanitario. Il
pensiero politico mazziniano deve dunque essere collocato in questa temperie di
romanticismo politico-religioso che dominò in Europa dopo la rivoluzione ma che
era già presente nei contrasti al Congresso di Vienna tra gli ideologi che
proponevano un puro e semplice ritorno al passato prerivoluzionario e i
cosiddetti politici che pensavano che bisognasse operare un compromesso con
l'età trascorsa. Alcuni storici hanno fatto risalire la concezione
religiosa di M. all'educazione ricevuta dalla madre fervente giansenista
(almeno fino agli anni '40 fa spesso riferimenti biblici ed evangelici) o ad
una vicinanza ideale col protestantesimo e le chiese riformate ma, secondo
altri, la visione religiosa di Mazzini non coinciderebbe con quella di nessuna
religione rivelata. Il personale concetto mazziniano di Dio, che per alcuni
tratti è avvicinabile al deismo settecentesco, con evidenti influssi della
religiosità civica e preromantica di Rousseau, per altri versi al Dio
panteistico degli stoici, è alla base di una religiosità che tuttavia esige la
laicità dello Stato (questo nonostante la dichiarata contraddizione poiché se,
come egli crede, politica e religione coincidono, non avrebbe senso separare la
sua concezione teologica da quella politica e l'assenza di intermediari tra Dio
e il popolo. Per ciò e per il ruolo avuto nella storia umana e italiana, define
il papato la base d'ogni autorità tirannica. Un altro influsso sulla sua
concezione religiosa è stato visto nella considerazione che ha per la religione
CIVILE di ispirazione ROMANA e per l'ammirazione verso la prima Roma, antica e
pagana, che passando per la seconda Roma, cristiana e medievale, prepara il
campo alla terza Roma future. Un mito questo, romantico-neoclassico, che e
fatto proprio da Carducci e poi dal fascismo, con il filosofo Ricci -- e dalla
massoneria con l'esoterista Reghini e avvicina il mazzinianesimo anche al culto
massonico del Grande Architetto dell'Universo. In realtà rifiuta non solo
l'ateismo (è questa una delle divisioni ideologico-teoriche che egli ebbe con
altri repubblicani come Pisacane) e il materialismo L'ateismo, il materialismo
non hanno, sopprimendo Dio, una legge morale superiore per tutti e sorgente del
Dovere per tutti...»), ma anche il trascendente, in favore dell'immanente: egli
crede nella reincarnazione, per poter migliorare di continuo il mondo e
migliorare sé stessi. Una concezione questa tratta probabilmente da Platone o
dalle religioni orientali come l'induismo e il buddismo, religioni alle quali
Mazzini si era interessato. Come altri patrioti, letterati, rivoluzionari delle
società segrete francesi, inglesi e italiane Mazzini vide nell'abate calabrese
Gioacchino da Fiore, l'autore di una profezia riguardante l'avvento della Terza
Età o Età dello Spirito Santo quando sarebbe sorta la Terza Italia che sarebbe
rinata, libera dalle dominazioni straniere, come la nazione che avrebbe
esercitato un primato sulle altre per la presenza della Chiesa cattolica: tema
questo poi ripreso da Gioberti nel suo Primato morale e civile degli
Italiani. M. ebbe grande interesse per Gioacchino tanto da volergli
dedicare un trattato rimasto inedito Joachino, appunti per uno studio storico
sull'abate Gioacchino], che considerava un suo precursore per gli ideali
sociali e politici da realizzare tramite un'unità spirituale e storica.
Religione civile La sua è stata anche definita una religione civile dove la
politica svolgeva il ruolo della fede e dove la divinità si incarna in modo
panteista nell'Universo e nell'Umanità stessa, che attua la Legge che nel
Progresso si rivela. Egli afferma di credere che Dio è Dio, e l'Umanità è il
suo Profeta, che il popolo romano è immagine di Dio sulla terra e vi è«un Dio
solo, autore di quanto esiste, Pensiero vivente, assoluto, del quale il nostro
mondo è raggio e l'Universo una incarnazione. Per lui non conta che la sua
intima credenza sia razionale o no, come il Dio di Voltaire e Newton che è
invocato come la causa prima dell'ordine naturale, poiché «Dio esiste. Noi non
dobbiamo né vogliamo provarvelo: tentarlo, ci sembrerebbe bestemmia, come
negarlo, follia. Dio esiste, perché noi esistiamo» anche se, specifica,
«l'universo lo manifesta con l'ordine, con l'armonia, con l'intelligenza dei
suoi moti e delle sue leggi. E altresì convinto che fosse ormai presente nella
storia un nuovo ordinamento divino nel quale la lotta per raggiungere l'unità
nazionale assumeva un significato provvidenziale. «Operare nel mondo
significava per il M. collaborare all'azione che Dio svolgeva, riconoscere ed
accettare la missione che uomini e popoli ricevono da Dio. Per questo bisogna
«mettere al centro della propria vita il dovere, senza speranza di premio,
senza calcoli di utilità. Quello di M. era un progetto politico, ma mosso da un
imperativo religioso che nessuna sconfitta, nessuna avversità avrebbe potuto
indebolire. «Raggiunta questa tensione di fede, l'ordine logico e comune degli
avvenimenti veniva capovolto; la disfatta non provocava l'abbattimento, il successo
degli avversari non si consolidava in ordine stabile.». La storia dell'umanità
dunque sarebbe una progressiva rivelazione della Provvidenza divina che, di
tappa in tappa, si dirige verso la meta predisposta da Dio. Esaurito il
compito del Cristianesimo, chiusasi l'era della Rivoluzione francese ora
occorreva che i popoli prendessero l'iniziativa per «procedere concordi verso
la meta fissata al progresso umano». Ogni singolo individuo, come la
collettività, tutti devono attuare la missione che Dio ha loro affidato e che
attraverso la formazione ed educazione del popolo stesso, reso consapevole
della sua missione, si realizzerà attraverso due fasi: Patria e Umanità.
Patria e umanità Targa in onore di M. sulla casa londinese Senza una
patria libera nessun popolo può realizzarsi né compiere la missione che Dio gli
ha affidato; il secondo obiettivo sarà l'Umanità che si realizzerà
nell'associazione dei liberi popoli sulla base della comune civiltà europea
attraverso quello che Mazzini chiama il banchetto delle Nazioni sorelle. Un
obiettivo dunque ben diverso da quella confederazione europea immaginata da
Napoleone dove la Francia avrebbe esercitato il suo primato egemonico di Grande
Nation. La futura unità europea non si realizzerà attraverso una gara di
nazionalismi ma attraverso una nobile emulazione dei liberi popoli per
costruire una nuova libertà. Il processo di costruzione europea, secondo M.,
doveva svolgersi prima di tutto attraverso l'affermazione delle nazionalità
oppresse, come quelle facenti parte dell'Impero asburgico, e poi anche di
quelle che non avevano ancora raggiunto la loro unità nazionale.
Iniziativa italiana In questo processo unitario europeo spetta all'Italia
un'alta missione: quella di riaprire, conquistando la sua libertà, la via al
processo evolutivo dell'Umanità: la redenzione nazionale italiana apparirà
improvvisa come una creazione divina al di fuori di ogni inutile e inefficace
metodo graduale politico diplomatico di tipo cavouriano. L'iniziativa italiana
che avverrà sulla base della fraternità tra i popoli e non rivendicando alcuna
egemonia, come aveva fatto la Francia, consisterà quindi nel dare l'esempio per
una lotta che porterà alla sconfitta delle due colonne portanti della reazione,
di quella politica dell'Impero Asburgico e di quella spirituale della Chiesa
cattolica. Raggiunti gli obiettivi primari dell'unità e della Repubblica
attraverso l'educazione e l'insurrezione del popolo, espressi dalla formula di
Pensiero ed azione, l'Italia darà quindi il via a questo processo di
unificazione sempre più vasta per la creazione di una terza civiltà formata
dall'associazione di liberi popoli. Funzione della politica Il
mausoleo di M. nel cimitero monumentale di Staglieno, realizzato
dall'architetto mazziniano Grasso. La politica è scontro tra libertà e
dispotismo e tra queste due forze non è possibile trovare un compromesso:
si sta svolgendo una guerra di principi che non ammette transazioni; M. esorta
la popolazione a non accontentarsi delle riforme che erano degli accomodamenti
gestiti dall'alto: non radicavano, cioè, nello spirito del tempo quella libertà
e quell'uguaglianza di cui il popolo aveva bisogno. La logica della
politica è logica di democrazia e libertà, non accettabili dalle forze
reazionarie; contro di esse è necessaria una brusca rottura rivoluzionaria:
alla testa del popolo vi dovrà essere la classe colta (che non può più
sopportare il giogo dell'oppressione) e i giovani (che non possono più
accettare le anticaglie dell'antico regime). Questa rivoluzione deve portare
alla Repubblica, la quale garantirà l'istruzione popolare. La
rivoluzione, che è anche pedagogico strumento di formazione di virtù personali
e collettive, deve iniziare per ondate, accendendo focolai di rivolta che
incitino il popolo inconsapevole a prendere le armi. Una volta scoppiata la
rivoluzione si dovrà costituire un potere dittatoriale (inteso come potere
straordinario alla maniera dell'Antica Roma, non come tirannide) che gestisca
temporaneamente la fase post-rivoluzionaria. Il governo verrà restituito al
popolo non appena il fine della rivoluzione verrà raggiunto, il prima
possibile. La Giovane Italia deve educare alla gestione della cosa
pubblica, ad essere buoni cittadini, non è, perciò, esclusivamente uno
strumento di organizzazione rivoluzionaria. Il popolo deve avere diritti e
doveri, mentre la rivoluzione francese si è concentrata esclusivamente sui
diritti individuali: fermandosi ai diritti dell'individuo aveva dato vita ad
una società egoista; l'utile per una società non va mai considerato secondo il
bene di un singolo soggetto ma secondo il bene collettivo. Non crede
nell'eguaglianza predicata dal marxismo e al sogno della proprietà comune
sostituisce il principio dell'associazionismo, che è comunque un superamento
dell'egoismo individuale.Questione sociale M. affrontò la questione sociale
negli scritti più tardi, ad esempio nei Doveri dell'uomo Rifiuta il marxismo,
convinto com'è che per spingere il popolo alla rivoluzione sia prioritario
indicargli l'obiettivo dell'unità, della repubblica e della democrazia. M. fu
tra i primi a considerare la grave questione sociale presente che era
soprattutto in Italia la questione contadina, come gli indica Pisacane, ma egli
pensava che questa dovesse essere affrontata e risolta solo dopo il raggiungimento
dell'unità nazionale e non attraverso lo scontro delle classi, ma con una loro
collaborazione (interclassismo), da raggiungersi però organizzando
l'associazionismo e il mutualismo fra gli operai, il soggetto più debole. Un
programma il suo di solidarietà nazionale che se non contemplava l'autonomia
culturale e politica del proletariato non si rivolse solo al ceto medio
cittadino, agli intellettuali, agli studenti, fra i quali raccolse i consensi
più ampi, ma anche agli artigiani e ai settori più consapevoli dei propri
diritti fra gli operai. M. criticò il marxismo e fu da Marx biasimato per
gli aspetti dottrinali idealistici e per gli atteggiamenti profetici che egli
assumeva nel suo ruolo di educatore religioso e politico del popolo. Marx,
risentito per gli attacchi di M. al comunismo, da lui definito col termine
inglese «dictatorship» (cioè «dittatura»), lo definì in alcuni articoli
teopompo, cioè «inviato di Dio e papa della chiesa democratica, dandogli anche
sprezzantemente del «vecchio somaro» e paragonandolo a Pietro l'Eremita. Forte
sarà il contrasto tra Marx e l'inviato personale di M. (oltre che con Garibaldi
che ne prese le difese) alla Prima Internazionale. Critica i socialisti per il
proclamato internazionalismo dei loro tempi, venato di anarchismo e di forte
negazionismo, per l'attenzione da essi rivolta verso gli interessi di una sola
classe: il proletariato. Inoltre egli definiva arbitrario e impossibile a pretendere
l'abolizione della proprietà privata: così si sarebbe dato un colpo mortale
all'economia che non avrebbe premiato più i migliori. La critica maggiore era
rivolta contro il rischio che le ideologie socialiste estremistiche portassero
a un totalitarismo: egli previde con lungimiranza quello che avverrà con la
Rivoluzione in Russia, cioè la formazione di una nuova classe di padroni
politici e lo schiacciamento dell'individuo nella macchina industriale del
socialismo reale. Da queste critiche ne venne la valutazione negativa di
Mazzini sulla rivolta che portò alla Comune di Parigi. Mentre per Marx e
Michail Bakunin quello della Comune era stato un primo tentativo di distruggere
lo stato accentratore borghese realizzando dal basso un nuovo tipo di stato, Mazzini,
legato al concetto di Stato-nazione romantico, invece criticò la Comune vedendo
in essa la fine della nazione, la minaccia di uno smembramento della Francia.
Per salvaguardare l'economia e allo stesso tempo per tutelare i più poveri, M.
punta su una forma di lavoro cooperativo: l'operaio dovrà guardare oltre una
lotta basata solo sul salario ma promuovere spazi via via crescenti di economia
sociale con elementi di «piena responsabilità e proprietà sull'impresa».
M. punta sul superamento in senso sociale e democratico del capitalismo
imprenditoriale classico, anticipando in questo sia le teorie distribuzioniste
sia le teorie che esaltano il valore dell'associazione fra i produttori. In
Doveri dell'uomo scrisse: «Non bisogna abolire la proprietà perché oggi è di
pochi; bisogna aprire la via perché i molti possano acquistarla. Bisogna
richiamarla al principio che la renda legittima, facendo sì che solo il lavoro
possa produrla. La sua influenza sulla
prima fase del movimento operaio fu per questo molto importante e anche il
fascismo, in particolare la sua corrente repubblicana e socializzatrice, si
ispirerà al pensiero economico mazziniano come terza via corporativa tra il
modello capitalista e quello marxista. Cospirazioni e fallimento dei moti
mazziniani M. in una fotografia con autografo scattata da Domenico Lama I
moti mazziniani, ispirati ad un'ideologia repubblicana e antimonarchica furono
considerati sovversivi e quindi perseguiti da tutte le monarchie italiane
dell'epoca. Per i governi costituiti i mazziniani altro non erano che
terroristi e come tali furono sempre condannati. «Trovai tutti persuasi
che la Giovine Italia era pazzia; pazzia le sette, pazzie il cospirare, pazzie
le rivoluzioncine fatte sino a quel giorno, senza capo né coda» (Azeglio,
Degli ultimi casi di Romagna) Giovine Italia
«Su queste classi così fortemente interessate al mantenimento
dell'ordine sociale le dottrine sovversive della Giovine Italia non hanno
presa. Perciò ad eccezione dei giovani presso i quali l'esperienza non ha
ancora modificate le dottrine assorbite nell'atmosfera eccitante della scuola,
si può affermare che non esiste in Italia se non un piccolissimo numero di
persone seriamente disposte a mettere in pratica i principi esaltati di una
setta inasprita dalla sventura.» (Camillo Benso conte di Cavour). M. si
trova a Marsiglia in esilio dopo l'arresto e il processo subito l'anno prima in
Piemonte a causa della sua affiliazione alla Carboneria. Non potendosi provare
la sua colpevolezza infatti la polizia sabauda lo costrinse a scegliere tra il
confino in un paesino del Piemonte e l'esilio. Mazzini preferì affrontare l'esilio
e passa in Svizzera, da qui a Lione e infine a Marsiglia. Qui entrò in contatto
con i gruppi di Filippo Buonarroti e col movimento sainsimoniano allora diffuso
in Francia. Con questi si avviò un'analisi del fallimento dei moti nei
ducati e nelle Legazioni pontificie. Si concordò sul fatto che le sette
carbonare avevano fallito innanzitutto per la contraddittorietà dei loro
programmi e per l'eterogeneità delle classi che ne facevano parte. Non si era
riusciti poi a mettere in atto un collegamento più ampio delle insurrezioni per
le ristrettezze provinciali dei progetti politici, com'era accaduto nei moti di
Torino quand'era fallito ogni tentativo di collegamento con i fratelli
lombardi. Infine bisognava desistere dal ricercare l'appoggio dei principi e,
come nei moti dei francesi. Con la fondazione della Giovine Italia il
movimento insurrezionale andava organizzato su precisi obiettivi politici:
indipendenza, unità, libertà. Occorreva poi una grande mobilitazione popolare
poiché la liberazione italiana non si poteva conseguire attraverso l'azione di
pochi settari ma con la partecipazione delle masse. Rinunciare infine ad ogni
concorso esterno per la rivoluzione: «La Giovine Italia è decisa a giovarsi
degli eventi stranieri, ma non a farne dipendere l'ora e il carattere
dell'insurrezione. Gli strumenti per raggiungere queste mete erano l'educazione
e l'insurrezione. Quindi bisognava che la Giovane Italia perdesse il più
possibile il carattere di segretezza, conservando quanto necessario a
difendersi dalle polizie, ma acquistasse quello di società di propaganda,
un'«associazione tendente anzitutto a uno scopo di insurrezione, ma
essenzialmente educatrice fino a quel giorno e dopo quel giorno anche
attraverso il giornale La Giovine Italia, fondato del messaggio politico della
indipendenza, dell'unità e della repubblica. Durante il periodo dei
processi in Piemonte e il fallimento della spedizione di Savoia, l'associazione
scomparve per quattro anni, ricomparendo solo in Inghilterra. Dieci anni dopo,
il 5 maggio 1848, l'associazione fu definitivamente sciolta da M., che fondò al
suo posto l'Associazione Nazionale Italiana. Entusiastiche adesioni al
programma della Giovane Italia si ebbero soprattutto tra i giovani in Liguria,
in Piemonte, in Emilia e in Toscana che si misero subito alla prova organizzando
una serie di insurrezioni che si conclusero tutte con arresti, carcere e
condanne a morte. Oganizza il suo primo tentativo insurrezionale che aveva come
focolai rivoluzionari Chambéry, Torino, Alessandria e Genova dove contava vaste
adesioni nell'ambiente militare. Prima ancora che l'insurrezione
iniziasse la polizia sabauda a causa di una rissa avvenuta fra i soldati in
Savoia, scoprì e arrestò molti dei congiurati, che furono duramente perseguiti
poiché appartenenti a quell'esercito sulla cui fedeltà Carlo Alberto aveva
fondato la sicurezza del suo potere. Fra i condannati figuravano i fratelli
Ruffini, amico personale di M. e capo della Giovine Italia di Genova,
l'avvocato Andrea Vochieri e l'abate torinese Gioberti. Tutti subirono un
processo dal tribunale militare, e dodici furono condan morte, fra questi anche
il Vochieri, mentre Jacopo Ruffini pur di non tradire si uccise in carcere
mentre altri riuscirono a salvarsi con la fuga. Tentativo d'invasione
della Savoia e moto di Genova. L'incontro di M. con Garibaldi nella sede della
Giovine Italia Il fallimento del primo moto non fermò M., convinto che era il
momento opportuno e che il popolo lo avrebbe seguito. Si trovava a Ginevra,
quando assieme ad altri italiani e alcuni polacchi, organizzava un'azione
militare contro lo stato dei Savoia. A capo della rivolta aveva messo il
generale Ramorino, che aveva già preso parte ai moti, questa scelta però si
rivelò un fallimento, perché il Ramorino si era giocato i soldi raccolti per
l'insurrezione e di conseguenza rimandava continuamente la spedizione, tanto
che quando si decise a passare con le sue truppe il confine con la Savoia, la
polizia, ormai allertata da tempo, disperse i volontari con molta
facilità. Nello stesso tempo doveva scoppiare una rivolta a Genova, sotto
la guida di Garibaldi, che si era arruolato nella marina da guerra sarda per
svolgere propaganda rivoluzionaria tra gli equipaggi. Quando giunse sul luogo
dove avrebbe dovuto iniziare l'insurrezione però, non trovò nessuno, e così
rimasto solo, dovette fuggire. Fece appena in tempo a salvarsi dalla condanna a
morte emanata contro di lui, salendo su una nave in partenza per l'America del
Sud dove continuerà a combattere per la libertà dei popoli. M., invece,
poiché aveva personalmente preso parte alla spedizione con Ramorino, fu espulso
dalla Svizzera e dovette cercare rifugio in Inghilterra. Lì continuò la propria
azione politica attraverso discorsi pubblici, lettere e scritti su giornali e
riviste, aiutando a distanza gli italiani a mantenere il desiderio di unità e
indipendenza. Anche se l'insuccesso dei moti fu assoluto, dopo questi eventi la
linea politica di Carlo Alberto mutò, temendo che reazioni eccessive potessero
diventare pericolose per la monarchia. La vita mi pesa, ma credo sia
debito di ciascun uomo di non gettarla, se non virilmente o in modo che rechi testimonianza
della propria credenza.» (M., lettera di risposta ad Angelo Usiglio,
Londra. Altri tentativi pure falliti si ebbero a Palermo, in Abruzzo, nella
Lombardia austriaca, in Toscana. Il fallimento di tanti generosi sforzi e
l'altissimo prezzo di sangue pagato fecero attraversare a Mazzini quella che
egli chiamò la tempesta del dubbio, una fase di depressione, in cui, come in
gioventù, come ricorda nelle Note autobiografiche, pensò anche al suicidio, da
cui uscì religiosamente convinto ancora una volta della validità dei propri
ideali politici e morali. Dall'esilio di Londra, dopo essere stato espulso dalla Svizzera,
riprese quindi il suo apostolato insurrezionale. Nello stesso periodo esce il
saggio La filosofia della musica sulla rivista L'italiano pubblicata a Parigi. Fratelli
Bandiera. Esecuzione dei fratelli Bandiera a Cosenza Nobili, figli
dell'ammiraglio Bandiera e, a loro volta, ufficiali della Marina da guerra
austriaca, aderirono alle idee mazziniane e fondarono una loro società segreta,
l'Esperia e con essa tentarono di effettuare una sollevazione popolare nel Sud
Italia. I fratelli Emilio e Attilio Bandiera parteno da Corfù (dove
avevano una base allestita con l'ausilio del barese Vito Infante) alla volta
della Calabria seguiti da 17 compagni, dal brigante calabrese Giuseppe Meluso e
dal corso Pietro Boccheciampe. Era loro giunta infatti la notizia dello scoppio
di una rivolta a Cosenza che essi credevano condotta nel nome di M.. In realtà
non solo la ribellione non aveva alcuna motivazione patriottica ma era già
stata domata dall'esercito borbonico. Quando sbarcarono alla foce del
fiume Neto, vicino a Crotone, appresero che la rivolta era già stata repressa
nel sangue e al momento non era in corso alcuna ribellione all'autorità del re.
Il Boccheciampe, appresa la notizia che non c'era alcuna sommossa a cui
partecipare, sparì e andò al posto di polizia di Crotone per denunciare i
compagni. I due fratelli vollero lo stesso continuare l'impresa e partirono per
la Sila. Subito iniziarono le ricerche dei rivoltosi ad opera delle
guardie civiche borboniche, aiutate da comuni cittadini che credevano i
mazziniani dei briganti; dopo alcuni scontri a fuoco, vennero catturati (meno
il brigante Meluso, buon conoscitore dei luoghi, che riuscì a sfuggire alla
cattura) e portati a Cosenza, dove i fratelli Bandiera con altri 7 compagni
vennero fucilati nel Vallone di Rovito. Il re Ferdinando II ringraziò la popolazione
locale per il grande attaccamento dimostrato alla Corona e la premiò concedendo
medaglie d'oro e d'argento e pensioni generose. «Mazzini, colpito da tanta
fermezza e da tanta sventura, restò commosso da quell'efferata barbarie e
celebrò la memoria di quei martiri in un opuscolo uscito a Parigi. Vdendo nel
loro sacrificio la realizzazione dei propri ideali così scriveva in un opuscolo
a loro dedicato: «Il martirio non è sterile mai. Il martirio per un'Idea è la
più alta formula che l'Io umano possa raggiungere per esprimere la propria
missione; e quando un giusto sorge di mezzo a' suoi fratelli giacenti ed
esclamaecco: questo è il vero, e io, morendo, l'adorouno spirito di nuova vita
si trasfonde per tutta l'umanità. I sagrificati di Cosenza hanno insegnato a
noi tutti che l'uomo deve vivere e morire per le proprie credenze: hanno
provato al mondo che gl'Italiani sanno morire: hanno convalidato per tutta
l'Europa l'opinione che una Italia sarà. Voi potete uccidere pochi uomini, ma
non l'Idea. l'Idea è immortale. Dopo i moti e capo, con Aurelio Saffi e Carlo
Armellini della Repubblica Romana, soppressa dalla reazione francese. Fu
l'ultima rivolta a cui M. prese parte direttamente. Moto di Milano e sollevazione in Valtellina. Ispirato al
mazzinianesimo e alle ideologie socialiste fu il moto di Milano, a cui tuttavia
M. non prese parte, e che fallì; analoga sorte ebbe la rivolta in Valtellina
dell'anno seguente. Nel moto milanese si mise in luce Felice Orsini, che di lì
a poco avrebbe rotto con Mazzini e organizzato l'attentato a Napoleone III,
fermamente condannato dal genovese poiché risoltosi in una strage di cittadini
innocenti. Spedizione di Sapri. Pisacane Il piano originale, secondo
il metodo insurrezionale mazziniano, prevedeva di accendere un focolaio di
rivolta in Sicilia dove era molto diffuso il malcontento contro i Borboni, e da
lì estenderla a tutto il Mezzogiorno d'Italia. Successivamente invece si pensò
più opportuno partendo dal porto di Genova di sbarcare a Ponza per liberare
alcuni prigionieri politici lì rinchiusi, per rinforzare le file della
spedizione e infine dirigersi a Sapri, che posta al confine tra Campania e
Basilicata, era ritenuta un punto strategico ideale per attendere dei rinforzi
e marciare su Napoli. Pisacane s'imbarca con altri ventiquattro
sovversivi, tra cui Nicotera e Falcone, sul piroscafo di linea Cagliari, della
Società Rubattino, diretto a Tunisi. Sbarca a Ponza dove, sventolando il
tricolore, riuscì agevolmente a liberare 323 detenuti, poche decine dei quali
per reati politici per il resto delinquenti comuni, aggregandoli quasi tutti
alla spedizione. Il 28, il Cagliari ripartì carico di detenuti comuni e delle
armi sottratte al presidio borbonico. La sera i congiurati sbarcarono a Sapri,
ma non trovarono ad accoglierli quelle masse rivoltose che si attendevano. Anzi
furono affrontati dalle falci dei contadini ai quali le autorità borboniche
avevano per tempo annunziato lo sbarco di una banda di ergastolani evasi
dall'isola di Ponza. Il 1º luglio, a Padula vennero circondati e 25 di
loro furono massacrati dai contadini. Gli altri, per un totale di 150, vennero
catturati e consegi gendarmi. Pisacane, con Nicotera, Falcone e gli ultimi
superstiti, riuscirono a fuggire a Sanza dove furono ancora aggrediti dalla
popolazione: perirono in 83; Pisacane e Falcone si suicidarono con le loro
pistole, mentre quelli scampati all'ira popolare furono poi processati. Condan
morte, furono graziati dal Re, che tramuts la pena in ergastolo. Senso
dell'impresa Pur essendo quella di Sapri un'impresa tipicamente mazziniana,
condotta «senza speranza di premio», in effetti essa rispondeva alle idee
politiche di Pisacane che si era allontanato dalla dottrina del Maestro per
accostarsi a un socialismo libertario espresso dalla formula "Libertà e
associazione". Contrariamente a Mazzini che riguardo alla questione
sociale proponeva una soluzione interclassista solo dopo aver risolto il
problema unitario, Pisacane pensava infatti che per arrivare ad una rivoluzione
patriottica unitaria e nazionale occorresse prima risolvere la questione
contadina che era quella della riforma agraria. Come lasciò scritto nel suo
testamento politico in appendice al Saggio sulla rivoluzione, «profonda mia
convinzione di essere la propaganda dell'idea una chimera e l'istruzione
popolare un'assurdità. Le idee nascono dai fatti e non questi da quelle, ed il
popolo non sarà libero perché sarà istrutto, ma sarà ben tosto istrutto quando
sarà libero». Vicino agli ideali mazziniani era Pisacane invece quando
aggiungeva nello stesso scritto che quand'anche la rivolta fallisse «ogni mia
ricompensa io la troverò nel fondo della mia coscienza e nell'animo di questi
cari e generosi amici... che se il nostro sacrificio non apporta alcun bene
all'Italia, sarà almeno una gloria per essa aver prodotto figli che vollero
immolarsi al suo avvenire. La spedizione fallita ebbe in effetti il merito di
riproporre all'opinione pubblica italiana la questione napoletana, la
liberazione cioè del Mezzogiorno italiano dal malgoverno borbonico che
Gladstone definiva negazione di Dio eretta a sistema di governo.. Infine il
tentativo di Pisacane sembrava riproporre la possibilità di un'alternativa
democratico-popolare come soluzione al problema italiano: era un segnale
d'allarme che costituì per il governo di Vittorio Emanuele II uno stimolo ad
affrettare i tempi dell'azione per realizzare la soluzione diplomatico militare
dell'unità italiana. Appoggio a Garibaldi e ultimi tentativi M. appoggiò
moralmente la spedizione dei Mille di Garibaldi, che egli considerava una
valida opposizione a Cavour. Dopo l'Unità riprese la lotta repubblicana, ma le
persecuzioni della polizia sabauda e le condizioni di salute limitarono i suoi
ultimi tentativi. Controversie Stampa raffigurante Mazzini con
l'epitaffio della tomba a Staglieno Conflitto con Cavour M., che dopo la sua
attività cospirativa fu esiliato dal governo piemontese a Ginevra, fu uno
strenuo oppositore della guerra di Crimea, che costò un'ingente perdita di
soldati al regno sardo. Egli rivolse un appello ai militari in partenza per il
conflitto: «Quindicimila tra voi stanno per essere deportati in Crimea. Non uno
forse tra voi rivedrà la propria famiglia. Voi non avrete onore di battaglie.
Morrete, senza gloria, senza aureola, di splendidi fatti da tramandarsi per
voi, conforto ultimo ai vostri cari. Morrete per colpa di governi e capi
stranieri. Per servire un falso disegno straniero, l'ossa vostre
biancheggeranno calpestate dal cavallo del cosacco, su terre lontane, né alcuno
dei vostri potrà raccoglierle e piangervi sopra. Per questo io vi chiamo, col
dolore dell'anima, deportati. Quando Napoleone III scampò all'attentato teso da
Orsini e Pieri, il governo di Torino incolpò M. (Cavour lo avrebbe definito
"il capo di un'orda di fanatici assassini" oltreché "un nemico
pericoloso quanto l'Austria"), poiché i due attentatori avevano militato
nel suo Partito d'Azione. Secondo Denis Mack Smith, Cavour aveva in passato
finanziato i due rivoluzionari a causa della loro rottura con M. e, dopo
l'attentato a Napoleone III e la conseguente condanna dei due, alla vedova di
Orsini fu assicurata una pensione. Cavour al riguardo fece anche pressioni
politiche sulla magistratura per far giudicare e condannare la stampa radicale.
Egli, inoltre, favorì l'agenzia Stefani con fondi segreti sebbene lo Statuto
vietasse privilegi e monopoli ai privati. Così l'agenzia Stefani, forte delle
solide relazioni con Cavour divenne, secondo Fiore, un fondamentale strumento
governativo per il controllo mediatico nel Regno di Sardegna. M., intanto,
oltre ad aver condannato il gesto di Orsini e Pieri, espose un attacco nei
confronti del primo ministro, pubblicato sul giornale Italia del popolo: «Voi
avete inaugurato in Piemonte un fatale dualismo, avete corrotto la nostra
gioventù, sostituendo una politica di menzogne e di artifici alla serena
politica di colui che desidera risorgere. Tra voi e noi, signore, un abisso ci
separa. Noi rappresentiamo l'Italia, voi la vecchia sospettosa ambizione
monarchica. Noi desideriamo soprattutto l'unità nazionale, voi l'ingrandimento
territoriale» (M.]) Timori di M. per la cessione della Sardegna
Estratto di articolo di giornale inglese Mazzini temeva che Cavour, dopo
la cessione della Savoia e di Nizza, potesse cedere anche la Sardegna, una
delle cosiddette “tre Irlande”, sulla base di altri supposti accordi segreti di
Cavour con la Francia, in cambio di una definitiva unificazione italiana,
accordi che preoccupavano anche l’Inghilterra, la quale era intervenuta presso
Cavour per avere rassicurazioni sul fatto che non sarebbe stato ceduto altro
territorio italiano alla Francia. Russell commenta a Hudson, in Torino, di dire
al Conte di Cavour, che il Governo inglese, informato di un disegno per la
cessione della Sardegna alla Francia, protestava e chiedeva promessa formale di
non cedere territorio italiano. Il dispaccio era comunicato il 26 a
Cavour.» (da Scritti editi e inediti di M., per cura della Commissione
editrice degli scritti di Giuseppe Mazzini, Roma]) Riguardo alla cessione della
Sardegna alla Francia, M. affermava anche. L’opposizione minacciosa
dell’Inghilterra e la nostra, possono renderlo praticamente impossibile.»
(da Scritti editi ed inediti di Giuseppe Mazzini, per cura della Commissione
editrice degli scritti di M., Roma) Alcune affermazioni di Giovanni Battista
Tuveri, esponente del cattolicesimo federalista, deputato per due volte al
Parlamento Subalpino e amico di M., confermano la possibilità di accordi
segreti relativi alla cessione della Sardegna alla Francia per una definitiva
unificazione del resto della penisola: «Vicino a M. ed a Cattaneo, ma con una
propria originalità di pensiero, il Tuveri fu sempre fedele alle sue
convinzioni federaliste o, in mancanza di meglio, autonomiste, né esitò ad
impegnarsi nell'azione pratica quando circolò insistente la voce che Cavour,
dopo Nizza e la Savoia, intendesse cedere alla Francia anche la Sardegna»
Anche il giornale britannico "The Illustrated London News" citava l'inopportunità di cedere la Sardegna
alla Francia, commento che aveva suscitato reazioni nella stampa francese e
fatto suggerire altre ipotesi. Mazzini suscita continuamente energie, affascinò
per quarant'anni ogni ondata di gioventù e intanto gli anziani gli sfuggivano. Quasi
tutti i grandi personaggi del Risorgimento aderirono al mazzinianesimo ma pochi
vi restarono. Il contenuto religioso profetico del pensiero del Maestro, in un
certo modo rivelatore di una nuova fede, imbrigliava l'azione politica. M.
infatti non aveva «la duttilità e la mutevolezza necessaria per dominare e
imprigionare razionalmente le forze». Per questo occorreva una capacità di
compromesso politico propria dell'uomo di governo come fu Cavour. Il compito di
Mazzini fu invece quello di creare l’animus. Quando sembrava che il problema
italiano non avesse via d'uscita «ecco per opera sua la gioventù italiana
sacrificarsi in una suprema protesta. I sacrifici parevano sterili», ma invece
risvegliavano l'opinione pubblica italiana e europea. La tragedia della Giovine
Italia «impose il problema italiano a una sempre più vasta sfera d'Italiani:
che reagì sì con un programma più moderato ma infine entrò in azione e quegli
stessi ex mazziniani che avevano rinnegato il Maestro aderendo al moderatismo
riformista alla fine dovettero abbandonare ogni progetto federalista e
acconsentire all'entusiasmo popolare suscitato dalle idee mazziniane di un
riordinamento unitario italiano. Le idee politiche di Mazzini furono alla base
della nascita del Partito Repubblicano Italiano. Tramite la Costituzione della
Repubblica Romana, ispirata al mazzinianesimo e considerata un modello per
molto tempo, fu uno dei pensatori le cui idee furono alla base della
Costituzione Italiana. Inoltre ebbe una grande influenza anche fuori
dall'Italia: politici occidentali come Wilson (con i suoi Quattordici Punti) e
Lloyd George e molti leader post-coloniali tra i quali Gandhi, Meir, David
Ben-Gurion, Nehru e Sun Yat-sen consideravano Mazzini il proprio maestro e il
testo mazziniano Dei doveri dell'uomo come la propria "Bibbia"
morale, etica e politica. Mazzini conteso tra fascismo e antifascismo M.
sul letto di morte L'eredità ideale e politica del pensiero di M. è stata a
lungo oggetto di dibattito tra opposte interpretazioni, in particolare durante
il Fascismo e la Resistenza. Già prima dell'avvento del FASCISMO, il
cinquantenario della sua morte e celebrato con una serie di francobolli. In
seguito, nel Ventennio fascista M. e oggetto di citazioni in libri, articoli,
discorsi, fino al punto d'essere considerato una sorta di precursore del regime
di MUSSOLINI. Secondo un appunto diaristico (intitolato "Ripresa
mazziniana") diBottai, però, l'utilizzo che ne fa MUSSOLINI e
strumentale. La popolarità di M. durante il periodo fascista è dovuta
anche ai numerosi repubblicani che confluirono nei Fasci di combattimento,
iniziando il loro percorso di avvicinamento a MUSSOLINI durante la battaglia
interventista, soprattutto nelle aree dove maggiore era la presenza del PRI,
cioè in Romagna e nelle Marche. Sulle pagine de L'Iniziativa, l'organo di
stampa del PRI, si guardava a Mussolini come al «magnifico bardo del nostro
interventismo». Particolare e il caso di Bologna, città in cui i repubblicani
Nenni, e i fratelli Bergamo presero parte attivamente alla fondazione del primo
Fascio di combattimento emiliano per poi abbandonarlo poco dopo diventando
avversari del fascismo. Tra i più famosi repubblicani che aderirono al fascismo
vi furono Balbo (che si era laureato con una tesi su "Il pensiero
economico e sociale di M. e del quale Segrè ha scritto: «Balbo, prima di
aderire al Fascismo nel '21, esitò a lasciare i repubblicani fino all'ultimo
momento e considerò la possibilità di mantenere la doppia iscrizione»),
Malaparte e Ricci, che nel FASCISMO vede la perfetta sintesi fra «la Monarchia
d’ALIGHIERI e il Concilio di M. L'intellettuale mazziniano. Cantimori, nella
prima fase del suo percorso politico che lo portò prima ad aderire al fascismo
poi al comunismo, considerava il fascismo «compimento della rivoluzione
nazionale iniziatasi con il Risorgimento, che doveva riuscire dove il processo
risorgimentale e il cinquantennio successivo avevano fallito: nell'inserimento
e nell'integrazione delle masse nello stato nazionale, nella creazione di una
più vera democrazia, ben diversa dal "parlamentarismo" e lontana
dall'"affarismo", dal "particolarismo",
dall'"inerzia" che avevano caratterizzato l'Italia liberale». Inizialmente
la tesi delle origini risorgimentali del fascismo fu fatta propria anche dai
comunisti. Togliatti, polemizzando con il movimento Giustizia e Libertà e il
suo fondatore Rosselli, in un articolo
su Lo Stato operaio critica il Risorgimento e indicò in M. un precursore del FASCISMO.
La tradizione del Risorgimento vive quindi nel fascismo, ed è stata da esso
sviluppata fino all'estremo. M., se fosse vivo, plaudirebbe alle dottrine
corporative, né ripudierebbe i discorsi di MUSSOLINI sulla funzione dell'Italia
nel mondo. La rivoluzione anti-fascista non potrà essere che una rivoluzione
"contro il Risorgimento", contro la sua ideologia, contro la sua
politica, contro la soluzione che esso ha dato al problema della unità dello
Stato e a tutti i problemi della vita nazionale. La stessa posizione fu assunta
d’Amendola, durante il confino a Ponza, nel primo di due corsi sul Risorgimento
tenuti per i confinati, per poi rivedere tale impostazione nel secondo corso,
dopo la svolta unitaria (che segnò l'inizio della politica del fronte popolare
con la conclusione di un "patto d'unità d'azione" con i socialisti),
allorché insistette sulle origini risorgimentali del movimento operaio. I
fascisti, inoltre, rivendicavano una continuità con il pensiero mazziniano
anche riguardo l'idea di “patria”, la concezione spirituale della vita,
l'importanza dell'educazione di come strumento per creare un uomo nuovo e una
dottrina economica ispirata alla collaborazione tra le classi sociali. Baioni
scrive a proposito della contemporanea celebrazione nell’anniversario della
morte di Garibaldi e del decennale della Marcia su Roma che le principali
manifestazioni sembrano confermare il nesso tra il bisogno di presentare il
fascismo come erede delle migliori tradizioni nazionali e la volontà non meno
forte ad enfatizzarne le componenti moderne, che avrebbero dovuto distinguerlo
come originale esperimento politico e sociale. Negli anni della Resistenza la
situazione si complica maggiormente: il fascismo della repubblica sociale
italiana intensifica naturalmente i richiami a Mazzini. Ad esempio la data del
giuramento della guardia nazionale repubblicana venne fissata nel giorno della
proclamazione, quasi un secolo prima, della repubblica romana che aveva avuto
alla sua testa il triumviro Mazzini. Ma anche gli anti-fascisti, in particolare
i partigiani di Giustizia e Libertà di Rosselli, iniziano a richiamarsi sempre
più apertamente al rivoluzionario genovese. Proprio Rosselli scrisse che agiamo
nello spirito di Mazzini, e sentiamo profondamente la continuità ideale fra la
lotta dei nostri ante-nati per la libertà e quella di oggi. A seguito della
caduta del fascismo e dell'armistizio di Cassibile, la lotta contro il nazi-fascismo
vide la partecipazione dei repubblicani (il cui partito era stato sciolto dal
Regime) anche attraverso la formazione di proprie unità partigiane denominate
Brigate M.. Anche un comandante partigiano, proposto per la medaglia d'oro al
valor militare, Manrico Ducceschi, ispirò la sua azione all'ideologia
mazziniana adottando in onore di Mazzini il nome di battaglia di
"Pippo", lo stesso pseudonimo usato dal patriota genovese. Altri
saggi: Atto di fratellanza della Giovane Europa in Giuseppe Mazzini, Edizione
nazionale degli scritti., Imola, s.e., 1Dei doveri dell'uomo Fede ed avvenire
Editore Mursia Doveri dell'Uomo Editori Riuniti university press Roma Pensieri sulla democrazia in Europa, trad.
Mastellone, Feltrinelli, Milano, Andrea Tugnoli, La pittura moderna in Italia,
Bologna, CLUEB, Antologia di scritti Dal Risorgimento all'Europa Mursia Periodici diretti da M. L'apostolato popolare
Il nuovo conciliatore L'educatore Le Proscrit. Journal de la République
Universelle Il tribunoNote La Civiltà
cattolica, La Civiltà Cattolica, «La politica acquista pathos religioso,
e sempre più col procedere del secolo... la nazione diventa patria: e la patria
la nuova divinità del mondo moderno. Nuova divinità e come tale sacra.» in F.
Chabod, L'idea di nazione, Laterza, Bari); Da Dei doveri dell'uomoFede e
avvenire, Paolo Rossi, Mursia, Milano; L'uomo nuovo in Montanelli, L'Italia
giacobina e carbonara, Rizzoli, Milano, Schmid, Michael Rossington, The
Reception of Shelley in Europe Citato nell'Edizione nazionale degli Scritti
di Giuseppe Mazzini a cura della Commissione per l'edizione nazionale degli
Scritti di M., Cooperativa tipografico-editriceGaleati; per la citazione vedi
anche: Memoriale M.-Domus Mazziniana; Introduzione a Jessie White Mario, Vita
di M. su Castelvecchi Editore; Giuseppe Santonastaso, Edgar Quinet e la
religione della libertà, edizioni Dedalo; Felis, Italia unità o disunità?
Interrogativi sul federalismo, Armando.
Comune di Savona Liguria magazine
in. Gilles Pécout, Il lungo
Risorgimento: la nascita dell'Italia contemporanea Pearson Italia S.p.a., 01 Patria, nazione e stato tra unità e
federalismo. M., Cattaneo e Tuveri, CUEC, University Press-Ricerche storiche, La
tesi del figlio sicuramente di Mazzini è sostenuta in Bruno Gatta, Mazzini una
vita per un sogno, Guida, Il dubbio invece che si trattasse veramente di un
figlio di Mazzini è espresso in Luigi Ambrosoli (M.: una vita per l'unità
d'Italia, ed.Lacaita): «Ma proprio il ritardo con cui venne comunicata a
Mazzini la notizia della morte di Adolphe fa sorgere qualche dubbio sulla
supposizione, per le altre ragioni accennate ben fondata, che si trattasse di
suo figlio». Dubbi simili vengono riportati in Mastellone, M. e la
"Giovine Italia", Domus
Mazziniana, («D'altra parte, è da aggiungere che nelle lettere inedite a
Ollivier, che pubblichiamo, M., pur parlando di Giuditta come della propria
amica, se accenna ad Adolphe come figlio di Giuditta, non allude al bambino
come proprio figlio:...») Barberis, in Dizionario biografico degli italiani,
Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
M. a Londra È l'autrice del
romanzo gotico Frankenstein (Frankenstein: or, The Modern Prometheus). Curò le
edizioni delle poesie del marito Shelley, poeta romantico e filosofo. Era
figlia della filosofa Mary Wollstonecraft, antesignana del femminismo, e del
filosofo e politico William Godwin.
Susanne Schmid, Michael Rossington, The Reception of P.B. Shelley in
Europe Seymour, Mary Shelley, M., il
cospiratore senza segreti Lettere di
Mazzini ad Aurelio Saffi e alla famiglia Crauford Giuseppe Mazzatinti Soc.
Alighieri Politica e storia Buonarroti e
altri studidi Pia Onnis Rosa Edizioni di storia e letteratura Roma M. «pavese»
e l'Unità d'Europa Quando M. scatenò il
patatrac sognando la Repubblica pbmstoria. Legnago a Giuseppe Mazzini, Grafiche
Stella, S. Pietro di Legnago (Verona) Scarpelli, La scimmia, l'uomo e il
superuomo. Nietzsche: evoluzioni e involuzioni
Pensiero di M., brigantaggio: la Repubblica nasce nel nome di M., su
pri.Carducci scrisse una famosa lirica intitolata Mazzini i cui versi finali
sono rimasti nella storia: «E un popol morto dietro a lui si mise. Esule
antico, al ciel mite e severo Leva ora il volto che giammai non rise, /Tu
solpensandoo ideal, sei vero». La stessa
semplice scritta volle Spadolini, politico e storico repubblicano, sulla
propria tomba a Firenze Luigi Polo Friz,
La massoneria italiana nel decennio post unitario: Lodovico Frapolli, Franco
Angeli, Storia della Massoneria in Italia. L'influenza di M. nella Massoneria
Italiana in. La stanza di Montanelli L' unità d' Italia e
la Massoneria M. massone? A.Desideri, Storia e storiografia, IEd.
D'Anna, Messina. Gli sconvolgimenti operati dalla Rivoluzione francese avevano
fatto dubitare a molti uomini della razionalità della storia, così altamente
proclamata nel secolo precedente. L'unica alternativa allo scetticismo parve
allora la fede in una forza arcana operante provvidenzialmente nella storia» in
A. Desideri, Ibidem «S'identificò la
storia della civiltà con la storia della religione, e si scorse una forza
provvidenziale non solo nelle monarchie, ma sin nel carnefice, che non potrebbe
sorgere e operare nella sua sinistra funzione se non lo suscitasse, a tutela
della giustizia, Iddio: tanto è lungi dall'essere operatore e costruttore di
storia l'arbitrio individuale e il raziocino logico». Adolfo Omodeo, L'età del
Risorgimento italiano, Napoli. Così il genere umano è in gran parte
naturalmente servo e non può essere tolto da questo stato altro che
soprannaturalmente... senza il cristianesimo, niente libertà generale. e senza
il papa non si dà vero cristianesimo operoso, potente, convertitore, rigeneratore,
conquistatore, perfezionante.» (cfr. Maistre, Il Papa, trad. di T. Casini,
Firenze) M., Fede e avvenire, M., Fede e
avvenire. Ha una visione utopica, romantica e anche sincretistica della
religione, che egli considerava come il contributo, in termini di princìpi
universali, delle varie confessioni e fedi alla storia collettiva.» SenatoDoveri
dell'uomo, M., Dei doveri dell'uomo
Fusatoshi Fujisawa, La terza Roma. Dal Risorgimento al Fascismo, Tokyo, M.
il patriota scomodo Reghini a metà
strada tra fascismo e massoneria «Noi
dissentivamo su diversi punti: sulle idee religiose, ch'ei non guardava, errore
comune al più, se non attraverso le credenze consunte e perciò tiranniche
dell'oggi; sul cosiddetto socialismo, che riducevasi a una mera questione di
parole dacché i sistemi esclusivi, assurdi, immorali delle sétte francesi erano
ad uno ad uno da lui respinti e sulla vasta idea sociale fatta oggimai
inseparabile in tutte le menti d'Europa dal moto politico io andava forse più
in là di lui: sopra una o due cose delle minori spettanti all'ordinamento della
futura milizia; e talora sul modo d'intendere l'obbligo che abbiamo tutti di
serbar fede al Vero. Ma il differire di tempo in tempo sui modi d'antivedere
l'avvenire non ci toglieva d'essere intesi sulle condizioni presenti e sulla
scelta dei rimedi» (M. su Pisacane)
Lettera a Forte Londra. Noi crediamo in una serie infinita di
reincarnazioni dell'anima, di vita in vita, di mondo in mondo, ciascuna delle
quali rappresenta un miglioramento ulteriore…» (M., in Bratina). La vita
d'un'anima è sacra, in ogni suo periodo: nel periodo terreno come negli altri
che seguiranno; bensì, ogni periodo dev'esser preparazione all'altro, ogni
sviluppo temporale deve giovare allo sviluppo continuo ascendente della vita
immortale che Dio trasfuse in ciascuno di noi e nella umanità complessiva che
cresce con l'opera di ciascuno di noi» (Dei doveri dell'uomo). Leggeva Dumas e i testi buddisti Il volto
inaspettato di Mazzini Il Foscolo, che
scriveva di aver visto da giovinetto a Venezia un "libercolo"
attribuito a Gioacchino, in cui erano indicati i papi futuri, affermava che la
fama dell'abate era "santissima" tanto che Montaigne, desiderava di
poter vedere questa meraviglia: «le livre de Calabrois, qui prédisait tous les
papes futurs, leurs noms et formes» G.
da Fiore, Concordia Veteris et Novi testamenti, B. Rosa, Gli appunti
manoscritti di Mazzini, Impronta, Torino, Sarti, M. La politica come religione
civile, con postfazione di Mattarelli, Roma-Bari, Laterza, A.Omodeo, Introduzione a M., Scritti scelti,
Mondadori, Milano, «L'Italia trionferà
quando il contadino cambierà spontaneamente la marra con il fucile». in C.
Pisacane, Saggio sulla rivoluzione, ed. Universale Economica, Milano; M.:
comunismo vuol dire dittatura Il
"Manifesto" di Marx? Scritto contro Mazzini Doveri dell'uomo, capitolo XI, punto 3° M., Doveri dell'uomo, cap.XI (in Baravelli,
L'Italia liberale, ArchetipoLibri, A.
Gacino-Canina, Economisti del Risorgimento, Torino, POMBA, 1G. Mazzini,
Istruzione generale per gli affiliati nella Giovine Italia in Scritti editi e
inediti, II, Imola, M., op. cit. Nome
col quale i greci indicavano l'Italia antica
L. Stefanoni, G. M.: notizie storiche, Presso Barbini, Ricordi dei
fratelli Bandiera e dei loro compagni di martirio in Cosenza Documentati colla loro corrispondenza, Dai
torchi della Signora Lacombe, Pisacane. Volantino pubblicato su "Italia
del popolo", G. Cataldo, Chi ha paura di M.?, in la stampa. D. Smith, M.,
Rizzoli, Milano, D. Smith, Contro-storia dell'unità d'Italia: fatti e misfatti
del Risorgimento, Milano, Gigi Di Fiore, Cappa, Cavour, Laterza, definizione di
Cavour riportata da The Morning Post. We have three Irelands, in Sardinia,
Genoa and Savoy La terza Irlanda, Gli
scritti sulla Sardegna di C. Cattaneo e M., Cattaneo, M., Francesco Cheratzu,
8pagg. M. La Sardegna Tip. A. Debatte Livorno, Risorgimento Rassegna The Illustrated
London News In A. Saitta, Antologia di critica storica, Laterza, Le citazioni
sono tratte da A. Omodeo, Introduzione a M., Scritti scelti, Mondatori, Milano,
(Fusaro); Benedetti “M. in Camicia nera” edito della Fondazione 'Ugo La Malfa';
Dal diario di Bottai. Spesso, all'uscita dei cento e più volumi dell'edizione
nazionale di M. trovo il Duce, a palazzo Venezia, immerso nelle folte pagine. O
meglio, v'immergeva, a ferire di pugnale, il suo metallico tagliacarte: e ne
tirava fuori brandelli di M. A quando a quando il brandello anti-francese,
anti-illuminista, anti-nglese, anti-socialista, etc. etc. Brandelli, mai
tutt'intero, nella sua viva, molteplice e pur varia personalità; S. Luzzatto,
Riprese mazziniane, Mestiere di storico: rivista della Società italiana per lo
studio della storia contemporanea (Roma: Viella); P. Benedetti "Mazzini
nell'ideologia del fascismo" G. Belardelli,
“Camerata M., presente!” Gentile, Balbo, Rocco, Bottai: tutti i fascisti
tentarono di arruolarlo, Corriere della Sera; “Manifesto realista” pubblicato
sulla rivista L'Universale Cromohs Pertici Mazzinianesimo, fascismo, comunismo:
l'itinerario politico di D. Cantimori, R. Pertici, Mazzinianesimo, Fascismo, Comunismo:
L'itinerario politico di Cantimori Cromohs, La memoria e le interpretazioni del
Risorgimento, Guerra e fascismo da 150anni. Togliatti, Sul movimento di
«Giustizia e Libertà», in Lo Stato operaio, antologia F. Ferri, Roma, Riuniti);
Fatica, Amendola, Giorgio, in Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Mieli,
"L'Italia impossibile di Mazzini un fallito di genio", Corriere della
Sera, M. Baioni, Il Risorgimento in camicia nera, Carocci, Roma; Corriere della
Sera in Arianna editrice Mario
Ragionieri Salò e l'Italia nella guerra civile, Ibiskos, P. Mieli, art.
cit. Treccani Enciclopedie, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Associazione Nazionale Partigiani d'Italia.
“Saggi”, A. Saffi e di E. Nathan, Roma, “Lettere a Saffi e alla
famiglia Craufurd, Società Dante Alighieri di Albrighi, Segati, Roma); “La
democrazia in Europa, trad. a cura di S. Mastellone, Feltrinelli, Milano, V. Marchi,
Ricostruzione della filosofia religiosa, in Dio e Popolo, Marchi, Camerino Joseph
de Maistre, Il Papa, Firenze, A. Omodeo (Milano, Mondadori); A. Codignola (Torino,
POMBA); Omodeo, “Il ri-sorgimento italiano, Napoli, ESI, Chabod, L'idea di
nazione, Bari, Laterza, Monsagrati (Milano, Adelphi); Batini, Album di Pisa,
Firenze, La Nazione, F. Peruta, I rivoluzionari italiani: il partito d'azione, Milano,
Feltrinelli, Il processo a Vochieri, Alessandria, Lions; Albertini, Il
Risorgimento e l'unità europea, Napoli, Guida, Smith (Milano, Rizzoli); S.
Mastellone, Il progetto politico di Mazzini: Italia-Europa, Firenze, Olschki); Desideri,
Storia e storiografia, Messina, Anna); R. Sarti, La politica come religione
civile (Roma, Laterza, Mattarelli, Dialogo sui doveri (Venezia, Marsilio); Galletto,
Nella vita e nella storia” (Battagin); N.
Erba, Unità nazionale e Critica storica, Grasso, Padova. N. Erba, Il Contributo
italiano alla storia del pensiero Ottava Appendice. Storia e politica, Istituto
della Enciclopedia Italiana, Roma, Dear Kate. Lettere inedite di M. a Katherine
Hill, A. Bezzi e altri italiani a Londra, Rubbettino; Saggio sulla rivoluzione,
Universale Economica, Milano); I sistemi e la democrazia. Pensieri Con una
Appendice su La religione di M. scelta di pagine dall'Opuscolo Dal Concilio a
Dio, V. Gueglio (note al testo, repertorio dei nomi e saggio introduttivo)
Milano, Greco); Giuseppe Mazzini verifiche e incontri Atti del Convegno
Nazionale di Studi, Genova, Gammarò, Tufarulo, G,M.- L'Iniziatore, l'iniziato,
Dio e popolo. La tempesta mazziniana nella rivoluzione del pensiero Cultura e
Prospettive, Filmografia Viva l'Italia di R. Rossellini. Film incentrato sulla
spedizione dei Mille. M., sceneggiato RAI, regia di P. Passalacqua, Il generale,
sceneggiato RAI, regia di Magni. M. è
interpretato da Bucci. Noi credevamo di M. Martone. Mazzini è interpretato da T.
Servillo. Garibaldi, miniserie di Rai 1 ; interpretato da Lombardo. L'alba
della libertà, cortometraggio, regia di Emanuela Morozzi, Associazione
Mazziniana Italiana Domus Mazziniana Doveri dell'uomo Mazzinianesimo Monumento
a M. (Firenze) Museo del Risorgimento e istituto mazziniano Pensieri sulla
democrazia in Europa Risorgimento. su
Treccani Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia. Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Dizionario di storia, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana,. su sapere,
De Agostini. hls-dhs-dss.ch, Dizionario storico della Svizzera. Dizionario
biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, storia.camera,
Camera dei deputati. Istituto Mazziniano
a Genova; Rai Tv: "La Storia siamo noi": una certa idea dell'Italia,
su la storia siamo noi.rai. 3Mazzini e le frontiere d'Italia su viacialdini.
Pagine mazziniane: "il pensiero e l'azione", dal sito della
Biblioteca Nazionale di Napoli, su vecchiosito bnn Domus Mazziniana di Pisa, su
domusmazziniana. Associazione Mazziniana Italiana, Scritti Prose politiche, Cenni
e documenti intorno all'insurrezione lombarda e alla guerra regia, Scritti
editi e inedit, Celebrazioni mazziniane Mazzini, Triumviro della Repubblica
Romana, A. Saliceti Aurelio Saliceti. Giuseppe Mazzini. Mazzini. Keywords: la
giovine italia, la tesi di laurea di Benedetti su Mazzini nella ideologia
fascista, ideologia fascista, gentile, bobbio, garibaldi, nazione italiana,
stato nazionale, stato unitario. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Mazzini” – The
Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; Grice e Mazzoni: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – la vita attiva dei
romani – la scuola di Cesena -- filosofia emiliana -- filosofia italiana -- Luigi
Speranza (Cesena). Filosofo italiano. Cesena, Emilia Romagna. Grice:
“Mazzoni is important on various fronts: he loves Dante, or Alighieri as
Strawson calls him – his library in organised alphabetically; the other front I
forget!” Compì i suoi studi di lettere a Bologna e
quelli di filosofia a Padova. Membro dell'Accademia della Crusca, fu tra i
preferiti del papa Gregorio XIII che lo avrebbe voluto prelato; Mazzoni preferì
proseguire nella carriera universitaria. Dapprima fu all'Macerata, ed in
seguito a Pisa, dove ebbe la cattedra di filosofia. Nella città della torre
pendente, conobbe un giovane insegnante di matematica, Galilei, con il quale
instaurò ottimi rapporti. Invitato ad insegnare all'Università La Sapienza di
Roma. Benché avesse da poco preso questa cattedra, seguì il cardinale Pietro
Aldobrandini nei suoi incarichi a Ferrara ed in seguito a Venezia. Ammalatosi
sulla strada del ritorno, si recò nella sua Cesena, dove si spense. Opere:
“Difesa della Commedia di ALIGHIERI Grazie alla sua preparazione letteraria,
giunse alla notorietà per il suo tomo Difesa della Commedia di Dante,
pubblicato a Bologna inizialmente, sotto pseudonym e poi l'anno successivo
sotto il suo vero nome, in cui criticò aspramente Leonardo Salviati. Nel testo
egli risponde ad alcune contestazioni fatte alle sue elucubrazioni sul sommo
poeta Dante Alighieri. Parimenti nel libro si occupa anche di argomentazioni
pertinenti alla filosofia ed alla poetica”; “In universam Platonis et
Aristotelis philosophiam praeludia Interessato anche all'astronomia, Mazzoni
espone le sue teorie in quello che risulta il suo testo più importante ovvero
In universam Platonis et Aristotelis philosophiam preludia. In questo saggio
egli sostiene il sistema geocentrico aristotelico contro la sempre più diffusa
e apprezzata teoria copernicana eliocentrica. Questo volume è divenuto molto
noto poiché Galilei, dopo averlo letto, gli inviò una lettera, nella quale
difendeva Copernico e le sue teorie. Questa missiva rappresenta la più antica
testimonianza dell'adesione alla teoria eliocentrica di Galilei. M.,
Prefazione, in Mario Rossi, Discorso di Mazzoni in difesa della
"Commedia" del divino poeta ALIGHIERI, S. Lapi.Saggi: “Discorso de'
dittongi” (Cesena, Rauerio); “Discorso in difesa della Comedia del divino
Alighieri contro Castravilla” (Cesena, Raveri); “De triplici hominum vita
ACTIVA nempè, contemplativa, et religiosa methodi tres, quaestionibus quinque
millibus, centum et nonagintaseptem distinctae in quibus omnes Platonis et Aristotelis,
multae vero aliorum Latinorum in universo scientiarum orbe discordiae
componuntur” (Cesena, Raverio), “Della difesa della Comedia di Alighieri --
distinta in sette libri” (Cesena, Rauerio), “Intorno alla risposta e alle
opposizioni fattegli da Patricio, pertenente alla storia del poema Dafni, o
Litiersa di Sositeo poeta della Pleiade” (Cesena, Raverio); “Ragioni delle cose
dette e d'alcune autorità nel discorso della storia del poema Dafni, o Litiersa
di Sositeo” (Cesena, Raverio), “In universam Platonis et Aristotelis
philosophiam praeludia” (Venezia, Guerilius); TreccaniEnciclopedie Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Toffanin, M. nciclopedia Italiana, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. M., su sapere, De Agostini. Davide Dalmas, M.
Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. M.,
su accademicidellacrusca Accademia della Crusca. Opere di M., su ope nMLOL,
Horizons Unlimited srl. Opere di M., Benedetto, M. in Enciclopedia dantesca,
Istituto dell'Enciclopedia, Dizionario Enciclopedico Brockhaus Efron, Маццони, Джакомо. Ostracismum laudabit huius ce Reipub.
formam ciae et A J de Repub. ses, illud affequebantur, quod improbi meliores
essent co- Achen. oss ditione, quàm probi, quod quid ememanavit ex eo, quod REI
PUBLICAE ROMANORVM FELICITAS cibiadis. VITAE ACTIVAE. Ficienda erant, ad Confu
pertinebat examinare diligenter, coaciones quoties opus est et evocare, So
Cspopulore ferre, quicquidque maior parsius filler exequio1 quin etiam in his
quae ad belli apparatum et castrensem disciplinam pertinet, hi summon i imperium
habebant. Hiseniius erat sociis quic quid visunt eller imperare, Trib. militum
creare, de l e ett uniq. Habere, ad haec de his qui sub corum imperio erantin
castris arbitratu suo supplicium fumiere, his praeterea licebat comitante
quaestore, lacse dulo imperata faciente, publiciaeris, quantum resipsa posset,
Rei-pub. forniani Regiam esse. Senatus autem primo quidem acrarii totius
dominus erat atg; administrator: nam et redditus omnes in eius erant potestate,
et eiusdem arbitratu im pensae fiebant, malefi ciaque et crimina PER ITALIAM
commissa, de quibus iudicium publicae fieri debebat, ut puta proditionis,
coniurationis, beneficii, caedis, at q ; insidiarum ad Senatum refeerebantur,
eiuss; de his erat cognitio quod si vlla APUD ITALOS controversia dirimenda, si
publica, vel privatim qui spiam, vel civitas ob iurganda, si cui auxilium, aut
praesidium ferendum esset, de his omnibus curam Senatus ad hib ebat. codemo
popularis Rei-pub. fornia videtur. Consules enim ante quam ex urbe legions
educerentur quinimo et quaede Res Publica per populum transigenda. Et có.,{{1
Pin !! porro tulerit impendere quod fi quis ad hanc partem respexerit,
probaliter dicere videre licet tuni Regiam, optimorum, populiģ; gabernationem:
quoties enim Consulum imperiuint ueamur, Re gia, quoties verò Senatus
authoritatem optimarum admianistratio, quoties autem populi potestatem
respicimus, banaruni omnium rerum ins, atq; imperi una habebant: his et enim
caeterionines magistratus praeter Tr.Ple.fa? bijci ebantur, hi legationes in
curiam traducebant, hic ea leriter quae errant decidenda ita tuebant, negociaģ;
magna ad Senatum: referebant, et penès ipsos vtquae patres de: creuissent
sedulo perficerentur cura omnis et administratio erat METHODVS. codemq; modo fi
extra ITALIANI ad aliquos legat somittenda esset, vel ad aliquid decidendum,
vel ad foedus faciendum, vel ad cohortandum, vel ad imperandum, aut poftre mo
ad resrepetendas, aut ad bellum in dicendum, haec in yrben venerint agendum,
quid eis respondendum in populo commune, ad eo ut quoties quis ad urbem
consulibus ab sentibus profectus esset, prorsusei Respublica optima tum
confilioregi et gubernari videretur, quod fanem multi graecorum et regum per
sua sum habuerunt, quod negocia, quae in urbe haberent ferem, omnia per Senatum
tra is incos, qui maiores magistratus gessissent, admittebatur solus autem
capite damnandi potestatem habuit, qua in re illuds anèapudeos commemoratione
dignissinum fuit, quod eorum instituto iis qui capitis damnati fuerant, ut on
ex urbe palan egrederentur, permittebatur, acfi Tribuum una ex his, quae
iudicium exercebant reliqua fuerit, quae in non dum suffragium tulerit,
exiliun: reo sibi arbitratu suo deligendi facultas dabatur, exulesautem Neapoli
[NAPOLI], Praene siæe,Tybure, atg; in alia quauis foederatorum urbe tuto elle
deferebat, lege etiam comprobandi, ac sanciendi ius habebat et quod caput eitis
de pace de bello, defoedere, decom trouersiis decidendis, aur componendis
deliberavit, atque unum quod quem horum ratuni, aut irritum faciebat, quibus,
ex rebus probaliter pofleta liquis dicere, populuni si bi maxima min Res
Publica partem vindicasse, ac Rei publicae formam Senatus ipse curabat, et
providebat. Praetere a quid delegationibus ex terarum gentium, quae ex populi
administratione confatam fuisse. Quò igitur pacto Res Publicae, in partes
diftributa fueritiam sigerentur suae tianı populo, et eaquidem amplissima pars
reli&a est: poterant praeterea populus ipse magistratus dignissimis
quibusque Senatus voluntate, arý; arbitrio pofitumerat. atq; horum quidem, quae
superius dicta sunt nihil est cum folusenini in Republica et poenae, et
praemiis potestatem habebat, et plerunq; in aliis etiam qua estionibus quoties
gra priuior alicui maleficijmulata irrogannda esset et praesertim ditum VITAE
ACTIVAE rendas, ac perficiendas idoneus hauderat conttar enim legionibus eorum
aliquid missum, quae illis publice suppeditari solebant, namq; fineS.C.neớ;
frumentum, neq; vestimenta, nec obsonia legionibus administrari poterant, ad eo
ut eorum, qui exercitus duxissent expeditiones et consilia omnia, quoties eis
obstare, cum eila; maligne agere Senatus inanimum induxisset, irritaredde
rentur, et minimem ad exitum perducerentur: quin ut quae ili animo et
cogitatione complexi fuerant, ac sibi proposuerant perficere possent, ili
Senatus voluntate positum erat: nam is post quam niannuum tempus praeterierat,
aut successors mittendi, aut imperium prorogandi potestatem habuit, ac etiam
penem se undem fuit ducum res gestas et dignitatem velex tollere, atý; ornare,
velele vare, ac deprimere :nani triumphos, neộ; ut I decet apparere, neġ;
ducere cuiquam licebat, ni aliensus fusset S e longissime abfuiflet, populi
certe aflen su opus erat, quodq; est omnium ferem maximum, omnes imperio
deposito, populo eorum quae gesserint rationem reddere oportuit, qua propter Consulibus,
caeteris; Imperatoribus minime expediebat, Se. po. quem voluntatem erga se
conteninere rursu siani Senatus quam uistant umin Res Puplica potuerit po
illius authoritatem approbasset populus, praetereasi quisex Trib. pleb,
intercesserit, nedum Sena erat 1 natus, et ineius fumptum erogasser necessaria.
Et siquis ex prouincia decedere voluisset, quamuis domo pulum tamen intueri, ac
illius rationem habere coactus fuit: in maximis enim,atg; atrocissimis
quaestionibus eorum maleficiorum, quae contra Rempub.conmislaca-.
piteple&untur,nihilSenatus ex equipotuiffet, nisi prius tus nihil eorum
quae decreuerat perficere: sed ne sedere quidem, automnino incuriamvenire
poterat: Trib.autí 11 di et um est: nunc autem quaratione potuerint partes illae
quoties voluerint, sibimutuo repugnare, fibiq; inuicem opitulari, dicendum eft:
enimuerò Consul poft quameani, quam superius dixi facultatem adeptus, copias
eduxerat, funini o quid e mille cum imperio videbatur esse: verum populi, ac
Senatus auxilio indigebat, ac sine his adresge 1 erat officium id femper
exequi: quod populo visunr fuerat ciasý voluntatem quani maximè respicere, his
omnibus cepissent, eos relevandi; siquae difficultas, aut publicuni seei
sintortunium; quo minus ellent foluendi obstitisser, loca . tionemg prorfusin
ducendi, ius et potestatem habuit. 7 eodenie modo Consul ut hac tionibusti
midem, ac minime libenter aduers ab an turtum populus, tum Senatus caniforis,
militiaeque; universus exercitus, et singuli, quia fub c o ad se inuice miuuandun,
et impediendum adomnes rerum 217;.occasiones; ex opinione Polybije aminterse
aprem, conue Bodi nichteré connexae; dispofitaeq; fuerunt,vt hac nullam e
Izifior, praestantiorg Rei pub formare periti potuerit.' name, cum habeant
omnes Res pub. In orbe quandam có 11.4, versionem et mutationem. Nullam ipse
hac firmior emar Essen bitratus eft, fiquidem poft uniuersalia dilaniaa missis,
ac sublatis artibus et studiis, aliquo post tenporis intervallo rursus humanum
genus auctum et propagatum fuit, quo tempore in homini bas naturale arbitrary
debemus, quod etia in in ratione carentium animalium generibus comtin
gerevidenius, inquorum gregibus fortiffimus quisý; manifestò principatum fibi
vendicat: omnes enim fortissimum et potentissimum fectabantur, aró; ita vnius
dominiuni oliniigitur quisemel honore illo digni habiti sunt in regnis
consenescebant iusta studia fe& antes nullaq; propter eos invidia, fi qui
de m non magna in eis aut v i et tis, aut verò omnibus Senatus praeerat. idem
diem proferendi, fiquam publicani calaniitate mac rum imperio, ac potestate
eflent.i Haecporrò cum elfét vnius cuiusý partium vis et facultas METHODVS
decáüllis multitudinem Senatus metuebat, ad populique : voluntatem, studi uni
et cogitations suas dirigebat. At contra Senatu i populus ipse obnoxius, et
subie&userat, eumque universim, et singulatim colere, arg; obseruare sua
per magni interesse putauit, cum enim effent in ITALIAM ul bidid tave et
igaliuni genera, quae Censores in fumptus appara 33°53.stusd; publicos locare
solebant:in his omnibus conducen discurandis populus implicitus esse confutu i
c :his ve constitutum eft. 287 H Iitus kitus gracatio cernebatur: verum
funiperin emculisciuium wi t a n i lag cotes, eaem qua populus victus ratione
vte ban 7 sed post quàm horum filij cum iam comparata haberent imperio, essent
differre et ad haec licexe etiam spemine : prae metu contradicente: in concesus
concubitus appetore, ató;ita coorta eft ex RegnoTyrannis. Noći atg hoc
manifestem liquet, ex Cyri, Cam.bylif que imperio, fortissimis viris
coniurationes, adinuante etiam ducum En suorum consilia multitudine, atg; ilius
imperii quodpe nesvnum erat forma facile vedelereture ueniebat, atque indeiam
optimatum principalu sortunt, atque initium accepifient, educati abinitio in
poteltate, ang honoribus apparatus, alijsad vim mulieribus per Itapra, et
raptus inferendam, alijdenių; adaliaturpiale conuertebant, atậ; ita optimatum
principatus ad paucorun dominationem hinc illorum imperioper idem quod tyrannos
oppresserat in fortunium finiş imponebatur, ncq; praeterea Regen creare libuit
sobiniuftitiac, qua superiores vsi fuerant metum, neg; pluribus committere Rem publicam
audebanttam re centi rei malae gestacniemoria ad suanı igitur fidem publica
recipiebant, atq, ita popularis fornia effe et aeft horum postremo filii plus
caeteris in Res Publica posse contendebant; atg; sinhanc cupiditatem, maxime
locupletiores incidents maximis pecuniae largitionibas plebem cor runipebant
VITAE ACTIVAE paternis, propter eaae quabilis, communisų libertatis ru ;,-des&
ignari, alijvinolentiam ;& luxuriofosconuiuionum translatuseft.
praesidia,& rebusadvi&um pertinentibus,magis quàm pro neceffitate
abundarent, ob nimiam bonorum copiam, atq; aff.uentiam cupiditatibus
obsequentės, arbitratifunt oportere principes, ornatus et epulisabijs,
quifubeoruni f :: quod& Herodotus affirmat contra huiusce modi principes
fiebantàgen crofiffimis,& 1 1 tur . duxit . hiprinò administratione
gaudentes commun ivtilitate del nihil antiquius habuere, 31.disinijinsi. Sed
emi a n i eorum liberi e andem å patribus potestatem METHODUS I rumpebant, quae
affirefacaaliena bonaconselle, vitách; suae spem omnem in alienis fortunis
ponere facileducem elaro animo, ace; audacise et abatut,atý;tum Rei publicae
for mailla, cuius conservatio in flavum fiducia posita est, nascebatur, fiqui
deintum plebs in vnum coactacaldem facere, ciues eijcere, proscriptorum;
agrosdiuiderein Scipiebat, donec facuum tuufus, &erforatum, vniusiruperit
*0 um reperiretur, qua propter his motus rationibus eamprae caeteris lau Res
publicae benainaliam bonam non mutetur quam bona innalam, siquidem ut
Aristoteles dicit in habentibus infi dese symbolum facilior eft tramlitus, an
quia fimilitudo ila, ali neracione. Quam qaog contrarieta temr equirit?
quodquidéin Ele's atme mentorum trasmutatione liquid paret: inhisverò Reip.
niutaionibus, quis fimilitudineni, et contrarietateinnes gabit) FACVLTAS
ROMANORVM . quo ad leges veròattinet, quibusviifunt ROMANI, occur
rimtnobismulca, quae vt figillatim esplicentur,rom ab otoexordientur; et inprimisant
equam ROMULUS [ROMOLO] leges 1.2. demai. vixit .pokea loges quasdam ipse tulit,
cum alijs sequentibus Ro. gibus, quas curiatas appellarunt, fequidem conuacat
oper triginta curias populo Imgalifý; curiis inseparatas epra constitutis et
sententiam rogatistege solim ferebankor,;? quae populi congregario comitia
curiata dicebantur, à cocundo; quòd populuscoiret,et viri timlogesterret, et
dicerScruiusTulliusRex hunc mioremimuutle: camépo pulo eaporekasrelictaest, vt
plebiscita, et leges comitijs. Dät Polybius, quaeonines Rerum pub. forniasin
seconti not atg congregat, ne quacar uim vlera quàm facis fit au et a 1ist. et
prouceta in sibi adherenteni,& coguatam pernicien in: -b.cideret: fódvniuf
cuiufớiroboreac potential interfeinui liseem obnitentesulla ciuitatispars
vfquam declinaret, ne 1.Dvivein altum propenderer. ex supradi& isautem
dubucabit forfan aliquis,curfaciliusa Pomp.in suriaras ferret populus incerto
iurs, incertis que legibusparis. H 2 curiaris LECALI vinil 1.& ler VITAE
ACTIVAE. COROLLARIVM Augusto [OTTAVIANO] hinc et Suetonius ait Tiberium à
[GIULIO CESARE] in foro legecu riaelle adeptatum, hoc eft suffragiis populi
percurias collectis. quidam retulerunt. pe: TAPE PTA LEGALIA ! Ilarunt, ad haec
verò addita su t plebiscita, Senatus consulta, practorumedicta, et principum
placita,exquibus EJSER Servorum verò (cuius origo deiu regentium fluxit) iuxta
curiatis ferrentur,iii IB":NOI 3quaedam .de iur. 8oz idem parierro
relabitur ybi putabat,cum quiinciuitate sua Facinus patrasset, si in alium lo
cum peruenisse t accusam o m . iud. ai tik di t e r e a sunt prudentum
declarationes, quas responsa appeluorum fi Ергл.
800exa& isdeinceps Regibus lege Tribunicia Regum leges antiquataesunt,
poftquècaepit POPULUS ROMANUS incer tomagisiure& consuetudine aliquavti;
quamlegelata, done e decem viri leges à Graecis petierunt, quas in tabu
liseburneis praescriptas pro roftrisappo fuerunt,vt faci lius percipipoffent,
atý;cum animaduerfumeffet aliquid 1 primisistislegibusdeelle; aliasduaseisdem
tabulis,adie cerunt,& itaexaccidenti appellate esuntleges duodecim 14 'ride
illo crimine non potuisse exemplo Hermiodori. Qui demomn eius ROMANORUM
coaluit. 804 quod quidem universum refertur, vel ad personas,velad res, vel ad
a et iones. Iureconsulti verba vnatantunt fuit conditio, istig;domi defta.ho.
nioalieno contra naturam subijciebantur. :.ning Liberi in li. cum TABULARUM,
quarum ferendarum authorem fuiffe X Cicerone .I.v.in. viris Hermodorum quendá
Ephesum exulantem in ITALIA Tus, argumentum ad exules. net ibni I PERSONAE
lib.3.f. dedos hominesautem autliberisunt,autferui. fta.ho. li ? رز inli.2.de80r rationeveròhuius Hermodorinon rectè
colligitBaldus {,oz inillisautêquiafummaeratobscuritas desiderataeprop
habent,quodlibet faciendi legenon prohibitum, atý;isto rum, alij sunt liberti,
alij libertini, alij ingenui. Quià mortein vita millosre uocarunt,
appellabantur. -horun, autem alij ciueserant ROMANI, qui vindicta,
censu,Vlp.cap.s. : aut testamento nullo iure impediente n i anumis li sunt,
alij instic. latiniIuniani,quiexlegelunia interamicos manumisli funt,
alijdeditiorum numero, qui propter noxam torti nocételáinuenti sunt, deinde
quoquomodo nianumisli. LIBERTINI. INGENVI. $ 11. Ingenuorum veròalijluisunt
iuris, alijverò alieno iuri fubie&i. et savie quialieno iuris ubie et
isuntfilij familias appellan-1.1.f.&his tur, qui inditione, et potestate
patris sunt vel natura, velquisútlui adop. natura sunt qui ex nuptiis uxoris et
maritioriuntur. NVPILAE. Nuptia cverò apud ROMANOS tribus per ficiebantur modis
Bəê in2: tiaeper coemptionem. Mulieres autem quae in manu per coenuptionem
conue nerant matres familias vocabantur, quaeveròvsu, velfar reationeminime.
caeterae aliaevxoresvsu erant. Anim aduertendum est autem maximam fuisse
differentia adoptione. Farreatione nempè, coemptione, &ylu, et fanèfar
reatio Top. Cicerone folis pontificibus conueniebat. coeniprioverò cereis
solemnitatibus per agebatur, fese.n. 1. 2. ff.de METHODVS Liberi sunt qui
nullius imperio subie &I facultatem liberā LIBERT1. Liberti funt quos
domini ex iustaserui. Il convito di Platone. Discorso de' Dittonghi di M. all'Illustrissimo
Signor il Signor Francesco Maria de Marchesi del Monte. In Cesena Appresso
Raverio. Questo Discorso sitrova altresì inserito nella celebre Raccolta degli
Autori del bel Parlare, impressa nella Basilicata. II.Discorso di M. indifesa
della Comme dia del divino Poeta Dante. In Cesena per Bartolomeo R a verii
in4.Ladedicaè AlMoltoMag.mioSig. Osservandissimo il Sig. Tranquillo Venturelli
. Da Cesena. De’ motivi, che indussero l’autore a scrivere questo dotto ed
ingegnoso Discorso, se ne ragiona qui addietro a cart.19. e segg. III. M.
Oratio in funere. Guidiubaldi Fel trii de Ruvere Urbinatium Ducis .Pisauri apud
Hierony mum Concordiam. in4. IV.M. Cæsenatis deTriplici HominumVita, Activa
nempe, Contemplativa, ei Religiosa Methodi tres, Qyestionibus quinque millibus
centum etnonaginta septem distincta. In quibus omnes Platonis et Aristotelis,
multæveroaliorum Græcorum, Arabuin, et LATINORUM in universo Scientiarum Orbe
discordiæ componuntur. Quaomnia publice disputanda Roma proposuitAnno salutis
Ad Philippum Boncompagnum S.R.E. Cardinalem amplissi mum. Cæsena Bartholomæus
Raveriusexcudebat in Questo volume contiene le celebri conclusioni di
quasitutte le scienze, che M. difese pubblicamente con meraviglia di tutta S2 .
1 1 Ita 1T Della Difesa della Commedia di Dante ec. Parte Pri ma, che contiene
li primi tre libri, pubblicata a beneficio del mondo letterato. Studioe Spesa
di D. Mauro Verdoni, D. Domenico Buccioli Sacerdoti di Cesena, e da essi dedi
cata all'Illustriss. eReverendiss.Monsignore Sante Pilastri Patrizio Cesenate
dell'una e dell'altra Segnatura Referendario, Abbreviatore de Curia, e della
Santità di N. S. In nocenzioXI.eSua Cam. Apost. CommissarioGenerale.In Cesena
Per Verdoni. in e V. Della Difesa della Commedia di Dante distinta in seta te
libri; nella quale si risponde alle opposizioni fatte al D i s corso di M. e
sitratta pienamente dello arte Poetica, e di molt altre cose pertenenti alla
Filosofia, e alle belle Lettere Parte prima ; che contiene i primi tre
libri.Con due Tavolecopiosissime.AllIllustrissimo eRe verendissimo Sig.il Sig.
D. Ferdinando de'Medici Cardinale di Santa Chiesa . In Cesena Appresso
Bartolomeo Raverii in4. . Italia . N o n seguì però questa famosa Disputa in
Roma, com' egli avea disegnato di fare, ma bensìinBologna nelFebbrajo dell'anno
seguente; on degliconvennemutare il frontispizio al suo libro, e porvi: Quæ
omnia publice disputanda Bononia proposuic Anno Salutis Veggasi qui addietro
ove sitrattaampiamente disìfatta disputa,e delmeritodi questo libro.Della
Difesa della Commedia di Dante distinta in sette libri, nella quale si risponde
alte opposizioni fatte al Disa corsodiM. M. esitratta pienamente dell' Arte
Poetica, e di molte altre cose pertinenti alla Filosofia, ed alle belle
lettere. che contiene gliultimi quattro libri nonpiù stampati; edora pubblicata
incuisitrova, cosìpergloriadel M., come per le insigni qualità del Prelato, che
vi si rilevano, cred o ben fatto di riportarla in questo luogo, e dèla
seguente. a beneficio del Mondo letterato. Studio eSpesa diD. Mait ro Verdoni,eD.
Domenico Buccioli Sacerdoti diCesena,. da essi dedicata Ad Albizzidell'una e
dell'altra Segnatura Re ferendario, Giudice della Sacra Congregazione di
Propagan da, ePrelato domestico di N. S. Papa Innoc. XI. in Cese na per Severo
Verdoni in 4. Nell'occasione, che D. Mauro Verdoni, illustre letterato di
Cesena, ebbe ri soluto di pubblicare questa seconda parte della Difesa di
Dante, vedendo che la prima era di già divenuta assai rara, si determinò d i
dover ristampare anche questa, siccome fece, dedicandola a Monsig. Sante P i
laseri Prelato Cesenate per dottrina e per esemplarità di costumi
riguardevolissimo, il quale aveva prestato a tal effetto al Verdoni ed ajuto e
favore . M a essendo Monsig. Pilastri passato a miglior vita in tempo che appena
n'eraterminata la stampa, convenne aglieditori procacciarsi un nuovo Mecenate,
cui subito ritrova rono senza uscire dellalorpatria nelladegnissima per sona di
Monsig. Dandini Vescovo diSinigaglia, Prelato anch'esso digran nome ; onde è
avvenuto che quasi tutti gliesemplari siveggono con nuova dedica indirizzati a
questo secondo, ede'primi non m'è riu. scito discontrarne cheuno,ilquale
siconserva pres so dime unitamente all'altro dedicatoaMonsig. Dandini. La
dedica a Monsig. Pilastri è in data, e quella a Mopsig. Dandino è de'17. dello
stessomese edanno. Epoichè questa prima dedica merita assolutamente d'essere
tratta dall'oblivio ne Illuge 'animo fatociperultimare que sta grande impresá
frastornataci da tanti ostacoli) abbia mo stimato convenientissimo debito
presentarla a V. S. Illu striss. per una particella di dovuta restituzione,
eriman dar (comesidice) questo FiumealsuoMare. Nepunto erriamo, sesottonone di
Mare ricopriamolavastità delsa pere, la profondità della prudenza, i tesori
delle Cristiane virtù,cheadornano l'anima di V. S. Illustris.Avvenga che, se
sirifletta con quanta carità dispensa ella a'Poveri isussidjdellavita,
a'suviConcittadinilegrazie, con quan ta magnanimità, emulando la pietà de'suoi
Avi, eregga agli Eroi del Paradiso gli Altari;sovvengaleCongregazioni del
Taumaturgo Fiorentino, ed in specie questa della Pa che con tanta esemplarità
dal Porporato, che ci regge, ècomunemente protetta,e progredisce ne dettami
delpiosuo Illustriss. eReverendi ss.Monsig. Comparisce sulla scena del Mondo alla
seconda lucelaPri. ma Parte di cotestaDifesa fregiata del pregiatissimo nome di
V.S. Illustriss.per contestare, che volume si prezioso meritò sempre ne'suoi
natali uscire ornato in fronte del no me d'uno d'e primi Personaggi, che
venerasse il Secolo. Ed invero,sesiconsiderinoledignità,merito,virtù,e l'altre
venerabili doti, che adornano l'animo di V. S. III., puossi senza veruna nota
concludere, che sia sempre stato secondato da segnalatissimi favori nelli suoi
ingegnosi parti il nostro M.; mentre questi sono stati sempre genero samente
accolti, edalle prime Cattedre, eda'primiSavj del mondo, leggendosi sino
da’Chinesi iportenti di questo grandeingegno. Ondenoiin considerazione delle
grazie tan tevolte compartiteci,e dell tria, ' Fondatore, non potiamo, nè
dobbiamo concludere altro della religiosa prodigalità della sua mano, se non
quello, che della mano dispensiera di Probo cantò Claudiano: Præ 1 Præceps
illamanus Auvios superaba tIberos, zioni,eprove dell'amore che V. S.
Illustriss. le porta ed in udire tutto giorno i religiosiattestati della sua
pietà a risplendere o ne' Tempii, o negli Altari, non le consacri tuttose
stesso in olocausto? Se nontemessimo tormentar quivi la sua modestia,
proseguiressimo a mostrar con mille prove la sua gran dilezione verso la
Patria, e noi tutti ; giac chivisonopochi,chenonrammentino legrazie,ifavori,
eisovvegni conseguiti dalla bontà diV. S.Illustriss., ch'e Aurea dona voinens .
A questo Mare adunque, la di cui gentilissima aura hacci sovvenuto a condurre
alporto un Opera contrastataci da im. petuosi aquiloni di mille infortunj,
abbiamo noi presentato nella tavola de nostri voti questo eruditissimo libro,
col solofinedi rimostrare all'universale Repubblica diDotti, che se la nostra
Patria ha saputoprodurre i M., i > Chiaramonti, i Dandini, e gli Uberti,
preseduti alle pri me Cattedre di Roma, di Parigi, di Bologna, e di Pisa, ha
ancora nelmedemo tempo avuto nobilissimi Figli, chegli hanno generosamente
accolti, favoritiegraziati. Egiacche questa Difesa per se stessa rende immune
da qualsisia di fesa l'Autore, che ha saputo mettersi in tal quadraturii coll'
altissimo suo sapere, che non paventa veruna offesa; resta perciò liberaa V.S.
Illustrissima lasola difesa epro tezione di noi, che abbiamo volentieri
registratoin questo Libro lossequiosissiino e riverentissimo tributo della
nostra divozione al di leigran Nome; che non potrà mai ricor darsi e da noi, e
dalla Patria tutta senza rassegnargliene con un eccessivo ossequio un
tenerissimo affetto. Perciocchè chi è, che nella Patria in vedere le affettuose
dimostra f > mula di quelGrande, neque negavit quidquam peten tibus; et ut
quæ vellent, peterent, ultrò adhortatus est. Cesena. Sacerdoti Cesenati, VJ.
Discorso di M. intorno alla Risposta ed alle opposizioni fatregli da Patricio,
per est . M a vaglia per tutti, e sia ne' fasti dell eternità a caratterid'oro
registrata la grande restituzione, che ha fat to alla Patria del suo
gloriosissimo, e primo seguace del Redentore, Martiree Pastore d'EvoraS. Mancio
ladi cuimemoria quasi quiestintaèstata dalla dilei Pietà ravvivata ; le di cui
Sante Reliquie, fatte portare dalle ultime regioni del Tago, siccome hanno
impietositi gli Altari, così ancora hanno indotta tal venerazione del di
leiNome, che ingegnosamente si dice, meritar ella corona più preziosa di
quella, che da' Romani donavasi a chi rendeva i suoi Cittadini a Roina; ovvero
che solamente lapietà di Monsig. Sante ha saputo accrescereifigliSanti
allaPatria;eche sopra questo fortissimo Pilastrosivede ogni giorno più sta
bilita la divozione verso gli Eroi del Paradiso in Cesena. Viva dunque il nome
di V. S. Illustriss., e fino che i nostri celebratissimi Rubicone e Savio
tributeranno i loro liquidi argenti all'Adriatico, resti impressa negl’animi di
tutti la memoria di si gran Benefattore. Vivaquesto Cesenate Ti moteo, a cui
non Atene, ma Cesena, che è pur l'Atene della Romagna, ergapertrofeouna corona
di cuori. Mentrenoi. restringendocia supplicarladigradire quest'attestato delno
stro umilissimo ossequio, riverentemente inchinati, la sup plichiamo anon
isdegnarsidi permetterci, che ci pubblichid mo per sempre Di V.S. Illustriss.e
Reverendiss. Vmiliss.e Reverentiss. Servi Obblig. D.Verdoni, e D. Buccioli >
te 145 tenente alla Storia del Poema Dafni, oLitiersa di Sositeo Foeta della
Plejade. InCesena appresso Bartolomeo Raverii .in4. VII. Ragioni delle cose
dette, ed'alcune autorità citate da Jacopo Mazzoni nel Discorso della Storia
del Poema Dafni oLitiersa di Sositeo . In Cesena per Bartolomeo R a verii in4.
Del merito diquesti dueOpuscoli, e della cagione, che indusse l'autore a
scriverli, si vegga acart.78.e segg.,eacart.84. e85. Jacobi M. Cæsenatis, in
almo Gymnasio Pisano Aristotelem ordinarie, Platonem vero extraordinem
profitentis, in universam Platonis et Aristotelis Philosophiam Preludia, sive
de comparatione. Platonis et Aristotelis. Liber Primus. Ad Illustrissimumet
Reverendissimum CarolumAn sonium Pureum Archiepiscopum Pisanum .Venetiis Apud
Joannem Guerilium in fol. Questo volume, che dal Mazzoni era,forse non senza
ragione, riputato il suo capo d'opera, si vede al presente giacere quasi in una
totale dimenticanza, colpa de' nuovi sistemi di Filosofia, che di poi si sono
introdotti . Ad ogni modo è opera dottissima, e quanto mai si possa di -. re
ingegnosa, e nel suo genere affatto singolare; con tenendo quasituttiisistemi
degli antichi Filosofi esa In Exequiis Catherina Medices Francorum Regine.
Florentia apud Philippum Jun ctamin 4. L'Autore dedica questa sua Jacobi
Mazonii Oratio habita Florentia Idus Orazione al Duca di Bracciano per 1 ! i
molti favori, che avea ricevuti da questo m a gnanimo eliberalissimo
Signore;dallacuigentilepro pensione verso di sè dice, che sisentiva tratto a
scri vere, epresentargli un giorno cose molto maggiori .mi . T minati ed
illustrati in una maniera sorprendente. Lettere . Una lettera del Mazzoni
scritta a Belisa rio Bulgarini si trova impressa a cart. 121. delle Consi
derazioni del medesimo. Bulgarini sopra il Discorso di esso M. in difesa della
Commedia di Dante . In Siena appresso Bonetti. in 4. Tre altre scrit
teparimente alBulgarini sileggono a carte e delle Annotazioni, ovvero Chiose
Marginali dello stesso Bulgarini sopra la prima parte della Difesa di Dante di
M.. In Siena appresso Luca Bonetti. Ed una indiritta a Speron Speroni staa cart.355.
del volume quinto di tutte l’Opere di esso Speroni dell'ultima edizione di
Venezia. Dialoghi in difesa della nuova Poesia dell'Ariosto. Di questi dialoghi
fa menzione M, medesimo alla pag. 20. delsuo Discorso de’ Dittonghi; e dice
ch'era presto, a Dio piacendo, periscamparli, il chepoinon fece, forse per
essersi ricreduto sovra tale materia; giacchè allora, che era molto gio
Considerazioni sopra la Poetica del Castelvetro. Que ste furono mandate dal
Mazzoni al Barone Sfondrato, che ne dà ilsuo giudizio inuna lettera scritta
all'autore t r a quelle del Vannozzi. vane XIII.Commentarj sopratutti I
Dialoghi di Platone.P rea se M. a scrivere questi Commentarj per soddisfazione
di Francesco MariaII, della Rovere Duca d'Urbino, ed egli medesimo ne fa
menzione in una lettera scritta a Veterani Ministro del Duca, come pu . re a
reinaltraa Belisario Bulgarini, cheleggesi acart.213. delle Annotazioni ovvero
Chiose marginali ec. di esso Bul garini. M. medesimo poiacart. della
DifesadiDante nomina isuoi Commentarj sopra il Fedone, XIV . Libri de Rebus
Philosophicis, fatti ad imitazion di Varrone. Compose M. quest'opera inunasua
villetta sulla riva del Savio, e. disse a Roberto Titi che pensava di
pubblicarla prima della seconda parte della Difesa di Dante. Veggasi quan toda
mesenediceacart. 44.e98. delpresentevo lume. Censura del primo Tomo degli
Annali del Cardinal Baronio . Il celebre Simon in una lettera a Dandini, che si
legge a cart. della sua Biblioteca Critica, afferma d'aver inteso da questo
Prelato, che M. avea scritto contro il primo tomo del Baronio, tosto che questo
uscì in luce, e che il manoscritto di quest'opera sic onservava nella libreria
delGran Duca. Discorso d'una breve Navigazione, chesi puòfare da Portugallo
nell'Etiopia, e nel Paese del Prete Janni . A Buoncompagni General di S.
Chiesa, e Marchese diVignola. Questo si trova in una Miscellanea della
Biblioteca Vaticana. Discorso sopra le Comete. Anche questo Discorso,
lodatissimo dalSig. Guidubaldo de' Marchesidel Monte celebre Astronomo,
dovrebbe ritrovarsi nella Libreria Vaticana tra'Codici Urbinati; ma per diligen
zefattenon siè potuto rinvenire al num.513., allegato dal Conte Vincenzo Masini
nelle Annotazioni al primo libro del suo Poema del Zolfo, e dietro a lui da
Muccioli a cart.116. del suo bel Catalogo della Bi . Biblioteca Malatestiana .
Veggasi ciò, che del pregio di quest'operetta si è da noi detto alla pag. 101.
La Fisica, e i Dieci Libri dell'Etica d'Aristotile. Tadini scrive che il
manoscritto originale di quest'opera, mancante però e imperfetto, si conser
vava alquanti anni sono presso ilSig. Gio: Antonio Al merici Nobile Cesenate.
Il medesimo si afferma da Ceccaroni in alcune memorie mano scritte,
comunicateci dal Ch.Sig. Arcidiacono Chia ramonti, dalle quali si apprende, che
lo stesso Cecca roni avea fatta copia dell'originale inedito dell' Etica; ma
sento che questa copia ancora sia andata insinistro,epiù non siritrovi. In
universam Platonis Rempublicam Commentaria. Della Rupubblica di Platone da sé
commentata fa ri cordo M. medesimo nella lettera di ZQ / 148 ν gata al Sig. GiulioVeterani; dicendo,che quantopri
ma pensava di mandarla, o di recarla esso medesimo al Sig.Duca d'Urbino. alle
La X X . Orazioni . Di varie Orazioni dal nostro autore composte in diverse
occasioni, e non mai pubblicate, si è fatto memoria nel decorso di quest'opera,
prima viene accennata a cart.89., detta in Pisa nell' aprimento degli Studi in
lode della Filosofia . La se conda scrittada lui eloquentissimamente per movere
il Pontefice Clemente VIII. a ribenedire il Re Arrigo IV. di Francia a cart.
99. La terza detta ne' funerali del celebrePierAngelio da Bargaacart. 100.
El'ultima final mente recitata nell'Archiginnasio Romano, facendo una
comparazione tra l'antica Roma e la moderna ; . della quale sifavella
acart.112. Lezioni. Quattro Lezioni altre sì scrive M. sopra che mai non videro
la luce . Elle furono reci. tate in Firenze, due nell'Accademia Fiorentina per
ri schiaramento di due luoghi di Dante; e l'altre in quella della Crusca sopra
i Brindisi,e le feste Vinali degli Anti chi.Veggasi a cart.77.94.95.e97.
Lettere. Di alquante lettere del M. si conservano gli originaliin Pesaro nella
libreria Giordani, delle quali lach.me.del dottissimo Sig. Annibale degli Abati
Olivieri si compiacque giàmandarmi copia; e sono tre scritte al Cardinale
Giulio della Rovere, una al Duca d'Urbino, due a Giulio Veterani, ed una a
Piermatteo Giordani. Altre parimente originali scrittea Belisario Bulgarini si
trovano in alcuni Codici esistenti nella Libreria dell'Università di Siena.
Oltre aquest'opere ilTadini afferma, essercime moria, che dal Mazzoni sieno
state scritte anche le seguenti, cioè I. In Homerum Paraphrasis. II. Numi
smatum Græcorum Interpretatio. In Lullum Commentaria.IV. Naturalis Philosophie
Arcana.V. Secretoperco noscere da'Bigari e Quadrigati, denari Romani, qual
fazione restasse vittoriosa ne' Giuochi Circensi, se la Veneta o Prasing Rossa
o Bianca. Tractatus de Somniis. L'originale di questo trattato de'Sogni dice,
che fu venduto molti anni sono da certuno al Sig.Pier Girolamo Fattiboni Gentiluomo
Cesenate. Ma che avea incontrata la stessa disgrazia degli altri, non si
essendo più trovato. Forse tutti questi mss. dovettero essere in quelle dieci
casse di libri di M., che rimasero dopo la di lui morte presso Girolamo
Mercuriali in Pisa, come il Dottor Ceccaroni nell'accennate Memorie afferma
apparire da un pubblico Documento rogato. Per Per ultimo il sopralodato Sig.
Arcidiacono Chiara monti mi assicura, esservi anche al presente chi sostiene
doversi attribuire al M., così la Canzone composta in lode del Torneamento
fatto in Cesena nel Carnovale, la quale incomincia Mostra l'alterafronte,come
la difesa della medesima, che fu pubblicata sotto nome del Bidello
dell'Accademia con questo titolo; Risposta di Matteo Bidello delloStudio di
Cesena al Parere d'incognito Oppositore fatto sopra la Canzone Mostra l'altera
fronte. In Cesena conlicenza de Su periori Per Bartolomeo Raverii. in8.;
machenon avea avuto modo di verificare veruna di queste voci. lo per altro non
averei difficoltà di credeCre, che così la Canzone,come ladifesa potesser
essere fattura del nostro autore, essendo la Canzone assai bella ; e la difesa
molto dotta e giudiziosa, e degna assolutamente del nostro grande e
celebratissimo M.. Mazzoni. De triplice vita. Mazzni. Keywords: implicature,
repubblica romana, the Latins on ‘vita activa’, I romani e la vita attiva.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Mazzoni” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice e Mecenate: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza. (Roma). Abstract.
Keywords: Grice, Gardiner, Mecenate. Filosofo italiano. Gaio Cilnio Mecenate.
Interessi filosofici prova lui, il potentissimo consigliere
d'Ottaviano. Di origine etrusca, e probabilmente aretina, discende da
stirpe regia, ma volle restare semplice cavaliere romano. Combattè a
Filippi per i triumviri e e intimo di Ottaviano che egli cerca di conciliare
con Marc'Antonio, siechè ha luogo l’incontro di Brindisi. Per conto di
Ottaviano si reca presso Marc'Antonio affinchè partecipasse alla guerra contro
Sesto Pompeo. Lui e il rappresentante di Ottaviano a Roma e in Italia con
poteri illimitati. Ottaviano si serve di Mecenate in pace e in guerra e
trova sia in lui che in Agrippa il sostegno più sicuro del suo principato. Ma
egli deve la sua fama imperitura alla protezione che concesse ai maggiori
filosofi del tempo suo. Restano pochi frammenti dei scritti del M. in versi e
in prosa, nei quali, e specialmente nel Simposio o convito, opera che introduce
in Roma un genere letterario molto coltivato in Grecia, mostra di subire
l’influsso dei filosofi dell’Orto. Interessi filosofici e influssi epicurei si
manifestano negli seritti dei maggiori filosofi del circolo del Mecenate. Maecenas wrote several works,
none of which have come down to us. Their loss howerer is not much to be
deplored, siuce, acoording to the testimony of many ancient writers, they were
written in a very artificial and affected manner (Suet. ‘Octv.,’ ; Sen.,
‘Epist.’; Tac. ‘Dial. de Orat.,’, who speaks of the ‘calamistros Maecenatis.
They consist of poems, tragedies (one entitled ' Prometheus,' and another
'Octavia'), a history of the wars of Augustus (ORAZIO, 'Carm.' ), and a
symposium, in which VIRGILIO and ORAZIO were introduced. The few fragmente
which remain of these works have been collected and published by Lion under the
title of ‘Maecenatiana, sive de C. Cinii Macenatia Vita et Moribus,’ Göttingen.
Maecenas' known works include a Symposium, with such notables on the guest list
as Horace, Virgil, and Messalla, and, if a fragment from Plutarcocan be
trusted, some pretty clever dinner conversation. Servius, Aeneid: Facilesque
oculos fert omnia circum: physici dicunt ex vino mobiliores oculos fieri. Plautus
faciles oculos habet, id est mobiles vino. Hoc etiam Maecenas in Symposio ubi
Vergilius et Horatius interfuerunt, cum ex persona Messallae de vi vini
loqueretur, ait 'idem umor ministrat faciles oculos, pulchriora reddit omnia et
dulcis¡uventae reducit bona.' Cf. Plut. Mor. frag. 180: 'Ev tô cuvosívo tỘ toû
ManvaTúTEÇa ¿YYóo, N unò tị Koía tò HéyE0os HeyíGTh Kai kán2os auaxos. kai ola
sikòsETAVOUV ARZOL ANNOS AUTHV O SE TÓPTIOS, OUK EXOV O TI MAp ¿AUTOû
TEpaTEÚGaGOaL,Glyñ ysvousn, "EKsivo dE ouK ¿vvosits, d pior Guunótal, Oc
otpoYyún sotì Kai ayavrEpIpEp'S." ¿ TOÍVUV TẬ ¿páTO KORaKsia, Ó5 tÒ siKóS,
yéS KatEppáyn. For the possibility that this incident may come from Maecenas'
Symposium see Jiráni 1932, 1-12; Lunderstedt. Perhaps M.'s Symposium should be
added to the list of possible antecedents for Petronius' Cena. %//» ftt.y. !f '8 )>: 9 .éffsuz^ncsÉ OtjJ A, «a
k.Sm i STORIA DI CAJO CILNIO M. CAVALIERE ROMANO SCRITTA, X DEDICATA A S. A. S.
il Signor Principe FEDERICO DI SAXE-GOTH A DaU’Avv. Sante Viola P. T. ROMA
i8£Ó. Presso Francesco Bourlié Con Lic. de' Sup. mm. 9 A spese degli Eredi
Raggi Libra] al Camita«1 ALTEZZA SERENISSIMA Allorché io mi occupava a
raccogliere le Memorie Istoriche della Vita di Cajo Cilnio M. 9 pensai
ocacciare al mio Libro un Protettore nella Persona dell’ A. V. S. sapendo
quanto sia benemerita della Letteratura, delle Arti, e de’ loro Coltivatori ; e
sebbene la piccolezza della mia Offerta dovesse sgomentarmi, tuttavia fatto
coraggioso dalla grandezza del suo magnanimo cuore, restai fermo nel mio
pensiero, persuaso, che la Storia delle geste civili, politiche, e morali di
quell’ esimio Cavalier Romano, doveva presentarsi ad un Principe i nel quale si
ammiravano per singoiar modo trasfuse le doti più belle \ di cui era quello
fregiato. E come non dovrà celebrarsi P A. V. S. nel vederla animata dal genio
istesso del gran Cibilo riguardo al progresso, ed al miglioramento delle Arti
> e delle Scienze? In Roma, Capitale di un vasto Impero, M. avvalorava i
talenti, proteggeva i Dotti, e dava così un impulso potente alla Civilizzazione
del Genere umano ; e F A. V. 5. nell* istessa Capitale, ora Sede, e Maestra del
buon Gusto, e delle Arti, accoglie con amorevolezza, onora con discernimento,
protegge con costanza tutti gli Artisti, e Letterati, de’ quali la stima, la
venerazione, e T amore sono ben dovuti all’A. V. per quella soavità di maniere,
ed eminenti virtù, che in tanta copia brillano i n tutte le di Lei azioni. Se
l’A. Y. S. si degna di accogliere sotto la benefica, e valevole sua Protezione
questo mio qualunque siasi lavoro, andrà esso fastoso vedendosi onorato di
qùelNome illustre, che ridesta la dolce memoria de TI grandi Avi dell’ A. V. S.
i quali in ogni epoca recarono decoro alla Patria, onore, e gloria alle
Contrade Alemanne. Supplico PA.V.S. di aggradire i sentimenti di quella profonda
venerazione, ed invariabile ossequio, con cui ho, l’onore di rassegnarmi. Di
V.A.S. Vino Dmo Obbmo Servo SANTI VIOLA, Nello scrivere la Storia di Caio
Cilnio M. ebbi di mira soltanto la riconoscenza dovuta alla memoria di questo
grand' Uomo, che fù il più zelante promotore delle belle Letter e, l'Amico
sincero, il Protettore liberale di tutti li Letterati suoi contemporanei. Per
lo spazio di circa tredici, o quattordici Secoli il nome di M. fu sepolto, per
dir cosi, nel seno dell' oblio ; effetto della barborie de' tempi. Giovanni
Meibomio fù il pririio a raccogliere tutte le notizie relative alla Vita di
questo esimio Cavaliere Romano, e nel i6Sj. ne stampò in Leida un Libro avente
per titolo : M., sive de Caji Clini M. Vita, moribus, et rebus gestis. Prima
del Meibomio ne aveva scritta una Storia Gio. Paolo Martire Rizzo in- lingua Ca
stigliarla. Ma quest’Opera non potè procacciarsi un incontro felice per le
stravaganze, di cui era ripiena, portando l' impronta piuttosto di un Romanzo,
che di una Storia, conforme osserva il lodato Meibomio. Praeloq. ad Lect. :
Historia Vitae Maecenatis a Jo. Paulo Martire Rizzo Lingua Cast igliana de
script a. . Tantum enimabest, ut illa sit historia, ut parum absit ad fabulas
abeat. Circa treni' anni dopo l’Opera di questo, cioè, Cernii diede alla luce
in Roma con le stampe di Lazzari una Vita di Cajo M. Ma questa operetta per lo
stile inelegante, ed uniforme al gusto di quel secolo, sembra che non
riportasse tutta l’approvazione de’letterati, essendo caduta in una quasi totale
dimenticanza ; ciò non ostante l' Autore, con la scorta del sudetto Meibomio,
non omise di riunire molte notizie sulla Storia di M., estratte dagli Autpri
antichi. Altri ancora posteriormente hanno parlato, e scritto sul medesimo
soggetto. Nel 1 j 46. fu publicata in Parigi da M Riclier una Vita di M., e
successivamente V Abb. Souchay fece una raccolta di notizie in una
Dissertazione inserita nelle Memorie dell'Accademia dell’Iscrizioni, intitolata
Ricerche intorno M. Avendo profittato de' lumi, che questi Autori diffusero
nelle loro Opere, e non avendo omesso di esaminare li Scritti di Livio, Dione
Cassio, Appiano, Tanfo, e Vellejo Patercolo fra li Scorici antichi, non che
quelli dì Seneca, Macrobio, ORAZIO (vedasi) Flocco, Virgilio, Properzio, ed
altri, ho tessuto questo qualunque siasi lavoro, con aver procurato di non CO
Tiratosela Stor. della Lett. ltal.. ... r j deviare nella narrazione de' fatti
dà un ordine regolare, e cronologico. Fra li moderni ho fatto uso delle Storie
del dotto Inglese Lorenzo Echard (1), e degli eruditi Catrou, e Rovillè (2 ),
nelle quali oltre a non poche notizie relative al mio assunto, ho toltili
materiali sulla Storia contemporanea, con aver però ri-* scontrati li fonti, in
cui quelli avevano ati tinto, Lapresente Operetta è divisa in IV Libri. N el
primo si sono rintracciate le Notizie sull’ origine, e sulle qualità della
Famiglia de' Cilnj ; si fissa l’epoca, in cui il nostro M. può essere entrato
nella CorQe di Ottavio Augusto, e si nota tutto ciò che vi ha di più rimarchevole
sulle di lui geste e precedenti al Triumvirato, e dopo di esso fino alla Cuerra
detta di Perugia, cagionata dagl intrighi di Fulvia Moglie del Triumviro
Marcantonio. Contiene ancora le operazioni del medesimo M., e prima, e dopo la
disfatta di Bru-> to, e Cassio nelle Campagne di Filippi, (1) Storia Romana
dalla Fondazione di Roma sino alla Traslazione dell’ Impero sotto Costantino
scritta in idioma Francese dall’ Abb. delle Fontane sopra l’Originale Inglese. Venezia 1751. (*) Histoire
Romaine depuis laFondation de Rome par les RR. PP. Catron, et Rovillè. Paris. Il secondo Libro comprende
la serie de folti relativi alla Storia di M. dalla indetta disfatta di Bruto
fino alla morte del succe rinato Marcantonio, c della famosa Cleopatra, Epoca,
in cui Ottavio rimase il solo Dominatore della Romana Gran dezza. N el terzo
Libro si vedrà il Congresso tenuto da questo con Agrippa, e M. per deliberare,
se, stante V estinzione del Triumvirato, dovesse ristabilirsi nel suo stato
primitivo il sistema Republicano, o se dovessero gettarsi le basi di una
Monarchia Universale, e qui si leggeranno li giudiziosi, e politici discorsi,
recitati l’uno da Agrippa, che perorò per la Repuhlica, e l’altro da M., il
quale fa di opposte sentimento, ed opinò per lo stabilimento della Monarchia ;
e come Ottavio antepose le ragioni di questo alle riflessioni di quello. N eli’
ultimo Libro si conoscerà quale fesse l influenza di M. sullo spirito di
Ottavio, divenuto Imperadore, e quale la deferenza di questo verso di quello.
Si ravviserà inoltre quanto grahde fosse la protezione, c la liberalità di M.
verso i Letterati, e quale impegno avesse per il progresso dèlia Letteratura, e
delle Scienze. In fine sipario della Morte. Hò creduto di aggiungere, dopo la
Storia, Appendice divisa in tre Discussioni, che sonuninistrano de'
schiarimenti, ai altre- memorie, che in quella, q erano state omesse, o appena
accennate. Le prime due Discussioni abbracciano Le notizie relative ai celebri
Giardini, ed Abitazione, che M. possedeva in Roma, ed alla magnifica sua Villa
situata sulle sponde dell ’ Aniene presso Tivoli. La terza si aggirerà sulla
pretesa Febre perpetua, e Veglia Triennale, che Plinio il Naturalista
attribuisce a M. Tutte le volte, che questo grand’Uomo trovò degl' imitatori
nella protezione, e nel favore delle Lettere, e dei Coltivatori delle medesime
si viddero comparire degl ' ingegni prodigiosi, e la Letteratura fece mirabili
progressi, In fatti a questa imitazione siamo debitori di tante utili scoperte,
e di quelle venuste produzioni dello spirito umano, che viddero la luce sotto i
Leoni, sotto gli Alfonsi, e in tutte le altre epoche, nelle quali le fatiche
de' Dotti furono r.icompcnsate, ed avvalorati li talenti. Se pertanto questa
imitazione non sarà posta in oblìo, e se il nome di Cajo Cilnio M. non sarà
dimenticato, li Secoli successivi saranno sempre più migliorati, ed illuminati
dallo sviluppo delle umane cognizioni. LI Poeta Marziale, che vivgpa in un
epoca, in cui la Letteratura inclinava alla sua decadenza, si lagna, e fa
conoscere, che allora non esistevano dei Mecenati, che non erano le scienze
protette, e che perciò non si vedevano comparire ingegni sublimi. Ti meravi gli
> 0 Fiacco, che a tempi nostri. .. manchino ingegni simili a quello di
Virgilio,, Marone, c che niuno sappia cantare le mi-,, litari imprese con una
tromba eguale alla sua. Io ti rispondo, che se vi fossero de * Mecenati, come
quelli, che vissero sotto I Impero di Ottavio Augusto, vedresti svilapparsi
altri Genj niente inferiori a quello,, del Poeta Mantovano. Era stata a questo
rapita la sua piccola Possessione presso Crcmona, implorò la protezione di
M.,,, pianse, e sotto il nome diT itiro cantò in,, stile boschereccio le
perdute pecorelle. Rise al suo flebile, ma dilettevole canto il Toscavo
Cavaliere, e tantosto fugò da esso la,, maligna povertà. .. Allora Virgilio
concopi la grandiosa idea dell ’ Eneide . Se tu dunque, o Fiacco, sarai
benefico come M., e mi ricolmerai di doni, ti,, assicuro, che anche io diverrò
Virgilio (l). ( i) Martini. Lib. 8. Epigr. 55. ad Flaccnm. Temporibus nostris ìngenium
sacri miraris abesse Maronis; Nec quemquam tanta bella sonare tuba. $int M. s,
non deerunt, Flacce, Marones. Jugera perdiderat miserae vicina Cremonae, y
Flebat et adductas T ityrus aeger opes. Jìisit Tuscus Eques, paupertatemque
malignarti Rcpulit, et celeri jussit abire fuga, Digitized t XIII Nello
scrivere la presente Storia non pretendo di aver fatto un lavoro completo, nè
di aver raccolto tutte le Memorie sulle avventure politiche, morali, e civili
di questo esimio Cavaliere Romano. Se non vi sono riuscito, non fu colpa della
mia volontà, o effetto di trascuratezza. Qualunque mancanza si deve attribuire
alla ristrettezza delle mie cognizioni, e de’ miei talenti. Può essere però,
che all' impulso di quésto mio travaglio altri si scuotano in seguito, che
forniti di migliori materiali, ed ingegno più elevato, sappiano supplire alli
miei difetti- Io gioirò allora nel mio cuore, e leggendo novelle prbduzio'ni, e
nuove scoperte intorno alle geste del mio Eroe, sarò ben contento di apprendere
da altri, ciocchi io aveva tentato di conoscere colle mie fatiche. Protinus
Italiam concepii, et arma virumque. Ergo ero Virgilius si munera Maecenatis
E>es wihi. . v w. v i y* N A STORIA DI CAIO CILNIO M. _| ràle famigli» le
più antiche, e doviziose di Arezzo nell’Etruria meritamente è annoverata quella
de’ Cilnj. Circa la metà del quinto Secolo dopala fondazione di Roma, e
duecento novant’ anni puma dell’Era volgare la medesima figurava luminosamente
non solo nella propria Città:, ma eziandio sopra tutta la Nazione ; se noti che
le grandi ricchezze avendola resa troppo orgogliosa, e prepotente, si procacciò
l’odio, e l’ invidia, delle altre famiglie, e de’ suoi concittadini, e fu
sottoposta a disgustiose vicende. Nell’ epoca succenuata, e precisamente nell’
anno 4S0. di Roma, fu ordita nel seno stesso della sua Patria contro di quella
una terribile congiura # e quantunque, per mezzo de’ suoi rapporti, ne
giungesse al discoprimento,, non potè però impedirne l’esplosione. Gli Aretini
presero le armi risoluti di discacciarla dalla Città, e non avrebbe potuto
disimpegnarsi dalla pericolosa situazione, se non avesse trovato un appoggio
nelle forze della Romana Republica., Questa aveva già sperimentato più volte la
potenza, ed il valóre degli Etrusci, che in quel tempo costituivano una nazione
popolosa, formidabile; e guerrierafi) e se aveva su di questa riportate delle
vittorie, TEtruria non faceva ancora parte delle provincie Romane ad essa
confinanti. In questa occasione, o fosse realmente per soccorrere li Cilnj » o più
probabilmente per profittare delle interne dissensioni, Roma vi spedi il
Dittatore Marco Valerio Massimo con un’ armata. Sebbene lo Storico Livio narri
il principio, il progresso, ed il termine di questa insurrezione degli Etrusci,
nutladimeno, secondo il medesimo, sembra, che riuscisse al Generale Romano di
calmare li sediziosi movimenti degli Aretini, e di riconciliare la Plebe, con
la detta famiglia de' Cilnj i senza alcun fatto d’armi rimarchevole, e
sanguinoso,, Correva,, la voce ( dice Livio ) cbe l’Etruria avesse inalberato
lo stendardo della rivolta, e che erasidato principio! alla medesima dalle
sofnmosse degli abitanti di Arezzo, nella qual Città la prepotente famiglia de’
Cilnj, invidiata perle ricchezze, voleva scacciarsi colle armi Alcuni Autori,
che (l j> Livio lib.q. Cap.iqi Prodigato Samnitium bello ;. .. Etrusci belli
fama exorta èst, non erttt ea tempestate gens alia, cujus . .,. arma
terribiliora esscnt cum propinqui tate agri, tum muli ita din è hom&nutn, y
tengo presso eli me, affermano, che per iopera del Dittatore, calmati li
sediziosi movimenti degli Aretini, e ricpnciliata Plebe con la famiglia de’
Cilnj, fosse ricondotta la quiete nell’Etruria, senza alcun fatto d’ armi
memorabile. Dopo due anni però, cioè nell’anno 453, si accese nuova guerra fra
questa, e laRepublica Romana. Sene ignora la, cagione, e non si conosce qual
parte vi prendessero i Cilnj, e sebbene l’E trulla fosse costretta a chiedere
la pace, tuttavia dopo breve tempo fu indotta a novelle ostilità dai Sanniti.
Questi popoli guerrieri sempre inquieti > benché sempre vinti dai Romani,
nell anno 557. tornarono all’ armi, e fecero tptti li sforzi per stringere
un'alleanza offensiva con le popolazioni Toscane Etrusci ( cosi parlarono li
Deputati de’ Sanniti ) piu d’nna volta ci siamo cimentati ne’ campi di Marte
con le Coorti Romane ; abbiamo dimandata Lib. io. num. 3. e 5. Multiplex de
inde exortus terror. Etruriam rebellare ab Aretinorum scditionibus, mota orto,
nuntiabatur, ubi Cilriiurn genus praepotens, divi tiarum invidia pelli armis
ceptum Ha* beo Auctores, sine allo praolto pacatam a Dittatore Etruriam esse,
seditionibus tantum, Aretinorum compositis, ctCilnio genere cuoi plebe in
gratiam redacto. . L. . v ) la pace, quando non potevamo sostenere più
lungamente il peso della guerra. Siamo tornati ora a' prendere nuovamente le
armi, perchè la pace ci era più dura degli orrori di quella L’unica nostra
speranza però, la sola nostra risorsa risiede nella nazione Toscana, nazione
ricca, bellicosa, e fertile di guerrieri. Se noi avremo il vostro ajuto, e voi
risveglierete ne’ vostri petti quel coraggio,. con cui Porsena, e i ^vostri
Maggiori spaventarono Roma istessa, nulla avremo a desiderare (i). Li Sanniti
ottennero ciò, che bramavano. Gli Etrusci accedettero alla lega, e la guerra
cominciò con furore. Ma non era ornai più tempo di resistete alle forze delle
Republica Romana già divenuta invincibile .'Eglino furono superati, e la sorte,
che incontrarono in questa, incontrarono ancora nelle altre guerre posteriori,
finché furono costretti a sottoporsi alle leggi, ed all' impero di quella.
Quantunque la Storia ci abbia occultato le avventure de’ Cilnj, dopo che
l’Etruria fu da’ Romani soggiogata, pure sembra potersi credere, che
continuassero sempre ad occupare un rango distinto fra le famigliedella
Nazione. Imperciocché se deve -prestarsi fede al Poeta Silio Italico, nella
seconda guerra Punica un individuo di essa famiglia militò contro Anni • I ., N
1 • Tit. Liv. lib.io. cap.x i. w. •. baiò sotto le bandiere Romane e tuttoché restasse
prigioniero, diede argomenti di coraggio, e di valore. Avendo Annibaie superato
le Alpi, incontrò nelle vicinanze della Liguria il Consolo Cornelio Scipione,
che con un’ armata Romana voleva contrastargli la marcia ; ma impaziente il
Generale Africano di dare esecuzione al già meditato progetto di conquistare
l’Italia* e impadronirsi ancora del Campidoglio, attaccò l’esercito nemico. La
battaglia fn incominciata, e sostenuta con accanimento dalla Cavalleria Numida,
e le truppe di Scipione furono completamente disfatte. Egli stesso rimase
ferito, e sarebbe caduto frà le mani de’Cartaginesi, se non avesse combattuto
al sno fianco Scipione di lui figlio denominato posteriormente Africano. Questo
giovane guerriero, benché in età di soli diciotto anni, salvò il padre con il
suo coraggio, e diede in tale occasione li primi saggi de’ suoi talenti
militari. Questa terribile battaglia, e questo disastro dai Romani sofferto
accadde tra il Pò, ed il Ticino nell'anno di Roma 536. (i). (i) Dion. Cas. lib.
14. Eutrop. lib.3. Florus lib.a. Cap. 6. Ac primi quidem impetus turbo inter
Padum ac Ticinum valido statim fragore delonuit. Tunc Scipione Duce,fusus
Exercicus, saucius et ipse venisset in hostium ma nus Imperator,niii protectum
patrem praetex «I 6 Frà li molti prigionieri di distinzione fatti da'
Cartaginesi si numera un Cilnio della Città di Arezzo nell’ Etruria. Giovanetto
anch' esso, come il figlio del suo Generale, combatteva nella Cavalleria
Romana. Il suo Cavallo ferito cadde nella pugna, ed egli restò prigioniero. Il
surriferito Silio Italico, che narrò in versi tutte le azioni di questa guerra
formidabile, cosi si esprime Cilnio d’ il-,, lustre prosapia, e nato nella
Città di Arezzo, situata nelle contrade Toscane, da un destino crudele era
stato spinto sulle rive del Ticino, benché giovanetto; quivi nel furor della
mischia, balzato al suolo,, dal suo Cavallo divenuto furibondo per una,,
ferita, era stato costretto a sottoporre il collo alle Libiche catene „(i).
Annibaie bramando di conoscere le geste, e l’origine di Fabio Massimo Dittatore
Roma tatus admodum filius ab ipsa morte rapuisset. Sii. Italie, lib.7. de
Bell.Punic. ver.ao. At Libyae Ductor postquam nova nomina lecto Dìctatore
vigent ....• Oeyus accìtum captivo ex agmine poscit Progenicm,rituscjue
Ducis,dextr aeque labores; Cilnius Arreti Tyrrhenis ortus in orit Clarum nomea
erat, sed laeva adduxerat fiora Ticini juvenem ripis, fususque ruentis V ulnere
equi, Libycit praebebat colla catenu. Cop ale i no» di cui tante cosq narrava
la fama, ne interroga il sudetto Cilnio suo prigioniero. Questo appaga il
Generale Africano, ma gli parla con franchezza, e coraggi^, e gli fa Conoscere
in fine, che piu della schiavitù, cui era stato per disavventura sottoposto,
amala morte. Offeso .quello dall’ardita risposta di Cilnio, cosi lo rampogna.
Indarno, q folle, cerchi di accendere il mio sdegno, è di schivare con morte,
che desideri, », la schiavitù. Viyrrai tuo malgrado, e il tuo collo sarà
riservato al peso di catena più pesanti .,,(1). « Dopo la battaglia del Ticino
i Annibaie continuò a trascorrere l’Italia, riportando segnalate vittorie. La
più strepitosa, e memorabile fu quella presso Canne piccolo, ed ignobile Borgo
della Puglia nell’anno di Roma $ 38. La perdita della Romana Republica in
questa fatale giornata fu immensa. Tutte le famiglie furono ricoperte di lutto,
perchè ognuna vi ebbe delle vittime da compiangere (a) ; e la terribile strage
non afflisse Roma (1) Sii. Ital. loc. cit. vers. 40. et seq. Qnem ( Cilnium )
cernens avidurn leti post talia Pocnus Nequidguam nostras, demens, ait, elicis
iras, Et captiva paras moriendo evadere vincla ; yivendurn est, arefa servàntur
colla catena. Lucius Fior. Lib. a. Capi 6. Ultimwn 8 soltanto; essa aveva
fatttf leva di frappe dar tntte le Provincie o conquistate, o collegate, onde
sù di qneste si diffuse non meno l’or- 1 rore prodottoda quella battaglia
sanguinosa * Perciò anche TEtruria dovette dolersi de’ suoi guerrieri estinti
nelle campagne della Paglia, e frà gli altri di un illustre Pcrsonagf. gio
chiamato M., e dell' iste.ssa famiglia de’ Cilnj. Il sndetto Siliò Italico
dettagliando li soggetti di distinzione, che erano periti a Canne, fa menzione
particolare di questo èon tali espressioni Te'ancora trafitto nelL* inguine da
Tiri© strale Veggio cadere estinto, o M., nomeMllustre per li scettri Toscani,
e venerato per la patria, che ti diede i Natali (i). Se fosse incontrastabile
l’autorità di questo Poeta potrebbero farsi alcune riflessioni, relativamente
all* oggetto della Storia, che si descrive ; Nella battaglia del Ticino è fatto
prigioniero un Cilnio cittadino di Arezzo, di prosapia illustre ; in quella
presso Canne, cioè dne anni dopo, cade estinto altro sogetto chiamato M.,
parimenteToscano, mà bulnus Imperli, Canna e, ignobili s Apuliae V icus, sed magnitudine
c/adii, emersit ; et quadraginta millium eacdr parta nobilitai ; Ibi in exitium
infelicis exercitus dux, terra, coelum, dia, tota denique rerum natura
contentiti ( i) Lib. io. vers. 39. Digitized by Google li antenati del quale
erano stati Monarchi : Et sceptris olirti celebratum' nomen Etruscis : Ora
l'uno, e l'altro discendevano dalla stessa famiglia de’Cilnj, o erano di due
separate famiglie ? Come poi, e quando, e chi delle medesime venne a stabilirsi
in Roma ? La notte del tempo, e la mancanza di memorie ci toglie tuttU lumi
necessari, onde ravvisare la verità senza incertezza, e giungere allo
scioglimento di tali dubbiezze • Dall' anno 538. epoca della ìsudetta battaglia
presso Canne fino all’anno 66a. dì Roma ci si presenta un vuoto penoso, che
nulla ci fa scorgere sull' oggetto ricercato; in quest’anno però sembra, che
comincino a diradarsi le tenebre, ea presentarcisi un qualche raggio
rischiaratore per conoscere, che allora la famigliar M. già erasi stabilita in
Roma, leggeudo, che un Cajo M., aggregato al corpo de’ Cavalieri, figurava
luminosamente in quella. Capitale. In tal epoca, e precisamente nel detto anno
66a. era Tribuno della plebe Marco Livio Druso. Questo cittadino Romano fornito
di nobiltà, di ricchezze, e di eloquenza attaccò le prerogative esistenti
nell’antico, e no Oppetis, et Tyrio super inguina fixe veruto, Maecenat, cui
maeonia venerabile terra, Et sceptris olirti celebratum nomen Etruscis. IO bil
ceto de’ Cavalieri » e -vedeva, thè » me-/ diante una Legge,' venissero; questi.'
spogliati dei-diritto sulla Giudicatura, dritto annesso, óna volta, al Senato
iifi) j -, Per riuscire nel suo progetto Druso fece ogni sforzo, e non trascurò
dt mettere in ino» vimento tutte le risorse della politica, dell' eloquenza, e
della saviezza ± mà oltre ad ave? re incontrato delle forti opposizioni fra li
stessi Senatori, -Cajo M.,• Flavio Pugione, e Gneo Titinmo, Cavalieri di
specchiata probità si opposero energicamente alle di lui potenti manovre, e con
lai loto fermezza, ed influenza* mandarono a. vuoto il progetto di Legge >
che già quello aveva modellato (2). ? L’Oratore Marco Tullio Cicerone
nell’Orazione a favor di Cluenzio, presentandogli I * • i •• 1; i - Vellej. Patere. Lib. a. Art.i 3 .De inde
f inter jectis paucis annis, TriburuUum iniiejtf. Livius Drusus, vir
nobilissimus, eloguentis simus, sanctissimus, qui cum Senatui priscum
restituire cuperet dccus, et judicia ab Equi ti bus ad eum transfer re Ordinem.
.. in its tpsis, quae prò Senatu moliebatur, Senatum habuit adversarium, Liv.
in supplem. lib. 71. art. ar. Adeoque
Cajus Flavius Pus io, Gn.Titinius, Cajus Maecenas Principes Equestri s Ordinis
Curiata hit le gibus ingredi aperte ree usar unt. re l'occasione di rammentare
questo avvenimento de’ fasti Romani, fa un’elogio, e di Cajo M., e degli altri
due Cavalieri ne’ termini seguenti Allora Cajo Flavio Pugione, Gneo,, Titinnio,
e Cajo M., que’ potenti sostegni del popolo Romano non agirono, come ha ora
agito Clueuzio, quasi che ri* >, cnsando pensassero di far ricadere sopra di
essi un qualche principio di colpa, ma ricusando apertamente, energicamente, ed
onestamente fecero conoscere, che eglino avrebbero potuto sollevarsi per
giudizio del Popolo a cariche sublimi, se avessero >, direttele loro cure a
richiederle ... ma,, che, contenti del solo ordine Equestre, incui si
trovavano, in cui erano vi» suti ancora li loro Maggiori, avevano stimato di
seguire una vita quieta, e tran* qui Ha lungi dalle procelle, che sogliono
suscitare l’invidia, e gl’intrighi de* giudi»> zj, simili a quello, di
cui.si tratta Oraf prò Cluentio nnm. 56. 0 Virot fortes, Equites Romanos ! qui
ho mi ni Claris simo, oc potentissimo M. DrusoTribuno pie bis restiterunt Tane
C. Flavius Pusio, Cn. Titinius, Cajus Maecenas, illa robora papali Romani,
ceterigue hujusmodi Ordinis non fecerunt idem, guod nane Cluen tius, ut aliquid
culpae susci pere se putarent recusando, *ed apertissime r spugnar unt, cunt
Qigilized by Goo jle i iDa questo Caio M., di dui parla Cu cerone,~fiho
all’anno della nasci ta dèi nostra CajoCtlnio' M. non trascorsero, .che soli
anni ventiquattro-, essendo egli n3to, come fra poco si vedrà /udranno di Roma,
cosi che se, quando quello si oppose all’ intrapresa dal Tribuno Druso
nell’Anno 663. non era in età provetta, poteva vivere: ancora quando ebbe
principio resistenza di questo. i E sebbene sia sembrato irreperibile il suo
preciso anuo Natalizio,, tuttavia riflettendosi sull ’ annoi della nascita * e
sù quello della morte del Poeta Orazio Fiacco, si potrà conoscere, e forse con
qualche sicurezza, che il nostro Cajo Cilnio M. fu messo al mondo nell indicato
anno 686. dopo la fondazione di Roma, ed anni sessantotto prima dell'Era
volgarp. et Lucio Asinio Gallo Consulibus. Fast. Cons. loc. cit. pag. 107.
Digitized by Google i5 quantasette, qual periodo’ di vita appunto gli assegnano
Eusebio di Cesarea (i ) Pietro Crinto ( oc) ed altri ., Sembra anche certo
egualmente, che il nostro Cajo Cilnio M. morisse di anni sessanta, è nell* anno
istesso, in cui cessò di. vivere Orazio ; anzi non s'ignora, che il primo mori
verso il mese di Settembre, ed il secondo nei mese di Novembre ( \) ’•[ Dunque
M. aveva preceduto di tre anni, resistenza di Orazio, che visse cinquantasette
an. ni conforme si è detto, ed essendostata fissata ; 1 ;!/ InChronich.
Horatius quinquagesimo septimo aetatis siiae anno Romae moritur .In Vit. Horat. Mortuus est autemHo
ratius anno aetatis suae septimo, et quinquagesimo. (i ) Dion. Gas. lib. 55.
Morery Gran. Diction. Histor. art. Maecen. Briet. Ann. Mund. Tom. j. part. 3. ad ann. 746.
Consulibus Cajo Mario Censorino, et C. Asinio Gallo fnensi Sestili indìtum est
Augusti nomea .... Obiìt etiam hoc anno Maecenas Litterarum praesidium, et
decus Nequc diti suo Mae cenati supcrvixit Horatius Flaccus Poeta Lyricus.
Obiit enim non aetatis anno 60, ut ali qui, non 5 o, ut alti, sed 5 j, hisque
Consu li bus. v ( 4) Cafrou.Hist. Eom. Tom. 19. 16 la nascita di questa all’
anno 689. il Natale di quello deve rimontare all’ anno 686. dopo la fondazione
di Roma, ed. all' anno 68. prima dell’Era volgare » Con maggior certezza poi si
conosce il giorno preciso, in cui il sudetto Cilnio fu registrato nel numero de
mortai}, che fu il giorno i3. Aprile. La verità di questo punto istorico
risulta dalle Odi del surriferito Orazio Fiacco. Volendo quest» Poeta celebrare
la ricorrenza del sudetto giorno Natalizio del suo amico M., invita Fillide
alla Festa, e cosi si esprime Ed affinchè conosca, o Filli de, a quali
esultanze io ti chiami, sappi, che dovrai celebrare con ime il dì, che in due
divide il mese di Aprile, sacro a Ciprigna; giorno per me giustamente solenne,
e più sacro ancora dj quello, nel qua., le io nacqui; giacché in esso
incomincia a,, numerare gli anni della sua vita il mio M. Od.i 1. Vi tanica
noris, quibus advoceris Gaudiis ; Idus tibi sunt agendac, Qui die* mcnsem
Veneri s marinai Findit-Aprilem. J are sole mais mihi, sanctiorque Paene Natali
proprio, quod ex hac Luce Maecenas meus ajfluehtes Ordinai annoi, Avendo
procurato di rintracciare alla meglio l'anno, ed il giorno della nascita del
nostro Cilnio,, stimo pregio dell'opera di fare alcune osservazioni
relativamente al suo Padre, ed alla sua Stirpe. Quel Cajo M., che nell' anno
66a. faceva in Roma una comparsa brillante, era ascritto nell’ordine de’
Cavalieri ; ciò si è dimostrato coll' autentica testimonianza di Cicerone, ed
anche con le autorità di Livio testé riferite. Inoltre l’ istesso Cicerone ci
fa conoscere, che il Cajo M., di cui fa egli gloriosa menzione, non aveva
alcuna ambizione, nè curava di sollevarsi ad impieghi luminosi, ai quali pur
troppo avrebbe potuto giungere per la buona opinione, che godeva presso il
Popolo ; ma che contento del semplice titolo di Cavaliere, amava di passare una
vita lieta, e tranquilla ad imitazione de’ suoi Maggiori. Se potuisse ( sono
parole di Tullio sopra-,, enunciate ) Judicio populi Romani in amplissimum
locum pervenire, si sua studia,, ad honores petendos conferre voluissent sed
Ordine suo, Patrumque suorum contentos fuisse, et vitam illarn tranqnillam, et
quietam .... sequi ma-,, luisse. Ora il carattere, che forma Cicerone di questo
Cajo M., non è similissimo a quello del nostro Cilnio ? Tal circostanza si
conoscerà nel decorso della sua Storia, ma intan B j8 to possiamo accennare,
che questo aveva tutti li mezzi per inalzarsi a cariche le più eminenti, e
decorose, stante la grande amicizia, di cui era onorato da Augusto, ma che pago
del suo stato, e del semplice titolo di Cavaliere, mai volle, ne dimandò altri
onori, e nuovi impieghi. A ciò si può aggiungere l'epoca del tempo, in cui
quello viveva, ed era celebrato per uno de’ sostegni del popolo Romano, ed in
cui sono fissati i natali di questo, e dal tutto insieme ne risulterà un grado
di probabilità non del tutto dispregevole, per credere, che il sudetto Cajo M.
potè essere l’Autore del nostro Cilnio. Potrebbe la nostra assertiva essere
smentita da una antica Iscrizione riportata da Dionisio Lambino nella quale si
parla di M. figlio di Lucio ; poiché se questa avesse rela - ( i) Lambin. in
Com. adOd.i. lib. i. Horat. £ 7 ni us praeterea Marnioris antiqui testimo— nium
producala, quod Romae visitur in Aedibus Fusco aura e regione aediurn
Farnesiarum, in quo haec sunt incisa. Lieertorvm et Libertarvm C. Maecenatis.
R. F. Pontif. Posterisq. eorvm Et qvi ad xd tvendvm CONTVLERVNT CONTVLEIUUT
zione al nostro M., sarebbe stato figlio di Lucio M., non di quel Cajo da
Cicerone accennato. Ciò non ostante pare che un tal documento non Taiga, nè a
somministrare schiarimento sull'oggetto, di cui si parla, uè a distruggere la
detta nostra assertiva, i. peri hè non costa, che quella Iscrizione seco porti
un carattere di sicura autenticità ; a. perchè non si conosce dal contesto
della medesima l’epoca del tempo, in cui fa incisa, né a qual Cajo M. debba
riferirsi. Veniamo ora alla Stirpe del nostro Cilnio. Gli Autori antichi, e
moderni, tutti li Commentatori di Virgilio, di Orazio, di Properzio, ed altri
si sono divisi di opinione nel fissare la nobiltà della discendenza di questo
grand’Uomo. Orazio, Properzio ed anche Marziale chiaramente hanno scritto,
Od.j.Lib.i. Maecetias atavis edite Regibus, O et praesidium, et dolce decus
rneum! Maecenas eques Etrusco de sanguine Regum, Intra fortunam qui cupis esse
tuam. Lib. la. Epigr. 4. Quod Fiacco, Varioq.fuit,summoque Maroni M. atavis
Regibus ortus eques. B a Od. ug. lib. 3. Tyrrliena Regum prò genies,
Lib.3.Eìeg. che egli era di stirpe reale. IlTorrenzio Commentatore di Orazio,
descrive una linea genealogica degli Antenati reali di quello, e crede, che il
suo Bisavo fu Cecinna Re degli Etrusci. Acrone ('a) altro Commentatore antico
di Orazio è dallo stesso sentimento, « fa seguito dall’ autore dell’ Elegia
attribuita all’ Albinovano ^ 3 ), e dal Beroaldo Commentato' re di Properzio ;
anzi quest’ ultimo suppone, che discendesse dal famoso Porsena parimente Re de’
Toscani. Al contrario Dione Cassio, ( 5 j e Vellejo ( 1 ) Comment. ad Od. 1.
lib. 1. Horat. Antiquis Regibus prognate: cui Menodorus Pater, Menippus Avus,
Cecinna li ex Etruscorum fuit A t avus. (2) Comment. ad Od.i. Lib.r. Horat.
Edite Regibus : quo ni arn dicitur (lux i ss e originerà ab Etruscis Regibus,
et contempsisse Seuatoriam dignitatem. Eleg. in obit. M.. Rcgis eros genus
Etrusci, tu Caesaris olim Dcxtera, Romanae tu vigli Urbis eros, Com. ad Eleg.
cit. Propert. Etrusco de sanguine Regum : quia fuit oriundus a Porsena Rege
Etruscorum. Lib. 19. pag. 534. Reliquas res non Ro mae modo, sed per totani
Italiam Co* Patircelo (t), benché spesso parlino del medesimo non gli
attribuiscono un origine reale, ma lo caratterizzano soltanto per un indivivuo
di ragguardevole e splendida famiglia. Dacier poi, e Pallavicini sono d’avviso
$ che dalle indicate espressioni di Orazio, di Properzio, e di Marziale non può
con certezza dedursi, che frà le vene del nostro Gilnio scorresse un regio
sangue ; giacché è noto altronde, che le parole Re, e Regina, nel senso de’
migliori Autori, segnatamente Poeti, spesso significano Signori potenti,
Uomini, e Donne di qualità, e distinzione ; e cosi aveva ancora in sostanza
pensato il Porfirione prima de' sudetti Dacier, e Pallavicini. Riguardo ai
Poeti contemporanei però non tutti han parlato sull'oggetto ip questione, come.
Properzio, ed Orazio. li Poeta di Mantova più d’una volta si volge col discorso
a M. nelle sue Georgiche, ep jus Maecenas, equestris dignitatis vir admi
nistravit. (1) Lib. 2. art. 83. Tum Urbis custodiis praepositus Cajus M.
equestri, sed splendido genere natus. (2) Annot. crit. sopra Oraz. Canzon. di
Oraz. pag. i 5 i. Comment. ad Od.i Horat. M., ait, atavis Regibus editus, quia
Nobilibus Etruscorum ortus sic. lì pure non Io ha mai decorato di nna reai
prò-» sapia• La diversità di queste opinioni potrebbe ini qualche guisa
conciliarsi, se, come si è sopra accennato, sussistesse realmente ciò che
abbiamo veduto asserirsi dal Poeta Silio Italico nella seconda guerra Punica.
Imperciocché si è in quel luogo rimarcato, che quel Cilnio fatto prigioniero
nella battaglia del Ticino non è chiamata di stirpe Regia; e che quel M., che
mori posteriormente presso Canne era celebrato per li Scettri Toscani. Nella
verità di questi fatti potrebbe Georg lib. i.vers.i. e seq. Quid faciat laetas
segete s, quo sidere terram V ertere, Maecenas, ulmisq. ad/ ungere vites
Conveniat Hinc cane re incip iam. Lib. a. vers. 40. Tuque ades inceptumque una decurre
laborem Maecenas pelago que volens da vela petenti Lib. 3. vers. 40. IntereaDryadum sylvas, salt us que scquamur
Intactos, tua, M., haud rnolliajussa Lib. 4 vers. i Protinus aerii melili,
coelestia dona Exequar, hanc etiam, Maecenas, excipe partem. aà dirsi, che
Orazio, Properzio, Marziale, e gli altri, che danno al nostro Cilnio una Regia
discendenza, lo abbiano fatto derivare dal secondo ; e che Virgilio, Dione,
Vellejo, e gli altri segnaci dell' opposto parere nbbian fissato per Capo della
sua famiglia, o per uno de’ snoi Antenati il primo. Si è disputato ancora in qnal’epoca,
a quale degli Antenati del nostro Cilnio, e per qual motivo venisse aggiunto il
nome di M.. Riguardo all’ epoca, nell’ anno 450. di Roma la famiglia de’ Cilnj
ancora non portava questo nome, conforme si è osservato da Livio. Ottantotto
anni dopo, cioè si comincia a vedere in quel M., che mori presso Canne, sempre
però sull’autorità poetica del surriferito Silio Italico * Nell’anno 66atrovasi
in Roma già celebre, e rinomato in quel Cajo M. encomiato da CICERONE (vedasi).
MeibomiO riporta un frammento del Libro terzo delle Storie di Sallustio,
estratto da Servio Commentatore di Virgilio, in cui si fà menzione del famoso
Sertorio, e di un M. Segretario del medesimo. Sertorio morì Jn Vit. M..
Praeloqi adlect. Ex-^ tot Sallustii fragmentum apud Servium adLib. X. Eneid.
Virg. ex Histor. illius lib.g Igitur, inquit, discubuere Sertorius inferior in
medio, tuper eum Lucia s F alias Hispaniennt S* notar , nell’anno di Roma 68a.
Terenzio Varrone, che viveva, e scriveva nell’ epoca istessa, in cui mori Sertorio,
fa uso ancora esso nelle sue opere della parola M. e di cui si tornerà in
appresso a parlare. Da tuttociò sembra chiaro, che nel settimo Secolo di Roma
già fosse commune alla sudetta famiglia il nome di M.. Ma riguardo a conoscere
a quale degli Antenati di Cilnio, e per qual motivo fosse aggiunto quel nome,
il Martini ingenuamente confessa, e si protesta, che il tutto è involto nelle
tenebre, e nella incertezza, (a) Aggiunge però che se fosse lecito di
promuovere sn questa sconosciuta materia qualche riflessione, che possa aver
luogo, non già sul vero, o sul verisimile, ma sul possibile, si po sa:
Proscriptis ; in summo Antonini, et infra Scriba Sertorii Versius, et alter
Scriba Maecenas in imo. (i) De Ling.
Latin.Lib.7. in fin. (a) Lexic. Philolog. art. M.. De origine nominis nihil
certi, et *'ix aliquid probabile dici potest ; quia certum est, esse nomea
proprium,nec vcrum satis certum mihi qui dem est, cujus linguae vox sit, et
historia de stituor cui, et ex qua causa primum juerit imposi tum. Addo, quod ctiam de vera scriptum dubitai ur.
Digiti?ed iS trebbe dire, che la voce M. è un vocabolo Etrusco derivante dall’
idioma de’ Caldei, dalla qual nazione gli Etrusci hanno avuta la loro origine ;
primieramente, perchè la flessione di detta voce seco porta un non so che di
straniero ; in secondo luogo, perchè li nomi de’ Caldei si solevano
ordinariamente prendere dalle forze naturali degli oggetti morali, dalle
facoltà, dalle azzioni, e dalle passioni. Il Catrou è d’avviso (a) che con
Tantorità di Varrone, e di Plinio possa trovarsi nn qualche schiarimento per
sapere, come fosse dato un tal nome alla famiglia de’ Cilnj. Secondo quello, si
rileva dal succennato Terenzio Varrone, li nomi degl’ individui, che finivano
in as, significavano qualche luogo. Si licei aliquid de hujusmodì prorsus
incognitis dicere, quod ncque inter vera, neque inter verisimilia, sed tantum
inter possibilia ponantur, sit nomen Etruscum, ex Caldaea(inde enim Etruscis
est origo ) praesertim, quia forma flexionis peregrinitatem sapit. Nomina autem
fere a naturalibus viribus, a ut a moralibus objectis, facultatibus,
actionibus, aut passionibus imponi consueverunt, tamquam monumenta quaedam de
iis, quae rebus insunt, vel adsunt, vel ab eis sunt. particolare dell'
individuo medesimo (i\ Plinio poi ci avverte, che fra li vini scelti dell*
Italia erano celebrati quelli ancora, che si raccoglievano dalle Vigne
Mecenaziane (a) : perciò conclude il detto Storico, che il nome di M.
provenisse a quella famiglia da qualche terra, o possessione alla medesima
spettante. Ma, ad onta di tali dilucidazioni, sembrando la cosa tuttora
incertissima, secondo il sullodato Martini, dobbiamo soffrire una tale
ignoranza senza sgomentarci, e con quella docilità, e rassegnazione j con cui
soffriamo l’oscurità, e l’incertezza di tante altre materie più interessanti.
Potrebbe qui aggiungersi ancora una qualche riflessione sulla formamateriale
della parola Maceenas, ed esaminare se debba scriversi Hinc quoque dia nomina
Le* nas, Ufcnas, Lavinas, M., quae cum essent a loco, ut Vrbinas, et tamen Urbi
nas ab his debuerunt dici ad nostrorum nomi num similitudincm. In Mediterraneo
vera Caesenatia, ac M. ( vina ) ; In Vcroncnsi itemi F altre us tantum
posthabita a Virgilio. (3) Loc. cit. Qui enim multo potiora patte nter
ignorarmi!, edam et hoc, et similia, •ine pudore possumus nescire. con il
dittongo nella prima, o nella seconda sillaba, se in ambedue, o se debba
leggersi senza dittongo alcuno ; ma un tale articolo potendo presentare una
discussione, o estranea, onojosa, rimettiamo gli Eruditi al citato Lambino, il
quale ne’Commenti alla prima Ode di Orazio ne ha parlato con precisione, e
dottrina. Il Lamiino nel commentare la parola M., che leggesi nell’Ode i.del
i.lib. di Orazio, tosi sviluppa il punto da noi succcnnato, In omnibus fere
manuscriptis Codicibus, quibus usus sum, nomea Moecenas scriptum reperi et in
prima, et in.secunda syllaba sine diphthongo ; quam scripturam tametsi non
probe m omni ex parte, sequor in eo ta men, quod secunda per e vocalem, non ut vulgo
per oe diphthongum scribitur. Adjuvat me Codex Orationum M.Tullii Ciceronis
calamo exaratus in Cluentiana, quo loco scriptum etiam est hoc nomea sine
diphthongo in utraque syllaba. J am vero quod ad primam attinet Graecorum
auctoritate moveor, apud quos M aiKnya( per ai diphthongum scribi solet in va
syllaba, ut in secunda per v quae vocalis Ver ti tur in e longum. Quia JElianus, qui cum Romanus
esset graece scripsit. «/ «f hanc scripturam retinet. Praeterea apud Publium Victorcm lib. de Reg. Uri. et
Priscia» Dopo di aver raccolto le descritte notizie ; e prodotto quelle poche
riflessioni finora accennate sulla stirpe, sulla patria, sull’ autore del
nostro Cilnio, e su tutt’altro relativo al suo nome, sembra, che ornai dobbiamo
occuparci sulla relazione delle sue geste, e de’ suoi costumi, e sulla Storia
della sua vita ; ed in primo luogo dovremmo parlare della sua educazione, sotto
quali maestri, ed in quali Accademie venisse istruito ; ma su di ciò mancando
notizie sicure, qual vantaggio potrebbe ricavarsi da congetture vaghe, ed
inconcludenti, da riflessioni possibili, o estratte dal fondo di un immaginario
probabilismo ? Ciò non ostante si pnò dire, che l’educazione di M. fu
proporzionata, ed uniforme al rango, che li suoi Maggiori occupavano nella
società, e nella classe de’ cittadini Romani. Fornito dalla natura di non
ordinarli talenti, ebbe tutta la cura di svilupparli, allorquando fu adulto,
perchè non erano stati oziosi, ed incolti nella sua adolescenza. Ma se egli
venisse istruito in Roma, o altrove, e quali fussero li Dotti, cui venne
affidata la sua letteraria educazione, s’ ignora pienamente. Crede il Cenni,
che M. fosse manna»! de Accent. in Exemplaribus Aldinis, sine ulta varietale
perpetuo ita scriptum, est hoc nomen. dato in Apollonia, allora Città
ragguardevole della Macedonia ; suppone inoltre * che mentre quivi attendeva
alle scienze, vi si trovassero ancora per lo stesso oggetto Marco At grippa, ed
Ottavio Cesare, e che in tale oc casione si stringessero con i dolci legami
dell’ amicizia, o almeno facessero unà reciproca conoscenza. Sembra però, che
questa circostanza non sia stata accennata da verunAutore antico ; nè il
Meibomio, ed il capriccioso Caporali, ne’ scritti de quali attinse il Cenni la
sua supposizione, sono forniti di qualche autorità valevole, e concludente.
Quello, che può asserirsi con qualche certezza, e che risulta dalle opere di
Dione, di Appiano, di Orazio, e di Properzio, si è che il nostro C. Cilnio M.,
se non divenne amico di Ottavio nell’ epoca de’ loro studj, di buon’ ora
cominciò la carriera de’ servigj, e consigli da esso a questo sommi* Bistrati
fino all’ ultimo respiro della sna vita. Ottavio venne in Roma, dopoché Giulio
Cesare suo padre adottivo fu dai Republicani pugnalato Egli seppe la disgustosa
notizia nella sudetta Città di Apollonia. Aveva allora appena oltrepassato il
quarto lustro di sna vita, e correva l’anno di Roma. Giunto in » quella
Capitale, diede subito saggi manifesti Sveton. in Octavio art.8 e io Naucler.
Chronog. ad au. 7*0 3o di una grande elevatezza d’ ingegno, e benché in età
giovanile, di nn senno maturo • Cominciò a procacciarsi la puhlica opinione, la
stima de’ Grandi, l'affetto della Plebe, e dei Soldati. In tale occasione, ed
in tale epoca sembra potersi stabilire, che M. entrasse nella Corte di Ottavio,
e che questo lo prendesse per Consiglierò de’ suoi progetti, e delle sue future
intraprese. Dopo la morte di Giulio Cesare, Marco Antonio governava, per dir
cosi, dispoticamente la Republica Romana, conciosiachè egli aveva tptta 1*
influenza, e sul Senato, e sul Popolo, e snU’Armata. Ottavio fece istanza
presso di esso, affinchè, come Erede Testamentario di quello, gli venissero
consegnati quegli effetti, che gli erano stati nel Testamento lasciati. f
Antonio, poco curando la tenera età del medesimo, accolse piuttosto con
disprezzo la di lui giusta, e regolare dimanda. M., che allora già trovavasi al
fianco di Ottavio, non maucò di consigliarlo a sopportare con calma, e
rassegnazione P ingiustizia, e T insulto del prepotente Romano, e nel tempo
stesso gli fece conoscere, che bisognava momentaneamente abbracciare la causa
del Senato, stantechè da tutte le circostanze scorgevasi imminente una guerra
Civile. Il Senato proteggeva l’attentato commesso dagli uccisori di Giulio
Cesare, ed Antonio aveva inalberato lo stendardo guerriero contro di questi.
Ottavio, come figlio adottivo del famoso Dittatore pareva, che dovesse unirsi
ad Antonio, e secondare le mire del medesimo, ma M. da previdente, ed accorto
Politico credette, che dovesse per allora uniformarsi ai voleri del primo. In
fatti il Senato, per opporlo all’ambizione del sudetto Antonio, cominciò a
fargli mille buoni uflìcj, ed a colmarlo di onori, e di carezze. Intanto questo
faceva la guerra a Decimo Bruto uno degli assassini di Giulio Cesare, che
assediò in Modena. Allora il Senato incaricò li Consoli Panza, ed Irzio a
marciare con un’Armata contro il nemico del sudetto Decimo Bruto, ed Ottavio fu
ad essi associato in tale spedizione. Questa guerra fu fatta con differente
successo, nè l’impresa di Antonio potè cosi sollecitamente reprimersi; ma
lilialmente in una battaglia campale fu egli completamente disfatto, fu levato
l’assedio di Modena, e Bruto liberato, mercè li talenti militari di Ottavio, al
quale fu attribuita la maggior gloria di quella giornata ; in essa vi morì il
Consolo Irzio, e Vibio Panza mortalmente ferito ebbe tempo di parlare ad
Ottavio, lasciandogli salutevoli istruzzioni, e consigliandolo segnatamente ad
unirsi con Antonio. Questo fatto storico si pone all’anno di Roma. epoca, in
cui Oitavio correva nell’anno vi^esimo primo della sua vita, e M. 3a parimenti
nel fiore della sua gioventù, ed in età di circa venticinque anni, già stava al
sho servizio. Abbiamo di ciò ne’scritti di Properzio un argomento di certezza,
che pare non possa incontrare eccezzione. Imperciocché il sndetto Poeta, uno
de’più cari amici di M., scrivendogli una robusta, ed elegante Elegia, gli
dice, che se avesse talenti da poter cantare gli Eroi, non canterebbe già li
Titani, e la loro guerra contro Giove, allorquando ammonticchiarono le montagne
di Pelio, ed Ossa, non canterebbe neppure le battaglie degl'antichi Tebani, o
l’ Incendio di Troja, il primo Regno di Romolo, l’ardimento della superba Cartagine,
le minaccie de’ Cimbri, e le vittorie di Mario ; “ Ma cante-,, rei ( soggiunge
il Poeta ) o mio caro Mece», nate, le guerre, e le azzioni illustri del », tuo
Cesare, e mostrerei, che in tutte le sue imprese, tu occupi il posto secondo,
Canterei la guerra di Modena, le tombe degli estinti presso la Città
de’Filippi, la guerra di Perugia, la battaglia di Azio, e », la conquista
dell’Egitto (i). ( t) Lib. a Eleg. i. Quod mihi si tantum, M., fata dedissent,
V t possem Heroas ducere in arma manus ; Non ego Titanas canerem, non Ossan
Olympo hnpositum, ut Coeli Pelion esset iter ^ Ora se M. non fosse stato già al
fianco, ed al servizio di Ottavio nella guerra ‘di Modena, il Poeta non avrebbe
detto, che quello nelle imprese di questo occnpavadl pò* sto secondo, e facendo
la serie di tali imprese, non avrebbe descritta per la prima la sudetta
battaglia di Modena. Properzio voleva fare un elogio al suo Protettore, al suo
Amico, al suo Benefattore, ma questo elogio non sarebbe stato giusto, e
veritiero, se realmente M. non avesse avuto il posto secondo, ossia, se non
fosse stato il Consiglierò di Ottavio fin dall’epoca sudetta della liberazione
di Modena. Dal che sembra potersi dedurre altra valevole congettura, onde
credere, che quello entrasse nella Corte di questo nell’anno Non
veteresThebas,necP er gama nontenHomcri ; Xersiset imperio bina coiste vada ;
Regnane prima Remi, auC animos Carthaginis altae, Cymbrorumque minas, et
benejacta mari. Bellaque, resque fui memorarem Caesaris, et tu Caesare sub
magno cura secunda jòres. Nam quoties Mutinam, aut civiltà busta Phi lippos, A
ut canerem Siculae classica bella fugae, Aut canerem Aegyptum, et Nilum cum
tractus in Urbem Septem captivi! debilis ibat aquis. precedente. conforme
abbiamo accennato pocanzi. Ad onta della perdita dei due Consoli Ir* sio, e
Panza, la surriferita vittoria riportata contro Marco Antonio ricolmò di gioja
Roma, ed il Senato. Allora fn, che Cicerone si sca* tenò contro di quello con
tutto 1'entusiasmo della sua maschia, ed inimitabile eloquenza. Quc* Senatori,
e quella porzione di Popolo, che nutrivano ancora un qualche sentimento per il
Governo Rcpnblicano, ascoltavano con estasi, ed ammirazione li fervidi discorsi
di quell’ Oratore, ed aderivano ciecamente ai suoi voleri. Infatti Antonio fu proscritto
> fu risoluto di continuare la guerra fino al di lui esterminio, furono
destinate le Armate, scelti li Generali ; eppure questa volta, nelle nuove
disposizioni marziali, non si fece menzione di Ottavio, benché ad esso fosse
dovuto tutto l’esito vantaggioso della passata Campagna. Il Senato era già
divenuto geloso della gloria di quello, col non curarlo voleva umiliarlo, ed
abbassare l’orgoglio, che le già eseguite favorevoli Imprese avevano potuto
inspirargli. Ottavio, e M. conobbero in tal .congiuri tura la condotta poco
lodevole, e disobbligante del Senato. Allora memore il primo delle istruzioni
ricevute dal moribondo Consolo Panza, e penetrando il secondo nell’artificiosa
politica di quello ± determina* Digitized by Google H rono di procurare una
riconciliazione cqn, il detto Marco Antonio. Il progetto esigeva una somma
precauzio* ne, ed ima impenetrabile segretezza, ma ni uno poteva maneggiarlo
più vantaggiosamen-* te di M., che, fra le altre sue virti» politiche,
possedeva in particolar maniera quella del segreto, conforme narrano Sesto
Aurelio Vittore, ed Eutropio. Ottavio nella guerra di Modcaa aveva fatto ad
Antonio molti prigionieri * Per dare principio alla riconciliazione, gli
rimandò li pii distinti, e ragguardevoli. Fra gli altri vi era Decio, brava
persona, e molto affezionata al suo Padrone ; anche a qnesto concesse la
libertà. Decio separandosi da Ottavio, gli richiesi, che cosa doveva dire ad
Antonio “ Dite ad Antonio da mia parte ( rispose Otta,. vio ) che io credo aver
egli tanta penetrazione per interpetrare la mia condotta. Se,, nulla ha
compreso, sarei imprudente 4 » spiegarmi più diffusamente „. Intanto Ottavio, e
M. fissarono la loro attenzione sull’indicato Marco Tullio Ci l In Epit. de
Vit. et Morib.Imper.Romao, Cap. 1. In amicai fidai extitit ( Augustus ), quorum
praecipui erant ob taciturnitatem M., ob patientiam laborit, modestiamque,
4grippa .. Lib. 7 in Augusto. C a cerone, penetrando con la loro previdenza,
che bisognacattivarsi l’animo di quell'Oratore. Imperciocché egli aveva in
quell’epoca un dominio irresistibile e sullo spirito del Popolo, e sul cuore
de’Romani Senatori. Ottavio dunque onde ottenere l’intento gli scrisse una
lettera in tali termini concepita Io,, sono giovane e quasi privo di esperienza
negli affari ; sarò occupato tutto il resto £, dell’anno a perseguitare Antonio
nostro nemico fino a piè delle Alpi ; cosi voi rimasto,, solo in Roma
coll’autorità, che danno li,, Fasci Consolari, avrete il tempo, e l’occasione
di ristabilire lo Stato Republicano, ed uguaglierete la gloria del vostro
secondo con quella del primo Consolato ( i ),,. Tullio benché avesse tutti i
lumi del più grande Letterato del suo Secolo, non aveva quella finezza di
politica, di cui era feconda la testa di M.. Egli cadde nella rete; credè
sincera la deferenza, e la dichiarazione di Ottavio, e cominciò ad encomiarlo,
e proteggerlo in publico Senato ; che anzi ebbe anche il coraggio, o piuttosto
la debolezza di proporre, che gli venisse conferito il Consolato “ Quanti
dispiaceri (diceva Tullio), o Padri Coscritti, non ha ricevuti da Voi l’e»,
rede del nome, e de'beni di Giulio Cesa*•, Dion. lib. 46 Piotare, in Cicer.
Catrou Tom. 17IU). 4, £ j/ re ? Poco accorti nelle nostre risoluzioni, noi non
cessiamo d’irritarlo senza riflettere, che egli comanda a Legioni vittoriose.
Perchè non procuriamo di calmarlo? Sebbene giovanetto aspira al Consolato, e
potrà ottenerlo malgrado la nostra ripugnanza. Contentate le sue brame per gli
onori. Nell’età, in cui sì trova, questa brama è più vivace, che in tempo della
>, vecchiezza, perchè è cosa più gl oriosa di ottenerlo prima del tempo
dalla Legge prescritto. In ciò però è necessaria una limisi fazione. Date al
giovane Ottavio un Colle» ga di età matura, che gli sia di guida, e maestro.
Questo reprimerà il fuoco di quel* lo, e l’amministrazione della Republica sal
à al sicuro sotto il primo, mediante i consigli dell'altro. Non ostante la
potente influenza di Cicero* ne, le sue premure per Ottavio non ebbero alcun
effetto vantaggioso, mercè l’inalterabile fermezza del Senato. Li Padri
Coscritti conoscendo, che una tale richiesta trovavasi in opposizione con le
Leggi fondamentali dello Stato, stante l’età di Ottavio, non potevano realmente
secondarla ; ma questa ragione pian* sibile poco forse avrebbe operato in un
tempo, in cui le Leggi Repnblicane erano inoperose, e senza vigore, ed in coi
l’antica Co (a) Appian. lib. 3 Catron loc. cit. ÌLxìob. «api > a. in,ln ''
”f "V La ma^eior parte de’Membn componenti il Se“no allora, o compiici de»
aa.amo.0 ai celare, o aderenti ai medesimi. Temeva. *0 pertanto, che,
sollevando ad un grado di potenza coli eminente l’Erede di qnelk,, | P£ irebbe
avere i mezzi, e trovarsi m «tato divendicarne la morte •, j Ottavio adunque,
vedendo, che con le buone non poteva ottenere il Consolato, cercó altre risorse
più efficaci ; scrisse diretta mente ad intorno. preveneodolo dell,
neonciliazione. Questo, che aveva avuto già qualche sentore di una tale
disposizione di animo di quello, e mediante il rinvio de pronteri e le parole
dette a Decio, accolse con trasporto le lettere del suo rivale, ed il progetto,
che gli faceva ; Incontanente si diè tutta la premura di dargli esecuzione. 11
primo passo che fece, fu quello di riunirsi con Marco Lepido, Soggetto anche
esso poco beQuesto allorquando ebbe la notizia dell unione di Antonio con
Lepido, fremè di rat bia, e deliberò di disfarsi di ambedue. Per lo che,
supponendo che Ottavio fosse reai, mente nemico dell'uno, e dell’altro, lo
incaricò di marciare all' istante con le sue Leeoni contro qne’due ribelli.
Ottavio mostrò, o piuttosto finse di uhM*. re, ma li veri suoi disegni erano gd
altrog' Digitize in Roma, e con una Armata bellicosa, non ebbero più vigore,
costanza, e coraggio di prò* seguirla. Bruto, Cassio, e tutti i complici
degassassimo di Giulio furono condannati, e proscritti con decreto solenne di
quello stesso Senato, che pocanzi aveva spedite Legioni, Armate, Consoli, ed il
medesimo Ottavio in «)nto di essi. Intanto Antonio, che era già in una piena
corrispondenza con Ottavio, si dxè premura di prevenirlo, che il partito
de’Republicani si andava ingrossando nelle Provincie della Gre» eia, dell’Asia,
e nell’ Oriente ; che perciò era tempo di abbandonare Rema,ed unitamente
marciare contro di quelli. Ottavio profittò di questo avviso per poter prendere
le necessarie precauzioni. Egli doveva ancora occultare al Senato la seguita
riconciliazione, e corrispondenza con Antonio, e perciò ebbe ancora bisogno di
circospezione, e di quel segreto impenetrabile, di cui era capace il solo M.. Per
secondare il Collega, e per imbrogliare al tempo istesso la testa de’Senatori
fece spargere la .notizia allarmante, che M. Antonio, e Lepido^meditavano di
marciare alla volta di Roma per saccheggiarla; che perciò sembrava cosa
urgentissima di uscir contro di essi, e combatterli ; Il Senato credulo, ed
ingannato prestò fede alle voci diffuse, ed alle rimostranze di Ottavio, ed
all'istaute lo incaricò di par» 4 * tire da Roma, ed opporsi agli avanzamenti j
ed alle supposte minacele di quelli. Non bastava però tuttociò alla penetrante
politica di M., e del suo Padrone Volevano, che il Senato rivocasse, e cassasse
il Decreto di proscrizione emanato contro de’ sudetti Lepido, ed Antonio. Restò
in Roma Luogotenente di Ottavio Quinto Pedio, persona totalmente consagrata
alli suoi interessi Egli fu incaricato di ottenere la revoca sndetta, ed è
probabile, che della medesima operazione delicata fosse a parte ancora M.. Si
fece riflettere al Senato, che, cassando qnel Decreto > mostrerebbe un
tratto di clemenza, e di generosità capace a spegnere nella sua origine il
fuoco di una guerra civile, ed a calmare la collera, ed il risentimento de' due
Colleghi. Il Senato si fece vincere, ed il sovraindicato Decreto di
proscrizione fu annullato. Ricevuta Ottavio questa notizia consolante ne
prevenne con la massima sollecitudine Lepido, ed Antonio; allora questi, e
quello si avvicinarono con le loro Armate respettive, e stabilirono un
Congresso. Uua Isolctta formata sul piccolo fiume Reno, che scorre tra Modena,
e Bologna, fu scelta per il luogo memorabile, in cui li tre Guerrieri dovevano
unirsi a parlamentare. L’abboccamento durò più giorni, il di cui risultato fu
lo stabilimen r to del celebre Triumvirato, mediante il quale yenne scagliato
un colpo mortale alla Costituzione Republicana, e venne immaginata la
proscrizione troppo nota, e funesta, nel vortice e negli orrori della quale fu
involto ancora il riferito Marco Tullio Cicerone (i). Dopo qualche tempo
Antonio, ed Ottavió marciarono a grandi giornate contro Bruto, e Cassio, e si
trasferirono con le respettive Le» gioni nella Macedonia incontro all’Esercito
de’ Repnblicani. È troppo conosciuta la sorte infelice di questi nelle Campagne
di Filippi per non essere costretto a tesserne la storia dolente, e che sarebbe
fuori del mio assunto. La vittoria si dichiarò a favóre de’Triumviri, e Bruto
cadde estinto, non già da ferro nemico, ma con un disperato suicidio si sepelli
da se stesso, per dir cosi, tra le ceneri della spirante libertà Romana. In
questa battaglia si trovò ancora il Poeta Orazio Fiacco, di cui già si è fatta
menzione. Piotare, in Ant. pag. 679. Congressi tres illi in modica Insula amne
circumfluo, triduum in colloquio fuere. De celeris convenie inter eos facile,
totumque Imperium intcr se steut patrimonium suum sunt partiti, sed disceptati
dcillis, quos statuerant interficere, detinuit eos .... Tandem fervore in eos,
qui aderant, et cognatorum rtverentiam, et ami c orum benevolentiam
postniittentcs, Ciceronem teseti Caesar Antonio, Amico di Bruto, e fautore del
partito Republicano, seguì quello nelle Campagne di Filippi in qualità di
Tribuno. Afferma il Porfirione (a), che Orazio restasse prigioniero ; che in
seguito non solo fosse liberato per intercessione di M., ma ancora, che per
mezzo di questo si procacciasse il favore, e l’amicizia di Ottavio. Lo stesso
si legge in una Vita di Orazio d’incerto Autore prodotta da Giovanni Bon. Altri
credono di più, che fatto prigioniero, per opera dello stesso M., venisse
liberato immediatamente, e sul Campo di battaglia. Ma tali assertive so Sidon.
Apoi. in Paneg. ad Major. Et tibi, F Iacee, acìes Bruti, Cassique stenta Carminis
est auctor, qui fuit et veniae. Sveton. in Vit. Horat. Sello Philippensi
excilus^Horat\xis)a M. Bruta Imperatore, Tribunus Militum meruit. Presso il
Mancinel. in Vit. Horat. Porphìrion addit, Horatium captum fuisse a Cae«are,
sedpostea, beneficia Maecenatis, non solum servatus, sed etiam Caesari in
amicitiam traditus. Edi*. deli’Opere di Orazio Lug. Batav. an. i663. Coluitque
adolescens Bruturn, sub quo Tribunus militum militavit ; captusque a Caesare post
multum tempus, beneficio M. non solum servatus, ted etiam in amicitiam acceptus
est, I H do smentite dalf autentica testimonianza dellTstesso Poeta- >.'• ’-n ed in questa occasione per mezzo di Asinio
Pollione acquistò la grazia, e la protezione di M.. Dopo questa epoca pertanto
deve fissarsi quanto scrive Orazio nella Satira testé riferita ; e siccome la
sudetta battaglia presso Filippi, accaduta verso il mese di Novembre 71 a, (i)è
anteriore di molti mesi alla venuta di Virgilio in Roma, così sembra evidente,
che allora M., che ancora non aveva conosciuto il detto Virgilio, non poteva
conoscere netampoco Orazio, nè cooperare alla di lui salvezza sul Campo di
battaglia. Orazio adunque fu in primo luogo debitore del suo futuro benessere
alla tenera amicizia di Virgilio, e di Vario, e quindi al nostro C. Cilnio M.,
il quale mercè li buoni uffici di quelli, non solo lo mise nel numero de’ suoi
amici, ma vennto in cognizione da se stesso del raro di lui ingegno per la
lirica Poesia, ne concepì tanta stima, che impetrò per esso il perdono da
Angusto, e successiva- De la Rue Hist. Virg. ad an.7ia. Circa Novembre ni
pugnalar ad Philippos in Macedonia, pereuntque Cassius, et Brutiu. mente gli
procacciò eziandio la sua amici» zia(i e meritava la di lui affezione. Ancora
giovinetta di una beltà superiore all’altre Dame Romane era vedova di C. Clodio
Marcello, che era stato Consolo. Non essendo dispiaciuto ad Ottavio il sudetto
progetto, che gli presentò M., chiamò la sorella, e la persuase ad accettare la
destra di Antonio. La virtuosa Ottavia non *i ricusò alle premure del Fratello,
ed «al bene, che le sue nozze potevano recare alla Patria, ed Antonio non
rifiutò la sua destra. Il matrimonio in fatti segui con reciproca sodi•fazione
; e M. ebbe il contento di vedere effettuato pienamente il suo progetto. La
gioja de’Romani fu grande, ed universale, perchè ognuno credeva, che, mediante
questa alleanza di parentela, e di sangue, anderebbero a cessare per sempre le
guerre civili ; e che li due putenti Rivali avrebbero vissuto in una pace
inalterabile. Ma li progetti dell’Uomo sono sottoposti incessantemente alli
capricci, ed alla volubilità dell’Uomo istesso, ed i matrimonj formati dalla
Politica, rare volte seco portano una seguela di felici avvenimenti. Conchiuso
il sopradetto matrimonio,li due Triumviri vivevano con una intelligenza, che
giungeva alla familiarità. Si accordavano Plutarc. in Ant. pag.683 Edit.
Basileae. Has nuptias suaserunt ornncs, quod Oetaviam sperarent, quac
excellentiae formae gravitatela, et prudentiam habebat adjunctam, ubi Antonio
conjuncta csset, atque ut talis foemina, haud dubie ab eo adamata, omnium rerum
ipsis saluterà, et concordiam al Laturam 6 ? scambievolmente ciò che l’uno
all’altro proponeva, sempre però a discapito del Regime republicano.
Imperciocché stabili rono fra le altre cose, che iu avvenire essi nominerebbero
li Consoli, quando non vorrebbero esercitare eglino stessi il Consolato,
togliendone la elezzione alle Centurie ; e che, dopo la loro separazione,
Antonio farebbe la guerra ai Parti, e Cesare attaccherebbe Sesto Pompeo nella
Sicilia, ad onta della buona fede, su cui questo si era da essi separato. Gli
amici di questo, saputo il tradimento, ed il nuovo progetto de’Triumviri non
mancarono di prevenirlo minutamente. A tale notizia Sesto animato da un
risentimento naturale, e non ingiusto, non aspettò a farsi sorprendere, e
facendo uso di una straordinaria attività, prevenne li suoi nemici, e diede
principio alle ostilità. Ricopri delle sue Flotte li mari d’Italia, e ne bloccò
tutti li porti, affamando in tal guisa la Capitale. La carestia divenne
terribile. Romalanguiva dalla miseria, eoli Romani conoscendo, che la loro
penosa situazione era l'effetto della cattiva politica de’Triumviri,
cominciarono a mormorare apertamente, ed accadevano disordini, e sollevazioni.
Antonio, ed Ottavio stretti da queste imperiose circostanze, cercarono la
maniera di calmare Pompeo, e di riconciliarsi con esso. Sebbene quello fosse
profondamente penetrato £ a dal torto ricevuto, ed avesse l’animo irritato
contro li Triumviri, tuttavia, stante l'interesse, che avevano preso per la
pace Libonc suo Suocero, e Muzia sua Madre, condiscese a tenere un congresso a
Baja, e come altri vogliono a Miseno (i). Le discussioni del Congresso furono
lunghe, e spinose, e più d’una volta venne disciolto per le condizioni che
promoveva Pompeo, piuttosto dure, ed umilianti per li suoi Avversar] ;
finalmente furono spianate tutte le difficoltà, e fu sottoscritto un Trattato
di pace. Secondo Appiano Alessandrino, dopo qualche tempo dalla conclusione di
questa pace, sembra, che Ottavio trovasse il pretesto di romperla. Forse 1
’csistenza del Successore del gran Pompeo attraversava la vastità delle di lui
mire politiche, e perciò cercava la maniera, o di umiliarlo all’atto, o anche
distruggerlo. Pompeo anche in questa circostanza prevenne il suo nemico. Mandò
subito in corso molte navi corsare, che, scorrendoli mari d’ Italia, intercettavano
li viveri per Roma. Ottavio scrive ad Antonio, prevenendolo della guerra, che
andava ad intraprendere contro di Sesto, e facendogli conoscere, che Appian.
Dion. Appian. vi era stato costretto l Antonio sorpreso della novità, e più
sincero questa volta nell’adempimento del sagro dovere detrattati, nonapprovò
le mosse ostili., e l’intenzione del suo Gallega, e lo consigliò a desistere
dalla meditata intrapresa. Non ostante la disapprovazione di quello, Ottavio
continuò gl’ incominciati armamenti, perchè nello stato in cui si trovavano le
cose T credeva, che ne resterebbe leso il suo decoro, e compromessa la sua
gloria, se retrocedeva, e se avesse dovuto proporre un accomodamento al. suo
nemico -, ma egli restò umiliato dal valore di questo, che disfece pienamente
la sua flotta navale, e ne riportò una completa vittoria. Roma frattanto già
sentiva gli effetti funesti del blocco, che nuovamente avevano posto alli Porti
d’Italia le Flotte vittoriose di Pompeo, e già la fame cominciava di bel nuovo
a distendere la sua mano devastatrice sugli infelici abitanti. Si mandavano al
cielo imprecazioni contro l’Autore di questi mali, e voci 9orde, e dispiacenti
si diffondevano contro del medesimo nel publico, che venivano avvalorate dagli
amici, e partitanti di Pompeo. Da questa pericolosa, e critica situazione forse
Ottavio non si sarebbe disimpegnato con onore, e forse non avrebbe superato que
pericoli, da quali era minacciato, senza l’assistenza, li consigli, la
destrezza, e la politi Digitìzed by Google di cui quello facesse uso presso di
questo iu un affare così importante, e delicato ; nè si sà su quali basi
poggiasse la discolpa del suo Padrone nella guerra attuale da esso continuata,
nonostante la manifesta disapprovazione del suo Collega ; ma sappiamo bensì,
chel’efcficace eloquenza, li talenti politici, la destrezza, e le di lui
cognizioni rapporto a materie diplomatiche prevalsero a tutte le ragioni, che
fino allora avevano reso Antonio neutrale. Che anzi Sesto Pompeo naturalmente
non aveva mancato di profondere dell’oro, e de’ presenti presso li Ministri, e
nella Corte di Antonio, non aveva trascurato d’inviargli Deputati, ed Oratori,
architettar cabale, e profittare di ogni risorsa per indurlo ad unirsi se* co
lui contro il dominatore dell’Occidente, o almeno per ritenerlo costante
nelPabbracciato sistema di neutralità ; ma l’arrivo, e la presenza di M. nella
Grecia, in Atene, e nella Corte di Antonio sconcertò tutte le precauzioni, fece
andare a vuoto tutte le manovre, e tutti gl’intrighi di Sesto ; cosicché
persuaso Antonio, che Ottavio aveva operato giustamente, e che il torto era
dalla parte di Pompeo, fece lega con quello, e si dichiarò eontro di questo.
Con si felice succèsso ultimato l’affare, M. . A Appian. a ] non tardò nn
momento a ragguagliarne con esattezza il suo Padrone, sapendo, che doveva esser
agitato da una penosa folla di cure, e di pensieri molesti. Ottavio infatti
sapeva, che la salvezza de’suoi interessi, della sua gloria, ed anche della sua
vita, dipendeva dall’impresa, che M. si era addossata, e che tutto sarebbe
perduto, se la fedeltà di questo Ministro non fosse stata incorruttibile;
perciò, in attenzione dell’esito della sua missione, de’suoi progetti, e delle
sue trattative, lo stato del di lui cuore non poteva essere il più felice,
perchè scosso quindi, e quinci da tutte quelle moltiplici impressioni, che
sogliono mettere in movimento in simili circostanze la dubbiezza, il timore, e
la speranza ; ma ricevuta la notizia consolante, primieramente in iscritto, e
quiudi a viva voce dallo stesso M., che, tornato in Roma, gli presentò il
Trattato con Antonio conchiuso, Ottavio si consolò, bandi ogni sollecitudine
affligente, e conobbe appieno, che l’abilità, li talenti, e piu la fedeltà di
un Ministro virtuoso possono alle volte salvare uno Stato, e recare un bene
inestimabile al Principe, ed alla Nazione. In seguito diede principio a nuovi
preparativi militari, affinchè con questi, e col soccorso, che Antonio gli
avrebbe recato, potesse rimuovere il blocco dai porti d'Italia, ricondurre
l'abbondanza nella Capitale, e misurarsi nuovamente col sua rivale. Antonio
intanto, fedele alle promesse fatte a M., ed al trattato conchiuso, parti da
Atene nella primavera, con una flotta di trecento Vascelli, ed approdò a
Brindisi, ove era ilquartier generale di Ottavio. Non ostante le premure, e
l’impazienza di questo in avere il bramato soccorso, sembra, che appena si
avvicinarono le due Armate, nascessero dissapori, e diffidenze fra li due
Triumviri. Il motivo di questa strana mutazione resta ascoso sotto il velo di
quegli arcani, che la politica, e l’ambizione rendono imperscrutabili, seppure
non debba dirsi, che fu effetto di gelosia di stato. ' Antonio già pensava di
ritirarsi, e forse con sinistri disegni contro il Collega ; già le reciproche
contestazioni erano giunte a tal segno, che si presagiva una manifesta rottura,
se non fosse divenuta mediatrice Ottavia sposa di Antonio, e se non si fossero
trovati al campo M., ed Agrippa, altro Favorito, e Ministrò di Ottavio. i, .b
Quella donna virtuosa non omise alcun mezzo per dileguare dall’animo del
fratello qualunque sospetto, che potesse nutrire contro del marito, ma sebbene
da qdello venisse accolta con ogni dimostrazione tutte le volte, che andò
presso di esso, tuttavia non ebbo mai alcuna risposta precisa, e consolante.
Impaziente però dell’esitck nella intrapresa mediazione, si rivolse ad Agrippa,
e a M., conoscendo la grande influenza, che aveva, segnatamente il secondo,
sullo spirito di Ottavio. Perciò essendosi portata da essi, animata da quel
vivo entusiasmo, che le veniva inspirato dal doppio amore, e zelo del marito, e
del fratello, cosi si espresse “ Ottavia, che vedete avanti di voi, benché nel
più alto rango, a cui possa giungere una donna, sarà per ritrovarsi ben tosto
nella situazione la più deplorabile, se i vostri consigli non prevengono i
mali, che essa paventa. Sorella di Ottavio, e moglie di Antonio, Roma,
l’Italia, e le Armate aspettano dalla sua mediazione il loro riposo, e credono,
che da essa soltanto dipenda di poterlo ottenere, dileguando que’dissapori che
intorbidarono l'alleanza recentemente,, fra quelli conclusa. Ah! quale sarà
lamia sorte, se non potrò disarmarli ? Senza pa^ ce tutto è a temersi per me;
si tratta di un fratello, e di uno sposo. In istato di guerra io dovrò piangere
l’uno, e l’altro per sempre. La vostra virtù, la publica stima, e quella di
Ottavio verso di voi, potranno contribuire decisamente alle mie,, premure ; ed
io saprò mostrarvi tutta la,, mia riconoscenza, se la tùia mediazione,,,
avvalorata dalla vostra, influenza, preude che prima di due mesi non avrebbe
potuto agire nuovamente. ', Questo disastro di Ottavio risvegliò il coraggio, e
le speranze degli amici segreti di Sesto, che stavano in Roma, e nelle
Provincie, e credendo, che egli volesse profittare de’vantaggi, che gli
recavano inaspettatamente gli elementi, già prevedevano la distruzzione di
quello, ed il trionfo del successore del gran Pompeo. Ottavio, prevenuto di
qneste circostanze da esso presagite per una conseguenza quasi naturale della
sofferta disgrazia, spedi contutta sollecitudine M. nella Capitale ; ove giunto
non mancò in primo luogo di dissipare ogni inquietezza dall’animo degli amici
del suo padrone ; quindi seppe prendere misure cosi giuste contro li
malintenzionati, che furono costretti a rientrare nella taciturnità, e nel
silenzio ; e la calma tornò nella Città. Non può non ravvisarsi, che Pompeo in
questa occasione non seppe approfittarsi delle circostanze favorevoli, che gli
somministrava la mina della Flotta del suo rivale. Egli si contentò di vedere
la sua fuga, o piuttosto la sua ritirata, credendo, che non potesse molestarlo
ulteriormente ; ma in ciò non agi con tutta quella previdenza, degna di un
bravo Capitano, giusta la riflessione dello storico 7 « Appiano. Se esso avesse
assalito Ottavio nel disordine, in cui lo aveva gettato la tempesta, avrebbe
senza meno riportata una vittoria completa, e forse decisiva, e gl’interessi
del suo partito avrebbero sicuramente migliorato. In fatti Ottavio rimase
talmente sconcertato dalla tempesta, e dai torbidi in Roma accadati, che voleva
abbandonare l’impresa, e lo avrebbe fatto, se M., che conosceva l’attuale
situazione delle cose, e prevedeva politicamente il futuro, non lo avesse
persuaso diversamente. Egli gli fece conoscere, che Roma soffriva per la fame;
che la fazione di Pompeo non sarebbe pienamente abbattuta, che le mormorazioni
del popolo non sarebbero cessate, finché non si fosse quello allontanato dai
mari dell’Italia, e scacciato dalla Sicilia ; che se gli elementi avevano
malmenata, e re» sa momentaneamente inservibile la sua Flotta, quelle di
Lepido, di Agrippa, e di Statilio Tauro trovavansi ancora in buon stato ; che
perciò bisognava con costanza proseguire la spedizione, e profittare
segnatamente dell’errore commesso dal nemico dopo la tempesta (a). In vista di
tuttociò Ottavio segui li consigli Dion. lib. 48 Appian. lib. 5 Catrou del sno
Ministro, e mentre questo conteneva in Roma Io spirito de’faziosi, e sopprimeva
le scintille del malcontento, con una condotta degna del piu grande politico,
quello si occupò di rimediare ai disastri della tempesta ; risarcii! vascelli
maltrattati, sostituì degl’aitri a quelli perduti ; ed in tali operazioni agi
con tanta celerità, che nella prossima estate si trovò in istato di uscire nuovamente
in mare con forze eguali, ed anche maggiori di quelle della scorsa campagna. La
sorte però non aveva ancora rivolto le spalle a Pompeo, e tuttora gli si
mostrava benigna. Imperciocché venuto alle mani con Ottavio, e datasi una
battaglia campale, questo fu totalmente disfatto, e non salvò la vita, che
dandosi ad una fuga precipitosa accompagnato da un solo soldato. Questo novello
rovescio tornò ad infiamma' re la testa ai partitanti di Pompeo, perchè M. si
era allontanato da Roma. Ma egli anche questa volta seppe riparare ed alla
perdita de’ vascelli, ; ed ai disordini, che accadevano per opera de’Pompejani.
Si spedirono immediatamente degl’ordini a tutti li Generali di Ottavio, e
segnatamente a Marco Agrippa Ammiraglio sperimentato, perchè accorressero con
le loro Flotte iuajuto. In seguito M. volò in Roma, ove tro- Appian. So vò, che
il male era maggiore di quello, che si era creduto ; ma non per questo si
sgomentò l’anima sua intraprendente. Facendo uso di una fermezza senza pari, e
di misure con tutta la saviezza applicate, seppe sconcertare anche per la
seconda volta li progetti sediziosi de’seguaci di Pompeo, alcuni de’quali più
inquieti, « recidivi condannò all'estremo supplicio, ed in tal guisa ricondusse
il buon ordine, la quiete, e la sicurezza nella Città. Intanto Ottavio
rinforzato dalla Flotta di Marco Agrippa, che, obbediente agl’ordinl ricevuti,
era accorso in ajuto, e più incoraggito dalla presenza di questo fedele, ed
intrepido Ammiraglio, riprese arditamente l’offensiva, attaccando replicatamele
le Armate di Pompeo ; questo non lasciava di difendersi, e di schivare
gl’incontri, che potevano essere dubbiosi, e comprometterlo ; ma già si
avvicinava 1’ estremo periodo della sua brillante carriera, e la Parca crudele
già gli andava preparando quel destino ferale, cui fu sottoposto sulle spiagge
Africane l’iufelice suo genitore. Dopo differenti parziali combattimenti, la
Squadra di Ottavio, commandata da Marco Agrippa, si azzuffò con quella di
Pompeo. C’urto fu de'più formidabili, e si combattè con furore da una, e
dall’altra parte ; infine però Appian. loc. cit. 8i la vittoria si dichiarò a
favore di quello, e la Flotta di questo ebbe una rotta cosi spavento* 6a, che
sarebbe restato egli stesso prigioniero, se non fosse fuggito sù di un piccolo
Brigantino, ritirandosi in Messina. Quivi appena giunto gli fu recata la
dispiacevole notizia, che il resto della sua Armata, sfuggita all'eccidio, era
passata sotto le bandiere nemiche. Allora riflettendo più seriamente alla sua
salvezza, fuggi ancora da Messina con poche navi, che gli erano restate fedeli,
dopo avere imbarcato la figlia, il danaro, gli amici, e tutte le cose preziose
andò errando qua e là per l'Asia, ora con prospera, ed ora con iufelice
fortuna. Finalmente, per ordine segreto di Marco Antonio fu messo a morte in
una Città della Frigia (a^. La disfatta, e la fuga di Sesto Pompeo ricolmò di
gioja il giovane Ottavio, perchè si vedeva liberato da un pericoloso, ed
inquieto rivale, ma in questa istessa circostanza ebbe 1’occasione ancora di
disfarsi di Marco Lepido, Collega nel Triumvirato, e quello, che, in privato,
forse più degl' altri aveva abusate della potenza usurpata. Lepido aveva
comandata una Flotta nella Dion. lib. 49. Strab. lib. 3. Vellej. lib. a cap. .
Oros. lib. 6 cap, 19. Usser. Annal.. i F guerra testé riferita, ed anche egli
aveva in parte contribuito all’ esito vantaggioso dell’ impresa. Dopo qnella
battaglia campale, in cui Pompeo fu rotto, e fuggi, nacquero delle
contestazioni tra quello, ed Ottavio, o perchè Lepido voleva attribuirsi tutto
il pregio della vittoria, o per altra ragione non bene nella Storia conosciuta.
Tali contestazioni avevano anche preso un aspetto serio, e pericoloso, e si
potevano temerne conseguenze disgustose. M., cui rincresceva altamente, che, appena
spento il fuoco di una guerra civile * dovesse accendersene un' altra, cercò di
prevenirla con una di quelle politiche risorse, di cui egli era capace. Nella
Flotta di Lepido vi erano già degli amici, e partigiani di Ottavio, il cui
numero si era aumentato inseguito delle surriferite contestazioni. Si aprirono
delle relazioni con questi ; delle giudiziose istruzioni, che vennero loro
comunicate, li prevennero del progetto ., che si meditava. Lepido non era amato
dai Soldati, e perciò lo sviluppo dell’ intrigo, non incontrò ostacolo alcuno,
e fu sollecito, e vantaggioso. All’ improvìso l’intiera Flotta di quello passò
ad unirsi alla Flotta, ed agl’ interessi di Ottavio,. IUrdasto abbandonato,
solo, ed inerme, si vide Lepido ridotto in una situazione incapace affatto a
reali zzarp qualche idea di civile discordia, che forse andava machinando. Che
anzi, siccome egli era di nn animo de-» iole, e di carattere vile a fronte
delle disgrazie, cosi temendo maggiori sciagure, si portò supplichevole ad
implorare la clemenza di Ottavio. Alcuni avrebbero voluto la di lui perdita, ma
questo si contentò di spogliarlo di quella autorità, di cui era rivestito, e di
ridurlo ad una vita privata. In tal modo ( secondo l’espressione di,, Appiano )
Marco Lepido, uomo di si grande impero, ed autorità, che aveva pronunciata la
Sentenza di morte contro tanti Cittadini di nobile, ed illustre lignaggio^, fu
balzato dalla volubile, e fallace fortuna ; in guisa che con abito privato, ed
in,, atteggiamento di colpevole al cospetto di alcuni di quelli stessi da esso
condannati, fu ridotto a vivere senza riputazione, ed a morire
ignominiosamente. Ottavio, sistemati gli affari delle nuove Provincie aggiunte
alla sua Dominazione dopo la fuga di Pompeo, e la destituzione di Lepido, fece ritorno
in Roma. Il suo ingresso fu un Trionfo. Fu accolto con entusiasmo, e con
applauso dal Senato, e da tutti gli Ordini de’ Cittadini, perchè credevano, che
ai tonfi) App.loc. cit. Dion. lib. 49. Sveton. in Octav.Art. 16. F a I bidi
passati sarebbe snccednto l'ordine, l’ab* bondanza, ed una pace generale ; ed
erano cosi persuasi di questo novello sistema di cose, e segnatamente della
pace, che inalzarono in onore di Ottavio una colonna con questa Iscrizione
" Il Senato, ed il Popolo Row mano hanno inalzato questo Trofeo a Cesa-,,
re Ottavio, perchè ha stabilita la pace generale per mare, e per terra, che
prima M era bandita da tutto il Mondo. (i) Roma infatti cominciò subito a
respirare. Lo spirito di partito cominciò a dissiparsi, ed una reciproca
confidenza già assicurava la quiete di ognuno, tanto in quella Città, che
.nelle Provincie. Quello però, che contribui più d’ogn’altro, mediante la sua
incomparabile prudenza, alla tranquillità dell’ Italia, e di Roma, fu il nostro
M.. Si è già veduto, che Ottavio, allorquando era occupato nella spedizione
contro Sesto Pompeo si era più volte servito de’ talenti], dell’abilità, e
dell’intrepidezza di qnesto Ministro per assicurare gl'interessi del «uo
partito nella Capitale. Da ciò si rileva chiaramente, che già fin d’allora lo
aveva nominato Governa tore, o Prefetto di Roma, e che di questa carica sublime
era pur auco rivestito nell’epoca, che ora si descrive. Appian. Queste j ed
altre simigliane contestazioni reciproche diffusero le prime elettriche
scintille, foriere del turbine devastatore -, che in breve sarebbe andato a
precipitarsi sull’orizzonte politico di Roma, e formarono l’oggetto, e la
materia a que' pretesti^ che aveva già M. preveduti. Non bastava però ad
Antonio di aver offeso in tante guise Ottavio, ed il Senato, e di aver
commesso, per dir cosi, in Oriente tanti delitti a disonore del nome Romano.
Per colmo della sua sfacciatagine, o piuttosto cecità, volle aggiungerne un
altro. Mentre la virtuosa Ottavia gli dava argomenti li più sinceri della sua
conjugale premura, del suo zelo, e di un tenero affetto y egli la discacciò
bruscamente, e la ripudiò, per immergersi pienamente negli amori illegìttimi di
Cleopatra ( l ) • Questo fatto clamoroso, e degno di tutti li rimproveri,
rivoltò contro di esso la publica opinione ed in Roma, e nel Senato, e nell'
Italia, ed in tutti que’ luoghi, ove erano conosciuti li pregi, e le virtù'
della. Sorella di Ottavio. Allora si ravvisò appieno, * (r) Plutarc, in Ant,
che la condotta di Antonia offèndeva ornai troppo manifestamente la grandezza
Romana, il decoro del Senato, eia purità della Costi» tuzione ; che in
consequenza non era più de* gno di comandare, nè doveva, nè poteva
ulteriormente tollerarsi. s La guerra adunque fu dichiarata contro di quello,
ed i Romani diedero principio ad una operazione bellicosa, che doveva cagionare
la perdita totale del sistema Republicano, e nel cui funereo fragore dovevano
ascoltarsi gli estremi accenti, e l'ultimo anelito della loro spiraute
IjhljrtA. b*;ù»q.**6J«swi i»y: Ottavio prima di allontanarsi da Roma per
portarsi a combattere Antonio, raccomandò la cura di questa Capitale, e
dell'Italia al suor M., che tuttavia esercitava la Prefet» tura dell’ una, e
dell’altra. La tante volte sperimentata fedeltà di un cosi abile Ministro rassicurava
pienamente il di Ini animo, ed era del tutto persuaso, che nella sua
lontananza, e durante questa nuova, e civile discordia, gl* interessi del suo
partito non avrebbero sofferto alterazione veruna. Con questa fiducia parti da
Roma, e prese il camino là dove il supremo Direttore degli umani avvenimenti lo
chiamava per divenire il primo, ed il più potente Monarca del Mondo. Alcuni
hanno creduto, che in qtiestaspedrsione militare M. seguisse Ottavio, e che
anch’ esso si trovasse presente alla memo rablle bavaglia di Azio. Dedussero
questa credenza dall’ Ode I. degli Epodi di Ora* zio Fiacco, nella quale il
Poeta si fa a parla** re a M. in tal guisa “Tu dunque, o ami-,, co M., andrai
sulle agili navi Libnr-,, ne /disposto ad incontrare tutti i pericoli di
Ottavio, incontro gl’ alti bastimenti di,, Antonio? (t) • Il Grammatico Acrone,
fondato su queste parole, sostiene, che M. non solo andasse nella battaglia di
Azio, ma inoltre è d’avviso, che da Ottavio venisse nomi-* nato Comandante
delle navi Liburne \ esprimendosi, come siegue “ Orazio parla a Mej, cenate,
che va con Augusto alla battaglia,, navale contro Antonio, e Cleopatra. Mentre
Cesare Angusto sta per andare .> alla spedizione presso Azio, affidò a
Mecenate il comando delle navi Liburne che anzi il Continuatore di Tito Livio
suppone •I.• ?.• ^ V Epod. Od.r. * Ibis LiburnU inter alta naviutn, Amice,
propugnacula, P aratus orane Caesaris perìculun Subire, Maecenas, tuo. • (2)
Comm. ad Od. i.Epod.Horat. : M. prosequitur euntem ad bel/urn nasale cura
Augusto adversus Antonium, et Cleopatram ; ad Actiacum bellurn iturus Cacsar
Au~ gustai, Liburnis praeposuit Muecenatem. t _ di più, che dopo la battaglia,
e la fuga di Antonio, Ottavio ordinasse a M. d’ inseguire li fuggitivi con le
sue navi Liburne ( 1). Il Mancinelli sembra essere dello stesso sentimento,
dicendo Anche M. segui Augusto contro Marco Antonio, e,, Cleopatra presso Azio,
Promontorio di Epiro (a) • Segnaci di Acrone, e del Mancinelli sono Stati il
Turnebò, Mcibomio, Cenni e Volpi. Il Torrenzio però, sull’autorità di Dione
Cassio, e di Virgilio, è di contrario parere .,, Deggio avvertire, dice egli,
che nella celebre battaglia presso Azio, non fu pre., sente M., il quale in
quell’ epoca era Prefetto di Roma, e dell’Italia, come », rilevasi dal Libro
hi. di Dione Cassio ; Di più Virgilio, che fa menzione del solo ( 1) Suppl. in
Liv. lib. 73. art. 9. .• At Cae sar misso curri Liburnis Maecenate, qui
lorigius insequeretur fugientes, ad honores Deo rum, a quibus adjutus credi
volebat, se contulit. ». fa) Com. in 1. Epod. Secutus itera Augustum Maecenas
est contra M. Antonium, ef Cleopatram apud Actium Epici Promontórium. Com. in
1. Epod. Horat. v.. Vit.C. Cilnj M. Vit. di M. lib.i. Postil.9. -, Lat.vetus
tom.io.part.x.pag.a37. Digiti; ile,> Agrippa, e che lo eguaglia allo stesso
Otta» vio, non avrebbe omesse le lodi ancora del suo M., se anch’esso si fosse
trovato in quell'azione. Laonde Orazio scria» >» se questa Ode nel supposto
della futurapartenza di quello. Su tale articolo sembra, che il sentimento di
questo Comen tato re sia il più giusto, ed il più fondato se si legge con
qualche riflessione ciò che narra il suceennato Dione, e prima e dopo la
disfatta di Antonio, e di Cleopatra presso Azio. Imperciocché con tntta
chiarezza rilevasi dagli scritti di questo autore che M. era Prefetto di Roma,
e quando Ottavio parti per la spedizione contro Antonio, e durante 1’ epoca
della medesima, e dopo la riportata vittoria, come si è anche accennato di
sopra. Di più Velie jo Patercolo descrivendo la ( O Co®- in Epod. : Illud
monendum me existimare, celebri ad Actium pugna non interfuisse Maecenatem tane
temporis Romae, et Italiae administrandae Pracfiectum, tjuod significare
videtur Dion. Virgilio» sane solius Agrippae Theminit, insigni laudatione ipsum
Caesari aequiparens, non omisurus Maecenatem suum, modo adfuisset. Quare carmen
hoc sola opinione futurae profcctionis tcripsit Horatius. Lib.a, art. 85.:
Dcxtrum navium } ur 9 * sudetta battaglia di Azio * domina individùak mente
l'Ammiraglio, ed i Comandanti subalterni della Flotta di Ottavio > e non fa
pa-» loia di M., il quale secondo Acrone, sarebbe stato il Comandante delle
navi Liburne. Ecco le parole di Vellejo L’ala,, destra delle navi di Ottavio fu
affidata a Marco Lario, la sinistra ad Arunzio, ed >, il centro ad Agrippa,
Ammiraglio di tutta la Squadra. Ottavio f che trovavasi per,, tutto, era
destinato dovunque veniva dal*,, la fortuna chiamato,. Torniamo in sentiero.
Ottavio lasciata la direzione degl’ affari di Roma, e dell’ Italia a M., come
si è detto, si portò in Brindisi, ove era ancora-, ta la sua Flotta. Essendosi
quivi imbarcato, fece vela verso l’Epiro, onde avvicinarsi ad Antonio, che già
stava nella Città di Azio, e che aveva adunati li suoi Vascelli nell’ ingresso
del Golfo di Ambracia. Ottavio entri nello stesso Golfo, e si disponeva a dare
una battaglia; ma avendo osservato, che il suo equipaggio non era completo, e
che non era prudenza azzardare un fatto in luogo si angusto, si tirò in alto
mare, lasciando il suo nemico nella primiera posizione. r : 4. ‘J> i'.i
lianarum corriti M. Lario commitsum, laevum Aruntio, Agrippae omne classici
certamìni s arbitrium ; Caesar ci parti destinatili, in, quam a fortuna
vocaretur, ubique adertiti Intanto giunse ad Antonio con varie Legio* ni Canidio.
Questo Generale Romano, che seguiva sinceramente il partito di quello, avendo
veduto Cleopatra nel Campo, lo consigliò a doverla assolutamente allontanare,
sembrandogli cosa pericolosa ritenerla in mezzo all’Armata. Lo consigliò
inoltre ad evitare una battaglia navale, ed a portarsi nella Macedonia, ove con
il soccorso del Re de’ Gesti, avrebbe combattuto per terra, e la vittoria non
sarebbe stata dubbiosa. Non ostante la saviezza di questi consigli prevalse 1’
influenza della Regina di Egitto, e fu risoluto di combattere sul mare. Non
solo Canidio, ma ogn 'altro sperimentato Militare conosceva, che l’ esporsi ad
una battaglia navale, era un errore. Infatti mentre Antonio trascorreva la
Flotta, e dava gli ordini opportuni > uno de’ suoi vecchi soldati, ricoperto
di ferite gli disse ad alta voce,, Come, o Signore, andate a confidare » la
vostra gloria alla meschina, e pericolosa « risorsa di una battaglia di
Vascelli? Lasciate, lasciate il mare alli Egizj, ed ai Fenicj, che sono nati
per questo elemen*' e mettete a combattere li Romani sul Continente. Se allora
periremo, la nostra,» morte sarà da veri Soldati, e sarà compensata dalla vita
de\nostri Nemici. Antonio nou rispose al Soldato, e persisti per sua
disavventura nel Piano stabilito. (i) Essendo stato il mare per alcuni giorni
furiosamente agitato non si fece alcun movi» mento nè da una parte, nè
dall’altra: Essendosi in fine calmato, ambedue le Flotte posero alla vela per
dar principio ad una battaglia, che doveva decidere della sorte del Mondo; Il
sudetto Vellejo accennando il giorno di questa battaglia memorabile, cosi si
esprime 6 dolore, e della sua disperazione. Lacera le proprie vesti, si
percuote il volto, ed il petto, e chiama replicate volte il suo amante con nomi
non meno teneri, che rispettosi ; Antonio, benché prossimo ad esalare lo
spirito, tuttavia non è meno occupato di Cleopatra. La esorta a conservarsi,
finché possa vivere con gloria, a non rammentarsi tanto del suo tragico fine,
quanto dello splendore di sua vita, e degli onori, ond’ essa lo aveva veduto
circondato ; Ed a riflettere, che egli non era stato vinto, che da un Romano,
dopo essere stato egli stesso il più illustre fra i Romani ; quindi spirò,
pronunciando queste ultime parole. Antonio ( conchiude il sudetto Storico In*
glese ) aveva passata la sna vita fra i perigli, e fra i piaceri. Era posto in
paragone con Cesare per il valore, e per la capacità militare ; ma l'amore gli
fece perdere il senno, il coraggio, l’onore, la stima, l’affetto de’ Romani, e
l’ Impero, e la vita. Cleopatra con una morte egualmente spontanea seguì
l'ombra di Antonio, ed nn monumento istesso chiuse le ceneri dell’uno, e
dell’altra .fi) (i) Diou. lib. 5t. Piotare, loc. cit. Sveton. in Octay. art.i
7. Echard. loc. cit. JVlentre Ottavio in tal guisa trionfava nell’ Egitto del
sno rivale, ed ultimava con tanto successo qnest3 guerra Civile, si attentava
tacitamente alla sua vita nel senoistesso della Capitale ; ma vegliavano a sua
difesa la fedeltà, Vattaccamento ? e la vigilanza di M.. Marco Lepido il giovane
aveva dei risentimenti particolari contro di Ottavio, e nutriva nel petto un
odio mortale, perchè 1’ ambizione, e prepotenza di lui avevano balzato Marco
Lepido il padre da quella superiorità, e e da quel potere, che gli dava il
Triumvirato,© lo avevano ridotto a menare una vita oscuta, e negletta. Era
questo Giovane Romano figlio di Giunia, sorella di Bruto morto nella battaglia
di Filippi : Egli voleva adunque vendicare nel tempo stesso, e la morte dello
zio, e l’avvilimento del padre. Vellej. Patere, lib. a. cap. 88. : Dum ultimam
bello Actiaco, Alexandrinoque Cae~ sar im ponti manum, Marcus Lepidus,juvenis
forma, quam mente melior, Lepidi ejus, qui T riumvir fuerat Reipublicae
constituendae, fili us, Iunia Bruti torore natus, interficicndi^ Formò a tale
effetto una pericolosa congiura per uccidere Ottavio, qnando dall’Egitto
avrebbe fatto ritorno in Roma. La cospirazione non focosi segreta, che non
giungesse a notizia di M. Prefetto di Roma. Egli seppe con tanta quiete, e
simulazione penetrare il nero progetto del traditore, e con tanta celerità
impedirne le consequenze funeste, che Lepido venne arrestato, giudicato,
convinto, e condannato all' ultimo supplicio, senza che venisse punto alterata
la tranquillità di Roma. In tal guisa M., secondo Veliero ( i ), con una
sorprendente destrezza seppe spegnere le perniciose scintille di una nuova, e
rinascente guerra Civile. Servilia moglie di Lepido, forse complice della
congiura, non volendo sopravvivere al marito, nè soggiacere aH’obbrobrio, ed
alljt timul in Vrbem revertissct, Caesaris Consilia inierat. Loc. cit. Tunc
Urbis custodiis praepositus Cajus Maecenas .... Hic speculatus est per surnmam
quieterà, ac dissimulai ione nt prae cip itis consilia J uvenis, et mira
celeritàte, nullaque cum perturbatione aut hominum, a ut rerum, oppresso
Lepido, immane novi, ac resurrectui i belli civilis restinxit initium, et ille
quidem male consultoruni poenas exsol log pena dovuta, si uccise da se stessa
con aver inghiottiti de* carboni ardenti. Anche Giunia moglie del vecchio
Lepido fu accusata di complicità in questa congiura del Figlio ; ma contro di
essa non esistevano, che semplici sospetti; tuttavia M. la obligò a dare la
cauzione nel Tribunale di Balbino, Liv. in Snpplero.lib. i 33. art. 72.
Servilia Lepidi Vxor curn superesse viro non substinerct, et diligenti
familiarium custodia ni hil adipisci mortiferum posset, pruuis arxlentibus
deVoratis, vita abiit\: Vellej. loc. cit. Aequatur praedictae Calpurniac
Antistii, Servilia Lepidi Vxor, quae vivo igne devorato, praematuram mortem
immortali nominis sui pensavit memoria Roberto Riqucz nelle irate a questo
articolo di Vellejo, fa le seguenti osservazioni relativamente aCalpnrnia. Ciò
che narra Vellejo di Servitia è attribuito comuneme nte a Porzia moglie di
Bruto. Infatti Valerio Massimo, esatto Scrittore del Secolo, in cui si suppone
accaduto quel fatto, non ne fa menzione. Di poi la moglie di Lepido non fu Ser
vilia, ma Antonia figlia del Triumviro : Ciò non ostante il Vossio non osa
negare la verità del fatto a Vellejo, 1. perchè Lepido, ripudiata, o morta
Antonia, potè passare alle seconde nozze con Servilia, 2. perchè Eliano Var.
Histor. annovera fra le illustri D ame Romane una Ser’» vilia .,!*• uno de’
Consoli. Allora Lepido di lei marito si presenta a questo, e cosigli
parla" Voi sapete con certezza, o Balbino, che io non sono stato complice
del delitto di mio Figlio, e sapete egualmente, che non ebbi parte alcuna il
quell’Editto di proscrizione emanato, quando la sorte mi faceva domi-,, naie, e
nella quale foste anche voi compreso. Se rifletterete per un moménto alla mia
passata grandezza > io spero, che alla vista di un supplichevole, di cui
rispettaste altre volte li decreti, sarete per ascoltarmi con cuore placato.
Giunia mia consorte non ha che me per adempie-re alFohbligo, che gli è stato
ingiunto. Ricevetemi adunque per la sua cauzione, o permettete, che io vada fra
le prigioni con essa,, Balbino sensibile alle preghiere di un uomo, che prima
del cambiamento della sua fortuna, la potenza aveva reso formidabile ai Romani,
e conoscendo ancora del tutto insussisteute l’accusa contro la sudetta Gunia
promossa, dichiarolla innocente. Intanto Ottavio avendo posto fine alla guerra
di Egitto, al Triumvirato, ed alla esisten^ dell’ unico competitore, che gli
restava, fece ritorno in Roma ove fu accolto con incompreusibile allegrezza; vi
trionfò per tre giorni, e chiuse il Tempio di Giano, che Appian. lib.4. Catrou
loc. cit. per il corso di dne secoli, era stato aperto. Benché rimasto solo
padrone della vasta dominazione Romana, tuttavia non cercò, che di farsi amare
con le maniere popolari, ed affabili, con le sue liberalità e con le più savie
disposizioni prese e per il bene publico, e per quello di ciascun Cittadino in
particolare. M., che gli stava al fianco, e senza il consiglio del quale per
cosi dire, Ottavio non faceva passo, non mancò di fargli prendere tutte quelle
determinazioni necessarie per preparare insensibilmente l’esecuzione di quell’
ardito progetto-, che già da gran tempo andava meditando. In fatti la condotta
di quello, dacché ritornò dall'Egitto, fu tale, che il Senato, il Popolo, e
tutti gli ordini dello Stato già sentivano gli effetti di un Governo
Monarchico, benché ognuno fosse persuaso, che la Repuhlica andasse a momenti a
riprendere l’antico suo lustro, e splendore. Ottavio però mostravasì
indeterminato, e dubbioso* se dovesse salire sul Trono, o se dovesse rientrare
nella classe di semplice Cittadino, ristabilendo laRepnblicà nel suo stato
primitivo. Da una parte gli si affacciavano all’ immaginazione agitata li
pericoli, a cui la sna potenza quasi illimitata poteva esporlo ; richiamava al
suo pensiero il crudele destino di Giulio Cesare suo padre, e li rimproveri,
che gli aveva fatti Antonio altre volte,» che egli travagliava meno per il
publico bene, che per la sua propria grandezza,, dall’altra parte si lusingava,
che la Republica, stanca dai furori delle guerre civili, preferirebbe un giogo
pacifico, e salutare ad una indipendenza funesta, bastante a richiamare tutti
gli orrori passati. Credeva anche di rimarcare, che il Popolo Romano avesse
perduto lo zelo geloso, e l’amore costante per la libertà ; che il Senato non
avesse più P inflessibile fermezza, che era scoglio alla Tirannia; e che ad
ambedue mancassero Soggetti capaci, ed intraprendenti per formate una
formidabile Fazione. Queste riflessioni, e la sua indeterminazione era un peso,
che Ottavio portava con pena ; pensò pe rtauto di discaricarsene nel seno dei
due suoi più fedeli amici. Noi l’abbiamo già osservato, uno era Agrippa, Uomo
tanto sincero ne suoi con sigli, quanto era intrepido nelle battaglie. Unito
alla Corte di Ottavio fin dall* infanzia, crasi acquistata la sua stima, e la
sua tenerezza più ancora con l’esatta sua probità, che per gl’importanti
eervigj nelle armi ; era un guerriero de’ tempi antichi paragonabile ai Curj,
ed ai Fabri Catrou Tom. 19. lib. 5. Echard. 1 13 cj i fi) L'altro era M.. Dal
fin qui detto abbiamo conosciuto, che egli era un amico disinteressato di
Ottavio, fornito di uno spirito franco, e leale * il Politico più raffinato del
suo tempo, il più destro, ed il piu giudizioso de’ Cortegiani. Agrippa adunque,
e M. consultò Ottavio per fissare la sua irrisolnzione, e per decidere sul
grande oggetto. Agrippa parlò il primo con una fermezza, conforme alla
rettitudine del suo cuore, all’ amore, che aveva sempre conservato per la sua
Patria, ed alla riconoscenza, che doveva al suo Padrone (a)., Se io avessi di
mira ( diss’ egli ) li miei,, interessi soltanto, vi esorterei a profittare
all’ istante delle circostanze del tempo, e a divenire il Padrone assoluto
della Ro-,, mana grandezza ; ma, facendo usodiquella sincerità propria del mio
carattere, e fi) Catrou loc. cit. Dion.. : Hoc autem anno vere iterum pencs
unum Hominem s u /rima rn totius Reìpublicae esse coepit, quamquam armorum
deponendorum, resque omnes Senatus,Populique pot est atit rade ndi
consiliumCaeSar agitaverit ; ad quam deliberationem, curi Agrippam,
Maecenatemque adhibuissct, nani cum his de omnibus suis arcanis communicara
solebat, prior inhanc sententiam Agrippa lo cutusest. * II » già da voi altre
volte sperimentata, credo, o Cesare, clic bandito ogni privato riguardo debba
parlarvi, e manifestare il mio sentimento per il vostro, e per il publico bene
.,, È principio certo in Politica, che il sottoporre ad un governo Monarchico
un popolo geloso della sua libertà, forma un opera dilEcile ed eseguirsi.
L’amore della,, indipendenza nasce con noi, ed è un attributo quasi necessario
dell’umanità. Questa inclinazione universale in tutti gli uo5, mini aumenta, o
s’ inde.bolisce per mezzo,, dell'educazione, ed è più, o meno poten-,, te,
secondo i pregiudizj della Nazione *,, nella quale abbiamo avuto la sorte
eventnale di nascere. Perciò la natura, li cosfumi, l’edutazione, e la lunga
abitudine,, dovranno rendere ai Romani insopportabile il dominio di un solo. Li
popoli assuefatti al giogo di un Padrone hanno un debole sentimento di quella
generale pendenza, che la natura ispira per la libertà ; ma quelli al
contrario, cui,, per successione è stata trasfusa la massima, vera o falsa che
sia, provarsi cioè,, minor servitù in un Governo formato da Magistrati di loro
scelta, si rattristano,, altamente, e fremono al solo pensiero di,, un Sovrano.
Potrà la forza tenerli per qualche tempo soggetti, ma questa forza istessanon
sar» giammai capace a distruggere ne’ cuori quel germe vivifico, che la natura
v’ infuse, e che dalla educazione,, venne quindi allentato. Finora, o Cesare,
le vostre imprese sono state legittime, e la gloria da voi acquistata, non ha
in veruna guisa scemato lo splendore della vostra virtù. Imperciocché nella
guerra di Perugia opprimeste degli ambiziosi, che col pretesto di vendicare la
morte di Giulio Cesare, pretendevano d’inalzare un Trono sulle ruine della
Dittatura. A Filippi purgaste la terra di due assassini di un Zio, che vi aveva
adottato per figlio. La Sicilia, invasa da un Tiranno, che spacciandosi per
difensore della Repilblica, ne cagionava la mina, fu liberata dalle vostre
armi. De’ due Colleghi, che per mezzo del Triumvirato sapeste con saviezza
associarvi, uno vive tuttora nell’ oscurità, enei disprezzo, e,, l’altro ha
cancellato con la sua morte il di sonore, che recava al nome Romano. Dopo tante
vittorie, è giunto, o Cesare, l’istante fatale, incili dovete pronunciare sulla
sorte dell’ Universo .,, Quale mai, e qaanto grande sarà la vo}J stia gloria,
se, divenuto abbastanza po-,, tente per assoggettarlo da Monarca, saprete in
guisa superare gl'impulsi dell’amor proprio, che lo ridoniate a’ suoi veri
Padroni ’ Allora vedreste sollevarvi al di soli a pra de' Camilli, e
dc’Scipiorti, e consa-» orarvi Tempj,come a Divinità tutelare dal Senato, e dal
Popolo, ristabiliti nell’an>, tica loro autorità, e nel primitivo stato di
eguaglianza. (i^A questa eguaglianza di,, Cittadini appunto noi siamo debitori
della conquista del Mondo, e finché li Romani, ne furono in possesso pacifico,
si viddero sortire dal seno della Republica, e Generali scelti con riflessione,
e Soldati premu-,, rosi di rendersi degni di poter un giorno *, anch’ essi
comandare. Ah, Cesare, io >, temo, che se Roma cesserà di esser Repu-,,
blica, cessi ancora per qualche tempo di vincere, e di conquistare,,, Quando il
sistema Republicano dovesse,, cangiarsi in Monarchia, a quali timori, a quanti
incarichi laboriosi, e pesanti non j, va a sottoporsi il nuovo Monarca, e
sopra-,j tutto l’autore di un ! tal cambiamento ? Li,, Comizi > ed il Senato
riuniti affrontarono >, immensi travagli per regolare 1’ amministrazione di
tante Nazioni comprese nella vastità della Republica Romana. Ora potrà un solo
nomo supplire all’esercizio, che su di quelli gravitava, e la salute la più
robusta potrà sostenere le fatiche inerenti al governo dell’ Universo ? Il solo
Dion. lib. . : JEqualitatis et nomen est speciosum > et res j ustissima,
dipartimento delle Finanze non presenta,, una sorgente inesauribile
d’imbarazzi, di pensieri, e di cure ? Io convengo, o Cesare, chele rendite-
dello Stato sono gran>, di, ma saranno sufficienti a mantenere tante Armate
esposte su tutte le frontiere dall’ Oriente all’Occaso ? In una
amministrazio-,, ne popolare si concorre agevolmente, e con piacere ai bisogni
dello Stato, e l'istes— sa avarizia cede alla ragione del bene comune. Allora
la liberalità de’Cittadini for>, ma per essi un merito per inalzarsi agli
ono*,, ri, ed agl’ impieghi (i). Al contrario in un Governo monarchico le
publiche intraprese di un Sovrano sono riguardate come suoi affari personali.
Ognuno crede, che,, da quello soltanto si debba supplire del suo proprio tesoro
a tutte le spese del Governo, Ogni nuova imposta produrrà nuova que-,, rela,
nuove satire, e nuove amarezze per il medesimo, e sempre con la forza, o di
mala voglia si vedrà il Cittadino effettuare » il pagamento delle Tasse
quantunque ordinarie, e regolate dalla Legge. Quale odio poi non si procaccia
un Giudice universale, incaricato di punire da se l Dion. loc. cit. : Ubipenes
Populum est Imperium, multi multam pecuniam conje rune, etiam ut liberalitatis
opinionem consequnntur, ac prò Ut ho noia mcritos adipiscantur. ti8 >, solo
tatti li colpevoli ’ In un cambiamento i t di Governo, il numero de’ malvagi si
mol-, tiplica all’ infinito, e li sediziosi, e mali, contenti sortono, per dir
cosi, dal seno,, stesso della terra. Non potendosi tutti ridurre al buon
sentiero nè colla dolcezza, nè coiresempio del rigore usato con alcuni, sarete
dalla necessità costretto a pronuncia' i, re contro de* medesimi, decreti o d'
igno* minia, o di bando, o di morte, e sebbef, ne sarete nel punire moderato,
ciò non,, ostante si crederà, che gli effetti della vostra giustizia
necessaria, siano piatto-,, sto il risultato di un particolare risentici mento.
Vedrete inoltre li piò potenti Cittadini, e le famiglie de’ Patrizj accendersi
di gelo-,, sia, e d' invidia per il vostro inalzamento al Trono, e perciò non
pochi di essi non temeranno di censurare primieramente la >, vostra
condotta, e quindi anche formare,, delle congiure a danno della vostra
esistenza, e del sistema da voi introdotto. Se perciò vorrete punirli, ed
umiliarli, si susciterà contro di voi la publira indignazione, e se li
lascerete vivere senza oppri-*,, merli, la vostra sicurezza, sarà compro j,
messa, c sarete circondato incessantemente da mille pericoli. Dion. loc, cit. :
Hos ncque, si augeri ji 9,, Voi solo non potrete ultimare alcuni prò» getti, 1
’ esecuzione de’ quali esige indi—,, spensabilmente 1 ’ opera, e la confidenza
di Generali rispettati dal Soldato per la loro nascita. Questi riceveranno da
voi il comando delle Armate, ma quindi rivolge-,, ranno contro voi stesso
quelle forze, che,, ad essi affidaste. A quale espediente allo-,, ra dovrete
appigliarvi ? Bisognerà, che facciate uso d’ individui di vile estrazione.
Questo rimedio però potrebbe com« promettere la tranquillità dello Stato, eia
33 vostra gloria ; imperocché, se per caso 3, questi nomini oscuri riescono
nelle imprese, diverranno insolenti, se poi soccombo*,3 no, a voi solo sant
addebitata la perdita .,, Ah ! Cesare, preferite pure, preferite. le dolcezze
di una vita tranquilla all’ im33 barazzo di una potenza tumultuosa. Un,, momento
di piacere puro, e solido è supc33 riore a tutto il fasto della grandezza. Che
cosa pretendo conchiudere da tatto-,» ciò, e quale è-il mio scopo? Voglio forse
33 violentare il vostro animo a rinunciare per sempre a quella superiorità, che
avete coll’ armi acquistata ? Nò certamente : io vi darei un consiglio
pregiudizievole, se,, vi esortassi a restituire la Republica al Popolo Romano
nella situazione, in cui si pattare, tutus vivet, neqiie si opprimere
cancri},juste ages. ritrova al presente ; essa ha bisogno di rij,, forma, prima
che gli antichi Padroni ne vengano ripristinati al possesso. Profittate
pertanto di quella Sovranità,,, di cui la vittoria vi ha rivestito per
migliorare quel campo, che avete acquistato, e,, perseverate nell’ esercizio
della medesima,, per tanto tempo, quanto sarà necessario per ristabilire le
Leggi, richiamare la prattica' delle antiche costumanze, corregere li », abusi
del Comiz'o, reprimere 1’ ambizio-,, ne della Nobiltà, porre de’ limiti alle
pretenzioni del Senato, moderare il potere de’ Tribuni, regolare l’uso delle
Finanze, e », e raffrenare la cupidigia de’ Publicani. Quanto glorioso allora
sarà per voi di comparire da semplice Cittadino in uno Stato, / >, di cui
foste il Ristoratore ! Siila autore di », tante proscrizioni, ed il carnefice
della sua », Patria, seppe dimettersi a tempo, e mori », rispettato, e
tranquillo. Giulio Cesare vostro Padre, il meno sanguinario degl’Uomini, e il
più inclinato a perdonare, fece,, perpetua la sua Dittatura, e trovò degli », assassini
frà li suoi amici più cari. M discorso di Agrippa fece una forte impressione
sullo spirito di Ottavio. Egli forse avrebbe abbracciato il sistema da quello
proposto, sagrificando le sue vittorie al ristabir limento della Repubbra, ma
M., essendo di contrario sentimento, entrò neH’are ~ uà, e parlò con tale
facondia, e vivacità, che ottenne nna completa vittoria sullo spirito di
Augusto. Se si trattasse ( rispose egli ) di delineare un Campo, e di prendere
del le misure per dare una battaglia, io non oserei di parlare in presenza di
Agrippa ;,, ma, aggirandosi la discussione intorno a materie politiche, credo
di potere con sin-,, cerità azzardare il mio giudizio, avendo su di quelle
lungamente riflettuto, e trat-,, tato non poehi affari dello Stato in differenti,
ed anche difficili occasioni. Comprendo la solidità de’ dubbj proposti, ma,,
conosco ancora, che lo scioglimento di essi non può imbarazzare un Eroe già
Padrone,, sovrano, e capace d* ultimare colla sua,, prudenza ciò, che ha
incominciato colla,, forza. La Republica, o Cesare, è caduta in uno stato d’
infanzia, ha bisogno perciò di,, esser messa in tutela. Ora non siamo piq in
que’ tempi felici, in cui la virtù soste-,, neva questo gran Corpo, ed in cui
le sue forze non erano state indebolite dal vizio;,, ma l’avarizia è succeduta
all’amore della povertà, l'ambizione agli onori, la temperanza alla frugalità,
e 1’ incontinenza al,, modesto pudore ; è impossibile pertanto di,, trovare al
presente un numero diMagistrati disinteressati, sobri, casti, virtuosi, e
simili a quelli, che fecero onore ai primi f aa secoli di Roma. Tanti mali
invecchiati vi-» a chieggono una roano capace a poterli gua>» lire. f. Si,
Cesare, voi dovrete affrontare pei, santi incarichi nel prestare la vostra
opera ad una cura cosi difficile ; e preveggo, che,, saranno assai grandi li
vostri pensieri, la vostra vigilanza, li vostri travagli ; ma nell’attuale
stato delle cose sono divenuti i, necessarj ; e sebbene potrebbe sembrarvi
spaventevole un tale prospetto, tuttavia sono persuaso, che non avrete il
coraggio di abbandonare il Governo nel pericolo di,> non ricuperare giammai
la sua perfetta sa-,, Iute, f. Non è possibile di rimediare ai mali pre*,,
senti con una Dominazione passeggierà. U ristabilimento del buon ordine in Roma
coll’,, ajuto delle leggi, e de’ regolamenti è un idea di speculazione, che non
può aver luogo in prattica; bisognerebbe, che quelle venissero infinitamente
moltiplicate per poter correggere li disordini, che le passioni hanno
introdotti. Come poi potrebbero trovarsi de’ Cittadini, ih cuore de’ quali
fosse abbastanza incorruttibile, e li costumi abbastanza puri per mantenerne
l’osser-? vanza ? LaRepublica è ridotta in tali circostanze, rt che ha bisogno
di una Legge vivente, che f, ordini, e che faccia al tempo stesso ese guire.
Appena la maestà di un Padrone perpetuo basterà per imprimere il rispetto;,, ma
che cosa accaderà, se Magistrati di un anno saranno incaricati della Riforma f
Li Cittadini indocili, e pertinaci spereranno » r impunità nel governo di Successori
più deboli, sostituiti ai più rigorosi. E’ necessa-,, ria una Autorità
permanente per distrugge-,, re inclinazioni perverse, che rinascono
incessantemente, e che non è tanto facile 99 di estirpare. Voi, o Cesare, vi
dovete alla Patria, divenitene Padrone per sempre per sua compassione. Fate sì,
che il Senato sia composto di Soggetti di sperimentata saviezza ; confidate le
vostre Armate ad abili Generali, e scegliete li vostri Legionarj frà le,,
Famiglie povere, le quali porranno som», ministrare Cittadini eccellenti ; ma
conser-,, vate il dominio, e sulla Nobiltà, che iin» piegherete nelle cariche,
e suiti Comandan» ti degli eserciti, e suiti soldati medesimi. Ne con ciò
pretendo, che il peso degli affari debba sopra voi solo gravitare ; Ne #> dividerete
la cura con li Cittadini ptimarj delle antiche Famiglie, che renderete i ! 1 u
stri, con renderli laboriosi. Riguardo al,, Popolo, bisogna regolarsi con tal
cautela, che sia sempre contenuto nell’ umiliazione. Finché li plebei s’
interessarono della sola cultura delle terre, Roma fu tranquilla ; si ridderò
però divenire insolenti, allorqnan», do, associati ai publici affari col
soccorso i, de’ loro Tribuni, rovesciarono più volte la ’ Costituzione dello
Stato ; c necessario per», tanto, che rientrino in quella subardina», zione,
dalla quale furono levati dalle Fazioni. Disprezzate le publiclie voci tendenti
a », denigrare la vostra condotta. Forse si dirà, che avete vinto perii vostro
solo ingrandimento ; ma Roma parlerà con altro linguaggio, quando sotto l’ombra
de’ vostri auspicj vedrassi al colmo della feli jy Cltil «,, Non dovrete temere
alcun attentato alla,, vostra persona, divenuto Monarca ; al con-,, trario i
vostri giorni saranno in pericolo, y, se, spogliato del supremo potere, rifenì,
trerete nella classe di semplice Cittadino ; .chi mai in questo caso potrà
garantirvi dalla perfidia di que' scellerati, e malconten* ti, che sopravissuti
alla distruzione nelle », passate guerre civili, si aggirano ancora e,, in
Roma, e nelle Provincie ? Esistono sicu-,, ramente de’ turbolenti partegiani
delle Fazioui di Sesto Pompeo, e di Antonio. Que Dion. loc. pit.: Ilio,
enimPlebis lice ristia, qua optimus quisque servire cogitur, et acerbissima
est, utiisque cominunem pcrniciein ffert. nS A sti, serbando contro la vostra
persona odio, risentiraento, e livore, cercheranno di vendicare l’affronto, che
loro recaste per,, averli vinti, ed umiliati, e col vostro as-,, sassinio
immolare una vittima gradita all’ s, ombre de’ loro Amici estinti o sulle
camf> paglie di Filippi, o sulle spiagge dell’ Epiro. Siavi d' esempio
Pompeo il grande, il,, quale, spogliatosi spontaneamente di quella potenza, che
colla vittoria si era acquistata, fu miseramente ucciso, mentre faceva degl’
inutili sforzi per ricuperarla :,, Alla medesima dissavventura sarebbero stati
esposti ancora Mario, ed altri potenti Cittadini, ie non l’avessero prevenuta
colla morte. (i,) • t > * Diòn. loc. cit. : Quis enim libi parcet, ubi omnes
res, uti mine ace sunt, P apuli, àlior urn que‘ Potè stati praemitlis, cu/n et
pcrmulti a te sint offensi, et omnes fere summam rerum tentaturi, quorum alteri
et ulcisci te, alteri adversarium te e medio tollera cupicnt 1 Balsac nel
cap.45. del Print. cosi su tal proposito ragiona : Si va incontro ad egual
pericolo tanto nell ’ impossessarsi, che nel dis* farsi del s/lpremo potere. F
aiaride era prontissimo a dimettersi dalla potenza usurpata l ma chiedeva- un
Nume per sicurezza della sua vita, se rientrava nella classe di Cittadino
privato, £’ stata sempre comune opinione Sul Trono però la maestà, che imprime
il rango supremo, e la guardia d’ ond’ è,1 circondato, spegne ne’ cuori gl’
istessi de* siderj della vendetta. D’altronde, o Cesare, la vostra gloria, e le
vostre precauzioni sapranno preservarvi da qualunque timore. Koma vi riguarda.
come un dono,, ricevuto dai Numi, e voi passate per una,, Divinità tutelare,
che il Cielo volle serbare iniftezzo a tanti Nemici per assicurare il loro
benessere, e la loro felicità. Si è detto, che il peso dell’ Impero è troppo
grande ; ma questo è un vano terrore capace a «coraggi re tutt’ altri, che il
Fi-,, glio adottivo di Giulio Cesare. La metà del,, Mondo ha già ubbidito alle
vostre Leggi; finora non foste, che Triumviro, e l’ Impero dell’Occidentè non
fu per voi un in»; carico troppo pesante. Presentemente tut— te le Nazioni
godono quella pace, che voi,, «apeste ad esse procurare ; le nostre Fron che
quelli, li quali hanno preso le armi contro la loro patria, o contro il loro
legittimo Sovrano, sono ridotti in certa guisa nella necessità di continuare
nel male, per. La poca sicurezza, che trovano nel fare del bene. Non osano di
divenire innocenti per timore di sottoporsi alla discussione delle Leggi, che
hanno offese, e persistono ne loro errori, credendo, che il loro pentimento non
trovi compassione. ja? •Nere sono difese da Governatori di vostra scelta, e gl’
ordini non derivano, che da voi dal Caucaso, ed il Mar rosso fino all’ Oceano
Brittannico. Non si tratta più di cercare, in che guisa potrete divenire il,,
Padrone dell’ Impero ; ma con quali mezzi potrete sostenere quel peso, che il
Cielo ha voluto addossarvi;. Io spero di potervi somministrare li mezfci
ricercati. », Formate Un Senato, che sia composto di », persone sagge, e
tranquille, nè la pover-,, tà deve essere un motivo, onde escluderne li buoni
Cittadini ; sarà non meno cosa vantaggiosa, se unirete ai Senatori Romani
de’Soggetti stranieri scelti ancora Frà nostri Alleati. Con questo
temperamento, potrete » ricevere de 1 buoni consigli, sia per il go-,, verno
della Capitale, sia per contenere le » Provincie lontane, e le cabale saranno
meno » frequenti tra Individui di diverse Nazioni. L’ordine de' Cavalieri è
rispettabile, ma trovasi circoscritto da troppo anglisti confini. Ammettetè ih
questo ceto illustre, seni, za fissarne il numero > tutti que’ sudditi
>> delle Provincie Romane, che ne sono de», gni, e per li natali, e per
li servigj pre*,, stati, e per le ricchezze. >» Li Pretori devono scegliersi
dal Corpo de' Senatori dopo cinque anni di servizio* e dell’ età di anni
trenta, giacché in avve, gerete iui Giudice subalterno col nome di
sotto-Censorc, che prenderà cognizione di que’ leggeri disordini de’ Cittadini,
che,, non giungono al delitto, ma, che sogliono cagionare delle inquietezze
nelle famiglie, e che tolgono la quiete publica, ed il buon ordine della Città.
La carica di questi due,, Magistrati potrà essere a vita, non po* tendo
concepire alcun timore di due Uomini inermi, che eserciteranno la giustizia
sotlo i vostri occhii Io non so, o Cesare, se il mio discorso incontrerà la
vostra approvazione, ma ciò,,, che ho detto, mi sembra troppo necessario a
rendere il vostio regno pacifico. Contendete liberamente il diritto di
Cittadinanza,, a qualunque Individuo, che ne sia degno * delle Città alleate, e
soprattutto delle CoIonie, e cosi avvilirete questo titolo di Cittadino Romano,
che rende il Popolo della Capitale si fiero, e affezzionandovi le Nazioni
straniere, ve le renderete fedeli * i. Crescerà poi il loro affetto, se facendo
con precauzione una scelta de’ Soggetti li più Digitized by Google l3i,,
ragguardevoli, li farete partecipi anche y, degli onori del Senato. Che cosa
importa, se il numero de’ nostri Senatori oltrepasserà li trecento ? Più
saranno gl’impieghi, e le cariche da conferirsi, e più autorità vi
acquisterete, ed anche maggior sollievo. E’ giusto, che sia fissato uno
stipendio per i Consoli, ed i Pretori, che manderete nelle Provincie, giacché è
cosa del tutto vituperevole, che per mezzo di enormi,, concussioni, si
aggiudichino da se stessi li salarj de’ loro travagli, ed impongano tasse
arbitrarie sulle Popolazioni, che governano. Se si porteranno delle lagnanze
contro l’avarizia di alcuni di quelli, dovranno richiamarsi all’istante, benché
non siano finiti li tre anni dell’esercizio della loro carica ^ In generale poi
sarà una giuyv sta misura di non prolungare ad alcuno il tempo della sua
amministrazione oltre a cinque anni. Ho detto, che bisognava moltiplicare il »
numero de’ Cavalieri ; perchè da questo » Corpo rispettabile dovrete scegliere
levostre Guardie, a cui assegnerete de’ Capitani. Allora la vostra Persona sarà
più sicura, e se P uno di questi Capi diviene so» spetto, l’altro per
emulazione veglierà con y, zelo salii vostri giorni ; qneU’autorità poi, >,
che loro darete sul resto della vostra Casa, ' « li affezzionerà maggiormente
al servizio,,e I a se si conoscerà, che le loro incombenze fossero troppo
moltiplicate, potranno in,, parte discaricarsene su di alcuni subalterni col
nome di Luogotenenti -, che parimente potrete nominare. Dallo stesso corpo de’
Cavalieri potrete estrarre ancora e gli Coj, mandanti della Polizia, che in
tempo di not*,, te veglieranno sulla quiete di Roma, e gl* Intendenti de'
viveri, e li Presidenti del pnblico Tesoro, e li Ricevitori delle rendi-,, te
delle Provincie, (ij Oltracciò oserò dirvi, che sarà bene d’ impiegare ancora
de’ Liberti per la riscossione del pnblico danaro. Questa qnalità di nomini
sarà adattata per sopportare,, l’odio inerente all* impiego di Esattore. Con
questo mezzo potrete far uso, e distri— L’ ordine de' Cavalieri desume il suo
stabilimento parimente da Romolo, il quale avendo fatta la scelta di
trecentpGiovani lipiù valorosi, c benfatti, ne formò il Corpo di guardia della
sua Per sona. Allora erano chiamati Celeri, ma posteriormente furono sottoposti
ad altre variazioni di nome al dire di Plinio presso il Sigonio de Antiquo Jure
Civ. Rom. Jib.t. cap.3. : Equitum nomea saepe variatum est, in his quoque, qui
adequitatum trahe bantur. Celerei sub Romulo, Regibusque appellati sunt, deinde
Flexumincs, postea Trottali : Fedi il sudetto Sigonio loc. cit. Digitized by
i33 buire degl* impieghi, che serv'irannó di ri-,, compeiiza ai vostri
domestici, e popolandorOriente,e l’Occidente d’individui fedeli.»sarete con
esattezza prevenuto della situazione delle Provincie lontane .,, Una delle cure
le più importanti di un Sovrano è di vegliare attentamente sulla educazione
della Gioventù in tutto 1’ Impe-,, ro. Vi siano adunque per questa delle
publiche Scuole, delle Accademie per formar-,, la nel mestiere delle armi, e
de’ Maestri ben pagati per istruirla nell’ esercizio dcl-,, lo spirito, e del
corpo. Da questa dipende la forza dello Stato, e questi fiori coltivati con
saviezza, produrranno il frutto a suo tempo, e luogo. Procurerete però, che non
venga educata nella mollezza, e nella indolenza, altrimenti se ne risentiranno
in seguito gli effetti funesti ; Roma,, cesserà di esser feconda di Eroi, e
tntto l’obbrobrio ridonderà a carico dell’Autore,, della Monarchia, "t
Dion. lib 5a. pag.63a. : Hoc quoque te summopcre hortor insticuas, ut Putridi,
Equestrisque Ordinis homines, dum adhuc pueri tiam agunt,ludos literarios
frequentent Ita e nim statini apuero discentes, et exercentes omnia ea, qua e
adultis sunt usurpanda, ad omnia ne goda aptiorcs habebis. Optimi enim, ac egre
gii Principi* est, non modo ipse ut omnia e* 4 Anche le Truppe esiggono una
particola. re attenzione, come quel Corpo, che forse,, costituisce la porzione
più necessaria, e interessante dello Stato. Allorquando la maggior parte delle
vostre città godrà il diritto della Cittadinanza Romana, vi riuscirà facile di
rimpiazzare le vostre Legioni di,, Cittadini Romani • Fatene la leva in tutte
le contrade dell’ Impero ; siano puntualmente pagate ; preparate loro de’ buoni
quartie-,, ri, e non permettete, che invecchino sotto le armi, poiché da ciò ne
derivano le sedizioni militari. Ogni Veterauo è ordinariamente ardito, e
presuntuoso ; perciò è necessarlo, che questa porzione di Truppe,,, facciali
suo servizio senza interrompimento dopo il fiore della gioventù fino al
princi-,, pio della vecchiezza ; le vostre Legioni siano sempre sul piede di
guerra, ed in numero sufficiente per difendere le Frontiere. Siano escluse dal
vostro governo quelle leve istantanee, e tumultuose, come soleva altre volte
praticarsi in caso di estremo,, bisogno. Fate si, che una porzione de' nostri
Contadini eserciti tranquillamente,, l’Agricoltura, nè i loro rustici lavori
sieno turbati dal timore di dover ascoltare ad ogni istante il suono della
tromba guerric officio agat, verum, ut qua rat ione etiam reliqui omnes quarn
optimi fiant, prospiciat. ra, che ad essi annunzi degli arredamenti involontari
.,Le Armate saranno assai deboli, allorquando non sono fonnate, che di sudditi
forzati a servire. Si dirà, come trovare somme considerevoli., onde mantenere
tante Armate conti», imamente sul piede di guerra, e pronte sempre a marciare a
qualunque cenno del Sovrano ? Questo è il punto decisivo, e l’oggetto di
terrore, che vi è stato presentato,,, Ogni Stato ha le sue rendite, e voi
potete divenir padrone del Tesoro publico de’,, Romani. Basterà questo per dare
esecu*,, zione al progetto, che io vi propongo ? Nò », certamente; ma con una
prudente, e savia », economia vi si potrà supplire. Vendete le,, spoglie delle
Provincie conquistate, e formatene, col prodotto, un fondo per libi7, sogni
straordinarj. Promulgate de’ sa vj re-. golainenti, affinchè le campagne siano
con impegno, e profitto coltivate dai Proprie», tarj, ed esigetene un tributo
sul loro prodotto. Non è forse giusto, che con il sagrifizio di una tenne
porzione delle loro sostanze, si acquistino la sicurezza, che voi \, procurate
ad essi, e a tutto lo Stato ? Vegliate sulle miniere de’ metalli, che si
discopriranno nelle diverse contrade dell' t, Impero. Esiggete puntualità nella
riicos rU sione delle tasse per testa, senza permettere, che li debiti si
moltiplichino.Procurate, che non si rappresentino altri giuochi fuori della
corsa de’ carri, e de’ cavalli, perchè ordinariamente le Città le più opulente,
sogliono esaurire le loro rie•chezze in futili divertimenti * Riguardo alla
«Capitale dell’Impero, gli edificj deggiono es~ sere in essa sontuosi, è li
Spettacoli magnifìci; la Capitale è il centro di tutte le Nazioni, e la maestà
del Padrone, che gor verna, si misura con la Città, ove risiede conia sua
Corte. Fuori di Ironia proibite agli abitanti 1* eccessività delle spese, e
quindi con questo provido temperamento tutti saranno in istato di pagare li
tributi. Si potranno inoltre dispensare le Provincie a fare Deputazioni così
frequenti. Li Governatoti respettivi ultimeranno gli affari sulla faccia del
luogo ; e se fosse necessario, che quelli dovessero rimettersi al voatro
Tribunale, li rimanderete al Senato. Allora voi detterete le sne risposte, e
sfug-,, girete di prendere sopra voi solo l’odio, che quelle potranno seco
portare. Fate partecipe il Senato delle querele, che gl’inviati delle Nazioni
nemiche, o dei Re stranieri potranno promuovere, ed a voi solo riservate la
cognizione delle grazie, » che loro vorrete accordare. Non dovrete mai più
permettere al Po polo la decisione de’ delitti capitali. Qne*> sta dovrà
essere una ispezzione esclusiva del Senato, il quale si crederà onorato di un
tale imbarazzo, e voi ne resterete con piacere discaricato. Io però non parlo
de’ delitti comuni, la di cui punizione è stata regolata dalle Leggi. Per li
attentati contro »» la vostra persona (giacché tutto può accadere) siatene voi
stesso il delatore, ma non giudicate giammai nella vostra causa. Fate, », che
altri ne pronuncino la sentenza, e voi,, non dovete interessarvenc, che per
moderare la pena. » Non dovete fissare la vostra attenzione, », come già ho
accennato, nè alle parole in»> considerate de’ malintenzionati, nè alle saj»
tire, che si diffonderanno, contro di voi,, nel publico, e non curate di venire
in co», gnizione degli autori ; poiché dovete figli» rar ?i, come situato in
una sfera superiore, »• in cui siete invulnerabile, come li Dei. La vostra
collera non deve accendersi, che » contro li sediziosi, che, posti alla testa
di una Armata, avranno rivolte le vostre,, armi contro di voi stesso. Il
giudizio di que sti scellerati, e colpevoli di Stato, Indivi*,, dui
ordinariamente di alta considerazione, dev essere rimesso per commissione ai
Con* >» soli antichi ; la qualità di tali Giudici darà », peso alla
decisione, che saranno per pronunciare. Vi saranno delle cause, dall’egame
delle quali non potrete dispensarvi*,, imperciocché pii affari di onore fra
gliUfh ciali delle vostre Armate, e gli Appelli dai T ribunali del Prefetto di
Roma, e del sotto*,, Censore devono tornare a voi; allora scegliete degli
Assessori fra i Patrizio al tri Soggetti qualificati, che possano figurare
con,, voi in una Assemblea giudiziale. La grande saviezza di un Padrone indili
pendente consiste nell’ ascoltare volentieri,, gli altrui consigli. Accogliete
pertanto grati ziosamcnte tutti quegli Amici, e Cittadini, che saranno per
darvene dei salutevoli;,, ma non discacciate con orgoglio coloro, i quali
potrebbero suggerirvcne alcuni non sodisfacenti. Quelli, dalla bocca de’qua-,,
li sortono consigli poco utili, possono aver avuto retta intenzione : Accade di
questi, come dei Generali di Armata battuti,, dal nemico ; Spesso l’errore non
è imputa* bile nè agl’ uni, nè agl’altri ; e siccome non si può sempre
rispondere degli avvenimenti della guerra, cosi non deve riguardarsi con occhio
bieco quell’ Uomo, che di buona fede dà un consiglio poco sensato. Li Filosofi
procureranno sovente di gui* darvi con le loro speculazioni. E’ vero,,, che
avete sperimentato, quanto erano van*, taggiosi li consigli di Areo, e di
Atenodo*,, 1-0(1^), ma generalmente parlando, le opinioni di tali Uomini sopo
difettose per mancanza di esperienza nel maneggio degli affari Le meditazioni
del Gabinetto sono spesso le meno sicure in prattica. Atenodoro Filosofo del
Portico è nativo della Città di Tarso. Fa maestro di Augusto, dal quale Ju
decorato di molti onori. ed anelli di Tiberio. Aveva il talento particola) c
per far apprendere con facilità le scienze a' suoi Di scepoli. Le sue
cognizioni erano cosi estese, e tanta la forza della sua eloquenza, clic
Sallustio lo assomigliava al fuoco, che accende tutto ciò, che gli si avvicina
: Athenodorus Stoicus Philosophus ( dice Suida f sub Octa vio Romanorum
Imperatore omni bus ad Philosophiani subsidiis, tam ab iji genio, quam recta
animi voluntate instructus erat .... idemque dilucido discipulis suis
explicabat. Hunc Sallustius oh studiuni admiratus, igni similem esse dixit,
omnia propinqua incendenti : Secondo Strabope lib. 1 4. pag. 463- aveva l'
abilità di rispondere estemporaneamente a qualunque argomento, e fu onorato
ancora da Marco Antonio il Triumviro, ììi lode del quale scrisse un Poemetto,
dopo la battaglia presso Filippi. t fa') Dion. loc. cit. : Neque enìm quia
Areum., et Athenodorum bonos, ac honestos viro s expertus es, omnes alias idem
studium prua i4o Ecco, o Cesare, alcune massime geuerali per il Governo, clie
renderanno la vostra amministrazione Sovrana meno difficile, e meno pericolosa
di quello’, che vi è stata,, rappresentata. • .,, Le qualità personali del
Monarca, so», pratutto quando è 1’ autore dellaMonarchia, », devono eguagliare
la sublimità del rango, », al quale egli è giunto. Io credo, e so* », no
persuaso, che quello non deve in difierentemente accettare tutti i titoli, e
tutte le distinzioni, che l’adulazione potrà deferirgli. La realtà della
Monarchia vi deve bastare sotto qualunque nome la rite*-,, niate. Che importa
di esser chiamato Cesa-* » re, o al più Imperadore, quando voi amministrate
sovranamente lo Stato Romano ? Bisogna, che con una irreprensibile con dotta
v'innalziate dei monumenti perenni sul cuore de’ Sudditi. Che cosa servono
quelle Statue d’oro, o di argento ? Sono stati eretti nelle Provincie alcuni
Templi a vostro onore, ciò poco interessa ; ma non dovrete » giammai
permettere, che ve ne sieno con* secrati in Roma, perchè sarebbe un oggetto di
disprezzo per le persone sensate, ed una seferentes, similes eorum indicare
debes, curri hac specie usi multi infinita mala populis, privatisene hominibus
adjeraut, y, spesa inùtile, che pot là essere meglio im i, piegata. Fate uso
voi stesso di economia nelle vostre spese particolari, ed in quelle della
vostraGasa. La buona opinion, e, di un uomo frn» gale vi farà più onore di un
grande numero »> di tempj, di altari, e di statue. Questo culto esteriore, e
materiale diverrà comune ai buoni, ed ai malvaggi Principi. D’altronde non si
recherebbe insulto ai Numi, con eguagliare i vostri onori a quelli, che il
Popolo suole ad essi deferire? Un sovrano, che cerca di essere onora» to deve
sempre mostrare della pietà verso li Dei immortali, perciò nón permetterete,
che s’ introducano in Roma delle Sette religiose straniere. Una novità in
materia 5, di Culto, ne porta sempre delle altre, e e quindi ne risultano
attruppamenti sediziosi, e pericolose congiure. Ammetto, che restino frà noi
degli Auguri, che consuiti, chi vuole ; ma non devono assolutamente tollerarsi
gli Astrologi, ed i Maghi ; j) imperciocché dalle loro predizioni false, o
vere, che siano » hanno principio sempre le intraprese dei perturbatori del
publico riposo, -fi) Dion. loc. cit. : Deos quoque senipcr, et ubique ita cole,
ut moribus Patriae est reccptum,ad eumdemque cultura ahos compelle. Pc * 4 Voi
avrete indiverse parti delatori -, e. spioni ; questa razza di persone saranno
necessarie, ma guardatevi di deferir cieeamenre ai loro rapporti. Spesso
l’odio, rinteresse, la vendetta, o altre passioni sciolgono agl’ uni la lingua,
e chiudono agl’altri la bocca. Qui è dove fa dnopo,, avere continuamente la
bilancia in mano, e procurar di farla inclinare piuttosto a favore degli
Accasati .,, Li vostri antichi Amici, ed i vostri Domestici li più familiari
devono esser per,, voi non meno un soggetto di precauzio-,, ne. Disprezzarli,
sarebbe, un ingratitu-,, dine, sollevarli, ed arricchirli soverchia-*,, mente,
produrrebbe contro di voi un argoinento perenne di rimproveri, e
dimormorazioni. Si giudicherà di voi per mezzo de’ vostri Amici, e i loro
difetti saranno a voi attribuiti. Cercate adunque di disfarvi dei meno
discreti, e di quelli, che sono nelle loro brame insaziabili \ • 1 • i
regrìnarum vero Religionum auctor esodio, ac Supp liciis prosequere,. qui nova
numi na introducane, multos ad peregrinis Legibus utendum pelliciunt ; inde
conjurationet, coi- tioncs, et conciliabula existunt, minime unius principe fui
commodae res ; itaque nequeDeorum contemptorem, ncque praestigiatorem allum
tolerabi *. Governo : L’ingiusta preferenza produce del malcontento, e quindi
può ancora cagionare il rovescio totale di quello. Siate il protettore dei
Grandi fino ad un certo punto, ma l’eterno sostegno dei deboli, ed il
vendicatore degli oppressi.,, Proteggete con energia le arte utili, clic
esercita il basso Popolo, e bandite gli oziosi. Ordinariamente le sommosse popolari
incominciano da pe rsone disoccupate, *, e sono fomentate da nomi di partito,
che,, si danno reciprocamente per farsi ingiuria; ciò forma la sorgente delle
rivolte, che Fa duopo distruggere nella nascita. L’abuso della propria autorità
è il più,, grande dei mali per un Sovrano. Dare esecuzione a tutto ciò, che si
può, è lo stes« i, so soventi volte, che fare più di quello è >, permesso.
Più utio si conosce potente, o più bisogna > che vegli sopra se stesso per
non farsi trascinare dai proprj desiderj. Gli,, Adulatori vi lusingheranno
sopra i vostri di? : b fatti > ma segretamente vi biasimeranno. Abbiate
dunque per massima di regolare la,, vostra condotta, non tanto su quello, di i,
cui siete stato redarguito, ma sù quello, per cui potrete essere rimproverato.
Riflettete sopra voi stesso, e non già come,, Sovrano, ma come Suddito
responsabile j, di tutti i vostri andamenti al Publico, il quale vi osserverà
con tnttà 1 attenzione,,, e vi giudicherà con rigore maggiore di quello, di cui
voi userete verso di esso. Ecco, o Cesare, il dettaglio delle qua. liti, che
voi dovete acquistare, c de'sco-,, gli, che dovete sfuggire. La sapienza, di
cui il Cielo ha voluto decorarvi, vi servi-,, rà di. guida, e 1* esperienza vi
faciliterà l’arte di governare. Entrate adunque, entrate con confidenza nella
carriera, che le vittorie vi hanno aperta ; Roma, e l’Universo vi reclamano,
come il solo Uomo capace di riparare ai disordini di una Repnblica andata in
decadenza. Quelli, che vi esortano a consumare la Rivoluzio-, ne, amano
sinceramente la Patria. Che dolcezze non gusterete in una amministrazione
tranquilla, in cui voi farete la felicita di un Mondo intero 1 Ninna cosa è più
dolce del dominio, allorquando il Dominatore è capace di procurare la comune
felicita. Non vogliate discacciare la fortuna, che vi ha scelto fra mille per
sostener Roma vicina a cadere. Regnate senza prendere il nome di Re, e siate
Sovrano senza altro titolo, che quello di Cesare, o d'Imperadore. In una
parola, la regola più sicura onde rendere amabile il vostro Impero è quella di
governare li popoli a voi,, soggetti, come bramereste di essere gavernato voi
stesso, se i Numi vi avessero,, fatto per ubbidire. Il tX scorso di M. dissipò
le dubbiezze di Ottavio, gli trasfuse nell'animo maggior sicurezza, e non esitò
ulteriormente per aderire al progetto di quello. 11 bravo Agrippa non restò
malcontento al vedere posposto il suo sentimento, perchè comprese anch’es-, che
il suo Padrone rischierebbe meno di quello, che non si era creduto, sul posto
eminente > nel quale veniva consigliato a perpetuarsi > e che l’utilità
publica si troverebbe unita alla gloria del medesimo. Egli non potè non
ammirare la saviezza, e profondità delle massime politiche di M., proposte per
rendere felice un'Amministrazione Monarchica ; e perciò l’esperienza ci ha
fatto quindi conoscere > che tutti li Re veramente degni del Trono hanno
formato il loro piano sù quello, che il sudetto M. presentò ad Ottavio. La
lettura del suo discorso > che per intero ci è stato dallo Storico Dione
trasmesso è un Capo d’opera, che anche ai nostri giorni, ed in ogni tempo può
istruire li Sovrani a divenir felici, procurando la prosperità de’ loro
Sudditi. Il laborioso Catrou, da noi tante volte, citato, suppone, che non
ostante l' efficacia Dion. Catrou Catrou loc. cit. lib. 5. K t+6 delle ragioni
dettagliate da M., V à~ nimo di Ottavio restasse tuttora perplesso, ed
irrisolato ; e che il Poeta Virgilio determinasse qnesta sua ir risolutezza, e
lo inducesse ad ahbracciare definitivamente il prò* getto della Monarchia. Il
Catrou parla in tal guisa (i,) Osare, avendo ripieno lo spirito di tutto ciò,
che aveva ascoltato da Mecenate, non ebbe rossore di consigliarsi,,
ulteriormente con uno de’ suoi domestici i nomo di bassi natali, nato in un
villaggio da poveri genitori, ma li di cui ta-* lenti erano sublimi Questo fu
il famosò Virgilio, Poeta, la memoria del quale si,, conserverà in tutti i
secoli. Da lungo tem-,, po egli era al servizio di Cesare Ottaviàno, e per
mezzo di vili principj èraginnto a meritarsi il favore delsno Padrone .,, M. lo
aveva tirato dalla polvere -, ed egli aveva già spiegato quel genio
incomparabile, che faceva presagire un altro Omero . Virgilio fissò la
irrisointezza dell’ lmpefadore con queste parole :,, Tutti quelli, che si sono
finora impadrbnifi del Governo non visorio riusciti, fe perchè f Perchè po.o
giusti verso degli,, altri, han dovuto, incessantemente paren-,, tare le mani
vendicatrici de 'malcontenti Voi al contrario, o Signore, che il Cielò - - *1 •
loc. cit. ha fatto nascere giusto, e moderato, passerete giorni avventurosi,
facendo pro-,, vare ai Romani un impero amorevole. Sembra però, che il Catrou
in questo luogo siasi fatto sorprendere da quella Vita di Virgilio, che viene
attribuita a Donato Grammatico, e dì cui si è fatto di sopra menzione (i).
Siccome però questo scritto, Il Succennato Autore della Vita di Virgilio si
spiega nel modo seguente. Postcaquam Augustus summa rerum omnium poti tus est,
venit in mcntem, an conduceret Tyrannidem omittere, et omnem potestatem annuii
Consulibus, et Senatui Rempublicam reddere. In qua.re diversae sententiae
consu/tos habuit Mae cenai eni, et A grippata. Agrippa enim utile sibi fare,
edam si honestum non esset, relinquere Tyrannidem longa oratione contendit,
quod Maccenas dehortari magnopere conabatur. Q tiare Augusti animus et hinc
ferebatur, et illinc. Erant enim diversae scntentiae, variis ratiombus
firmatae. Rogavit i gi tur Maro ne m, an conferat
privato homi ni, se in sua Republica Tyrannu/n faccre. Tum ille : Omnibus
ferme, inquit, Rempublicam aucupantìbus molesta ipsa Tyrannis futi, et Civibus
; quia necesse crat odia subditorum, aut eorum injustitiam, magna suspicione,
magnoque timore vivere. .. Q uare si jusCitiam, quod modo facis, omnibus in K a
a sentimento di tuffigli Eruditi, è pie nò di errori, e di favole, cosi non può
fissare la nostra attenzione su quanto narra di Ottavio nel momento, in cui stava
per decidersi sulla scelta o della Monarchia, o del ristabilimento della
Republica. Se sussistesse ciò, che ivi si legge, cioè > che Vi rgilio
determinasse il sudetto Ottavio ad uniformarsi al sentimento di M., non si
sarebbe certamente omesso da tanti valenti Biografi, « he hanno parlato
diffusamente, e di Virgilio, e di Ottavio ; e Dione segnatamente, che ha
trasmesso alla posterità gli eloquenti, e giudiziosi ragionamenti di Agrippa, c
di M., e che inoltre afferma positivamente, che Ottavio si attenne al parere
del secondo, sembra, che non avrebbe occultata una notizia cosi interessante, e
rimarchevole. De la Rue accenna appunto questa ragione per escludere la verità
di quella circostanza narrata dal sudetto Donato Se non fosse un fatto del
tutto assurdo ( dice egli ),, che Virgilio consigliasse Ottavio ad aderì-,, re
al progetto di M., e che deter-,, minasse l’animo vacillante di quel Princi
futurum, nulla hominum facta compositione, distnbues ì dominar i te, et tibi
conducet, et orbi . Ejus sentcntiam sequutus Cattar Priaeipatum tenuit » » pc,
non si sarebbe narrato dal solo pseui, do-Donato, ma sarebbe stato ai posteri
trasmesso dalla penna ancora di Storici il rispettabilissimi. V Ambrosi, che
pensava come de la Rne, nel premettere alla sua magnifica Edizione dell'Opere
del sudetto Virgilio la indicata Vita di Donato, cosi previene il Lettore
infine della medesima e in cui visse •. Imperciocché nveutre Sesto Pompeo,
fi-,, gliò del gran Pounpeo, richiede il Patrimonio paterno, sconvolge, e mette
sossoprali mari d’Italia, e di Sitilia; men», tre Ottavio si vendica degli
Uccisori di Giulio Cesate ano Padre, si divellano scene sanguinose nelle
Campagne della », Tessaglia; mentre il genio incostante, e,, e volubile di
Marco Antonio, o deprezza », Ottavio, corno successo re di Cesare, o,,
acciecato dagli amori di Cleopatra, indina a divenire un assoluto padrone del
Governo, il Popolo Romano no» potè tro-,, vare il. suo seampo » che gettandosi
in brac• ciò alla schiavitù. Ma buon per noi, che «, in cosi terrihile
sconvolgimento di cose» i, le redini del comando caddero nelle mani,, eli
Ottavio Cesare Augusto, il quale eoa », la sua sapienza, e con la sua
sagacitàsep i5a pe riordinare le membra scomposte dell’ immensa mole dell’
Impero, che non sarebbero tornate sicuramente al suo luo» go, se dalla meote,
dal senno, e dalla abilità di un solo non fosse stato il Governo diretto (; ).
Fior. lib. 4 Cap. 3. Populus Pomanus, Caesare, et Pompe\o trucidati, redasse in
statum pristinac libertutis videbatur ; et redierat, nìsi aut Pompcjus Liberos,
aut Cassar haeredem reliquisset ; vel quod utroqua perniciosius juit, si non
collesa quoti -,tlam, mox acmulus Caesarianae potentiac, fax, et turbo
sequentis saeculi, superfuissec Antonius. Quippe durn Scxtus paterna repetit,
trepidatum foto mari ; dum Octavius mortevi patris ulciscitur, ite rum fuit mo
venda Thessalia ; dum Antonius, varius ingenio, aut successorem Cassar i
indignai ur Octavium, aut amore Cleopatrae desciscit in Pegem j nam aliter
salvus esse non potuit, visi confugisset ad servitutem. Gratulandum tamen in
tanta perturbatione est, quod potissimum f ad Octavium Caesarern Augustum somma
rerum rediit, qui snp lentia sua, acque soler tia, perculsum undique, et
perturbatovi ordinavi Impcrii corpus,i quod ita haud d tibie nunquam coire, et
consentire potuisset, nisi uni us Praesidis nutu, quasi anima, et mente,
regcretur, Il grande progetto della Monarchia unfc*versale da M. proposto, non
era conosciuto, che da esso, da Agrippa, e da Ottavio. Siccome il silenzio è
l'anima delle imprese delicate, cosi questo dovette esigere da Agrippa un
segreto inviolabile, dovendosi mettere in esecuzione con metodo, con
circospezione, lentamente, e senzacbe i Romani potessero avvedersene, giusta le
istruzzioni dell’Antore del medesimo. Ottavio segni in tutte le parti li
consigli di questo savio Politico, e gli fu debitore della suar gloria, e della
felicità del suo Regno. In fatti riformò subito il Senato.; ed es» eludendo
que’ Soggetti, la di cui presenza in quel Corpo rispettabile, o non poteva
recave alcun vantaggio, o cagionargli del male, ve ne sostituì degli altri di
sperimentata prudenza. Usò in questa riforma la precauzione di far vedere, che
da esso era quello in special maniera onorato, per non cade «54 re nella stessa
disavventura, alla quale fn sottoposto Giulio Cesare, il di. cui disprezzo
ingiurioso per un Magistrato composto delle più illustri Famiglie di Roma, fu
più veramente la cagione della sua morte funesta, che l’interesse della publira
libertà. Aboli tutti li debiti dai Cittadini contratti con lo Stato. Dichiarò
nulli tutti gli Atti, che la necessità del tempo aveva fatti promulgare
nell’epoca del Triumvirato, Abbellì Roma di grandiosi Monumenti, e divenne
ristoratore di un grande numero di Templi, li quali o le guerre passate avevano
rovinati, o per mancanza,di denaro, erano stati negletti.?, Stabili, che la
distribuzione gratuita del grano, che, per costume antico j; soleva farsi .al
Popolo sopra li fondi, del publico Tesoro, fosse più frequente, e che in ogni
distribuzione se ne dasse alle povere famiglie una misura quadrupla di quella,
che prima era in usanza. Questi, ed altri regolamenti salutari gli conciliarono
una stima generale, ed era, per dir cosi, idolatrato da tutti. Allora M. si
avvide con la profondità delle sue viste politiche, che il suo Progetto era
giunto alla maturità, e che il Senato, Roma, e tutti gli Ordini dello Stato
erano già disposti a riconoscere l’impero di Echard loc. cit, un solo nella
persona del sno Padrone ; perciò concepì un secondo Progetto, per ultimare il
primo, che sembrava piuttosto stravagante, e pericoloso, ma che doveva
inseguito produrre tutto il suo effetto. Consigliò pertanto ad Ottavio', che si
pre. sentasse in Senato, e con un discorso politico, ed artificioso rinunciasse
al comando assoluto, che allora riteneva, rimettendolo nelle mani de'snoi
antichi Magistrati. Gli fece riflettere, che con questo mezzo non solo non lo
perderebbe, ma anzi avrebbe ottenuto, eh’ egli, il quale finallora era stato
arbimanamente Padrone del Mondo, per consenso di tutta la Nazione, sarebbe
divenuto Monarcha legittimo ; inoltre, che, mediante le riforme già fatte e nel
Senato, e nelle altre Magistrature, erasi procacciato una quantità di
Partegiani, che per le sue liberalità, per la sua giustizia, e per lesile
maniere obbliganti era sommamente amato dal Popolo ; che in conseguenza,
allorquando questo, ed il Senato avrebbero inteso pronunciarsi da]la bocca del
loro benefattore la rinunzia alla direzione del Governo, o per riconoscenza, o
per rispetto, o per politica, o per non perdere le dolcezze della vita, e del
buon ordine, ch’esso aveva introdotto, non solo non avrebbero accettato la
proposizione, ma lo avrebbero pregato a perpetnarsi in quell’impero, acni
finallora aveva preseduto. Ottavio adunque penetrato, e persuaso dalle ragioni,
donde era stato dal suo Ministro istruito, si presenta in Senato, e con un’aria
d’ingenuità, e di franchezza sorprendente, in tal gnisa si fece a parlare.La
proposizione, che io vengo a farvi, Padri t3 Coscritti, sarà da pochi
approvata, e da molti stimata incredibile. Soventi volte la j, diffidenza, con
cui sogliono riguardarsi le persone costituite in dignità, fa rendere sospette
le medesime, anche quando parlano, ed agiscono sinceramente, Io mi esporrei
immancabilmente a questo perin colo, se non fossi determinato di dare una s
pronta esecuzione a quanto sono per pròA porvi. Voi vedete, Padri Coscritti, a
qual » rango sublime mi hanno fatto giugnere la,, sorte delle armi, ed una
condotta moderata. Capo assoluto, ed indipendente della Repnblica, io sono in
istato di far uso del»» m i a potenza, e di perpetuarmela. Ap-,, pena uscito
dalla fanciullezza, impugnai la >1 spada, e volai a vendicare l assassimo di
un Zio, che mi aveva adottato per figlio,,, Nel momento, in cui entrai in
questa carn riera, presi la giustizia per guida, e la,, vittoria divenne mia
compagna. Fui coiì stretto a combattere con nemici di diverso carattere, e di
qualità differenti. Bi*,, sognò dissimulare con alcuni, ed aprire con essi
delie relazioni per non soccombere j> sotto il peso della moltitudine. Mi
convenne in seguito perseguitare gli altri ardilaniente, e costringerli a
rivolgere contro essi stessi quel braccio, che era stato funesto a Giulio mio
Padre. Mi associai alcuni compagni delle mie vittorie, e divisi con essi il
peso del Governo. Che cosa quindi ne accadde ? Lepido in Africa lasciò decadere
con la sua negligenza gli affari di Roma ; Antonio, esposto nell' Egitto, e
nell’Asia, come su di un teatro, disonorò con la sua turpe condotta il nome
Romano, j, e lo rese abbominevole a tutto l’Oriente. Il Cielo secondò quello
zelo, che esso stesso mi aveva trasfuso per riparare a tali disordini v Antonio
non esiste più, e Lepido,, vive nell’ozio giorni felici per un uomo del suo
carattere. Che cosa vi aspettate, Padri Coscritti,,, da un Vincitore, padrone
del suo, e del vostro destino? Tutte le Fazioni sono distrutte; ogni corpo di
armata sulle Frontiere è comandato da Geuerali, che godono tut-,, ta la mia
confidenza. Li Re nostri Alleati,, non ricevo.no l’impulso, che da miei cenni,
ed i loro soccorsi non marciano, che agli ordini miei. Il denaro proveniente
dalle nostre rendite non è versato, che nel mio i} tesoro, e non ne va nelle
publiche casse, che quanto io ne permetto. Fiù. Io eonosco i vostri cuori, e
quello del Popolo Ro-,, mano in generale. Io potrei rispondere del vostro
affetto verso di me, e riposarmi sulla publica benevolenza. L’indipendenza
adunque, e la Sovranità possono andare più oltre? Ma perchè tenervi più
lungamente sospesi ? Ascoltate con attenzione le mie parole, ed il suono delle
medesime faccia passaggio alla più lontana posterità . Questo Vincitore,
Sovrano assoluto, questo Generale Supremo di tutte le forze di Roma, questo
linperadore adorato dal popolo sagrifica al bene della Patria gli onori, di cui
lo avete ricolmato, li titoli,,, che gli avete Conferiti, in fine tutto il
frutto delle sue vittorie. In questo istesso istante io vi restituisco li miei
diritti sulle Armate, sulle Leggi, sulle Finanze, sul governo delle Provincie,
in una parola sù tutto ciò, che voi mi avete accordato, e che la necessità
delle circostanze mi hacostretto ad accettare. Che volete di più? Ora si dica
pure, che io non ho travagliato, che per il mio ingrandimento, quando mi esposi
a tutti li pericoli delle battaglie. ORoma, tu fosti sempre presente agl’oc-,,
chi miei ! A Perugia, nelle Campagne di Filippi, in Sicilia, nel Golfo di
Ambracia,,, e nell’Egitto! A te sola io allora immolava >, li tuoi, e li
miei Nemici, e non fui prodi 1S9 if go del mio sangue, che per assicurare la
liberta Romana. Ah fos'se piaciuto ai Numi, che io non avessi impiegato il mio
Ministero in guerre civili, che ci hanno esaurito di Cittadini, e spopolato le
Provincie. O mia cara Patria, perchè non ti trovai tranquilla, conte al tempo
de’ Padri nostri ! Cielo t tu non me lo hai permesso ! Benché giova•netto mi
scregliesti per essere il vendicato}> re del più perfido assassinio, il
riparatore degl’insulti recati alla Nazione Romàna, il ristoratore della nostra
gloria eclissata, e finalmente il pacificatore di tutto il Mondo!,, La mia
opera è compita > ed ho pienamente sodisfatto ai miei destini. Permettete
> Padri Coscritti, che iomen vada nella solitudine a bearmi di quella
fe>, licità, che io stesso ho procarata. Ora non posso, senza ingiustizia
ritenere più lun-,, gamente un potere, che a voi appartiene ;,, e questa mia
volontaria cessione è dovuta alla mia propria sicurezza, per mettermi al
cotperto degli assassini. Che anzi non so-,, lo vi rendo le vostre leggi, e
tutti li vostri antichi privilegi, ma vi dono eziandio l’opulento mio
patrimonio, e le prerogative, che io posseggo per diritto della mia nascita(i).
(i) Dion. lih. 53. Catroutom. 19. » dotta, e nelle tue operazioni, nè mire
am>» biziose, nè avarizia, nè verun’ altro di,, que vizj, che sogliono
albergare ne Cortigiani, e nelle Corti. Properzio scrivendo allo stesso M., ci
da à conoscere, che quel suo disinteresse per gli onori sublimi, ai quali
avrebbe potuto pervenire, prodnceva un’ azione si gloriosa, e commendevole, che
il di lui nome sarebbe dalla fama, e dai posteri celebrato al pari di quello
de’ Camilli. (a) (1) Apnd Pontan. in Symb. Georg. Virgil. lib. a. pag.aay.
Regis eros genus Etrusci, tu Caesaris olirà D exter a, Romanac tu vigili] ibis
eras. Omnia curri posscs tanto tam carus amico, T e sensit nemo posse nocere
tamen. Eleg. Maecyias eques Etrusco de sanguine Regum, Intra fortunam qui cupis
esse t narri Di più questo suo morigerato contegno, e Mobile disinteresse
serviva anche d’esempio alle famiglie le più cospicue de’ Romani Cavalieri, e
ne ebbe imitatori, ed ammiratori. Crispo Sallustio, fri gli altri, nipote di
una soìclla dello Storico di questo nome, seguì perfettamente il tenore di vita
di M.. Sul finire di quest’anno (Scrive Tacito) mo-,, rirono due illustri
personaggi Lucio Volusio, e Sallustio Crispo. *. . Questo, nipotè di una
sorella di quel Cajo Crispo Sai* lustio elegantissimo Sri ttorc delle Storie
Ro*,, mane > da cui fu associato alla sua Famiglia,,, aveva tutti li mezzi
li più potenti per ottenere qualunque dignità ; tuttavia, emùlandò la condotta
di M., senza il titolo di Senatore, Superò in potenza molte famiglie,che erano
state decorate delTrionfo, e Consolari ». ». Mentre visse Metani libi romano
dominas in honore sccures, Et liceat medio ponere jura foro. Et tibi ad effectum vires dei
Caesar, et omni T empore tam faciles insinuentur opes ; Parcis, et in tenues h
umile m le collegi* umbras, Velorum plerMs subtrahis ipse sinus. Crede mihi magnos aequabunt ista Camillos Jndicia, et
veniet tu quoque in ora virum, Ì76,) cenate, Crispo fu il secondo > cui
venivano affidati li segreti Imperiali ; fu il primd i, però, quando quello
cessò di vivere, Ciò non ostante Augusto procurava di compensare questo
commende’vole distacco dagli onori luminosi del suo Favorito colli tratti del*
la più tenera amicizia, e della più sincera confidenza. Imperciocché,
allorquando il peso, e la serie degli affari del Governo gli lasciavano qnalche
tregua, si portava sovente a visitarlo anche nella maestosa Villa, che
possedeva sulle fertili sponde dell’Aniene. Quivi Ottaviosi compiaceva di
rivedere l’amico, di consultarlo, e di riceveie sempre consigli, istruzzioni, e
massime per ben g vernare, e per ben governarsi ; che anzi vi è chi crede, che
il memorabile Congresso frà Tacit. Andai, lib.3. cap-.3o. : Fine anni
concessere vita insignes Viri L. V olusius, et Sallustius Crupus. Crispum
equestri crtum loco, C. Sallustius, rerum Romanarum flore ntissimus auctor,
sororis nepotem in nomea adscivit ; atque Me, quamquam prompto ad capesse ndos
honores adita, Maecenatem aemulatus, sine dignitatc Senatoria multos
Triumphalium, Consulariumque potentia anteiit . Igitur incolumi M. proximus,
mox praecipuus, cui secreta Imperaiorum inniterentur. (a^ Marquez Dis. sulla
Vita di M. Ottavio, M., ed Agrippa, e le deliberazioni per rinunciare, od
accettare la Sovranità fossero tenute nella tranquilla solitudine, e nel
dilettevole silenzio di questa Villa deliziosa. Ed in vero qual luogo più
opportuno per trattare con riflessione, maturità, e quiete un oggetto cosi
grande, che aveva relazione con gl’interessi dell’Universo ? Di più ; se
Ottavio era sottoposto a qualche infermità, non già restava nella Corte, in
mezzo a suoi domestici, ed agli adulatori. Esso non si trovava contento, e non
sentiva sollievo alle sue fisiche indisposizioni, che nelle mura
dell’abitazione, e fra le braccia Volpi Lat. Vet. lib.18.Cap.?. Cumvero bis
Augustus deliberaverit de su.mma Imperli abdicando, et inpristinam restituenda
Reipublicae libertate, et in gravissima e deliberatiti— nis consultationem
Agrippam generum, et M. amicissimum arbitros, et consiliarios assumpserit,
quemadmodum in majoris momenti rebus omnibus consueverat. Agrippa ad illum longissimatn
prò abdicando ora tionem habuerit, prò retinendo ac optime in stituendo rerum
regimine M., haec in nostra Tiburti Villa M., ut potè in serhoto à turbis,
securoque odo, agitata fuisse, vehementer, ut suspicor, inclinat animus. M del
suo M. Svetonio ci dice chiaramente, che quello in tempo delle sue malattie
riposava nella casa di M.. Ma la stima, la tenera amicizia, la fiducia, il
rispetto, che dimostrava Augusto verso M., non si limitavano soltanto a queste
semplici dimostrazioni, che possono chiamarsi materiali, e passeggere; egli
amava di essere istruito incessantemente da quello nelle vie difficoltose del
Governo, e ne riceveva ancora con tutta la rassegnazione li più umilianti
rimproveri, quando conosceva, che erano diretti contro le sue passiotai t Fra
le altre istruzioni benefiche, e salutari, che M. aVevà suggerite ad Ottavio,
vi era quella, coti la quale gli veniva raccomandata la moderazione, perche
aveva conosciuto, che l’animo di questo inclinava alla severità, ed all’ira. A
tale effetto pare, che si facesse seguire da M. in tutti li suoi andamenti, ed
in particolare maniera quando doveva sedere nel Tribunale, come Giudice
supremo. Allora M. esaminava le sue mosse la sua voce, e li suoi delineamenti,
e se rimarcava, che T lmperadore agiva con dol fi) In Octav. in Art. 77. Aeger
autetìi, Augustus, in domo Maeccnatis cu.ba.bat » eezza, con giastizia, a
sangue freddo, e non si faceva sorprendere dal risentimento, che porta con se
la severità, lasciava, che operasse liberamente, e se ne compiaceva ; ma se
scorgeva, che nel Giudizio Voleva far nso di nn rigore soverchio, eccessivo, e
non giusto, anche sul Tribunale»- in mezzo alla moltitudine > che lo
ascoltava > e dond’ era circondato, lo redarguiva, lo faceva tornare in
calma, egli faceva rammentare la sua massima salutare, GTIstorici tutti hanno
avuta l’attenzione di trasmettere alla posterità un esempio memorabile del
dominio, che M. aveva sullo spirito di Augusto per farlo marciare con la
moderazione > e con la dolcezza al fianco in ogni sua intrapresa. Sedeva
egli una voltata qualità di Giudice alla presenza di molti Accusati, che
attendevano la loro sentenza. M. si avvide, che stava per pronunciare contro
quegl’ infelici la sentenza di morte. Siccome conosceva» che era ingiusta, e la
folla del popolo non permetteva di avvicinarsi al Tribunale, e nel luogo, sù di
cui sedeva, •crisse queste parole ardite nelle sue tavolette incerate > e
nello stesso tempo gettolle ad Ottavio Sorgi, o carnefice, ed esci da questo
luogo Ottavio conobbe la mano di chi le aveva scritte, si rammentò subito di
ciò, che forse per nn momento aveva dimenticato, si levò dal Trisanate, e
dimandò assolati quegli Accasati. Che M. ha un impero irresistibifé suH’ahimo
d’Augusto, e particolarmente ne’movirtie'rtti dell’ira, e della severità, lo
fece conoscere lo stésso Angusto, quando quello aveva cessato di vivere, e di
assisterlo. Giulia sua Figlia aveva ricoperto di scandalo la Corte con le sue
dissolutezze. Il Pad re sommamente rammaricato non poteva rimediare n questo
disordine domestico. Tr.v sportato dall’impeto della collera, rilegò la Figlia,
e rese publica la di lei disonestà. Poco dopo rientrato in se stesso, si penti
de’suoi trasporti inconsiderati, e di questa publicità, che disonorava la sua
casa. Allora ricordanti^) t>!on. . Tarn vero si cubi ira impoteutius
efferretur, utile m cura sibi habuit, a quo ab ira ad mansuetiorem animum
reduceretur. Unus ejus rei documentarti prof e-* ram. Praesetite aliquando M.,
Augu. stus prò Tribunali stdens, cum multos esset morte damnaiuras, praevidens
hoc /ore M accenni, cum per circumstantium coronam ad ipsum irrumperè, ac
proximc assistere ne qui rct, haecvcrba in tabella scytpsit : Surge vero
tandem, Carni fex ; vamque Tabellam, qua* si atiud quid indicantem, in sinum
Augusti projecit, qua lecca, is statini suri exit, nomi * ne morte mulctato.
i8l dosi di Agrippa, e di M., e della saggezza de’consigli, che da essi soleva
ricevere quotidianamente, esclamò replicate volte. « Ah, che questo non mi
sarebbe accaduto, se o M., o Agrippa fossero stati ancora al mio fianco fi ).
Dal contesto della Storia, che ha parlato di Angusto, e di M., si rileva
agevolmente, come, dopoché quello si assise, e consolidò sul Trono Imperiale, e
fu messo in piena esecuzione il sistema della Monarchia universale, questo si
ritirasse affatto dalla grande amministrazione degli affari politici. Finché il
suo amico lottava co’nemici, che si opponevano alla di lui grandezza futura,
egli compariva in mezzo alle imprese le più rilevanti, e spinose, affrontava
delle ambascerie malagevoli, contribuiva a trattati di pace li pia vantaggiosi,
diveniva Prefetto, Amministratore, ed Arbitro dell’ Italia, e di Roma ; quando
però quello non ebbe più nemici a combattere, più rivali da distruggere, e
restò cqn ( 1 ) Seneca de Benef. lib. 6. Cap. Divus Augu, tus filiam intra
pudicitiae male dictum impudicam relegavi!, et flagiti* Pi ilicipalis domus in
publicum emisit. deinde cum interposito tempore verccundia gemens, quod non
illa silcntio pressisset. ... Saepe ex clamavit ; Horum mihi nihil accidisset,
ti ani A grippa, autMaecenas vixistet . 1 8a vinto, e persuaso a gettare la
base della sudetta Monarchia universale, e che a tale effetto gli fu presentato
il Piano, furono fissati li principj, e le più savie istruzzioni ; in una parola,
dopoché fu sistemato il nuovo Governo politico, M., che aveva a tutto
contribuito, che aveva collocato il suo Amico, e il suo Padrone sul Trono
deirUniverso, e sul rango il più eminente, a cui potesse giungere un mortale,
abbandonò, per dir cosi, le vanità del mondo, ritirandosi fra le dolcezze di
una vita privata, e tranquilla. Continuò a prestare li suoi servigi
all'Imperadore, ma lungi dallo strepito della Corte ; consigliandolo sempre a
farsi amare, e a fare amare il suo Governo. Dopo questo ritiro però. M. non già
viveva nell’ozio, nell’oscurità, e nell’indolenza. 11 genio del grand’Uomo non
era venuto sulla terra per desistere, negli anni migliori della sua vita, dal
far del bene ai suoi simili, ed alla posterità. Coll’aver consigliato Ottavio ad
accettare l’Impe ro in quell’epoca, e in quelle circostanze, aveva reso un
grande vantaggio all’ umanità, giacché con questo mezzo aveva troncato la testa
al mostro spaventoso delle fazioni, sempre famelico di sangue umano, e di
stragi ; aveva ricondotto la sicurezza, e la concordia nelle famiglie, la pace
nella Capitale, nell’ Italia, e nelle Provincie le più remote. Egli però
voleva, i83 e doveva fare di più; -una nazione già colta, doveva migliorarla,
un secolo già istruito doveva perfezionarlo. Protesse in grado eminente, e fece
proteggere da Augusto le arti, li letterati, e le scienze, e nacque subito il
secolo d’oeo del Fune, c delle altre. Si ; dobbiamo pur confessarlo, e
confessarlo con tutta giustiziala posterità è debitrice all’anima benetica di
M. di tutto ciò, che di bello,riguardo alle arti, ed alle scienze risultò in
quel secolo avventuroso, che noi riguardiamo con ammirazione al presente, e che
non meno dovranno ammirare tutte le colte future generazioni. Amando quello, e
proteggendo, facendo amare, e proteggere dal capo dal Governo li talenti, fece
si, che questi si sviluppassero con energia, e prodigassero opere capaci ad
istruire, e migliorare lo spirito, ma incapaci ad essere eguagliate. Li Poeti
migliori di quel serolo hanno celebrato questo favore, e questa protezione di
M., e ci hanno fatto conoscere al tempo stesso, che egli era un protettore
pieno di discernimento, illuminato, che non concedeva il suo affetto, che a
soggetti veramente colti, e di talenti forniti, e che fra quelli, che esso
accoglieva, e proteggeva, regnava una concordia inalterabile Nella Casa di M.
(dice Orazio) regna la purità, e la,, schiettezza ; vi sono banditi tutti
que’disordini, che sogliono eccitare l'invidia 4 la 1S4,, gelosia, e la falsa
emul azione, ed ognuno indistintamente occupa il suo posto, nè si bada a chi
sia più dotto, o più ricco. M. riguardava negl’uomini il solo me. rito. Ogni
dotto veniva da esso con amorevolezza accolto, qualunque fosse la di lui
estrazione. Secondo li suoi prìncipj saggi, e fondati sulla natura, ognuno era
nobile, quando era virtuoso " Sebbene, o M., ( soggiunge il detto Poeta
") ninno sia più illustre dite, fra tutti quelli, che vennero dall’ Asia a
popolare le Toscane Contrade, e e sebbene un di li tuoi grandi Avi, comandarono
vaste Regioni, tuttavia sei Horat.Sat. .M. quomodo tecum ? Hinc repetit. Paucorum hominum,
et mentis bene sanae, Nemo dexterius fortuna est usus. Haberes Magnum
adiutorem, posset qui ferrc secundas, ffunc hominem velles si tradere ;
dispeream ni, Summosses omnes. Non isto vìvimus illic, Quo tu rere modo i Domus
hac nec purior ulla est, Nec magis hit aliena malis ; nilmi officit um quarti,
Ditior hic, aut est quia doctior ; est locus uni Cuique suits. Magnum narras, vix credibile ; atqul Siehabet. tanto
buono, e modesto, che non sai egomentarti, ne aggrinzare il naso, come fanno li
superbi, nella società di gente ignobile, quale, fra gli altri sono io, figlio
di nn padre libertino; Imperciocché taserbi la massima degna di tutti gli
elogj, che nulla nuoce ad nn individuo la bassezza de’ 03" tali, quando
egli sia virtuoso. Ed in fatti, che cosa egli non fece a vantaggio di un
istesso suo Liberto, chiamato Melisso, perchè lo conobbe fornito di talenti, ed
erudito? Era questi della Città di Spoleto, e benché nascesse libero, tuttavia
perla discor»* dia de’ genitori, fu venduto, e sottoposto all’ altrui dominio ;
Avendo avuto la sorte di essere educato con ogni cura j ed attenzione, Lib. i.
Sat. 6. Non, quia, M., Lydorum quidquid Etruscos Incoluit fines, nemo
geaerosior est te ; N ec, quod Avus tibi maternus fuit, atque pa » ternus, Olim
qui magnis regionibus imperitarunt Ut plerique solent, naso suspendis adunco
Ignotos ; ut me libertino P atre natum. Quum referrc negus, quali sit quisque
parente Natus, dura ingenuus : persuada hoc tibi vere, Ante potestatcm Tulli,
atque ignobile regnum, Multos saepe viros, nullis majoribus ortas, Et vixisse
probo s, amplis et honoribus auctof, fece grandi progressi nelle scienze, e fu
data in qualità di Grammatico a M., il quale avendo subito conosciuto il merito
letterario del suo Liberto, raddolci talmente la sua situazione, che lo
riguardava piuttosto, come tin amico, che come un servo. M. però non permise,
che lungo tempo continuasse a portare un tal nome ; lo cancellò subito dal
ruolo de’servi, e lo fece tornare al possesso della sua libertà naturale, col
nome di Cajo Melisso M.; quindi proseguendo a beneficarlo, e ad avvalorare li
suoi talenti, gli procacciò il favore, la grazia, e la protezione dcH’istesso
Sovrano, dal quale fu incaricato di ordinare le Biblioteche esistenti nel
Portico di Ottavia (1 ), Sveton. de illust. Gram. Cap. ai. Co-, jus Melissus,
Spoltti uatus, ingenuus, sedob discordiam Parentum expositus, cura et industria
Educatoris sui altiora studia percepii, ac M. prò grammatico rnunere datus est.
Cui cum se gratum, et acceptum in modum Amici videret permansit in statu
servitutis, praeseritemquc conditionem vcrae origini ante— posuit ; quare cito
manumfssus, Augusto et insinuatus est ; quo delegante, curam ordinandarum
Eibliothccarurn in Octaviae porticu su scepit : Vedi Lil. Greg. Girai. Hist.
Poet. dialog. Arduino in Indie. Anct. Plinii La protezione pòi di M. non era
soltanto di parole, e di raccomandazioni, non era nna protezione sterile, ed
infeconda. Egli faceva parte ai Letterati delle sue ricchezze, e de’suoi beni.
Il lodato Orazio temendo, come già si è di sopra accennato, che . il suo M.
potesse allontanarsi da Roma, e andare con Ottavio nelja guerra contro Marco
Antonio, e Cleopatra, gli scrive una Ode vaghissima, nella quale ci fa
conoscere, che egli era stato arricchito dalla generosità di quello, e glieue
mostra cop effusione di cuo* re, e con tenero canto la sua ricouoscenza « », Tu
pure adunque, ( dice Orazio ) o mio ca-,, ro M., marcerai sulle navi Liburne,,
nella guerra contro Marcantonio, disposto a soggiacere a qualunque periglio di
Cesare ? Ed io intanto, che cosa farò ? Senza,, di te, le ore del viver mio
saranno affanno* se, e moleste. Dovrò forse assiso nel doice ozio, toccare le
corde della mia cetra, e tessere degl’inni ? Ma senza la tua presetiza, senza
l’amabile tua compagnia, lamia », cetra sarà dissonante, e la mia voce roca, e
spiacente .... Dovrò coraggiosamente se-,, g, u irti, o per le alpestri balze
delle Alpi, o sulle vette dell’inaccessibile Caucaso, od anche fino alle ultime
spiaggie dell’Occiden* Art. Melissus. Catron Tirabo* schi Stor. della Lett.
Itati. » te? E vero, che essendo di debole temperamento la mia risolnzione non
potrà recare alcun sollievo alle tue fatiche; ma trovando-,, mi a tc vicino,
saranno meno intensi li miei f, timori, e meno penosa la mia angoscia Io dunque
affronterò non solo questa, ma. qualunque altra militar spedizione, a solo
oggetto di compiacerti, e di mostrarti la mia riconoscenza, e non già perchè
divengano più numerosi li miei aratri, perchè le,, mie agnelle prima della
Canicola faccian passaggio dai pascoli della Calabria alle tenere erbette della
Lucania, o perchè giunf, ga a possedere sulle Colline deliziose del Tuscolo una
Villetta, la quale debba estendersi fino alle muta della Città. Io, o mio v M.,
null’altro desidero, e sono ap~ pieno contento della tua generosa munificenza,
che già mi fece dovizioso abbastanza. Epod. i. Ibis Liburnis inter alta navium,
Amice, propugnacula, Paratus orane Cacsaris periculum Subire, Maecenas, tuo.
Quid nos ? guibus te vita si superstite, Jucunda ; si contra, gravis? Vtrumne
jussipersequemur otium Non dulce, ni tecum simul ? et te vcl per A Ipium juga,
Non solo in questo luogo ; ma soventi volte Orazio ci avverte de’bene&cj, e
delle ricchezze, di cui era stato da M. fornito “ Se il crudo Verno ( ripete
egli ) ricoprirà di neve le campagne Albane, allora il tuoPoeta scenderà sulla
Marina ; quando poi coannoieranno a vedersi le prime rondini, ed a sentirsi il
soffio de’primi zeffiri, allora, o dolce amico M., tornerò, purché,, lo
permetterai, a rivederti. Tu mi face>, sti ricco, non già come l’ospite Cala
Inhospitalem et Caucasufn, Vd Occidenti s usque ad ultimimi sinum, Forti
sequemur pectore ? Roget, tuum labore quidjuvem meo, Imbellii, ac firmai parum
? Comes minore sum futurus in meta, Qui major aìscntes hab:et ; è Libenter hoc,
et omne militabitur Bellum in tuae spem gratiae : Non ut juvencit illibata pluribut
Aratro nitahfur me a, Pecusve Calabris ante iidus fervidum Lucana mutet
patcuis. Nec ut tuperni Villa candens Tusculi Circaea tangat moenia. Satis,
superque me òenignitas tua Ditavit, brese, che suole apprestare allo stanco
viaggiatore frutta soltanto. Che anzi era tale il di Ini zelo, ed impegno nel
beneficare i Letterati, che dopo di averli arricchiti, sarebbe stato prodigo
con essi anche di beni maggiori, se li avessero richiesti, e se ne avessero
mostrato desiderio. Nell'opere dello stesso Orazio si rinviene il testimonio di
una tal circostanza, e quantunque il Poeta parlidi se stesso, tuttavia sembra
doversi credere, che lo stesso tenore serbasse con gli altri “ Sebbene le api
Calabresi ( soggiunge il Poeta ) non travaglino per mio uso, e vantaggio favi
dorati ; sebbene nelle mie botti non invecchi,, il vino proveniente dalle Vigne
della Campania, o i pingui pascolali della Gallia non mi producano lane
squisite, tuttavia, o M., mercè la grandezza del tuo animo generoso, sta lungi
dalla mia Casa la molesta povertà ; e conosco, che più mi da Epist. Quotisi
bruma nives Albanis illinet agris ; Ad mare descendet Vates tuus .. te 3 dulcis
Amice, reviset Ctim zephiris, si conccdes, et hiruntline prima : Non quo more
pyris vesci Calaber jubet hospes Tu me fecisti locupletem »».»»•• / I J 9*
•resti, se fossi petulante a chiederti altri beni. Lo stesso Virgilio nelle sne
Georgiche, opera composta ad istanza di M., dà bene a comprendere di quante
cose egli era a questo debitore, e che l’amore, e l’amicizia, di cui l’onorava
davano l’impulso alla sua mente, onde produrre idee sublimi “ O Mecena», te, (
dice Virgilio ) o tu i che sei il mio i, decoro, che con Cagione posso
chiamarti « la massima parte della mia celebrità, deh », vieni ad avvalorarmi,
e meco trascorri l’incominciato lavoro ; senza di te la mia mente non è capace
di stendere un volo subli'me. Properzio quell’aureo, ed elegante scritta re
della tenera Elegia di sopra accennata, anch’csso godeva la familiarità, e la
protezione di M., anch’esso era stato beneficato^ veniva da questo mcoraggito
ad impiegare, ed esercitare li suoi poetici talenti “ O Me . Od. . Quamquam nec
C alabrae mella f erutti ape*, N ec Laestry gonia Bacchus inamphora Languescit
mihi, necpinguia Gallicis Crcscunt veliera pascuis ; Importuna tamen pauperies
abest ; jNec, siplura velini, tu dare dcneges. (a) Georg. Jib.i. e lib.a. cit.
-cenate, ( cosi pària il Poeta ) o tu, la-d! t, cui stirpe deriva dal sangue
dei Re Toscani, perchè vuoi, che io m’ ingolfi nel vasto pen Jago dell’eroica
Poesia ? Le vele grandiose it non sono adattate alla mia piccola navicella Ma
io appresi li precetti della vita )s da te, e perciò sulTorme tne, e col tuo }}
esempio sono spinto a superarti» «. . Tu t, generoso mio Protettore, prendi le
redini dell’ incominciata mia giovanile carrie ra. ( i ) Il Poeta Lucano,
benché posteriore al secolo, in ctii vissero Orazio, Virgilio e Properzio, e
benché non avesse partecipato delle liberalità di M., tuttavia egli pure
encomia altamente la protezione straordinaria, di coi quello onorava li Poeti.
“ Virgilio dice y> egli fu quel Poeta, che cantò fra li Po* Life. 3. Eleg,
y. M., eques Etrusco de sanguine R cguitl, Intra fortunata qui cupis esse
tuatn, Quid me scribendi,tam vastum mittis in aequorl Non surit opta mede grandia
vela rati. At tua, Maecenas, vitae pratcepta recepì, Cogor et exemplis tc
superare tuis. Molli* tu coeptae f autor cape lorajuventae. n poli dell’
Atisonia le grand’ imprese del fi. glio di Anchise, e che provocò con il
poetico stile romano il genio divino del vecchio Omero. Ma quello sarebbe forse
restato sepolto sotto le ombre di quelle selve, che fu*,, rono pur anco oggetto
del suo canto ; la sua Cetra avrebbe tramandato uno sterile suono, ed esso
stesso sarebbe sconosciuto alle Na«ioni, se M. non lo avesse animato con la sua
tenera amicizia, e con le sue beneficenze. Ma questo non solo protesse, ed
onorò il Poeta di Mantova ; egli avvalorò il genio di Vario a scuotere il palco
teatrale con il tragico coturno ; mostrò ai popoli della Grecia, che ancora le
corde delle Cetre latine sapevano risuonaie dell’ augusto nome di Giove, ed
eccitò, produsse, ed arricchì 1’ italica Lira del Poeta Venosino : 0 M., o
decoro, ed onore delPar-,, naso, degno della venerazione di tutte le
generazioni, e di tutti i cuori, sotto le ali,, benefiche del tuo patrocinio
verun Poe.ta pa-,, ventò le miserie della cadente, e molesta,, vecchiezza. CO
Paneg, adCalpur. Pison. vers. at8., e seq. Ijtse per Ausonias jEneia carmina
genteis Qui sonat, ingenti qui nomine pulsai olympum, Maeoniumque senem Romano
provocai ore } Fersitan illius ncmoris latuisset in umbra, N I Questo favore
prestato da M. alle lettere traeva la sua origine dall’esserne egli stesso
coltivatore. Che egli fosse colto, ed istruito,e che producesse ancora delle
Opere in varj generi di Letteratura non mancano fondamenti per esserne
persuasi. Orazio lo chiama dotto nella lingua greca, e latina. Seneca ha
lasciato scritto, che egli era fornito di un ingegno grande, e robusto, che
avrebbe dato nn luminoso modello della Romana eloquenza, se non l’avesse
snervata con la soverchia nata* ralezza. Quod canit, et sterili tantum
cantasset avena, Ignotus populis, si Maeccnate carcret. Qui tàmen haud uni
patefecit !im in a Vati, Nec sua Virgilio permisit nomina soli, M., tragico quatientem
palpita gestu Evexit Varium. Maecenas alta Thoantis Eruit, et populis ostendit
nomina Grajis. Carmina Rornanis etiarn resonantia chordis, Ausoniamque Chtlyn
gradi is patefecit Horatl s O decus, et toto merito venerabile aevo, Pierii
tutela chori ! quo praeside futi Non umquam Vatés inopi timuere scnectae, (O
Lib.3.0d.8. Docte sermo nes utriusque linguae. Epist. 19- : Ingeniosus vir ille
fuit ( Maecenas ) magnum cxemplum Romanae eloquentiae datar us, nisi tllum
enervasset foelici- Sappiamo ancora dal niedesimo autore, che scrisse un Libro
intitolato ilPrómcfeo,, Voglio narrarti ( dice Seneca ) ad detto di Mecenate,
cioè L’Uomo, che è in supremo grado, ed in una somma altezza di stato vive,,
sempre in timori, ed in tempèste a guisa del tempo, che tuona Se mi domandi in
qnai libro egli parlò in tal gnisa, ti rispondo, che lo ha detto in quel libro
intitolato da esso Prometeo Di più secondo lo stesso Seneca, scrisse altra
opera avente per titolo de culto suo » 11 Cenni afferma, che queste due opere
fossero scritte da M. in versi, e che il Prometeo era una Tragedia. Aggiunge
inoltre, che altra Tragedia intitolata Ottavia è parimenti à quello attribuita.
(2) tas : Epist.93.
: Habuit enìm, M., ingenium et grande, et virile nisi illad ipse discinxisset.
Senec. Epist.i 9. ; Volo Ubi rej erre hoc loco dictum Maecenatis,, Ipsa enim
altitudo attonat summa,, Si quaeris, in quo libro dixerit, in eo, qui Promethcus
inscribitur. Cenni Vita di M. - : In questo luogo
l’autore si è dato caricò di trascri vere tutti li frammenti delle opere, delle
quali fu autore M., estracndoli da varj Biografi. Lo stesso ha fatto Lilio
Gregorio Gt N a I I delle altre in prosa, e segnatamente dei Trattati
concernenti materie di Storia naturale. Imperciocché si rileva da Plinio, che
quello fuAutoredi un libro sulle differenti specie delle pietre preziose. ( e
da Prisciano, che aveva scr tto una Storia in dialoghi intorno agli Animali,
citandosi da quello il dialogo decimo. Di più, secondo Solinò scrisse ancora
una Storia delle imprese di Augusto. In fatti si può conoscere dalle Odi di
Orazio, che M. aveva tutta la premura, onde fossero celebratele geste gloriose
del suo Sovrano, che perciò venisse quel Poeta vivamente stimolato ad
occuparsene, che questo si scusasse, dicendo, che non conveniva alla lirica
poesia di cantare oggetti gravi, e strepitosi; ed esortando lo stesso M. a scri
raldi nel Dialog.4. hist. poet. che possono consultarsi. Hist. Nat. . cumNot.Harduini.
Apud Harduin. in Indie. Auctor. lib.i» Plin. Art.M.: M. eques romanus, Augusto
gratissimus, cujus res gestas lietcris consignavit, ut ex Solino discimus ejus
Dialogorum lib.10. laudai Priseianus lib.i .pag.61.: Vedi Catrou lib. 7. Tom.
19. nelle Note. 9 6 Oltre le snccennate opere in versi compose vere la Storia,
che tanto bramava « Cessa di,, stimolarmi, o M., ( scrive Orazio ) a cantare
ron le deboli corde della mia Lira,,, oil lungo assedio di Numanzia, o il
fiero,, Annibale, o il mar Siciliano rosseggiante di,, sangue Cartaginese, o
l’ardita impresa de’ Giganti, li quali fecero tremare la fulgida Regia del
vecchio Saturno, debellati quindi dal valore di Ercole, giacché tu stesso
potrai, meglio di me, trasmettere alla posterità con unaStoria le battaglie di
Augusto,,, li trionfi, ed il numero dei Re dal medesirao soggiogati. Anche
Servio è d’ avviso, che M. scrivesse la Storia di Angusto, appoggiando Lib.a.
Od. Nolis longa fcrae bella Numantiae Nec dirum A anibaie m, nec Siculum mare
Poeno purpureum sanguine, mollibus Aptari Cithar ae modis: N eo saevos Lapithas
domitosque Hcrculea manu Telluri s juvencs, unde periculum Fulgens contremuit
domus. Saturni veteris ; tuque pedestribus Dices historiis proeliaCaesaris
Maecenas melius, ductaque per vias Regum colla minacium i Iettato, e molle del
tutto riprova, e per ischerzo imitando deride. Macrob. Satur. lib. a. pag. 1
58. : Idem Augustus, qui Maecenatem suurn noverai esse stilo remisso, molli, et
dissoluto, taltm se in epistolis, quas ad eum scribebat, et contro casti
gationem loquendi, quam aliis ille seri bendo servabat, in epistola ad
Maecenatem familiari plura in jocos effusa subtexuit : Vale, inquit, mel gent
rum, mclculc, ebur ex He truria, A da mas super nas, T iberinum margaritum,
Cylniorum smaragde, hyaspis figulorum, berylle Porsennae : Vedi il Turnebio
Advers. Sveton. in Octav. Art. : Oenus elo~ quandi secutus est Augustus
elegans, et temperai uni, vitatis s catene iarum ineptiis, atque Tacito
parlando dell’ottimo, e perfetto genere dell' eloquenza, e della forma del
discorso, insegna frà le altre cose, doversi sfuggire r impeto di Cajo Gracco,
e li belletti di M. Quintiliano ancora riprova nella di lui maniera di scrivere
una certa trasposizione di parole, che rendono il periodo lussureggiante,
oscuro, e vizioso. Se poi si dovesse dare ascolto al surriferito Seneca, M.
sarebbe stato 1 * uomo il piu immorale, e il più cattivo inconcinnitate. ..
pari fastidio sprevit, et Cacozelos, et Antiquarios. Exagitabat non numquam in
primis M. suum, cujus p«X««, ut ait, cincinnos usquequaque perscquitur, et
imitando per jocum, irridet. (i) Tacit. Dialog. de Clar. Orat. cap. 26. Ceterum
si omisso opt imo ilio, et perfettissimo genere cloquentiae, eligendo sit forma
di tendi, malim hercule Caji Gracchi impetum quam M. ealamistros. Quintil.
Instit. Orat.. : Quaedam vero tranigressiones, et lon gae sunt nimis ... et
interim etiam compositione vitiosae, quae in hoc ipsum petuiUur, ut exultent,
atque lasciviant, quales iUae Maecenatis Sole, et Aurora rubent plurima : inter
sacra movit aqua fraxinos. Ne exequias quidem unus inter miserrimos viderem meas
quod inter hacc pessimum est, quia in re tristi ludit composi ciò. Scrittore frà quanti sono itati ammessi nella
Kepublica letteraria. Con qual fiele non si scaglia contro di quello nella
Lettera 1 15, ed altrove ancora nelle sue opere il Maestro di Nerone ? Parlando
egli di M. ora scrive : » Tu vedrai adunque l’eloquenza di un Uomo •>
ubriaco inviluppata, errante, e piena di lingue Ora attaccando anche li di lui
costumi soggiunge “ Quando tu leggerai li suoi scritti, e le parole cosi
viziosamente ornate, cosi negligentemente buttate, così poste fuori dello stile
di tutti, mostreremo, che non meno li suoi costumi fossero nuovi, depravati, p
singolari Seneca Epist.iió.Edit. Lugd.i 5 p. : Quo modo M. vixerit, notius est,
qitam ut narrar i nunc debeat. Quomodo ambulavetit, quarti delicatus fuerit,
quam cupierit videri, quam vitia sua latere nolut. Quid ergo ? Non oratio ejus
aequerite saluta est, quam ìpse discine t us ? Non tam insignita illius verba
sunt, quam cultus, quam comitatus, quam domus, quam uxor. Magni ingenii vir
fucrat, si illud egisset viarectiore, si non vitasset intelligi, si non etiam
in oratione difflueret. Videbis itaque eloquentiam ebrii hominis involutam, et crrantem, et
licentiae plenam : M. in cultu suo .' Quid
turpius ani ne, silvisque ripa comantibus ? Vide ut alveum lyntribus arcet,vcr
* soque vado remittant hortos, .Ma Seneca era troppo invidioso della fama,
della riputazione, e delle doti brillanti di M., il di cni splendore ancora
traspi* rava chiaro, e vivace nel secolo, nel quale quello viveva, e come
Ministro, e Consiglie rodi Nerone, conoscendo, che non aveva potuto, ne’poteva
eguagliare le sublimi virtù politiche, di coi andava nobilmente fregiato il
Ministro, e Consiglierò di Augusto, ne divenne l’nnico, e il più maligno
detrattore. Ter prova di ciò invochiamo 1* autorità di tutti li Biografi all*
uno, e all’ altro contemporanei 4 Non ostante però tutto il male, che dice ne’
suoi scritti, di M., Seneca sapeva benissimo, che questo nel tempio della
gloria Non statim haec cum legeris, hoc Cibi occurret, hunc esse, qui, solutis
Cunicis, in Urbe seraper inccsserit ? Nani edam cum absentis partibus Caesaris
funger et ur, signum a di scindo petebatur .... Hunc esse qui Uxorem millies
duxit, cum unam habueritì Haec verba tam improbe strucca, tam negligenter
abjecta, tam extra consuetudinem omnium posila, ostendunt mores quoque non
minus novos, et pravos, et singulares fuissc. Quasi della stesso tenore parla
Seneca di Me cenate, ed in questa, medesima lettera, e nella diecinovesima
nella nonagesimaterza nella ceutoventi e pc/Lib.x. cap.3. de Providentia.]
occupa il posto di un grand’ uomo di Stato, di un eccellente Ministro, di un
Consiglierò illuminato, e di un Favorito nou infetto dai vizj abominevoli dell’
avarizia, e dell’ interesse, H quali al contrario avevano ad esso procacciato
il possesso di più milioni, estratti con dure estorsioni dal sangue de’ sudditi
Romani. Sapeva inoltre, che quello aveva meriti grandissimi, conforme fu
costretto a manifestare pubicamente, e in faccia allo stesso Nerone,
allorquando, decaduto dal di lui favore, aveva forse cessato di screditarlo,
Imperciocché sappiamo da Tacito, che dopo la morte diJJurro, mori ancora, pèr
dir cosi, la potenza di Seneca. Allora si accrebbero a carico del medesimo le
satire, e le mor* morazioni furono universali per le immense ricchezze, che
aveva accumulate, e segnatamente per la grandiosità de’ snoi Giardini, che
eguagliavano quasi gl* istessi Giardini Imperiali. Seneca volendo dileguare, se
fosse stato possibile, dall’animo del suo Padrone .ogni sinistra impressione,
dimandò di essere ascoltato, lo che avendo ottenuto, recitò al suo Sovrano un
discorso artificioso, o pipttosto la sua Apologia, nella quale fra }e altre
cose, ricordandosi di Augusto, di M., e di Agrippa, e dei meriti politici di
questi, disse cosi : Il tuo antecessore A u 6 ust0 Cesare,,, permise a Marco
Agrippa il ritiro di Mitilene, e a Cajo M. un ozio pellegrini) nella stessa
Capitale. 11 primo, come com-,, pagno d’armi di quel Monarca, ed il secon-,, do
come quello, che seppe disimpegnarsi da molti incarichi laboriosi anche in
Roma, ricevettero dal loro Sovrano ampie ricom3, pense in vista de’ meriti
grandi, di cui erano forniti. Si attribuisce ancora al nostro M. 1’invenzione di
scrivere in abbreviatura. Dione afferma, che egli trovasse alcune note Tacit.
Annal. Mors Burrhi infregit Senecae potentiam variis cr i mi nat io 1 libili
Senecam adoriuntur : tamquam ingentes, et privatum supra modum evectas opes
adhuc augeret .... hortorum quoque amoenitate, et villarum magni ficent la,
quasi Principem super greder et ur. .. At Seneca criminantium non ignarus.
tempus sermoni orat : et accepto, ita incipit. Atavus tuus Augustus Marco
Agrippae Mitylenense seeretum, Caio Maecenati in ipsa Urbe velut peregrinum
otium permisit ; quorum, alter bellorum socius, allcr Romae pluribus la~
boribus jactatus, ampia quidem, sedpro ingentibus meritis, proemia acceperant.
fa). : Primusque M. ad celeritatem scribendi notas quasdam literarum
exeogitavit, quam rem, Aquilae Liberti ministerio, multos doaj.it. *o5 per
scrivere con celerità, e che insegnasse questo metodo a molti per mezzo di
Aquila suo Liberto. 11 Catrou è di sentimento, che tali note costituissero un
Trattato per poter scrivere abbreviando le parole. In fatti è indubitato, che
la maniera per scrivere con prontezza, e sollecitamente è quella, che istruisce
a scrivere col soccorso delle abbreviature, e siccome nel caso, di cui si
parla, Dione dice, che M. prirnus cxcogitavit, così pare non possa mettersi in
questione, che prima di questo un tal metodo di scrivere era affatto
sconosciuto, e che egli ne fosse il primo inventore. Isidoro di Sicilia dice
(a) che il poeta Ennio fosse 1’ autore di mille e cento note per scrivere ; che
il primo, il quale in Roma facesse un commento di queste note, fosse Tirone
Liberto di CICERONE (vedasi); che dopo di questo Persannio, Filargio, ed Aquila
Liberto di M. ne inventassero delle altre, e che Seneca finalmente ne ordinasse
un numero di cinquemila. Riguardo però ad Aquila Liberto di M. non sembra
giusta l’asserzione delEaccennato Isidoro, attribuendogli E invenzione di
alcune note per scrivere, giacché abbiamo rimarcato da Dione, che il sudetto
Liberto di Lih.i.orig. cap.aj.' l ioó M. non ne fu inventore, ma che fu il
propagatore del ritrovato, e dell* opera del suo Padrone, e che esso stesso,
istruito da questo, ne istruisse degli altri. Dallo stesso Dione sappiamo (i)
ancora, che M. recò ai Romani un altro rimarchevole vantaggio, qnale Fu quello
dei Bagni delle acque calde. Dal che si ravvisa, che questo specifico salutare,
ed alla umana salute profittevole, non era in Usanza in Roma prima dell’ epOcà
di M. ; cosicché questo, il qnale, secondo le osservazioni già fat* te, era
intelligente della Storia naturale, avendone in prattica sperimentato gli
effetti benefici, ne introdusse fra li Romani l’uso, e l’esercizio. ( a) Mentre
M. passava nel ritiro le ore ( 1) fjOC.eit. Idem primus (M.) RomaeN atatorium
aquis calidis refertuminstitu.it. P linio attribuisce a M. V introduzione nelle
mense de’ figli lattanti dell'Asina, li quali in quell epoca erano preferiti
alli Onagri, o Asini selvatici. Aggiunge inoltre, che il gusto per questa sorte
di pietanze svanì con la sua morte. Ecco il testo di Plinio lib.8. cap.46. ‘ dd
mutar um maxime partus, aurium referre in his et palpebrar umpilos ajunt:
Pullos earum epulari M. institu.it, multum eo tempore praelatos Onagris. Post
eum intcriit authoritas saporis. della snà vita m comporre delle opere io
prosa, ed in versi, in presentare ai Romani, ed alla società delle tifili
invenzioni in proteggere, animare, e arricchì re li Letterati, ed in promuovere
il progresso della Letteratura; Augusto, che in tutti li suoi bisogni non
mancava di consultarlo > gli diresse una lettera. Dal contesto di questa si
rileva, che quello era lontano da Roma, e c he se ne stava fra le delizie della
sua Villa Tihurtina con la dolce comitiva dé’ Dotti, e fra il soave concento
delie Cetre de’ m gliori Poeti. Augusto aveva bisogno di un Segretario, e per
mezzo di quella lettera richiese il Poeta Orazio, che stava presso di M..
“Prima poteva da me stesso, dice Angusto, scrivere delle lettere ai miei
amici,ma ora.o mio M., che,, sono occupatissimo, ed infermo, bramo, che mi
mandi il nostro Orazio. Io sò qnanM to vive contento presso di te, ma spero,,,
che lasceràlesue mense squisite, e verrà nella mia Regia per ajutarmi in
qualità di » Segretario.fi) (Sveton. in Vit. Horat. : Ante ipse sufficiebam
scribendis epistolis amicorum ; nunc occupatissima s, et infirmus, Horatiam
nostrum te cupio adduccre. Vcniet igitur ab ista parasitica mensa ad hanc
Regiam, et aos in epistolis scribendis adjuvabit. Non sappiamo con sicurezza,
sé le brame di Angusto in ciò venissero appagate. M. non avrà mancato di
rappresentare ad Orazio il grande onore, che gli si voleva compartire con
quell’impiego luminoso, ma il Poeta, che amava la calma, che per lo più, lungi
dallo strepito della Capitale, e della Corte ^ desi» derava di ragionare con le
Muse, o presso le onde sussurranti del fonticello di Blandnsia, o sotto le
ombre taciturne del boschetto di Tiburno, avrà mostrato tutta la renitenza di
accettare un tanto onore, e per disimpegnarsi dalle richieste del suo Sovrano.
Sebbene adunque M. si fosse ritirato spontaneamente dai grandi affari della
Corte, tuttavia Augusto continuava a rispettarlo, e a deferire in tutto, e per
tutto alli suoi consigli. Ma questo rispetto, questa amicizia, questa fiducia,
questa uniformità di pensieri fu sempre eguale fra l’uno, e l’altro ? Se
dobbiamo seguire 1’ autorità di Dione sembra esserci stata un’epoca di tempo,
nella quale un adultero amore sconcertasse quella bella armonìa, che per tanti
anni era stata fra di essi inalterabile. Terenzia moglie di M. era una donna
arricchita dalla natura Sveton.Vixit plurimum in se eessururis sui Sabini, aut
Tiburtini, do musane ejus ostenditur circa Tiburniluculum : V edi il de Sanctis
Dissert. sulla Villa di Orazio « a9 tìi tatti li vetti, e di tutte le grazie
seducenti, che sogliono distinguere il bel sesso. Si suppone, che Augusto, il
quale aveya occasione di vederla sovente, come sovente soleva vedere il marito,
ne divenisse amante, e che Terenzia non fosse insensibile alli di lui teneri
sentimenti. Si suppone inoltre, che la fiamma di quello si rendesse cosi vivace,
che Roma ne mormorava ; che per involarsi dalle mormorazioni, e dai rimproveri
de’ Romani, se ne andasse nelle Gallie, portando con se la detta Terenzia.
Soggiunge Dione, che da questi amori nascesse il motivo di quella freddezza,
che si ravvisò per qualche tempo tra M., ed il suo Sovrano, e che per lo stesso
motivo non fosse quello lasciato da questo Prefetto di Roma, quando intraprese
il sudetto viaggio. Sentiamo come parla lo Storico. Vedendo Augusto, che la sua
lunga permanenza nella Capitale riusciva a molti molesta ; che se,, puniva
alcuni colpevoli ; si sarebbe fatti altrettanti nemici ; che se doveva
passare,, sotto silenzio i loro delitti, sarebbe stato costretto ad offendere
esso stesso la nuova i. Costituzione, e a ledere l’osservanza delle sue leggi,
stabili, ad esempio di Solone, di andare lungi dalla patria. Vi furono peio
alcuni, li quali sospettavano, che egli,, si portasse nelle Gallie, a cagione
di Terenzia, moglie di M., affinchè, stanti ti le voci diverse, che si
divulgavano pe Roma, de’ loro amori, potesse in questo viaggio vivere con essa
lontano da ogni ru« more. Lasciò in qualità di Prefetto,, di Roma, e dell’
Italia Statilio Tauro, giacché Agrippa era stato inviato nella Siria, e M. era
già con esso in qual*,, che disgusto per motivo della sua mo» glié (0 • Ad onta
però dell’autorità di qnesto Scrittore non pare abbastanza provato il fatto, di
cui si parla, e che narra riguardo agli amori di Terenzia, ed Angusto ; al
viaggio nelle Gallie a tale effetto intrapreso; ed ai disgusti di quello con
M.. Imperciocché Dion.. Cu/n enim diuturna ejus in Urbe commoratio molesta
multis esset, ac multos, qui contra leges deliquissent plectens offender et,
multis parcens, eogeretur suas ipse leges praevaricari, pere « gre abire,
Sblonis exemplo -, statuii. Fuerunt qui, propter Terentiam Moecenatis Uxorem,
eurn discedere suspicarentur, ut quoniam multi Homae de ipsorum amore sermones
per vulgus darentur, in peregrinatione sua citra om nem rumorem ejus rei cùm ea
vivete posset. Deinde Urbis, et
Italiae gubernatione Tauro injuncta, nam statim Agrippam. in Syriam mite rat ;
e rat autem ei M. propter Uxorem minus j am gratus. Dione non parla di questi pretesi amori, come di un
fatto sicuro. Asserisce semplicemente, che alcuni sospettavano, che correvano
per Roma delle Voci diverse ; ma questi sospetti, e queste voci non valgono
ragionevolmente a costituire una prova tale, che non possa, nè debba credersi
altrimenti ; tanto più, che 10 stesso Diohe, premette il motivo positivo, per
cui Augusto volle allontanarsi da Roma. D'altronde Svetonio, Tacito, Vellejo,
ed altri antichi Biografi di vaglia, hanno parlato, e scritto chi più, e chi
meno della vita publica, e privata di Augusto, e niuno ha riferito, e neppure
accennato li pretesi di lui amori con la moglie di M. É vero, che 11 detto
Svetonio non omise di narrare, che quello non fu esente da’vizj, e che fra
questi non esclude l’adulterio, ma non ha mancato di aggiungere, e di prevenire
la posterità, che questi Vizj deturparono soltanto i giorni della sua prima
giovinezza, e che se commise degli adulterj, non già cadeva in questo disordine
per libidine, ma per discoprire, per mezzo delle mogli altrui, l’animo, e li
segreti de’ suoi nemici, La sua giovinezza ( scrive Svetonio di Augusto ) fu
sottoposta all’imfamia di vari difetti . Gli stessi suoi,, amici non negano,
che fosse dedito agli,, adulterj ; ma in ciò lo scusano, dicendo, che questa
sua condotta non era l’effetto di una passione disordinata, e libidinosa, ma O
2 aia,, che lo faceva per discoprire più facilmente l'animo de'snoi nemici per
mezzo delle loro i, mogli fi). Ora se Angusto commetteva degli adulterj, non
già per libidine, ma quasi direi, per politica, e per quel punto di politica,
che nelle testé riferite espressioni si è rimarcato, ciò non poteva aver luogo
con Terenzia moglie di M.,, sulla sperimentata fedeltà del quale non poteva
quello, nè giammai aveva potuto sospettarle i Inoltre Svetonio riferisce, che
l’epoca di alcuni vizj del medesimo Augusto fu la prima sua gioventù,
inconseguenza resta escluso quel tempo, in cui si suppone l’amorosa passione
con Terenzia, ritrovandosi egli allora in età di circa anni quarantacinque fa).
Meno prova ancora, che partendo perle Callie, non lasciasse Prefetto di Roma
M., perchè era con esso irritato a motivo degli amori 6 udctti. Imperciocché si
è di già osservato, che questo, elfettuato il novello Sistema politico della
monarchia universale In Octav. Prima \uventa variar um dedecorum in/amiam
subiit, >. adulterio guide in exer.cuisse, ne amici guiderà negant ;
excusuntes sane, non libidine, sed ratione eommissa, guo facilius consilia
adversariorum per vujusque mulieres cxquircret. (3) Dion. loc. cit. Digitized
by Google n3 si ritirò dalla Corte, e da’grandi affari, nè curò impiego veruno.
Si è osservato altresì, che nella nuova Costituzione dal medesimo modellata si
era parlato del rimarchevole impiego di Prefetto di Roma, e si era stabilito
per massima, che questo doveva essere di più lunga durata, e che dovesse
addossarsi a persone di specchiata probità, e consolari. Come dunque può recar
meraviglia, se Augusto allontanandosi da Roma, per andare nelle Gallie, non
nominasse Prefetto di Roma Mece*« nate ? A llora quasi tutte le leggi della
succennata novella Costituzione erano in una piena osservanza. Di più
l’assertiva di Dione sù tal punto storico, sembra, che venga del tutto smentita
da Cornelio Tacito, il quale a chiare note dichiara, Ghe Augusto per tutto il
tempo dei torbidi, e delle guerre civili, lasciò sempre Prefetto di Roma, e
dell'Italia M., e che dopo di essersi sollevato alla Sovranità impiegò soltanto
personeConsolari a coprire questa carica,, Del restai dice Tacito ) Augusto, in
tempo delle Civili discor*,, die, nominò alla Prefettura di Roma, e dell’Italia
CajoCilnio M. dell'Ordinò de’Cavalieri. Divenuto però Sovrano asso-, x luto,
addossò questo impiego a Soggetti Consolari . Il primo, che venne rivestitedi
questo potere, fu Messala Corvino. ài4,. . il secondo S'tatilio Tauro quindi fu
eletto Pisone (O* Dopo ciò, che cosa può addursi di più convinceute per
conoscere, che se Augusto, partendo per le Gallie,non lasciò M. Prefet. todi
Roma, fu per tntt'altra cagione di quella immaginata da Dione ? In quell’epoca
per legge, e principio fondamentale della Costituzione, dovevano rivestirsi di
tal carica persone Consolari ; M. era semplice Cavaliere Romano ; non poteva
dunque esercitarla, senza ledere l’ordine, e l’integrità della Costituzione
medesima ; e siccome esso stesso era sta* to Fautore della Legge, cosi
quantunque Augusto lo avesse voluto decorare della Prefettura anche in tali
circostanze, T averehbe francamente ricusata, come incapace di mettersi in
contradizione co’suoi principi, Comunque sia però, ed ammessa ancora laveria
tàdel racconto di Dione, li pretesi dissapori fra M. ed Augusto dovettero
essere Anna!, lib. 6. cap. 3a. Cetetum Au,gustus bellis civilibus Cilnium
Maecenatcm equestri s Ordinis, cunctis apud Romani, atque Italiani praeposuit.
Mox rerum potitus, ob magnitudinem Populi, ac tarda legum auxilia, sumpsit e
Coruularibus, qui coerceret serviti a .... primusque Messala Corvinus eam
potestatem accepit .... Tum Tau rus Statili us. .. Dein Pis »* 1 et di poco
momento, e passeggeri, sapendo da Plutarco, che quello nel giorno suo natalizio
offriva sempre in dono a questo una Tazza .,, Cesare Augusto ( dice Plutarco )
riceveva ogn’anno da M. in dono una Tazza nel giorno suo natalizio. Ma
finalmente M. dopo aver veduto p ratticamente, che le sue fatiche, le sue ve»
glie, li suoi lumi, e la sua politica avevano formata la felicità, di Koma, e
dello Stato ; che il suo Padrone, o piuttosto il suo Amico era divenuto il più
giusto, ed il piu potente de’ Monarchi; che le sue liberalità, ed il suo zelo,e
la protezione accordata alle lettere, ed ai Letterati avevano dato un
favorevole impulso al progresso dello spirito umano, del genio della
letteratura, e del buon gnsto, M., dissi, doveva anch’egli offrire l’ordinario,
e indispensabile tributo alla natura. Se è vero, se è possibile ciò che Plinio
il Naturalista suppone, negli nliimi tre anni della sua vita, fu quello
sottoposto ad una malattia di tal carattere, che il sonno non chiuse mai le sue
luci per tutto quel non breve spazio di tempo ; che ad onta de’mezzi li più
efficaci, e potenti, che furono messi in opera Apopht. Princ. et Reg. Apopht.
nltinj. Cattar qui primus Augustus ett cognomina j*> tus .... a M., cum quo
vitam agebat, yuotannit in natalieiit dono acoipiebat pateram. I ài6 per
giovargli, fosse costretto a vegliar sempre, ed a soffrire più sensibilmente li
no)osi effetti di una febre continua, dalla quale, secondo lo stesso Autore,
sembra, che fosse attaccato ('i). ' Per l’esame di questo fatto da Plinio riferito,
abbiam creduto di riunire alcune riflessioni in una breve Discussione
uell’Appendice dell’Opera, alla quale rimettiamo il Lettore. Intanto,
proseguendo la nostra narrazione, possiamo asserire, che M. neH’nltimo periodo
della sua vita fu sottoposto a delle fisiche indisposizioni, delle quali si
doleva con li amici più cari, e segnatamente eoa Orazio. Questo Poeta
riconoscente, e sensibile si tapinava all’eccesso della peno6y» situazione del
suo amico, del suo benefattore, del suo tutto, e procurava di consolarlo con
l’espressioni della più tenera amicizia, animato dal dolce, e mellifluo suono
della sua Lira O Mecenate ( gli scriveva Orazio ) o mio sublime ornamento, e
sostegno delle mie sostanze, perchè mi rattristi con le tue querele ? Non >,
piace nè a me, nè agli Dei t che prima della mia debba distruggersi la tua
esistenza. Ah! se la Parca crudele sarà più,, sollecita a troncare lo stame
della tua vita, che è porzione della U)ia, come io potrò y, restare superstite
? Si > o mio caro M., benché tn volessi precedermi, pure insieme entreremo
nel cammino dell*éternità; nè mai potranno distaccarmi dal tuo,, fianco nè le
vampe dell'ignivoma Chimera, », nè le cento braccia del mostruoso Gigante»,, se
tornasse sulla terra. È scritto già nel », libro de’destini, che io, il quale
vissi eoa te, debba con te trapassare egualmente, c i, che un istesso giorno
debba segnare il ter», mine della vita di ambedue. i. Avvicinandosi l’ultima
ora della sua mortale carriera. M. fece il suo testamento, e volendo mostrare
al Publico, ed alla posterir Od.. • ’ Cur me querelis exanimas tuis ? Nec Dis amicum est t
noe mihi, te priut Obire, Maecenas, mearum Grande decus, columenque rerum. Ah !
te meae sipartem anitnae rapii Maturior vis, quid moror altera, Nee carus
aeque, nec superstes Integer ? Ille dies utramque Ducet ruinam. k. \ Utcumque
praecedes, supremum Carpere iter comites parati. Me nec Chimaerae spiritile igneae, Nec si resurgat
centimanusGyas • Divellet unquam : sic potenti Justitiae, placitumque Parcis, r
tg là, .che tra esso > ed Angusto / vi era passata un'amicizia sempre
eguale, e costante, o che se in qualche occasione venne alterata, non ebbe una
tale alterazione, che una durata pià piomentanea di una elettrica scintilla, lo
Ì6tir lui Erede de’suoi beni con il peso spontaneo ài alcuni Legati agl’altri
suoi Amici, e Letteralir^.i _>, Siccome poi il Poeta Orazio più d’ogn’alti Q
lo aveva cousolato, ed assistito ne'giorni della sua infermità, cosi a questo
volle consagraxe, per dir cosi, Teatreme sue voci, e dare l’ultimo pegno della
sua beneficenza, raccommandandolo in maniera speciale al suo Monarca,, Ti
raccommando, o Cesare, Orazio Flacco, come un’altro me stesso (a). ( i) Dion.
Lib. $5. Haec in causa fuere cur vehementem lituani M aecenatis mors Augusto
afferret,quo ea e(iam accessit, quoti M. haeredem eum nuncupavit, ac praeter
mitiima quaedam, in e)us pot estate reliquie, si velie! Amicis suis quaedam.
dare ._ Svet, in Vif. Ilorat. M. quantoper è eum. ( Horatium ) flilexerit,
satis testatur ilio Epigrammate : Ni te visceri.bus meis, Horati, Plus \am
diligo, tu tuum Soclalem N inaio videas strigosiorem, Sed multo magie extremis
judiciis, tali ad Augustum elogio-. Horatii Fiacri, «t mei# esto raemor. Mori
conforme accennammo ancora nel Libro i., cinque anni prima dell’Era volgare,
ventitré dopo la battaglia di Azio, epoca, in cui Dione stabilisce il principio
dell’Impero Romano, e nell’anno 746. della Fondazione di Roma. Egli morì senza
successori. Risulta ciò chiaramente, e dal testamento di sopra accennato, e
dall’ uniforme testimonianza di tutti li Biografi, che hanno di esso parlato. È
sebbene ne’ tempi alla sua morte posteriori abbiano vissuto altri Soggetti
aventi il nome diM., tuttavia non può dirsi. nè costa, che fossero discendenti
di quello, e che avessero col medesimo relazione alcuna di parentela. Si trova
sotto l’Impero di Vespasiano un Publio M. Olimpico, di cui si conosce il solo
nome, inciso in una base grande, e quadrata disotterrata in Roma presso l’Arco
di SettimioSevero ; (a) parimente si conosce il solo nome di un M. Elio. Nel
Regno dell’Imperatore Gordiano il giovane si vede figurare in Roma un per (0
Dion. Meibom. loc. cit. : Sub Vespasiano vixit Publius M. Olimpicus ; ejus
memoria super est Romae in basi marmorea grandi, et quadrata ad Arcum Septimii
Severi effossa, v Gruter. sonaggio ragguardevole chiamalo M., conforme rilevasi
da Giulio Capitolino ( O, e da Erodiano ('a) ; ma T origine di questo è involta
nelle tenebre istesse, in cui trovansi e l’Olimpico, e l’Elio, e non può
neppure congetturarsi, che avesse un qualche rapporto col nostro Cajo Cilnio
M.,. J/annunzio funesto della di lui morte fu un ;l. i Curtia.j.L. Prapis Cui
pars dimidiahujus / Moni menti concessa est ab Ma le sue virtù rifulsero con
luce brillante, allora appunto, quando Ottavio divenne assoluto monarca
dell’universo. Che coija non poteva pretendere, che cosa non doveva sperare, quali
posti luminosi -, quali onori, quali distinzioni ? Eppure quello, che in tutte
le sue operazioni aveva per oggetto soltanto il benèssere della Patria, e la
felicità de 5 suoi simili, nulla volle per sa nullà curò, e quésto nobile
disinteresse, r3ro nella Storia de’ secoli, lo accompagnò fino alla Tomba. Amò
le Lettere, che coltivò esso stesso, protesse, animò li talenti, e fù prodigo
delle sue liberalità colli Dotti ; Affinchè poi le scienze salissero a qual
grado supremo, in cui si viddero al tempo di Augusto, fece si, che questo
secondasse il suo Genio • Angusto lo secondò in fatti con tutto il calore, e
con zelo, ed iVirgilj,iProperzj,gliOrazj, liTibùllMiLivj, e tanti altri spiriti
sublimi illustrarono la prima epoca del gran’ Impero Romano, arricchirono il
regno della Letteratura, e ferero tanti vantaggi alla Società ; perciò Cajo
Ciluio M. fu amato da tutto il mondo, la sua riputazione è passata fino alla
più lontana posterità, ed è qaasi estesa, quanto quella dello stesso Augusto.
(O Tillemont. Histojr. des Emper. Catrou Tom.i9.Lib.7. APPENDICE ALLA STORIA DI
CAJO CILN10 M. t GIARDINI IN ROMA AL MEDESIMO SPETTANTI DISCUSSIONE. Insiste
nella Regione Esquilina dell'antica Roma un locale, in cui venivano sepolti li
cadaveri delle genti plebee : Essendosi riconosciuto col progresso del tempo,
che da questo luogo s’ inalzavano delle putride esalazioni, nocevoli alla
salubrità dell’ atmosfera, ed alla salute de’ Cittadini, Augusto lo fece
nettare, onde depurar P aere, ed adornare insieme la Città di edifizj. > 11
sudetto locale appellavasi Puliculi, o perchè per antica costumanza le
sepolture consistevano in pozzi, o perchè ivi si putrefacevano li cadaveri,
conforme nota il Pomey “ Minutae vero plebis, mancipiorumque sepulchra extra
portam Esquilinam Visebantur, quem locum. Puticulos, vel a puteis, P ti6
inquosconjiciebantur, vel a putore cadèveroni vulgo appellabant. (ij Lo stesso
afferma l' erudito Alessandro Donato sull’autorità di Festo “ Cnm in campo
Esquiiino ( egli dice ) extra Urbem plebs humaretur, un3, de Populus Romanus
odoris, atìt coeli gravitate laborabat,Augustus locum expnrgavit, Urbemque
aedificis auxit, ornavitque, Puticuli antea locus appellatns, quod vetustismum
genus sepulturae in pnteis fuerit, et, ut ait Festus, dicti P liticali, quod
ibi cadavera putrescerent. Quivi scrivé Orazio poc’anzi solevano trasportarsi
su,, vile cassa li cadaveri de’ schiavi, e de mi-,, serabili, dopo esser stati
rimossi dalle loro ti anguste, e misere celle, e qui sorgeva la,, tomba comune
alla plebe meschina. Hoc prius angustis ejecta cadavera cellis,,, Conservo,
vili portanda locabat in Arca ; Hoc miserae plebi stabat comune sepulchrum.
Questo luogo pertanto, che formava una specie di Cimiterio di Roma, stava fuori
della Città, giacché era generalmente vietato di De Funeribus. De Urb. Rom.
Vedi il Turnebio AWers. lib. 5. cap. 6. 11 Minutolo Rom. Antiq. Dissert. 6. de
Sepulchris, ed H detto Pomey Satir. seppellire li cadaveri dentro le mora ; ed
era destinato, come si è accennato, per la qilebe soltanto. Le tombe de’ Re,
degl’ nomini illustri, e delle doane di nascita ragguardevole venivano
collocate nel Campo Marzo .che stava parimenti fuori della Città, secondo la
testimonianza di Appiano. e di Strabone presso il rife rito Pomey. Dopo però,
che da quella Regione furono tolte le sepolture plebee. e fu nel recinto di
Roma racchiusa, vi si inalzarono numerose abitazioni, e vi fece ritorno 1’
amenità, e Paria salubre “ Postea vero ( soggiunge il,, Donato ) quam amota
sunt sepulchra, rece-,, ptusque intra Urbis ambitus, loci amoen nitatem,
tectorumque frequentiam secuta E’ nota su di ciò la Legge delle XII. Tavole.
Hominem mortuum inUrbe ne sepelito, neve urito : Può vedersi il lodato
Minutolo, il quale nella cit. Dissertazione ne farla con critica, ed
erudizione. C 2 ) Loc. cit. : Locas ad sepulturam o rnatissimus extra Urbem
fuit Campus Martius, Appiano teste, qui scribit, selos ibi Regcs, horninesque
illustrissimo sepelùi consuevisse, non tamen sine Senatus decreto ; idque
Strabo confirmans locurn illum fuisse Romanis maxime sacrum ac venerabile m,
ideoque pracstantissi morum virorum, ac joeminarum monumenta ili fuisse
collocata. P 2 est nova coeli salubri'tas .( i) .Ora poi ( sogli giunge anche
Orazio ) che dalla Regione Es« quiiina sono state rimossfe le tombe, hè più si
osservano sii di un infontie campagna ii le ossa spolpate degli estinti, vi si
gode un,, ameno diporto sotto un cielo salubre. m Nunc licet Esquiliis habitare
salubribus, atque Aggere in aprico spatiari, quo modo tristes Albisinformem
spectabant ossibus agrum(a ) Porzione di quel terreno fu donato da Augusto,
mediante anche un decreto del Senato, al suo M., il quale vi fece sorgere in
seguito quc deliziosi Giardini, la di cui celebrità è giunta fino a noi,
secondo la testimonianza del Marliani,del riferito Minatolo,e di Samuele
Pitisco Cum igitur ( dice questo ), tem. Abbiamo osservato nella Storia di M.,
che esso fu il primo ad introdurre in Roma.!’ uso de’ Bagni caldi ; Ora essendo
incontrastabile,che li suoi Giardini, e la grandiosa Abitazione in essi esistente,
e di cui si parlerà fra poco, dovessero contenere tutti Art. Hort. M. Lib.4..
a3i gliagj, che sa immaginare l'umano raffinamento, e la voluttà, cosi non
sembra fuori di probabilità, che quello qnivi stabilisse li nnovi Bagni,
eihequivi ne facesse sperimentare li primi vantaggi, prima} Jamdudum apùd me
est. Eripe temorae. Fastidiosam desere copiam, et », Molem prepinquam nubibus
arduis : 0 matte mirali beatae,, F umum,^et opes » strepitnfeque - Romae. Il
Palazzo, o la Tórre di M. esisteva tuttora ai tempi di Nerone. Questo folle, ed
insensato Monarca, dopo aver dato l'ordine ferale di metter fuoco alla più
bella, e vasta Città del Mondò,' alla Sede del suo Impero, non fece in essa
ritorno, se non quando, fu prevenuto, che 1’incendio si avvicinava alla sua
Regia, che era stata dal medesimo ampliata fino al Palatino, ed alti Giardini
di M.. Nero, scrive Tacito, non ante in Urbetn regressus est, quam domiti ejus,
qua Pala V Eib.3. Od.ao.» tinnii et Maecenatis hortos continuaverat, ignis
appropinqnaret. Rientrato quel Tiranno in Roma, sen’ corre ai Giardini di M., e
sale nel luogo più eminente della Torre sopradetta. Quivi rimira con occhio
insensibile, e truce’ii vortici delle fiamme, .che distruggono la sua Capitale,
ed ascolta a sangue freddo li gemiti, e le strida degl’ infelici abitanti, che
periscono. Allora compiacendosi dello spettacolo a• C l ) Il Pitisco, fondato
su di un passo di Tacito, mette in dubbio il fatto narrato da Svetonio, e dagli
altri riferiti Autori. Egli suppone, ebe, secondo il detto Annalista, venissero
distrutte dalle fiamme e il Palazzo di Nerone, e la Casa di M., e li Giardini,
e il Palatino, e tutt’altro, che intorno a questi luoghi esisteva, cosicché in
tal c$so non avrebbe potuto quel Monarca cantare l’incendio di Troja sulla
Torre Mecenaziana. Neronem ex Torri M. prospectasse,(dice Pitisco^ iisdera pene
verbis repetunt P.Diaconus &c. Tacitus dubium fecitutrumque. Non Urbem
eniiq is tantum, sed domum etiam ipsam M.,, tis, et hortos, et Palatium, et
cuncta circum » l°ca eodem momento a Neronis incendiario,, igne,sed ipso
absente,hausta commemorala) Non sembra però che Tacito accenni la di Loc.cit.
Art. Turris M.. •trazione delli Giardini di M,, e suo Palazzo annesso ;
racconta semplicemente, che quando Nerone seppe, che le fiamme dell’ incendio
si avvicinavano alla sua Casa fece ri-» torno in Roma; che non ostante, la
rapidità di quelle non potè ritardarsi, e fu distrutta anche la sna Casa, e
tuttoció, che vi stava intorno. “ Eo in tempore f narra Tacito ) Nero Antii
agens, non aute in Urbem re» gressus est, quam domili ejus, qua Palatium,
etMaecenatis hortos contjuuaverat,,, ignis appropinqua ret ; neque tamen siati
jjotuit, quin et Palatium, et Domus, et cuncta circuiti haurirentur.Qui si
parla del Palatino, e del Palazzo di Ne» rone, e con l’espressioni, cuncta
circuru haurirentur, pare che si voglia indicare tuttoció, che stava intorno
all’uno, e all’altro. Ora la magnifica Abitazione, e li Giardini di M. erano,
come si è detto, nell’Esquilino, e benché confinassero con la Casa Neroniana,
tuttavia pare, che non possa con sicurezza dedursi, che contemporaneamente all’
incendio di questa venia» serodistrntti ancorali sudetti Giardini conTan» nesso
Palazzo; in tal guisa non si troverà in contradizione l’autorità rispettabile
del detto Annalista con quella egualmente rispettabile dello Scrittore delle
Vite de’ primi dodici Imperadori ; tanto più che anche quello accenna il Annal
lib.i5. cap.àq. fatto narrato da questo, come si vede nel tev sto seguente: Sed
solatinm Populo exturba-,, to, et profugo Campum Martis, et monuraeti-,,
taAgrippae, hortos qnin etiam suos patefecit. . pretiumque frumenti minutum.
Quae quamquam popola ri a in irritino cade-,, bant, quia pervascrat rumor, ipso
tempore,, flagrantis Urbis inisse enm domesticam scenam, et cecinisse Trojanum
excidium. Giacomo Lauro ammettendo, che la Torre, cd il Palazzo di M. fosse una
stessa cosa, ne fa una elegante descrizione, dicendo, che era un meravglioso
lavoro ripartito in quattro Piani l’nnoall'altro superiore, sollevandosi in
alto 3 guisa di Torre ; dico ancora, che la sommità della Fabbrica termina' va
in un Teatro, dal quale non solo poteva godersi l’amenità de’ sottoposti
Giardini, ma eziandio l’ampiezza di tutta l'immensa Capitale del mondo. Non
piace però al riferito Pitisco il sentimento del Lauro, e degl’altri, che
pensano come questo, supponendo, che non vi siano prove confacenti “ Sunt qui,
dice il Pitisco, inter quos Jacobns Lanrus qui Domunì Maecenatis cum Tnrri
uuam, eamdemque faciunt. Fuisse enim, ajunt, Do- Splend. Ant. Urb.Rom. apu’d
Pitiscum, V„nm Malcerti. admirabili Vtraetorfl spartitam quatoor ordimbos, et
plamt.ebus, ^ una super alte.an. in altum ad motomTur ris excrescentibus, c«,us
fast,g ; um dearne bat inTheatrnm, nnde pataer.t »djject«, non tantum in
hortorum amoemtatem, tonus Urbis amplitudine®. Atqne et.am m, e am formam
aLauro depingitur. Verno un’ de illi haec habeant, me quidemlatet .( i j ’ Ma
se questo dótto Autore del Lessico delle Romane antichità dubita della realtà
d, ciò che asserisce il Lauró relativamente alla materia struttura
dell’abitazione di M., si pi forse con esso andare d'accordo, ma se p. de che
la Torre, e la detta Abitazione fos due fabbriche diflerenti,pareche voglia
opporsi alla comune Opinione, ed ancheall autori a sopra accennata di Orazio.
In fatti nói t tede» 2 i»,»««> Poca, che piando MPAb, a» De di MecenUe, e
facendo uso dell espiessiom, ora di alta doma, ora di molem F c pinquam
nw*ibu.s arduis ( i), descrive brevemente, e conoscere, che l’altezza di M»clla
era a gntsa di Torre sublime, che si avvicinava alle nubi 1, M. Tnrris
Maecenatiana ("dièc quello) cognominata est, vel maxime halosi Neronis,,,
et Urbis incendio celebrata. .. quaedam vestigia extare sunt ex Antiquariis
Romae, qui asserunt. Questi avanzi, secondo il Pitisco, sono da alcuni
ravvisati, in qnel monumento antico chiamato Torre Mesa, che si trova scendendo
per quella parte del Quirinale, che risguarda il Foro di Nerva„Hoc scio,
descenu3, ris hodie a Colle Quirinali, qua is Forum Ner», vae’prospectat.Turriscujusdam
ruinas,et rudera etiam none monstrari; quam T*>rre Meta Romani vocant, et
partem domus, sive i, Turris Maecenatianae fnisse volunt. Biondo Flavio scrive,
che a tempo, in cui esso viveva, la sudetta Torre esisteva quasi intiera, e che
per sincope era chiamata Mesa in vece di Mecenaziana » Aggiunge inoltre,che in
quella contrada, in cui si vedeva, era fama costante, che quella fosse la Torre
esistente ne’ Giardini di M., e sulla quale Nerone rimirò l' incendio di Roma ;
Ecco le parole del lodato Biondo : “ Eadem in Esquiliarum paru te, qua ex eo
monte prospectU6 est in depressam Urbis partem, Hortorum Maecenatis visuntur
reliquide Extatque pene integra Tnrris, ex qua Svetonins Tranquilla Net, ronem
scribit spectasse Urbis incendia in, et . .o t, in scenico habitn decantasse
.Qnam Turrim vulgo nnnc vèrbo. .. syncopato Mesam prò Maecenatianàm appellant.
.. Nec est,, in ea Regione foemelia, quae quid fuerint il lae ingente* ruinae
interrogata, non dicat, eam fuisse Turrim, ex qua Nero crudelis Urbem incendio
flagrantem, ridcns, gaudensque spettavi t. Al contrario il Pitisco, ed il
Donato sono di avviso, che il Biondo, e li suoi seguaci abbiano su di ciò preso
un equivoco EQUIVOCO GRICE ; giacché la sudetta Torre Mesa non esiste nell’
Esquilino, ma piuttosto nel Quirinale. Aggiungono inoltre, che le vestigia di
quell’ antico monumento dovevauo e ; 6ere, o di un Tempio dedicato al Sole
dall' itrperarore Aureliano, o di una Curia, o piccolo Senato fabbricato sul
Quirinale da Eliogabalo per le donne, acuì egli fece presedere la sua Ava
chiamata Mesa, e la sua Madre Saemi ; conforme risulta da Lampridio nella vita
del detto Monarca ; dice di più il Donato, che nello stesso luogo potevano
esservi ancora, e la Curia succennata, ed il Tempio del Sole in torta delle
congetture, di cm égli fa uso, ragionando in tal guisa In hortis Coiumnensibus
marmorei ae~ dificii pars exurgebat vulgo Maesa jam dira* ta. Biondo* Turrim
Maecenatis falso nuncu>, pat.Ubi enim hic Esquiliae,etNerouiaui& tae (i)
Blond.Flav.delnstaur.Kom.lib.i^Art.xoo. dis ardens in conspectù Rotila ? Àlii
partem,, templi Solis pronunriant, qnod ab Ameliano, auctorc Flavio Vopisco,
extructum est ad eam formam, quam viderat in Oriente Quid si aedificium illud
partera Senaculi, seu Curiae dicerem, quam Ilcliogabalus in Quirinali
mulieribus extruxit ad conventus habendos, quibus avia ipsins,, M lesa nomine
> et mater Soaemis praesiderent ? Quod duplici conjectura elicitur. Alteram
praebet nomen. Maesa enim dicebatur, ut avia Heliogabali. Alteram ipsius,, aedifici
i forma. Serlius enim Ai chitectus sic eain nobis linea vit, ut domicilii piane
figurara descripserit freqnentibus scalis, aulis, peristylis, ac porticibus. •.
Palladius >, autem. .. practer alias aedificii partes, in templi quoque
formam descripsit amplissimi, magnisque columnationibus insiguis. Quare eodem
fonasse in loco fuit olim Solis,, Templum. Nell’ ameno diporto de’ sudetti
Giardini, e della grandiosa Abitazione Augusto sovente soleva portarsi a
visitare il suo amico M., ed ivi ancora sovente li Poeti dall’uno, e dall’
altro beneficati, e protetti facevano sentire il dolce suono della loro Cetra
Celebrati sunt dice il Giraldi j M, hortiinEsquiliis, quo loco cum Caes.ire
versari frequen / Lee. cit. lib.3. capa 5. Diaitizec I i, ter consnevit; et perindc
etiam illtìc Poetae conveniebant. Lo stesso dice Pietro Crinito nella sua opera
de’ Poeti Latini al cap.45. “ Hortos Romae habuit ( Mece»> nate )
pulcherriinos inEsquiltis, ubi versari interdum consnevit, deque
liberalibns,> discipliiiis serriionem habere cum amicis suis. Ad hoc
persaepe divertit Caesar Octa»> vius propter loci amoenitatem, velut qui
»> animarti libertini haberet a cnris in eo quietis secessi!. Esisteva
ancora ne’ Giardini medesimi un Tempietto, o piuttosto uba Cappella dedicata da
M. al Dio Priapo. Li Poeti, che frequentavano quel luogo, come si è accenuato,
solevano scrivere sulle pareti di essó Tempietto de’ versi scherzevoli, ma poco
purgati. La raccolta di questi diede luogo a quel libro intitolato la Priapeja
dato alla luce dal Giraldi, e dallo Sdoppio" Sacellum Priapi ( scrive
Pi>» fisco /fuit in hortis Maecenatis ab ilio extructtim, et dedicatimi.
Poetae, qui Maet, cenateci suum quotrdie visebant, versicu» los aliquot jocosos
in Sacelli parietibus notarunt, et hosPriapejorum nomine in unum collegit
libellum, et vulgavit .... Girai-,, dus, etScioppius. Questo autore ri -.
Priapeja ( dice questo ) carmen obscenum, quod nonnulli Virgilio, alii Ovidio
adscri*» bunt ; quamquam Verosimilius est, multorum id opus esse ob argumenti
similitudinem unum in volumen conjunctum. Su tale articolo potranno aversi
maggiori schiarimenti e presso il lodato Giraldi, e pres« 80 il nominato
Pitisco ne’ luoghi citati. fi) Loc. cit. (2) Lexicon. Ling. lat. art. Priapeja,
VILLA IN TIVOLI DI M.: DISCUSSIONE IL solo M. possedeva li deliziosi giardini,
e la magnifica abitazione sull’Esquilino, onde sollevarsi dalle cure del
Governi? insieme con il suo Cesare Angusto, e bearsi colla sempre piacevole
comitiva de’ Poeti, é de’ Letterati, ma eziahdio per lo stesso oggetto egli
aveva fatto edificare sulle sponde dell' Aniene una Villa maestosa, ed
elegante. La celebrità di questa è ornai nota a tutte le colte Nazioni dell'
uno, e l'altro Elnisf ero, perché ne hanno parlato, e scritto infiniti
Scrittori, e se ne legge la memoria in tutti lì Libri, di cui fa uso il
Viaggiatore critico, e pensante. Infatti Lilio Giraldi, Francesco Marzi,
Marc’Antonio Nicoderao, Antonio del Re, Nicola Orlandini, Fulvio Cardulo, Gio:
Zappi, Pirro Ligorio, Atanasio Kirker, ed a tempi nostri il Volpi (i), Fausto
del Re (2)> e Marquez f 3 ), non che altri Autori ezian Lat. vet. Ville di
Tivoli Illustrazioni della Villa di M. ià Tivoli. et dio di materie antiquarie
hanno costantemente asserito, che in Tivoli esisteva la Villa di M. in quel
luogo, che si accenna, e descrive dai sullodati Volpi, del Re, e Marquez, e sul
quale tuttora si scorgono con ammirazione le immènse reliquie della medesima.
Il primo ammirabile oggetto ( scrive il Volpi ) che si presenta allo sguardo
del Viaggiatore, che va a Tivoli è la Mole superba di quel CajoCilnio M.
Cavalier,s Romano, il più grande amico, ed il più fido consigliere di Augusto,
il quale superò t, molti Re in potenza, cd in ricchezza. Que>> sta Yilla
per concorde testimonianza di tutti li Scrittori, che trattarono delle cose,,
Tiburtine, s’ inalzava presso la detta Città sulla sponda ministra dell’Aniene.
.. così costantemente hanno asserito Lilio Giraldi e tutti gl’ altri, che
descrissero le maestose reliquie di quell’antichissimo Edifido ; ciò poi, che deve
sorpassare Lauto>, revole usiertiva di tanti Autori si è la remotissima
tradizione, e fama, per cui si è in ogni tempo creduto fra liTiburtini,
chepresso le mura della loro Città fp I4 Vili# d» M. J ! ( 0 L° c - cit. pag.a
x j : Prima igitur omnium sete Tybur adeuntibus admirandum, ve jtigandumque
offerf ingcntis molis Villa M., scili cet Caji Cilnii Mqeceqa- Nnlla fu omesso
per rendere questa Vili* vaga insieme, e grandiosa. L’oggetto più caro il cuore
di quel grand’Uomal, i Letterati, non fu preterito, e però vedeansi jn essa
amene passeggiate, e portici deliziosi, ove si riunivano li Dotti, che mercè l’
illimitata protezione di M., nel seno; del silenzio, della calma, e di tutti
gl’agj, travagliavano indefessamente per il progresso dello spirito umano nelle
arti, e nelle scienze Quivi, come in un altro Parnaso, in un;altra Accademia,
in un altro Peripato, in un altro Liceo, Filosofi, Istorici, Poeti, ed Oratori
discutendo, perorando, e meditando, procuravano di compiacere al loro
munificentissimo Protetto tis Equitis Romani Augusto Ce.es ari amicissimi,
fidclissimique consiliarii, quiqìie Reges permultos non solum aequavit, sed
etiam. amecelluit opibus, et potcnìia. Haec concordi omnium, qui de Tiburtinis
rebus c gerani, S criptorum testimonio, ad ipsum Tibur fuit in sinistra Anienis
ripa. .. ‘ Ita LiPius Giraldus. .. aliique omnes, qui ingentia Aedi fidi hujus
antiquissimi extaritia adhuc fràgmenta, et rudero niemorapcrunt, a ut
descripscrunt unanimitcr, atque constantcr M. hanc V illam Tibur tem nominaverunt;
quodquc ipsos etiam scriptores auctoritate vincere debet vetustissima, a
majoribus per ma nus tradita fama id nobis affirmat .yt, e cosi per impulso del
genio benefico di questo recavano servizj inesplicabili al genere umano, e
travagliavano per la sua civilizzazione. Il Cenni dopo aver parlato de’giardini
di M. in Roma, non manca di parlare eziandio con stupore della villa del
medesimo in Tivoli. Nè solamente in Roma, dice quello, ha M. le sue delizie, ma
per non goder sempre mai la villa negrOrti, che egli ha, le ampliò fuori di
quella ancora, ed in Tivoli ne fe pompa meravigliosa. Quivi fabbrica egli una
città più che una villa, palesandola tale fin'oggi le superbe reliquie, e le
rovinose grandezze della medesima, e quivi parimenti nel ritifo, che facevano
dallo strepito cittadino, trovavano 3, il loro riposo le muse romane. Il
Patisco, benché ne parla compendiosamente, pure la chiama villa ripiena d’ogni
sorte di de» Volpi: Atque hue litteratorum homìnum congregatas polissi mum
erudita s Catervas sub M. patrocinio ac tutela philosophorum, inquam, oratorum,
historicorum, ac omnium maxime poetarum turmas, ad dìssercndum }recitandum,
fabulandum, meditandum edam, atque otianr dum animi ergo in Parnaso voluti
quodam, auC Portico, aut Peripato, Accademia, voi Lyceo LIZIO. fa) Vit. di M.
libra lizie, opera meravigliosa, e che per la vastità della sua mole non cede
ad alcun altra fabbrica de’romani. Ma sarebbe stato troppo poco per il cuore
magnifico di M. il rimunerare li dotti coll’uso soltanto di quegl’agj, che si
rinvenivano o ne’suoi giardini di Roma, o nella villa di Tivoli: la sua
generosità si estende molto più oltre; soleva bastantemente provederli di tutto
il bisognevole, come è noto, e conforme abbiamo dimostrato nella storia, e
perciò presso la detta villa di Tivoli, o nelle sue vicinanze li poeti ad esso
più cari possedevano casini di campagna, deliziose villette, e possessioni
ragguardevoli; e queste proprietà si acquistavano da quelr Lexic. Antiq. art.
Villa i Villa M. in ultimo Tyburtinae Urbis Clivio, omnium deliciarum genere
conferta, ab ilio est extructa. opus sane admir abile, quod sane vasta sua mole
nulli ex romanorum fabricis cedit. Pet. Crinit. de Poet. Lat. rap..: Vubgatum
est de M. quantum Litteris, ac litteratis omnibus faverit, cum in urbe unus hic
potissimum haberetur, ad quem poetae omnes, atque oratores, ve/ut ad certam
anchoram, per/ugiuni sibi haberent; itaque ab eo vehementer dilecti sunt,
ppcraque, et mu -, nf ribus amplissimi honestati. li mercè la liberalità del
medesimo, onde avvalorare sempre piòli talenti poetici di Orazio, di Properzio,
e di Virgilio, e perchè ognuno di essi potesse vivere contento anche quando
esso non poteva trattenerli sotto l’ombra de’portici maestosi della sua villa.
Inoltre possedendo que’poeti delle proprietà in Tivoli, mentre M. vi possede la
villa grandiosa, più spesso, e più agevolmente poteva egli vederli, e più
volentieri abbandonavano lo strepito fragoroso della capitale per passare
giorni quieti, p delle ore pacifiche nella calma de’loro deliziosi, e campestri
ritiri, soggiorno perpetuo delle muse e di Febo. Che ORAZIO (vedasi) ha un
casino di campagna in Tivoli quasi di fronte alla villa di M., non può mettersi
in questione, e benché Sanctis ponga in dubbio l’esistenza.in Tivoli di una
villa spettante a quel poeta, tuttavia conviene, che questo vi avesse una casa
di campagna, nella quale egli vagheggia l’antro muscoso della risonante
Albunea, le onde dell’Aniene, che si precipitano dall’ alto delle rupi. 1 !
ombroso boschetto di Tiburno, li giardini irrigati dalla molle attività di
scherzevoli ruscelletti, nella quale desidera arden- Dissert. sulla villa di
Orazio. Ode 7. lib. 1. a5a temente di finire i suoi giorni. Essendo; pertanto
dimostrato per confessione ancora delio stesso Orazio, come si è veduto nella
storia che esso era stato arricchirto da M., sembra del totto chiaro, che la
liberalità di questo gli procacciassero il j Me nec tam patiens Lacedacmon, Ncc
tam Larìssae percussit campus opimae, Quam dora us Albuncae resonantis, Et praeeeps
Andò, et T iburni lucus, et uda Mobilibus pomaria riyis. Od. Tybur, A rgeo positum
colono, Sit mene sedei ut in am. senectae ! Sit modus lasso marie ì et viarum,
Militiaeque ! i lite terrarum mihi praetedomnes Angulus ridet, ubi non Hymetto
Mella decedunt, viridique ccrtat Bacca Venafro j V er ubi longum, tepidasque
praebet Jupiter brumai; et amicus Aulon, Fertili s Baccho, minimum Falernis '
InvidetUvis. t Ille te mecum locus, et beatae Postulant arces ; ibi tu calentem
Debita sparger lacryma favillarli \ Vatis amici. possesso del surriferito
Casino di Campagna in Tivoli. Si
potrebbe stabilire jn Tivoli anche una Possessione al Poeta Properzio, ma niuno
de’scrittori delle Antichità Tiburtine ne ha fatto menzione ; ciò non ostante
si rileva dai scritti di questo Poeta, che egli ayeva in Tivoli la sua Amorosa,
dalla quale ricevè nella mezza notte unà Ietterà, in etti lo invitava a
portarsi in detta Città 1 Quando il carro di Boote, dice Properzio, era giunto
nel mezzo della sua carriera ricevo una lettera dalla » mia Bella, che mi
ordinava di portarmi all’ istante presso di essa ; la lettera veniva daTivoli,
ove le biancheggianti vette fanno mostra delle sublimi due torri,e l’onda
dell’Aniene siprecipita in ampie lagtJne. In altro luogo poi il Poeta facendo
la descrizione patetica di un sogno, finge di vedere, che Cinzia sia morta,
tal’ era il nome della sua Bella. Fa parlare l'ombra di Lib.S. Eleg.i 3. Nox
media, et Dominac mihi venit epistole^ mstraej Tybure me mista jussit adesse
mora; Candida qua geminas ostendunt culmina turres, Etcadit in patulos lympha
Anima lacus. Il vero nome della donna Tiburtina amata da Properzio era Ostia,
tome rilevasi da' a5a questa, la quale gli ordina, che nel di lei se-, polcro
sia scolpita una funebre iscrizione, che essa stessagli detta “ La dove il
potnifero A„,nieue parla Cinzia scorce placidamente per le tqrtuose campagne, e
dove,1’ avorio giammai impallidisce mercè la potenza del Dio Ercole scrivi nel
m ezz P di nna COLONNA, questa epigrafe degna di me che possa leggere il
passeggero. Qui giace la bella Cinzia sepolta nel suolo Tiburtiuo Apulejo
presso il Crinito nella vita di questo, Poeta :j Sextus Aurelius Propertius,
dice Crinito. M., e Tacito maxime acceptus fait. Cum i(i Elegiis, ut inquit
Plinius, forct egre gius. Libros quatuor Elcgiarumconiposu.it, in quibus fere
suos calarti, et Mosti ae laude m, et formam celebrai ; nam in pucllam Hostiam
miro qui dem affectu exars (t, quatn mutato nomine, ut est auctor L. Apule] us,
Cyntiam appellare maluit. Corre la voce a tempi di Properzio, ed uriche
posteriormente, cirriforme si rileva, da Silio Italico, c da Marziale, che
l’uria T iburtina somministrava alle cose ur\a bianchezza potentissima.
Properzio ripete questo privilegio da Ercole divinità tutelare dal Paese, e che
era in special maniera venerato in quella Città. Il Beroaldo ne' commenti del!
accennata Elegia di Properzio alle parole : polle? I N aì>3 la sùa tomba, o
Amene, accrébbe decoro J, alla tua fertile sponda . Se io volessi ricavare da
queste espressioni di Properzio resistenza di una sua Villa in Tivoli mostrerei
forse troppa prevenzione per il Suolo, che mi diede i natali ; ma essendo cer-«
to, che quello aveva la sua Amorosa ih quella Città, cbé era amicò di Orazio, e
di Virgilio, e che godeva il favore del benefico M., sembra non 'affatto
inverisimile, che anch'esso avesse, o qualche cosa di campagna, o qualche altra
possessione presso la Villa del sudetto M., frutto, e risultato della
beneficenza del medesimo. i tbur ; parla in fai guisa i 'Còclum Tyburti~ num
dicebatur rebus praestare candorém pòtentissimum e bori, unde ait Silius:
Tyburit dura pascit ebur : Et Martialis, T'ybur ih Herculeum migràvit nigra
Tycoris Omnia dum fieri candida credit ibi. Hoc fieri Poeta ait, nu mine
Herculeo ; T V bur enim Herculi dicatum, et Herculeum cognohtindtur. Ramosis
Ariio qda pòmifér incubai afvis. Et nunqUam Herculeo numìne pallet Ebur', Hoc
carmen media dignum me scribe columna, Sed breve, quodeutrehs Vectór ab Urbe
legar, Hic Tyburtina jacet bure a Cynthia terra, Accessit ripae, laus, Aniene,
tuac. I I a$4 Se è certo, che Orazio, se non è
improbabile, che Properzio avessero nel Territorio di Tivoli, e nelle vicinanze
della Villa di M. una qualche possessione, non è fuor di credenza, che il
Principe de’ Poeti Latini vi possedesse anch’ esso un luogo di delizioso
soggiorno. Li Scrittori delle cose Tiburtine hanno serbato su di ciò un
profondo silenzio > ed il solo Volpi accenna, ma dubitando, una tal
circostanza. Sapendo però quanto M. stima sse, proteggesse, e beneficasse non
meno quel grande Poeta, si può, e forse con non debole fondamento asserire, che
questo eziandio possedeva presso la Villa del suo Benefattore o qualche
abitazione di piacevole permanenza > o qualche altra possessione. Infatti,
se Orazio era stato arricchito da M.^ se quanto quello àv$ya, doveva ripeterlo
dalla beneficenza di questo,cbe cosa dovrà dirsi di Virgilio, che in meriti
letterarj non er? certamente inferiore al Poeta di Venosa, e che ( ij Volpi
Latinm Vetuslib. Villani in Ty burle habuisse Virgiliani, suut qui putant,
Villae proximam M.; eum tamen neque locum de s igne ni, nec ullus hoc Auctor
scripsit, quod quidem perlegcrim, 1 neque ex ipso Virgilio tei hujus lumen
ullum ef fulgeat, id asseverare nonausim. ] aveva dedicato a M. il suo dotto,
ed elegate poema sulla coltivazione? Di poi non mancano congetture di qualche
rilievo per credere ciò, che finora si è detto riguardo alla Villa di Virgilio.
L’Ughelli riporta un Diploma, estratto da un Codice manoscritto della
Biblioteca del Card» Francesco Barberini, la di cui antichità non è stata
finora contradetta. Questo Diploma è legittimo, ed in esso il Vescovo di Tivoli
Uberto è confermato nel possesso di tutti li suoi beni, che possedeva nel
Territorio di quella Città, e frà gli altri fondi si fa menzione della
possessione Virgiliana : Fundus Licerana, Picianus, 'Galliopini, Vicianus,
Virgilianus. ’ì Petrus Crinit. de Poet. Latin. . : Pùblius Virgilius adhunc
Maecena tetri libros suos misit, qui Georgica inscribuntur, absolutissimum
omnium opus, quae in eo genere composita unquam ab alio fuerint. Ughelli Ital.
Sag. Hucber,tus Episcopus Tìburtinus vixit temporibus Martini Papae?. Ab eodem
Pontifice omnia privilegia ab Anteccssoribus Ecclcsiac Tyburtinac concessa, hoc
diplomate revocati meruit, cujus exemplar .,, extat in MSS. Cod. Biblioth.
Card. Francisci Barberini. .che quella anticamente spettava al Poeta Virgilio,
e che vi era stata qualche Villa di sua pertinenza 7 Difatti quante contrade
del Territorio di Tivoli sono anche oggi denominate, Pisone, Cardano, Paterno
ec. dai nomi di quegli antichi Romani, che quivi ebbero del- le Ville, e la
verità delle quali non può recar- si in dubbio dopo lo scoprimento di monumenti
irrefragabili, e. sicuri? Se la località di quel fondo Virgiliano non si fosse
smarrita nella notte del tempo, forse agl’ indagatori delle cose Tiburtine non
sareb- bero sfuggiti li mezzi, onde verificàre la semplice tradizione •, e
coll’ ajuto de' scavi i e coll’ esame di qualche marmo, iscrizione, o altra
reliquia di antichità, si sarebbe potuto conoscere il sito, ove esisteva, ed
anche la qualità del medesimo ; e non accade così di Nicolai, Jvan.-et Leonis,
quae vetustate consumpta renovantur temporibus D. Martini Sum. Pont. Potitific.
ejus scilicet an, g., Sugerentc Hucberto Tyburtinae Eccle- siae peccatore, ethumili
Episcopo. Clausura universa. .. Fundus Li cerata, Pidanus, Calliopi/ti,
Vicianus, Virgilianus. lion poche altre Ville, la di cui memoriaper lunga serie
di secoli si vedeva soltanto sotto il velo della tradizione? Nè la forza delle
addotte riflessioni, e congetture può essere scemata dal silenzio di tutti li
Scrittori Tiburtini, e segnatamente de' più moderni Cabrai, e del Re;
conciosiachè è certo altronde, che tanto questi, che gl’altri omisero di
accennare -, che Plinio il giovane ebbe in Tivoli una Villa ; eppure è
indubitato, che anche una Villa di quell* esimio Scrittore abbelli il
territorio di questa Città. Egli ne parla espressamente scrivendo al suo amico
A- pollinare,e facendogli il dettaglio de'pregj dell’ altra Villa, che
possedeva in Toscana.,, Ecco le ragioni, dice Plinio, perchè io antepongo la
mia Villa Toscana alle altre, che '» posseggo nel Tuscolo, ih Tivoli, ed
inPre-,, neste ; perchè oltre li soprariferiti pregj 5, vi si gode un ozio
maggiore, più abbondan- te, e però più sicuro, e con meno disturbi kl. Non vi é
necessità alcuna di vestir Toga; >, non vi è chi venga a chiamarci, e a
invitarci dalle vicinanze, ed ogni cosa si fa con pace, e quiete. Torniamo alla
Villa di M.. CO Ville di Tivoli Plin. Epist. : ffabes causas cur ego T uscos
meos T usculanis, Tyburtinis ; Praenestinisque meis praeponam ; narri super R a
5 S È noto, che il sullodato Poeta Virgilio credendo, che la sua Eneide fosse
un lavoro imperfetto lasciò per testamento, che venis- se consegnato alle
fiamme, e che Tucca, e Va- rio suoi amici fossero nominati dal medesimo
esecutóri di questa sua ultima volontà, conforme hanno lasciato scritto Gellio,
Macrobio, e Plinio presso il Volpi. Augusto non permise, che si dasse esecu-
zione agl’ ordini di tal natura, senza prima meditare, e ponderarne la sostanza
; perciò essendosi ritirato con li sudetti Tucca, e Va-», rio nel silenzio, e
nella calma tranquilla della Villa di M., quivi, previo un esame ma- turo
sull’oggetto delicato, fu risoluto secondo Il pensiero di Lilio GiraWi, seguito
dal Volpi (a), che ad onta nelle disposizioni testamen- tarie dell’Autore,
quell" opera divina dovesse sopravvivere, e trasmettersi alla posterità;
illa, qua e retuli, altius ibi otium, et pin- guius, eoque securius ; nulla
necessitate togae i nemo arcessitor ex proxima ; placida omnia, et quiescentia:
Vedi Marquez Ville di Plinio Porro eam deliberai io n em in hac Villa M.
Tyburte su- sceptam ab iis ( Tucca, e Vario ) cor am Au- gusto putat Lilius Gir
aldi. conforme frà gli altri riferiscono Plinio, e Sulpicio Cartaginese. Non è
fuori di probabilità, che M. mo- risse in questa sua Villa di Tivoli. Egli
aveva qui fatto un lungo soggiorno, e si pnò dire an- cora una permanenza non
interrotta negl' an- ni estremi segnatamente della sua esistenza; e perciò
sembra, che abbia voluto esalare l’ul- timo respiro, dove aveva trovato le sue
deli- zie, la sua pace, e il suo sollievo nell' ultimo periodo della sua
brillante carriera. Augusto erede di quello, come si è detto, ereditò an- cora
la sua Villa sulle sponde dell'Aniene, per cui posteriormente fu chiamata Villa
di Cesare Augusto, conforme accenna il Kirker, è dopo di esso il Pitisco E'
fama ( dice questo,, Scrittore ) che M. prima di morire i- 3, stitnisse crede
della sua Villa di Tivoli lo,, stesso Augusto,al quale nella medesima aveva per
tanti anni esibita la sua ospitalità, per,, cui posteriormente, ed anche fino
al pre-PLINIO (vedasi): Divus Augustus carmina Virgilii cremati con tra
testamenti ejus verecundiam vetu.it. J usserat haec rapidis aboleri carmina
flammis Virgilius, Phrygium quae cecinere ducem. Tucca vetat, Variai simili, tu,
maxime Caesar, Non sinis, et Latiae consulis historiae. Lat. vet. et nov. lib.
3 > n.4. §.1. R 2 ! o sente giorno si chiama Villa
di Cesare Augnasto. Potrebbe ora darsene una descrizione to- pografica, ma su
di ciò si farebbe un lavoro del tutto superfluo, nè potrebbe dirsi di van-
taggio i nè meglio parlare di quello, che h an- no detto, e parlato li
succennati Pitisco, Cabrai, e recentemente Marquez nella sovra- indicata
Dissertazione. Se questo valente Scrit- tore aveva dato saggi commendevoli
delle sue cognizioni, e del suo criterio nelle opere a quella antecedenti, e
segnatamente nel Libro sulle Ville di Plinio il Giovane, e nell'altro sulle
Case di Città degli antichi Romani ; nel- le Illustrazioni sulla Villa di M. ha
fatto conoscere la penetrante oculatezza del suo 1nge2.no nel discoprire, e
disegnare le noti- zie relative airuscnraAntichità;eperciò ad es- se
Illustrazioni ritaettramo gli eruditi Lettori. Loc cit. Art. Villa : M. moritu
- rus, cum tot jant annis Augustum hospitem in hac Villa recepisset, eumdem
Villac haeredem constituisse fertur, ut proinde vel ex hocco - pite non Maecenatis
dumtaxat, sed et Augusti C cesar is in hutic diem appclletur. s'6t FEBRE
PERPETUA » febris est, sicut Cajo M. . Eidem triennio supremo nullo horae
momento contigit somnus . L’Arduino nelle notea questo luogo di Plinio ci
previene, che Schenk nelle sue mediche Osservazioni riporta varii esempj d’
Individui, che non viddero il sonno per lo spazio di quattordici mesi, .ed
anche per un intero decennio. In Not. cap. 5 a. lib: 7: Plin. : Afjìrt exempla
nonnulla eorum, qui mtnsihus quatuOr- ZT 'a 6 Non è mio scopo di esaminare, se
cosi lunghe veglie possano darsi in natura, come ancora se possa un mortale
vivere gran tempo con la compagnia disgustosa di una febre continua. Questo
esame forma 1’ oggetto, e la materia esclusiva di que’ Dotti, che sono nell' arte
medica versati, e perciò io mi tratterrò nel vedere, se quel Cajo M., di cui
par- la Plinio, è M., di cui si è scritta la Storia; e posto che d’esso sia, si
osserverà se sussista la realtà di quella febre perpetua:, e della pretesa
veglia triennale. Crinito afferma non esser certo, che il M. allegato da Plinio
sia quel Mecena- te Consiglierò, Favorito, ed Amico di Augusto. Notatum est a
Plinio ( dice quello ) in- j, ter mirifica Naturae officia eum M. nnmqnam horae
momento dormisse per totum trieimium ante obitum, sed hoc non piane compertum
est, an referendum sit ad,, alterum M. Al contrario Cenni è di opposto
sentimen- to, ed impugna il Crinito in questi termini:,, Ma sia detto cou pace
del Crinito, questo dubbio parmi senza ragione. Da Plinio si,, parla del
nostro, e non di altri M. decim, qui decennio Coto somnum non viderint
Jo.Schenkius Observat. Medie, lib. i. pag. p3. De Poet. lat.. Qicuxi ^ 00
Jsx-Cl o Qg I, Ora è possibile t che questo soltanto ayes-; se la notizia cosi
precisa di questi fatti, e che ’ o • (i^Lib.a.Art,t>$ la medesima sfuggisse
a Vellejo, e a Cornelio Tacito contemporanei di esso Plinio, e s’igno- rasse da
Svetonio, da Appiano, e da Dione, che vissero, e publicarono le loro Storie nel
secolo posteriore all’esistenza di quel Natura- lista? Di più Macrobio ne’ suoi
Saturnali, opera critica, ed erudita, non omette di parlare di molte qualità
personali di Cajo M., delle quali si è fatto già menzione, e serba un profondo
silenzio sulla febre perpe- tua, e sulla veglia triennale, di cui si parla. Lo
stesso deve dirsi di Seneca. Egli mormora spesse volte, aguzza la lingua nelle
sue Opere sulla condotta del Consiglierò di Angusto, ne critica il lusso, le
ricche abitazioni, le squisi- te mense ec., ma benché sia contemporaneo di
Plinio nulla dice di preciso sul fatto contro- verso. Ma si supponga, che il M.
accenna- to da quello sia il M., che è l’oggetto delle nostre storiche ricerche
. Sussisterà in questa ipotesi quella febre continua, e quella veglia triennale
? Pareva incredibile al lodato Giraldi questa veglia triennale, e peno- sa del
nostro M., e non ne sarebbe giammai restato persuaso, se la sua credulità non
fosse stata sorpresa da un’ altro fatto più stravagante s riferito da
Olimpiodoro Alessandri-, no, ij quale suppone, che un Uomo vivesse senza mai
dormire, pascendosi di sola aria, o di luce. Quindi io giudico ( scrive il
?6q,, raldi ), che proveniése a M. quella è- sica indisposizione di non aver
potuto dormir »» mai per no intiero trienoio ; ciò che mi i, sembrava quasi
incredibile prima che leggessi in Olimpiodoro Alessandrina che « nn Uomo visse
senza mai dormire, pascen- dosi di solo aere solare, ed in conferma di tale
portento cita quello l’autorità di Aristatele. Alcuni,frà quali il sullodato
Cenni (assono d avviso, che Seneca abbia parlato della sudet- ta veglia
triennale di M., allorquando fauna specie di parallello frà questo, ed il
celebre Attilio Regolo Veniamo ora ( dice » Seneca ad Attilio Regolo . Perchè
la fortn- »> na gli nocqne quando egli diede quel grande argomento di
fedeltà, e di pazienza? Trapassano li chiodi la sua cute, dovun- y, que
rivolge, ed inclina le sue membra affaticate incontra una ferita, e le sue luci
sono aperte ad una veglia perpetua . Cre- : Mine illi (M.) existimo cantigisse,
c/uod a Plinio scribitur, ut per triennium non dormieril, id quod ego vix
credideram ni ti antiquum apud Olim- piodorurn Alcxandrinum in Phaedonis
Commentario legissem, hominem insomnem vixisse, qui solo aere solari
nutriretur, atque in eo miracolo Aristotelem citai., di tu, che sia più
fortunato M., il quale divorato dagl’amori, c da replicati », ripudj della
ricalcitrante consorte, si pro-,, caccia il sonno mercé l’armonia de’ musi- si
cali istromenti, che da lungi echeggiano, soavemente? Ma benché egli prenda
sonno colla forza del vino, scuota, ed inganni il suo animo col mormorio
dell’acque cadenti, e con mille altri generi di piaceri, tnttavia veglierà
nelle piume, come Attilio, Regolo nella croce . (Non si comprende però come
Seneca in que- sto luogo voglia indicare la pretesa veglia tri- ennale di M.,
giacché la sostanza dei suo discorso si è che questo, essendo vessato dall’
amore sconcio, e dal carattere inquieto De Provid. Veniamus ad Re- gulum : quid
illi fortuna nocuit, quod illud documentimi j Idei, documentimi patientiae
fetic ? Figunt cutem davi, et quocumque fatigatum corpus reclinai, vulneri
incumbit, et in perpetuam vigiliam suspensa sunt lumina F eli ciorem ergo tu
Maecenatetn patos, bui amoribus anxio, et morosae Uxoris quoti- diana repudia
deflenti, somnus per symphoniarum caritum a longinquo lene resonanlium
quaeritur ? Mero se licei sopiat, et fragori- bus aquarum avocet, et mille
voluptatibus mentem anxiam fallat, tam 'vigilabit in piu- ma, quam ilio in
croce di Terenzia stia moglie, che egli arnav^ perdutamente, procura di
sollevarsi con il vino, con lo strepito piacevole delle acque cadenti dalle
rupi, e con altri mezzi capaci a discacciare, o mitigare la noja dello spirito
; aggiunge inoltre, che ad onta di tut- to questo, M. non trovava sollievo,
come Attilio Regolo tormentato dalla barbarie degli Africani nella botte
guarnita di punte di ferro. É’ pur troppo vero, che una moglie fornita di un
Carattere infedele, caparbio, ed incostante potrà tenere in grandi inquietezze
un onesto marito, dal quale è amata, manonpare verisimile, nè credibile, che
tali inquietezze possano giungere fino al grado di cagio- nare una veglia non
interrotta di più anni. Perciò si può convenire nella supposiziqne di [Girald.
loc. cit. Porro Terentiam Maccenas miro amore deperiti } .ut Acron, et
Porphirion tradidere. Cantei, Not. ad Valer. Max. lib.l. de Relig. Dir is sane
suppliciis crucactus est Attilius : primum quidem, et id tantum cibi datum est,
un de vitam aegre su- stentaret, et adductus Ltiphas, a quo territus nec animo,
nec corpore conquiesceret : tum, praecisis palpebris ne connivere posset, solis
radiis'objectus est : in dolio denique inclusus praefixo davi culti, quorum
acuti it misere lacerai us inceriti, Seneca riguardo alla' sùdetta Terenzia
moglie di M.; si può convenire, che ella sarà stata di Un umore capriccioso, ed
indocile ; che M. ne avrà provati disgusti, ed amarezze, e che per discacciarle
lóntand dal suo spirito filosofico, avrà profittato di tutte le possibili
risorse ; non si può però ragione- volmente, e giustamente conchiudere, che per
tal motivo non potesse procacciarsi il sonno per il non breve intervallo di un
intero trien- nio; nè si può comprendere^! torna a ripetere, come Seneca abbia
nel citato luogo voluto si- gnificare ciò, che Plinio ha riferito sulla pre-
tesa veglia triennale del nostro M. i Passiamo alla febre perpetua. La febre è
annoverata fra li pallidi morbi > che affliggono miseramente la specie
umana. Quell' individuo, che da una febre viene mo- lestato, e da febre di tal
carattere, che non abbandona giammai il povero paziente, è impossibile, che
possa agire con energia, e trattare affari di sommo rilievo . Da quanto si è
detto nel decorso della Storia del nostro M., risulta pienamente, che egli fin
dall’ età più verde incominciò a prestare i suoi servigi ad Ottavio Augusto
prima del Triumvira- to, fin dopo inalzato al Trono. Si è rimarcato, che iu
tutto questo tempo affrontò le imprese le più faticose; segui qualche volta il
suo Monarca anche frà lo strepito delle Armi } governò lunga stagione Roma, e
l’Italia, dissipò congiure pericolose, ed usò in tutte le i operazioni, che gli
furono affidate, eoraggio, fermezza, e straordinaria vigilanza. Se pertanto
fosse stato sottoposto ad una malattia di una febre perpetua, come è possibile,
che avrebbe egli potuto agire con tanta energica attività per disimpegnare
gl’incarichi laboriosi, che tutto giorno riceveva da Augusto? Ola febre è una
malattia, o non è malattia . Se non è una malattia tutto è conciliabile, ma
siccome non può mettersi in que- stione, 'ch’ella sia un malore, che sconvolge
il sistema fisico deirUomo, cosi sembra potersi dire, che Plinio in quel luogo,
0 ha parlato di qualche altro M., o se ha parlato del nostro le sue assertive
non possono in verun conto fissare la fiostra attenzione. Impugnando però
questo passo di Plinio, noi non abbiamo avuto il pensiere di divenire il
censore di quel celeberrimo, e laborioso scrittore della storia naturale. Egli
esige tutto il rispetto de’letterati, li quali conoscono, che quella sua opera
magnifica gli procacfciò meritamente un posto brillante nel tempio
dell’immortalità. Ma in un si grande lavoro, in cui dovette giovarsi, e
profittare degli occhi, e delle mani di molti, non deve recar meraviglia, se
egli avesse inserito una qualche opinione grossolana, e popólare . Il medesimo
dice ancora, che quel Caio Melisso M., Liberto del nostro Cil- [TIRABOSCHI
(vedasi), Stor. della Lett. Ital., «io per guarire da uno sputo di sangue, no
parlò mai per lo spazio di tre anni. Questo fatto è pure singolare, meno però
di quello della febre perpetua, e della veglia triennale . Plin. Jamet sermoni
porci multis de causis salutare est. Triennio M. Melissum accepimus silentium
sibi imperavisse a convulsione reddito sanguine. L' Arduino nelle note a questo
luogo di Plinio osserva, che in alcuni Codici invece di Melissum si legge
Messium, conchiude però, che ne Codici più accurati si trova scritto Melissum.
Potrebbe dubitarsi se il Melisso, di cui qui si parla, sia veramente il Liberto
di M., giacche Svetonio de lllust. Gram. nomina are Melisso Lenèo. Fulgenzio
Withol. fà menzione di un Melisso Euboico. Alberto Magno de Anim. Tract. loda
un Melisso autore di un libro sugl’animali. E Laerzio. rammenta parimenti un
Melisso. Ma il lodato Arduino è d'avviso, che il Melisso accennato da Plinio è
il Cajo Melisso M. Liberto del nostro M. : Meminit Svetonius ( Hard, in Ind.
Auct. Plin. ) Caji etiam Melissi, quem Maecenati gratissimum etiam fuisse ait,
ac Biblidthecarum in Octaviae Portico ordinandarum curam accepisse, a Patrono
suo Cajus Melissus M. dictus est . Hic eriim illc est, quem Maecenatem Melissum
scribi oportet, apud Pliriium. Cajo Melisso Mecenate. Luigi Speranza, “Grice e
Mecenate”, The Swimming-Pool Library. Mecenate.
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice e Medio: la ragione conversazionale al portico romano -- Roma
– filosofia italiana – Luigi Speranza
(Roma). Filosofo
italiano. Medio. Porch. A contemporary of Plotino. He wrote a number of essays.
Medio.
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice e Megistia: la ragione conversazionale e la diaspora di
Crotone -- Roma – filosofia basilicatese
-- filosofia italiana – Luigi Speranza (Metaponto). Filosofo italiano. Metaponto,
Basilicata. A Pythagorean according to Giamblico di Calcide. Grice: “Cicero argued that
anything written in Greek is not part of Roman philosophy; I guess he has a
point. Whereas we do consider things written in Latin by Englishmen PART of
English philosophy, we do not consider anything written by the Old Britons
before the Anglo-Saxon Conquest to be a part and parcel of Sorley, “History of
English philosophy’!” -- Megistia.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Meis:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – IL FU MATTIA
PASCALE – lo spirito abruzzese – la scuola di Bucchianico -- filosofia italiana
– Luigi Speranza (Bucchianico). Filosofo italiano.
Bucchianico, Chieti, Abruzzo. Grice: “I agree with Meis’s naturalism; he
proposes a three-stage development: vegetal, animal, man – his naturalism has a
Hegelian side to it, while man is more old fashioned, more Kantian!” Figlio di un medico aderente alla carboneria e di
ideali mazziniani, nacque a Bucchianico, dove compì i primi studi: li prosegue
presso il Regio collegio di Chieti e poi a Napoli, dove e allievo dei letterati
PUOTI, SANCTIS, SPAVENTA e RAMAGLIA. Si laurea e divenne socio degl’Aspiranti
naturalisti, di cui diventerà presidente; e poi medico aggiunto dell'Ospedale
degli Incurabili e apre una scuola di grande successo, dove insegna filosofia
naturale. E poi rettore del Collegio di Napoli. Dopo la promulgazione della
costituzione nel Regno di Napoli, venne eletto deputato per la circoscrizione
Abruzzo Citra: sostenne la protesta di Mancini contro la repressione operata
dalle truppe borboniche contro i manifestanti e l'accusa di tradimento al re. E
quindi costretto all'esilio. Dopo un soggiorno a Genova e a Torino, si stabilì
a Parigi. Esercita la professione di medico per gli esuli e gli emigrati
italiani. Insegna antropologia filosofica lall'università ed entra in contatto
con il mondo filosofico parigino, diventando assistente di Bernard e ottenendo
da Trousseau l'incarico di insegnare semeiotica. Strige anche un proficuo
rapporto con Cousin. Rientra in Italia, prima a Torino e poi a Modena, dove
insegna. Torna a Napoli e divenne assistente di SANCTIS, ministro
dell'istruzione nel governo provvisorio, e venne eletto membro del Consiglio
Superiore della Pubblica istruzione. E deputato al Parlamento del Regno
d'Italia sedendo tra i ministeriali. Busto di M. al Pincio (Roma) Non si sa né
dove né quando e iniziato in massoneria, è certo tuttavia che e membro della
Loggia Felsinea di Bologna. Insegna a Bologna. Il suo naturalismo lo spinse a
cercare un fondamento filosofico alle scienze della natura, che egli trova
nell'idealismo di Hegel. E anche amico intimo e collega di SICILIANI, del quale
condivise in parte la speculazione intorno al positivismo. Venne citato, di
passaggio, nel romanzo di PIRANDELLO (si veda), “Il fu Mattia Pascal”. E
costruito il palazzo della Biblioteca di Chieti, in piazza Tempietti romani,
dedicata a M.. V. Gnocchini, L'Italia dei Liberi Muratori, Erasmo ed., Roma, M.
su treccani. Il protagonista del romanzo infatti ascolta casualmente, durante
un viaggio in treno, una conversazione fra due filosofi, e dato che è uscita la
notizia della sua morte, sceglie come proprio nuovo cognome "Meis",
traendolo da "De Meis". Il nome sarà "Adriano", udito dal
fu Mattia nella stessa conversazione, che attribuiva a M. la tesi che due
statue nella città di Peneade rappresentassero Cristo e la Veronica -- colei
che si sostiene abbia asciugato il viso di Gesù durante il calvario. In queste
pagine del romanzo pirandelliano, Mattia Pascal prova uno straordinario senso
di ebbrezza legato alla propria libertà. Tessitore, M. Dizionario Biografico
degli Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Colapietra, M.,
politico “militante”, Napoli, Guida, Treccani Enciclopedie, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. M. Enciclopedia Italiana, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. M., in Dizionario biografico degli italiani,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. openMLOL, Horizons storia.camera, Camera
dei deputati. M. di Giacomo de Crecchio, in Biblioteche dei filosofi, Scuola
Normale Superiore di Pisa Cagliari. L'Unificazione, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Nella prima edizione di Il fu Mattia Pascal figura
qui un GIUSEPPE De Meis, che nelle successive si precisa nel nome di un seguace
piuttosto atipico di SANCTIS, il filosofo abruzzese M. Difficile immaginare che
questa schelta sia del tutoo casual, altrettanto difficile sondarne a fondo le
ragioni e avanzare qualche ipotesi. A meno che non si pensi al saggi in cuil M.
(“Darwin e la scienza”) tenta una sistesi tra evoluzionismo e dialettica
hegeliana dello spirito; o non si immagini che possa essere la sua filosofia,
sull’IMPOSSIBILITA della demo-CRAZIA in Italia, alla radice di uno sfogo
politico de Adriano Meis. Meis, del quale Mattia Pascale prende parte del
cognomen, e autore di una specie di impegnativo paradosso politico (IL
SOVRANO), nel quale sostene la necessita di una REGALITA forte, come punto di
mediazione disinteressata tra le passioni laceranti di varia strati della
popolazione. E questo E il solo possible filo che riusciamo a intravedere tra
lui e questo improvviso (ma forse non del tutto imporgrammato) sfodo di Adriano
Meis. Antichità Oggettivismo. Oggettivismo primitive da Talete ad Anassagora
Soggettivismo pratico individualista Sofisti. Soggettivismo pratico
universalista Socrate Oggettivismo ideale assoluto Platone Soggettivismo
incompiuto Aristotile Tempo moderno — Soggettivismo. Soggettivismo pratico
intuitivo Stoicismo Epicureismo Scetticismo Ne-oplatonismo Cristianesimo
Oggettivismo ideale particolarista Roscellino. Occam Oggettivismo sensibile
Bacone. Condillac. Diderot, d’Holbac. Passaggio alla soggettività Hame. Kant.
Oggettivismo ideale universalista Anseimo. S. Tommaso. Scoto . » Soggettivismo
tendente alla oggettività Cartesio Oggettivismo assoluto Geulinx. Mollebranche.
Spinosa Oggettivismo dogmatico individualista — Lcibnitz. Wolf Passaggio alla
soggettività —Berlielei/. Kant Tempo recente Soggettivismo assoluto.
Soggettivismo trascendentale — Kant Soggettivismo assoluto astratto — Fichte
Oggettivismo assoluto Schelling Soggettivismo positivo assoluto — Hegel . La
storia della medicina .Cosa è lo Stato? Lo Stato è l'uomo grande; è la società
umana individuata. L'ha detto Aristotile: lo Stato è la società che basta a se
stessa. 11 che appunto vuol dire che lo Stato è il grande organismo umano,
l'individuo grande, compiuto in sé stesso, indipendente ed assoluto. L' uomo
piccolo è una scala ascendente di funzioni. Egli ha per base la funzione
vegetativa, per cui mangia e beve e si nutre, veste panni, abita un nido e si
riproduce: la funzione riproduttiva è l'apice, e la corona della vita
vegetativa. Egli è questo il sistema dei suoi bisogni materiali, vegetativi ed
animali. Ma 1' uomo elementare non è soltanto un vegetabile compenetrato e
avvolto da un animale; egli è anche un animale, un'anima, sormontata dall'unità
dello spirito, avviluppata e compenetrata dalla coscienza umana. La
riproduzione è la corona della vita vegetale; la coscienza è la corona della
vita animale; e la coscienza assoluta è la corona e l’apice della vita
spirituale. Come spirito l'uomo è per prima cosa, e per prima base, morale. La
moralità, la virtti privata, è la forma più naturale dello spirito: essa è il
patrimonio dell'individuo, e resta confinato e chiuso in lui. Il dritto è
l’uomo aggrandito; egli è l'individuo che si aggiunge una porzione della natura
esterna; ed è una estensione del suo corpo, e della sua anima; ampliazione
della sua natura organica, ed esplicazione della sua natura giuridica
spirituale. E a tutto questo sovrasta l’IO, la libera coscienza, che è come il
perno intorno a cui tutto gira: centro e circonferenza del circolo umano. L'IO
è la conoscenza di se. Nella pura coscienza l'uomo conosce sé come sé, come
semplice forma; ed egli aspira a conoscere anco l’interno di se, la sua propria
natura. E Si conosce infatti: nell'arte, come bello, e per dir così
semi-infinito: nella religione, come infinito sensibile; nella scienza, come
infinito di pensiero, e sì come pensiero infinito. Tale è il sistema spirituale
nell' uomo piccolo, nell’individuo particolare. Nell’uomo grande, nell'
organismo politico-individuale che si chiama LO STATO, ci sono le stesse
funzioni. Ci è la funzione economica, agricola, industriale, commerciale:
produzione materiale, frumento o libro; trasformazione ed assimilazione;
circolazione e scambio; nutrizione e consumazione: relazione sensibile fra
tutti gl'individui dei quali il corpo sociale è formato. Ci è la funzione
morale, non più chiusa nell'individuo, ma estesa alla società, manifestata come
relazione attuale fra gì' individui umani. La morale individua diventa dritto
comune; materia della polizia, e del dritto penale. Nessun uomo ha il dritto di
offendere e usar vie di fatto contro un altro uomo, perchè tutti hanno il dritto
che la loro coscienza morale sia rispettata. Il reo non fa contro uno, ma
contro tutti; e non è quindi uno o pochi, sono tutti contro di lui: il
sentimento della comune natura umana reclama la sua punizione. Nessun uomo ha
il dritto di maltrattare un bruto; perchè non è il bruto, è il sentimento della
fondamentale unità della natura umana e animale eh' egli ferisce e maltratta in
tutti gli uomini civili e sensibili. La morale individua è il rispetto della
natura; il dritto morale è l'azione conforme ai fini, ai principii, ai
sentimenti naturali. Egli è dunque una relazione psichica, spirituale, poiché
spirituale è il suo fine. Ci è la funzione giuridica, ed è la relazione
dell'individuo coi suoi annessi naturali agli altri individui similmente
costituiti di cui la società è formata. Quello che invade l’altrui, non occupa
solo una porzione di natura; egli occupa e viola l'anima di un uomo, la quale è
pur quella di tutti gli uomini, membri di uno stesso corpo sociale; e perciò
tutti si levano contro l'ingiusto invasore. Questo tutti è la legge, che
funziona e si esercita in forma di Tribunale. La legge penale sta di rincontro
alla barbarie, alla passione violenta ed alla guerra privata; un tribunale
criminale è in realtà una corte marziale. La legge civile è il principio e la
regola della pacifica decisione. Essa è la libera ragione che si leva di mezzo
agli opposti interessi; e il contrasto troncato in germe, e definito in forma
di piato, non solo non giunge, ma neppur tende alla violenza ed alla guerra. La
guerra è la barbarie; la civiltà è la pace, perchè è la legge, e perciò questa
a ragione è detta civile; e i suoi sono tutti giudici di pace. Ci è finalmente
l’IO comune, conoscenza e volere generale; ed è, come tale, una funzione
formale a cui servono di contenuto e di soggetto tutte le funzioni speciali.
Cosa è dunque lo Stato? Lo Stato è l’insieme di tutte le funzioni materiali ed
economiche, morali e giuridiche, in quanto sono unificate nell'IO comune, che
tutte le penetra e le regola, ed è il punto a cui mette capo ogni particolar
movimento, e da cui parte ogni azione generale. Lo Stato è adunque l'IO, la
coscienza sociale. Tale è la forma: il contenuto è la virtù pubblica, il dritto
civile, il dritto penale, e la pubblica economia. Lo Stato è il giusto, dice
ALBICINI (si veda). Sì certamente; ma il giusto non è che una parte del suo
contenuto; è un elemento della sua natura, il quale piglia nell’organismo
giuridico la sua forma particolare, e la sua realtà naturale. Ma un principe
non è solo un Gran Giudice, e un Parlamento non c'è soltanto per fare il Codice
Civile. Giusto io lo piglio in senso di legge: e la legge io la piglio in senso
di relazione umana in genere. Ed io allora la piglio in senso di relazione
cosmica universale. Bisogna finirla una volta con le idee vaghe ed astratte, e
con le parole indeterminate e generali. Lo Stato è la virtti; dice Montesquieu:
la virtìi è il suo principio ed il suo fondamento, e il vizio è la sua rovina.
Idee generiche, astratte, indeterminate, piene di confusione e di errori. La
virtù, la morale, non è che un elemento, ed una sfera dello Stato. Essa ò per
se individuale; ma quando esce dall'individuo, e promove o turba e nega
l'ordine sociale inferiore, e per così dire individuale, essa allora di privata
diventa pubblica, ed appartiene allo Stato. Che se dall' infima sfera delle
relazioni individuali l'azione si leva alla sfera giuridica, o se anche penetra
nella sfera politica, allora essa perde man mano il suo carattere morale. Un
delitto politico è per poco un non-senso, quando non è che politico: e tale
egli è quando l'animo è puro. Omnia mwnda mundis: puro vuol dir
non-individuale, assoluto, generale. E allora non è a parlar di delitto e di
colpa: in politica non ci è che prudenza ed imprudenza, serietà e leggerezza,
verità ed errore, successo ed insuccesso. Lo Stato ordina i premi e le pene, e
le proporziona alla loro natura morale, giuridica o politica : se non che una
pena politica è quasi un non-senso: essa in realtà non è che un semplice fatto
di guerra, un puro atto di difesa. La virtù, dirà il Montesquieu, io la piglio
in senso di forza, di energia politica. Ed io la piglio in senso di energia
magnetica, elettrica, nervosa, muscolare. L’antiche repubblica romana e fondata
sulla sobrietà e sulla severa continenza, sulla parsimonia e la povertà del
privato cittadino. Roma cadde perchè vi penetrò la ricchezza, la voluttà, il
lusso dell'Asia. Quella io chiamo virtù, questo vizio, rilassatezza,
corruzione, dice Montesquieu, e ripete Napoleone III, e con lui tutti, dal
primo all'ultimo, i francesi. — francesi, questa che voi fate non è la storia,
è il fatto; è la materia appena un po' digrossata, non è l'idea che la
determina e la informa; è il fenomeno, non è il pensiero della storia. E lo
vedrete. Lo Stato è il ben essere, la prosperità, la ricchezza, dice Fourier.
Sì, certamente: anche questo è lo Stato: ed egli cura la produzione, promove
ogni maniera d'industria, e favorisce il commercio con istituzioni, e leggi, e
procedure speciali. Ma la ricchezza non è che il sostrato, il sottosuolo dello
Stato. La ricchezza è la materia, lo Stato è il pensiero: 1' una è il corpo,
l’altro è l' anima. L' anima fa il corpo, ma non è corpo per questo; e
l'Economia politica non è la Politica, non è lo Stato. IL PRINCIPIO DELLO STATO
ITALIANO E LA RELIGIONE, è la Bibbia degli Ebrei, dice Aquila di Meaux, e per
quel tempo non vola male. Ora però, sarebbe il peggio che si potesse dire.
Cotesto ora non è piti un volare, è uno strisciar per le terre, o come talpa
andar per le cieche latebre, odiando la luce e il puro e libero aere della
ragione. E se Dupanloup pure insiste e perfidia, allora io dico che il
principio dello Stato è l'arte, è la Divina Commedia e il Decamerone, il
Barbiere di Siviglia e la Trasfigurazione. Tanto ci ha che far l'una quanto
l'altra, ed io avrò altrettanta ragione. Il principio dello Stato è Dio, dirà
Dupanloup. Sì, certamente; ora finalmente ci siamo. Non è però il Dio della
Religione e dell'Arte, ma il Dio del corpo sociale, il Dio dello Stato. Questo
è che costituisce i Re, che direttamente o per suoi organi crea tutti i poteri
e le autorità politiche; e questo Dio non abita nel cielo; lassù non v'è che il
Dio della Natura: il Dio dello Stato abita nel petto del cittadino, ed è a lui
eh' egli ubbidisce quando rende ubbidienza alle autorità che ne sono i
ministri, il braccio e la parola. Lo Stato non e corpo, è anima. Anima è sapere
e volere, coscienza e azione; e la funzione dello Stato come Stato consiste nel
sapor di essere, e nel volere essere Stato. Questa non è che la sua forma; ma
questa forma è appunto il vero Stato; e la coscienza assoluta ch'egli ha di sé,
e l'azione comune in cui questa si traduce e si spiega, è per l'appunto la sua
funzione essenziale. La coscienza dello Stato per intrinseca ed assoluta
necessità prende una esistenza naturale, e spontaneamente si crea il suo
particolare organismo. Essa è l'anima; ed il sistema dei poteri politici è il
corpo che si crea, e in cui si fa reale. È una creazione immediata e diretta,
ovvero indiretta e mediata, come quella d' ogni principio vitale; ma in
definitivo è la coscienza pubblica, ed è sempre lo Stato che crea i poteri e le
autorità dello Stato. Questa funzione creatrice è 1' elezione. Ma questo corpo
in cui l'anima generale si traduce e si concentra, in realtà non è che una pura
anima: è il semplice potere legislativo. Quest'anima effettiva ed attuale
creata dall'elezione, si crea a sua volta il suo proprio corpo. Tale è 1!
esercito : l' esercito amministrativo e l' esercito militare ; e la finanza è
il sangue di questo corpo generale. L' esercito amministrativo serve per
eseguire o render possibili tutte le funzioni, che compongono la triplice
natura dello Stato: la funzione economica, la morale, e la giuridica. Un
magistrato, un impiegato, il ministro, il Sovrano, è un soldato; e il suo onore
è d'ubbidir fedelmente alla legge, all'anima dello Stato. L'esercito militare
ha un ufficio anche pili essenziale. Esso serve allo Stato per essere, per
esistere; gli serve a difendersi dalle potenze nemiche, esterne o interne, che
ne minacciano la vita economica, politica o morale. Il soldato è il braccio
della legge, e dello Stato; il suo ufficio è di respinger l' assalto o l'
insulto di un altro Stato, e di reprimere le passioni colpevoli che si sfrenano
contro la legge del suo paese, e le istituzioni del proprio Stato: nobile ed
alto ufficio tanto nel primo come nel secondo caso. I due eserciti sono
entrambi assoldati. Sono il corpo, e il sangue vi dee circolare. Il potere
legislativo è l'anima; ed è perciò che non è pagato. Il Sovrano ha una lista
civile perchè unisce in sé le due nature: egli è il tratto d' unione fra il
potere legislativo e l'esecutivo, e personifica in lui l'unità dello Stato : ed
è perciò eh 9 egli è sacro. Sovranità, potere legislativo, potere esecutivo;
tutto questo è forma di forma: la forma essenziale, il vero Stato, è l”IO
assoluto, la coscienza e la volontà generale. Ma non vi è la pura coscienza e
l'astratto volere, e non è possibile una funzione puramente formale. Si è
conscii di essere questo o quello, si vuole e si fa sempre qualche cosa: e lo
Stato conosce e fa da un lato, e dall'altro esegue, la legge economica, la
legge penale, la legge civile. Il Sovrano, il legislatore, l’impiegato, il
soldato, tutti vogliono che lo Stato sia; vogliono che sia prospero, giusto,
savio, forte di tutte le fotze morali, e che possa tutte liberamente spiegarle,
ed esser felice. L'Io è la forma; la forza economica, la virtù, il dritto, è il
contenuto dello Stato. Ma la forma prevale, e domina il contenuto. La morale
domina l'economia: la produzione non è possibile, e il guadagno non è
realizzabile s'egli è immorale. Il dritto domina la morale: la virtù pubblica
impone alla virtù privata. L'Io, la pura funzione formale, domina e modifica
tutte le funzioni speciali che sono il suo essenziale contenuto: lo Stato
domina e modifica il dritto e la morale. Un assoluto vince l'altro: tutti per
sé assoluti, sono fra loro assolutamente RELATIVI (“il relativo hegeliano”). Il
volgo riguarda come piti eccellenti gli assoluti inferiori, perchè piti
naturali, e di più immediata e più sensibile idealità. Il più alto è per lui
l'ordine morale; che sovrasta e primeggia sull'ordine giuridico; 1' ordine
politico è subordinato a tutti e due. In realtà il più eccellente è l'ordine
dello Stato, perchè più generale, e più assoluto e divino; e quando l'armonia
fra i tre ordini e le tre funzioni si rompe, è la funzione formale, la funzione
assoluta dell'essere, quella alla quale appartiene il primato, e prende sopra
l' altre la mano. Scoppia la RIVOLUZIONE dal basso o dall'alto: ribellione,
COLPO DI STATO. Slealtà, tradimento, illegalità, delitto. È vero. La coscienza
morale lo riprova, la coscienza giuridica lo condanna; ma v'è (vi può essere)
una coscienza superiore che l'approva; e se non è la coscienza politica dei
contemporanei, sarà di certo la coscienza politica degli avvenire. La storia
approva IL COLPO DI STATO e LA RIVOLUZIONE popolare, quando è vera funzion di
essere: quando cioè l' essere apparente dello Stato non corrisponde al suo VERO
essere, a quello che esso è nella coscienza del corpo sociale, sia che
oltrepassi, o sia che rimanga al di sotto di questa misura ideale. Invadere la
proprietà d' un cittadino è ingiusto; ma lo Stato può farlo; ed è una giusta
ingiustizia, ed una legale illegalità, perchè in tal guisa realizza il suo
essere, il benessere della comunità, o dell’intiero corpo sociale. La ragione e
il titolo è la pubblica utilità. Questo è un vedere solo il lato esterno del
fatto, che vi è di certo e non può mai mancare, ma non la sua vera ragione. Si
vede la comodità sensibile, ma non si vede il suo interno principio, l'essere
generale realizzato. Ma non è meraviglia. IL CODICE ITALIANO E POCO MEN CHE
TRADOTTO DEL FRANCESE. Le nostre leggi fatte esse pure dal risorgimento,
parlano la sua lingua e ne riflettono le idee. Ammazzare un uomo è ingiusto ed
immorale: è un violar l'ordine naturale; è un toglier all'uomo una proprietà
che 1'uomo non ha creata. Ma lo Stato anche questo può fare. Lo Stato è funzion
di essere; egli è, vale a dire una forza: e l' elemento di questa forza è la
sua corrispondenza e la possibile eguaglianza con la coscienza generale. Lo
Stato è debole quando il suo concetto resta al di sotto o supera quello del
corpo sociale. Il secondo, e non già il primo, è di gran lunga il caso dello
STATO ITALIANO. Egli è perciò che quando la società vede nella pena di morte un
elemento di solidità, ed un pegno di sicurezza generale, abolirla è un errore:
è una fallace utopia, una velleità teorica, difetto di serietà pratica, scipita
sentimentalità, filantropia fuor di proposito; bontà di cuore forse, ma certo
debolezza di mente, che ad altro non condurrebbe che a crescer la debolezza,
già così grande, dello Stato, accrescendo la distanza che lo divide dalla
coscienza pubblica, di cui deve render l' imagine, ed essere la fedele
espressione. Quando l'opinione sarà progredita; quando la coscienza dei
pochissimi si troverà in armonia con la coscienza dei moltissimi, allora lo
Stato e forte, e allora la pena ingiusta, immorale ed inumana della morte si
potrà, e si dovrà senza altro indugio, abolire; perchè allora il PAESE,
divenuto meno incolto e per dir così più spirituale, avrà cessato di
riguardarla come un elemento di esistenza; e non sentirà il bisogno di una
garanzia sensibile tanto barbara e immane. Allora non saranno soltanto pochi
pubblicisti ignoranti e frivoli, ed alcuni legislatori ridicoli, saranno
moltissimi, se non pur tutti, a reclamarne l’abolizione. Si parla sempre
dell'utilità della pena di morte. È l'argomento dei sostenitori, ed è l'achille
degli oppositori. Questo è da una parte e dall' altra un vergognoso errore.
Necessità non è utilità; e quando lo Stato opera in funzion di essere, egli è
in una sfera ideale e assoluta, superiore alla regione della utilità e del
senso. Ma questo sì vergognoso errore era la verità del Risorgimento; ed è
perciò che non se ne vergognava, anzi l'accettava, e ne andava giustameute
superbo: il senso e l'utilità e tutta la sua filosofìa, ed egli condanna allora
la pena capitale come non utile. Venuto più tardi a miglior sentimento, il
Risorgimento respinge l’utilità, e condanna la pena di morte come utile. Egli
scambia per utilità la necessità ideale; e non si vergogna, perchè questo
sofisma è la sua verità: egli è il da ubi consistam della FILOSOFIA positiva.
Ma se ne vergognerà di certo quando di risorgimento sarà passato a secolo
decimonono. Ammazzare un uomo, turbarne i dritti, e violarne il possesso,
attentare all'esistenza dello Stato, che è quanto dire alla vita delle sue
istituzioni, è immorale ed ingiusto; e sarà assai di più ammazzare moltitudini
di uomini, insignorirsi, recare in sé il dominio (e sia pur l'alto dominio)
delle loro proprietà, e distruggere uno Stato. Questo il cittadino non lo può,
non lo dee fare; ma può e dee talvolta farlo lo Stato. L' usurpazione e la
violenza privata è ingiusta; la violenza pubblica e la pubblica usurpazione non
è giusta; è più e meglio di questo, è politica; e si chiama guerra e conquista,
e non più violenza ed usurpazione. La guerra è buona, e la conquista è giusta
legittima e veramente politica, (e dico buona, legittima, giusta per
convenzione, ed in mancanza d'altre parole) quando in esse lo Stato opera in
funzione di essere: quando guerreggia e conquista per vivere per essere, o per
diventare quello che è in sé, e deve anche attualmente essere. Vi sono società
naturali, che la violenza, l'arbitrio, la passione, il caso in una parola,
divide in più corpi sociali, per cui DI UNO SI FORMANO PIU STATI. Ma in tutti rimane
la coscienza della loro identità politica, e della loro natura storica comune.
Yi sono ancora società originariamente separate, in cui l’accidente, cioè
l'arbitrio, la violenza, le passioni umane, col concorso di altri accidenti ed
opportunità naturali, crea una coscienza comune. LA LINGUA ITALIANA, vale a
dire la comunità e la somiglianza fondamentale dei DIALETTI ITALIANI (non mai
la loro identità, che non e' è mai, e non può esserci in natura, ed è una
finzione assurda dei pedanti) è l'organismo sensibile, e l'espressione
approssimativa, e la meno inadeguata, di quella nuova coscienza. La comune
storia è il processo per cui di un gruppo accidentale di popoli e di Stati si
forma a poco a poco un tutto naturale e vivente con una interna unità e un'
anima generale. LA GEOGRAFIA è la condizione esterna dello sviluppo, e l'
occasione più o meno accidentale di questa formazione ideale. La comune
coscienza che si è conservata dopo lo spartimento dello Stato unico originario,
non è più coscienza, ma tende a ripigliare l'antica forma e la primiera
attività; e la coscienza comune che si è sviluppata in un gruppo di Stati
eterogenei non è che il sentimento della loro comune unità: e nell' un caso e
nell'altro questo sentimento è la nazionalità, la coscienza nazionale. E nell'
uno come nell' altro caso ciascuno Stato si trova diviso in se stesso; è un'
anima scissa, con due coscienze distinte ; che l' una è la coscienza propria di
Stato, l' altra è la coscienza comune di NAZIONE. Esso è dunque in realtà due
anime, due esseri, uno attuale, e l' altro possibile; il primo è Stato, l'altro
non è che nazione. LA NAZIONE E LA POSSIBILITA NATURALE DELLO STATO. Ma esso
anche quest'altra parte di sé vuol recare ad atto; esso ha bisogno di esser
tutto il suo essere, e irresistibilmente aspira a far della sua coscienza
politica effettiva, e della sua coscienza nazionale astratta, una sola
coscienza reale. Egli è perciò che lo Stato fa la guerra, e conquista gli Stati
connazionali. È la buona guerra, e la legittima conquista; ma è ancora il
processo barbaro, violento, inconsapevole, passionale, irrazionale. Era altra
volta la buona soluzione; ora è divenuta cattiva: il decimonono secolo è tempo
di coscienza e di ragione, e non ammette che la soluzione consapevole,
volontaria e razionale. Questo succede quando in tutti i corpi sociali si
sviluppa più o meno egualmente di sotto alla loro particolare e diversa
coscienza politica la comune coscienza nazionale. Tutti allora aspirano, e
tutti finiscono per fondersi in un solo corpo di nazione, in una stessa
società, in cui l'antica coscienza nazionale si eleva e si perde ben presto
nella coscienza politica comune. Non è più. la soluzione forzata, è la
soluzione spontanea e razionale. Egli è nel primo modo che si sono costituite
le nazioni moderne; formazioni accidentali, prodotti di guerre e di conquiste
senza ragione, e di nozze fortunate. Tu felix Austria, tu felix Gallia, etc...
nube. La coscienza nazionale non esiste, è venuta dopo. L'Austria felicemente
accozzava delle società affatto eterogenee, fra cui non vi è stato che un
principio di fusione. Si è formato senza dubbio nella Boemia, nell’Ungheria,
nella Iugo-Slavia, una coscienza austriaca. Ma la vera coscienza politica è la
coscienza boema, ungherese e slava; e ciò perchè l' austriaca è una coscienza
astratta, occasionale, non è una possibilità naturale effettuata e completa;
non è lo sviluppo e la realtà della coscienza nazionale. La Francia riuniva con
lo stesso metodo delle nozze, delle guerre ingiuste e delle astute diplomazie,
degli Stati meno inomogenei, in cui pur v’era un avanzo di un'antica LINGUA
COMUNE – FIGLIA DELLA LINGUA MADRE LATINA, testimone di una comune coscienza,
di politica rimasta puramente nazionale, reminiscenza di una potente antica
unità; IL FRANCESE E UNA LINGUA AVVENTIZIA E FORZATA, ma che ha finito per
essere adottata -- coscienza avventizia, ma che era pur venuta, ed aveva finito
per essere LA COMUNE ESSENZIALE UNITA DEL MONDO ROMANO. Ed ecco perchè quei
corpi insieme posti finirono per formar le membra di un solo corpo morale:
fatte però le dovute e ben note eccezioni. Ora la Francia avrebbe l'intenzione
di seguitare in questa via, ed applicare ancora il metodo antico, barbaro,
medieyale. Ma si oppone la natura e la ragione. La ragione è la coscienza nazionale,
è LA LINGUA, ed è la storia. La natura è la geografia: un fiume non è un
confine, ma una via ed un mezzo di unione. La Francia è fuor dei suoi confini
naturali e nazionali. La soluzione spontanea razionale e naturale delle
quistioni nazionali e serbata al secolo della ragione; ED E L’ITALIA CHE NE HA
DATO AL MONDO L’ESEMPIO, ed è il suo onore immortale, e il suo vero primato
civile e morale. Questo esempio la sorella dell'Italia, la Grecia, si appresta
ad imitarlo. La natura lo richiede. La greca penisola è un tutto geografico
perfettamente circoscritto; si direbbe una regione, un nido apprestato per una
sola razza. La ragione lo esige e lo impone; lingua, storia, coscienza
nazionale, solo in parte venuta a coscienza politica, tutto è comune alla Grecia;
e v' è un altro comune principio che la unisce, ed è la religione. Tutto dunque
chiede l'indipendenza e r unità della Grecia, tutto vuole che la Nazione Greca
diventi lo Stato Greco; ma l' Inghilterra non vi trova il suo conto, e con
tutte le forze si oppone, e l'Europa delle crociate, divenuta la positiva e
irreligiosa Europa del Risorgimento, custodisce e protegge con una edificante
unanimità il barbaro e immondo straniero, il musulmano oppressore. L' Italia è
stata piu fortunata. Un grand' uomo uscito dal suo sangue, pervenuto ad.
assidersi sopra un nobile trono straniero, rammenta l'antica madre per la quale
giovanetto aveva pugnato, e pugnava ancora per essa, e le dava la mano a farsi
di una nazione astratta, uno Statò reale. ITALIANO, IO NON SO CHE QUESTO. Tutto
l'altro io l'ignoro, perchè la Storia non è ancor venuta, e non ci ha giudicato
sopra. Ora non vi è che la morale e il dritto, e le piccole passioni politiche
dei francesi, tutti incompetenti nella quistione. Ma di quel che il grand' uomo
ha operato per l'Italia siamo competenti noi; e non sono ingrati tutti gì'
Italiani. L'Italia per viriti propria, e per generoso aiuto, che appena è che
possa dirsi straniero, è salita dalla coscienza nazionale alla coscienza
politica. Ma se quella è forte e potente, questa è ancor debole ed incompleta.
Le sette antiche coscienze politiche, nelle quali la sua coscienza nazionale
era scissa, non si sono tutte egualmente amalgamate in una coscienza politica
comune. Le deboli sono scomparse; ma ve n'è qualcuna forte, che resiste e
permane, ed è L’ANTICA COSCIENZA PIEMONTESE. Il Piemonte ha tre coscienze in
lotta fra loro. La coscienza nazionale, che in lui era, ed è senza dubbio ancor
forte, non si è pienamente trasformata. Essa è rimasta nazionale, astratta; ed
ha solamente prodotto di sé una coscienza politica italiana debole, parziale,
incompleta, poco men che astratta, piena di riserve e di eccezioni. Essa è
incompleta e debole di tutta la realtà e la forza che rimane alla VECCHIA E
TENACE CO-SCIENZA PIEMONTESE, di cui la permanente è l'espressione. Questo
SAMMARLINO (si veda) lo ignora ; ed è in una perfetta buona fede. Egli in
travvede in lui una forte coscienza nazionale, e allato a una profonda
coscienza municipale (certo indebolita da quello che era prima) vi trova un
chiaroscuro di coscienza politica italiana, e dice: io sono quanto si può più
essere italiano. E se lo crede. Sammartino non ha tutti i torti : egli è senza
dubbio italiano; ma quel suo quanto si può essere, o quanto altri sia, è una
sua ESAGERAZIONE.. Nobile esagerazione, inganno volontario e generoso,
illusione che genera in lui la coscienza nazionale, la quale fa sentirgli il
bisogno di giustificarsi ai proprii occhi e agli altrui. Ma in tanta
complicazione il valente uomo non ha tale abito e tal forza d'analisi da
rendersi conto del proprio essere, per cui diviene il giuoco della sua
immaginazione. Egli è perciò che è in buona fede. Tutti gli uomini ci sono qual
pili qual meno allo stesso modo. Ma il tempo è galantuomo; e s’egli ha potuto
sviluppare in tutto il mondo antico una COSCIENZA ROMANA: se sulla vera
coscienza magiara, czeca e jugoslava ha potuto inserire una coscienza
austriaca; se finalmente nella tedesca Alsazia e nella Lorena punto del mondo
francese, ha potuto (incredibile a dirsi, e mostruoso a pensare) destare una
coscienza politica francese: ben saprà creare una vera coscienza italiana in
quel Piemonte, che pure è il primo fra tutti i paesi della moderna Italia: in
quel Piemonte, che nel momento in cui la grande storia italiana del Medio Evo
ha termine, quando tutto intorno tace, s'avviliva e s'abbandona, e la nazione
intiera scende nella tomba della servitù straniera e papale, egli solo non s'
abbandona; e che rimasto jnfino allora nell'ombra, sorge a un tratto giovane e
vigoroso, e ripigliava in sua mano il filo e creava la nuova storia italiana, e
per lui ed in lui l'Italia vive ancora. E quando a nostra memoria si riapriva
1' antica tomba, e l'Italia vi scende di nuovo, rimaneva egli solo sulla
breccia, e lottava animosamente, eroicamente, e compiva alla fine il destino
della patria: onore a cui dalla provvidenza della storia era visibilmente
riserbato. Ah non tutti gl'Italiani sono ciechi e ingrati! Certo il tempo saprà
identificare la coscienza piemontese, che dopo tanta e così grande storia, fuor
di proporzione con la materiale grandezza di quella nobile provincia, è
naturale sia permanente e resista alla grande coscienza politica italiana. E
sarà allora galantuomo davvero. Quando ciò sia avvenuto, e che in tutta l'Italia
non vi sarà che una sola coscienza politica, allora non vi sarà più soltanto
una grande nazione, ma un vero e forte Stato Italiano. L'Io, la coscienza
sociale, è adunque il vero e proprio elemento dello Stato; ed è una funzione
puramente formale che domina e modera e modifica la funzione giuridica, e la
funzione morale. Lo Stato toglie la vita, e turba e invade la proprietà del
cittadino; fa la guerra per esser quello eh 9 egli è, o quel che dev'essere, e
toglie la proprietà, la vita, l’essere indipendente, allo Stato vicino. Tutte
cose che l'uomo privato non può fare, e che gli sono permesse, doverose anche
talvolta y quando, divenuto uomo pubblico, la sua coscienza s' immedesima e si
confonde con la coscienza assoluta dello Stato. Allora è illecito e reo tutto
ciò eh' egli può far nel suo particolare interesse, ma è lecito e buono tutto
ciò che fa in vista dell' interesse generale. La fusione e l'amalgama succede
sempre in una certa misura, ed è tanto pili completa quanto l'uomo è più alto
locato, finche nel capo dello Stato i due interessi non ne fanno più che un
solo. Dal momento che si separano, il tiranno è perduto: egli allora non è piu
lo Stato, è un altro; è un corpo estraneo contro a cui l'intiero organismo si
solleva, e scoppia la crisi. La crisi, la rivoluzione, è un processo di
guarigione. Il morbo è la tirannia, l'anarchia: forme dello stesso disordine;
tutte e due passione e sfrenato arbitrio; ed anarchia tutt' e due. U&rche
non è né questo, ne quello; né uno, né pochi, ne molti, ne tutti: l’arche è la
ragione. Il principio dello Stato, la sua vita, il suo vero essere, non è il
giusto, non è il morale, non è l' economico. Tutto questo egli lo contiene in
sé; ma come Stato egli è l'unità consapevole organizzatrice e moderatrice di
tutte le forme, di tutti gli organi, di tutte le funzioni sociali. Questo è lo
Stato, e qui finisce l'attività politica, la vita pubblica; ma qui non finisce
la vita umana, e non è anche tutta la storia. Sotto allo Stato vi è il dritto,
la morale, la pubblica economia; ma vi è sopra allo Stato un mondo piìi etereo,
piìi,assolutò ed universale che non è il suo; vi è il mondo dell'arte, il mondo
della scienza, e il mondo della religione. Il mondo della verità è di sopra al
mondo della natura e dell'azione. Lo Stato è l'unità, la coscienza, la forma
pili alta, e la pili perfetta e più generale esistenza delle funzioni a lui
inferiori. Lo Stato non è che la base e la reale possibilità delle funzioni a
lui superiori. L'arte è una funzione naturale, e perciò rimane affatto individuale.
Vi è un mondo estetico, ma non vi è una società artistica: vi sono soltanto
degl’artisti e dei poeti; e la parte dello stato è di render possibile lo
sviluppo del talento estetico, e rispettarne la spontaneità ed il libero
giuoco. Egli non ha dritto sull'artista se non quando egli abusa e tradisce
l'Arte, ed esce dalla sua natura. L'Arte non è la morale o il dritto, e può
essere immorale e ingiusta a sua posta: ma finché rimane Arte la sua immoralità
non contamina, e la sua ingiustizia può esser sublime, atta solo a sollevare e
fortificare i caratteri, non mai ad avvilire e degradar l' animo umano. Ma dal
momento che essa esce dalle sue condizioni di Arte, essa non è pili che
immorale ed ingiusta, e allora lo Stato interviene: interviene in nome della giustizia
offesa, e della morale violata; funzioni inferiori, che gli sono tutte e due
subordinate, ch'egli dirige ed ha in sua tutela. L'Arte non è la religione, e
può a sua posta essere empia ed irreligiosa: ma la sua irreligione è sublime
ispiratrice di grandi e puri pensieri, e di religione vera e pura. Che s' ella
trasgredisce le proprie sue leggi, ed esce dalle sue condizioni vitali, e non è
più che semplice e sguaiata irreligione; in tal caso lo Stato non interviene.
Egli dirige e modera le funzioni che sono al di sotto e dentro di lui, ma non
amministra la verità religiosa che gli è superiore. L'Arte non è la Scienza; è
in un certo senso il suo contrario: che s' ella esce dalla sua natura di senso
ideale, e si atteggia a ragione e a idea; tanto peggio per lei. La Religione è
una funzione dirò così spiritiforme: la sua natura è sensibilmente spirituale,
ed il suo carattere è di essere naturalmente universale. Egli è perciò che
mentre l'arte rimane nella sua inconsapevole particolarità, la religione viene
a coscienza, e si forma un Io sociale superiore all'Io dello Stato: e di fuori
e di sopra alla società politica si forma una società religiosa. Il luogo di
questa alta società non è la terra, è il cielo: l'uomo religioso ha i piedi su
questo umile suolo, ma la sua anima è altrove. La sua funzione è tutta celeste;
essa è riflessione e adempimento del destino umano: contemplazione della
infinita natura dell'uomo, rappresentata nel mondo infinito della grande
fantasia; conseguimento della infinita felicità mediante il possesso dell'
infinito della religione. La funzione religiosa dello Stato è di render
possibile la formazione, e libero lo sviluppo e l'azione, della società
religiosa. La religione non è né scienza, né arte, ne economia, ne morale. Essa
può dunque essere a sua posta inestetica e goffa, creare simboli mostruosi e
informi, miti ributtanti e triviali; PUO PROFESSAR TUTTI GLI ERRORI FILOSOFICI
astronomici, teologici, politici CHE VUOLE. Tanto meglio per lei; sarà più
creduta, e più stimata e rispettala. Può la religione professare tutte le
assurdità morali e giuridiche che le piace. Può attribuire a Dio tutte le
passioni umane, sopratutto le piu barbare, e pu perverse e colpevoli, quelle
che l'uomo moderno pih si rimprovera, e maggiormente arrossisce quando se ne
lascia sorprendere e dominare. Sarà per lei tanto meglio: maggiore sarà la
riverenza, il terrore religioso, il timor di Dio. La religione può a suo
beneplacito credere ed insegnare che i figli sieno responsabili dei peccati dei
padri, come lo insegna e lo crede Mosè, in un tempo ed in un paese in cui non
v'E ANCORA IL DIRITTO ROMANO, e il Codice Civile era di là da venire. Se questo
vi fosse stato, non sarebbe venuto in mente a Mosè una siffatta idea, e non
avrebbe insegnato un così sterminato errore. Quella era pertanto la verità
giuridica e la verità religiosa del suo tempo: due gradi e due forme non per
anco distinte, confuse ancora in una verità sola. Oggi la distinzione è
avvenuta: la verità giuridica del Codice Mosaico, convinta e condannata di
falsità, è sostituita dalla verità giuridica del Codice Civile, nel modo
istesso che all'astronomia di Giosuè e del Santo Uffizio è sottentrata
l'astronomia di Copernico e di GALILEI. Ma come verità religiosa è rimasta in
piedi: crede il popolo ed il comune che l' innocente è colpito col reo dalla
vendetta divina. E si crede anche oggi come tre mila anni sono il dogma che
insegna che la colpa del primo uomo s' è naturalmente trasmessa a tutti gli
uomini. Questo dogma non è che l'applicazione in grande del principio
giuridico-religioso di tre mila anni sonò, e quel che lo rende piti
meraviglioso, e perciò più credibile al popolo ed al comune, si è che quella
colpa era la curiosità di sapere, il bisogno di conoscere il vero : jcolpa
grave, imperdonabile agli occhi del dogma religioso. Un dogma simile viola
apertamente il Codice Civile, e violentemente urta ed offende il 'senso morale;
ma non è che una offesa ed una violazione religiosa, e lo Stato non interviene
per far rispettare il Codice Civile ed il senso comune. La rappresentazione
succede in una sfera superiore, e lo Stato ne rende possibile lo sviluppo e
libera la manifestazione, e la rispetta qualunque ella sia. Ma se l' azione
religiosa esce di questo campo, e deposto il proprio carattere, si spinge nella
sfera dello Stato, e diventa irreligiosamente immorale, ingiusta ed impolitica,
allora lo Stato interviene, e si fa rispettare. Questo inevitabilmente succede
alle religioni che di spirituali si fanno temporali. Peccato è loro e non
naturai cosa: di loro è la colpa e non dello Stato: e perciò tanto peggio per
loro. Finalmente, al di sopra dello Stato, e sì dell'Arte e della Religione, vi
è la scienza, LA FILOSOFIA. Ma qui l'individuo s'identifica e si perde nel puro
assoluto universale, per cui l'Io filosofico non prende alcuna forma naturale.
Non vi è quindi una società filosofica, vi è soltanto il mondo della filosofia,
il mondo del pensiero, della verità assoluta. Lo Stato non interviene in nessun
caso in questo ultimo empireo: egli né il dee, né il può; egli è natura, e non
ha presa su ciò che non è naturale. Lo Stato non può entrare nella sfera della
scienza senza disertare la sua, senza perdere il suo carattere essenziale, e
cessar di essere Stato. Lo Stato del decimonono secolo lascerà dunque insegnare
chi vuole, e checché vuole, anche il Prete ed anche il Demagogo? Non già; non
mai. Insegnare non è pensare e recare in mezzo il proprio pensiero; è invece
agire, educare e preparare all'azione, ed appartiene quindi allo Stato; e
insegnare un principio repugnante e contraddittorio a quello dello Stato, è uno
scalzare lo Stato, che non può certo trovarci il suo conto. Lo Stato è funzion
di essere, di vivere; e nessuno ha gusto di lasciarsi ammazzare, sia di ferro o
sia di veleno; e i cattivi principii sono velenosi allo Stato. Il principio
politico dei Gesuiti è la Religione, la loro; e quello a cui in ultima analisi
tutto mette capo, ed a cui il cittadino ubbidisce, è l' autorità religiosa. Il
principio dello Stato moderno è invece l'Io, la ragione; è la coscienza
pubblica, la pubblica opinione; e quello a cui il cittadino ubbidisce, è lui
stesso: in ciò consiste la libertà civile. Il principio del Demagogo è la
libertà sensibile, e l’eguaglianza materiale. Il principio dello Stato moderno
è la libertà ragionevole, l'eguaglianza assoluta, ideale. Egli è perciò che lo
Stato limita e nega la libertà del Demagogo e del Prete, e li pone tutti e due
fuor dello Stato — né elettore né eleggibile — e fuor della scuola — né maestro
pubblico, né insegnante privato. Il giornale è una scuola, e non può quindi
godere una libertà illimitata. Ogni cosa ha il suo limite nella sua propria
natura, e la libertà ha il suo limite nella natura dello Stalo. Questa è la
libertà vera e buona, perchè concreta: la libertà indefinita, astratta, è la
stolta, .assurda, micidiale e pestifera; e perciò lungi da noi. La libertà non
appartiene che alla libertà. Solo quella stampa, queir insegnamento, e quella
qualunque siasi attività dee poter liberamente agitarsi e spiegarsi nella sfera
dello Stato, che ne osserva e professa il principio generale, e vive dello
stesso elemento assoluto. La religione, l'arte, la scienza non sono
assolutamente libere che nel proprio elemento, e nella loro sfera speciale, e
qui lo Stato non può, non dee, non ha facoltà di mettere il piede. E però
quando io vedo un Ministro chiuder la bocca a un insegnante né demagogo né
prete, ma liberale, perchè professa delle particolari idee che in un certo
mondo — Dio sa che mondo — non sono ricevute ed accettate; io lo rispetto
troppo per dir eh' egli abusa delle sue facoltà, ma dico che varca il limite,
ed oltrepassa la sfera dello Stato : dico che agisce in nome di un principio
particolare, religioso o scientifico, io non lo so; so soltanto che non è il
suo; e non ha come Stato facoltà di porvi la mano: e che il Ministro mi scusi,
e mi perdoni il Consiglio Superiore. Lo Stato non è adunque che la possibilità
effettiva e naturale della vita artistica, della società religiosa, e della
pura attività scientifica. La sua funzione consiste nel renderle tutte e tre
possibili mediante l'Istruzione e la Pubblica Educazione ; ma non ha ufficio, e
non può altrimenti intervenire nell'arte, a promulgar le leggi del gusto, e
prescriver la rettorica e la poetica mediante decreto: e così non può decretare
la verità religiosa. Non vi è, non vi può essere, una religione dello Stato:
cotesto è un controsenso, un non senso, un errore. Sent from the all new AOL
app for iOS Opere di M. Studi su M. - Opere ed articoli che a lui accennano - Recensioni
di suoi scritti » La vita e la storia del pensiero di M. . La famiglia e i
primi anni Nel R. Collegio di Chieti La vita intellettuale a Napoli Le scuole
private. Gli studi letterari, filosofici, scientifici M. a Napoli. I suoi
studi. La sua scuola privata . Gli avvenimenti a Napoli Le vicende di M.. Il
processo e l'esilio. La dimora in Francia. Il De Meis medico A Torino «quando
l' Italia era colà » . M. e i suoi amici: SPAVENTA, SANCTIS, MARVASI. La
corrispondenza col De Sanctis. L'attività intellettuale di M. e la sua
metempsicosi; M., professore all'Università di Modena. Il ritorno a Napoli M. a
Bologna. L'insegnamento. La vita famigliare, sociale e politica. La morte. Il
testamento La personalità di M. Lo svolgimento del suo pensiero. Perchè la sua
opera è frammentaria I momenti di sviluppo del pensiero di M. Il Dopo la
laurea. La storia della filosofia esposta dal M.. L'antichità o il periodo
dell' oggettivismo. Il passaggio dall' oggettività alla soggettività. La
filosofia moderna o soggettiva La filosofia hegeliana giudicata da M. Rapporti
fra medicina e filosofia. La medicina hegeliana . Influenza dell'hegelismo
sulla scuola medica napoletana. M. e gli altri hegeliani di Napoli. Limite tra
la fisiologia e la metafisica, Le opere scientifiche e la filosofia della
natura. .Il Dopo la laurea e l’orientamento filosofico. Gli scritti
scientifici, Lettere geologiche sul M. Majella negli Abruzzi, Sul sessualismo e
la fecondazione delle piante in coerenza alle dottrine della morfologia, Saggio
sintetico sopra 1' asse cerebro-spinale e la diagnosi delle sue malattie per
rispetto alla loro sede. Intorno l'asse cerebro-spinale. Considerazioni
anatomiche sul salasso locale Teoria dell'ascoltazione Dello stato e del
carattere attuale delle scienze naturali; Nuovi elementi di fisiologia generale
speculativa ed empirica; Del principio vitale; Idea della fisiologia greca; Le
opere scientifico-filosofiche; Idea generale dello sviluppo della scienza
medica in ITALIA nella prima metà del secolo. Del metodo delle scienze mediche
( Considerazioni sopra l'infiam. Il momento rivoluzionario e il momento
moderato del De Meis. L'evoluzione delle sue idee politiche e la trasformazione
del partito liberale italiano li. L* idea dello Stato. Lo Stato come campo
libero all' arte, alla religione, alla scienza e alla filosofia. Lo Stato e
l'indi- viduo. Stato e nazione. Stato oggettivo e Stato soggettivo. Il limite
dello Stato; L'idea della sovranità. Il culto per la dinastia Sabauda .La lotta
contro il pensiero e contro 1' azione del partito progressista. Il suffragio
universale e lo scrutinio di lista. II giurì. La legislazione e le ingiustizie
sociali. Il socialismo secondo M. Contro l'abolizione della pena di morte Il
divorzio. La donna I rapporti fra lo Stato e la Chiesa. L'abolizione delle cor-
porazioni religiose. Le corporazioni religiose e l' insegnamento. Le spese del
culto e i culti non cristiani. L' Italia e il papato; Lo Stato e l'istruzione
pubblica. Insegnamenti obbligatori e insegnamenti facoltativi. I tre gradi di ogni
insegnamento scien- tifico. Le facoltà universitarie. Il liceo Magno e l'
istituto tecnico inazione dei vasi sanguigni. I mammiferi. Fisiologia.
Prelezione al corso di fisiologia dato nella R. Università di Modena nell'anno
scoi. Gl'ippocratici e gli antippocratici Lettere fisiologiche Le opere
scientifico-filosofiche La jatrofilosofia. La medicina sperimentale. La
medicina storica o razionale. La medicina religiosa. La natura medicatrice. La
patologia storica IV. Jlncora il terzo periodo. La filosofia della natura. La
creazione secondo M.. La lotta di M. contro la teoria darwiniana. Il suo metodo
trimorfo. La dimostrazione dei suoi principi. L' accidentale e il necessario
nella sua concezione filosofica. Le idee politico-sociali e pedagogiche. medico.
L'insegnante unico. Gli esami. La libertà d'insegnamento. I malefici della
cattiva coltura e di Mazzini. Due discordi Sacerdoti d'idee: M. e il Mazzini.
Le idee estetiche e religiose. La coltura letteraria. Il suo stile. Il suo
epistolario. I suoi giudizi sulla terminologia scientifica, sulla lingua
italiana, sull' affratellamento delle lingue e sull' uso del fran- cesismo. M.
critico letterario II. La profonda religiosità del De Meis. La sua negazione di
un Dio personale e la sua critica del Dio cartesiano, dell' antinomia kantiana
e dei dogmi dei Santi Padri. Il suo giudizio sui culti non cristiani, sul
cristianesimo e sulle varie forme di esso III. La «metempsicosi» dell'arte e
della religione nella filosofia secondo M.. La storia del genere umano: oriente,
antichità, tempo moderno o cristianesimo. Il tempo moderno : medio evo,
risorgimento, secolo XIX. Il mondo latino e il germanico. Il risorgimento o
negazione e i suoi prodotti : il romanzo, la filosofia positiva, la musica. Il
secolo XIX e l' unificazione di tutte le correnti umane. La religione e l'arte
considerate come gradi e forme del vero. Valore degli argo- menti storici e
logici addotti da M. Ottimismo e misticismo del De Meis. Rapporti tra il suo
hegelismo e il suo misticismo e la sua mentalità scientifica. Significato e
valore della sua filosofia della natura. Lettere geologiche sul Monte Majella
negli Abruzzi, nel Lucifero, Gior- nale scientifico - letterario - artistico -
industriale, Napoli, Filippo Cirelli, Anno IV, Uomini utili alla società: Samuele
Pierantoni, nel giorn. // Vigile di Chieti, Sul sessualismo e la fecondazione
delle piante in coerenza alle dottrine della morfologia. Memoria letta alla
classe fisico-matematica della Reale Ac- cademia bavara delle scienze dal Prof.
Martius, dal tedesco voltata in italiano da M., nel «Filiatre-Sebezio» Giornale
delle scienze mediche diretto e compilato dal cav. Salvatore De Renzi, Napoli,
Tip. del Filiatre-Sebezio, Saggio sintetico sopra l'asse cerebro-spinale e la
diagnosi delle sue malattie, per rispetto alla loro sede di A. C. De Meis socio
dell'Accademia degli aspiranti naturalisti e medico aggiunto dello Spedale
degl'Incurabili. Presentato al 5° congresso degli scienziati italiani -
convocato in Lucca. Na- poli, Coster. Intorno l'asse cerebrospinale. Memoria di
Giuseppe Meneghini tradotta dal latino da A. C. De Meis per cura e per uso
dello studio privato del prof. Pietro Ramaglia, Napoli, Barnaba Cons,
Considerazioni anatomiche sul salasso locale, presentate al VII Congresso degli
scienziati italiani celebrato in Napoli, Napoli, Stab. Coster, Teoria dei
fenomeni acustici della respirazione, Napoli, F. Vitale, [Dedicato a Luigi La
Vista]. Teoria dei fenomeni acustici della circolazione, citato dall'Autore in
Teoria dell'ascoltazione, Torino, Pomba, p. Vili [La Teoria dell'ascoltazione
(v. infra) riunisce sotto un titolo comune questa dissertazione e la
precedente]. Dello stato e del carattere attuale delle scienze naturali.
Discorso di M. presidente dell'Accademia dei naturalisti di Napoli - detto nella
pubblica adunanza, Napoli, Stab. tip. all'insegna dell'Ancora, M. deputato di
Abruzzo Citra agli elettori della sua provincia, Napoli. Discorso inaugurale di
A. C. De Meis neli'assumere l'ufficio di rettore del Collegio Medico.
Pronunziato e pubblicato dagli alunni del Collegio Medico, Napoli, F. Vitale,
Proposta di un nuovo sistema di insegnamento pel Collegio Medico. Napoli,
Federico Vitale, Discorso di A. C. De M. ex-rettore del Collegio Medico nel
deporre il suo ufficio, Napoli, Vitale, Nuovi elementi di fisiologia generale
speculativa ed empirica. M. già deputato al Parlamento. [Manifesto]. Nuovi
elementi di fisiologia generale speculativa ed empirica di M. già deputato al
Parlamento Nazionale. Del principio vitale. Napoli, F. Vitale, Lezioni orali,
raccolte per cura degli uditori ed amici dell'Autore, e, lui assente, da essi
pubbli- cate ». (Cfr. la bibliografia che precede la Teoria dell'ascoltazione,
To- rino, Pomba). Sono nove lezioni, dedicate a Pietro Ramaglia]. Chiarimenti
al teorema di Hamberger sull'azione dei muscoli intercostali, Napoli,
Fisiologia generale. Evoluzione logica del principio vitale. Idea della
fisiologia greca per A. C. De Meis ex-deputato, Napoli, Stab. tip. all'insegna
dell'Ancora, [Dodici lezioni in conti- nuazione dei Nuovi elementi ecc.].
Teoria dell'ascoltazione, Torino, Cugini Pomba e comp. edit., Idea generale
dello sviluppo della scienza medica in Italia nella prima metà del secolo. Note
di A. C. De Meis. Torino, Tip. Pavesio e Soria. [Dedicate alla memoria di Luigi
La Vista e di Casimiro De Rogatis]. Del metodo delle scienze mediche. Lettera
al professore Carlo Demaria, To- rino, in Giornale della R. Accademia
medico-chirur- gica di Torino, anno VII, voi. XX, Torino, Favale Considerazioni
sopra l'infiammazione dei Vasi sanguigni nel Giornale della R. Accad
medico-chirurgica di Torino, Tip. di G. Favale e Compagnia, Torino,Torino,
Torino, [Nella seconda, nella terza e nella quarta puntata il titolo è :
Considerazioni sopra la flogosi dei Vasi sanguigni. Nella quinta puntata e
nelle successive il titolo è : Considerazioni critiche sopra la flogosi ecc.].
/ mammiferi,Torino,Tip. del Picc. Con. d'Italia. L'opera è preceduta da
un'affettuosa lettera dedicatoria « al professore Francesco De Sanctis a
Zurigo. Sulla copertina dei Mammiferi si legge: « Quest'opera si com- porrà di
tre volumi : il primo conterrà YIntroduzione, il secondo i Generi, il terzo le
Specie dei mammiferi, e sarà pubblicata a fascicoli di circa 5 fogli a ragione
di centesimi trenta per ciascun foglio. Tutta l'opera sarà composta di circa 70
fogli... »]. Fisiologia, Torino, Franco, Estratto dalla Nuova enciclopedia
popolare del Pomba). Gl'ippocratici e gli antippocralici, nella Rivista
contemporanea, Torino, dalla Società l'Unione tip. editrice, Lettere fisiologiche.
Lettera I, nella Rivista contemporanea, Torino, dal- l'Unione tip. Editrice.
Definizione della vita], . [Il De Meis, sotto la data di Modena, espone l'idea
del corso di fisiologia iniziato in quella Università « e che con dispiacere
sono ora costretto ad interrompere ». Cfr. infra: Prelezione al corso di
fisiologia ecc.]. Agli elettori di Manoppello, (ppNapoli Prelezione al corso di
fisiologia dato nella R. Università di Modena nel- l'anno scolastico Napoli,
Stabil. tipogr. di T. Cottrau, Il Collegio Medico-chirurgico di Napoli e la «
Monarchia nazionale », Na- poli, Stab. tip. F. Vitale, [Polemica anonima contro
il giornale la Monarchia nazionale. Reca la data del 2 gennaio 1862]. Degli
elementi della medicina, Prelezione di M. professore di storia della medicina
nella R. Università di Bologna, Bologna, Monti, Della natura medicatrice.
Lettera prima al prof. Cesare Taruffi, in Bullettino delle scienze mediche
pubblicato per cura della Società medico-chirurgica di Bologna. Bologna, Tipi
Gamberini e Parmeggiani, La chimica fisiologica, Lettere, Fano, nel giornale
L'Ippocratico). [Sono due lettere: I. La vita; La chimica inorganica. - l De
Meis si era proposto di scriverne dodici, e di pubblicarle pei tipi del Le
Monnier. Questi insistette molto, anche per mezzo di Marianna
Florenzi-Waddington, per averle dall'Autore ; ma invano]. / naturalisti,
Dialogo 1°, nella Civiltà Italiana, Firenze, Niccolai, dir. da A. De
Gubernatis, La natura a volo d'uccello : Forza e materia, Dialogo, nella
Civiltà Italiana, Firenze, Niccolai, dir. da A. De Gubernatis, La natura a volo
d'uccello: Un nuovo corpo semplice, Dialogo, nella Civiltà Italiana, Firenze,
[Questo dialogo e i due pre- cedenti sono citati nei “I Tipi animali” col
titolo: “I tipi naturali.” De Meis deputato di Chieti ai suoi elettori,
Bologna, Monti,Reca la data: Bologna tipi VegetaU. Ad uso delle scuole
italiane, Bologna, Monti,[È, dedicato alla contessa Teresa Gozzadini]. Lettere
[il testo: lettera] sulla patologia storica. Lettera I. Si dimostra che l'uomo
era in origine assolutamente sano. Estr. dal Bull, delle scienze mediche di
Bologna, Delle prime linee della patologia storica, Prelezione al corso di
storia della medicina per M., Bologna, Monti, Il sovrano, nella Rivista
bolognese, periodico mensuale di scienze e letteratura, compilato da Albicini,
Fiorentino, Siciliani e Panzacchi, Bologna, Monti, [Ristampato, con notizie e
documenti della polemica a cui lo scritto diede luogo tra Carducci e
Fiorentino, da CROCE, nella Critica, Vili Dichiarazione nella Gazzetta
dell'Emilia, [Si riferisce alla polemica ora accennata. Fu pubblicata anche nel
giornale La Patria di Napoli, a. Vili; e fu ri- stampata dal CROCE, nella
Critica, Vili sovrano. Al signor G. B. Tahiti. [Articolo Il|, nella Rivista
bolognese, Bologna, Monti, [È una lettera, con la data: Bologna. Dopo la laurea
- Vita e pensieri [parte prima|, Bologna, Monti, Bologna, Monti, Le prime
cinque lettere erano state pubblicate qualche anno prima nel giornale
L'Ippocratico di Fano. L'Intermezzo pubblicato nella Rivista bolognese, prima
della pubblicazione del volume]. La natura medicatricc e la storia della
medicina, Lettera al prof. Salvatore Tommasi, Bologna, Monti, (Estratto dal
fase. 8° della Rivista bolognese, Bologna. [Fu pubblicata anche nel Morgagni,
Della medicina sperimentale, Prelezione, Bologna, pubblicata anche nel Morgagni
di Napoli, Lo Stato, nella Rivista bolognese, Deus creavit, Dialogo I, nella
Rivista bolognese, Della utilità dello studio della storia della medicina,
[Prelezione], Estratto dalla Rivista Partenopea Testa e Bufalini. Lettere IV,
Fano, Lama, 1870 (estr. dall'Ippocratico). Sintesi ed episintesi, Prelezione,
Bologna, Monti, Pubblicata sotto il titolo di « Prelezione » nei Tipi animali.
I tipi animali, Lezioni, [parte prima], Bologna, Monti, [La Prelezione era 3
stata pubblicata prima (v. Sintesi ed episintesi). La lezione fu pubbl. nel
Giornale napoletano di filosofia e lettere, dir. da Spaventa, F. Fiorentino e
V. Imbriani, col titolo: I tipi animali (Da Linneo a Darwin)]. Prenozioni,
Bologna, Tip. di G. Cenerelli, Del concetto della storia della medicina,
Prelezione, Bologna, Monti, La medicina religiosa, Prelezione, Bologna,
Monti,pubblicata anche nel Giornale napoletano di filosofia e lettere, scienze
morali e politiche, diretto da Fiorentino). All'onorevole signor commendatore
Gaspare Monaco La Valletta senatore del Regno, presidente dell'Associazione
costituzionale di Chieti, Bologna, Monti, [È, una lettera, con la data:
Bologna, Il canonico di Campello e la stampa tedesca, nella Gazzetta dell
Emilia, [Anonimo. Si finge tradotto dal tedesco]. La malattia dell' on. Sella,
nella Gazzetta d'Italia, [giorn. di Firenze], [Anonimo]. Agli elettori del 1°
Collegio di Chieti, Bologna, Monti, Filosofia e non filosofia, Discorso inaugurale
per la riapertura degli studi nella Imperiale Accademia di Krenztburg del dott.
E. K. Mayow, prof, di zoologia in detta Università, tradotto dal tedesco,
Bologna, Monti, Francesco De Sanctis, Bologna, Fava e Garagnani [Estratto dai
nu- meri 8-11 della Gazzetta dell'Emilia, opuscolo di pp. 18, in -16°, firmato
« Camillo ». Ristampato nel volume In memoria di Fr. De Sanctis, Na- poli,
Morano, XVII Spaventa [Necrologia di], nella Gazzetta dell'Emilia (Monitore di
Bologna). Fiorentino, Necrologia, Bologna, Fava e Garagnani, [Estratto dalla
Gazzetta dell'Emilia, Opu- scolo. Spagnolismi e francesismi. Note di Ange i
Antonio Meschia maestro elementare in Zangarona Albanese, Bologna, Monti.
Darwin e la scienza moderna, Discorso del prof. Camillo De Meis per la solenne
inaugurazione degli studi nella R. Università di Bologna nell'anno scolastico,
Bologna, Monti. [Stampato anche neWAnn. della R. Univ. di Bologna]. Rialzare
gli studi, Estratto dal giornale L'Università, Bologna, Società Tip. già
Compositori, (pp. 12, in -8°). Repubblica o monarchia (Da un album), nel Sancio
Panza, Bollettino quo- tidiano di Bologna, stampato e redatto nella sede
dell'Esposizione Emiliana, N. Primo; segue una polemichetta nel giorn. cit.
numeri [La pagina d'album e la polemica furono ripro- dotte in un opuscolo,
edito a Bologna, Fava e Garagnani,]. Corso di storia della medicina nella
Università di Bologne - Appunti sul- l'introduzione al corso e sulla medicina
orientale, nell'Università, Bo- logna, A. Idelson, . [Uscì pure in un opuscolo,
estratto dall'Università, Bologna, Azzo- guidi]. Lettere di M. a Spaventa,
pubbl. da G. GENTILE, Napoli, Melfi e Joele, 1901, per nozze Salza-Rolando [Tre
lettere ed un telegramma di M. sono state pubblicate in Maria Teresa di
Serego-Allighieri Gozzadini, seconda edizione ampliata con pref. Di CARDUCCI,
Bologna, Zanichelli, (la prima è la dedicatoria dei Tipi vegetali); una lettera
da G. CANEVAZZI, Autografi inediti pubblicati per le auspicatissime nozze del
tenente nobile Orazio Toraldo di Francia con la gentile signorina Gina Mazzoni,
celebrate in Firenze il III luglio MCMXI, Modena, Soc. tip. Modenese. Altre
lettere di M. sono state pubblicate da CROCE nel volume Silvio Spaventa - -
Lettere scritti documenti, Napoli, Morano, 1898; e negli articoli su // De
Sanctis in esilio - Lettere inedite, nella Critica, ed una in FRANCESCO De
SANCTIS, Lettere da Zurigo a Diomede Marvasi, Napoli, Ricciardi, Il Croce
preparava anche, sin dal 19i4 ('), un florilegio del carteggio inedito del De
Meis per gli Atti dell'Accademia Pontaniana. Molte lettere del De Meis sono
possedute da Bruto Amante, e saranno probabilmente pubblicate a spese del
Consiglio Provinciale di Chietij). La religione cristiana è già distrutta nel
mondo civile latino. Vive solo nell'ancor barbaro mondo germanico. La riforma è
il secondo medio evo germanico. Il soprannaturale non illude più. All'epica
religiosa del medio evo, ed all'epica giocosa del risorgimento, parodia
generica del -- Questo pensiero risulta dalle pagine del Dopo la laurea, pur senza
esservi enunciato esplicitamente, e chiarisce le apparenti contraddizioni
notate dal GENTILE, La filosofia in Italia, Le idee estetiche e religiose --
soprannaturale nel principio, poi caricatura smaccata e cinica della religione,
succede la drammatica senza soprannaturale. La distruzione è compiuta in
Italia; in Francia erano irreligiosi i pochi uomini colti, ma la nazione era
incolta, e per questo la riforma potè attecchirvi, come vi attecchì nel secolo
XVII il giansenismo, una riforma mitigata; ma nel secolo XVIII la Francia,
divenuta centro di coltura, fu anche centro di incredulità. Il secolo XVIII è
il secolo della filosofìa sofistica e negativa. Alla tragedia di Voltaire,
priva di vita poetica quando ha per fine l'irreligione, ed a quella dell'
Alfieri, in cui tutto è umano e naturale, succede la lirica moderna, che non
lascia alcun margine fra sé e l'assoluta riflessione, e giunge all'ultimo
limite della poesia. Anche in Germania, in parte per riflessione spontanea e in
parte per influenza del risorgimento italiano divenuto sudeuropeo, si è
iniziato il risorgimento, che DIFFERISCE DAL LATINO in quanto non è la semplice
rappresentazione del naturale, ma la negazione del soprannaturale,
rappresentata e sviluppata nelle sue conseguenze. Secondo M., i due
risorgimenti, IL LATINO e il germanico, che già nel sec. XVII reagivano l'uno
sull'altro, si fondono in un solo risorgimento, un solo mondo di poesia e di
pensiero, in cui la religione, divenuta indifferente, è appunto per questo
perfettamente tollerata. E a questa fusione delle due Europe in una sola Europa
spirituale seguirà certo fra non molti secoli la fusione in una sola Europa
giuridica e politica. Il secolo XIX durerà finché duri l'uomo. S'inizia nel
secolo XVII, quando a lato a Bacone — che mettendo fin da principio fuori causa
lo spirito non lo ritrova più in seguito, e nega la possibilità di conoscerlo,
consolidando la opera del risorgimento negativo, — sorge Cartesio, che con
[Dopo la laurea, [Le idee estetiche e religiose.] verte subito il dubbio
nell'intima certezza di sé, del pensiero del suo pensiero, Il vangelo di Gesù è
quello del cuore, il vangelo di Giovanni quello della fantasia, il Discorso del
metodo è il vangelo dello spirito. Tu es Petrus. Il cogito cartesiano è la
pietra su cui sorgerà la vera Chiesa cattolica, un edifizio che avrà le
proporzioni dell'universo ed accoglierà tutto il genere umano, destinato a
formare un solo ovile sotto un solo pastore, il pensiero. Dopo Cartesio, il
moderno Anassagora, viene Kant, il Socrate moderno, che leva di mezzo la
metafìsica e la natura, e parla dello spirito, uno spirito fenomenico sì, ma
dal quale egli fa scaturire la vita, la virtù, la morale, attribuendo alle cose
dello spirito un pregio infinito. Vero è che questo infinito, questo divino,
questo assoluto e universale non è che individuale. Ma solo per Socrate. Dopo
di lui viene Platone — leggi FICHTE —, che con profonda intuizione vede come
l'universale e il particolare di Socrate si compenetrino in una sola unità. E
dopo Platone viene Aristotele, viene Hegel, che nulla concede alla intuizione e
alla fantasia, procede con rigore, esattezza e precisione, tanto che il suo
regno non durerà solo diciotto secoli, come quello dell'antico Aristotele, ma
diciottomila, o meglio finché duri questo attuale genere umano.Hegel, ponendosi
nella posizione di Cartesio, rifa per intero il processo della conoscenza e
trova il processo della creazione. Questo grande movimento, che si compie nel
nord, si era iniziato nel sud; ma il sangue di BRUNO (si veda) era stato
versato invano ed VICO (si veda) non era stato compreso da nessuno, [Pel
giudizio di M. circa il sistema cartesiano, v. qui addietro, ; e cfr. Cfr. qui
addietro, V. Dopo la laurea, Le idee estetiche e religiose.] un po' per colpa
del papato e molto più pel carattere delle loro creazioni, che sono intuizioni
isolate del genio, più che momenti di uno sviluppo storico ordinato e
necessario. La storia della filosofia moderna è una storia tutta
settentrionale. La Germania è la nuova Grecia europea. Nel MONDO LATINO non
giunge che tardi l'eco indebolita e sfigurata della grande filosofia. Cartesio,
il padre della filosofia moderna, non procede da BRUNO, non è inteso da VICO,
né da GIOBERTI finché egli non si e “spapificato. Spinoza fa rabbrividire l'Italia
e la Francia. M. ritene che a Napoli si fosse sempre conservato, in mezzo al
risorgimento, un fil di tradizione di BRUNO e di VICO: la quale, così guasta e
superficiale come era diventata nelle mani degl’avvocati, pure erstata bastante
a farne un paese a parte; ma crede che i germi gettati dalla filosofia italiana
avessero germogliato in Germania. SPAVENTA si era molto preoccupato del
problema della filosofia nazionale. E M. accoglie in questo proposito
l'opinione del suo Bertrando, da lui ritenuto il primo filosofo vivente
dell'Italia, e forse di tutta l'Europa, la Germania inclusive Ora che la storia
della filosofia moderna sia concentrata tutta esclusivamente nella sola
Germania — concedendo soltanto un posto al cogito cartesiano — è una opinione che
Spaventa, e a traverso Spaventa M., accettano dai romantici tedeschi. Ad essi,
e a tutti coloro che hanno fede assoluta di essere nel vero, il nostro Autore
rassomiglia anche in questo, che il valore di ogni singolo filosofo è per lui
in ragione diretta della distanza che lo [SPAVENTA, La filosofia italiana nelle
sue relazioni con la filosofia europea, a cura di G. GENTILE, Bari, Laterza, e
Frammenti di studi sulla filosofia italiana nel secolo XVI, nel Monitore
bibliografico di Daelli, Torino, V. Dopo la laurea, Le idee estetiche e
religiose.] separa dalla sua propria concezione. Caratteristici in questo
proposito i giudizi circa SERBATI e la evoluzione del pensiero giobertiano.
Dopo Hegel, secondo M., religione e poesia cedono in Germania il posto alla teologia
e all'estetica. Nel MONDO LATINO la tradizione cartesiana si è dispersa; è
rimasto padrone del campo il risorgimento sofìstico, ateo e negativo. Ma l'uomo
non può vivere senza un Dio, e il tempo moderno, quando il risorgimento ebbe
distrutta la religione cristiana, si volge al passato, al medio evo sacerdotale
e simbolico, e moltiplica gli sforzi per creare una nuova religione. Sforzi
vani, che la religione cristiana, religione di Dio, del vero spirito, della sua
trinità, della sua umanizzazione, è l'ultima di tutte le religioni, e solo
potrà trasformarsi e purificarsi. Mentre questi vani sforzi si compiono nella
Germania volgare — non in quella pensante —, nel sud, dove un elemento pensante
manca, la parte più elevata, non però pensante e moderna, tardivamente inaugura
il secolo XIX: è un secolo XIX non filosofico, perchè non è rischiarato che da
un debole raggio di riflessione ; è pseudo-religioso e pseudo-poetico; si apre
col Concordato e col Genio del Cristianesimo, parti infelici della riflessione
travestita da immaginazione. La riflessione, non avendo piena coscienza di sé
come nel mondo germanico, coesiste nel MONDO LATINO a fianco alla poesia; e dà
origine ad una pseudo-epopea, al romanzo, genere ibrido, anfibio, tra la storia
e la finzione, tra la poesia e la prosa, tra l'arte e la scienza. Il romanzo,
genere equivoco EQUIVOCO GRICE, compare per la prima volta nel principio del
secolo XIX dell' antichità, ricompare nel nostro se [Dopo la laurea, [Dopo la
laurea, Dopo la laurea, Le idee estetiche e religiose.] e rinasce in Germania,
col Goethe, genio equivoco, tra la poesia e la prosa, in cui l'universo si
riflette tutto intero; si sviluppa in Inghilterra, paese equivoco, tra latino e
germanico, e raggiunge la sua perfezione in Italia, paese equivoco anch'esso,
mezzo liberale e poetico e mezzo prosaico e papale, e precisamente in un uomo,
come Goethe a cui somiglia, equivoco: MANZONI. Si osservi che M., una volta
stabilito che il romanzo è un genere equivoco, trova che sono equivoci tutti
gl’individui e tutti i popoli presso i quali il romanzo fiorisce, prendendo —
si noti — la parola equivoco nella accezione di misto e complesso, sì che ad
ogni popolo e ad ogni individuo potrebbe indifferentemente applicarsi. Dopo
Scott e MANZONI, il romanzo perde il carattere epico, e diventa sempre più
storico, riflessivo e prosaico con l'Hugo e con la Sand, finché in Kock e Poe
la prosa assorbe ed avviluppa in se la poesia. Nel risorgimento moderno, come
nell'antico, la lotta comincia antireligiosa e finisce antifilosofica: prima la
riforma, uno scetticismo che distrugge 1' Olimpo cattolico ; poi il deismo, uno
scetticismo più progredito; infine l'ateismo, uno scetticismo assoluto, la
pessima delle filosofie. E non è finita ancora la triplice serie, osserva M., fedele
sempre alle sue triadi. La Germania è per tre quarti protestante; la Francia è
prevalentemente deista, e in parte atea. L’ITALIA HA UNA VENTINA DI MILIONI
D’ANALFABETI, TUTTI PAPO-TEMPORALI; i semi-analfabeti sono in gran parte
demagoghi. Il risorgimento produce quella filosofia che è la bestia nera di M.,
la filosofia positiva. E la filosofia che gli ha preso fra i suoi artigli,
strappandolo alla fede hegeliana, un caro amico — rimasto tale malgrado la
irreconci[Dopo la laurea, Le idee estetiche e religiose.] liabile opposizione
delle opinioni filosofiche. Villari, al quale così frequenti e amichevoli
frecciate sono dirette nel Dopo la laurea; e la filosofia che accoglieva la
teoria dell'evoluzione del Darwin; e la filosofia opposta alla hegeliana nel principio,
nella essenza, nel metodo. Mai M. si lascia sfuggire una occasione di
combatterla : trova che la filosofia scettica dichiara irraggiungibile la
natura delle cose; ma la filosofia nuova, la filosofia positiva o iperscettica,
non ne fa neppur materia di dubbio o di discussione, ed è una filosofia
dell'apparenza, cioè una filosofia antifilosofica. Il risorgimento iperscettico
non può trovare la verità, perchè ha l'occhio sempre rivolto alla natura
esterna, e non mai alla natura interna, al pensiero dell'uomo, che è la verità
stessa. Secondo M., la filosofia sedicente positiva è di fatto negativa, poiché
nega il negabile, la conoscenza dell'essenziale, e non pone che la conoscenza
dell'apparente, del reale e dell'accidentale, che nessuno ha mai pensato a
negare. Questa pseudo filosofia si sviluppa come la vera. Il primo atto è il
principio. La scena è in Italia: TELESIO scopre l'apparenza come principio. Il
secondo atto è il metodo. La scena è dapprima in Italia, poi in Inghilterra; il
metodo galileo-baconiano, ovvero induttivo sperimentale, ha due parti: la
descrizione e la legge dei fenomeni. Il terzo atto è il sistema, che ha pure
due parti: la classificazione e la filiazione dei fenomeni. La filosofia
positiva è una terza corrente, che si caccia fra la corrente poetica e la
filosofica, ed è il sangue della [Dopo la laurea, passim; VlLLARI, La filosofia
positiva e il metodo storico, nel Politecnico di Milano; e SPAVENTA, Scritti
filosofici, nota, per quanto si riferisce alle critiche mosse a questa pubblicazione
dal WYROUBOFF, dal MAIANI, dal FIORENTINO, dal TOCCO. Dopo la laurea, Le idee
estetiche e religiose] filosofia; l'osservazione e l'esperienza ne è lo
stomaco; l'induzione baconiana il polmone sanguificatore. La legge positiva il
torrente della circolazione. Ed essa, la filosofia, è il cervello, in cui il
sangue positivo diventa anima e pensiero speculativo. Giorno verrà in cui lo
stomaco baconiano non avrà più nulla a digerire, né il polmone a respirare; e
la natura divenuta tutta sangue circolerà dentro dell'uomo. Allora questa terza
corrente, tutta e sempre prosaica, sarà divenuta un mare, ed avrà confuse le
sue acque col mare della religione, della poesia e della filosofia. La terza
parte del gran dramma della filosofia cristiana è il tempo nuovo. Dopo la
riflessione negativa del risorgimento, la filosofia moderna, come ogni
filosofia, muove alla ricerca di un principio. Il nuovo Talete è BRUNO; il
nuovo Pitagora è Leibnitz. Per passare dal naturalismo dinamico di BRUNO e dal
neo-pitagorismo e, per così dire, dall'atomismo ideale leibnitziano, dal
principio naturale al principio umano, occorre un nuovo Anassagora, e venne
Cartesio. Il principio cartesiano, come tutte le cose del mondo, nasce non
perfetto; in Cartesio è uovo o tutt' al più embrione. Il secondo atto della
filosofia moderna si volge al metodo. Nel perfezionare il metodo antico,
l'antica dialettica, proporzionatamente alla più perfetta natura del principio
moderno, e nell' esplorare più completamente il principio, consiste il lavoro del
secondo atto del secolo XIX, che termina poco dopo la fine del secolo XVIII.
L'atto terzo è il sistema, è il principio di Cartesio e dello Spinoza, del Kant
e dello Schelling, corretto e metodicamente sviluppato. Ed è nella sua essenza,
se non nella sua esecuzione, il sistema più compiuto e perfetto, ne altro ve ne
potrà mai essere in eterno. Il principio è il germe e l'assoluta possibilità
dell'universo, ed è quindi uno, come uno è l'universo; tutti [Cfr. qui
addietro, Le idee estetiche e religiose. i principi a traverso ai quali la
riflessione greca è passata non sono che le forme e i gradi della sua
cognizione. E uno è per conseguenza il metodo : e quando si giunge a un punto
nel quale il principio contiene in se il tutto % e il metodo si confonde col processo
evolutivo del principio, e il sistema è il tutto spiegato; quando la filosofìa
giunge a comprendere il creante e il creato in un attivo processo di creazione,
non ha più dove andare, a meno che non voglia indietreggiare, come fa la Grecia
dopo Aristotele, o uscir dell'universo. E se il tempo moderno non vuole
indietreggiare, bisogna che si contenti del suo nuovo Aristotele. Non è
possibile un terzo Aristotele, perchè il tempo antico ha ricevuto nel moderno
il perfezionamento essenziale, il solo di cui fosse capace : di oggettivo è
diventato soggettivo, di totalità immobile vivo processo di cognizione e di
creazione. Vivo di riflessione filosofica, non d'immaginazione. Un sistema, per
concreto che sia, è sempre un'astrazione, e l'astrazione è la morte dell'anima
umana. L'anima vive finché la fa, ma quando l'ha fatta, quando della realtà
vivente, ossia di se stessa, ha composto quell'estratto che si chiama pensiero
filosofico, allora l'azione si arresta, e con l'azione è finita la vita. Quando
Aristotele creato un grande sistema, perfetto e compiuto per l'antichità, lo
spirito antico vi si chiude come in un sepolcro per secoli ; e torna alla vita
solo quando ricomincia a sentire e a fantasticare. Quando la Germania crea il
vero sistema del mondo, e recata la religione cristiana nella forma di un
cristianesimo assoluto, allora la vita si congela nell'astrazione, e lo spirito
germanico rimane assiderato. Ma presto si scuote, e, brancolando nel buio
dell'astrazione hegeliana, trova il risorgimento negativo ed ateo ed il
risorgimento negativo-positivo. Congiungendosi col primo, produce mostri
filosofici ed aborti strani; col secondo la medicina naturali- [Dopo la laurea,
Le idee estetiche e religiose.] stica e la storia naturale materiale. Ma la
Germania materialistica e naturalistica è più morta della Germania hegeliana.
Come la pura riflessione, così la pura contemplazione è la morte. La vita è
pensiero apparente, è unità di riflessione e di contemplazione, di metafìsica e
di filosofìa positiva, di poesia e di filosofìa. La storia universale è una
sequela di creazioni, identiche fra loro quanto al ritmo e alla legge, sempre
più pure e perfette quanto al contenuto, che comincia dalla pura forma dello
spazio, e termina nella forma più pura del tempo. Ogni creazione ha come fine
la creazione successiva ; ciascuna vive di quella dalla quale nasce e serve di
alimento a quella a cui dà origine, che le si sovrappone e l'avviluppa in se
stessa, senza distruggerla. Così dalla natura nasce il regno vegetale, da questo
l'animale, dall'animale l'uomo finito e particolare, e da questo l'uomo
universale. Tutto questo è il regno umano inferiore, e tutto si spiega nella
forma dello spazio, e coesiste come nella natura. L'uomo di sopra, il regno
umano universale, ha esso pure la sua storia, ed è una serie di sfere, che
l'uria avviluppa l'altra; prima l'arte, poi la religione, poi lo spirito, che
universalizza la natura, e dà valore assoluto e infinito al particolare e al
finito. Tlàvta qsI . Eterna è solo l'idea ed immortale è soltanto la natura.
Come la natura, così l'uomo, lo spirito umano, natura anch'esso, ha una legge
inflessibile e costante. « Sono due nature diverse, certo, e ciascuna ha la sua
legge particolare e propria, ma in fondo è una natura sola, ed una sola legge naturale.
Le forme e gli elementi naturali ed umani sono del pari indistruttibili, e la
legge comune della loro attività è immutabile: nascere, crescere, decadere e
perire è destino comune agl’uomini, agl’animali, alle piante Dopo la laurea, I
tipi animali, Le idee estetiche e religiose. e ai sistemi planetari. Ma
gl’elementi della natura sono l'uno fuori dell'altro, e anche quando si
combinano non si compenetrano. Quelli dello spirito sono compenetrati ed
intimamente unificati, ne mai si scompagnano nella realtà, variando solo quanto
alla proporzione. E il prodotto piglia forma e natura dall'elemento
preponderante e più attivo. La natura è come una scala a piuoli. Lo spirito
come una scala a corda, che raggiunta la meta si raggruppa in se stessa.
Nell'uomo-cosmos gl’elementi spirituali sono tutti in uno stato di assoluta
quiete e di completa indifferenza. Solo il genio, l'immaginazione e attiva da
principio. Poi entra in attività il senso. Anche la natura, poiché si muove,
deve avere il senso naturale, nella forma inferiore di senso chimico ed in
quella superiore di senso meccanico. Poi l'uomo di sistema solare si fa pianta.
Nella pianta l'unico elemento spirituale attivo è il senso chimico.
Nell'animale v'è il senso meccanico in nuove forme; v'è un arco diastaltico, di
cui l'impressione, il senso naturale è il primo atto, e l'ultimo è il
movimento, la contrazione; e nel sommo dell'arco cominciano ad entrare in
azione gl’altri elementi umani: immaginazione, sensazione, memoria, e ristretta
in una sfera tutta animale una piccola induzione, e per poco la famiglia umana,
e talvolta la società umana in forma animale. Finalmente nell'uomo entra in
attività la coscienza, la riflessione, e con questa gli elementi spirituali
superiori, la poesia, la religione. Manca la riflessione della riflessione, la
scienza; predomina il senso (vegetale, animale ed umano). Questo è lo stato
naturale di cui parla Rousseau. Nel secondo tempo l'attività passa alla
fantasia, e si conciliano le disuguaglianze fra gl’uomini. Queste si vanno poi
via via accentuando per opera della riflessione, che si è andata rinvigorendo
alle spese del sentimento e dell'immaginazione. Ma contemporaneamente a questo
processo di divisione e di analisi, si compie nella storia un lavoro di
unificazione e di sintesi. La grande ragione avviluppa la piccola, poiché è
sempre la facoltà superiore che unifica in sé e dà la sua forma alla facoltà
inferiore, da cui riceve in contraccambio LA VITA. Questa seconda coscienza non
è un trovato della odierna metafisica, che anche Aristotele parla di due vovg,
l'uno poietico o attivo, l'altro patetico o passivo ; e nel secolo XVI qualcuno
e arso vivo per aver parlato di quel secondo spirito. La vera vita dello
spirito, unità vivente, è in una moltitudine di individui ad un tempo ; e però
la storia dello spirito si compone di una successione di grandi unità. Il primo
stato embrionale del genere umano è la natura (M., hegeliano e medico, prende
spesso come termine di confronto l'organismo umano); la vita fetale è il
vegetabile e l'animale. Terza muda è quella dell'uomo positivo, l'infante del
genere umano. Egli con la sua piccola positiva riflessione vede intorno a se un
mondo finito, e si fa un Dio finito e positivo; non soddisfatto di questo breve
corso mortale, senza scopo in se stesso, sogna una seconda vita, ha fede in
essa, ed è religioso. Questa religione, questa fede, si trasforma a poco a poco
in un ideale, in un caro sogno poetico. Poi dalla prima nasce una seconda
coscienza, e l'uomo intuitivo diventa quarta muda l'uomo riflessivo e
intellettuale. La nuova coscienza, mentre si appropria la coscienza finita e
positiva, imprime in tutte le diverse funzioni umane il suggello della sua
infinita unità, pur lasciandole nella loro distinzione naturale; e così
permangono l'agricoltore, l'avvocato, il medico, e via dicendo. Ma nella sfera
superiore le due coscienze si unificano, ed il poeta ed il prete rimangono
assolutamente identificati nel pensatore, perchè una volta sviluppata la
coscienza intellettiva l'uomo non può più deporla per ritornare uomo positivo
ovvero semi-uomo, così come non poteva deporre la coscienza positiva e tornar
ad essere [Dopo la laurea, Del Vecchio-Veneziani - animale. E la poesia si
trasforma in estetica; la religione in critica e in filosofia. Oggi la poesia
non c'è più al mondo, perchè essa non è una combinazione di fantasia che
afferra e trasforma e di natura afferrata e idealizzata ; ma è una sola unità,
« è l'universo pervenuto a grado di spirito, che inconsciamente si trasforma e
si purifica nella conscia anima di un solo uomo, spettatore più che autore
della sua propria trasformazione ». È un fatto di ragione che la vita umana
comincia con l'assoluta barbarie, col puro senso materiale e col semplice
istinto naturale; e termina nella riflessione intellettuale, che è la vera vita
e l'assoluta e definitiva civiltà. È un fatto di osservazione e di ragione che
si va dall'una all'altra passando per la forma intermedia della immaginazione.
La religione e l'arte è il regno dell'immaginazione: è una barbarie civile ed
un senso spirituale. L'epica è la poesia immaginativa e barbara, e perciò più
perfetta; la lirica è la poesia riflessiva e civile, e perciò più imperfetta;
la drammatica è la forma intermedia. Essa è più riflessiva dell'epica, e
sviluppa un elemento di questa; è epico- religiosa nell'antichità, raggiunge la
perfezione nel risorgimento, e decade nel secolo XIX, nel greco-romano come nel
latino-germanico, per eccesso di riflessione. Analogo arco descrive la lirica,
che sviluppa un elemento della drammatica, e, finita come poesia, durerà come
lirismo filosofico finché duri il secolo XIX, ossia finché duri il genere
umano. La poesia sensibile ed oggettiva è la barbarie dello spirito umano, la
filosofia intellettuale e soggettiva è la sua civiltà ; dall'una all'altra si
passa a traverso la forma intermedia della religione, che è tutt'insieme
oggettiva e soggettiva, è sensibilmente intellettuale, è la barbarie civile
dello spirito umano. La religione più barbara, più naturale, più oggettiva e
più epica è la religione indiana; la più civile, più umana, più soggettiva e
più lirica è la cristiana. Tra la religione epica orientale e la religione
lirica occidentale, la religione passa per una stazione intermedia, la Grecia,
e vi prende una forma intermedia, la forma drammatica. Nella religione indiana
troviamo tutti gli elementi e tutti i caratteri di un sistema religioso
completamente sviluppato; il politeismo greco è la prima caduta della
religione, la quale risorge nel tempo moderno. L'oriente moderno, ossia il
medio evo, pone gli elementi essenziali della religione, che sono quelli stessi
del pensiero, nella vera forma religiosa; l'antichità moderna, ossia il
risorgimento, spezza questa forma; il secolo XIX, il vero tempo moderno, li
pone nella forma di pensiero : invece della riflessione filosofica del medio
evo è una filosofia religiosa. L'oriente è essenzialmente epico; la Grecia è,
nella sua stessa epopea, principalmente drammatica; il tempo moderno è tutto
umano e tutto divino ed è tutto lirico e riflessivo. E del tempo moderno il
medio evo è religioso ed epico; ma è un'epica lirica, ispirata dalla grande
riflessione: tale è la poesia dantesca. Il risorgimento è irreligioso e
drammatico. Il fantastico si cangia nel meraviglioso; poi il meraviglioso
stesso sparisce dalla poesia. Il secolo XIX è di nuovo religioso ed è tutto
lirico: il principio è epico-lirico; poi viene la drammatica, che comincia
storica e finisce cittadinesca e domestica; e all'ultimo viene una lirica tutta
stravolta per voler essere ultra-poetica. Ormai la riflessione ha superata
l'immaginazione; il sentimento e la fantasia sono stati oltrepassati e
ravviluppati dentro al pensiero; quindi quella del nostro tempo deve essere una
poesia lirica, drammatica ed epica ad un tempo; il prodotto di tutte le facoltà
riunite, la filosofia vivente, poetica e religiosa, la filosofia dell'universo,
cioè dell'uomo. 11 secolo XIX, cominciato lirico-poetico, termina
lirico-prosaicofilosofico-poetico-religioso ed assolutamente cristiano. La
poesia non è morta; ha subita una metempsicosi, uscendo dalla forma di
immaginazione per entrare in quella di FILOSOFIA, e in quella vive ed
eternamente vivrà. La forma e l'elemento della poesia e della religione è, come
abbiamo visto, l'immaginazione. Quando il risorgimento ha distrutta
l'immaginazione, allora il sentimento, che prima era in germe, assorbe tutto
l'uomo e tutta la natura. E sorge la musica f 1 ), forma di poesia della quale
il sentimento è solo elemento e sola sostanza, e il tempo V unica forma. La
musica è l'ultima delle arti ; la poesia è la prima. Le arti plastiche usano
una materia più naturale, meno ideale, debbono sostenere con questa una lotta
più lunga, e giungono più tardi a perfezione. Viene prima la scultura, poi la
pitiura. Certo la musica è nata, come tutto il resto, con l'uomo; ma nel medio
evo antico è un esercizio secondario, subordinato alla poesia e alla religione
; nel risorgimento sofistico è bensì un'arte, ma rimane di gran lunga inferiore
alla scultura e alla pittura ; nel medio evo moderno la musica è
epicoreligiosa, e rimane subordinata alla religione. Solo nel risorgimento
moderno la musica si sviluppa, mentre le arti plastiche decadono: dapprima, nel
risorgimento drammatico, la musica non è che un compimento e un aiuto del
dramma ; acquista un proprio assoluto valore solo nel risorgimento lirico, che
è il tempo della negazione del pensiero, ossia dell'essenziale, e quindi è il
tempo del nulla. Questo vuoto sentimento si traduce in un vuoto suono, che
diviene arte e poesia. La musica è dunque una lirica vacua, è un'arte
oltre-lirica, è l'arte del nulla. È l'ultimo prodotto del risorgimento, ed è
quello che meglio ne scopre il carattere, poiché il fine è il grande
rivelatore. Ma il nulla al quale il risorgimento mette capo, se in apparenza è la
fine, in realtà è il principio, quello stesso dal quale in origine usciva
l’universo. Da quel punto istesso l'universo, ossia l'uomo, rico- [Dopo la
laurea] mincia da capo, tutto intero, in seno alla filosofìa. Questa nuova
creazione è il tempo dell'essere, il secolo XIX, che ha per necessaria
preparazione il risorgimento progressivamente negativo e per divisa: negazione
di negazione. Il secolo XIX nega quel vuoto universo di suoni ; fa della musica
quello stesso che già prima ha fatto della poesia, la dissolve a poco a poco ;
comincia dallo snaturare la musica a furia di sapere e di meditazione, dando
sempre meno alla melodia e sempre più all'armonia, e la riduce ad essere una
scienza musicale. Questo è già avvenuto in Germania, dove allato al risorgimento
scorre il tempo moderno; nell'Europa italo-celtica prevale ancora il
risorgimento lirico, e tocca ormai l'estremo punto dell'assoluta negazione; già
la musica si avvicina al suo limite prosaico ; già il pensiero positivo
comincia a sopraffare e ad assorbire il sentimento e l'immaginazione. Il tempo
moderno è la vita che rinasce dal seno della morte, la fede che spunta dalla
negazione. Non il tempo moderno dell'antichità, perchè sopravviene nell'anima
romana, mentre il dramma del risorgimento si era combattuto nell'anima greca,
ma il vero tempo moderno che è la continuazione e l'adempimento del
risorgimento cristiano. In questo secolo il sentimento dell'umanità, che è un
aspetto del sentimento della natura, prenderà la sua vera forma in una nuova
poesia, nella quale la lirica, la drammatica e l'epica saranno ricomposte in
una unità assoluta e definitiva. L'unificazione non è però avvenuta ancora nel
campo della poesia, né in quello della religione e della filosofia. La poesia
primitiva o naturale, invariabile come la natura, sussiste presso il popolo
analfabeta; e c'è la poesia medioevale e quella del risorgimento, immodernate e
ormai vuote. Così è delle forme religiose. Analogamente delle forme filosofiche
: esiste presso il popolo apostolico primitivo la filosofia primitiva o
religione ; ed esiste pure la filosofia medioevale, la scolastica, e la
filosofia del risorgimento, con tutte le sue gradazioni progressivamente
scettiche e negative e con tutte le sue forme positive. Abbiamo oggi la massima
complicazione di indirizzi e di forme ; non è però difficile distinguere le
diverse funzioni storiche in atto, né prevedere un continuo avvicinarsi ad una
assoluta unità. A questa teoria di M. si mossero da Spaventa e da
altr’obbiezioni, che possono ridursi sostanzialmente a questa. Come può lo
spirito umano perdere due delle sue funzioni essenziali, l'arte e la religione?
M. risponde che SPAVENTA ha ragione se, basandosi sulla filosofia kantiana,
afferma che lo spirito umano sarà sempre tratto a fare degli assoluti giudizi
religiosi ed estetici, ad unire al concetto della mente la intuizione che deve
dargli corpo e vita; ma ha torto se crede che la intuizione da accompagnare
all'ideale debba essere sempre fantastica e falsa. Nel principio l'intuizione
religiosa e l'intuizione estetica è creata dalla fantasia, ed è a vicenda
distrutta perchè non è la vera, non è assoluta, e non agguaglia l'assoluto
concetto; e di qui nasce da una parte una serie di capolavori tutti
relativamente perfetti — se son davvero capolavori —, perchè l'ideale
dell'arte, come finito ch'egli è, può accordarsi con una intuizione finita; e
ne viene dall'altra parte una serie di religioni tutte imperfette e però tutte
transitorie, perchè l'ideale religioso è infinito, e la fantasia non sa creare che
delle immagini finite. Ma le due serie hanno una legge, perchè [Dopo la laurea,
e cfr. Poesia ed arte, Lettera di FRANCESCHI a M., nella Rivista bolognese.
Franceschi dice che M., togliendo all'uomo la religione e la poesia, lo abbassa
all'abbaco e al pane ; egli non comprende che M. intende anzi di innalzarlo
alla sua filosofia religioso-poetica. Le idee estetiche e religiose. hanno un
termine: e il loro termine non può essere che la vera e reale intuizione
corrispondente al concetto dell'arte ed all'ideale della religione. E difatti
abbiamo da un lato una serie di forme estetiche l'una meno perfetta dell'altra,
e sempre meno rispondenti alle condizioni assolute dell'arte; e sono sempre
meno naturali e spontanee, meno epiche e fantastiche, sempre più spirituali,
liriche, filosofiche e reali; e sì l'intuizione dell'arte è sempre meno lieta e
bella, e più trasparente ed immediata all'ideale. È, dunque una serie
regressiva e discendente. La serie religiosa è al contrario ascendente e
progressiva. Ogni forma religiosa è meno fantastica, più razionale, più reale
della precedente. Per cui l'ultima, la cristiana, è assolutamente vera e
perfetta; in essa al mondo della ragione corrisponde un mondo fantastico quanto
esser può più adeguato e spirituale : il cristianesimo non ha altro difetto che
quello di essere una religione. La religione cristiana si va sempre più
perfezionando; e il suo perfezionamento consiste nell'essere sempre più storia,
più realtà, più verità, e sempre meno religione. E così per contrarie vie, l'una
scendendo e l'altra montando, la religione e l'arte corrono al loro fine, al
vero. Il vero è l'eguaglianza della realtà e dell'idea, del pensiero e
dell'intuizione. L'intuizione estetica, da principio fantastica e non realmente
assoluta, diventa a gradi sempre più somigliante al concetto assoluto
dell'arte, finché raggiunge l'assoluta e reale intuizione. Allora la natura è
concepita come un solo essere vivente, indipendente, assoluto; e ciascuna sua
parte è intuita come membro dell'intero, ed assoluta essa stessa : giacché le
due intuizioni ne fanno una sola. La intuizione religiosa, essendo finita, non
è adeguata alla sua idea, che è infinita. La verità religiosa non è mai la
vera, perchè è una combinazione di finito e di infinito, anzi che di infinito
con infinito. Ma la intuizione religiosa si va sempre più allontanando dalla
forma naturale, e si fa sempre più veriforme fino a diventar vera ; il che
avviene quando l'infinito ritrova se stesso, ed è a un tempo concetto e
intuizione. Allora al falso succede il vero, e la religione finisce. Questo non
è perdere una funzione; è risolvere e trasfigurare. Le funzioni inferiori dello
spirito, come la morale, il diritto, lo Stato, conservano una esistenza
separata, perchè partecipano ancora della qualità della natura; ma la religione
e l'arte hanno per oggetto il vero; sono i gradi e le forme del vero pensiero,
e perciò quando il pensiero acquista una esistenza distinta, esse la perdono e
rimangono unificate in lui. L'arte è per sua natura illusione e la religione è
per sua essenza errore ; ora l'illusione è fatta per trasformarsi in certezza e
realtà, l'errore in verità. L'arte si trasforma nella vera cognizione naturale
; la religione nella vera cognizione spirituale. In questa trasformazione
consiste la storia; il suo compimento è il fine della civiltà ed il limite del
progresso umano, che è temporalmente indefinito, ma idealmente determinato. L'
ideale è provvisorio, e sparisce nell'idea. Così termina la parabola
religioso-poetica, della quale il primitivo oriente è il ramo ascendente;
l'antichità pagana, tutta arte e mistero, è la cima; ed il ramo che discende è
l'era cristiana, in cui la religione e l'arte vanno progressivamente diventando
più riflessive, sino a ridursi ad essere, oggi, il pensiero e la scienza
cristiana. L'uomo moderno cerca l'ideale e trova l'idea, cerca il concetto
dell'arte e trova il vero concetto, cerca il divino fuori di se e trova in se
l'umano; cerca il sovrannaturale e trova il naturale. Il nuovo uomo crede e
pensa; e pensando ricrea l'universo, dal suo pensiero una prima volta creato.
Questo nuovo universo è un'opera d'arte in cui la forma eguaglia il concetto ;
ed il concetto fatto conscio di se vince la forma, ed è bello e sublime ad un
tempo. Questo nuovo universo è un capolavoro, di cui il nuovo uomo, poeta e
critico insieme, intende il magistero; è un tempio, di cui il pensiero umano è
il nume [ Le idee estetiche e religiose. ] e ciascun uomo il sacerdote, che a
quel Dio sacrifica ciò ohe è in lui di non buono. E il nuovo uomo continua
questa creazione con azioni generose ed alti pensieri. Ed è così che egli è più
che mai non sia stato religioso e poeta, quando non è più che scienziato e
libero pensatore ». L'uomo parte dalla tenebrosa unità della natura e del
senso, e, a traverso la piccola riflessione e la grande immaginazione, giunge
alla luminosa unità della riflessione intellettiva, avvivata dalla fede
religiosa e poetica, che sole restano della religione e della poesia.
Naturalmente gli argomenti logici addotti dal M. a sostenere la sua tesi della
« metempsicosi » della religione e dell'arte nella filosofia hegeliana sono
validi solo se si ammette l'esistenza di un concetto assoluto, universale,
definitivamente vero, al quale le intuizioni estetiche e le religiose possano gradatamente
adeguarsi; solo, in una parola, se si accoglie l'hegelismo dell'Autore. Il
compendio di storia del genere umano tracciato per convalidare queste
argomentazioni non raggiunge lo scopo, perchè in esso non la storia conduce
alla dimostrazione, ma la dimostrazione, se pur non modifica la storia, certo
la coglie nei momenti e negli aspetti a lei giovevoli, sorvolando sugli altri.
E le molte e molte pagine che l'Autore consacra alla dimostrazione della sua
tesi riescono invece a dimostrare questo : che egli ha avuta la somma fortuna
di trovare nella sua concezione dell hegelismo la sua filosofia, la sua
religione e la sua poesia. M. è certo che le tre grandi correnti umane, — la
contemplativa religioso-poetica che nasce dalla natura e la riflessivo-filosofica
che, nata dalla precedente, si suddivide in altre due : la filosofica positiva
o filosofia della sostanza e Tanti filosofica negativa che bentosto diviene
afilosofica, negativo-positiva, pseudo-riflessiva o filosofia dell'apparenza,
dopo aver proceduto isolate fino al secolo XIX, suddividendosi in altre molte
correnti o scienze pseudo-positive, accennano oggi a ri convergere. L'unità
dell'apparenza e del pensiero, con la precedenza di questo su quella, è l'unità
del pensiero. Per avere l'unità della natura non basta che le due filosofie
astratte si fondano in una sola filosofia concreta; bisogna che la corrente
religioso-poetica mescoli le sue acque con la corrente unificata della
filosofia. La corrente filosofica, scaturita dalla religione e dalla poesia,
torbida in principio, si allarga, si purifica, diviene trasparente sino a
perdere ogni potere nutritivo; ma poi, a poco a poco, invade e travolge il
tutto, l'uomo e la natura, la religione e la poesia; e fa di tutto una sola
unità vitale. E allora la filosofia sarà la vita, sarà l'unità spontanea ed
armoniosa della natura : un pensiero pieno d'amore vivificherà una natura piena
di fantasia, l'amerà come natura umana, e l'adorerà come natura divina. Qui
alcuno potrebbe chiedersi : in questa identificazione della filosofia con la
vita, non subirà la filosofia stessa un assorbimento analogo a quello subito
dall'arte e dalla religione ? La forma superiore non sarà la vita e l'azione ?
Ma M. non distingue dalla vita quella sua filosofia dell'avvenire. Egli afferma
che è difficile precisare come tale unificazione vitale si compia, e perchè
quest'opera è appena cominciata, e perchè avviene nella profondità del
pensiero, al di sotto della coscienza. Sono cose tanto lontane dic'egli e c'è
di mezzo una tal nebbia di tempo avvenire, che è impossibile vederci chiaro:
bisogna contentarsi di averne un'idea generale, a Ma —soggiunge — a questa
generalità io ci credo, e giurerei, tanto ne sono certo, che le cose passeranno
così in generale ; e che tutto anderà a terminare nella fusione di tutte le
forze, di tutte le conoscenze, e di tutte le realtà, in una sola vita umana. La
sua filosofia sarebbe forse un atto di fede? L'uomo è un sistema vegetativo, un
sistema riproduttivo, un sistema animale e un sistema spirituale. Ciascuno di
questi quattro sistemi umani è attivo e si muove; ed ha, come naturale, la
causa del suo movimento fuori di se, nella natura. La natura della causa
esterna che move è corrispondente e proporzionata alla natura della sfera
interna che è mossa; mentre è una stessa natura che fa l'una per l'altra, ed è
sempre la seconda che move se stessa con la prima natura. Ma se l'accidente,
esterno o interno che sia, se la irragionevole cattiva natura interviene, e
rompe la legge, e viola la ragione; se l'arbitrio umano o naturale modifica la
qualità della causa motrice, e ne muta la relazione, e ne altera la proporzione
con la interna sfera umana, questa si altera e si disordina. Il disordine della
sfera direttamente colpita si comunica alle altre, ed è una successione e una
complicazione di morbi; ma, isolati o uniti, non vi sono che quattro morbi
umani essenziali: i vegetativi, i riproduttivi, gli animali, gli umani o
mentali. La patologia preistorica dice che di questi quattro morbi il primo è
stato il morbo vegetativo. L'uomo primitivo, uscito sano, valido ed innocente
dalle mani del Creatore, rimane sano, finché rimane innocente; non ammala che
per irragionevole arbitrio estemo o naturale ; non è esposto che agli accidenti
meccanici, alle malattie traumatiche. Ma l'animale umano è, a differenza degli
altri, capace di colpa; egli trasgredisce il precetto e oltrepassa la natura:
felice colpa, perchè lo fa accorto di poterla oltrepassare. Di là dalla natura
l'uomo trova se stesso : trova la sua libertà e la sua propria natura, e fa
della necessità animale, istintiva ed involontaria, una necessità umana,
spirituale e volontaria: e così di colpevole ritorna innocente. Ma non è più la
primitiva innocenza dell'animale ignaro e meccanico; è l'innocenza dell'uomo
che si vede nel suo interno, e si sa libero ; e liberamente vuole se stesso, ed
ama e venera la sua propria natura. Ma bentosto egli oltrepassa questo se
stesso, supera questa sua natura, e diviene di nuovo colpevole, e si rifa
sempre di nuovo innocente, finché non abbia raggiunto tutto se stesso e la sua
vera natura spirituale, e non sia compiuto il fato umano. Così l’uomo naturale
diventa in principio civile, e poi da una civiltà passa in un' altra. La
civiltà ha certamente i suoi morbi; e sopratutto nel momento del passaggio e
della colpa il morbo si impadronisce dell'uomo, e cresce e si moltiplica ed
imperversa. Allora l'uomo è annoiato di se stesso, e perciò si corrompe. E il
morbo, fecondato dalla corruzione, genera nuovi e più crudeli morbi. La corruzione sensuale
moltiplica i morbi vegetativi ; le voluttà naturali e preternaturali generano i
morbi riproduttivi. Le cause psichiche non moltiplicano solo le cause naturali,
ma operano anche per proprio conto, generano per diretta azione le malattie
nervose e le psichiche. D'altra parte, nelle nature più elette, invece di una
corruzione sensuale, nasce un principio di fermentazione intellettuale, che dà
origine alle malattie dello spirito. Ma tutto questo avviene con una certa
legge. Tre grandi civiltà si succedono: la prima naturale, la seconda umana, la
terza divina. E ciascuna ha il suo proprio carattere e la sua particolare
natura; e ciascuna si corrompe, ed ha le sue proprie e particolari malattie. La
civiltà naturale quando è nel suo primo fiore e nella sua perfezione originaria
è senza morbi, altro che accidentali e meccanici ; ma la sua corruzione porta
seco le cause fìsiche e chimiche, e genera morbi fisici e morbi chimici: cause
cosmiche, naturali, che danno origine a morbi naturali, sopratutto vegetativi,
prima ai morbi nutritivi, e più tardi ai morbi formativi. La civiltà umana — il
paganesimo — nel suo fiore è di nuovo senza morbi ; ma la sua corruzione porta
seco le cause umane, sensuali, passionali, e dà origine ai morbi riproduttivi ed
ai morbi animali: ai nervosi prima, e quindi ai psichici. La civiltà divina la
cristiana nel suo primo fiore è del pari senza morbi ; essa è la reazione della
medicatrice natura umana, è la guarigione dell'anima e la salute del corpo,
rimedio radicale di tutti i morbi umani. Ma la reazione eccede tosto il segno
della umana natura, ed è principio di nuovi morbi. Mistica e tutta entusiasmo e
religioso sentimento, essa reca le cause mistiche, che danno origine alle
malattie psichiche mistiche e religiose. La corruzione cristiana riproduce la
corruzione pagana, e con le cause passionali rinnova le antiche malattie. Ma di
sotto alle rovine del primo spunta il secondo cristianesimo, la nuova e vera
civiltà divina, e riconduce le cause spirituali e le nuove malattie mentali.
Quando quest'ultima civiltà avrà raggiunta la sua definitiva perfezione, allora
sparirà il male e l'uomo spirituale sarà di nuovo senza morbi, come era in
principio l'uomo animale. Tale è il primo e più generale risultato, la prima
legge della patologia storica : l'uomo ha quattro vite, quattro anime, ed ha
quattro qualità di morbi, che sono le categorie primarie della patologia. Ma
ciascuna anima può oltrepassare nell'uno o nell'altro senso quei limiti della
sua attività entro i quali ha luogo la oscillazione normale ; ed allora
concepisce un morbo positivo o negativo, stenico ovvero astenico. Sono queste
le categorie secondarie della patologia. La categoria primaria, la natura e la
qualità fisiologica del morbo, è l'essenziale, e mai non manca, né può mancare
; invece la categoria secondaria, il grado e la quantità innormale, può
mancare, e manca infatti, o non è sensibile ed apparente. Certo non vi è
qualità senza quantità ; ma nelle piccole applicazioni cliniche la quantità
innormale può mancare del tutto, perchè è supplita dalla quantità normale ;
nelle grandi applicazioni storiche la categoria secondaria trasparisce sempre
dentro alla categoria primaria. Le categorie primarie e secondarie ci danno la
pianta della patologia storica; non l'edilìzio con tutte le sue parti. Le
quattro grandi sfere contengono minori sfere, i quattro grandi sistemi
contengono sistemi sempre più piccoli : apparecchi, organi, tessuti, elementi
istologici: le anime generali non esistono veramente che nelle anime elementari
o cellulari. I fatti sono complessi organici e naturali di categorie, le più
generali chiuse nelle più particolari, e queste ricoperte dalla loro buccia
innominabile ed accidentale. A forza di aggiungere categorie a categorie il
vacuo si riempie e si consolida l'astrazione. La patologia storica congegnata
da M. è veramente originale; e sebbene, volendo dedurre da pochi principi e
compendiare in pochi schemi tutti i fatti umani, abbia talvolta
dell'artinzioso, non è certo nel complesso senza genialità, e coglie con acume
i nessi che legano i singoli morbi alle varie forme della civiltà umana. Ancora
il terzo periodo — La filosofia della natura. La creazione secondo M.. La lotta
di M. contro la teoria darwiniana. Il suo metodo trimorfo. La dimostrazione dei
suoi principi. L'accidentale e il necessario nella sua concezione filosofica.
M. non puo limitare la sua speculazione entro l'ambito della jatronlosofìa.
Dalla sua stessa concezione di [Delle prime linee della patologia storica,
Prelezione, Bologna, Monti. Della sua patologia storica l'A. scrive (Delle
prime linee della patologia storica): Sarà vera o falsa, buona o cattiva; ma
sarei curioso, e ben vorrei vedere chi di questa bazzecola, come d'ogni altra
mia piccola cosa infino a una menoma parola, sarebbe capace di reclamare la
priorità. Nella prel. qui cit. l'A. non tracciò che lo schema generale di
questa sua costruzione. Ma svolse poi l'argomento nel successivo corso di
lezioni universitarie, mai dato alle stampe. Cfr. SICILIANI, Gli hegeliani in Italia.
Per gli argomenti trattati in questo paragrafo, si vedano: / naturalisti, La
natura a volo d'uccello: Forza] questa, oltre che dall'indole del suo ingegno e
dall'influenza dell'ambiente filosofico nel quale era stato educato, egli
doveva essere e fu infarti condotto alla costruzione di una filosofìa della
natura. Ma se egli parte dall'affermazione che l'essere è pensiero, e non vede
chiaro il significato di questa identità e non ne deduce logicamente tutte le
conseguenze, se egli pone le fondamenta in modo arbitrario e nelle singole
parti confuse e cozzanti fra loro, non può innalzare un edifizio solido e
fermo. E la sua filosofìa della natura è infatti un castello in aria, sebbene
edificato con ingegnosità, pazienza e tenacia ammirevoli. Sono pagine che
succedono a pagine, volumi che succedono a volumi, e rivelano una profonda
conoscenza dello svolgimento di tutte le scienze mediche e naturali, dai tempi
più antichi fino a quelli in cui viveva l'Autore: geologia, chimica, fisica,
zoologia, anatomia umana e comparata, fisiologia, patologia, terapia; e sono
ipotesi e conquiste scientifiche messe in relazione con sistemi filosofici e
con periodi storici. Sono analisi di animali e di vegetali, di specie, di
classi, di ordini, di generi; e descrizioni di organi, di funzioni, il cui
nascere e modificarsi vuol essere spiegato dal crearsi della idea divina. Ma in
tutta la costruzione si risentono le conseguenze della incertezza fondamentale.
M. afferma che creare è diventare, è spiegare successivamente le forme di cui
si ha il germe nel proprio essere. Il pensiero originario compie la propria
creazione, e di semplice essere si fa a poco a poco pensiero assoluto. Ma poi
aggiunge che il pensiero è il fondamento, il tetto e e materia, Un nuovo corpo
semplice, I tipi vegetali, Deus creavit, I tipi animali, Filosofia e non
filosofia, Darwin e la scienza moderna, ecc. Deus creavit, Dialogo I, nella
Rivista bolognese] la travatura dell'edilìzio della natura. Egli viene così ad
ammettere che il pensiero non basta ad esaurire tutta la realtà, perchè il
fondamento e la travatura non sono tutto l'edifizio. Non resta dunque fedele
alla concezione idealistica, secondo la quale la natura è un momento del
pensiero, che si risolve interamente nel pensiero stesso, e senza la quale lo
sviluppo del pensiero non sarebbe né completo, né possibile. Egli distingue
nella natura due gradi e due modi di creazione: l'una sensibile, individuale,
l'altra tipica, ideale, individuale anch’essa. La prima creazione è quella che
l’idea dell' uomo fa dell' individuo umano; ma 1'idea dell'uomo è naturale, e
le idee naturali restano latenti finché l'idea divina, prima causa di sé e
della natura, le renda attuose, le fecondi e ne determini la trasformazione.
Quando l'idea divina è naturata nell'uomo, la creazione cessa nella natura e
ricomincia nella storia, finché l'uomo si è ricongiunto al suo principio, e
l'idea divina esiste tutta in forma di idea spirituale. Anche l'idea spirituale
esiste solo legata all'accidente, cioè come individuo. Quindi, come nella
natura, così nello spirito accade una doppia creazione: quella dello spirito
individuale e quella dello spirito universale. Il primo ripercorre le forme
storiche passate dell'umanità sino all'attuale, l'altro crea le nuove e più
perfette forme storiche. La storia della natura umana, quella della natura
vivente e quella della natura cosmica sono le tre forme vitali di uno stesso
assoluto individuo temporale, il mondo. Sono tre creazioni : una divina,
eterna, infinita; l'altra essa pure ideale, ma temporale e finita, universale e
particolare insieme; la terza materiale, individuale, accidentale. Dio si
realizza nel mondo, e il mondo nell'individuo; quindi anche Dio si realizza
nell'individuo. L'universo fa nel tempo come Dio fa nell'eternità: comincia nella
forma più semplice del suo essere, la natura; si divide in due forme opposte,
il vegetale e l'animale, e infine si raccoglie in una [Del Vecchio-Veneziani -
Le opere scientifiche e la filosofia della natura. ] forma completa, lo spirito
umano. Le forme dell'idea divina passano eternamente l'una nell'altra, senza
annullarsi; e così pure le forme dell'idea naturale; ma nella materia una forma
esclude l'altra, e però nell'individuo sensibile, pur rimanendo tutte
idealmente, spariscono via via sensibilmente. Come un mammifero passa per le
forme animali inferiori e le protovertebrate prima di assumere ra sua forma
specifica, così l'individuo umano principia selvaggio, e poi riproduce le tre
forme moderne essenziali, ed è prima immaginativo, indi ragionatore, e finalmente
pensatore: medio evo, risorgimento, tempo nuovo. L'uomo ordinario, nel suo
sviluppo, si arresta alle forme storiche già create; l'uomo di genio crea forme
nuove, opera come spirito universale, traendo da Dio l'impulso e l'ispirazione
creatrice. E sempre esisteranno oltre ai più, agli uomini evolutivi, anche i
pochi, i creativi, finché, come la natura, anche l'umanità non sia giunta alla
sua forma vera, già tracciata da Dio. E perciò ora coesistono i vari gradi e le
varie forme in cui il tipo divino si squaderna nella natura. Questi gradi sono
una scala di mezzi e fini, in cui la forma inferiore è organo e mezzo
all'esistenza della superiore. Il ciclo tipico concepisce il moto creativo e
produce il ciclo superiore. Quando la natura è fatta, comincia la vita; e
quando è chiusa la creazione vitale comincia lo spirito umano. I cicli
secondari, anche prima di essersi svolti interamente, cominciano a produrre i
tipi corrispondenti del ciclo superiore. E la creazione ideale è creazione
sensibile; la creazione di una specie è produzione di molti individui in cui
appare la nuova forma. Il concetto precede l'esecuzione, e la successione
effettiva e naturale presuppone la successione logica, ideale. La funzione è la
vita, la forma è la natura, che precede il contenuto vitale, e non se ne lascia
tuttavia assorbire e soverchiare ; e quando il contenuto sparisce la forma
rimane. Nei tipi superiori la funzione assorbe e domina sempre più la forma, ma
la sua vittoria non è mai completa. L'equilibrio fra la forma e il contenuto si
ristabilisce non nel corpo, ma nello spirito umano. La vita passa come il
tempo; la natura è più tenace. Altra è la successione di tempo, altra di idea.
La successione naturale va non da ciclo a ciclo, ma da tipo a tipo; e perciò in
tutte le epoche della creazione tutti i tipi primari sono, più o meno
completamente, rappresentati. Ogni tipo incomincia col riprodurre i tipi
formali che lo precedono, indi prende la sua forma propria, e infine arieggia
al tipo che gli deve succedere. Anche diverso è il modo di accrescimento nella
natura, nella vita e nello spirito. Essendo la natura pura esteriorità, i corpi
inorganici crescono per moltiplicazione quantitativa esteriore, e non hanno
altra unità che la loro forma comune. Nello spirito, che è pura interiorità, la
esterna moltiplicità diviene interna e qualitativa. Infine, essendo la vita uno
spirito naturale, un misto di esteriorità e di interiorità, di apposizione e di
intuscezione, Tessere organico si sviluppa per una moltiplicazione quantitativa
ed esterna e per una moltiplicazione interna e qualitativa, con prevalenza
dell'una o dell'altra secondo che si tratti di una forma più o meno prossima
alla natura. Mai la vita è tanto esterna che non abbia la sua interiorità ; mai
la forma organica è tanto molteplice che non abbia la sua unità. Ma quest'unità
è diversa nel vegetale e nell'animale. Nel vegetale la vita di ogni individuo
elementare si unifica nella vita comune dell'aggregato; nell'animale deve
prevalere l'unità dello spirito umano, e l'individuo, semplice e libero al di
fuori, è molteplice e tutto qualificato al di dentro. Le forme superiori [sono
la chiave I tipi animali,, Bologna, Monti; Lettere sulla patologia storica, I
tipi animali] necessaria a spiegare ed interpretare le inferiori, per se stesse
oscure, indistinte, indeterminate; e sono alla loro volta spiegate dalle forme
inferiori in cui appariscono nella primitiva semplicità. Ma il riscontro non è
utile se non cade sulle forme fra le quali corre una particolare e più diretta
e più intima relazione tipica, secondo il vero metodo evolutivo, in cui l'idea
unisce le forme ed organizza le serie, non col metodo empirico, capace solo di
conclusioni generali arbitrarie, artificiali, ovvero, se alla vacuità
sostituisce il preconcetto darwiniano, di una inestricabile confusione. Come
Hegel combatte e denigra Newton, così M. lancia in quasi tutte le sue opere
strali frequenti contro il Darwin e i darwiniani. Il naturalista inglese è per
lui un genio, ma il genio dell'ignoranza, perchè pone il cieco caso in luogo
della ragione vitale. Egli pretende che tutte le forme dell'intera serie
animale sieno venute l'ima dall'altra per l'aggiunta di sempre nuove
particolarità organiche nate a caso, e perchè utili ritenute nella selezione
naturale, e trasmesse dall'eredità, senza che mai in una forma nulla
preesistesse dell'altra che da essa proviene. M. afferma che qui c'è un
progresso sul Lamark, in quanto la modificazione dell'essere vivente è
primitiva, spontanea, in- [M.dice che la proposizione in cui si compendia la
scienza dell'astronomia: I sistemi solari sono i primi uomini, il cosmos è il
mondo umano primitivo... non è possibile che alla filosofia della natura:
motivo per cui Newton, il divinissimo astronomo, non la sapeva altrimenti; egli
nel cielo ci vedeva Dio, e per questo ci voleva poco, ma non ci vedeva l'uomo.
- Dopo la laurea, li, [I tipi animaci, pel giudizio di M. circa la teoria
darwiniana, Dopo la laurea, Deus creami, Darwin e la scienza moderna, I tipi
animali; Filosofia e non filosofia, Lettera sulla patologia storica] genita, e
non prodotta soltanto da agenti esterni; ma egli non sa comprendere come si
possa affermare che tale modificazione è casuale, irrazionale, e che la ragione
c'entra poi, introdotta dal caso. Ammette che in ciascuna delle teorie di Mosè,
Zaratustra, Firdusi, Diodoro, Lamark, Darwin, è qualcosa di ragionevole, cioè
di serio e di vero. La verità più ragionevole, sebbene espressa in modo goffo e
materiale, è quella di Mosè: Deus creavit! — la meno ragionevole è quella darwiniana.
La teoria adattativa del Lamark e quella selettiva di Darwin, pur essendo tutte
e due sbagliate, hanno di vero lo schema comune, ed è questo: gli animali
formano tutti una sola famiglia naturale ; il principio che unisce e lega le
forme è l'eredità; il principio della divergenza delle forme è la variabilità.
Se non che questi tre punti debbono essere integrati rispettivamente così : gli
animali sono tutti in fondo uno stesso animale ; la generazione è creazione; la
variabilità deve essere determinata, perchè nella natura e nella scienza la
potenza sta nella determinazione. Secondo M., è vero che l'individuo varia
senza legge e senza ragione, fuorché quella di essere individuo accidentale; ma
varia anche con ragione, perchè è posto fra la cieca necessità della natura e
la conscia assoluta libertà dello spirito umano. Dio è il grande modincatore,
il vero e solo creatore dei nuovi organi e delle nuove funzioni vitali, perchè
una funzione è un'idea, e per creare un'idea ci vuole un'idea. Il non essere non
può creare l'essere, l'irrazionale non può creare la ragione, la natura ossia
l'accidente non può creare i tipi e le funzioni. Senza l'idea divina non
potrebbe nascere dall' antropoide 1' antropo, intercorrendo fra loro una
differenza ideale anche, e di gran lunga, maggiore dell'organica, e neppure
potrebbero nascere nuove forme, perchè ogni fonma ha un suo proprio valore
assoluto, e si sviluppa secondo il ritmo assoluto del mondo, secondo il disegno
eterno della creazione. L'idea, e non il sangue, fa l'unità delle forme vitali.
Fra coloro che non riducono la scienza ad una storia accidentale, alcuni i
seguaci della scienza antica, essenzialmente religiosa e intuitiva ammettono
due storie ideali, una fuori della natura e del mondo, un'altra secondaria, riflesso
della prima, sviluppantesi nel seno della natura e dell'essere vivente; gli
altri, i seguaci della scienza moderna, riflessiva, non riconoscono che la
forma e la storia intrinseca alla natura, all'animale, allo spirito umano,
considerando la storia extramondana come un effetto ottico operato dalla
intuizione. Vi sono tre maniere diverse di considerare le forme vitali. L'una
consiste nel distinguere fra gli elementi comuni a tutte quelli che sono propri
di alcune soltanto. E si considerano questi elementi formali come caratteri
costitutivi di un tipo più o meno comprensivo. È la maniera astratta, quella di
Linneo, di Jussieu, di Decandolle, di Cuvier, di Milne Edwars, di Owen. V'è una
seconda maniera, che si riassume tutta nella frase : una forma è simile ad
un'altra perchè il figlio è simile al padre e il padre all'avo. Questo è pel I.
il finis Poloniae, la comune e l'internazionale della scienza moderna. Vi è
infine una terza maniera, che consiste nel cogliere la forma nel suo movimento,
e considerare i vari tipi come i momenti evolutivi di un tipo ideale assoluto,
il quale è l'unità, la verità, la ragione, il principio e il termine di tutte;
e questo tipo è il vero animale. È la maniera concreta, quella di Schelling, di
Hegel, di Oken. Dopo di loro il solo Baer l'ha presentita, ma non ne ha fatta
una applicazione sistematica e conseguente alle varie forme animali. M. dice
che egli intende di fare un tentativo di questa specie. Secondo lui, tutte le
forme preesistono idealmente l'una nell'altra; tutte preesistono in una forma
[I tipi animali, Le opere scientifiche e la filosofia della natura] germinale
di cui sono lo sviluppo creativo, interno, spontaneo. La creazione consiste
nella determinazione ideale originaria di schemi indeterminatissimi, e nella loro
delimitazione naturale, ossia accidentale. Una forza interna a un dato momento,
aiutando le condizioni esterne da lei stessa preparate, trasforma l'embrione in
larva e la larva nell'individuo completo, facendolo attraversare una serie di
forme l'una più perfetta dell'altra, immagine della palingenesi universale.
Questa forza ricevette una prima spinta dalla generazione. L'uomo dà l'impulso
prima alle forme semplici e generali, quiescenti l'una nell'altra, che sono
nella natura e pur non sono naturali; le desta, le crea, le differenzia, le
delimita; dei puri e semplici momenti della legge formale fa delle forme vive,
reali, accidentali; muove la materia informe a creare il sistema solare e
l'uomo a traverso alla serie delle forme cosmiche e vitali. L'uomo eterno,
l'uomo intelletto umano, è dietro al caos ed a tutte le forme, è la forma,
l'anima, la forza, la spontaneità pura, assoluta, in cui lo stesso accidente,
il limite indifferente, l'assoluta particolarità esiste, ma nella forma di
principio, di universalità, di necessità, ed in questa contraddizione consiste
la sua attività creatrice. Il pensiero assoluto si trasferisce e si effettua
nella realtà dell'universo, e lo fa a sua immagine, e seco vi trasporta il
metodo assoluto della sua evoluzione attuale. La forma è un principio e una
forza indipendente dalla funzione; e questa forza ha una legge che ne determina
lo sviluppo e l'azione, ed è la stessa*legge dell'universo, è il metodo della
natura, del vegetabile, dell'animale e dell'uomo, il metodo insomma di tutto il
creato, perchè è quello intrinseco alla divinità creatrice. Secondo questa
legge, ogni sviluppo essenziale si fa in tre momenti: tesi, antitesi, sintesi.
Al movimento puro, assoluto, astratto, corrisponde il [I tipi animali, Le opere
scientifiche e la filosofia della natura] movimento concreto della forma, ai
tre momenti ideali corrispondono tre tipi sensibili : amorfo, antimorfo,
teleomorfo. E perciò l'universo è una gran trilogia: è amorfo nella natura,
antimorfo nella vita, teleomorfo nello spirito umano. La natura (amorfopan) è
indifferenza senza opposizione essenziale; è tutta forma senza unità, senza
fine, senza ragione, senza la forma della forma. La vita (antipan) è
essenzialmente opposizione fra corpo ed anima, fra molteplicità ed unità, fra
vegetale ed animale. Esiste fra vegetale ed animale una doppia antitesi : l'una
di natura e l'altra di funzione (antitesi psichica e antitesi corporea). Lo
spirito umano (teleopan) è teleomorfo. Lo spirito è 1' opposizione spinta all'
estremo, poiché l'antitesi non è più solo fra corpo ed anima, fra senso e
sensibile, ma fra intelligenza e intelligibile, fra Dio e l'uomo. Lo spirito
comincia con l'opporsi alle idee e finisce per riconoscersi in quelle, e con lo
stesso colpo si riconosce nelle cose : sì che egli è l'unità reale e distinta
delle cose e delle idee. L'anima nella natura è interna, nel vegetale apparisce
al di fuori, ma è corporea; nell'animale diventa corporea, ma rimane
particolare; nell'uomo diviene assoluta, universale e puramente ideale, e la
opposizione è finalmente risoluta e conciliata. La natura, la vita, lo spirito
umano hanno ciascuno a sua volta il proprio sviluppo trilogico essenziale.
Questo metodo trimorfo, come egli stesso lo chiama, è per M. il filo ariadneo
che deve guidarlo a traverso al labirinto delle forme vegetali ed animali. Per
lui tutte le forme e i tipi più eterogenei e dissimili sono in realtà uno
stesso identico animale in via di formazione : l'uomo. E dei tipi animali egli
vuol tracciare la storia ideale, perseguendola a traverso alla descrizione.
Confessa che la descrizione gli riesce troppo completa e determinata, mentre
ogni tipo è sfumato ed evanescente innanzi alla sua realizzazione, è il mobile
oscuro che da dentro fa forza e opera lo sviluppo creativo, cominciando da sé,
creando a mano a mano le proprie determinazioni. Invece i sistematici ordinari,
tutti intenti alla diagnosi delle forme, poco si curano delle differenze di
quantità ; essi hanno bisogno di caratteri qualitativi specifici, possibilmente
esclusivi, precisamente quelli più materiali, che non significano nulla appunto
perchè non passano in altre forme. Tipo è forma con significato. Questi
sistematici hanno una logica difettiva a forza di astrazione; non pensano che
nel quanto è rinchiuso il quale. Seguono la vecchia tendenza separatrice,
diagnostica, artificiale, bisognosa di abissi e avida di caratteri esclusivi,
isolatori. La nuova morfologia invece cerca le comunanze e le transizioni,
benché non arrivi ancora a ravvisare la transizione ideale dove manca quella
materiale. Per la vera morfologia il primo è la forma, che pone i lineamenti
generali dell'essere; poi viene la funzione ideale che la accomoda e la
modifica; e in ultimo viene la funzione reale e la selezione naturale. I
darwiniani invece ignorano l'omo [I tipi animali] Dopo aver chiarita la
differenza fra le due morfologie, Meis soggiunge che il suo scritto è un
lavorìo tutto di pensiero, condotto con un organo che nel cervello dei
naturalisti, darwiniani o antidarwiniani ch'ei sieno, dev'essere assolutamente
atrofizzato: « è tutta da capo a fondo (apriti cielo)... una ricostruzione a
priori. Ma lo scandalo sarà piccolo, perchè non ci sarà di certo chi ci si
voglia rompere il capo. Questo scritto non si fa per stamparlo, si stampa per
farlo ; e si fa per uso e consumo esclusivo, e per supremo divertimento
dell'autore, che quando sarà tutto stampato tirerà tanto di chiavistello sulle
pochissime copie che ne avrà fatto tirare. Le opere scientìfiche e la filosofia
della natura] la formale; per essi la funzione è tutto e fa tutto, ed è una
funzione prodotta dall'organo, la nutrizione, non la funzione essenziale,
«principiale)), a loro ignota e inconcepibile, Le dottrine materiali non hanno
nulla a che fare con la scienza, perchè questa non è la ragione dell'uomo che
la fa, ma la ragione della cosa. Il caratterizzatore vede crollare come
castelli di carta le sue classificazioni più o meno inge-gnose. Il rimedio è
uno solo: a Non caratterizzare, non classificare; pensare e ripensare. Seguendo
il metodo trimorfo, si riconosce che nel vegetale l'amorfofito è indifferente
ed informe; l'antifìto è il centro della formazione, il punto in cui si spiega
l'opposizione fra il corpo e l'anima vegetale ; nel teleofito le due sfere sono
egualmente sviluppate. Il vegetale amorfo è l'alga, prima chimicamente e poi
anatomicamente semplice, indi molteplice, ma tutta disgregata nei suoi elementi
cellulari. 11 vegetale antimorfo è da un lato la felce vegetativa, dall'altro
il fungo riproduttivo. Il vegetale teleomorfo è il cotiledonato, in cui la
forma vegetativa e la forma riproduttiva sono egualmente sviluppate. Analogo è
lo sviluppo tipico dell'animale. L'amorfozoo è informe e indifferente;
nell'antizoo, punto centrale di tutta la formazione, si sviluppa l'opposizione
fra corpo e anima, fra sistema vegetativo e sistema riproduttivo ; nel teleozoo
i due opposti sviluppi sono riuniti e in giusta proporzione fra loro. L'amorfo
animale è il protozoo, cioè il rizopode e l'infusorio; l'antimorfo è il
radiario, il mollusco e l'articolato; il teleomorfo è il vertebrato: pesce,
anfibio, rettile, uccello, mammifero. I nomi di amorfozoo, antizoo e teleozoo
sono preferibili a quelli di vertebrato ed invertebrato, che esprimono solo la
presenza o l'assenza di un elemento secondario. Finché M. sta fedele al suo
programma di dimostrare solo col farli muovere i principi filosofici ai quali
[I tipi animali, Le opere scientifiche e la filosofia della natura] crede, egli
lavora a meraviglia: originali le applicazioni alla scala degli esseri viventi,
alle varie forme della vita, della scienza, della filosofìa, della storia;
particolarmente geniali e nuove le applicazioni alla patologia. Ma a volte —
rare volte, è vero — egli sente il bisogno di tentare una dimostrazione logica
di quei principi, e riesce invece, senza avvedersene, a dimostrarne 1'
ìnsuffìcenza, 1' arbitrarietà, la nebulosità. Ciò gli accade nel Deus creavit,
e nei tre dialoghi : / naturalisti ; Forza e materia ; Un nuovo corpo semplice.
Nel Deus creavit — già lo abbiamo visto — egli tenta, senza riuscirvi, di
dimostrare che il pensiero è fin dal primo momento essere. Nei Dialoghi
affronta lo stesso problema in forma più concreta : ricerca il punto in cui
l'essere ed il pensiero si identificano, lo ricerca con la sicurezza di chi
sappia di rintracciare cosa esistente nella realtà ; e con lo stesso metodo, lo
stesso procedimento, lo stesso linguaggio, e quasi la stessa mentalità con cui
un naturalista potrebbe studiare un essere da lui non visto ancora, ma del
quale, per descrizione autorevole e per indizi indiretti e certi, gli fosse
nota l'esistenza e i caratteri.] vero lutto è l'uomo, l'uomo come pensiero, in
cui l'uomo della natura, che in sé ricompendia tutta la natura, si risolve ed
unifica perfettamente. Ma come questo pensiero eterno passa nel realizzarsi per
tutti i gradi della natura ? E che è questa natura ? Quale il suo primo grado ?
Retrocedendo nella storia del processo naturale si perviene ad un muro saldo,
incrollabile, oltre al quale non si può andare: quel muro è la materia. Certo
la materia suppone lo spazio; ma spazio senza materia non ci può essere. Chi
dice spazio [I naturalisti, Diagolo 1°, nella Civiltà italiana, Firenze, La
natura a volo d'uccello: Forza e materia, Dialogo, nella Civiltà italiana,
Firenze, La natura a volo d'uccello: Un nuovo corpo semplice, Dialogo, nella
Civiltà italiana, Firenze, Le opere scientifiche e la filosofia della natura.
dice tempo, e chi dice tutti e due dice moto; e dir moto è dir qualche cosa che
si muove, è dire insomma la materia, moto immobile, forza latente ed inerte
dell'universo. La forza diviene sempre materia a traverso un suo sviluppo : da
forza chimica, semplice affinità, a forza fìsica, e da forza fìsica a forza
meccanica, e infine corporea. Ogni forza è la materia della forza inferiore ed
il germe della superiore : e così il moto è il tempo materializzato; il tempo è
lo spazio divenuto più materiale. Sempre la materia è la realtà, il limite di
una forza; e la forza è la materia nel suo spontaneo svolgimento. La forza del
pensiero da principio non pensa ancora, ma si vuol pensare, ed è chiusa nella
forza semplice in cui tutte le forze speciali sono latenti ; e come la più
forte, le urta di sotto e fa uscire la forza chimica, che si comunica a tutta
la massa della forza semplice, sì che tutto diventa forza chimica reale,
affinità e materia puramente chimica ; e fa di questa affinità informe un
imponderabile informe, e di questo un informe ponderabile, un corpo semplice
informe. L'uomo senza influsso di esterno accidente, mentre egli era da per
tutto ed era tutto, non poteva scegliere un punto del tempo e dello spazio in
cui operare la trasformazione della materia semplice in corpo sémplice. E
l'operò in un punto del tempo e dello spazio che erano tutto il tempo, tutto lo
spazio. Quell'attimo, quello spazierello» si riempì di materia reale, naturale,
diventò da spazio ideale spazio reale, interminato, e con esso cominciò la
natura. La forza del pensiero, come ha trasformato il moto, la forza semplice,
in forza chimica, così trasforma questa in forza fìsica, e la forza fìsica in
forza meccanica; e dallo stesso oscuro fondo fa scaturire dietro a quelle forze
la materia chimica, che si trasforma in materia fìsica e indi in meccanica; e
all'ultimo in vera materia, in corpo chimico imponderabile, ponderabile. È la
materia semplice che successivamente si modifica e si realizza; è la proprietà
chimica, è la speciale natura Le opere scientifiche e la filosofia della
natura.] fisica, è la figura meccanica, geometrica, cristallina, che si
aggiunge alla forza chimica imponderabile, ponderabile, e le dà un primo corpo
ed una nuova realità; gli è un corpo incorporeo, una materia immateriale, una
realità non sensibile. Le forze, e le loro forme, le loro proprietà, sono
semplici, indifferenti, indistinte; esse sono avviate all'atto, alla esistenza
naturale, ma non ci sono giunte ancora. La forza è molto pensiero e poca
natura, e non ha tal realità e tal valore da fare di uno spazio-pensiero uno
spazio-natura; ma la proprietà è più natura che pensiero ed è perciò atta ad
empire di se lo spazio ; onde appena il pensiero umano dietro a quelle tre
forze fa scaturire quelle tre semi-materie, subito mette fuori lo spazio, e lo
distende, e vi spiega le tre proprietà; e queste vi portano seco le loro forze,
e le disseminano egualmente in tutti i suoi punti. Non perciò lo spazio è pieno
ed ha compiuta realtà. Egli è estensione, è materia, ma non corpo, perchè non è
ancora sensibile. Il primitivo pensiero umano ha dentro di sé un limite che è
esso stesso pensiero, ed è il germe e l'origine del senso; di questo limite fa
lo spazio-pensiero e il tempo-pensiero, e il moto, la forza-pensiero, e persino
il qualcosa, la materia pensiero: e tutto questo rimane dentro di lui, rimane
lui stesso, ed è ancora poco men che pura ragione e semplice pensiero. Ma poi
egli, premendo di più su quel limite, fa dello spazio-pensiero uno
spazio-estensione, e di questo un corpo sensibile prima al corpo, e poi, per
mezzo del corpo, anche all'anima. E poi, facendo del moto-pensiero un moto
reale, farà del tempo-pensiero un tempo durata; e poi farà tutta la natura, e
la vita — il vegetale —, e l'anima — l'animale ; e all'ultimo si rifa pensiero,
e pensa se stesso e l'opera sua. Di quel suo limite originario, che era un
senso-pensiero, egli ha fatto a poco a poco un senso-senso. E di questo senso
farà nella natura formata vari sensi distinti, e così farà dell'anima. Se noi
facciamo la storia della natura, troviamo all'origine della forza e della
materia uno stesso identico germe, il quale è in uno pensiero umano e senso
umano originario. Quel germe, pur mantenendo sempre la sua originaria identità,
si sviluppa di grado in grado, ed è prima natura, poi vegetale, poi animale, e
da ultimo uomo; e in ogni grado conserva quelle due cose opposte, la forza e la
materia, sempre distinte e sempre unite in una perfetta identità. Nell'uomo,
nell'io, nel pensiero reale, l'unità delle due cose opposte è naturata,
personificata, e incorporeamente corporalizzata. Questa unità veduta nella
nostra natura ci fa più facilmente riconoscere l'unità dei due elementi nelle
nature inferiori, la psichica, la vitale, la naturale. Nell'afferrare ciò
consiste la scienza. Questa è la storia della natura amorfa, in cui tutto è
quiete ed immobilità, in cui non c'è che un corpo semplice, omogeneo, uniforme,
informe. Poi — dice l'Autore — verrà la natura antimorfa, lo sviluppo delle
forze e delle materie, il caos. Infine vedremo sorgere una nuova forza, che a
tutte le forze del caos darà una legge e una norma, a tutte le materie una
forma comune ; e sarà la natura olomorfa, il cosmo. E vedremo la forza cosmica
trasformarsi nella forza vitale, e la forma cosmica divenire la forma vitale,
vegetale. E con questo programma egli termina il secondo dialogo, Forza e
materia; ma non pubblica più che un terzo dialogo (*), nel quale riassume la
storia del pensiero umano, che da prima tutta interna, tutta dentro un punto,
si squaderna poi nello spazio e si sgomitola nel tempo, e all'ultimo si
ritrasforma di natura in pensiero, e si riduce di nuovo ad un punto, e questo
punto è l'io. Come in principio il punto originario, così ora il punto
individuale si trasforma tutto; ma la trasformazione non si fa, come allora,
tutta in un atto, [Il dialogo (Un nuovo corpo semplice) è preceduto da questa
nota. Il presente dialogo è indipendente dai precedenti », - Sappiamo già che
M. lavora spesso frammentariamente. Le opere scientifiche e la filosofia della
natura.] bensì successivamente. L'io è un animale naturale, individuale; ma gli
ii sono molti, e sono come molti punti, molti tempi in un solo tempo, e tutti
fanno come uno spazio intellettuale nello spazio naturale, La trasformazione
umana universale, come quella dell'individuo umano, si sgomitola nel tempo e si
srotola nello spazio, e intanto si raggomitola e torna ad arrotolarsi nella
storia. E perciò la storia umana è una storia naturale di tempo e di spazio, è
una cronologia e una geografìa. La storia umana e la storia della natura,
essendo creata dal pensiero, è in ogni sua fase totale e universale ; solamente
non appare e non diventa reale che in certi punti di tempo e di spazio: in
certe epoche, in certi luoghi, in certi corpi e in certi ii. È facile scorgere
che M. non è felice quando vuole risalire ai principi sui quali ha fondata la sua
costruzione. Invero non si capisce come quel suo pensiero originario, avendo
nel senso un limite interno, possa non avere anche un limite esterno, e tutta
la natura, che invece deve ancora nascere; ne si capisce come quel pensiero, a
furia di premere e caricare sul proprio limite, possa fare del senso-pensiero
un senso-senso, possa, in altre parole, trasformarsi da forza in materia. Ma
l'Autore non ha il più lontano dubbio di star tentando la soluzione di un
problema forse insolubile, certo insoluto. Che forza e materia sieno due cose
distinte ed opposte, ma unite ed identiche è per lui una verità certa,
positiva, reale. Egli dichiara che non ha la pretesa di dimostrare, ma solo di
far presentire la verità, come la presente egli stesso: e certo di quella verità
da lui presentita non riesce a dare una dimostrazione logica. In una pagina che
onora il suo senso poetico più che la sua GENTILE, LA FILOSOFIA ITALIANA. Forza
e materia, I naturalisti, Dialogo] profondità filosofica, egli afferma che il
corpo è un vegetale, è l'inferno, l'anima è parte materiale e parte immateriale
ma sempre naturale, il pensiero è il paradiso, e di pensiero noi siamo tutti
uni in Dio ; e per descrivere il suo paradiso tratteggia con poche belle linee
il paradiso dantesco. Come Dante non può significar per verba il trasumanare,
così egli stesso non può chiarirci come 1' universo si unifichi nell'uomo; solo
ci dice con slancio lirico che quella è la sua fede. Alla fede in quanto è
davvero tale e solo tale, ed è ardente, profonda, incrollabile, sarebbe certo
vano, se pur fosse possibile, 1' opporre argomentazioni. Ma ai principi che di
quella fede sono oggetto, e vengono posti a fondamento di una costruzione
scientifico-filosofica, si può e si deve chiedere se sieno suscettibili di avere
dall'esperienza una conferma o dalla logica una dimostrazione. La risposta è
negativa. Quanto alla conferma dell'esperienza, M. dice che con le idee si
scopre, è vero, la sostanza delle forme e si tien dietro al loro movimento
essenziale ; ma il controllo è la stessa realtà che deve rimanere inalterata ed
intatta, ed è il fatto che deve essere riprodotto nella sua integrità, e con
tutte le sue condizioni essenziali. Ma se l'Autore ammette l'esistenza di
realtà e di fatti che non sono idee, e che solo con le idee possono venir
scoperti nella loro sostanza e seguiti nel loro movimento, dovrebbe indicare un
terzo termine, atto a valutare la rispondenza fra gli altri due. Non lo indica.
Ma è chiaro che il terzo termine non può essere per lui che la stessa idea,
giudice e parte in causa. Il controllo di cui egli ha parlato manca; e non
poteva non mancare. Nell'ambito dell'idealismo assoluto non può esistere un
controllo esterno, ne si può senza essere [I tipi animali. Cfr. Dopo la laurea,
Le opere scientifiche e la filosofia della natura. incoerenti ammettere
l'esistenza di una realtà che non sia l'idea o il pensiero.Quanto alla
dimostrazione logica dei suoi principi, abbiamo veduto che le rare volte in cui
M. la tenta non la raggiunge, e cade in contraddizioni, come quando, dopo aver
affermato che il pensiero è l'essere, ne ragiona come di un pensiero che pensa
l'essere, e considera l'essere come puro essere e non pensiero ('); o incorre
in errori, come quando afferma che il pensiero originario ha nel senso un limite
interno senza avere un limite esterno; ovvero si appiglia ad ipotesi degne di
un alchimista ostinato alla ricerca della pietra filosofale, come è quella
della forza che diviene materia premendo e calcando sul suo proprio limite. La
sua filosofìa della natura, riposando su principi che possono essere oggetto di
fede, ma non possono avere dall'esperienza un controllo né dal ragionamento una
conferma, è una costruzione che può essere, ed è difatto, ingegnosa e bella, ma
è del tutto arbitraria. Di ciò mai ebbe alcun sospetto l'Autore, sempre fermo
nella sua fede hegeliana, vita della sua vita, anima della sua anima. Egli non
intendeva di cercare una soluzione nuova; solo si proponeva di svolgere ed
elaborare una soluzione già da altri raggiunta. La sua opera è fallita perchè
aveva come presupposto e come base quella conciliazione dell'essere e del
pensiero, della forza e della materia, che contrariamente a quanto egli credeva
non era stata raggiunta da nessuno, e meno che mai poteva esserlo da chi,
avendo studiata analiticamente la natura, si ribellava a tagliare il nodo
gordiano negando la natura stessa o riducendola a una mera forma spirituale.
Deus creavit. Forza e materia. Della medicina sperimentale; e cfr. tutte le
opere di M. M. non è d'accordo col Berkeley, che « sopprime la natura»; Del
Vecchio Veneziani Una costruzione speculativa della natura, quale l'idealismo
assoluto e la riduzione della natura a pensiero esigono, dev'essere tutta una
deduzione necessaria per considerarsi compiuta e riuscita. E in una deduzione
logica e necessaria l'accidente come tale non può trovar luogo. Non si
dimentichi, del resto, die l'idea dominante in tutte le assidue e lunghe
meditazioni del M. intorno alla natura, l'idea informativa di tutti i suoi
studi era, come egregiamente la definiva Fiorentino, « l'idea di contrapporre
al predominio dell’accidente, che è il lato debole del darwinismo, una
spiegazione più intima e più razionale delle forme, attraverso delle quali
progredisce e si dispiega la vita della natura... una ragione superiore, che
regola lo sviluppo dei tipi della vita naturale, finche non si dispieghi, e non
si allarghi nell’uomo e nella coscienza. Si trattava dunque per M. di superare
quello scoglio contro il quale, a suo vedere, naufragava il darwinismo; di
evitare la trasformazione dell' accidente in Deus ex machina, al quale far
ricorso perchè o dove non soccorra una ragione superiore o una spiegazione più
intima e razionale. M. appunto dice e ridice, anche per quanto si riferisce
alla natura, che la filosofia vive nella sfera della necessità e della certezza
assoluta; ma in contrasto con questa esigenza afferma anche l’indispensabilità
dell’accidente in tutti i momenti della creazione. Ora l'accidente, che è
dichiarato indispensabile, o è razionalmente necessario, cioè deducibile a
priori, e allora deve rientrare nella costruzione speculativa come elemento
interno, e non esteriore, sicché non può più dirsi propriamente accidentale. O
è la né col Fichte, nel cui sistema la natura c'è soltanto quanto basta per far
la coscienza, ed è quindi ridotta ad una espressione astratta. Cfr. Prenozioni,
La filosofia contemporanea in Italia, Dopo la laurea, negazione della necessità
razionale e della deduzione a priori, ed in questo caso la dichiarazione della
sua indispensabilità costituisce il confessato fallimento della costruzione
speculativa. M. oscilla fra le due alternative, senza sapersi appigliare né
all'una né all'altra. Questa non meno di quella avrebbe significato il
riconoscimento della contraddittorietà della sua impresa. Invero l'accidente
sembra necessario per lui a costituire nella catena dello sviluppo creativo
l'anello iniziale e gli anelli di saldatura tra i frammenti non altrimenti
congiungibili. L'anello iniziale, poich'egli dice che quando non c'era la
natura e quindi l'accidente » era impossibile all'uomo (ossia all'idea di Uomo,
che come fine deve precedere e determinare lo sviluppo), senza arbitrio e «
senza influsso di esterno accidente, di scegliere un punto del tempo e dello
spazio in cui operare la iniziale trasformazione della materia semplice in
corpo semplice. Gli anelli di saldatura, in quanto dice che l'accidente,
elemento costitutivo della natura, è necessariamente compreso nel processo
della funzion ; che ogni tipo vivente è già idealmente quello che dee
succedergli, ma non basta a crearlo, a produrlo realmente nella natura, senza
il concorso di cause accidentali e d'esterni influssi. E in generale tutto il
processo e lo sviluppo della natura per M. consegue la realtà solo in quanto
l'accidente interviene e concorre con l'idea alla produzione del risultato. Il
fatto è anche idea, ma l'idea non è reale e non esiste che nel fatto; « il
principio e la potenza della vita... è sempre unito a un qualche elemento
materiale e meccanico che lo fa reale e particolare, che è quanto dire
individuale ed accidentale. Forza e materia, / mammiferi. Prelezione al corso
di fisiologia dato nella R. Un. di Modena. Degli elementi della medicina. Le
opere scientifiche e la filosofia della natura. M. considera i vari tipi carne
momenti evolutivi di un tipo ideale assoluto, l'uomo eterno. Crede che tutte le
forme preesistano in forme germinali di cui sono lo sviluppo creativo interno e
spontaneo. Ma la creazione non consiste soltanto, nella determinazione ideale
originaria di quegli schemi indeterminatissimi », sì anche nella loro
delimitazione naturale, o sia accidentale. E molte volte ripete che la natura è
accidente e che l'idea spirituale esiste solo legata all'accidente. Ma qui
appunto si potrebbe obiettare alla nostra osservazione, che noi dobbiamo
approfondire il concetto dell'accidente che M. afferma. Legato all'idea,
intrinseco alla natura, l'accidente che egli fa entrare in campo a determinare
e spiegare lo sviluppo non è, come l'accidente dei darwiniani, puramente
estrinseco e meccanico. Ha anzi esso medesimo una necessità interiore ; è il
momento della antitesi, senza il quale non potrebbe svolgersi la sintesi
creativa. L'uomo eterno, dice appunto M., è « la forma, l'anima, la forza, la
spontaneità pura, assoluta, in cui lo stesso accidente, il limite indifferente,
l'assoluta particolarità esiste, ma nella forma di principio, di universalità,
di necessità : ed è in questa contraddizione che consiste la sua attività
creatric. Per questa via parrebbe risolversi la difficoltà nella quale ci
appare impigliato la filosofia di M.. Che se anche altrove egli identifica il
puro accidentale col male, non vi sarebbe contraddizione con la universalità e
necessità riconosciuta sopra all'accidente; ma distinzione di due specie di
accidenti o di nature: l'interna e l'esterna; necessaria la prima, accidentale
in senso proprio la seconda. M. difatti parla esplicitamente di una natura
esterna che viene Deus creavit, (/ tipi ammali. Le opere scientifiche e la
filosofia della natura. a dare l'ultima mano alla natura interna, di un agente
esterno ed accidentale che non era compreso nel processo della natura interna,
non era calcolato nella evoluzione vitale, e oltre a modificare, sia pur solo
superficialmente e quantitativamente, le forme, e favorire la trasformazione, e
provocare la nuova interna creazione e lo sviluppo di germi latenti, « può fare
e fa certamente di più, v'introduce qualche cosa di accidentale e di naturale.
Di fronte a questo accidente, esterno sta l'interno : « vi è già — soggiunge M.
— nella forma latente un principio di accidente. Essa è semplice ed una, ma
nella sua unità vi è un germe di differenza e di moltiplicità, vi è
l'attitudine e la disposizione a dividersi in molti e diversi, ed è un
accidente indeterminato e scolorato, pura possibilità di farsi, più che non è,
accidentale. L’accidente esterno feconda 1' accidente interno e gli dà corpo e
colore, e ne fa una realità accidentale e naturale. Gli agenti esterni
stimolano, promuovono, determinano, ma Dio opera la trasformazione. L'accidente
può render conto delle differenze secondarie, non giunge ai veri gradi della
formazione. Esiste dunque una storia interna, essenziale, ed una esterna,
accidentale; ed esistono due sorta di accidente: uno necessario ed essenziale,
l'altro secondario e individuale: il primo, l'accidente necessario, assoluto,
realizza l'evoluzione creativa ideale, intrinseca, assoluta della forma
animale; accompagna ogni realtà, circoscrive esteriormente le forme, e fa
esistere gli individui; l'altro, l'accidente accidentale, nasce dall'intreccio
dei processi e dal cozzo inevitabile delle cause na- [Lettera sulla patologia
storica] Cfr. Deus creavit, passim. Dopo la laurea, tipi animali, tipi animali,
Cfr. Deus creavit, Deus creavit, Le opere scientifiche e la filosofia della
naturatura] li, delle quali una è la darwiniana concorrenza vitale, da cui
deriva la formazione delle varietà, delle specie, dei generi, ma la sua azione
non potrebbe estendersi fino ai tipi. La natura finisce per essere, come la
società umana, una lotteria. Finisce, ma non comincia; e non è una lotteria da
capo a fondo », perchè ha le sue basi ideali e le sue leggi necessarie. Se non
che arrivati a questo punto noi possiamo domandarci : l'obiezione che abbiam
detto potersi muovere al nostro rilievo delle difficoltà inerenti al pensiero
del M., è veramente risolutiva? Questo approfondimento del concetto di
accidente, questa distinzione delle due specie di esso, interna o necessaria ed
esterna o accidentale, elimina veramente la contraddizione nella quale ci era
sembrato che questa filosofia della natura si involgesse ? L’accidente interno
consiste nella indeterminazione e molteplice possibilità della forma latente.
Ma intanto M. più volte afferma che senza il concorso di esterno accidente la
possibilità non passerebbe all'atto, non si farebbe realtà di natura. Tra la
potenza e l'atto bisogna che s'inserisca un mediatore perchè il passaggio
avvenga. Sicché l'accidente esterno è da lui riconosciuto indispensabile non
soltanto per l'esistenza degli individui, ma anche per la produzione reale dei
tipi nella natura. E del resto la stessa molteplice possibilità in cui è fatto
consistere l'accidente necessario, del pari che l'intreccio dei processi dal
quale si fa nascere l’accidente accidentale, possono essere a loro posto in una
concezione puramente causale e meccanica della natura (per esempio in quella
cartesiana), ma non sono più a posto in una dottrina finalistica, nella quale
il termine finale, l'uomo eterno, pre-esiste a tutto il processo di sviluppo e
lo genera esso medesimo. Voler dimostrare che nella natura si compie uno
sviluppo teleologico, e non saper negare che vi sia anche qualche cosa di ciò
che il Darwin vi scorge, ossia che la natura finisce per essere, come la società
umana, una lotteria, è contraddizione non conciliabile tra l'intenzione e il
resultato. E si potrebbe anche aggiungere che una contraddizione è nello stesso
intervento dell' accidente esterno a spiegare la patologia. L'intero edinzio
della patologia storica costruito dal M. crollerebbe, se non intervenisse
l'accidente accidentale, perchè solo «se l'accidente, esterno o interno che
sia, se la irragionevole cattiva natura interviene, e rompe la legge, e viola
la ragione; se l'arbitrio umano o naturale modifica la qualità della causa
motrice, e ne muta la relazione, e ne altera la proporzione con la interna
sfera umana, questa si altera e si disordina. Ora si ricordi che per M. la
malattia corrisponde al passaggio dall'innocenza alla colpa, a cui succede il passaggio
ad una forma superiore d'innocenza, alla libertà. Se questa forma superiore,
che è il fine dello sviluppo, non è raggiungibile che attraverso a questo
processo, il processo è necessario, e necessari, non accidentali sono i suoi
momenti : la tesi, l'antitesi e la sintesi. Ma allora come può il momento
dell'antitesi essere un accidente violatore della ragione ? In un idealismo
assoluto, e particolarmente nel ritmo dialettico che si svolge nel movimento
degli opposti, il momento negativo non è meno necessario che il positivo a dare
con la negazione della negazione la più alta realtà. Come può dunque in questa
concezione filosofica trovar luogo l'accidente accidentale di M.? Come può un
accidente siffatto, cioè un accidente estrinseco, che rompe la necessità e
viola la ragione, essere costitutivo della natura quale dev'essere intesa in un
idealismo assoluto, cioè come pensiero o ragione ? [Delle prime linee della
patologia storica]. Queste contraddizioni si collegano con una profonda,
inconciliabile contraddizione interna del pensiero di M.. È in fondo il
contrasto fra il naturalista e il filosofo idealista, contrasto che si svolge
anche nell'antitesi fra l'ardente e costante aspirazione a ricongiungere ed
unificare la fisiologia con la filosofia, e lo scrupolo della divisione del
lavoro, che talvolta si riaffaccia: la metafisica ai metafisici, a noi la
fisiologia. Questo è il suo conflitto intemo non superata, che si potrebbe
estendere ben oltre il suo caso individuale. Invero se la natura è, come M. sostiene,
idea e natura a un tempo, la divisione del lavoro non è possibile: il fisiologo
non può essere tale se non è prima filosofo; la fisiologia non può essere
costruita se non è costruita prima la metafisica. E costruita non da altri, ma
dal fisiologo stesso, come altrove M. riconosce. Perchè, secondo il principio
vichiano ed hegeliano, per M. il fare soltanto ci dà il vero conoscere :
criterio del vero è il farlo. Dal che sarebbero pure derivate conseguenze
contrarie alle conclusioni di M. intorno ai rapporti fra la teoria e la pratica
medica. Infatti come può la separazione della jatrofilosofia dall'attività del
medico pratico conciliarsi con l'unità del vero col fatto? Se la vera scienza è
la storia, perchè è la realtà vivente, non varrà anche per la jatrofilosofia la
massima che criterio del vero è il farlo ? E non sarà quindi contraddittorio il
dichiararla disgiunta dalla pratica, e quindi inutile come tutte le cose
eccellenti, virtù, giustizia, arte, religione, scienza ? Ed ecco il criterio
della verità della jatrofilosofia nella pratica, nella clinica, nella cura
delle malattie, secondo voleva TOMASSI. Anche qui M. Lettere fisiologiche, Cfr.
Dopo la laurea, là dove si riconosce come necessaria, sia pur soltanto al
sapere positivo, la divisione del lavoro. [Idea della fisiologia greca ; e
altrove. La natura medicatrice e la storia della medicina] mostra di non aver
raggiunta la piena coerenza del suo pen- siero, né la piena consapevolezza
delle esigenze dei suoi principi. Egli, come ogni naturalista, riconosce la
funzione del- l' accidente ; ma il rapporto e il contrasto fra il necessario e
l'accidentale, fra ciò che è conoscibile e costruibile a priori e ciò che è
dato solo dall'osservazione sperimentale, rimane in lui insoluto. Ed egli non
riesce a vincere le difficoltà che anche Hegel aveva incontrate nel costruire
la sua filosofìa della na- tura, la quale è certo la parte più debole del suo
sistema. L'errore fondamentale del M. è consistito in questo : che egli ha
attribuite le deficenze della filosofìa della natura hegeliana a cause fortuite
e soggettive, e non ha scorto che le cause erano intrinseche al sistema, per se
stesso tale da non consentire che vi fosse inquadrata una filosofia della
natura compiuta, razionale e concreta ad un tempo. E andò cercando per tutta la
vita una soluzione non raggiunta ancora, sempre credendo di lavorare solo alla
dimostrazione e alle applica- zioni di quella, che egli stimava già scoperta da
Hegel. Grice: “De Meis’s theory resembles my pirotological progression, heavily!
I like his generalisations. I wish we had at Oxford such a freedom to
generalise!” -- Camillo De Meis. Angelo Camillo De Meis. Meis. Keywords:
implicature, citato da Pirandello in “Il fu Mattia Pascal” “Chi lo dice? – gli
domanda forte il giovane, fermo, con aria di sfida. Quegli allora si volta per
gridargli: “Camillo De Meis!” –-- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e e Meis” – The
Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Melandri:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale -- le forme
dell’analogia – analogia nel convito di Platone – Reale – filosofia ligure – la
scuola di Genova -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Genova). Abstract. Keywords. Filosofo ligure.
Filosofo italiano. Genova, Liguria. Grice: “One of the ten items he lists in
his ‘Contro lo simbolico’ is ‘lo simbolico’ itself!” -- Grice: “Melandri takes
analogy more seriously than I did – I do list ‘analogy’ as part of what I call
‘philosophical eschatology – the third branch of metaphysics, along with
ontology and category study.” Grice: “Melandri focuses on the Graeco-Roman tradition
of analogy, which he pairs with two other concepts: proportion, and symmetry –
re-interpreting mainly Aquino’s reading of the Aristotelian tradition in a
semiotic approach.” Grice: “Melandri also takes Kant seriously on this.” Grice:
“If an Italian philosopher wrote ‘contro la comunicazione,’ another wrote
‘contro il simbolico’!” -- Grice: “He
has studied Buehler; I like that!” Laureatosi a 'Bologna, è lettore a Kiel in
Germania. Insegna poi a Lecce, Trieste e Bologna. Parallelamente all'attività
universitaria, collabora con Mulino e alla rivista omonima, per le quali ha
svolto attività di consulenza, con traduzioni e curatele, pubblicando con essa
alcuni dei suoi saggi. I suoi saggi vertono sulla fenomenologia di Husserl, sul
concetto di analogia e sul principio di simmetria. Tra le sue curatele, anche
presso altre case editrici -- Cappelli, Faenza, Laterza, Ponte alle Grazie,
Giuffrè, Pitagora ecc. -- ci sono studi che vanno dalla scienza politica di
Ritter e di Habermas, alla fenomenologia di Schütz, dalla logica di Copilowski e dalla
filosofia del linguaggio do Hoffmann o dai paradossi di Bolzano (e poi la
storia della logica di Scholz), agli studi di metodologia scientifica di Pap, a
quelli di psicologia della percezione di Meinong o di Ehrenfels, e dall'estetica
di Trier alla metaforologia» di Blumenberg ecc.
Ha istituito un gruppo di studi su Leibniz, in seguito affiliato col
nome di «Sodalitas Leibnitiana» alla Leibniz-Gesellschaft di Hannover. Ha anche
collaborato attivamente alle attività del Centro di studi per la filosofia
mitteleuropea con sede a Trento; partecipando alla realizzazione della rivista Topoi. Da
vita agl’Annali dell'Istituto di discipline filosofiche dell'Bologna, poi
trasformatisia nella rivista semestrale «Discipline filosofiche», ancora attiva
e di cui è stato il direttore. Tra i suoi saggi, spicca per centralità di
pensiero “La linea e il circolo,” definito d’Agamben un capolavoro della
filosofia. Il filo conduttore di tutta
la riflessione di M. è il rapporto tra pensiero logico e pensiero analogico. Mentre
la logica tende a svilupparsi mediante un concetto d'identità elementare,
legato alla discontinuità del principio di non-contraddizione, l’ANALOGIA si
fonda invece sul principio di continuità, legato alla figura oppositiva della
contrarietà, che ammette una transizione tra gl’opposti. Ora, queste due forme
di ragionamento non sono affatto inconciliabili, ma complementari, in quanto
fondate, non su una struttura assiomatica, ma su una diversa direzione
costitutiva dell'esperienza. Questa diversità prospettica si realizza, secondo
M., nella fenomenologia husserliana, di cui egli tende a evidenziare
l'empirismo radicale connesso alle strutture costitutivo-trascendentali della
soggettività e ben distinto, dunque, da quell'idealismo entro cui troppo spesso
si è voluto rubricare l'atteggiamento fenomenologico. In ultima istanza, congiungendo
istanze aristoteliche e husserliane, M. assume una concezione dell'essere
fondamentalmente equivoca, nell'ambito della quale l'intenzionalità si
presenta, al tempo stesso, come principio formale logico e funtore operativo
analogico. Inoltre, M. espone questi contenuti filosofici attraverso un metodo
d'indagine e d'insegnamento del tutto particolare, che viene così descritto da Besoli,
filosofo a Bologna. A lezione, si può dire che M. non parlas, ma pensas ad alta
voce dando l'illusione, quanto mai benefica ed essenzialmente terapeutica, di
pensare insieme con lui. Si ha l'impressione di assistere, dunque, a un
pensiero in corso d'opera, e più propriamente ciò che accade e un'esperienza di
pensiero condivisa, giacché la condivisione e appunto la condizione stessa
della buona riuscita di tale esperienza Altri saggi: “I paradossi dell'infinito nell'orizzonte
fenomenologico,” -- introduzione a Bolzano, “I paradossi dell'infinito”,
Cappelli, Bologna; “Logica ed esperienza,” “La scienza come criterio storio-grafico,”
“Note in margine all'organon dei peripatetici; “Considerazioni critiche sui syn-categorematica
– co-predicabili – negazione come avverbio, la congiunzione ‘e’ come co-predicabili,
la disgiunzione ‘o’ come co-predicabili, l’implicazione ‘se’ come co-predicabile
-- ” in "Lingua e stile", “Esistenzialismo,” “Logica e Logistica” Enciclopedia “Filosofia,” Preti, Feltrinelli,
Milano; “Psicologia galileiana” -- poi in Sette variazioni in tema di psicologia
e scienze sociali; “Foucault: l'epistemologia delle scienze umane", in
«Lingua e stile». “E corretto l'uso dell'analogia nel diritto? Zoon Politikon.
Bolk e l'antropo-genesi, Che Fare, “La linea e il circol: studio
logico-filosofico sull'analogia, Bologna: Mulino rist. Macerata: Quodlibet, prefazione d’Agamben,
appendice di Besoli e Brigati, Limongi. Nota
in margine all'episteme di Foucault, Lingua e stile, La realtà e l'immagine, in
Barth, Verità e ideologia; Sulla crisi attuale della filosofia, Mulino, L'analogia, la proporzione, la simmetria,
Isedi, Milano. I generi letterari e la loro origine, Lingua e stile, Quodlibet,
Macerata, L'inconscio e la dialettica, Bologna: Cappelli, Freud: L'inconscio e
la dialettica, Sette variazioni in tema di psicologia e scienze sociali,
Bologna: Pitagora; L'inconscio e la
dialettica, Macerata: Quodlibet. Bühler. La crisi della psicologia come
introduzione a una nuova teoria linguistica, in Animo ed esattezza. Letteratura
e scienza, Marietti: Casale Monferrato, Variazioni in tema di psicologia e
scienze sociali, Pitagora, Bologna; Matematica e logica in psicologia: applicazione
propria determinante o im-propria analogico-riflettente, L'inconscio e la
dialettica, Macerata: Quodlibet, Per una filologia del sublime, in "Studi
di estetica" (Grice: “I like that; surely there must be an ordinary
unpompous way to say or mean ‘sublime’” – “Go thorugh the dictionary!” -- La
novità degl’ultimi tremila anni, Mulino", "Faenza" e Marisa
Vescovo, L’oblio affligge la memoria; La comunicazione e la retorica, Contro il
simbolico. Lezioni di filosofia, -- Grice: “The ten ‘concepts’ he chooses are
less important than the generic remarks he makes about the whole ten.” Grice:
“While in his study on ‘analogia, proporzione, simmetria,’ he is semiotic, in
this one he is thoroughly hermeneutic!” -- Quodlibet, Macerata, postfazione di Guidetti;
Sul concetto di descrizione nella psicologia fenomenologica, in "Intersezioni",
Su quel che è dato” (Grice: “A good analysis of a phrase I overuse, ‘datum,’ as
per sense-datum’! in "erri", Le ricerche logiche di Husserl: introduzione
e commento, Mulino, Bologna, Su quel che c'è, e quel che immaginiamo che ci sia,
o della principale equi-vocazione del termine 'rappresentazione')", in
Discipline filosofiche, Il problema della comunicazione, Paradigmi, Tempo e temporalità
nell'orizzonte fenomenologico, Discipline filosofiche, La crisi dei grandi
sistemi e l'avvento della filosofia esistenziale, Questo nostro tempo -- studi
e riflessioni sull'evolversi della nostra epoca” (Bologna); Filosofia come
critica della conoscenza e impegno interdisciplinare, Tratti, Besoli, Il
percorso intellettuale, in Studi su M., Faenza, Agamben, Archeologia di
un'archeologia, in M., La linea e il circolo. Studio logico-filosofico
sull'analogia, Macerata: Quodlibet, Agamben, Al di là dei generi letterari, in
M., I generi letterari e la loro origine, Macerata: Quodlibet, Ambrosetti, Sugli stoici, Roma: Aracne; Ambrosetti,
Una lettura di Epitteto", in "dianoia", Besoli, "Il percorso
fenomenologico", in La
fenomenologia in Italia. Autori, scuole, tradizioni, Roma: Inschibboleth; Besoli
e Paris (Faenza: Polaris); Bonfanti, Le forme dell'analogia. Roma: Aracne. Cimatti,
"Postfazione: Psicoanalisi e rivoluzione", in L'inconscio e la
dialettica, Macerata: Quodlibet sinistra
in rete.info cultura’ Lagna e Lévano, "Contro l’isomorfismo. Il rapporto
soggetto-oggetto, Philosophy Kitchen, Matteuzzi, "Prefazione", in Ambrosetti,
Sugli stoici, Roma: Aracne); Palombini, "Dal chiasma ontologico al chiasma
trascendentale. Forme di razionalità in «Philosophy Kitchen», Possati, La
ripetizione creatrice. lo spazio dell'analogia, Milano-Udine: Mimesis. Sini,
"Lo schematismo figurale", in Besoli e Paris. Solerio, Le opere di M. edite da Quodlibet, edizione completa.
Discipline Filosofiche, rivista di filosofia. Enzo Melandri. Melandri.
Keywords: Bühler, l’aggetivo ‘galileano’ -- le forme dell’analogia, Grice –
analogia – problema della comunicazione, Buehler, teoria di Buehler, analogical
unification, lacomunicazione, implicaturaproblematica, aquino, kant, mill,
jevons, maxwell, Perelman, abcd, haenssler, dorolle, lyttkens, Reichenbach,
newton, cellucci, marramao, aristotele, platone, convito, reale, grice,
analogicalunification, owens, ross. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Melandri,”
The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria.
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice e Melanipide: la ragione conversazionale e la diaspora di
Crotone -- Roma – filosofia pugliese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano. Taranto, Bari. The
author of a number of tragedies. He appears to have practised a relatively
ascetic version of Pythagoreanism. Grice: “Cicerone argues: Melanipide spoke
Greek, not Latin; therefore, he is not an Italian. At Oxford, we are a bit more
inclusive: Gellner spoke French, he is a Jewish philosopher who teaches at some
London red-brick!” -- Melanipide
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Melchiorre:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – il corpo – la
filosofia dell’amore – amante ed amato – il convito di Turolla – la scuola di
Chieti -- filosofia abruzzese -- filosofia italiana -- Luigi Speranza (Chieti). Filosofo italiano. Chieti, Abruzzo. Grice:
“I like Melchiorre; while I refer to bodily identity in my “Mind” essay,
Melchiorre has dedicated a whole treatise to ‘the body’ – he has also explored
semiotic aspects and come up with nice oxymora: ‘nome indicibile,’
‘immaginazione simbolica,’ ‘essere e parola.’”. Grice: “Melchiorre’s first
explorations on the concept of body is Strawsonian – corpore e persona -. What
led Melchiorre to this reflection is what he calls a meta-critique of love –
Socrates did his critique of love in the Symposium, and Phaedrus – Melchiorre
analyses this from a body-theoretical perspective.” Dopo essere stato ammesso
al Collegio Augustinianum, inizia a frequentare la Facoltà di Filosofia
all'Università Cattolica del Sacro Cuore, dove si laurea. Terminati gli studi, nel medesimo ateneo
inizia la carriera accademica come assistente volontario di filosofia della
storia, per poi insegnare a Venezia.
Richiamato a Milano, ha ricoperto la cattedra di Filosofia morale, per poi
insegnare Filosofia teoretica. Ha diretto, presso la Facoltà di Lettere e
Filosofia dell'Università Cattolica, la Scuola di specializzazione in Comunicazioni
sociali. Altri saggi: Arte ed esistenza, Firenze’ Il metodo di Mounier, Milano;
Il sapere storico, Brescia; La coscienza utopica, Milano; L'immaginazione
simbolica, Bologna, Meta-critica dell'eros, Milano, Ideologia, utopia,
religione, Milano, Essere e parola, Milano, Corpo e persona, Genova, “Studi su
Kierkegaard, Genova, Analogia e analisi trascendentale: linee per una lettura
di Kant, Milano, Figure del sapere, Milano, La via analogica, Milano, Creazione,
creatività, ermeneutica, Brescia, I segni della storia, Ghezzano Fontina, Al di
là dell'ultimo, Milano, Sulla speranza, Brescia, “Ethica,” Genova, Dialettica
del senso. Percorsi di fenomenologia ontologica, Milano, “Qohelet, o la
serenità del vivere,” Brescia, Essere persona,” Milano, Breviario di
metafisica, Brescia, Il nome indicibile, Milano, Profilo nel sito
dell'Università Cattolica del Sacro Cuore. Recensione del volume Essere
persona. Natura e struttura di Rigobello, in Acta Philosophica, Rivista
internazionale di filosofia. Unità e pluralità del vero: filosofie, religioni,
culture. I diversi volti della verità Relazione di M., Convegno del Centro
Studi Filosofici Gallarate, video integrale nel sito Cattedra SERBATI. M., Rai
Educational Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche. Grice: “Melchiorre, while quoting the
necessary German sources for an Italian philosophers – Eros und Agape, tr. N.
Gay – he dwells on Enrico Turolla’s beloved (by every Italian schoolboy)
version of “Convito” – which Turolla published under the ostentatious title,
“Dialogo dell’amore” – Melchiorre typically finds some mistakes, since Turolla
was no philosopher – and no lover of Sophia, and no Sophos of love!” --
Virgilio Melchiorre. Melchiorre. Keywords: il corpo corpi e personi,
meta-critica dell’eros, il convito di Trolla, il fedro di Turolla – amore – il
riconoscimento come identita – la dialettica dell’atto amoroso – l’amante e
l’amato – l’amore reciproco, amore e contramore, erote ed anterote --. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Melchiorre” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice e Melesia: la ragione conversazionale e la diaspora di
Crotone -- Roma – filosofia basilicatese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Metaponto). Filosofo italiano. Metaponto,
Basilcata. A Pythagorean, according to Giamblico di Calcide. Grice: “Cicerone
complained that Melesia spoke Greek, not Roman!” – Melesia.
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice e Melisso: la ragione conversazionale e la scuola di Velia
-- Roma – filosofia campanese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Velia). Filosofo italiano. Velia, Campania. A pupil
of Parmenide di Velia. The cosmos is not physical and change is an illusion he
attributed to the unreliability of the senses. Luigi Speranza, “Grice e
Melisso”, The Swimming-Pool Library. Melisso
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Melli: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale -- AVRELIO – filosofia
italiana – la filosofia a Roma nel tempo di Pomponio – pre-ambasciata -- Luigi
Speranza (Roma). Abstract. Keywords. Filosofo. Grice: “I like Melli; you see,
Italians feel that Marc’aurelio is theirs, so Melli puts his soul in his essay
on Marc’aurelio, while his essay on Socrates is rather neutral! For us at
Oxford, both Marc’Aurelio and ‘Socrate’ are just as furrin; Locke ain’t!”.
Altri saggi: La filosofia di Schopenauer, Felice Tocco, Firenze, Il professor
Tocco, Firenze,Commemorazione di Villari, Firenze, La filosofia greca da Epicuro ai Neoplatonici,
Firenze, Socrate, Lanciano. I primi contatti tra i filosofi romani e i filosofi
greci non sono amichevoli. Essendosi parlato in senato dei filosofi e dei
retori il senato consulto da incarico al pretore Marco POMPONIO (si veda) di
provvedere “uti Romae NE essent [FILOSOFI greci]”. Semi della filosofia greca sono
sparsi dagl’esuli ACHEI, tra i quali era anche Polibio, venuti dopo la guerra
macedonica. Pochi anni dopo, ci e l'ambasciata della quale fa parte Carneade. Anche
questa volta vedemmo come CATONE (si veda) s’impensiera dell’efficacia rovinosa
che quell’abile parlatore puo esercitare sull'educazione nazionale. Ma Carneade
ha un grande successo e l’infiltrazione delle idee filosofiche grechi e già
cominciata, specialmente dopo la conquista delle città della Magna Grecia come
Crotone – sede della scuola di Pitagora --, Taranto – sede della scuola di Archita
--, Velia – sede di Parmenide e Senone – e dopo l’isola della Sicilia –
Girgenti, sede della scuola di Empedocle --, e Leontini, sede della scuola di
Gorgia. Nei ditti, tradotti o imitati, i filosofi romani senteno parlare di questo
‘amore di sapienza’, filosofia, e degl’amanti di sapienza, filosofi. Un motto
si trova in un frammento di ENNIO (si veda), nel Neottolemo. Philosophari mihi
necesse est, sed degustalidum de ea, non ingurgitandum in eam. Col progredire
della cultura, con lo svilupparsi dell'eloquenza, nasce il bisogno di far istruir
i romani presso questi pedagogi schiavi ditti amanti di sapienza. Alcuni grandi
personaggi, come SCIPIONE Emiliano (si veda) e il suo amico LELIO (si veda) divieno
protettori dei questi pedagogi detti ‘amanti della sapienza’ e li ammettano
nella loro familiarità. I giureconsulti trovano un'utile disciplina nella
dialettica, studiata nella lingua strainiera, non in romano. La riforme di
GRACCO (si veda) -- Gracchi -- e ispirata da idee di questi ‘amanti di
sapienza’. Quello che i filosofi romani domandano a questo ‘amore di sapienza’
e 1'orientazione nelle questioni pratiche e una cultura necessaria o utile all’oratore,
al giureconsulto, agl’uomini di stato.
Cominciano ad essere conosciute le diverse scuole o sette. Una delle prime ad
essere trattata in latino e la dottrina dell’Orto. Sono nominati un AMAFINO (si veda) e un RABIRIO (si veda) come
espositori delle idee, dell’Orto, ma con poca arte. Più tardi è pure ‘edonista’
– sostenitore del piacere -- un certo CAZIO (si veda), “levis quidem, sed non
inineundus tamen auctor”, secondo Quintiliano. Ma non ne sappiamo nulla. Il
grande interprete dell'edonismo presso i Romani è LUCREZIO (si veda), che segue
Empedocle. Altri ‘amanti di sapienza’ sono M. BRUTO minore (si veda),
l'uccisore di Cesare, che parla della virtù e dei doveri, e il dottissimo VARRONE
(si veda), che insieme con Bruto, sente Antioco in Atene, e in psicologia e in
teologia segue più il PORTICO che l'Accademia. Ma tutte queste sono semplici
notizie. Il gran nome che oscura, tutti gl’altri ed è per noi il vero
rappresentante e inter-prete della filosofia presso i romani è CICERONE (si
veda). I primi contatti tra Roma e i filosofi greci non furono amichevoli. Abbiamo
già accennato al senatocon- sulto del 161, nel quale, essendosi parlato in
senato dei filosofi e dei retori ch’erano in Italia, si dava incarico al
pretore Marco Pomponio di provvedere uti Romae ne essent. Pare che i primi semi
della filosofia fossero sparsi dagli esuli achei, tra i quali era anche
Polibio, venuti * dopo la guerra macedonica nel 168 a. C. Pochi anni dopo, nel
156 ci fu l’ambasciata della quale faceva parte Oar- neade, e anche questa
volta vedemmo come il vècchio Catone s’impensierisse dell’efficacia rovinosa
che quegli abili parlatori potevano esercitare sull’educazione nazionale. Ma
ebbero, come sappiamo, un grande successo ; e l’infiltrazione delle idee greche
era già cominciata con la letteratura, specialmente dopo la conquista delle
città della Mago a Grecia. Nelle tragedie tradotte o imitate, e LA FILOSOFIA
PRIMA DI CICERONE 201 anche nelle commedie, i Romani sentivano parlare sul
teatro di filosofìa e di filosofi. (Ricordo il motto che si trova in un
frammento di Ennio, nel Neottolemo di Euripide: Philosophari mihi necesse est,
sed degustan- dum de ea, non ingurgitandum in eam). Ool progredire della
cultura, con lo svilupparsi dell’eloquenza, nasce il bisogno d’istruirsi presso
i filosofi. Alcuni grandi personaggi, come Scipione Emiliano, il suo amico
Lelio, diventano protettori dei filosofi, li ammettono nella loro familiarità.
I giureconsulti trovano un’utile disciplina nella dialettica stoica; le riforme
dei Gracchi sono ispirate da idee filosofiche: quello che i Romani domandavano
alla filosofìa era l’orientazione nelle quistioni pratiche e una cultura
necessaria o utile agli oratori, ai giureconsulti, agli uomini di Stato.
Cominciano ad essere conosciute le diverse scuole. Una delle prime ad essere
trattata in latino dev’essere stata la dottrina di Epicuro, perchè sono
nominati un Amafinio e un Rabirio come espositori della filosofìa epicurea, ma
pare con poca arte; e più tardi, ai tempi di Cicerone, è pure epicureo un certo
Catius, levis quìdem, sed non ìniueundus tamen auctor, secondo Quintiliano. Ma
non ne sappiamo nulla. Il grande interprete dell’ Epicureismo presso i Romani è
Lucrezio. Altri scrittori di filosofìa furono M. Bruto, l’uccisore di Cesare,
che scrisse della virtù e dei doveri, e il dottissimo Varrone, che insieme con
Bruto aveva sentito Antioco in Atene, e in psicologia e in teologia seguiva,
pare, più gli Stoici che l’Accademia. Ma tutte queste sono semplici notizie. Il
gran nome che oscura tutti gli altri ed è per noi il vero rappresentante e
interprete della filosofia presso i Romani è M. Tullio Cicerone. 202 LA
FILOSOFIA A ROMA L’uomo politico e l’oratore non ci appartengono, ma sui
filosofo dobbiamo fermarci un momento. 2. - Cicerone nacque nel 106, fu ucciso
dai sicari di Antonio nel 43 a. C. Studiò in Atene e a Rodi, udì maestri delle
varie scuole : Fedro epicureo, Filone di Larissa accademico: lo stoico Liodoto
divenne suo ospite per più anni, e diventato cieco morì in casa sua: udì poi ad
Atene Antioco di Ascalona, l’epicureo Zenone, e a Rodi lo stoico Posdonio. Cli
uffici pubblici e la vita tempestosa di Roma in quegli ultimi anni della
Repubblica lo avevano distolto dagli studi filosofici, ch’egli del resto aveva
considerato sempre come una preparazione necessaria all’oratore e poi come una
nobile distrazione dello spirito; ma le vicende della vita pubblica, l’ozio a
cui è condannato dopo la battaglia di Farsaglia, e sventure domestiche, tra cui
specialmente la morte della figlia Tullia amatissima, lo riconducono alla
filosofia, nella quale egli cerca un’occupazione e una consolazione. Bisogna
aggiungere a questi motivi quella che chiamano la vanità letteraria, e ch’è la
passione dello scrittore di razza, di uno scrittore di prim’ordine e che gode
di una grandissima autorità presso i suoi concittadini; egli vuol far parlare
in latino la filosofia, toglierne il monopolio ai Greci, darle il diritto di
cittadinanza in Roma rivaleggiando con loro, e si rivolge ai giovani ut huius
quoque generis laudem iam languenti Graeciae eri- piant; ed egli si dà come l’iniziatore
di quest’opera, di conquistare alla letteratura latina questa vastissima
provincia del sapere. Già prima, (lai 54 al 52, egli aveva scrìtto i suoi
trattati politici De repuìflicci e De legibus, e prima ancora, nel De oratore,
era proclamata con molta energia 1’unione della filo- sofia con l’eloquenza :
Cicerone in un luogo del De nat. deor. si vanta di aver sempre filosofato: cum
minime videbamur, tum maxime philosophabamur ; ma i suoi libri propriamente
d’argomento filosofico li ha scritti negli ultimi anni della sua vita, dal 45
al 43. E quali siano questi scrìtti filosofici ce lo dice egli stesso in un
passo del De divinalione, IX, 1. Egli comincia con un trattato dal titolo
Consolatio, composto dopo la battaglia di Earsaglia e la morte della figlia,
indicando nel titolo i servizi ch’egli si aspetta dalla filosofìa: era fatto a
imitazione di un libro simile di Orantore accademico raspi, raévOoo;, eh’ è
detto altrove un libro d’oro, da imparare a memoria. Poi scrive VHortensìus,
introduzione ed esortazione allo studio della filosofia, difendendola dai
pregiudizi romani. Ortensio, ch’era un grande oratore suo contemporaneo, vi
combatteva lo studio della filosofìa, Cicerone la difendeva calorosamente. Il
libro era molto ammirato. S. Agostino lo ha conosciuto, e la lettura di esso
contribuì alla sua conversione. Questi due libri sono perduti. Le opere che ci
rimangono sono : Academica > in due libri, importantissimi per le
controversie dibattute fra Stoici e Accademici intorno al problema della conoscenza
e specialmente per le opinioni degli Accademici più recenti fino ad Antioco. Ce
n’ora una prima redazione in due libri; poi l’opera fu rifatta, in quattro
libri, e dedicata a Varrone che vi entra come interlocutore. Il caso ha voluto
che noi possediamo il 1° libro della seconda edizione, e il 2° libro, il così
detto Lncullus, della prima (che si sogliono citare Ac. post. I, e Ac. pr. II).
È deplorevole che non ci sia, e sarebbe desideratissima, un’edizione italiana
commentata di questi libri. De Finibus honorum et malorum, in cinque libri. Vi
sono esposte e criticate le teorie delle diverse scuole greche sul problema
fondamentale dell’Etica, il sommo bene o il fine delle azioni. Nel 1° libro
Torquato espone la dottrina di Epicuro, nel 2° Cicerone ne fa la critica; nel
3° è introdotto Catone, quello di Utica, a esporre la filosofìa stoica, nel 4°
se ne fa la critica ; il 5° libro espone la teoria accademica e peripatetica. È
una delle opere più istruttive e forse meglio composte di Cicerone. Le
Tttsculanae disputationes, in cinque libri, dalla villa ciceroniana di Tusculo,
in cui si suppone tenuto il dialogo, pure d’argomento morale: il 1° tratta de
eontemnenda morte, il 2° de tolerando dolore, il 3° de aegritudine lenienda, il
4° de reliquis animi perturbationibus, il 5°, continua Cicerone, eum locum
complexus est qui totam phil osophiam maxime inlustrat, docet enim ad beate
vivendum virtutem se ipsa esse contentam. Seguono i tre libri De natura deorum,
importanti per le teorie metafisiche e teologiche degli Epicurei e degli
Stoici. Un epicureo, Velloio, espone la teoria di Epicuro; Lucilio Balbo stoico
la teologia degli Stoici; Aurelio Cotta accademico combatte gli uni e gli altri
dal punto di vista delle dottrine probabiliste della nuova Accademia. Si connettono
col De natura deorum i libri De divina- tione, nel 1° dei quali il fratello di
Cicerone, Quinto, difende dal punto di vista stoico la verità della
divinazione, e nel 2° F augure CICERONE (vedasi) la combatte con una gragnuola
di argomenti vivacissimi ; e così pure si connette agli stessi argomenti il
libro De fato, che ci è pervenuto disgraziatamente con molte lacune, nel quale
sono esposte molto sottilmente le quistioni intorno al destino e il modo
confesso possa conciliarsi con la libertà umana: anche questa una delle
controversie dibattute fra Stoici e Accademici. Ci sono poi degli scritti
minori, Oato maior de senectute, Laelius de amicitia; anche i Paradoxa, scritti
prima, nei quali Cicerone si diverte a sostenere in linguaggio oratorio, come
un avvocato, sei dei piu famosi paradossi stoici; e infine il grande trattato
di morale pratica De officìis, in tre libri. La filosofia sociale e la teoria
del diritto erano state trattate prima nei libri De republiea e in quelli De
Legibus. Questi sono gli scritti filosofici di Cicerone, dei quali egli stesso
dice in ima lettera ad Attico: àT:óypacpa sunt; minore labore fiunt; verba
tantum afferò, quibus abundo: sono riproduzioni, derivano da fonti greche: le
quali parole sono state prese da alcuni molto alla lettera, senza tener conto
di quello che Cicerone ci ha messo di suo, oltre le parole latine, e senza
badare a quest 7 altre parole sue (De fin. I, fi): non interpretum fungimnr
munere, sed tuemur ea quae dieta sunt ab iis quos probamus, eisque nostrum iudicium
et nostrum scribendi ordinem adiungimus. È noto il giudizio del Mommsen e di
altri-: giornalista, dilettante, compilatore frettoloso e confusionario. Un
altro tedesco, lo Ziegler, ha detto : il solo suo merito è di aver trovato
parole e frasi latine per rivestirne i pensieri greci, un merito che può essere
stato utile più che ai suoi contemporanei, agli scolastici del medio evo e ai
latinisti moderni. Questi giudizi non sono giusti, non corrispondono alla
realtà. Cicerone non è un filosofo di professione: è un spirito colto, agile,
curioso, che ha il gusto delle idee generali, e considera la filosofìa come una
parte essenziale della cultura umana, importante soprattutto per la vita
pratica. L’opera sua si può considerare o come contributo alla storia della
filosofia anteriore, o per le dottrine e i risultati a cui egli è giunto. Come
storico, Cicerone ha conosciuto direttamente e sin da giovane le dottrine più
recenti: lo stoicismo, l’epicureismo, i nuovi Accademici fino a Filone ed
Antioco : oltre a questi, ha letto certamente scritti di Aristotile
(probabilmente quelli che si dissero essoterici, di carattere popolare) e di
Teofrasto, conosce anche alcuni dialoghi di Platone, si è provato a tradurre il
Timeo, conosce Senofonte, gli è familiare la figura di Socrate. Ora è un fatto
che per tutto il periodo postaristotelico, Cicerone è una delle fonti
secondarie più importanti per le preziose informazioni ch’egli ci dà sulle
dottrine e le controversie di quel tempo : egli ha letto libri che noi non
conosciamo più; e non sono nemmeno senza valore le indicazioni e notizie
ch’egli ci dà, perchè le trova nei suoi libri, sulla filosofia anteriore ad
Aristotile, anche sui presocratici. Cosicché, coi soli libri di Cicerone si può
ricostruire, ed è stato fatto più volte, tutta una storia della filosofia
antica fino a lui. Si dirà: non è una storia attendibile, non è una storia del
tutto esatta: ha bisogno di essere controllata, commentata e corretta. Ma si
può domandare: qual’è lo scrittore o doxografo antico di cui non si debba dire
lo stesso, a cominciare da Aristotile e da Teofrasto, che pure erano filosofi
di protessione, e scrivendo di storia della filosofia ci hanno dato notizie e
interpretazioni del pensiero altrui molte volte discutibili. Sarà sempre uno
studio interessante il cercare le fonti di cui può essersi servito Cicerone e
come se n’ è servito: si potrà trovare che in qualche punto s’inganna, che può
aver lavorato in fretta, che parafrasando o accorciando gli è accaduto di
fraintendere in qualche punto la dottrina che espone: tutte cose su cui si può
discutere caso per caso ; ma dal dire questo al dire sommariamente che non
capiva niente di filosofia e non sapeva leggere i libri che aveva davanti, c’è
una grande distanza. Come ha detto benissimo il Giussani, è diventata una
specie di moda o di mania quella di parecchi critici di scoprire a ogni momento
prove dell’ignoranza o della irriflessione di Cicerone. Piò volte invece accade
che una più attenta considerazione può provare che chi non ha capito è il critico.
Ma questa non è nemmeno la cosa più importante. Anche ammessi tutti gli errori
parziali o di fatto che si attribuiscono a Cicerone, quello che non bisogna
dimenticare è che le idee e le dottrine della filosofia antica andavano
ripensate per poter essere dette in latino, e sono state ripensate e
rielaborate da un cervello non scolastico, coltissimo, aperto, ch’era anche un
grande scrittore, un maestro della parola, e si rivolgeva a un gran pubblico,
non fatto per le disquisizioni sottili o le finezze di scuola. Questo
ripensamento e questa trascrizione delle idee greche in un altro linguaggio non
è il primo venuto che poteva farla. Non solo ai suoi concittadini e
contemporanei, ma durante il Medio Evo, per quanto poteva essere conosciuto, e
più specialmente dalla Rinascenza in poi, le opere di Cicerone hanno reso
all’umanità tutta quanta, alla cultura umana, un servizio immenso. « Le
esposizioni delle dottrine antiche che noi possiamo ora trovare superficiali o
anche in qualche punto inesatte, erano fatte con una grande chiarezza e in una
forma attraente. Per uomini che non potevano leggere, e che anche potendo non
avrebbero capito Platone e Aristotile, che pure tutti citavano, Cicerone fu una
guida preziosa. Lo stesso carattere eclettico della sua opera era un pregio di
più : vi si trovava quello che gli antichi avevano pensato di più nobile, di
più grande e di più accessibile. Si direbbe che Cicerone avesse preparato per
gli uomini a cui la barbarie aveva impedito per più secoli di pensare, un
nutrimento intellettuale eh’essi potessero assimilarsi, a dir così il succo
della filosofìa antica; che li preparasse a comprendere i filosofi greci quando
fossero stati loro accessibili, e li preparasse infine a pensare da sè » ] ).
Questo servizio, come interprete vivo, facile, eloquente, del pensiero antico,
egli ha continuato a renderlo anche dopo il Rinascimento, continua a renderlo
tutti i giorni, in tutte le scuole, dovunque s’impara a leggere e a pensare
leggendo le sue opere. - Rimane a sapere qual’è il valore di Cicerone come
filosofo, che cosa ha pensato lui) Queste parole sono del Picavet, nell’
Introduzione alla sua edizione, con note, del II libro De Natura deorum (Paris,
Alcan)] ( qual’è e se c’è un contributo suo personale alla storia delle idee. CICERONE
(vedasi) non è e non pretende di essere un filosofo originale. Sa di essere
scolaro dei Greci e si trova davanti a dottrine discordanti, quando già nelle
scuole greche stesse è cominciato quel processo di ravvicinamento e di fusione
che le porta a diventare eclettiche, ciascuna a modo suo. Qual’è
l’atteggiamento ch’egli prende? Cicerone si professa accademico, dice di
aderire alla teoria della conoscenza della nuova Accademia. Non già ch’egli
creda suo compito il trattare ex professo di questi problemi, riflettendo per
conto suo sulle condizioni e i limiti della conoscenza umana, come ha fatto
Cameade; no, egli non ha di queste ambizioni; ma trovandosi davanti al
contrasto delle sètte e delle opinioni su quistioni spesso sottili, su problemi
difficili a decidere, l’attitudine più savia gli pare quella del dubbio
prudente, raccomandato, com’egli crede coi suoi maestri, da Socrate e da
Platone: egli non è scettico ma probabilista: è la dottrina o meglio la
disposizione di spirito ch’egli chiama, meno arrogante, la più aliena dalle
arroganze dogmatiche; ed è anche conforme alla sua abitudine di sostenere il
prò e il contro di ciascuna causa, richiede agilità e versatilità di spirito, e
si presta agli sviluppi oratori, mentre nello stesso tempo lo tiene in guardia
dai paradossi stravaganti, e lo mantiene in contatto con le opinioni popolari.
E infine diciamo pure eh’è un’attitudine conforme alla sua natura ondeggiante e
diversa, al suo carattere spesso indeciso anche nella vita pratica. Ma intanto
quest’adesione al probabilismo accademico gli ha giovato a mantenere lo spirito
libero, a non farsi seguace di Una setta, a non giurare nelle parole di un
maestro: Vipse dixit dei Pitagorici non gli piace: nos in diem vivimus : vuol
conservare l’indipendenza del suo spi- rrito: la disciplina accademica non solo
gli pare la meno arrogante, ma la più elegante e la più coerente, non nel senso
eh’essa importi un sistema chiuso di dottrine che non si contradicono, ma nel
senso eh’essa suppone una disposizione di spirito che, dando la sua adesione a
ciò eh’è più verisimile, rimane sempre conseguente con se stessa: il che gli ha
permesso di prendere quello che gli pareva buono in ciascun sistema, di libare
tutte le dottrine, di essere insomma l’interprete e il volgarizzatore dei
grandi pensieri di tutte le scuole antiche. Questa disposizione di spirito,
piuttosto che scettica, si potrebbe dire liberalo e non settaria, senza partito
preso, e Cicerone la descrive con parole che meritano di essere ritenute : (De
nat. deor. J, 12): « Noi non diciamo che non ci sia niente di vero, ma al vero
è mescolato il falso, bisogna essere canti nel giudicare e nell’affermare :
diciamo che ci sono molte cose probabili, le quali se pure non dànno scienza
certa, generano una convinzione che basta a guidare l’uomo savio. E in un luogo
molto bello del libro II dei primi Accar- demici, al cap. 3° è detto: « Fra noi
e coloro che credono di sapere la verità delle cose passa questo divario,
ch’essi tengono per verissime le loro opinioni, mentre noi abbiamo sì molte
cose probabili da seguire, ma non ci attentiamo di spacciarle per certe. Così
rimanendo assai più liberi e sciolti nel giudicare {inteff tu nobis est
iiidicandi potestas ), nessuna necessità ci costringe a difendere delle
dottrine prescritte e a dir così comandate ; mentre che gli altri si trovano
incatenati ad alcune dottrine prima che sappiano quale sia la migliore: l e
trascinati sin da giovinetti, nell’età più debole, da un amico autorevole* o .
presi dal discorso di un maestro eloquente, giudicano di cose che non
conoscono, e quasi fossero sbalzati dalla tempesta, s’attaccano come ad uno
scoglio al primo sistema di cui hanno sentito parlare : ad quameumque sant
disciplinavi quasi tempestate delati, ad eam y tanquam ad saxum, adhaerescunt ».
O come dice altrove (De nat. deor. I, 5): obesi plerumque iis qui discere
volani, auctoritas eorum, qui se decere profitentur. Quest’attitudine di
riserva prudente egli mantiene specialmente nelle quistioni di fìsica, che del
resto non sono di sua competenza, e sulle quali le opinioni sono tante e così
discordanti. Latent ista omnia. Noi non conosciamo abbastanza nè il nostro
corpo nè che cosa è l’anima, se è fuoco, aria o sangue, se è mortale o eterna:
nam in utramque partem multa dicuntur. Non possiamo penetrare nè nel cielo nè
dentro la terra. Tuttavia non crede che lo studio della fìsica debba essere
messo da parte. L’esame e la.considerazione della natura sono una specie di
nutrimento (pabulum) per lo spirito. Diventiamo più grandi, ci solleviamo al di
sopra di noi stessi, sdegniamo le cose umane tenendo l’occhio e la mente
rivolti alle cose divine e celesti. La ricerca, anche nelle cose più oscure, ha
una grande attrattiva e procura una voluttà umanissima. Ma da buon romano,
nonostante quest’elevazione dello spirito, egli ha poco gusto per la
speculazione pura: apprezza di più la scienza eli* è utile alla vita. E quanto
più si avvicina allo studio dell’ uomo e ai problemi pratici della vita morale
e sociale, egli sente il bisogno di affermazioni più decise. E tra il contrasto
delle opinioni una sorgente o criterio di verità, o vogliamo dire di
probabilità massima, gli si apre, ed è la coscienza naturale, quello che la
coscienza comune e non falsificata di tutti gli uomini rivela a ciascuno, e che
trova la sua conferma nel comensus gentium. Egli ricorda il ‘conosci te stesso’
dell’oracolo e lo interpreta in questo senso: tutta quanta la filosofìa è un
commento, uno sviluppo della conoscenza di se stessi, di quello che la
coscienza ci rivela. Gli Stoici e in un certo senso anche gli Epicurei avevano
parlato di nozioni comuni, che si formano naturalmente in ogni coscienza. E
Filone di Larissa deve avergli insegnato che ci sono delle nozioni evidenti,
perspicue, impresse dalla natura nella mente e nell’animo di ciascun uomo. Egli
trova che fra gli uomini nessuna gente è così fiera, così selvaggia che non
abbia il concetto della divinità, anche se non sappia quale ne è la natura.
Egli non ignora che anche qui le opinioni sono discordi, e conosce pure le difficoltà
del problema; e se gli domandate, quid aut quale sit Deus, egli vi risponderà
come Simonide, il quale interrogato su questa quistione dal tiranno Jerone,
domandò un giorno per rifletterci su, e poi due e poi quattro, e finì col
rispondere: quanto più ci penso, tanto mihi res videtur obscurior. Ma ciò
nonostante non è una credenza arbitraria: Omni autem in re consensio omnium
gentium lex na- turae putanda est. E oltre il consenso delle genti, è anche
molto plausibile, il più plausibile fra tutti, 1’argomento delle cause finali,
ricavato dall’ordine e dalla bellezza del mondo, ch’egli espone con molta
eloquenza, quantunque non trovi sempre concludenti o del tutto convincenti le
argomentazioni degli Stoici per provare la provvidenza e l’ottimismo, e che sono
fatte più per rendere dubbia la cosa che per chiarirla. Ma insomma egli crede
agli Dei, anzi a una divinità unica: è un’idea alla quale la mente degli uomini
è naturalmente condotta. E lo stesso si può dire dell’anima umana, che
dev’essere una natura singolare, diversa dagli altri elementi terrestri che
ci’sono più noti. i^Toi non possiamo vantarci di conoscere la natura
dell’anima; ma gli elementi dei corpi che noi conosciamo, l’acqua, l’aria o il
fuoco non potrebbero spiegare la conoscenza, la memoria, la previsione
dell’avvenire, le altre funzioni psichiche: e dalle opere di Cicerone si può
ricavare un piccolo trattato di psicologia, che non sarà quello degli
scienziati moderni, ma che contiene delle descrizioni eccellenti, e sempre
vere, dei principali fatti della coscienza, compresi gli affetti e le passioni
umane, ricavate dall’osservazione interiore e dall’ esperienza della vita,
seguendo anche in questo naturalmente i suoi maestri, Platone e Panezio e
Posidonio. Egli difende la libertà umana contro il fato degli Stoici, e crede
anche nell’immortalità come una cosa infinitamente probabile. Quod si in hoc
erro, libenter erro. E nel Sogno di Scipione, dove sono descritte le sfere
celesti e la loro armonia, e la sede dei beati, è affermata con gli argomenti
platonici l’immortalità delle anime umane. Soprattutto quello che la coscienza
ci rivela è la legge morale, eh’ è una legge della ragione, la quale ragione è
il privilegio dell’uomo sui bruti, l’attributo divino nel- l’uomo, e il legame
che lo congiunge ai suoi simili. Così Cicerone crede di avere scoperto nella
coscienza stessa del genere umano i fondamenti di cui ha bisogno per la sua
dottrina morale. Opinionum enim commenta delet dies, naturae iudìcia confirmat.
E ricordandosi dei dubbi accademici, egli scrive, avendo appunto in mente i
problemi morali, quelle parole così caratteristiche: perturba- tricem miteni
harum omniam rerum Academiam liane reeentem exoremus ut sileat. È la dottrina
ch’è stata chiamata del senso comune, ch’è riapparsa più volte nella storia
della filosofìa. Ma l’interesse storico dell’eclettismo ciceroniano sta appunto
in questo: che noi vediamo com’esso è nato. Quello che Cicerone presenta come
rivelazione della coscienza comune è il precipitato di tutta la speculazione
greca anteriore, risultato di quella fusione che s’era venuta operando tra le
tendenze affini delle tre scuole derivate da Socrate: platonica, aristotelica e
stoica, e che hanno per base la concezione teleologica, il valore cosmico e
antropologico che attribuiscono alla ragione, e il pregio eminente in cui
tengono la virtù come il massimo dei beni o la condizione essenziale della
felicità. Rimane esclusa, come ho già avvertito, da questo processo di fusione
la scuola epicurea con la sua concezione meccanica e con la sua formula
pericolosa della voluttà, che si presta ai malintesi e agli eccessi. E nel
fatto CICERONE (vedasi), indulgente e tollerante con tutte le scuole, combatte
aspramente, fino all 1 ingiustizia, L’ORTO, trovandolo inconseguente in quello
che può avere di buono, e pur avendo la più grande stima del carattere di
Epicuro stesso e di alcuni degli Epicurei ch’egli ha personalmente conosciuto:
io combatte anche, oltre che per tutte le altre ragioni, perchè l’Epicureismo
non possiede secondo lui una base su cui fondare i doveri civili, che a lui
stanno tanto a cuore. Ma tra tutte le altre scuole egli trova che le affinità
sono maggiori e più importanti che le differenze, e sceglie e adatta quello che
gli pare più utile e più conveniente. E lo guida, oltre il talento
straordinario dello scrittore e dell’oratore, un grande buon senso, una grande
rettitudine, e un certo istinto generoso che lo porta verso ciò eh’ è nobile e
grande. 1 _ E una volta eh’è sul terreno della morale, egli non si \ tiene
sulle generali, ma costruisce in tutti i particolari un trattato di morale eh’è
fino al giorno d’oggi un perfetto manuale dell’onest’uomo e del buon cittadino:
il De of - Jiciis. Nel quale segue, come abbiamo detto, lo stoico Pa- / nezio,
e inclina egli stesso verso lo stoicismo nel proda- ^ mare il pregio
incomparabile della virtù : ma i paradossi stoici urtano il suo buon senso; ed
egli tempera la dottrina morale con la misura dei peripatetici, ricollegandola
anche ad alcune delle speculazioni e delle speranze del Platonismo, come quella
dell’immortalità. Proclama la virtù gratuita, disinteressata, e illustra la
dottrina con esempi presi dalla storia romana, esempi di disinteresse, di forza
d’animo, di disprezzo della morte, di fedeltà al dovere, di amore alla patria.
Traduce il xaXóv dei Greci con l’honestum, e considera come parti dell’onesto
le quattro virtù cardinali, su ciascuna delle quali dice cose sapienti, non
dimenticando la beneficenza accanto alla giustizia, la charitas generis Immani,
e non dimenticando i doveri del deco rum, di ciò eh’ è conveniente e della
cortesia, il che rivela il buon gusto oltre che la coscienza delicata. È un
trattato compiuto di morale individuale e sociale; e soprattutto le tesi
sociali dello stoicismo egli si assimila esponendole con la magia e col fascino
della sua eloquenza. Già nel De republica aveva esposto la teoria del governo
misto, come il migliore dei governi, trovandone la conferma e l’applicazione
nella vecchia costituzione romana. E nel De legibus aveva esposto le basi
lìlosofiche del diritto: su queste idee, attinte ai suoi maestri stoici, egli
ritorna sempre. La vera legge è la diritta ragione, conforme alla natura,
dappertutto diffusa, costante, eterna. £Ton ò altra in Atene e altra a Itoma.
Ohi la rinnega rinnega la natura umana, rinnega se stesso. Questa legge eterna
e immutabile è il fondamento di ogni diritto, la regola e la misura delle
legislazioni umane. Essa stabilisce fra tutti gli uomini, che partecipano della
ragione, una società naturale, una società di giustizia e di amore. Espressa da
quest’oratore e uomo di Stato, la grande idea dell’umanità e del diritto umano
esce dall’angustia delle scuole per entrare nel mondo della vita e della
cultura, e agisce nei secoli a traverso tutta la storia T ). Ho accennato ai
giudizi di alcuni tedeschi. Giustizia vuole che si dica che non tutti i
tedeschi la pensano allo stesso modo. Uno di essi, 1’ Hiibner (Deutsche
Rundschau), citato dal prof. Pasdèra nella Prelazione alla sua edizione del
Sogno di Scipione, parlando dell’azione eser- *) Jankt et Séaillks, nini, de la
Philosophie (Paris, Del agrave).] citata da Cicerone sulla cultura dei popoli
dell’ Europa, dice: Pure ammettendo che la grande maggioranza delle persone
colte non legga più gli scritti di Cicerone nè prenda esempio dalla bellezza
della loro forma, certo non è perduta per l’umanità la profonda influenza
eh’essi hanno esercitata sul pensiero e sulla parola di tanti spiriti
illuminati, non è perduto il sentimento di nobilissima umanità che in essi
vive. Il che vuol dire che Cicerone è stato e sarà sempre un grande educatore,
del quale bisogna parlare con rispetto e con gratitudine. SENECA 1. La scuola
dei Sestii - 2. Seneca, le sue qualità di moralista e di scrittore - 3. Le sue
idee su la società, Dio e Tanima umana - 4. Seneca e S. Paolo. 1. - Dopo
Cicerone, la filosofìa acquista a Roma una grande importanza tra le persone
colte, diventando sempre più pratica e popolare. Cicerone scriveva alla vigilia
delle ultime proscrizioni delle quali egli stesso doveva essere vittima, e nei
suoi trattati c’era ancora l’eco delle dispute agitate nelle scuole greche;
dopo di lui, terminate le lotte della vita pubblica, stabilito l’impero, la
filosofìa risponde al bisogno di tutti quelli che vi cercavano un rifugio, una
consolazione, dei principi salutari, una regola di condotta. Sotto Augusto
cresce il numero dei suoi adepti: poeti e storici, giureconsulti e uomini di
Stato se ne occupano; Orazio stesso, che qualche volta deride i filosofi per i
loro paradossi, è filosofo a modo suo, molto savio e di molto buon gusto, ora
stoico ora epicureo, e fa spesso il suo esame di coscienza, ha delle
preoccupazioni morali, maestro nell’arte di vivere. Nelle grandi famiglie i
filosofi entrano come precettori, consiglieri e consolatori, hanno cura
d’anime. Seneca ci parla di un condannato a_morte, che andando al luogo del
supplizio, è accompagnato dal suo filosofo, prose- quebatur illum philosophus
suus, col quale s’intrattiene dell J immortalità dell’anima. Quando Livia, la
moglie di Augusto, perde il figlio Druso, essa si rimette per essere. consolata
nelle mani di Areos, il filosofo di suo marito: era il confessore, il
confidente dell’uno e dell’altra. E c’è pure un insegnamento pubblico di
filosofia, che da Cicerone a Seneca è rappresentato da un gruppo di uomini, i
quali fecero l’educazione della gioventù d’allora. Sono innanzi tutto i due
Sestii padre e tìglio. Quinto Sestio era un romano di buona famiglia, che al
tempo della dittatura di Cesare andò a studiare filosofìa in Atene, e poi venne
a professarla a Roma. Attorno a lui e a suo figlio si formò una scuola, la
cosiddetta scuola dei Sestii, che ebbe un certo splendore, esercitò molta
efficacia: essi lottano con energia contro i vizi del secolo, e mettono in uso
certe pratiche inorali come l’esame di coscienza, una pratica già raccomandata
dai pitagorici, i quali pare che i Sestii seguissero anche nell’astenersi dalle
carni di animali. Altri professori illustri della stessa scuola furono So-
zione di Alessandria, che s’avvicina ancora più al pitagorismo insegnando la
metempsicosi, Attalo stoico e Fabiano Papirio, un declamatore del tempo di
Augusto, che s’era fatta una grande riputazione nelle scuole, trattando quelle
cause immaginarie su cui si esercitava allora' l’eloquenza dei retori. Fu
convertito da Quinto Sestio alla filosofìa, e continuò a declamare, a parlare
pubblicamente di argomenti filosofici. L’insegnamento così non fu più limitato
a un gruppo d’iniziati o di adepti, ma diventò una vera predicazione: la
filosofia s ? indirizza alla folla, diventa eloquente, cerca di essere
persuasiva ed efficace. Fabiano Papirio specialmente ebbe un grande successo:
aveva una fìsonomia dolce, una maniera di parlare semplice e sobria: 10
ascoltavano con un’attenzione rispettosa; ma a volte V uditorio, colpito dalla
grandezza delle idee, non poteva trattenere delle grida di ammirazione. Un
altro che attirò l’attenzione della gioventù romana fu il cinico Demetrio, ille
semimidus, cencioso, come lo chiama Seneca, con la stranezza delle sue maniere
e la foga della sua parola, tutto energia e disprezzo del dolore e della morte:
riappariscono i Cinici, che sono come ' sempre l’esagerazione degli Stoici. Del
resto, qualunque sia il nome che portino, tutti questi filosofi erano più o
meno stoici. Non si trattava per loro di scoprire verità nuove, ma di applicare
le grandi verità morali e le massime di condotta già fissate dagli antichi
saggi. Come dice ancora Seneca, i rimedi dell’anima sono stati trovati prima di
noi: non ci resta che cercare in che maniera e quando bisogna applicarli. La
tristezza dei tempi e il dispotismo imperiale che diventa sempre più pazzo e
violento dànno, come ha detto 11 Boissier, un terribile, a propon allo
stoicismo, il quale diventa una fede ardente, la religione delle anime libere:
l’anima ha bisogno d’irrigidirsi nel sentimento della sua forza e della sua
dignità in mezzo a quelle sventure e a quei pericoli che a ogni momento la
minacciano. Per questo la filosofia ebbe l’onore di essere odiata dagl’
imperatori : essa e la Storia erano, come dice Tacito, ingrata principiòus
nomina. La filosofia ebbe i suoi devoti e ì suoi martiri, a cominciare da
Catone, che rifiuta la vita cercando libertà, e venendo alle vittime di Nerone
illustrate da Tacito, come tra gli altri, Trasea Peto, assistito negli ultimi
suoi momenti dal cinico Demetrio; e poi lo stesso Seneca, sul quale dobbiamo
fermarci ] ). L. Anneo Seneca, figlio di Seneca il retore e di Elvia, nacque a
Cordova. Venuto a Roma col padre che non ama la filosofia, e avrebbe voluto
farne un oratore, è scolaro di quei moralisti della scuola dei Sestii, Sozione,
Attalo, Fabiano Papirio, la cui maschia e severa dottrina fece sopra di lui la
più viva impressione. Si fece conóscere per la sua eloquenza, entrò nella via
degli onori, fu accolto e apprezzato nella più alta società di Roma. Sotto
l’imperatore Claudio fu esiliato in Corsica per gl’intrighi di Messalina; dopo
otto anni è richiamato per opera di Agrippina che gli affida l’educazione del
giovane Nerone. Del quale dunque fu precettore e poi ministro: caduto in
disgrazia nel 62, morì nel 65 per ordine dell’imperatore. Mescolato
agl’intrighi e ai delitti della corte imperiale che non seppe o non potè
impedire, il suo carattere è Stato molto discusso, special- mente per le
immense ricchezze eh’ egli possedeva, in gran parte donategli dall’imperatore,
e per la parte che può avere avuto nell’assassinio ! di Agrippina per opera di
Nerone, in nome del quale Seneca scrisse una lettera giustificativa al Senato,
presentando la morte di Agrippina come un suicidio. Ma quali che possano essere
state le J ) Cfr. Martha, Les moralistes souti l’empire romaìn; Boissier, La
religion romaine d’Auguste aux Antonina; Havet, Le Cliristianisme et ses
origines, * 2° voi.; il capitolo su Seneca del Pichon nella sua Hist. de la
Lìti, latine (Hachette) ; o uno studio del prof. Pascal nel voi. Figure e
caratteri (Sandron). sue debolezze, egli le riscattò da filosofo con una bella
morte, eh’è raccontata da Tacito. Impeditogli di far testamento, diceva di
lasciare agli amici l’immagine della sua vita. Non fu senza ambizione e senza
vanità, e non uscì immacolato dalla vita, in quei tempi e in quella corte; ma
non gii si può negare un certo entusiasmo sincero e l’aspirazione verso il
bene. Le opere di Seneca che si riferiscono alla filosofìa sono i trattati
morali: de provìdentia, de comtantia sapienti», de ira, de vita beata, de olio,
de tranquillitate animi, de bre- vitate vitae, de elementia, de beneficiis; le
Consolazioni ad Marciavi, ad Polybium, ad JSelviam matrem; le Lettere morali a
Lucilio che sono 124, l’ultima, la più matura e la più importante delle opere
di Seneca; e infine le Qui- stioni naturali, che trattano di argomenti di
fisica, fecero testo e godettero di molta autorità durante il Medio Evo; ma vi
si tratta anche di argomenti morali., Seneca si prolessa stoico, e degli
scrittori latini è l’interprete più compiuto della dottrina stoica, di cui
riproduce i dogmi con una certa enfasi, non scevra di declamazione e di
retorica. Ma è eclettico anche lui e impara da tutte le scuole: Cita spesso
anche Epicuro, verso il quale è più giusto degli nitri Stoici. Egli stesso
confessa: Solco in aliena castra transire, non tanquam transfuga, sed tanquam
explorator. La sua specialità è il genere monitorio e precettivo; e il suo
capolavoro ò una raccolta di consigli e precetti morali a Lucilio, suo amico,
un cavaliere romano ch’era procuratore in Sicilia, amministratore finanziario
della provincia, e ch’egli guida e dirige da lontano coi suoi consigli. * E' 1
Biblioteca Comunale “Giuseppe Melli” - San Pietro Vernotico (Br) SENECA Seneca
non ama la folla, non pensa al gran pubblico: Satis sunt mifii patiti, satis
est unns, satis est nullws. La sua opera non è di un predicatore, ma di un
direttore delle coscienze. Ed egli sa adattare il suo insegnamento secondo le
persone e le circostanze. Aliter cum alio agendum: egli consola quelli che
hanno bisogno di essere consolati, spinge all’azione le nature fiacche e molli,
ridesta la forza di quelli che s’annoiano, predica il ritiro e la solitudine a
quelli che amano troppo la vita mondana. E in quest’opera di moralista pratico
egli porta una grande conoscenza della vita, l’esperienza di un uomo che
conosce il mondo, la corte, le passioni, le inquietudini e i bisogni del cuore umano:
sicché i suoi trattati e specialmente le sue lettere sono importanti non solo
per le verità morali che contengono, ma anche come studio dei caratteri e delle
passioni del suo tempo e di tutti i tempi. La sua psicologia è molto più
raffinata di quella di Cicerone, e c’è in Ini una preoccupazione della vita
interiore e della perfezione morale, in ciò che ha di più intimo, che non c’è
in Cicerone. Egli propone come un ideale di perfezione la virtù stoica, ma sa
adattarsi alle circostanze, e consente quando occorre alle debolezze della
natura umana: di qui le contradizioni che gli rimproverano, e che derivano
dalle condizioni speciali in cui si esercita il suo insegnamento. S’aggiunga,
per spiegare l’impressione che fa Seneca, l’efficacia di uno stile non senza
artifizio, ma concettoso, sentenzioso, energico, a frasi spezzate e serrate,
con qualche cosa di brusco e di veemente. La grande frase, il periodo
ciceroniano si spezza: ne prendono il posto dei periodi brevi, a scatti, con
frequenti antitesi, e sentenze aguzzate e raffinate, piene di energia: anche
questo un carattere che lo ravvicina al gusto di noi moderni. La morale di
Seneca, guardata nel suo insieme, è, come . quella di tutti gli Stoici,
un’àpologìà perpetua della volontà morale di fronte a tutto ciò che tende a
limitarla e asservirla. La fortezza dì fronte agli attacchi della fortuna, il
disprezzo dei beni esterni, la serenità davanti alla morte, questi e gli altri
temi abituali della predicazione stoica sono anche i suoi : egli ne rinfresca
l’espressione col suo accento passionato e concitato, che dà a quelle massime
forza e rilievo.Soprattutto non bisogna dimenticare quel sapore di attualità
che, come abbiamo accennato, avevano le idee stoiche in quella condizione dei
tempi e in bocca di Seneca. Già questa attualità o riscontro nella realtà
comincia ad essere un fatto anche con Cicerone. Il quale, quando scrive nelle
Tusculane de eontemnenda morte o de tolerando dolore, non scrive di temi
astratti e retorici, ma di pericoli imminenti, in tempi già diventati iniqui e
tristissimi, tra gli orrori delle guerre civili e delle proscrizioni. Con
l’impero, dopo Augusto, la situazione si aggrava, diventa intollerabile. In
mezzo a quell’orgia, a quei delitti, a quella tirannide che non ha più niente
di umano, la sola cosa che l’anima umana può salvare è la sua libertà e il
sentimento della sua dignità. La filosofia compie l’ufficio suo predicando la
forza della volontà, la purezza interiore, il disprezzo di tutto ciò che non
dipende da noi, il disprezzo della vita. He nasce una situazione violenta, che
si riflette anche nello stile di questi scrittori, come ha osservato con molta
finezza l’Havet. SENECQuando noi leggiamo in Seneca e negli altri stoici che la
povertà, V esilio, le torture, la morte stessa non sono nulla, noi diciamo eh’
essi declamano; e in un certo senso è vero; ma la loro declamazione è come
imposta dalla situazione, è l’espressione esagerata di un sentimento legittimo
e naturale. Essi declamano perchè sentono il bisogno di sii dare la forza brutale
che dispone di tutte le maniere per far soffrire. In quella declamazione non
tutto è effetto dei vizi letterari del secolo, c J è anche qualche cosa di
sincero. Il filosofo è portato a prendere un tono veemente: la sua enfasi, le
sue ripetizioni insistenti, il gesto concitato che sembra accompagnare la
parola, sono altrettante proteste di una coscienza che la forza vorrebbe far
tacere, e che non tace, ma ha bisogno di gridare per farsi ascoltare. 3. - È di
Seneca la sentenza che dice : Non scftolae sed vitae diwimus. Salvo che questo
motto non va inteso nel senso ' utilitario in cui oggi è così spesso ripetuto.
Nemmeno Epicuro lo avrebbe inteso in questo senso. Quando i moralisti antichi
dicono di voler insegnare a vivere, hanno in mira la salute e la perfezione
dell’anima, non gli agi, le comodità, l’apprendi mento delle arti utili alla
vita: la sola arte eh 7 essi insegnano è l’arte stessa di vivere: artifex
rivendi, come dice Seneca del saggio. Un’altra conseguenza di quella situazione
che abbiamo detto è che le differenze esterne fra gli uomini spariscono. Nella
servitù comune, nella quale tutti gemono e temono in quelle vicende inopinate
della fortuna, i grandi non hanno più ragione di disprezzare le miserie dei
piccoli, nè gli uomini liberi quelle degli schiavi. In Seneca le grandi tesi
sociali e umanitarie dello stoicismo sono riprese con un nuovo accento, più
forte e più intimo. Egli vede negli schiavi degli amici di condizione
inferiore, humiles amici; sono degli schiavi, ma sono degli uomini: imo
homines. Egli condanna i giochi dei gladiatori, che Cicerone, quantunque non li
amasse, giustificava ancora come una scuola di coraggio per fortificare l’animo
degli spettatori contro il dolore e la morte, quando quelli che si vedevano
combattere erano dei malfattori. Seneca non li può soffrire sotto alcun
pretesto, non vuole che s’insegni al popolo la crudeltà: quest’uomo è un
brigante, merita di essere punito; ma tu, disgraziato, che hai fatto per essere
condannato a questo spettacolo? E in quest’ordine d’idee trova la meravigliosa
espressione: homo res sacra homini; e condanna pure la guerra, dicendo che la
natura ha fatto l’uomo per la dolcezza (mitissinutm genus), dimenticando forse
che ci sono delle guerre giuste e anche pietose, quando bisogna difendersi dai
briganti e dagli assassini. E celebra con parole che hanno del mistico la
solidarietà umana e i suoi dovevi: nell’ep. 95: membra sumus corporis magni.
Natura nos cognatos edidit: di qui l’amore reciproco e ciò che ci rende
socievoli: la giustizia e il diritto non hanno altro fondamento : è più
miserabile il nuocere altrui che l’essere offeso: siano sempre pronte le mani a
giovare, e abbiamo sempre nel cuore e nella bocca quel verso: Homo sum, nihil
Immani a me alienum puto. E aggiunge: la società umana è come una vòlta che
cadrebbe se le singole pietre non si sostenessero a vicenda. Esorta alla bontà,
alla clemenza, al beneficare, al perdono delle offese. Ubieumque homo est, ibi
benefica locus est. Non desinemus opem ferve etiam inimicis. Alteri vivas
oportet si vis Ubi vivere. Questa morale, che con la sua umanità e la sua
mitezza si stacca sul fondo di quella tristezza di tempi crudeli e violenti, ha
già un carattere e un’ispirazione religiosa. Questo caràttere religioso si
accentua ancora di più in alcune delle idee che Seneca esprime intorno alla
divinità, alle relazioni dell’uomo con Dio, e al destino dell’anima umana.
Anche per lui, come per tutti gli Stoici, il concetto di Dio oscilla tra il
panteismo e il teismo. Quid est Deus? Mens universi. Quid est Deus ? quod vides
totum et quod non vides totum. Ma nella sua opera di moralista consolatore e
direttore delle cosciente egli non può a meno di mettere in evidenza gli
attributi personali della divinità, concepita non solo come ragione universale,
ma coi suoi attributi morali di bontà, di clemenza, di sollecitudine per gli
uomini. Nulla è nascosto a Dio, egli è presente agli animi nostri, vicino a
noi: prope est a te Deus, tecum est, intus est. Sì, o Lucilio, egli continua^
nella lettera 4P, saeer intra nos spiritus sedei, malorum bonorumque nostr
orimi ohservator et custos. Dio non si onora coi templi nè si rende propizio
sollevando in alto le mani supplichevoli, ma con la purezza del cuore e della
vita : vis deos propiUare ? bonus esto. Satis illos coluit, quisquis imitatus
est (Lett. 95). È dunque sulla virtù che si fonda questa relazione tra l’uomo e
Dio, del quale è detto: patrium Deus habet adversus bonos viros animum, et
illos fortiter amai. Un Dio cosiffatto non è una pura astrazione filosofica, ma
è oggetto di adorazione religiosa : il rapporto religioso è un 1 rapporto
intimo tra due persone, l’una delle quali si sente dipendente dall’ altra. Dio
comunica con noi, risiede in noi, ci ama ed è amato da noi: colitur et amatur;
e noi P invochiamo perchè, com’è detto altrove, da lui ci vengono le
risoluzioni grandi e forti: ille dat constila magnìfica et creda: c’ispira e ci
sostiene: si direbbe che in queste parole è toccata o intraveduta la dottrina
della grazia. Notevoli pure sono i concetti intorno all’uomo, alla natura e al
destino dell’anima. L’uomo non ha ragione di vantarsi, di essere orgoglioso:
idem semper de nobis pronuntiare débébvmus, malos esse nos, malos fuisse,
invitus adieiam et fiutar os esse . Peccavimus omnes. E solo a traverso gli
errori noi giungiamo alla virtù: anche il migliore fra noi ad innocentiam
tamenpeccando pervenit. E l’inìzio della salvazione è la conoscenza del
peccato. Initium est salutis notitia peccati } una sentenza di Epicuro, che
Seneca si appropria. La vita è una lotta, una milizia: c’è dentro dell’uomo una
lotta continua tra la carne e lo spirito, tra il corpo, eh’è come un peso o una
prigione, e lo spirito sacer et aeternus che aspira alla sua liberazione: gravi
terrenoque detineor carcere. 1 Ohi mi libererà da questo corpo di morte?’
griderà S. Paolo. Nell’anima stessa c’è qualche cosa d’irrazionale: quel
dualismo platonico che Posidonio aveva introdotto nella dottrina stoica, è
conservato da Seneca, e n’è resa più acuta, più accentuata l’espressione: diventa
il contrasto tra la carne e lo spirito, eh’è tanta parte della concezione
cristiana. SENECA La vita è dunque una guerra continua. Nóbis militan- dum est,
ed è un genere di milizia che non consente riposo. Bisogna essere vigilanti con
se stessi, bisogna combattere con le passioni, col dolore, col piacere, con la
fortuna, con la povertà, col nostro proprio cuore: Proiice quaecumque cor tuiim
laniant ; quae si aliter estrahi nequi- rent, cor ipsum cimi illis revellendum
crai, parole energiche die ricordano quelle dell’Evangelo: se il tuo occhio
destro ti scandalizza, strappalo e gettalo da te. Seneca ha il sentimento più
vivace della miseria umana: Omnis vita supplicmm est. Per questo la morte è una
liberazione, e come il porto nel quale troviamo il rifugio dal mare agitato
della vita. Dell’ immortalità Seneca non parla sempre allo stesso modo.
Ipotesi, speranze, le opinioni diverse s’avvicendano nei suoi scritti. MS, non
di rado, specialmente quando si rivolge ai suoi corrispondenti per consolarli
della morte dei loro cari, egli prende un tono più affermativo. La morte è
l’inizio, il giorno natale di una nuova esistenza. IMes iste quem tanquam
extremum reformidas, aeterni na- talis est. Il corpo è un breve ospizio
dell’anima: si dissiperanno le caligini che circondano la nostra esistenza, la
luce divina ci apparirà nella sua sorgente, e con essa la grande eterna pace.
Si potrebbero moltiplicare le citazioni, ma basteranno. Sono queste idee che
hanno fatto credere a una ispirazione cristiana degli scritti di Seneca. Seneca
saepe noster, diceva già Tertulliano. 4. - Qui bisogna sapere una cosa. Kel 61
d. 0., quattro anni prima della morte di Seneca, giungeva a Roma un piccolo
ebreo, Paolo di Tarso in Ciiicia, il quale accusato e perseguitato da altri
ebrei, si appellava, nella sua qualità di cittadino romano, dal giudizio delle
autorità imperiali in Giudea, a quello dell’imperatore. Fu condotto davanti al
prefetto del pretorio eli’era Burrus, amico e collega di Seneca come ministro
di Nerone. Giudicato favorevolmente, l’apostolo fu lasciato libero o quasi
libero durante due anni, dei quali profittò per diffondere la sua dottrina, e
pare che facesse dei proseliti anche nel palazzo imperiale, fra gli schiavi o i
liberti della casa di Nerone. Si disse per esempio che Atte, la giovane eh’ era
stata amata da Nerone, e che poi abbandonata fu la sola che ne cercasse il
cadavere, quando egli fu obbligato ad uccidersi, per dargli sepoltura, fosse
stata convertita al Cristianesimo. Atte, come sappiamo da Tacito, era personalmente
conosciuta da Seneca. Bisogna aggiungere che anche prima della venuta a Poma,
Paolo, accusato dagli ebrei di Corinto, s’era trovato a contatto con un
proconsole romano, ch’era quel Gallione di cui parlano gli Atti degli Apostoli,
e che si rifiutò di dare ascolto ai suoi accusatori, trattandosi di cose die
non lo riguardavano (polemiche religiose tra Ebrei). Ora si dà il caso che
questo Gallione era fratello di Seneca, e si chiamava così perchè adottato da
un Gallio, di cui portava il nome: il suo nome di famiglia era Anneo Novatus,
ed era fratello maggiore di Seneca. Fatto sta che a poco a poco si formò la
leggenda che Seneca e S. Paolo si fossero conosciuti, anzi fossero diventati
amici, e che l’apostolo avesse convertito il filosofo, e si fossero scambiate
anche delle lettere, 14 delle quali sono giunte fino a noi: e in base a queste
lettere S. Girolatno, nel quarto secolo, enumerando gli scrittori ecclesiastici
dei primi secoli, vi mette anche Seneca. È una leggenda che ha avuto corso per
tutto il Medio Evo, e anche alcuni moderni vi hanno creduto. I^a qui- stione è
stata agitata più volte l ). Le conclusioni sono queste: La corrispondenza è
certamente apocrifa, scritta in un latino che non è nè classico nè argenteo; e
del resto è insignificante, e qualche volta buffa. Per es. c’ è una lettera, la
7% nella quale Seneca informa il carissimo amico Paolo che l’imperatore è stato
molto colpito dalla sua dottrina, e che sentendo leggere un certo esordio di
Paolo sulla virtù, avrebbe detto: mi meraviglio come un uomo che ha ricevuto
un’istruzione regolare possa avere di tali sentimenti. E nella stessa lettera
gli scrive: lo Spirito Santo ti fa dire delle cose sublimi, ma appunto jier
questo mi piacerebbe che avessi un po’ più cura della forma, ut maiestati earum
rerum cuìtus sermonis non desti. E in un’altra lettera, da uomo soccorrevole,
gli manda un libro de copia verborum. E non parliamo delle risposte di Paolo.
Sono inezie da una parte e dall’altra. La corrispondenza è certamente una
falsificazione, e anche poco abile. Rimane la quistione se Seneca e S. Paolo si
sono conosciuti. E se per conoscersi s’intende il semplice fatto di vedersi,
incontrarsi, scambiare qualche parola più o ] ) Si possono consultare un libro
dolLAutìERTiN, Sénèque et S. Paul f e un articolo magistrale di Ferd. Bat.tr
nella Zeitschr. f. wias. Tipologie, t. 1°, 1858, ristampato da Zeller in un
voi. dì Abhandlungen del Baur; e più brevemente quello che ne dice il Boissier
nel libro che ho citato : La religion ro inaine.] meno insignificante o per
ragioni di affari, non possiamo dire nè sì nè no, non ne sappiamo nulla. Quello
che importa è che, anche dato e niente affatto concesso che Seneca abbia
conosciuto o avvicinato l’apostolo, certamente non gli deve nulla nè per quello
che riguarda le idee, nè le espressioni. E questo per le seguenti ragioni: ! 1°
ed è la ragione più ovvia, le idee di Seneca sulla provvidenza, sulla natura
dell’uomo, sulla vita morale si trovano già nelle opere sue anteriori a questa
pretesa conoscenza con S. Paolo ; 2° quando si leggono quelle idee, non come
frasi staccate ma al loro luogo, in connessione con tutto il resto, fanno parte
di un discorso nel quale Seneca continua a professare le dottrine stoiche, alle
quali ha sempre aderito; e non c’è nulla in quelle idee stesse di sapore
cristiano o che sembrino tali, che non trovi il suo riscontro non solo nei
vecchi stoici, ma in tutta la tradizione filosofica anteriore, in Platone, in
Epicuro, in Cicerone; 3° e soprattutto, se Seneca e S. Paolo si fossero conosciuti
e si fossero messi a discorrere di filosofia e di religione, non si sarebbero
intesi affatto, in nessun modo, per la differenza radicale e insanabile che c’è
tra i due modi di considerare il mondo e la vita. Già Seneca non avrebbe potuto
comprendere nulla di tutta la parte storica e dogmatica del pensiero di Paolo,
voglio dire di quei fatti e di quei dogmi che sono come i cardini del suo
apostolato: il peccato di Adamo, la venuta del Messia, la morte e la
risurrezione di Cristo, la redenzione di tutti gli uomini fondata sulla fede in
questo fatto della risurrezione: sono fatti così miracolosi, e interprelazioni
di questi fatti così lontane, così aliene da una mente educata nel razionalismo
greco-romano, che Seneca, quando pure non avesse sbarrato tanto d’occhi per la
meraviglia, non avrebbe potuto comprenderne nulla. Ma a parte questo, anche sul
terreno limitato dell’Etica, j le due concezioni, quella di Paolo e quella di
Seneca sono, .= nonostante le frasi analoghe, lontanissime 1’ una dall’altra.
Seneca si riconnette a tutta la tradizione classica e pagana, che considera la
virtù come una perfezione della natura, una conquista e un trionfo della
ragione sugl’im-1 pulsi inferiori dell’uomo; e tiene fermo alla formula stoica:
seguire la natura, che egli concepisce come qualche cosa di essenzialmente
razionale. S. Paolo e con lui il Cristianesimo insegna la corruzione
originaria, radicale, della volontà naturale dell’uomo, e in- . segna la
rigenerazione possibile solamente per opera della ; grazia divina, che redime e
rinnova la creatura, ricrean- dola a dir così dalla vita della carne alla vita
dello spirito. Per Seneca come per gli altri Stoici la legge morale è % una
semplice legge della ragione che s’identifica con la \ legge cosmica; per S.
Paolo la legge è nel senso preciso della parola un comando, un imperativo,
espressione della volontà divina; e il peccato non è la semplice distanza che
separa la realtà empirica dall’ ideale morale, ma è sin dall’origine una
ribellione al comando di Dio, della sola volontà che sia santa. L’autonomia e
l’autarchia del saggio stoico non sono parole cristiane. La conseguenza è che
il saggio stoico, l’ideale di Seneca, manca della qualità propriamente
cristiana, non è umile; può sentire più o meno la sua imperfezione finche quell’ideale
non è raggiunto, ma non c’è propriamente abnegazione in lui, anzi egli pone il
suo orgoglio nell’affermazione della sua volontà razionale, e in questo senso
egli si sente simile a Dio. Il santo cristiano invece sa che nulla gli
appartiene, non ha orgoglio, nega la sua volontà, la sente spezzata e
ri-generata da una forza onnipotente, e si umilia pregando: fiat voluntas tua,
eh’è qualche cosa di più della semplice rassegnazione stoica a quello che vuole
o porta il fato. Ohi vuole misurare con un’occhiata sola tutto il contrasto,
guardi a queste parole di Seneca: non video, in- quam, quid hàbeat in terris
Jupiter pulchrius, si convertere animum velit, quam ut spectet Catonem, iani
partibus non semel fractis, stantem nihilominus inter ruinas publicas recium.
Il saggio stoico con la sua forza d’ animo e la sua virtù eroica è glorificato
in modo eh 7 è lo spettacolo più degno e più bello che Dio possa ammirare. E
badiamo che Catone è un suicida: perchè, come dice Seneca, ogni vena del tuo
corpo è una via aperta alla libertà. Il suicidio, per un cristiano, è la
ribellione più aperta alla volontà santa di Dio, e non c’è altra gloria che la
gloria di Dio, e il fare la sua volontà si chiama dovere, obbedienza, morire a
se stessi per essere partecipi della gloria di Dio e della vita eterna. Sono
due concezioni diverse. Seneca non deve nulla a S. Paolo. Quello che c’è di
vero è che l’accento religioso che prendono in lui le dottrine antiche è un
indizio che segna* l’avvicinarsi dei tempi cristiani. Dopo Seneca,
contemporaneo più giovane di lui, è da nominare Musonio Rufo, eli e nato a
Volsinia (Bol- sena) nell’ Etruria, visse sotto Nerone e poi ancora sotto
gl’imperatori Vespasiano e Tito. Dell’ ordine equestre, coltivò e insegnò la
filosofia seguendo le dottrine stoiche, come dice Tacito clie lo nomina più
volte. Fu un maestro tutto pratico, stimando inutile ogni scienza che non
giovasse alla vita. Esortava alla filosofia uomini e donne, poiché la filosofìa
non è altro per lui che la ricerca della xaXoxàyala pratica di ciò eh’è onesto,
e senza la filosofia non si può conseguire la virtù. Anche il contadino dietro
il suo aratro può filosofare in questo senso, e dare lezioni ed esempi di
saggezza: faceva un elogio dell’agricoltura come un genere di vita più acconcio
alla filosofia dei costumi corrotti della città. Il suo insegnamento e la vita
intemerata gli dettero nome, e dovette esercitare una grande efficacia, se
dobbiamo giudicare specialmente dal modo come lo ricorda Epitfeto clie fu suo
scolaro; e basterà averlo ricordato anche noi, senza insistere sui frammenti e
precetti particolari che ci sono stati conservati di lui. 2. - Il grande e più
celebre rappresentante dello stoicismo nell’ epoca imperiale è Epitteto.
Epitteto nacque a Hierapoli, nella Frigia, verso il 50 dell’e. v. Venne a Roma,
dove passò la sua giovinezza, come schiavo di un Epafrodito, che fu
probabilmente il liberto e favorito di Nerone dello stesso nome. Lo stesso nome
di Epitteto non è in origine un nome proprio, ma vuol dire schiavo (!tuxt7]tq£).
Era zoppo e, secondo un aneddoto celebre, per effetto dei maltrattamenti del
suo padrone. Un giorno questi gli avrebbe messo la gamba in uno strumento di
tortura. Bada, gli disse Epitteto, che finirai col rompermela. E siccome
l’altro continuava e la gamba si ruppe di fatto, Epitteto si contentò di
aggiungere: Te l’avevo detto. Questo tratto d’insensibilità stoica fu tanto
ammirato, che più tardi Celso, l’avversario del Cristianesimo, apostrofava i
cristiani : Forse che il vostro Cristo, nel suo supplizio, ha mai detto niente
di così bello? Al che Origene, lo scrittore ecclesiastico che scrisse contro
Celso, rispose: Nostro Signore non ha detto niente, e questo è anche più bello.
Il giovane Epitteto, ancora schiavo, potè istruirsi e seguire le lezioni di
Musonio Rufo. Fatto libero, rimase a. Roma, tentando anche lui l’insegnamento o
la predicazione morale, finché non fu obbligato a lasciare la città quando
l’imperatore Domiziano con un senatoconsulto del 94 d. C. fece cacciare i
filosofi da Roma e dall’Italia. Epitteto allora si ritirò nell’Epiro, a
Nicopoli, dove visse fin verso il 125, povero e senza famiglia, ma circondato
da molti discepoli, e venerato per la santità della vita, come maximus più
losophorum, secondo Aulo Geli io. Uno di quelli che lo udirono, e per più anni,
fu Ar- riano di Nicomedia, lo storico, che fu il più attento e il più
entusiasta dei discepoli. Arriano aveva scoperto di avere dei gusti e uno
spirito affine a quello di Senofonte, volle essere un Senofonte redivivo, e,
come l’altro, scrisse la sua Anabasi (di Alessandro), e i suoi Memoràbili:
Epit- teto diventò il suo Socrate, e nei Discorsi o Dissertazioni di lui
(Storpipoi o Xóyot) raccolti molto fedelmente da Arriano (in 8 libri, dei quali
ce ne rimangono 4 e frammenti degli altri), la figura di Epitteto già vecchio
rivive con. la vivacità del suo spirito e l’energia del suo carattere e del suo
insegnamento. Più tardi, visto il successo delle lezioni di Epitteto, Arriano
le condensò in un piccolo volume: è il famoso 1 Manuale di Epitteto ’, che nei
tempi moderni comparve dapprima nella traduzione latina di Angelo Poliziano,
nel 1493; il testo originale fu pubblicato nel 1528, a Venezia. Non ho bisogno
di ricordare eh’ è stato tradotto in italiano dal Leopardi. Epitteto è anche lui
un maestro tutto pratico: non è un pensatore che ricerchi o discuta i
fondamenti teorici della dottrina che insegna: le ricerche sistematiche, le
discussioni di scuola non sono il fatto suo. Egli vuole agire sulle coscienze,
rinnovarle ed educarle. Seneca è uno spirito curioso e un letterato, che pure
mirando a un fine pratico, ha coscienza della sua abilità di scrittore, e si
compiace di aguzzare in forme ingegnose le sue massime, le sue osservazioni, i
suoi consigli. Epitteto non mira a brillare, non vuole applausi, non ha mai
pensato TO'*, C 1 1 " L 1 ^ y
h t,. :'yY £VsE S, àtàeXcpol Un primo documento di quest’attività
greco-ebraica è la traduzione greca della Bibbia, che si disse dei Settanta,
perchè secondo una leggenda sarebbe stata fatta da 72 dotti mandati dal
Sacerdote di Gerusalemme a Tolomeo Filadelfo, che voleva avere nella sua grande
biblioteca i libri di Mosè tradotti in greco, e questi 72 traduttori, chiusi in
tante camerette separate, senza poter comunicare fra loro, avrebbero tradotta da
capo a fondo, come per un’ispirazione divina, tutta quanta la Bibbia. Il vero è
che la traduzione rispondeva al bisogno della comunità ebrea di Alessandria di
leggere il libro suo nazionale nella lingua diventata oramai comune nella
colonia. La maggior parte non leggevano nemmeno più l’ebraico. Questo libro si
può considerare come il primo travasa- mento di idee giudaiche in un contenente
ellenico 1 ), ed ebbe una grande efficacia sulla propagazione posteriore
dell’Ebraismo e poi del Cristianesimo. Un ebreo di Alessandria, che in
filosofia era peripatetico, Aristobulo è ritenuto da molti il primo scrittore
in cui apparirebbe una vera connessione di filosofemi greci con le idee e le
tradizioni ebraiche. E influsso d’idee greche è stato pure notato in uno dei
libri apocrifi del Vecchio Testamento, nel Libro della Sapienza di Saio- mone,
che si crede composto da un ebreo alessandrino verso il 100 a. C. Ma il
principale rappresentante di questa filosofia grecoebraica è Filone ebreo.0
Castelli, Storia degli Ebrei (Firenze, Barbèra). ti.: FILONE EBREO 265 2. -
riione nacque in Alessandria fra il 30 e il 20 a. C. da una famiglia
sacerdotale ch’era delle più ricche e ragguardevoli fra gli Ebrei di quella
città. Ebbe un’istruzione compiuta ellenica ed ebraica: consacrò tutta la vita
agli studi teologici e filosofici, dedito alla vita contemplativa, ma senza
trascurare i legami col suo popolo e i doveri che la sua posizione gl’imponeva.
Doveva godere di una grande riputazione per la sua pietà, per la sua scienza e per
la sua eloquenza. Verso il 40, già vecchio, fu messo a capo di un’ambasceria
presso l’imperatore Caligola per chiedere la liberazione dei suoi
correligionari di Alessandria dalle persecuzioni a cui erano fatti segno.
Tornato ad Alessandria, scrisse egli stesso la relazione di questa ambasceria,
e morì forse verso il 50. Scrisse in greco molte opere che ci rimangono. Alcuni
degli scritti di Filone sono d’argomento storico e ci fanno conoscere quale
fosse io stato della colonia giudaica di Alessandria: gli altri sono per la
maggior parte un commento filosofico ai libri mosaici. Filone dunque sta tra la
scienza greca e la rivelazione. Per lui non si tratta di ricercare e scoprire
la verità con la semplice attività della ragione: la verità è quella ri velata
da Dio nei libri santi. D’altra parte Filone è anche uno spirito esercitato
alla meditazione, grande studioso e ammiratore della scienza greca : ha un
culto per Platone: egli ritrova nei filosofi greci le verità rivelate dalla
Bibbia, e legge la Bibbia a traverso i concetti della filosofìa, la vede in
quella gran luce di verità creata dal pensiero greco. È naturale che la fusione
di elementi così disparati e d’idee di così diversa provenienza non fosse
possibile senza un certo sforzo, il quale importava due cose: una finzione e un
metodo particolare 2 ). La finzione (in buona fede, s T intende) è che i
filosofi greci come Pitagora, Eraclito, Platone, e anche i poeti più antichi
come Omero, Esiodo, avessero avuto notizia dei libri di Mosè e attinto dunque
alla sapienza ebraica: una finzione che si trova già in Aristobulo; ed era
avvalorata da alcune falsificazioni: si attribuivano ai poeti mitici come Lino,
Orfeo, dei versi di fattura posteriore. Il metodo è quello dell’interpretazione
allegorica, non inventato da Pilone, applicato già prima di lui fra gli Ebrei
alessandrini, e del quale anche gli Stoici gli davano l’esempio. Pilone
distingue dapertutto un senso letterale e un senso spirituale o intelligibile,
e ritiene il primo come simbolo del secondo; la relazione tra i due è quella
che c’ è tra il corpo e V anima. Per esempio, Adamo è lo spirito (il vouc), e
il Paradiso è 1’^epovtxòv xfjc; 4^/jA nel quale egli è messo per coltivare gli
alberi, che sono le virtù; la creazione di Èva significa il nascere della sensibilità,
e così via: quel metodo d’interpretazione allegorica che si può dire fantastico
e non critico quanto si vuole, ma che ha contribuito a spiritualizzare le
credenze e le idee. L’uomo ha cominciato col concepire Dio a sua immagine e
somiglianza, attribuendogli occhi e mani e voce e passioni umane. A poco a poco
il concetto del divino si spiritualizza. Per Filone, Dio non solo non ha forma
nè attributi umani, ma è al di là di ogni determinazione, una realtà, ! )
Dkussen, Die Philo sophie der Griechen.] assolatamente trascendente, sia
rispetto al mondo da cni è separato, sia rispetto alla nostra intelligenza alla
quale è inaccessibile. Noi siamo certi della sua esistenza, ma non possiamo
comprendere la sua essenza. Filone lo designa con la parola di cui si servivano
gli Eleati e Platone: tò £v, l’Essere, o con l’espressione aristotelica:
l’Essere in quanto essere; e trova il riscontro di questa denominazione in
quello ch’egli stesso, Dio, dice di sè nell’-Z&odo; J5V/o sum qui sum: èyw
eijxt Ó wv. Dio dunque è l’essere universale, eterno, immutabile, semplice,
libero, pago di se stesso, assolutamente trascendente e separato dal mondo. Ma
d’altra parte egli raccoglie in sè tutte lo perfezioni, e tutte le perfezioni
delle cose create derivano unicamente da lui. Egli è la causa prima di tutte le
cose create: riempie e comprende tutto. C’è una doppia esigenza in questa
concezione: l’idea dell’assoluta trascendenza di Dio, e quella dell’assoluta
dipendenza delle cose finite da Dio. Dio è uno, ma possiede forze infinite,
mediante le quali crea e governa il mondo: le due principali di queste forze
sono la bontà e la potenza, e l’ima e l’altra si uniscono nel Xóy oc, o ragione
divina, eh’è come il pensiero di Dio prima della creazione, e che si manifesta
poi in questa come la parola di Dio. Il lòyo- o la ragione cosmica di Eraclito
e degli Stoici non è per Filone il primo principio del mondo, ma è a dir così
il figlio primogenito di Dio, il suo verbo, l’intelligenza divina stessa iu
quanto personificata, qualche cosa che sta in mezzo tra la pura essenza di Dio
e il mondo eh’ è creato da lui. Filone ha bisogno di potenze intermediarie per
colmare l’abisso tra l’assoluta trascendenza di Dio e il mondo delle cose
finite, e queste potenze intermediarie sono rappresentate dal Logos, dalla
parola di Dio. Quando un architetto costruisce una casa, ha in sè il suo piano,
la sua idea. Il Logos di Filone comprende insè le idee, i modelli ideali delle
cose, e insieme le forze generatrici e formatrici degli esseri: le idee platoniche
e le ragioni seminali degli Stoici. È il Logos che divide in parti la massa di
cui si compone il mondo, dà alle cose le proprietà che le costituiscono,
determina i mari, le isole, i continenti, fìssa le specie dei viventi,
stabilisce bordine nella diversità: compie l’ufficio o gli uffici della ragione
come rivelazione di Dio e della sua provvidenza nel mondo. Filone tiene fermo
al dogma della creazione, ma formula la sua fede servendosi dei concetti della
filosofia greca: in questa mescolanza, in questo ripensamento delle idee greche
in una nuova atmosfera spirituale sta l’interesse e l’importanza storica di
Filone. E che cosa è l’uomo in questo sistema? Secondo la Scrittura Dio disse:
Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza; e poi aggiunge che Dio formò
l’uomo prendendo un pugno di terra, e soffiandovi sopra un soffio di vita,
l’uomo fu fatto in anima vivente. Filone si domanda in quale misura e in che
senso l’uomo è la creatura di Dio, e conclude dai due luoghi biblici che
bisogna distinguere l’uomo celeste, ideale, creato da Dio a sua immagine, e
l’uomo terrestre e sensibile. Il primo è un essere intelligibile, senza
materia, nè uomo nè donna, è l’idea dell’uomo in quanto uomo, di natura
incorruttibile; invece l’uomo terrestre, plasmato dal fango della terra, e non
da Dio direttamente, ma dalle sue potenze o ministri, è di natura sensibile,
materiale, naturalmente mortale, capace del bene, ma anche del male. L’uomo
intelligibile è un riflesso diretto del Logos divino, quindi possiede tutte le
virtù che lo fanno simile a Dio. L’uomo terrestre realizza solo in parte
quest’idea, perchè l’anima, partecipe dello spirito divino, si trova ad abitare
in un corpo mortale, fatto di forze inferiori. Di qui la doppia natura
dell’uomo: egli si trova come al confine dei due mondi, del mondo sensibile e
del mondo intelligibile. Per esprimere questo concètto Pilone riproduce a modo
suo la distinzione aristotelica dell’anima vegetativa, sensitiva e razionale;
oppure la teoria stoica dello rnsOpa, che pure conservando nell’espressione la
reminiscenza del suo significato materialista, si viene sempre più
spiritualizzando: è lo spirito, il soffio divino nell’uomo; soprattutto, si
ricorda delle immagini platoniche che il corpo è come una prigione dell’anima.
Quello che più importa a Filone è l’opposizione tra la parte irrazionale e
quella razionale dell’uomo. Che cosa è l’uomo? Tutto per la sua origine divinò
e il suo carattere razionale, nulla per la sua natura mortale e finita.
Api>arisce come un’incomprensibile mescolanza di grandezza e di piccolezza,
il più vicino a Dio, ma anche capace di male, miserabile, mortale. Mentre tutte
le piante rivolgono o dirizzano le loro corolle verso il sole, l’uomo può,
pianta celeste nudrita di elementi divini, elevarsi verso il cielo, ma questa
sua libertà è come appesantita dal peso del corpo. E qual’è dunque il compito e
il destino dell’uomo? Il restaurare in sè l’immagine di Dio, il somigliare a
lui, il seguire la natura, clie sono frasi platoniche e stoiche, ma con un
nuovo significato. Pilone combatte gli Epicurei, e considera il piacere come il
massimo impedimento alla vita divina; accetta la formula stoica del seguire la
natura, e distingue le quattro virtù cardinali, che trova simboleggiate nei
quattro fiumi del Paradiso; insegna non la sola metropatia ma l’apatia, è
insomma l’ideale del saggio stoico, salvo che il seguire la natura diventa per
lui obbedire alla volontà divina. La morale è aneli’essa rivelata: essa si
trova tutta quanta nelle leggi generali è particolari che emanano da Dio. La
virtù dell’uomo è un’ombra della volontà divina; e lungi dall’essere un Dio, il
saggio riceve la virtù come un dono della grazia divina, e un dono sempre
rinnovato. In quest’ Etica teologica le quattro virtù cardinali ricevono il
loro compimento nelle virtù religiose, che sono la fede e la pietà; e la vita
contemplativa, di cui fanno parte le virtù religiose, è superiore alla vita
attiva, che consiste nella pratica delle virtù cardinali. E come l’anima,
allontanandosi da Dio, s’è legata in questa vita dei sensi, così essa può
ritornare a Dio ; e l’ultimo grado della perfezione umana è l’unione conDio, la
deificatio, la visione estatica. L’ uomo può sollevarsi al di sopra dei sensi,
al di sopra delle idee; e-poichè l’essenza di Dio è inconoscibile, così
quest’unificazione con Dio non è possibile mediante la conoscenza razionale, ma
avviene per la grazia di Dio che si comunica a noi, in una specie di rapimento
eh’è in noi come il furore dei coribanti, dice Filone con frase platonica; e i limite
della felicità, la più alta aspirazione dell’uomo è, mediante quest’estasi, il
riposare in Dio: sv jaóvcj) Osm axf;vai. Questa è nei suoi tratti fondamentali
la filosofìa di Filone ebreo, eh’è in fondo anch’essa una filosofia eclettica,
in quanto profitta di tutte le filosofie anteriori; ma è caratterizzata
specialmente dal suo carattere religioso e dalla mescolanza d’idee greche con
idee o credenze ebraiche. Le stesse tendenze religiose e mistiche, che abbiamo
visto in Filone ebreo, ritroviamo sul terreno greco in quel gruppo di filosofi
che si sogliono denominare Neopitagorici e Platonici eclettici più o meno
pitagorizzanti, che si possono considerare anch’essi come precursori e
preparatori del Neoplatonismo propriamente detto. L’antica scuola pitagorica, come
un complesso di dottrine, era estinta sin dal quarto secolo, al tempo di
Aristotile; ma come forma e metodo di vita, che si diceva appunto vita
pitagorica, come disciplina di pratiche morali pure e austere sanzionate da
credenze religiose, il Pitagorismo doveva aver conservato dei fedeli, tra i
quali abbiamo già nominato i due Sestii ed altri. A cominciare dagli ultimi
cinquantanni che precedono Péra cristiana e poi nei due o tre secoli che
seguono, il Pitagorismo rinasce e si diffonde: non solo si cercano i libri
degli antichi pitagorici, ma se ne scrivono anche degli altri,-che si
attribuiscono a Pitagora stesso o ai suoi seguaci: tutta una letteratura
apocrifa, come i Versi d'oro di Pitagora, che sono una serie di precetti
morali, il trattato di Timeo di Locri a\\WAnima del mondo, quello di Ocello
Lucano sulla Natura del tutto, in parte, se non interamente, i libri attribuiti
a Filolao e ad Archita di Taranto, anche ad alcune donne pitagoriche, come la
famosa Theano e altre, perchè una delle specialità dei Pitagorici era di avere
un grande rispetto della donna. Sono opere dovute a falsari di buona fede, i
quali ri- spondendo ai bisogni del tempo, senza nessuno scrupolo critico, e
attingendo a tutte le filosofie contemporanee o anteriori, davano una filosofìa
completa, delle idee intorno a Dio, il mondo, 1’ uomo, la società, la virtù,
mettendo queste idee sotto il patrocinio di un nome illustre e autorevole: il
bisogno di appoggiarsi a un’autorità venerata era uno dei bisogni del tempo. La
stessa leggenda di Pitagora si compie in questo tempo, si arricchisce di nuovi
tratti meravigliosi: la sua vita diventa un mito. JB oltre poi alle opere
apocrife, ce ne furono delle altre pubblicate dai loro autori coi loro veri
nomi, e che sono appunto i Neopitagorici. Si possono e si sogliono citare come
rappresentanti di questo indirizzo un NIGIDIO FIGULO (vedasi), eh’è nominato da
CICERONE (vedasi) come rinnovatore del Pitagorismo in Alessandria, Sozione,
scolaro dei Sestii, che abbiamo pure nominato, poi più specialmente Apollonio
di Tiana, Moderato di Gades, e M- comaco di Gerasa sotto gli Antonini. La
figura più importante e caratteristica che possiamo prendere come
rappresentante di tutto questo indirizzo è Apollonio di Tiana, nella
Cappadocia, il quale nacque sotto Augusto e visse fino agli ultimi anni del
primo secolo dell’e. v., e la cui efficacia si estende molto al di là del tempo
in cui visse. Più di un secolo dopo la sua morte, nei primi decenni del 200, ne
scrisse la vita un sofista di quel tempo, Filostrato di Lemno, in una specie di
romanzo che vorrebbe essere storico, a richiesta dell’imperatrice Giulia
Doinna, moglie di Settimio Severo, la quale era una bella donna, originaria
della Siria, ambiziosa e colta, che non solo faceva, occorrendo, della politica,
ma aveva il gusto delle lettere e della filosofìa, e raccoglieva alla sua corte
un circolo di persone istruite più o meno illustri. In questo libro Apollonio è
presentato come un tipo di perfezione morale e religiosa, secondo i precetti
della filosofìa pitagorica, come un essere più che umano, non filosofo
solamente, ma qualche cosa di mezzo tra la natura umana e la natura divina. Ha
una nascita meravigliosa e fa anche dei miracoli. Cosicché è difficile, da
questa vita dì Filostrato, sceverare la parte storica dalla leggenda, quello
eh’è stato realmente Apollonio da quello ch’è diventato nell’immaginazione dei
suoi ammiratori. Ce lo possiamo raffigurare come una specie di riformatore
morale e religioso che, dopo essersi istruito nella filosofia e avere accettato
quella di Pitagora o che passava per pitagorica, esercita un apostolato
predicando la conoscenza del vero Dio e il culto che gli è dovuto. In un
frammento di lui che ci è conservato da Eusebio, egli dice: « Per onorare
degnamente la divinità e rendersela propizia e benevola, non giova, al Dio che
diciamo primo e ch’è uno e separato da tutte le cose, offrir sacrifizi nè
accendere fuoco nè in generale consacrare alcuna cosa sensibile; giacché egli
non ha bisogno di nulla, e non c’è pianta che la terra produce nè animale
eh’essa o l’aria alimenta, che non sia inquinato di qualche macchia. Quelloche
dobbiamo offrirgli è il meglio di noi, il discorso della mente, non le parole
che escono dalla bocca, ma invocare da lui, eh’è il migliore degli esseri, il
nostro bene con quello che abbiamo di meglio in noi, lo spirito, il pensiero
(il vo0$), che non ha bisogno di un organo con cui rivelarsi Al di sotto di
questo Dio primo ve n’ ha degl’ inferiori o secondari, primo dei quali è il
sole, la più pura manifestazione visibile del divino. L’uomo è d’essenza divina
e può per la saggezza elevarsi fino a Dio. La sua anima è immortale, anzi
eterna: essa passa da un corpo in un altro, ma in ogni corpo è in prigione,
incatenata ai sensi e agl’impulsi disordinati, da cui la filosofìa ha per
oggetto di liberarlo. Bisogna conoscere moralmente se stessi per arrivare alla
virtù e alla saggezza. Colui che pratica tutte le virtù, che conserva la sua
vita interamente pura, e sa adorare Dio con adorazione vera, s’avvicina sempre
più a Dio, diventa partecipe del divino. Ora è qui che comincia a lavorare la
leggenda: questa dottrina non è solamente insegnata, ma è vissuta da Apollonio,
nella biografia che ne scrive Filostrato: egli stesso è l’uomo divino, la
personificazione vivente della perfezione spirituale e della potenza a cui può
giungere l’uomo. Gli abitanti del paese di Tiana, dov’egli è nato, pretendono
ch’egli è figlio di Giove; Filostrato non lo crede, ma afferma che venne al
mondo in condizioni straordinarie, dopo che sua madre ebbe appreso in sogno che
portava il dio Proteo, il dio dellà divinazione, in persona. Dopo avere
abbracciata la vita pitagorica ed essersi formato nel silenzio per cinque anni,
viaggia per il mondo, in Oriente, in Grecia, a Roma, in Egitto, in tutti i
paesi allora conosciuti, conversa coi sapienti di tutti i paesi, istruendosi e
ammaestrando gli altri, preceduto da una gran fama e facendo delle cose
maravigliose. A Efeso ferma la peste facendo lapidare un vecchio mendicante, il
quale difatti non è altro che un demone camuffato, nel quale s’era incarnato il
flagello. Ad Alessandria riconosce istantaneamente in un corteo di condannati a
morte un innocente. A Efeso pure egli sa e annunzia la morte di Domiziano nel
momento in cui questo è colpito a Roma: un bel caso di telepatia. Non solo sa
delle cose sconosciute a tutti gii altri uomini, ma dispone di un vero potere
sugli elementi della natura: sulle rive dell’Ellesponto ferma i terremoti.
Parla tutte le lingue senza averle imparate, scaccia i demoni, si trasporta
istantaneamente a grandi distanze, s’intrattiene con le ombre degli eroi, fa
cadere i suoi ferri in prigione col solo prestigio della sua volontà, richiama
in vita una ragazza che passava per morta. A Corinto, apre gli occhi di uno dei
suoi discepoli perdutamente innamorato di una donna molto bella e ricca in
apparenza, ma ch’era in realtà una lamia, uno di quei cattivi demoni femminili
che si fanno amare dai giovani per poterli divorare a loro piacere. E non già
ch’egli sia un mago, uno stregone, che operi prodigi grazie all’intervento di
spiriti maligni; no, Filostrato si dà una gran pena per escludere questa
interpretazione. Apollonio fa dei miracoli in virtù della sua scienza superiore
e della sua cola unione con gli Dei; e per arrivare fino a questo punto quello
che occorre è una virtù austera, un’estrema purezza di costumi e l’osservazione
di una disciplina rigorosa. Così egli ha la conoscenza delle cose più nascoste
all’uomo, predice l’avvenire, e opera dei miracoli. La sua carriera si termina
aneli’essa in modo meraviglioso. La leggenda più diffusa intorno alla sua morte
racconta che, essendo andato a Creta vecchissimo, entrò nel tempio di Diana e
non ne uscì più. Si sentirono come delle voci di fanciulle che cantavano
nell’aria: lasciò la terra, salì al cielo. Dopo la sua morte, la città di Tiana
gli rese onori divini, e la venerazione di tutto il mondo pagano attestò
l’impressione lasciata negli spiriti dal passaggio di quest’essere
soprannaturale, che faceva dire ai suoi contemporanei: Un Dio abita fra noi J
). Questo carattere meraviglioso della vita di Apollonio ha fatto credere che
fosse intenzione di Filostrato e della sua ispiratrice di opporre una specie di
Cristo pagano a quello della Chiesa nascente, che guadagnava sempre più adoratori.
Per combattere il prestigio che la storia e l’insegnamento di Gesù esercitavano
di giorno in giorno non solo sulla folla, ma in tutte le classi della società,
avrebbero pensato di suscitargli contro un rivale in un saggiopagano, che non
solo operava miracoli come l’altro, ma che professava una dottrina attinta alle
più pure fonti della scienza ellenica. Ora la più parte dei critici non credono
a questa intenzione o tendenza del romanzo, nel quale non si allude affatto e
non si può dire che ci sia uno spirito ostile al Cristianesimo. Il romanzo è
piuttosto interessante innanzi q Cfr. .1. Réville, La veli gioii (ì Home som
ìes Sé vèr eh, Paris, Levous.] tatto per il fatto stésso che, alla distanza di
poco più di un secolo, la vita di un filosofo neopitagorico come Apollonio sia
potuta diventare materia di una leggenda cosiffatta: è un documento
interessante non solo di quel- V atmosfera meravigliosa e della credulità in
cui si svolgeva la lotta delle religioni; ma soprattutto di quella religiosità
spirituale che tendeva a purificare e moralizzare il paganesimo, e del bisogno
che si sente di presentare l’ideale \ religioso come incarnato in una figura
concreta, santa e beila di quell’ideale stesso, e operatrice di miracoli,
perchè avesse più presa sulle coscienze e la forza di comunicarsi. Il saggio
stoico o quello di Epicuro sono costruzioni razionali che non bastano più:
occorre la figura vivente e reale dell’ uomo che s’india, che rappresenta la
natura umana divinizzata. A questo bisogno, a quest’aspirazione religiosa delle
anime, rispondono ora le figure di Pitagora e di Apollonio. Del quale sappiamo
anche che scrisse una Vita di Pitagora. L’uno e l’altro sono uomini divini,
modelli di vita pura e santa, nei quali la verità si è rivelata, i Quando poi questi
Neopitagorici cercano di formulare filosoficamente le loro credenze e le loro
massime etico religiose, essi mescolano alle idee pitagoriche concetti
elaborati dalla filosofia posteriore, platonici, aristotelici, stoici : di qui
il carattere eclettico e recente della loro speculazione, e per cui è facile
riconoscere quelle falsificazioni della letteratura apocrifa che abbiamo detto.
L’idea fondamentale è l’opposizione tra Dio e il mondo: Dio è l’uno, la monade
primitiva: il mondo è rappresentato dal due, dalla dualità indeterminata, è il
molteplice. Ma siccome nel mondo tutto è ordinato con numero e mitilira, esso
si può dire l’attuazione d’idee, che sono pensieri della mente divina, che
s’identificano aneli’esse coi numeri; e poiché Dio non può venire in contatto
diretto col mondo, sorto realizzate da un essere intermedio, dal- l’anima del
mondo in una materia preesistente, la quale pure talvolta resiste a questa
penetrazione delle forme divine; ed è nella materia che bisogna cercare la
causa delle imperfezioni e del male nel mondo. Questo dualismo si ripete, si
ripercuote nell’uomo: l’anima ha bisogno di purificarsi con la vita santa, con
le espiazioni, per ridiventare divina. È stato osservato che in/queste
speculazioni ora è accentuato il concetto monistico del principio unico da cui
tutto il resto sarebbe derivato; ora invece, e più spesso, prevale la
concezione dualistica del principio divino e di una materia originaria. Il
problema del male s’.è posto davanti alla coscienza religiosa e alla riflessione
filosofica, e l’una e l’altra s’affaticano a risolverlo cercando di superare
l’antitesi tra il divino e il suo contrario, tra il corpo o la materia e le
aspirazioni superiori dell’anima. Il problema in fondo era nato con la
distinzione platonica tra il mondo sensibile e il mondo intelligibile. E di
tutte le autiche scuole nessuna doveva sentirsi più vicina all’ indirizzo
neopitagorico della scuola platonica, per la ragione eccellente che Platone
stesso aveva accolto nella sua dottrina elementi pitagorici, aveva finito col
pitago- reggiare identificando le sue idee coi* numeri, e speculando su Dio e
l’anima e la formazione del mondo materiale alla maniera dei pitagorici nel
Timeo, il quale Timeo era quel Timeo di Locri pitagorico, da cui Platone fa
esporre appunto la sua filosofia della natura nel dialogo che porta quel nome.
Così è che V indirizzo dei Neopitagorici si può dire continuato nel secondo
secolo d. 0. da un gruppo di Platonici eclettici, tra i quali, senza citare
altri nomi, possiamo ricordare due scrittori notissimi, Plutarco e Apuleio; e
poi, per la sua importanza caratteristica, Numenio di Apamea, che ora è detto
pitagorico ed ora platonico. PLUTARCO di Cheronea è Fautore celebre delle Vite
parallele – la seconda e di ROMOLO --, che hanno educato tanta gente all’amore
della virtù e dell’eroismo, e poi di una quantità di opuscoli che si sogliono
designare col titolo complessivo di Opere morali. Egli è un poligrafo,
moralista principalmente, anche nelle Vite, ma è curioso di tutto, erudito,
istruttivo e piacevole: le sue opere sono una specie di enciclopedia, un
repertorio di notizie e d’idee su tutta l’antichità classica, che egli, venuto
tardi, ammira in tutte le sue forme; e come ha celebrato nelle sue Vite la
storia dei suo popolo e degli eroi antichi, così si assimila la scienza, la
religione, la morale dei padri, e se ne fa l’interprete ai contemporanei e ai
secoli futuri. Uomo religiosissimo, ha nella sua patria e a Delfo funzioni
sacerdotali. Ama la filosofia, e l’ha anche insegnata. Si dice platonico, e
ammira Platone come il più grande dei filosofi, ma ha imparato anche da tutti
gli altri; e da quell’uomo istruito che è, e non nella filosofia solamente, ha
qualche volta la riserva prudente dei nuovi Accademici. Il che non gl’impedisce
di avere non precisamente un sistema, ma una dottrina eh’è come il risultato di
tutte le dottrine anteriori. La sua filosofia ha un intento essenzialmente
morale e religioso: egli vuole mantenere e difendere la tradizione religiosa
anche nei suoi miti e nelle sue pratiche, interpretandola secondo principi
filosofici, in modo cioè che non faccia ostacolo a una concezione pura e degna
della divinità. La filosofia è la rivelatrice e l’interprete del segreto sacro
e divino che i miti contengono, togliendo le concezioni false e le menzogne che
talvolta i poeti raccontano. Plutarco combatte l’ateismo, ma combatte pure la
superstizione, quella ch’egli chiama 5esoi8ac|xovfa, la paura servile degli
Dei: invece la fiducia e la gioia accompagnano il vero culto eh’ è loro dovuto.
Combatte gli Epicurei per il loro materialismo, ma combatte anche gli Stoici,
che col loro principio unico non possono rendere ragione del male nel mondo. E
qui apparisce il platonico. Non è possibile, egli dice, porre il principio
delle cose nè nei corpi senz’anima (negli atomi) come fanno Democrito ed
Epicuro, nè nella ragione formatrice di una materia senza qualità. Nel primo
caso non si capisce come vi possa essere bene, ordine, ragione nel mondo; nel
secondo caso non si capisce come ci possa essere il male, il disordine. D’onde
viene il male? Non dal bene, non da Dio certamente. E nemmeno dalla materia,
come molti pensano, perchè la materia per se stessa è assolutamente passiva, il
sostrato indifferente di tutte le forme, non è nè buona nè cattiva. Per
spiegare dunque la cosa, bisogna ammettere che come c’ è un’ anima del mondo
che realizza le idee divine, ci sia anche una cattiva anima del mondo, un
principio o potenza del male che esiste da tutta eternità col bene, il quale,
benché superiore, non può mai annientare quella potenza eh’ è Y origine e la
causa di tutto ciò clie v’ lia di disordine nel mondo, e rende conto della
generazione del male. Il motivo di questa speculazione è eliminare, di fronte
alla realtà del male, tutto ciò che può compromettere la purezza e la bontà di
Dio, a costo di compromettere la sua onnipotenza. Di qui im J altra idea affine
e connessa con questa. Dio è il principio del bene e governa il mondo con la
sua provvidenza; ma questa provvidenza non si esercita dilettamente da lui, ma
per mezzo di esseri intermediari che sono tra Dio e il mondo. Al di sotto del
Dio primo e supremo, realtà trascendente e inaccessibile, ci sono gli Dei
celesti o visibili, e al di sotto di questi i demoni o genii o spiriti che
vigilano e governano direttamente le azioni e le sorti degli uomini; e come ce
ne sono dei buoni, ce ne sono anche dei cattivi, nei quali la natura divina
apparisce inquinata e commista al male. Questa demonologia, clPè insegnata
anche da Apuleio, ed è una delle credenze più diffuse in quest’età, serviva non
solo a mantenere puro nella sua sublimità trascendente il concetto di Dio, ma
anche a giustificare in qualche modo tutte le divinità pagane, e le funzioni
loro attribuite, e i riti e gli oracoli e tutte le altre parti del culto che vi
erano connesse. E infine un’altra idea domina la speculazione religiosa di
Plutarco, quella di trovare a traverso la diversità dei miti e delle credenze
dei diversi popoli una verità fondamentale. A quello eh’ è stato detto il
sincretismo religioso, il mescolarsi di tutte le religioni, ch’è caratteristico
di questi secoli, corrisponde il sincretismo eclettico Biblioteca Comunale
“Giuseppe Melli” - San Pietro Vernotico (Br) NUMENIO 283 dei filosofi, i quali
aspirano a formulare la verità religiosa comune ai diversi .sistemi e alle
diverse civiltà. Non ci sono, dice Plutarco, diversi Dei per diversi popoli,
non ci sono Dei barbari e Dei greci, Dei del nord e Dei del sud. Ma come il
sole e la luna illuminano tutti gli uomini, come il cielo, la terra e il mare
esistono per tutti, nonostante la diversità dei nomi con cui si designano, così
vi ha una sola Intelligenza che regna nel mondo, una sola Provvidenza che lo
governa, e sono le stesse potenze che agiscono dapertuttó; solo i nomi cangiano
come le forme del culto; e i simboli che elevano lo spirito verso ciò eh’ è
divino sono ora chiari ora oscuri. Idee affini e tendenze mistiche anche più
pronunziate si ritrovano in Apuleio di Madaura, che anch’egli professa ed
espone il platonismo, adattandolo ai bisogni teosofici del tempo. Ma di tutti
questi filosofi eclettici del secondo secolo quello che segna più nettamente il
passaggio al Neo- platonismo è Numenio di Apamea: gli stessi Neoplatonici lo
considerano come il loro precursore immediato: lo leggono e lo commentano nella
loro scuola. Secondo Numenio, che visse verso il IfiO, la vera dottrina di
Platone era identica a quella di Pitagora; e questa filosofia egli la trova
d’accordo con quella dei saggi dei- fi Oriente, Bramani, Magi, Egiziani, Ebrei.
Egli aveva in particolare la più viva ammirazione per Mose, nel quale trovava
tutte le idee di Platone; di qui quel motto che ci è riferito di lui : Che cosa
è altro Platone se non un Mosè che parla attico (atticizzante) ?, a quel modo
come di Filone ebreo si diceva: o Filone platonizza o Platone fìlonizza.
Numenio conosce certamente Filone e adopera lo stesso metodo d’interpretazione
allegorica, e ha tendenze affini nella sua speculazione : cosicché qui il
sincretismo è completo: la tradizione orientale e occidentale si congiungono a
produrre la nuova filosofìa. Dei libri di Numenio, uno dei quali s’intitolava
intorno al Bene, ci rimangono dei frammenti interessanti conservatici da
Eusebio, e che si possono vedere nel 3° volume del Mullach, Frammenta pliilosopliorum
graecorum. Numenio si domanda: che cosa è l’essere, la vera realtà? Non i
quattro elementi, nè i corpi composti da essi, che sono realtà mutevoli,
cangianti, si trasformano, divengono sempre e non sono mai, come diceva
Platone; e nemmeno la vera realtà si può cercarla nel sustrato materiale di
tutti questi fenomeni sensibili, nella materia, la quale è qualche cosa
d’indefinibile e d’irragionevole (àXoyo?). Per conoscere la vera realtà bisogna
rivolgersi non al- 1’ esperienza sensibile, ma alla ragione. Per Numenio la
realtà è ciò che è assolutamente, l’ Essere increato e che non sarà distrutto,
l’Essere semplice e invariabile. Quest’essere è incorporeo (cèawpaiov), ed è
intelligibile (voyj-cóv), si può cogliere con la ragione solamente, non con la sensazione
o con l’opinione, come le cose periture e finite. Con questo Numenio esprime la
tendenza di tutto questo movimento d’idee: l’opposizione a ogni materialismo,
non solo a quello degli Epicurei, ma anche a quello degli Stoici: il bisogno di
concepire la realtà ultima come una realtà spirituale diversa e opposta a tutto
ciò eh’ è corporeo. Da queste considerazioni metafisiche Numenio ricava la sua
dottrina teologica. NUMENIO La quale,
per dire la cosa con tutta brevità, consiste in questo: nell’ammettere un Dio
supremo inaccessibile, puro essere spirituale, senza connessione col mondo,
eh’è pura agione ed è il Bene in se stesso; poi un Dio secondo, il Demiurgo,
eh’è l’ordinatore o l’architetto del mondo; e per ultimo un terzo Dio, eh’è il
mondo stesso. Dato il concetto trascendente del puro Essere come 10 abbiamo
definito, e eh’è il primo Dio, nasce la solita difficoltà: com’è possibile
l’azione di Dio sul mondo. Come Filone unificava le idee e le potenze divine
nel concetto del Logos, come gli altri platonici ponevano degli Dei o demoni
intermediari tra Dio e il mondo, così Nn- menio statuisce al disotto del primo
Dio un secondo eh’è 11 Demiurgo, distinguendo in certo modo quello che Platone
identificava: il Demiurgo era per Platone, a dir così, la funzione divina per
rispetto al mondo. hTumenio ne fa un secondo essere divino, il quale partecipa
della bontà del primo, e ne riceve i semi di tutte le cose che sono le Idee, ma
trapianta questi semi nel mondo sensibile formando e ordinando il mondo. Sicché
il Demiurgo ha una posizione intermedia : è come un pilota che, assiso al
governo del mondo, ha sempre gli occhi fissi sul cielo e 1 gli astri, per
assicurare l’armonia dell’ordine del mondo, che dirige mediante le Idee, ossia
dunque ha sempre gli occhi fissi al primo Dio; ma d’altra parte, e appunto per
la sua fuuzione causale e formatrice sul mondo, il suo sguardo e la sua azione
è rivolta verso le cose sensibili, che ricevono da lui la loro persistenza, la
loro vita, il loro ordine, le leggi dell’essere loro. E in quanto il mondo è
fattura del Demiurgo, si può dire esso stesso un Dio .TTJfcV^VF.286 NE OPITAG
ORICI E PLATONICI ECLETTICI Cosicché avremmo: il primo Dio eh’è il padre
(icaxrjp), il secondo Dio eli’è il Demiurgo, l’artefice (mr]T%), e il terzo clP
è il 7ioùj|i«, la fattura di Dio, il mondo in quanto formato da Dio. Questo è
il cosiddetto triteismo che insegna Numenio. ' Del quale un’altra dottrina
caratteristica è che l’anima umana è duplice: un’anima razionale e un’anima non
razionale: queste due nature sono in lotta fra loro, come il bene e il male, e
il male viene all’anima dalla materia,o dal suo contatto con la materia, e
tutte le incorporazioni dell’anima sono considerate come un male. Si suppone la
preesistenza e la trasmigrazione delle anime; 1’ unione dell’anima con un corpo
terrestre è come la punizione di una colpa commessa in una vita anteriore,
prima della nascita in quel dato corpo. E l’aspirazione suprema dell’anima
razionale è la sua unione con Dio, la contemplazione o l’intuizione del vero
Bene, Uno stato di beatitudine di cui possono godere solo quelli che
allontanano la loro anima da ogni comunicazione col corpo e coi sensi. Cosicché
avremmo qui, e con maggiore nettezza, formulate le idee e le esigenze di tutta
questa speculazione da Filone in poi: la trascendenza del divino, un termino o
più termini intermediari tra Dio e il mondo, la doppia natura dell’uomo o
dell’anima, che da una parte è di Origine divina, e dall’altra è rivolta verso
la materia e le cose terrene; quindi il bisogno della purificazione e della
liberazione per avvicinarsi a Dio e unirsi con Dio: idee e esigenze che
troveranno la loro espressione più compiuta nella filosofia dei Neoplatonici.
La Filosofia greca finisce col sistema e la scuola (lei Neoplatonici. Fondatore
del Neopfatonismo è ritenuto dagli antichi e dagli stessi Neo pi atonici
Ammonio Sacca > alessandrino; nato ed educato da genitori cristiani, sarebbe
passato alla religione antica; e insegnò filosofìa in Alessandria. Non scrisse
nulla, e non sappiamo niente di preciso sulle dottrine che professava: ci è
riferito che secondo lui le dottrine di Platone e di Aristotile, nelle cose
essenziali, concordavano, si potevano ridurre o fondere in una sola dottrina.
La tendenza religiosa dell 7 uomo, oltre che l’ammirazione che ispirava, si può
concludere dall’epiteto di 0£o5iBaxToc, a Deo doctus, che scrittori posteriori
gli danno. Ebbe, molti scolari: si citano tra gli altri un Erennio, un Origene
pagano che non è da confondere col teologo cristiano dello stesso nome,
quantunque anche di questo è detto che passò per la scuola di Ammonio; poi il
critico e retore Longino a cui è stato
attribuito (falsamente) il trattato Del sublime; ma sopraffatti importante fra
gli scolari di Ammonio Sacca è Plotino. Questi tre scolari principali, Erennio,
Origene e Plotino s’erano messi d’accordo di non pubblicare nulla degl’
insegnamenti di Ammonio, probabilmente per non profanarli divulgandoli; ma non
essendo stati ai patti prima Erennio e poi Origene, anche Plotino si ritenne
sciolto dalla sua parola, e così insomma egli è diventato per noi il
rappresentante letterario, il vero organizzatore ed espositore di quel sistema
d’idee eh’è il Neoplatonismo. Quali che siano stati gl’insegnamenti di Ammonio,
la filosofia neoplatonica è la filosofia di Plotino e poi dei suoi successori.
2. - Plotino è di Licopoli, nell’Egitto. A 28 anni si diede alla filosofìa e
udì più d’uno dei maestri eh’erano allora in Alessandria, senza rimanerne
contento; ma quando un amico, al quale s’era confidato, lo condusse a sentire
Ammonio, disse : è quello che cercavo; e rimase suo scolaro per 11 anni. Nel
243, desiderando conoscere nelle sue fonti la saggezza orientale dei Persiani e
degl’indiani, accompagnò l’imperatore Gordiano nella sua spedizione contro la
Persia; ma questa spedizione riuscì male; lo stesso imperatore vi fu ucciso ;
Plotino potè appena salvarsi in Antiochia, poi venne a stabilirsi a Poma nel
244 e vi rimase quasi fino all’ultimo della sua vita. Aperse una' scuola ' che
Ìventò sempre più numerosa. Non tanto il talento della parola, quanto la
profondità dei pensieri, la bontà del carattere, la purezza e semplicità della
vita gli attiravano la simpatia e la venerazione. Era una natura mite e
gentile, meditativo, tutto dedito all’insegnamento e allo studio. Diventava
bello quando parlava, e specialmente quando disputava, con grande dolcezza: la
sua intelligenza sembrava brillare sul suo viso e illuminarlo. Dovette
esercitare una potente efficacia. Tra i sxioi ascoltatori furono persone di
riguardo, dei senatori e alcune donne distinte. Ci furono uomini e donne, che,
vicino a morire, gli affidarono i loro figli d’ambo i sessi, con tutti i loro
beni, come a un depositario o un tutore di cui si poteva avere fiducia: onde la
sua casa era piena di giovanetti e di giovanotte. Egli guardava a tutto,
adempiva a tutti i suoi obblighi, il che non lo distraeva punto dalle cose
intellettuali, ch’erano la passione della sua vita. L’imperatore Gallieno e sua
moglie, l’imperatrice Saloniua, lo ebbero in grande favore, 27egli ultimi anni
del filosofo fu ventilata pef un momento tra lui e l’imperatore l’idea di
fondare nella Campania una città filosofica sul modello di quella di Platone, e
che si sarebbe chiamata Platono- poli ; ma non se ne fece nulla. Le condizioni
della sua salute peggiorata (soffriva di un’affezione cronica dello stomaco) lo
decisero ad abbandonare Roma e a ritirarsi in una villa della Campania che fu
messa a sua disposizione. Morì nel 270, a 66 anni, presso Minturno. Al medico,
suo amico e discepolo, che venne a vederlo, Plotino morente avrebbe detto : Ti
aspettavo, prima di riunire quello che v’ha di divino in noi al divino che è
nell' universo. Tutte queste cose si leggono nella Vita che ne scrisse il suo
scolaro Porfirio, il quale comincia la sua biografia con queste parole: Il
filosofo Plotino, vissuto ai nostri giorni, pareva si vergognasse di avere un
corpo. Così pure egli non parlava mai della sua famiglia e della sua patria; e
gli ripugnava di farsi fare un ritratto o un busto. Un giorno che Amelio (un
altro degli scolari) lo pregava di lasciarsi ritrarre, Plotino gli disse: Non
basta di portare quest’immagine nella quale la natura ci ba chiusi? Bisogna
proprio trasmettere alla posterità l’immagine di questa immagine come un
oggetto che valga la pena di essere guardato? Dobbiamo soprattutto a Porfirio se
possiamo leggere Plotino. Il quale s’era contentato per molti anni
dell’insegnamento orale, e solo a cinquantanni aveva cominciato a mettere, in
iscritto le sue idee. Scriveva rapidamente, tutto assorbito dal suo pensiero,
lungamente e intensamente meditato, senza curarsi molto dello stile e nemmeno
dell’ortografia: non si rileggeva, anche per la vista debole che aveva. Verso
la fine della sua vita affidò a Porfirio i suoi manoscritti con l’incarico di
rivederli e ordinarli. Porfirio trovò eh’essi contenevano o se ne potevano
ricavare 54 trattati o capitoli, li distribuì in sei gruppi ciascuno di nove
libri, e chiamò questa raccolta Enneadi, come chi dicesse Novene, sei Enneadi
di nove libri ciascuna. Questa è l’origine dell 1 Enneadi di Plotino, il libro
fondamentale della speculazione neoplatonica, e uno dei tesori della
letteratura mistica di tutti i tempi. Fu tradotto in latino da FICINO (si
veda). Il neo-platonismo è una filosofia essenzialmente religiosa; il motivo da
cui è nata si può dire anzi mistico: l’aspirazione verso il divino, il bisogno
dell’ anima di sollevarsi dai limiti dell’esistenza finita, e di sentirsi una
con l’essenza universale di tutte le cose. L’idea fonda- mentale e dominante
della filosofia di Plotino è che tutte le cose esistono in Dio, emanano da lui
e ritornano a lui; e questo non come una cosa solamente pensata, ma sentita e
vissuta in tutte le fibre dell’anima, con uno sforzo persistente del pensiero
di penetrare nei misteri di questa vita divina di se stessi e del mondo. Il
punto di partenza e il presupposto di questa speculazione è la distinzione
platonica tra le cose sensibili e la realtà intelligibile, la realtà delle
idee. È una distinzione che può essere pensata in una maniera sobria, senza
nulla di mistico. Tutti in fondo viviamo in un mondo ideale, nel mondo delle
idee, quando parliamo di verità, di giustizia, di virtù, di bellezza; e il
mondo tutto quanto, anche il mondo naturale, si può considerare come una
realizzazione d’idee. Questo insegnava Platone e questo insegnava Aristotile.
Ebbene, secondo Plotino, bisogna elevarsi ancora più in su. Le Idee sono una
realtà derivata, non sono la prima realtà. Il principio di tutto ciò ch’esiste
è l’Unità assoluta, ch’è al di là di ogni molteplicità e di ogni
determinazione. Le cose che noi vediamo e che possiamo pensare sono molte, ma
tutte queste cose non potrebbero esistere se non avessero la loro radice prima
nell’Uno da cui procedono e che le tiene insieme. L’unità è la condizione di
ogni molteplicità non solo nei numeri, ma anche nel mondo dell’essere; senza
un’unità suprema incondizionata nessuna cosa esisterebbe, e il mondo si
risolverebbe in un caos senza consistenza e senz’ordine. Plotino chiama questo
primo principio l’Uno, zb gv, nel senso che esclude ogni molteplicità, e gli
nega pure ogni determinazione o attributo, perchè* definirlo in qualche modo
sarebbe un limitarlo, farne una cosa piuttosto che un’ altra. Si può dire
quello che non è, non quello che è: senza limiti, infinito, senza forma nè
qualità. È una realtà assolutamente trascendente, rcàvawv, al di là di tutte le
cose : una realtà a cui nessun concetto e nessuna parola è adeguata. Questo lo
diceva anche Filone ebreo, il quale però, educato sulla Bibbia, non poteva a
meno di concepire Dio come persona. Secondo Plotino, non si può attribuire a
Dio, alla realtà prima e assoluta, nessuna delle proprietà della persona: nè il
pensiero nè la volontà: il pensiero suppone la dualità di soggetto e oggetto e
la molteplicità delle idee pensate; la volontà suppone un’attività rivolta a un
fine: saremmo sempre nel campo delle realtà derivate, della molteplicità, della
differenziazione. Ogni attributo dunque,) personale o non personale che sia,
bisogna negarlo di lui.^ Ma insieme con questo esso è ciò che v’ha di supremamente
reale e di supremamente positivo, giacche se noi affermiamo la sua trascendenza
assoluta al di là di tutte le cose finite e di tutte le cose pensabili, non è
per diminuirne la realtà, ma unicamente perchè la pienezza dell’essere non
sarebbe compatibile con una limitazione o determinazione qualsiasi. / Si può
dire solo di lui eh’è l’Uno, il Primo, potenza c (prima e causalità assoluta di
tutte le cose; e anche si può ì \ dire eh’è il Bene, non come un attributo
intrinseco a lui ' (come se fosse un essere buono), ma come il fine ultimo a
cui tutte le cose tendono. È insomma l’Ineffabile. Un filosofo italiano *)
(liceva: * : l’Innominabile Reale. E voleva dire: la vita, il mondo è j un
grande mistero: tutte le cose elle noi vediamo e che I pensiamo accennano, sono
l’indizio di una realtà suprema che ci supera, ci trascende : possiamo
affermarla, non nominarla. Questo è l’Uno di Plotino. Rimane a sapere come
procedono gli effetti di questa causalità originaria. Bisogna escludere innanzi
tutto ogni idea di divenire nel tempo, come se prima esistesse l’Uno e poi le
altre cose ; no, non si tratta di raccontare una storia di eventi che si
succedono ; e più specialmente non si può ammettere che le cose procedano dall’
Uno in seguito a un atto di volontà, a una decisione intenzionale, come se
l’Uno fosse una persona che pensa e delibera : dunque niente creazione, nel
senso ebraico e cristiano. E Plotino non ammette nemmeno con gli Stoici che la
sostanza divina, come un fuoco sottilissimo, si comunichi alle cose derivate,
permeandole come il miele che riempie di sò le celle dell’alveare : Dio non è
una sostanza che si possa disperdere e spartire. Per esprimere la sua idea
Plotino è obbligato a servirsi d’immagini.^ È per la sola necessità della sua
natura che il primo juincipio dà origine alle cose derivate, si comunica ad
esse. Come ogni essere vivente, giunto al suo punto di perfezione, ne genera un
altro simile a sè, così la realtà suprema ne fa nascere delle altre simili
benché inferiori. Dalla pienezza dell’ Uno si diffonde, straripa il flusso
delle q Antonio Tari, professore di Estetica nell’ Università di Napoli.
esistenze derivate. Esse procedono da lui, come la pianta germina dalla radice,
come dal sole la sua luce. Questa è l’immagine più frequente e in un certo
senso la più chiara. L’universo è la fulgurazione (TcepiXajjL^) dell’Uuo, della
luce divina. Non è dunque nè creazione nè spartizione della sostanza divina, ma
emanazione, intendendo per emanazione non una diffusione che diminuisca la
sorgente da cui essa deriva, ma un comunicarsi di forza che pure rimanendo
integra in se stessa si comunica alle esistenze derivate. Le quali perciò sono
pure manifestazioni dell’Infinito, emanazioni di lui, sono immanenti in lui,
mai separate da esso, il quale ciò nonostante non si confonde con le cose, ma
le trascende, è al di là di tutte le cose. Dio è dapertutto ed è l’attualità di
tutto, senza essere in nessun posto e senza confondersi nè con ciascuna cosa
finita nè con la loro totalità. Quando si parla di Panteismo, ordinariamente
s’intende quella concezione che confonde o identifica Dio col mondo. Per
Plotino Dio, l’Uno, rimane eternamente distinto dal mondo, e ciò nonostante il
mondo è tutto pieno di Dio, è un’emanazione della sua luce, della forza divina
da cui deriva: si potrebbe chiamare questo un Panteismo dinamico o
emanatistico. Prodotto dall’efficacia dell’Uno, il derivato ne è come la
riproduzione indebolita, a dir così un’immagine o una copia, una luce più
debole, un’ombra. E come l’immagine che riflette uno specchio sparisce quando
s’allontana l’oggetto che la produce, così, senza l’efficacia persistente e
continuata dell’Uno, le esistenze, derivate si dileguerebbero. Esse hanno in
lui la loro consistenza, ma ogni nuova emanazione, pur partecipando del- l’Uno,
è meno perfetta di lui ; le cose diventano via via meno perfette a misura che
s’allontanano dalla causa prima e aumentano i termini intermediari: la luce
proiettata dall’ Uno impallidisce via via fino a sembrare come dileguarsi nelle
tenebre del non essere, della materia bruta. Si direbbe un’evoluzione a
rovescio, non dalle forme meno perfette alle più perfette, ma al contrario, una
degradazione progressiva del divino, un allontanarsi sempre più della luce
dalla sua sorgente. E quali sono i gradi di questa emanazione 1 ? Prima e
immediata emanazione dell’Uno è l’intelligenza o il vou?, s’intende
l’Intelligenza universale,, la Mente divina con le sue idee (il Logos che
diceva Filone, e che anche per lui era il primogenito di Dio) : il mondo delle
Idee dunque, le quali contengono le ragioni seminali di tutte le cose, terre,
mari, fiumi, animali, piante, individui, cosi come possono esistere nella loro
essenza, ab eterno: l’Uno, senza cessare di essere l’Uno, si è come enucleato
in questa molteplicità delle Idee, che costituiscono il mondo intelligibile
insieme con la Mente che le pensa. E come dall’Uno emana l’Intelligenza o il
voOg, così da questo emana il principio della Aita cosmica, l’Anima universale,
l’Anima del mondo, che da una parte guarda alle Idee, e dall’altra come Natura
le attua nello spazio e nel tempo generati da essa, le attua nel mondo
sensibile; sicché l’Anima, come il secondo Dio di Numenio, è, si può dire, al
confine dei due mondi, del mondo intelligibile di cni essa è l’ultima
emanazione, e del mondo dei corpi che emana e eh’è formato da essa; e l’ultimo
termine di questa processione è la materia o il sustrato materiale dei corpi,
la materia senza forma, in cui la luce divina si estingue in qualche cosa di
opaco e di oscuro. Cosicché avremmo come una gerarchia di esistenze che, in
ordine inverso a quello che abbiamo detto, andrebbe dalla materia ai corpi che
costituiscono la fantasmagoria del mondo sensibile, dai corpi all’Anima,
dall’Anima al- l’Intelligenza o Ragione universale, dall’Intelligenza a Dio. Il
mondo corporeo riceve la luce dall’Anima, l’Anima dall’Intelligenza o Ragione,
questa dall’Uno: così tre sfere concentriche illuminate da un punto al centro,
esso stesso invisibile agli occhi mortali, ma eh’è la sorgente prima e il
focolare perenne della luce che illumina il mondo. 4. - L’Uno, l’Intelligenza e
l’Anima costituiscono insieme il mondo intelligibile, da cui dipende il mondo
sensibile; e sono dette con parola tecnica le tre ipostasi, le tre sostanze che
nominate a una a una sembrano tre personificazioni: una trinità di principi che
sono stati paragonati alle tre persone del dogma cristiano. C’è la differenza
essenziale che nel mistero cristiano le tre persone sono uguali in perfezione e
costituiscono tutte insieme l’unità di Dio: e in questa triplicità di un solo
Essere sta appunto il mistero. In Plotino, i tre principi non sono persone, ma
gradi della realtà: il mondo procede direttamente dall’Anima e mediatamente
dall’Intelligenza e dall’Uno. Ho già avvertito che bisogna escludere da questo
processo ogni idea di divenire nel tempo ; e così pure bisogna escludere ogni
idea di spazio, come se si trattasse di un edifizio a tre piani, di cui il
mondo PLOTINO: l’anima e il mondo sensibile 297 sensibile sarebbe come il pian
terreno. No, sono tutte rappresentazioni in adeguate. Si tratta invece di
comprendere V universo, nella sua unità, come la manifestazione di un principio
divino unico che si manifesta come Intelligenza e come Anima, come Intelligenza
in quanto il mondo lia un contenuto razionale che sono le Idee che vi sono
realizzate, come Anima in quanto il mondo è il risultato di una forza
generatrice e formatrice che distribuisce l’essere e la vita a tutte le cose
che esistono; e così l’Intelligenza come l’Anima sono da considerare come
l’irradiazione o l’efflorescenza di quell’Uno originario nel quale vivono e
sussistono esse stesse e tutte le cose; e l’ultimo termine di questa
produzione, il polo estremo, a dir così, di questa degradazione progressiva
dell’Uno è la materia, che non è più luce, ma ombra, oscurità, ma in quanto è
materia animata e formata dalle potenze divine, è ombra di luce, ombra
dell’Anima e della Mente di cui porta in sè impresse le tracce. Dopo questa
veduta sommaria, fissiamo più particolarmente la nostra attenzione su l’Anima,
che, come dicevamo, si trova al confine dei due mondi, del mondo intelligibile
e del mondo sensibile: li separa e li unisce partecipando di entrambi. In
quanto emanazione o espressione dell’Intelligenza, l’Anima contempla in essa
le-Idee, e sono queste Idee eh’essa attua, realizza nel mondo dei corpi. Si
potrebbedire che ha una doppia funzione, una rispetto all’Intelligenza da cui
riceve o riflette o rispecchia le Idee, l’altra rispetto al mondo dei fenomeni
che si genera da essa, e nel quale essa imprime le Idee, che diventano così le
forme o ragioni seminali delle cose. Per esprimere questa doppia funzione
Plotino ne parla talvolta come fossero due anime, una superiore e l’altra
inferiore, 1’Afrodite celeste e PAfrodite terrena, e quest’ultima è insomma la
filatura (cpuaic;), eli’è dunque la stessa Anima cosmica come j principio della
vita universale, come forza creatrice, la cui \ attività non rimane nella sua
semplicità originaria : pur [essendo semplice e indivisibile in se stessa, la
sua attività si moltiplica, si partisce, si unisce al mondo corporeo, allo
stesso modo come l’anima umana al corpo umano ]ch’ essa vivifica in tutte le
sue parti. Con questo però, ^che il corpo non è qualche cosa di estraneo, di
diverso essenzialmente dall’Anima, ma è una sua produzione, si potrebbe dire
una sua esteriorizzazione. Già è essa l’Anima (l’anima cosmica) che con la sua
espansione genera lo spazio, e con l’azione successiva delle sue potenze genera
il tempo ; e il corpo stesso è una produzione dell’Anima, un’emanazione
umbratile di essa, ma è essa che lo illumina della sua luce. Di qui
quell’espressione così caratteristica in Plotino, che non è l’anima ch’è nel
corpo, ma il corpo è nell’anima, il corpo è l’organo, lo strumento dell’anima,
ed è tenuto insieme, animato, unificato dall’anima che lo produce e lo avviva
tutto. Questo è vero non del corpo singolo solamente, ma di tutto l’universo.
Tutto quanto l’Universo è spiritualizzato in questa veduta: il mondo dei corpi
è un’ombra o riflesso dello Spirito, non è fuori dell’Anima, ma un prodotto
dell’Anima e quindi dell’Intelligenza e dell’Uno divino di cui essa è ministra.
Per questa, a dir cosi, incidenza del mondo corporeo nelle potenze spirituali
da cui si genera, tutto nella natura è animato: tutto è penetrato
d’intelligenza e delle idee realizzate dall’Anima. PLOTINO: l’anima e il mondo
sensibile 299 materia pura, senza forma, senza vita e senz’ anima è più
un’astrazione del pensiero che una realtà. Già nella pietra c’è una vita
latente: negli elementi stessi c’è qualche cosa di vivido, nella fiamma,
nell’acqua che scorre, nell’aria. Ed è sempre l’Anima che in virtù della sua
fecondità inesauribile produce l’immensa serie degli esseri, i corpi celesti, i
corpi degli animali e delle piante, fino alla più grossolana materia delle cose
terrestri. È una vita infinita diffusa per tutto l’universo: lo spirito
animatore vi apparisce in gradi diversi : nei suoi generi e nelle sue specie e
nelle diverse forme individuali c’è come un passaggio continuo dal più perfetto
al meno perfetto; e nelle creature inferiori c’è come la traccia o il ricordo e
quindi l’aspirazione e il presentimento delle forme superiori; e tutte queste
vite singole, distinte, non confuse tra loro, si unificano pnre nel juincipio
unico da cui emanano. Come l’Intelligenza, pure essendo una, contiene in sè
tutte le Idee, cosi l’Anima universale contiene in sè le singole anime, tutte
le forme di vita che popolano il mondo, le quali, benché distinte
individualmente, si unificano pure nella loro essenza, sono manifestazioni
diverse della stessa Anima del mondo, come raggi che partono da un centro
comune, o come la scienza è una nelle diverse sue parti, e una stessa luce può
illuminare i luoghi più diversi. Nel mondo sensibile l’unità diventa molteplicità
e l’armonia può diventare opposizione e lotta; ma ciò nonostante l’unità
originaria non è annientata: tutti gli esseri realizzano la stessa vita, e sono
come le voci diverse che celebrano o riecheggiano la stessa armonia. Dato
questo concetto dell’animazione universale e della vita unica che ricircola
rimanendo identica a se stessa in tutte le parti e forme del mondo, Plotino si
trova in una situazione non dissimile da quella in cui s’ era trovato Platone,
di fronte alla realtà della nostra esperienza. Da una parte la tendenza
religiosa del suo spirito e i concetti platonici con cui lavora, l’opposizione
tra realtà sensibile e realtà intelligibile, lo portano a considerare il mondo
sensibile, eh’è nato dalla mescolanza dell’anima con la materia, come un
peggioramento, come un’ombra della vera realtà; quindi la realtà empirica e
sensibile non è la vera patria dell’anima, la quale anzi aspira a liberarsi da
essa. E questa tendenza troverà la sua espressione nell’Etica. Ma d’altra parte
questa fantasmagoria dei sensi è pure un riflesso del mondo ideale, è una
manifestazione dell’Anima, penetrata d’intelligenza e d’idee; deve avere tutta
la perfezione e la bellezza di cui è capace. Plotino combatte espressamente
quelli che considerano il mondo dei sensi come il regno del male, di un male
originario e insanabile, quasi fosse l’opera di un demiurgo cattivo. Egli è
ancora troppo greco per accettare questa condanna. Il mondo sensibile è
inferiore al mondo ideale perchè se ne distingue ed è fatto di materia; ma
rappresenta pure il suo modello, esprime la vita e la saggezza infinita, è un
riflesso del Bene, le cui emanazioni finiscono in lui. Tenendo dall’Anima V
essere suo, è un tutto organico in cui l’opposizione e la lotta dei contrari
sono subordinati all’unità del tutto. Non solo c’è ordine e armonia, ma
connessione, solidarietà fra le diverse parti, non per azione fìsica o
meccanica che vi sia fra loro, ma per l’unità dell’Anima e dell’Intelligenza
che lo vivifica, e quindi per la simpatia e affinità di natura di tutti gli
esseri fra loro. Biblioteca Comunale “Giuseppe M." - San Pietro Vernotico
(Br) Plotino proclama con gli Stoici l’ordine e l’armonia del mondo, e scrive
una Teodicea per difendere il concetto della Provvidenza. Tutto è bene, anche
per lui : la distruzione perpetua degli esseri anche quando si divorano gli uni
gli altri, non l’offende, è la condizione del rinnovarsi perpetuo della scena
della vita. Sì, è necessario eh’essi si divorino: è come sulla scena; un attore
eh’è stato ucciso, che s’è visto morire, va a cangiare di vestito e ritorna
sotto un altro aspetto : vuol dire che non era morto realmente. A traverso
questa vicenda la vita permane, morire è cangiare di corpo come l’attore cangia
di vestito e riprende la sua parte: che cosa c’è di spaventoso in questa
permutazione degli animali gli uni negli altri? E così, morire nella guerra,
nella battaglia, è anticipare di ben poco i colpi della vecchiaia e la morte
naturale: è un partire per ritornare sotto altra forma. Questi massacri che noi
vediamo, questi saccheggi di città, queste violenze, pianti e gemiti degli
attori, in tutte queste .vicissitudini della vita, non è l’anima del di dentro
che cambia, ma è l’ombra dell’uomo esteriore che geme e si lamenta. -
L’ottimista, che crede nella Provvidenza, e guarda le cose dal punto di vista
dell’eternità, si consola facilmente di questo spettacolo, ch’è così doloroso a
chi ci vive dentro e n’è vittima. Kon solo Plotino afferma che tutto è bene, ma
ammira soprattutto la bellezza del mondo, e scrive del Bello, e dopo i primi
accenni che si trovano in Platone, pone alcuni dei concetti fondamentali della
scienza dell’Estetica. Perchè in verità tutta la concezione della natura che
abbiamo veduto è una concezione che si può dire religiosa e estetica insieme. Data
quell’animazione e spiritualizzazione dell’universo, la realtà o fenomeno
sensibile non è altro che un riflesso dell’Idea eh’esso esprime. E il
lampeggiare dell’Idea nel fenomeno è appunto la bellezza. Il bello ha carattere
spirituale. ISTon è bella la forma sensibile come tale, nella sua esteriorità,
non la simmetria, non la proporzione, ma la vita o l’Idea che la forma esprime,
quel certo che di spirituale, d’impalpabile, che risplende in essa. E il bello
così inteso noia è un oggetto fuori dell’anima, non c’è nulla al di fuori
dell’anima, tanto meno gli oggetti belli. È intanto l’Anima, come potenza
generatrice, che realizzando le Idee produce le forme belle; ed è un’anima,
un’anima individuale, che ha il sentimento della bellezza, contemplando quelle
forme. L’anima coglie e sente la bellezza perchè sente e scopre se stessa nelle
cose belle; ma questa visione e questo sentimento non sarebbe possibile,
l’anima non potrebbe vedere la bellezza, se essa stessa non è diventata bella.
È una delle grandi parole di Plotino, che vuol dire: solo le anime pure hanno
veramente il sentimento della bellezza, quelle che si sollevano sulle cupidigie
e i desiderii inferiori, che sanno guardare con occhi sereni, con una
contemplazione disinteressata, le cose belle. Di qui quest’altra parola sua: se
tu non trovi ancora la bellezza nella tua anima, fa’come l’artista ‘ che non
cessa di lavorare alla sua statua, finché non le ab- . bia dato tutta la sua
bellezza. Cosi tu scolpisci e cesella la tua anima, e purifica e illumina tutto
ciò che v’ha in essa di torbido, perchè essa diventi degna di sentire la
bellezza. La bellezza è un mistero che non solo ci piace ma ci attira, non
c’ispira ammirazione solamente, ma amore. plotino: l’anima umana Il che vuol
dire che al di là di essa c’è qualche altra cosa. Al di là della forma bella, o
per meglio dire a traverso di essa, traluce qualche cosa di cui essa è lo
splendore: ed è il Bene a cui l’anima aspira. Solo il Bene può far nascere
l’amore, ed è col Bene che l’anima aspira ad unirsi. Come tutte le cose che
esistono, anche l’uomo ha la ragione della sua esistenza nel mondo
intelligibile, non solo ne deriva, ma ci vive dentro, non ne è separato, anche
durante la sua esistenza terrena. Ogni anima deve considerare eh’essa è parte dell’Anima
universale, di quell’Anima che ha prodotto tutte le cose del mondo sensibile,
gli astri divini, il sole e il cielo immenso : è essa che ha dato al cielo la
sua forma e che presiede alle sue rivoluzioni regolari: è da essa che si
generano tutti i viventi, le piante e gli animali che sono sulla terra,
nell’aria e nel mare. Tutte le anime individuali sono immanenti in quest’Anima
cosmica ; ed è insomma lo stesso principio animatore del mondo che vive anche
in noi, e che noi diciamo la nostra anima. Sicché ciascun’anima, per questa sua
provenienza, è,, come quella che le contiene tutte, di natura spirituale^ ed
eterna; la sua esistenza non comincia nè finisce col \ corpo con cui è
congiunta. Essa non è un aggregato di atomi, come pensavano gli Epicurei, non è
corpo sottilissimo igneo o etereo, come credevano gli Stoici, non è nemmeno
funzione del corpo, entelechia o forma di esso, come insegnava Aristotile, e
nemmeno armonia risultante dalle relazioni fra le parti del corpo, come
opinavano i Pitagorici. Plotino discute e rifiuta tutte queste ipotesi, per
concludere die fiamma non Ita bisogno del corpo per esistere: la sua vera
essenza è di essere semplice e separabile dal corpo : è di natura spirituale e
quindi immortale ; tutte le sue facoltà, la sensazione, la memoria, il
pensiero, le * x'-l T qualità morali non sarebbero possibili se fi uomo e la
sua -, anima fossero un semplice aggregato di molecole rnate^ riali : tutte
quelle funzioni e facoltà suppongono un soggetto semplice, identico a se stesso,
non sottomesso alle _ Vicende delle cose corporee: la critica del materialismo
che j si trova in Plotino è fra le più compiute che ci abbia lasciato fi
antichità, e contiene argomenti che sono stati poi sempre utilizzati. Questa
natura spirituale delfi anima importa elfi essa è vicinissima alla sorgente di
tutte le cose. Giacché i tre principi che sono nelfiuniverso, l’Anima, fi
Intelligenza e l’Uno, debbono essere .anche in noi: essi costituiscono l’uomo
interiore, la vera essenza dei- fi uomo. Il quale è un’anima e possiede fi
intelligenza, non solo l’intelligenza discorsiva, che procede per via di
ragionamenti, ma anche quella forma superiore di essa che intuisce le Idee, la
ragione intuitiva. Bisogna dunque che risieda in noi anche quel principio
divino da cui emana l’Intelligenza, l’Uno ineffabile, che non esiste in nessun
luogo, ma eh’è come il centro e* il cuore più intimo del mondo. L’uomo è un
microcosmo, un piccolo mondo, jl compendio dell’universo. È così che noi
uomini, nella nostra intima essenza, siamo in contatto con Dio, siamo in certo
modo sospesi a lui, respiriamo e sussistiamo in lui l’ anima umanaSe non che,
quest’uomo interiore esìste in un corpo, j ha pure un’esistenza terrena e
sensibile. Coni’è avvenuta | questa specie di caduta o discesa? \ Qui Plotino
bisogna che si aiuti con l’immaginazione, ; come del resto faceva anche Platone,
quando parlava di una caduta delle anime che hanno perduto le loro ali. Ci sono
delle anime celesti che rimangono pure da ogni - contatto corporeo e beate nella
contemplazione delle Idee' eterne. Ma ce ne sono delle altre, che siamo noi, le
vere anime umane, le quali si sono rivestite di un corpo, e sono discese in un
grado di esistenza inferiore. Come l’Anima universale procedendo nelle sue
emanazioni avviva il corpo intero dell’universo, così alle anime particolari è
devoluta una parte determinata del mondo corporeo ; il che si può anche
intendere come una legge provvidenziale, perchè il mondo intelligibile da cui
le anime derivano manifesti ed esplichi tutte le potenze eh’esso possiede.
L’anima particolare, sviluppando le sue potenze sensitiva e vegetativa, entra
in un corpo, o a dir meglio, se ne riveste, se lo forma vivificandolo e
governandolo. {Si potrebbe forse rappresentarsi la cosa ài modo che dice Dante
quando nel XXV del Purgatorio descrive il formarsi delle ombre: la virtù
informativa raggia intorno e suggella di sè la materia corporea che le si
condeusa intorno o eh’essa irradia da sè). Ma comunque si voglia immaginare la
cosa, e a parte qualunque mitologia, l’idea e la verità profonda eh’è espressa
qui, in questa discesa delle anime nel mondo corporeo, è il distaccarsi
dell’anima individuale dalla sorgente di ogni vita, la volontà dell’esistenza
individuale, che finisce col diventare un’esistenza separata, e dimentica della
sua origine e dei legami che la congiungono col tutto. — Com’è — dice Plotino
in un luogo magnifico (il principio della V a Enneade) — come accade che le
anime dimentichino Dio, il loro padre? Come accade che avendo una natura divina,
ed essendo uscite da Dio, esse lo disconoscano e disconoscano se stesse ?
L’origine del lomale è l’audacia o l’orgoglio (xóX[xa), il desiderio di non
appartenere che a se stesse. Da quando hanno gustato il piacere di possedere
una vita indipendente, usando largamente del potere ch’esse avevano di muoversi
da sè, si sono avanzate nella strada che le deviava dal loro principio, e sono
giunte ora a un tale allontanamento da lui (apostasia, àTzòa-a,ai % vita a cui
l’uomo può e deve aspirare; non costituiscono propriamente questa vita. Non
solo la vera virtù consiste non nelle azioni esterne, f sibbene nella
disposizione interna dell 7 anima; ma questa disposizione virtuosa è
soprattutto una purificazione, una catarsi, una liberazione dell’anima dalla
sensibilità e daisuoi legami col corpo. Quest’idea della purificazione è il
significato più profondo della dottrina della metempsicosi, che anche Piotino
accetta come Platone e i Pitagorici. L’anima che figura nel dramma di cui il
mondo è il teatro, e che vi recita la sua parte, vi porta una disposizione a
recitar bene o male, ed è punita o ricompensata in conseguenza, secondo quello
che fa e secondo giustizia. Salvo che per riconoscere questa giustizia, non
bisogna fermarsi alla vita presente, ma bisogna tener conto drtutti i periodi
passati e futuri dell’anima, la quale non muore col corpo che momentaneamente
la riveste, ma è di sua natura immortale. Chi è stato padrone in una vita
anteriore, se ha abusato del suo potere, rinasce schiavo; chi ha impiegato male
le sue ricchezze, rinasce povero ; quelli che hanno commesso violenza, saranno
a loro volta maltrattati ; chi ha ucciso la madre, sarà ucciso dal figlio suo:
l’anima è destinata a incorporarsi in questo o quel corpo, a ridiventare uomo o
animale o anche pianta, secondo i suoi meriti e gli atti che ha compiuti in una
vita anteriore; e a traverso queste rinascite successive ciascuna anima si
purifica, espia, finché non ridiventi degna di ritornare alla regione celeste
da cui è discesa. Questa purificazione non si ottiene mediante pratiche
ascetiche o mortificazioni, ma facendo si che l’anima non diventi prigioniera
delle passioni del corpo, non s’abbandoni ai fantasmi dell’immaginazione, non
si estranii dalla ragione, cerchi di sollevarsi sempre più verso quella realtà
intelligibile ch’ò la sua vera patria. E da questo punto di vista anche le virtù
cardinali o civili acquistano un nuovo significato : diventano virtù
purificative, orientano l’anima verso quella realtà superiore, facendo che
l’intelligenza domini nell’uomo e regoli tutte le sue azioni e i suoi
sentimenti. Ossia insomma più delle virtù civili e pratiche vale la virtù
contemplativa, la virtù dello spirito puro. f E lo stesso mondo sensibile può
avere valore per il nostro perfezionamento quando sia appunto oggetto dì con- «
templazione: qui vengono a confluire quelle due correnti d’idee che dicevamo:
l’inferiorità della realtà sensibile rispetto al mondo ideale, e la perfezione
e la bellezza di questo stesso mondo sensibile in quanto riflesso delle Idee.
L’anima aspira in fondo al bene supremo, e non vi può pervenire se non mediante
la conoscenza del vero e del bello. Ma anche le apparenze del mondo sensibile
possono servire di gradini, di scala per sollevarsi fino a quel mondo
superiore. Tre vie conducono a questo mondo, che sono per Plotino la musica,
l’amore e la filosofia. La musica ha per oggetto l’armonia, l’amore ha per
oggetto la bellezza, la filosofìa ha per oggetto la verità. Il musicista si
lascia facilmente commuovere da alcuno forme del bello ; ma bisogna che delle
impressioni esterne vengano a stimolarlo. Come l’essere timido è risvegliato al
più piccolo rumore, cosi il musicista è sensibile alla bellezza delle voci e
degli accordi ; egli rifugge da tutto ciò che gli sembra contrario alle leggi
dell’armonia, e ricerca il numero e la melodia nei ritmi e nei canti. Ma
bisogna che dopo queste intonazioni, questi ritmi e queste arie puramente
sensibili, egli impari a conoscere le proporzioni e i rapporti intelligibili
che sono l’idea e il principio stesso dell’armonia delle cose ch’egli ammira, e
ammirando le quali egli possiede come istintivamente delle verità che solo una
scienza più alta potrà rivelargli. L’amore è rivolto verso la bellezza, e
dicemmo già come l’anima diventa bella, si purifica, contemplando il bello, il
lampeggiare delle Idee nella forma sensibile. Ma i anche qui ci sono dei
gradini da salire, e bisogna che l’amante si sollevi dalle belle forme corporee
alle Idee ch’esse esprimono, e riconosca il Bello anche nelle cose incorporee,
nelle scienze, nei prodotti spirituali dell’attività umana, nella virtù, finché
non giunga a quel pelago ampio del Bello di cui parlava Diotima nel Convito
platonico. Perché la stessa commozione profonda e trepida che noi proviamo di
fronte alle belle forme e a tutte le cose belle, ci dice che al disopra di esse
tutte c’ è una bellezza superiore, di natura puramente ideale, quella del Bene
che le illumina e le colora della sua luce. Quanto al filosofo, dice Plotino,
egli è naturalmente disposto ad elevarsi al mondo intelligibile. Vi si slancia
portato da ali leggiere, senza aver bisogno, come i precedenti, d’imparare a
liberarsi dagli oggetti sensibili. La filosofia non è ridotta a intravedere la
verità a traverso i suoi simboli, ma la coglie direttamente e nella sua
essenza, senza che la passione o l’immaginazione vengano a turbarne o oscurarne
la tranquilla e pura contemplazione. La filosofia rivela e spiega e commenta
quelle verità che il musicista e ramante intravedono solo confusamente e come
per istinto : ci svela la realtà e la natura (lei mondo intelligibile, concesso
è costituito e come procedono i suoi effetti. % Qui si direbbe che siamo giunti
all 7 ultimo termine della nostra ascensione. Ebbene no. Al disopra di ogni
riflessione e di ogni conoscenza, al disopra di ogni distinzione di pensante e
di pensato, di soggetto e di oggetto, e 7 è uno stato veramente incitabile, nel
quale l’anima individuale si annega e si perde, come illuminata dalla luce
divina, con la quale essa s’identifica. ISon si può chiamare nemmeno visione,
ma piuttosto un’estasi, una semplificazione, un abbandono di sè, una perfetta
quietudine, infine un confondersi con ciò che si contempla. Come l’amore non si
contenta della visione, ma aspira all’unificazione intera delle anime, così
l’anima umana aspira a congiungersi con l’Uno, col Bene, col principio di ogni
realtà, e vi riesce qualche volta quando nel più profondo raccoglimento dalle
cose esterne, al di là di ogni pensiero, nella più profonda pace, aspetta di
essere illuminata dalla luce divina, nega la sua finitudine, e come rapita e
fuori di sè, essa stessa s’india. Questa Divina Commedia finisce non con una
visione beatifica, ma con l’estasi. Porfirio ci dice che Plotino, durante il
tempo che furono insieme, aveva provato questo stato di suprema beatitudine
solo quattro volte, ed egli stesso, Porfirio, una sola volta. Cfr. YachehoTj
Histoire oritique de l’école d’Alexandrìe. La filosofia di Plotino, per i
concetti con cui opera, si può considerare come il risultato di tutta la
speculazione anteriore. Plotino fia imparato non solo da Platone, ma da
Aristotile, dagli Stoici, dai presocratici, specialmente dagli Eleati: ha
imparato anche dalle filosofie ch’egli combatte; e mentre riassume il passato,
contiene idee, intuizioni e suggestioni che valgono per tutti i tempi: il
motivo religioso, da cui questa filosofìa è nata, ne ha fatto una delle
concezioni tipiche e caratteristiche di quello eh’è stato chiamato il bisogno
metafìsico. Ci sono dei tempi in cui la filosofìa si sforza e non conosce altro
compito se non di comprendere la realtà dell’esperienza, la struttura e le
leggi di questo nostro mondo sensibile: diventa, come dicono, positiva; ce ne
sono degli altri in cui non si contenta di questo, e nemmeno di quella saggezza
pratica, che basta a condurci nella vita ; ma cerca di esprimere e di appagare
i bisogni più profondi dello spirito o di alcuni spiriti che non mancano mai in
nessun tempo; il bisogno di liberarsi dalle inquietudini e dalle limitazioni di
questo oscuro viaggio della vita, di trovare la pace e la beatitudine in una
realtà superiore. Di questo slancio, di quest’aspirazione verso il divino,
Plotino è rimasto uno degl’interpreti più eloquenti; e la sua efficacia è stata
grande a traverso i secoli, in S. Agostino e negli altri Padri della Chiesa,
nei mistici del Medio Evo, poi massimamente nei nostri filosofi del
Rinascimento, in Malebranche e Spinoza, più tardi nei poeti e filosofi del
Romanticismo tedesco, fino ai nostri giorni. Intanto non bisogna dimenticare
che questa filosofia neoplatonica si produceva in un’età di fermentazione
religiosa, tra spiriti sitibondi del soprannaturale, in un’atmosfera satura di
superstizióni, in mezzo a quel sincretismo di tutte le credenze e di tutti i
culti del mondo antico, fra cui si preparava la fede dell’avvenire: bisogna
tener conto di questo fondo storico, in cui il Neoplatonismo s’è formato, per
intendere la sua storia posteriore e le sue trasformazioni. Nel tempo stesso in
cui il Neoplatonismo era insegnato e si diffondeva nell’impero romano, la
Chiesa cristiana, che s’era già cominciata a organizzare, cercava essa pure di
definire i suoi dogmi, superando i contrasti che si producevano nel suo seno;
creava un corpo di dottrine, le quali fissavano, di fronte alle opinioni dichiarate
eretiche, il contenuto della nuova coscienza religiosa: nasceva così la
teologia cristiana, una filosofìa del Cristianesimo, la quale utilizzava
anch’essa a modo suo i concetti della filosofìa greca, specialmente quello del
Logos, che finisce con V identificarsi col Messia come il mediatore vivente tra
Dio e l’uomo; si assimilava questi concetti modificandoli e incorporandoli nel
sistema delle sue credenze. Ora di fronte ai progressi sempre crescenti del
Cristianesimo, clie ai principi del quarto secolo trionfa con Costantino, e
finisce col diventare la religione dello Stato, il Neoplatonismo, per gli
spiriti non persuasi della nuova religione ft rimasti fedeli alla tradizione
pagana, diventa 1 o è utilizzato come la base di una teologia del politeismo :
si tenta per mezzo delle idee neoplatoniclie di ristaurare, legittimare e
ridurre a sistema tutte le divinità e i culti dell’antica religione. Il
Neoplatonismo diventa l’ultima filosofìa del paganesimo, e non solo come un
sistema di dottrine destinate a spiegare o risolvere come che sia i problemi di
Dio, del mondo e dell’anima umana, ma come il puntello dell’antica religione
pagana, con tutti i suoi Dei e le sue pratiche. 2. - Non vogliamo entrare nei
particolari di quest’ultima parte della nostra storia; basterà ricordare i nomi
principali. Fra gli scolari diretti di Plotino il più importante è Porfirio, al
quale dobbiamo la redazione e la pubblicazione delle Enneadi, e che continua la
dottrina del maestro esponendola con chiarezza e brevità in quelle Sentenze
d’introduzione al mondo intelligibile (’Acpoppori Ttp&s Tic vorjTa), che si
trovano molto utilmente premesse all 'Enneadi nell’edizione Didot. Scrisse
molte altre opere, tra cui una in 15 libri contro i Cristiani, andata
naturalmente perduta. È anche studioso e commentatore di Aristotile; e un passo
diventato celebre della sua Isagoge o Introduzione alle Categorie di
Aristotile, che tratta delle cinque voci (il genere, la specie, la differenza,
il proprio, l’accidente), sarà il punto di partenza delle controversie
medievali sugli universali. Porfirio è uno spirito colto, erudito, che vorrebbe
riformare la religione tradizionale ; combatte le superstizioni più grossolane,
predica un culto puro, senza sacrifizi sanguinosi: raccomanda anche delle pratiche
ascetiche. Ea consistere il fine della filosofìa nella salute dell’anima; ma
pure accentuando le tendenze pratiche e religiose della scuola, e facendo delle
concessioni alle credenze'popolari, si può dire che in lui è vivo an- ’i _ cora
l’interesse filosofico. Egli è il continuatore immediato della tradizione
plotiniana. Invece con Giamblico, che fu scolaro di Porfirio, avviene
decisamente quella trasformazione del Neoplatonismo in un sistema di credenze
religiose: l’interesse teosofico prevale: la filosofia diventa ancella della
teologia, e della teologia pagana. Giamblico nacque in Calcide nella Gelesiria,
non si sa precisamente in quale anno, visse ai tempi di Costantino. È
riguardato come il fondatore di una nuova scuola, della scuola siria del Neoplatonismo:
ebbe molti discepoli, entusiasti di lui, che lo riguardavano •come un uomo
straordinario e divino, dotato di potenza occulta e miracolosa. Giamblico
intraprende una ricostruzione filosofica del Panteon pagano, nella quale
entrano gli Dei greci e romani e le divinità orientali, tutte all’infuori del
Dio cristiano. E alla credenza in tutta questa moltitudine di Dei si aggiungono
le pratiche del culto : alla virtù e alla contemplazione, ck’erano per Plotino
i mezzi con cui l’uomo si solleva al divino, si aggiunge o piuttosto si
sostituisce la teurgia, cioè l’arte di esercitare un’azione sulla volontà degli
Dei per renderseli favorevoli, di far discendere in sè il divino per mezzo di
pratiche esterne, riti, preghiere, con la virtù di formule simboliche, che ci
riedificano nell’unità primitiva da cui siamo usciti. Le formule filosofiche
diventano pretesto à stravaganze magiche e spiritiche. Com’è stata possibile la
degenerazione di una così nobile filosofìa, concepita con tanta energia
speculativa e animata da una così pura fede e aspirazione al divino? Pur troppo
il Neoplatonismo portava in se stesso, e già in Plotino, i germi di questa
degenerazione: innanzi tutto il metodo delle ipostasi, e poi la tendenza a
trovare, con interpretazioni allegoriche, nei nomi o nelle figure tradizionali
degli Dei il simbolo dei diversi momenti dell’emanazione del divino. Plotino
stesso nomina Uranos, Kronos e Zeus come simboli dell’Uno, del vou* e
dell’Anima; e simboleggia pure le due anime con l’Afrodite celeste e quella
terrena. Se si prendono alla lettera questi riferimenti, e soprattutto i
termini si moltiplicano, si arriva al sistema fantastico di Giamblico. Il quale
non si contenta delle tre ipostasi plotiniane, ma al di sopra dell’Uno che
s’identifica col Bene, ammette un altro Uno assolutamente incomprensibile, dal*
quale deriverebbe il secondo Uno ch’è quello di Plotino; e da questo non deriva
semplicemente il vou^, ma prima il mondo intelligibile o pensabile votjtó?) e
poi il mondo intellettuale o pensante vosp6?) ; e la divisione continua quando
si passa all’Anima: dalla prima Anima ne derivano altre due; e ciascuno di
questi termiai poi si tripartisce e si moltiplica in diversi momenti, a ognuno
dei quali corrisx>onde una persona divina. Così, abusando del metodo delle
ipostasi e dell’interpretazione allegorica, Giamblico trova da collocare una
quantità di divinità sopramondane, celesti e terrestri, genii e demoni d’ogni
specie, che sarebbero i termini intermediari tra Dio e l’uomo. S’aggiunga poi
quell’idea dell’animazione universale, e della simpatia o affinità fra tutte le
cose, che contiene una verità profonda, ma che per menti non disciplinate da
nessuna critica, apriva facile l’accesso alle credenze magiche e alle pratiche
teurgiche. In fondo, anche a traverso a queste esagerazioni superstiziose, non
è possibile disconoscere l’antica fede ellenica che tutto è pieno degli Dei,
eh’è il motto attribuito a Talete, il primo filosofo. Così il Neoplatonismo
uscì dalla scuola e volle agire sulle coscienze, quasi contrastandone il
dominio alle nuove credenze. Non fu solamente una dottrina, ma fu l’ul¬ timo
tentativo dell’Ellenismo per difendersi da quella religione di barbari, che col
suo Dio unico negava tutti gli altri Dei. E si fece campione di questa
restaurazione dell’antica religione dei padri, in nome della filosofia,
Giuliano l’Apo¬ stata, imperatore dal 361 al 363, morto a 32 anni, che, educato
da maestri greci, s’era nutrito dell’antica cultura ellenica, e poi aveva
dovuto subire la disciplina e l’edu¬ cazione cristiana; e contro il
Cristianesimo si ribellò prima secretamente,' poi, diventato imperatore,
apertamente, at¬ taccandosi sempre più all’Ellenismo. Giuliano era uno sco¬
laro degli scolari di Giamblico. Giuliano, da vero greco, adorava il sole,
principio di Vita per tutta la natura : ma nel sole materiale e visibile egli
vedeva V immagine e come il riflesso di un altro sole, che i nostri occhi non
possono cogliere, e che illumina le razze invisibili e divine degli Gei
intelligenti. Cosi, alla maniera dei Neoplatonici e col loro linguaggio, egli
costruiva il mondo delle Idee e dell’Uno, da cui tutte le cose di- -pendono.
Giuliano è stato dqtto un romantico sul trono dei Cesari, perchè aveva gli
occhi rivolti indietro, e consumò miseramente i suoi sforzi nella restaurazione
di un passato diventato impossibile. Era difficile che il Neoplatonismo potesse
fare seria¬ mente concorrenza al Cristianesimo. C’era innanzi tutto questa
differenza: che il Neoplatonismo, per quanto tentasse di mettersi in contatto
con l’anima popolare, era semplicemente una scuola di dotti più o meno solitari
; il Cristianesimo invece era una Chiesa, una comunione di fedeli potentemente
organizzata, e la cui fede si basava su certi fatti positivi, di natura
storica, la vita e la morte del Cristo, fatti creduti con una fede ardente,
ardente fino al martirio; e intorno a questi fatti si andavano elaborando i
dogmi che saranno presto fìssati dai Concilii. Ma la scarsa efficacia pratica
del Neoplatonismo si com¬ prende anche meglio se si guarda un momento alle
diffe¬ renze dottrinali tra i due sistemi. Una prima e fondamentale differenza
è che l’intuizione cristiana tiene fermo al concetto ebraico della personalità
divina, e concepisce il mondo non come un’emanazione di Dio, derivante da esso
per un processo fìsico o logico o metafìsico, ma come un atto della sua
volontà, quindi come creato nel tempo. Dio creò il cielo e la terra: questa • è
la base della dottrina cristiana. E a questo primo fatto ne succede un altro :
la caduta del primo uomo e quindi di tutti gli uomini, il peccato, che risolve
il problema del male; il quale dunque non è da cercare nella materia o
nell’ultima emanazione della divinità, ma è aneli’esso un atto di volontà,
della volontà umana ribelle al comando di Dio. Di qui il bisogno della ' 1
redenzione o liberazione dal peccato, a cui l’anima aspira; la quale redenzione
è resa possibile da un terzo fatto, l’in¬ carnazione del Verbo, del Logos, del
figlio di Dio fatto uomo, che prende sopra di sè le colpe e i dolori di tutti t
gli uomini, e li redime, per un miracolo di amore, col suo sangue- innocente.
Tutta la storia del destino umano è qui drammatizzata in un dramma potente di
efficacia. Il ISTeoplatonico, col suo concetto spiritualissimo della divinità,
combatterà fino all’ultimo questo concetto dell’Incarnazione, di un Dio fatto
uomo, e la considererà come la superstizione più assurda; ma è appunto questo
concetto di un Dio redentore che ha una virtù di simpatia e di consolazione per
milioni di anime; e apre la via della liberazione non ai sapienti solamente, ma
a tutti, agl’ignoranti, agli umili, agl’infelici soprattutto, purché credano
nella virtù redentrice del sangue sparso di Gesù crocifisso. Qui si ha
veramente un Dio che si può pre¬ gare, invocare, domandargli perdono, ritornare
in pace fcon lui, acquistare la vita eterna. Se si paragona questa liberazione
con quella che si potrebbe dire aristocratica e filosofica di Plotino, mediante
la dialettica e l’amore delle cose belio e l’unione estatica con Dio, si vedrà
la differenza. Si direbbe che il Neoplatonismo suscitava bisogni che non poteva
appagare. Agostino nelle Confessioni dice: Ho letto nei libri dei Neoplatonici
la dottrina del Verbo, ma non ci ho letto ch’egli è diventato uomo, e ha
abitato fra noi, ed è morto pei peccatori, perchè tutti quelli che gemono e
soffrono venissero a lui e ne fossero consolati. 3. - Tuttavia il
Neoplatonismo, nelle sue parti migliori, rappresentava pure una grande
tradizione di scienza e di cultura; e si capisce come spiriti non volgari se ne
lascias- sero attrarre. t E una pura, nobilissima e innocente vittima delle
lotte religiose, nelle quali la filosofìa antica finirà con l’essere vinta e
con l’estinguersi, è una donna : Ipazia di Alessandria. . Ipazia era nata ad
Alessandria da Teone, ch’era celebre matematico e astronomo. Eu educata e
istruita dal padre nelle scienze in cui egli era maestro, ma il vivido ingegno
della giovinetta cercava altro alimento, e studiò con passione la filosofìa.
Dicono anche che andasse a perfezionarsi in Atene. Quello eh’è certo è che
nella sua città essa diventò celebre, ammirata, e rispettata da tutti. La
natura le aveva largito tutti i doni, quelli dello spirito e una bellezza non
comune. Fu messa a capo della scuola neoplatonica di Alessandria, ed essa
v’insegnava Platone e Aristotile, tutte le discipline filosofiche. I titoli di
alcune sue opere sono d’argomento scientifico, il che nella penuria di altre
notizie ci permette di supporre che con la sua forte cultura essa si tenne
lontana dalle stravaganze degli altri Neoplatonici,e che s’erano raccolte in
lei le migliori tradizioni dell’ellenismo. Ebbe un grande successo. Per le
strade di Alessandria tutti si voltavano a guardare la bella persona quando
passava con semplicità e sicurezza, vestita del pallio dei filosofi, e
conversando con quelli che fi accompagnavano. Alle sue lezioni affluivano gli
ascoltatori, non tutti probabilmente per imparare la filosofia. Della sua
eloquenza ci è detto eh 7 era dolce e persuasiva, e ci è riferito pure che un
suo scolaro s 7 innamorò di lei, e osò confessarle i suoi patimenti. La nobile
donna cercò di calmarlo, sollevando il suo spirito e distogliendolo da desi-
derii non degni. Pur troppo noi non la conosciamo altrimenti che da quello che
ne dicono i suoi contemporanei. Il vescovo Sili esio, ch’era stato suo scolaro,
e le rimase amico anche dopo che fu passato al Cristianesimo, nelle lettere che
le scrive e che ancora ci rimangono, la chiama sorella e madre e maestra, e le
manda i suoi libri prima di pubblicarli per averne consigli. E nVN Antologia
c’è un epigramma {il n. 400 del libro IX) entusiastico e gentile, che fìssa
quest’apparizione luminosa, e non pare un’esagerazione. « "Oxav pXénto as,
Trpoaxuvco. Quando io ti vedo, io ti adoro, e così quando ascolto la tua
parola; come contemplando il segno celeste della Vergine) perchè tu sei cosa
tutta di cielo, o nobile Ipazia, con la bellezza dei tuoi discorsi, astro
purissimo di scienza e di cultura ». Disgraziatamente, questa storia finisce
con una tragedia orribile. Erano frequenti in Alessandria i tumulti per le
discordie fra ebrei, cristiani e pagani. 11 prefetto o governatore della città,
Oreste, non andava d’accordo col vescovo Cirillo, e ognuno aveva il suo
partito: spesso scendevano in città delle compagnie di monaci, che di monaco
non avevano altro che'l’abito: erano dei malfattori che venivano a pescare nel
torbido. Oreste era uno degli ammiratori ed amici d’Ipazia, e spesso le
domandava consiglio. Essa, tutta intesa alla sua scienza e, alla sua scuola,
rimaneva estranea a tutte queste contese, e nessuno degli storici nemmeno
ecclesiastici formula un’accusa contro di lei; ma nel partito di Cirillo
dovette formarsi l’opinione che Ipazia influisse sul governatore, impedendogli
di vivere d’accordo col vescovo; e del resto per la sua posizione e il suo
insegnamento doveva essere ritenuta come un sostegno o fautrice del m partito
dei pagani, e odiata a morte dagli zelanti che non mancano in nessun partito.
Fatto sta che un giorno di quaresima del 415, in un tumulto, mentre Ipazia
tornava in città in vettura, vide accorrere contro di sè una folla furiosa, e,
come racconta Io storico Niceforo, la strapparono dal carro, la portarono in
una chiesa, e ivi spogliatala delle vesti l’uccisero, la fecero in pezzi e
andarono a bruciarla in un luogo detto Cinaron. Col martirio della vergine
pagana si estingue la scuola neoplatonica di Alessandria. Ma riapparisce nel
quinto secolo in Atene, e sarà l’ultima scuola. La Filosofia ritorna per morire
nella sua patria antica, alla città di Socrate e di Platone; e allo studio di
Platone congiunge quello di Aristotile, come già s’è visto in Plotino, in
Porfirio, in Ipazia. i) Si può vedere su Ipazia uno studio del prof. Faggi
nella Rivinta d’Italia del 1905, e un altro del prof. Pascal nel voi. Figure e
caratteri . -,”;js-w v ; \ PROCLO
Fondatore di questa scuola ateniese è Plutarco detto il grande dai suoi
scolari, a cui succede Siriano, e poi Proclo, eh’è il più celebre e il più
importante. Proclo era nato a Costantinopoli. È un dialettico sottilissimo, ebe
al bisogno di sapere congiunge quello di credere; e crede ai presagi dei sogni,
alla potenza degl’ incanti e degli scongiuri. Passò la sua vita scrivendo e
insegnando. I suoi discepoli credevano sentire in lui la presenza di un Dio. Un
giorno, uno .che aveva udito una sua lezione, affermò che aveva visto attorno
al suo capo un’aureola divina. Scrisse fra l’altro dei commenti a Platone e un
’Istituzione teologica } che si può vedere nell’edizione Didot di Plotino. La
sua opera consiste essenzialmente nel ridurre a sistema tutta la sapienza
anteriore. La filosofia di Aristotile è considerata come l’introduzione a
quella di Platone, i piccoli misteri che precedono i grandi; e il fondo della
dottrina è quello neoplatonico, Proclo dimostra metodicamente come bisogna
partire dall’Uno, e come dall’Uno derivano i molti, mediante un processo
dialettico che comprende tre momenti : ogni prodotto, da una parte somiglia
alla causa che lo produce, e dall’altra se ne distingue, e pure
distinguendosene, ritorna ad essa: dunque jjlov'/j o immanenza, TipóoSoc o
progresso, iTUKjrpo'f/) o conversione sono i tre momenti di questo processo.
Questo ritmo si riproduce a ogni fase dell’emanazione o sviluppo dell’Assoluto,
che procede dunque per triadi successive in tutte le sfere dell’Essere,
dall’Uno 4 q Cfr. ProCI.O, Elementi di teologia con im’ introduzione di Loia a
eco (Lanciano, Carabba). fino alla materia, triadi che si moìtiplicario, perchè
ogni momento di ciascuna triade dà luogo a sua volta a triadi (e poi a
ebdomadi) subordinate. Ne nasce una costruzione eh’è insieme un 7
architettonica di concetti e una gerarchia di divinità mitologiche, alla
maniera di Giamblico : una filosofia compiutamente messa in ordine, coi suoi
scompartimenti e le sue formule tecniche, che ha pure trovato i suoi
ammiratori. Vittorio Cousin ha pubblicato le opere di Proclo, e Giorgio Hegel
ha riconosciuto in lui uno spirito sistematico e. sistematizzatore come il suo.
Quello che si può dire in generale è che il pensiero greco vive oramai del suo
passato: per parlare con Piotino (e col Windelband), lo spirito greco, a
traverso le sue emanazioni, finisce col perdersi in questa scolastica. E la
morte naturale della filosofìa antica, per esaurimento, è suggellata da un atto
di violenza, da un editto dell’imperatore GIUSTINIANO nel quale si ordinache
nessuno insegnasse più filosofìa in Atene. Così si chiudeva per ordine
superiore quest 7 ultima scuola, della ([naie furono confiscate le rendite, e i
filosofi dispersi. L’ultimo scolarca fu Hamascio, il quale col suo scolaro
Simplicio, il celebre commentatore di Aristotile, e altri cinque neoplatonici,
ripararono in Persia, dove speravano protezione dal re Cosroe, amico della
cultura greca. Poi rimpatriarono, ma la scuola rimase chiusa per sempre. Una
filosofia non cristiana era diventata impossibile nel mondo greco. San Pietro
Vernotico, Br. Giuseppe Melli. Melli. Keywords: AVRELIO. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Melli” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice e Memmio: la ragione conversazionale e l’orto romano -- Roma
– filosofia lazia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A bit of an enigmatic
character. LUCREZIO dedicates his great Garden poem to him. He acquires the
ruins of the house in Athens where Epicuro starts his Garden. Gaio Memmio.
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice e Menecrate: la ragione conversazionale e la scuola di
Velia -- Roma – filosofia campanese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Velia). Filosofo italiano. Velia, Campania. A pupil
of Senocrate. Menecrate
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice e Menestore: la ragione conversazionale ela scuola di
Sibari -- Roma – filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Sibari). Filosofo italiano. Sibari, Cazzano
all’Ionio, Cosenza, Calabria. Pythagorean. Giamblico. Menestore.
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice e Menone: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale – gl’ottimati di Crotone -- Roma – filosofia calabrese -- filosofia
italiana – Luigi Speranza
(Crotone). Filosofo italiano. Crotone, Calabria. A Pythagorian and son-in-law
of Pythagoras, according to Giamblico di Calcide.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Mercuriale:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – il ginnasio – filosofia
emiliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Forli). Filosofo italiano. Forli, Emilia Romagna. Grice: “At
Corpus, as it had been at Clifton, cricket featured as my priority, --
philosophy came second!” Celebre
per avere per primo teorizzato l'uso della ginnastica nella filosofia. Suoi
sono anche il primo saggio sulle malattie cutanee e un'importante saggio, forse
la prima mai scritta, di pediatria. Ritratto
raffigurato in "De arte gymnastica.” Dopo aver studiato a Bologna ed aver
conseguito la laurea a Padova, dove ha modo di conoscere TRINCAVELLA, segue a
Roma Farnese. A causa della sua fama, infatti, i forlivesi lo inviarono come
legato presso Pio IV. Pare aver composto il suo celeberrimo saggio sulla
ginnastica. E professore in entrambe le
università dove studia. A Padova, in particolare trascorse un periodo molto
fecondo, in cui scrive saggi, alcuni dei quali basati sugli appunti presi dagli
studenti durante le lezioni. Si reca poi a Pisa, dove divenne tutore di
Ferdinando I de' Medici e poté godere di una certa fama. Cura anche altre
importanti personalità del suo tempo, tra cui Massimiliano II, che lo nomina
cavaliere e conte palatino. Merita di essere citato un famoso episodio che lo
vede convocato a Venezia insieme a molti altri filosofi illustri, consultati per
decifrare una misteriosa epidemia che colpiva la città. Escluse fin dall'inizio
un caso di peste, in quanto solo una minima percentuale della popolazione si
era ammalata e il contagio resta comunque molto limitato. Dopo una settimana
però la malattia ha un decorso impressionante, colpendo un terzo della
popolazione veneziana tra cui anche alcuni familiari del medico stesso.
Sorprendentemente però tale evento non ha gravi conseguenze sulla sua carriera
che, anzi, durante lezioni che tenne a proposito della peste, continua a
difendere la sua posizione riguardo allo sfortunato caso veneziano. Fa
restaurare una cappella dell'Abbazia di San Mercuriale di Forlì, trasformandola
in cappella di famiglia, da allora nota come cappella M, dove egli stesso venne
sepolto. Ai monaci di San Mercuriale, lascia in eredità la sua biblioteca,
purché essi si impegnassero a tenere tre lezioni settimanali di filosofia.
Ricevuti i saggi, i monaci, per custodirli e renderli fruibili a tutti,
aprirono una biblioteca pubblica. A celebrazione ed a ricordo di M., e murata
nella cappella una lapide con le seguenti parole. Questo marmo ricorda ai
posteri che i c forlivesi commemorando presso la sua tomba riaffermavano il
connubio eterno nei secoli tra la scienza e la fede. Saggi: “De morbis
muliebribus”, Cultore dell'opera ippocratica, “Censura et dispositio operum
Hippocratis,”-in cui discusse in modo critico le opere del medico, “De arte
gymnastica,” la prima opera moderna che consideri scientificamente il rapporto
tra l'educazione fisica e la salute, ma anche un testo sulla storia
dell'attività ginnica. Oltre a questo originale argomento scrive saggi di
pediatria, di balneoterapia, di malattie della pelle, di tossicologia. Fra i
suoi numerosi discepoli si segnala Bauhin. Alcuni altri suoi saggi sono: “De
morbis cutaneis,” il primo trattato sulle malattie della pelle, “De morbis
puerorum,” “De compositione medicamentorum,” De morbis muliebribus, Venezia; De
venenis et morbis venenosis; De decoratione; De morbis ocularum et aurium Nomothelasmus
seu ratio lactandi infantes. Dizionario Biografico della Storia della Medicina
e delle Scienze Naturali, Liber Amicorum, Citato in Landi, Credere, dubitare,
conoscere. De M. vita et scriptis Victorius Ciarrocchi, Latinitas Opus Fundatum
in Civitate Vaticana. Santa Sede Dizionario Biografico della Storia della
Medicina e delle Scienze Naturali, Liber Amicorum. “De arte gymnastica”
Pediatria Dermatologia, Treccani Enciclopedie Istituto dell'Enciclopedia.
Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario
biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. M. DE ARTE
GYMNASTICA Libri Sex, IN '^VIBVS EXERCITATIONVM OMNIVM \\cii(hii um
scncra.Ioca.modi, facultatcs, &: quidquid dcniqucad corporis humani
cxcrcitationcs pcrtinct, diligentcr cxplicarur . ^uru cditione comSIiores 3
4uSItoreJ fæfi. Ojuis 11011 nu\i,) nu\1ki$, vcnim ctiam omnibiis antiqiiarum
rermn cosnolccndariim,^ et v.ilcnidinis coiiUrna;u)ac ftuJioias .idir.Oilum
vtilc. AD MAXIMILIANVM II. 4 IMPERATOKE VENrETII.S, ATVD IVNTAS. MAXIMILIANO II
IMPERATORI INVICTISSIMO. HT ERONYMVS MERCVRIALIS pcrpctuam FclicitatcitLD. I
quando mccum^ diliircTirius confidcro, MAXiMIlJANE Jnuidjllimcquot, quanraquc
Impcratorts, /ummique Princi pcs prohominuui laIutc,,6C tranquillirarc tam
bcllo.quam pacc gcfTcrint, in cam facilcdcfccndo fcnicntiam, mcrito, arquc
oprimoiurc omncsfcrc gcntcs, 6C nationcs fccilTc, quodcos dignos
cxjfhmaruntjquiin Dcoiumimmorralium numcrum rcfcrrcnrur . inrcr ca ucro, quac
in humanum gcnus innumcracontulcrunt bcncficia,magnajn partcm fibi
vcndicanrarrcs p(oic omncs Iibcralcs,quas maximis propofitis
pracmijsnoncxcitaruntmodo.atquc cxtulcruntali quando iaccntcs, fcd ita ctiam
carum dignitatcampljficarunt.vt ipfi (oli illarum au(5loics,ct inrtauratorcs
propcmodum vidcanrur. Jd facilc pcripiccrc quiuisporcft,qui militaris difcipli2
nac. n&c,leg(nTi fcientiævcafitekmrncju^fine qui-' bus ta bæc noil^fi ferc
u icalisiipn effe t Jaudandarum artium ortus, &C increriicnta mctnorta
velitrepetere : fed ne Imperatorifapientiflimojquæomnibuspaflim
notafunt,reccn-r 1 fcndo fim moIelUts, vnum' mcdicæ artis omnium vtiliffimac
exemplum proponam, quac proculdubio aut nulla cflct, aut-ccrto cuhl» qucm hoc
tempore pracfcfcrt fplcndorcm, 6C cicgantiam non habcrct, nifi Principum benighitasjfinequa
omnis plerumque languefcit induftria,famniisviris illius au(fboribus
aflulfiflct. Etcnim quantum a primisillis tempOr ribus quafinafcenti medicinæ
attulerint auxi Iij Cadmus, Salombn, Alexander, poftcrioribus vero Attalus,
Ptolemæus, Nero, Hadrianus, Cortftahtinus luftinus, alij permulti, compluriura
Dodorum hominum^ monumenta tefteintur. Verumtamcn vt aha '»'1, omittam in
præfentia, non cxigui momcnKfc^ ti putandum id cft, quod magnificentiftima,
comii atque^ ampliflima Gymriafia^ cxftruxcrunt., ttmpJ inquoijsartenL,
GymnafticaiTL inftituentes,. pcrlic^ ipfiui magiftros ac prifed:os alucrint,
qui H,i homincs excrcitationibus, fi^ ad corporis, (DiaJ 6C ad animi fanitatem.
confcrcntibus in^biis ftrucntes ad behe, bcatcque viucndum viam opti eommunircnr
» Hæc cnini. ars illa. cft, ' Inc ob quani. olaiL, PerfaruiTL reges,
Lacedætarct, monij. Dfllll 3CC( m ii ni [DSti i\m fcosi torcs, monij,
Athenienfcs, Romani icain bcllisgcrendisvalucrunt, vtfæpe non maximamanu
incredibiics hoftium vires frcs;crint, mnumcrabiles copias fudcrint, tot
dcnique rcgna.totquenationes fuis ditionibusfiibicccrint, utnc recenfcri quidcm
numcrando facilc quednr. . Hac eadem inftrudi, non dcfucrunt rrincipes,
quiaducrfusqucmlibct Athlctamroborclimt. aufi contcndcrc, qualcs fuilVcCyrum,
Neroncm, Traianum, Antoninum, 6C Seucrum acccpimus, quos prætcrquanL quod hac
fola^ arte fanitatcm conlcruaflc, fortilTimosquc cuafiflcmcmoriæ proditumelt,
obhancquoquc cauflani. idcosfcciflc vcrifimiiecfl, vtcactcrosfuo excmplo ad
eafdcm cxercitationcsinuitarcnt. Huiufmctartis opcquisignoratprifcos rcgnorum,
6C prouinciarum gubcrnatores Athlctaruni., (SCgladiatoruuLfpcdaculaadfubditosin
oflicio continendos prudcnter cxcogitata iiitroduxiflc ? nc plurima alia
commoda rcccnfcam, quacg)'mnaflica,quot tempore floruit, ad humanam
fclicitatem^ perficicndani. fcmpcr vbcrrimc pracflitit . Scd, qtioplurcs
fcimusabhac artc vtihtatcs cmanafle, comagisdolcndumnobis cfl, quibus ncfcio
quo mifero fato cummultis alijs optimarum artium fludijs perijt, atquc cxftinda
prorfiiscft^undc fit vtvctusilludmilicarcrobur, (SCvcramfanitatcm pcrpauci fint
* 3 hoc hoc temporc, quiconfequantar, tbtquemof" borum gcncra quotidie nos
infcftent, quot ob cxcrccndorum corporum confuctudincm non cxpertos efTc
vetcrcs rationi confcntaneumcft . IIaccautemctfiitafint,dcfpcrandum. tamen non
cft, lapicntiffime Jmperator, quincorum fcriptorum bcneficio, apudquos rudis
atque adumbrata quædam ilhus delincatio remanfit, ab intcritu poffitvindicari,
ac iterum in hominum. adfpcdum, luccmquc proferri, fi dC Trincipum ad hanc rem
propenfio adfit, 6Chomincs do(fli, &C antiquitatis periti reperiantur, qui
in hoc ftudium incumbere, omncsque ingcnij ncruos contcnderc non recufcn r.
Cæterum cur nemo noftris fæculis huiufmodi prouinciam fufcepc rit, fanc
pronunciarc non audcorid unum fcio, rcm ficut maximævtihtatis, ita immenfi cfCe
laboris. Etcgo, licetmulta cflcnr, quæabca detcrrere me poflcnt, aliquando
tamen fum aggrcflljs, quæque Jnter legcndos au nuncperfe(5lius,IocupIetius,(3C
pulchrius reditum tuæMaieftatiipfius nomineadferrem . Quamobrcm oro, vt,qua
loles incomparabili animi magnitudine,hoc hcet Maieftati tuæ imparmunus,
qualecumque tamen tenuitas noftra oflferre poteft, accipere, meque inter
tuosnumerare, protegere, acfouere digneris. nam, quamquam me ijs, qui omni
difciplinarumatqueartium genere cxcellentes M.T. inferuiunt, comparandum non
effe non ignorem : Ci tamen animus Ipeiletur meus,non dubito,quin,ficutnuIIius
ftudia in M. T. funt ardentiora,auf nbfcruantia maior, ita aliquo interahosgratiæ
tuæ loconon indignus uidcri pollim. Deus Optimus Max.M.T. pro Chriftia ni orbis
(aluce dm incolumem, 6C fdicem conferuct. Patauij,KaI.Sexc.Cl3 13 L XXI II.
LAVRENTIIGAMBARÆ BRIXIANI CARMEN. tAuxiUo ftctit Phochtgemtoris^ c^ arte y
%Artc Coromdcs wcdtdt cclchcrrtmtis oltm vMcmbra, minutAttm patrios dtficfla
pcr agros Htppo/yti 3 tAndcm mn72tbus collcgit, Crr' artus Arttibtis aptatitt
?ittcns ^ iutiC7tcmq,carc?jtcm yam lucc acthcria, iam tartara ntgra tc72cntcm
Ad fuperas fcdcs ^crcbtreuccauit ab vmbnss Et mcmbrtJ lactos, ocultsq. tnfudit
honorcs : ^ucts felttum lumcn fumpfrunt mcmbra tuucntæ: (fonffus ttanuncope
Mcrcurialts y C^aura Farncfj afptrantts hcrt collcgtt tn Vnum Gjmnada : qua
quo?jdam fc fc cxcrccre rcltSIo (jvrccre maiores y populo fpc&ante y
Jolebant . Hæc pars ad ludos fpcflat y pars altera tantum Commcmurat \ tum quts
^tclts fc oHcntat tn armts, Fortts rt euadat mtlcs ^ pars tertta narrat,
Stnteay quætncolumes fruent morboq. Vacantes Mortales ^dumytta manet^ docct
tvfpcr hatcpxrsy Ordtncquo pofjint homtnes extcndcrc longum Intempus dubtam
actatem ^ tardamquc fcmiJam Ducere tnuxpcrtamq. ma/tj curaq. carmtcm; Omnta
quac Utuere dtu dtfpcrja, tcnebrtsq, tAbdtta Ctmmerpjs: quæ nttnc dtjitnfla
labore ^ Et multo Sludto y tamquam noua fidcra fulgcnt, Scrtptores tnter
Cratosy parttcrq. Lattnos . Matth. Dcuari;, avg-ot(7iv ^coov (Tclo^ctTot;
npuo^rctiv, Z JiTrOTQi^^y}^ zoiAct X&i^^ctf cc/uvJ)>c^7rip tfx^ot
rix^fiC yv/uvctcnfig vvuj ctictX^(ct>C ^TTtTIOV Aov(nTctvov. VvfAVcicnov
Tro^vncfig ayoM Trovicov (twv {yfiptc UctVTOioic csropcLSlw UMzJV (Jfii/2xioic
OilviTtet T^m arxpSv l\pcavv/ultntus Clcmcns Alcxandrinus Codttis Aurcltanus
Columclla Cornelttis (jlfts D.Cyprianus Dtocles Dton Dionyfus iyireopaj^ita
Dtonyjius Haltcarnafctis Eptphanius Erafslratus Erottanus Eurtptdes Etifebtus
Eujiathtus Galenus Hcliodorus Hcrodottis HerodianuT Hcfodus D.Hteronymus
Htppocratcs Homcrus Horatttis loanncs fajjianus D. Inanncs Chryffomtts fof^phus
IJtdortiS lultus CapttolifUiS lultus Ftrmtcus lultus Fol/ux lujitutis Martyr
Juuenatis Lærtius Laitus Lampridius Ltbanius Lucanus Lucianus Lucilius
Lucretius Mar. Aure.CaJJtodorus Marcus Tullius Martiatis Meletius Oribajtus
Ouidius n^acuuius D. PauUus Pauilus Qy4eginetA Vaufanias Perfius Petronius
arbiter Philofiratus Plato Plautus Plinius T^lutarchus IPolybius ^orphyrius
Po/idonms Propertius Pub.Pelleius Pub. VittoT Paterculus ^intilianus T{azes
^fus Sphefius Saluianus Scribomus Largus Senecd Sex. Empiricus Sex.Pompeius
Fefus Sidonius A^ollinarts Soranus Ephefus Sophocles Spartianus Statius .
Strabo Suetonius Tranquillus Suidas Terentius Tertullianus Themfon ThemiHtus
Theodoretus Theodorus TPrtfcianus Theophraflus Valertus Flaccus ValeriusMax.
Varro Vegetius Vttruuius Vopifcus Xenophon. INDEX EORVM QVÆ HAC ADITIONE quarta
(iintaddita ab aiKftorc. ^ Ccubitus in mcfifa toflcrio-' ribus l{omanisyC^
Græcis prarfrrtirri nobiiioribus ufi" tatiljimus.j i.z.^. B. jiccumbendi
modus llebræorum poft liberationc ab ji egypto.y i.i.D. ^ccumbendi modus
Hierofolymus vtrttm ef fct qdAiis B^ruanorum in triclinio t\ib is
li^isAltioribus.j^y.i.ji. jtccumbcndi uai ia genera, et tex.j z. 2. D.
^ccumbcntcs Vetcres epularifoUtos fuijfe. 67.2.^. Mdiutmcntum de
truUnio.jo.^.D* ^tklttæ dtnudabaiAur toticxceptis fubiigacuiis.i-j.B.& C.
jiti lct^^^^ iudi qualcs forcnt Cafsiodorus dmjcrte docuit. in ^ilhletica qd
magis ualeat r^bur ars. C CEromaaUas aiiprerium iocusubiur.»gchaiv.itrryCh'
:!ii acc: bitus lut aitquibus non flaceat» 66.t.E. Chriftus prius quam menfæ
accuwberet laua baturyiocufque reponebat.-J^i.V. Chnfiui in mcrfa taceret ne,
an jederet . 68.1.D. Conuiui .rurn apud veteres Hebratost&alios genera
dmcrja.jo 2. F. toronabantur aiiqui,iicet non pugnajscnt. Crucis tituluscur
llcbraicefiracce^atque U tine infcriptus fuerit.j i.i.F. Curfiim milit.bus Diogenes
damnauit^ D Emocritus curpcnt^thiis uocarctur. DifctinMndi modus ftpra tciram
7i.l.B. Difcumbir.di mos ?iktn apud yiehræc^s ttm^ pore Chnflijuerit ;&
ritalis Medicaci fententia hac dc re expcnditur. yo.i.E* Fnpa qmd effet.
Fraucifci Toiedi Cardinalis, et aliorum circa Mariam Magd.iU ii*^m Qhnftipedif
lauantemlcntentia.6^ z.t\ Fuiuius rrjhius accepit dgymnafticæ iibris fua dc
triciinio C6.1.E. GEntcs J{omanis feruientcs ipforum wtrcs imitabantur.6j.^*P^'
deCtnatione Sinecæ JentcntiaCi^diatorum nos nephandus a principibus q oque
abuiif ts.l^^.B. Cymnafta in omr.ib^a ferh Cr.iecorum oppi^ dis :.d^r,if.t,jic
l\pmæante '\eroras quoquetewpora \().^.& 29. C. Cymnafia num tcmporibus
lullns apcri» rentur. in Cymnaftisqui ludiprimum cxcrcerentur^ 224. £. Cymnaflæ
an toto femper corpore dcnudu" rtntur. n HEhraci num aciuberent potius
quemad modum i\omani,t] Jederent.jl.LX. llcOia^ }{omJnorum rnjn s
JcqucbanturtniJi patrvfs i^^ihus ( ontrar la) entur .j i .Z.C licrophiii medid
liat ia cum ii Jii umcntis gy mnafUcat.Sfum origoyrrtusyet cur a ludam ai^c
fret tur.-j^. i.t, S£dt ndi ad mer,Ja:s cunjuetudo f{p>7^anorum, et aliorum
quando ccefta, et ufurfata fiteHtyi.z.^^ Serni,& tibertiin quibus agonibus
conten^ derent^ Siteuis ueneris vfus prohibebatnr ante vigi fimum annuw^
Syharitu ornm jo rdidi mo rcs^y U2^C. THcmifiif locusi;orrc^^i4S.y^,c^
Tridinijcur raræ figuræ in marmoribus inueniatur,6j.z.Cn Triilirii\m i^ncrdum
Fro^omophrcs: USos capicHtc 6j 2,^. Tridi^ I N D E X. TricHniapeief aUos
iabelmUeofqui aut /ig»rosyaut argcntQS,aut aurcos.-ji .lU.
rricUimnqnidapHdferuium.Sj.z.B. 7 rictifuum q^tid fucrit non Admodum notum
TripcdJS nnejsc tru Hnia.67. z.C. rrcchusud mliitartm qu^i^^c artmpeni*
Wibat.l^?*^* Vlrtutum quæ fit prindpMlifsimi. rngendi morrm antiqi4ura pofl bat^
ncum, &ante c$enam Maria MdgdaltfU in Cbrijlo feruduit Ji.i.P. Erophagia
quid efscU FIN r s ARTIS. GYMNASTICA. V AMDlv Homincs paucirtlmis
rebiiscontcnri lauras mcnfas, &: opipara conuiuia non cognoucrunt,
propinarionisciuc poft indudam paullarim confucrudincmpcnirus ignorarunt,
(idquod primis illis lacculis cxtitilsc mcmoriac proditum cft ) morbi ncquc
apparucrunr, ncquc ctiam corum nomina innorucrunr, fjcurvlquc ad rempora
Socratis diftillarioijum,quasGracci Ktcriggovi dicunt,nomcn,c]uonilhodic Ircqucnriuscft,
ignoratumc/setradiditPIato.-quadc rctunc temporis mcdicinacaur paucos
omnino,autnuIlosvfus, nullaqucpnncipia cxtitif^c cerrum cft: etii Homcrus
anriquilliiniis ausTtor fcripfcrir Ac^yprum multashcrbas, multaquc
mcdicamcnrahabuifsc. Poftquam vcrointcmpcranriæncfandalucs,coquorumcxqui(itacartcs,
dclicatiinma cpularum condimcnra, vinorumquc pcrc^rinac
tcmpcraruracintcrhominesiiTcpfcrc, morborum limul varia conrinuo gcncra
fuccrcfccntia ad im:cnicndam mcdicinam cos cocCgcrunt : cjua fcmpcr carcrc proH^to
licuifsct, nili humana, vcl ponusfcrinaingluuies omnium uiriorum fobolcs cius
ufum omniummaximencccfsarium cfrccifstr. Mcdicina vcro tamcrfi primo illo orru
rudis admodum, inculraquc fucrit, quando priici illi ( ut Hcrodotus, &:
Gaknus rcfcrunt ) ac^roros palam cxponcbanr 'i'"
vrvnafquifq.quodutilc,arquccxpciimcnriscomprobarumhabc-r£^^ bat,
alrcrumcdoccrcr, poftcrioni)us ramcnfacculis abAcfculapioKpidauriocognomcnro
apud (yrcnæos mcdicomiriricc ex ornara fuir, &: quafi cx rultica urbana,
concinna rcddira : quam tamcn omnino pcrHccrc is ncquaquam potuit, quippc
quiVolis morbolJs, ac languenribus opcram nauans id vnum fcmpc r curandi
ftudium habuir: fanorum curam aut vllam dsc ignorauit, aut eam prorfus
contempfir : quod poftca fucccfsorcs illi us inrclligcntC5 adco cxiftioucionc
dignam rcputarunc, vt medicmam fine hac Qijmnastua. A totam imiicam,
nulloqnemodopcrfcaam cflcpoflepcrrpexcnnr. D Arq. hi fucre primi Hcrodicus
Seiymbrianus, Hippocrarcs cius difcipulus,cjui curariuac morborum mcdicinæ
cofcruaroriam valerudinis paf rcm fcrc circa fana dunraxar corporc fatagcnrc
adderc uifi funr, arbirrantes non minus præclarum, arque artiificiofum opus
cfse fanos homines a morbispræcauerc, quam iJlos ia impliciros Iibcrare : vndc
medicina, quæ antca femper quafi virgofuerar,prægnansabillisrcddirafuir,
quandoquidem prius foliscurandisægrirudinibuSjtumfaniseriamconferuandispræfeda
ert:. An toram cam medicinæ partcm, quæ &:ad fanos, &c ad uiclus
rationemperrinct cxrabellulis, ahjsuc donaris, Æfculapij tcmplo dicatis
Hippocrates conflauerit: an vero folamincurandis morbis vcrfmrcm clinicem
uocaram, quemadmodum Varro, Strabo, atque Plinius credidifle uidcnrur, mihi
plane compcrrum non E eft:ni/iquodfuirmoslibcraros morbisin tcmplocius Dci,
quid auxihatum efscr,fcribere:]fqucaprimisillis rcmporibusvfquc ad Antonini
imperaroris acrarcm non modoin Græcia,uerum ctiam inltaliapcrdurauit: vri
pracccrcriscxrabella marmorca Romæ itiÆfcuIapijrcmpIoin
infuIaTibcrinainucnra,& vfqueadhanc diemapudMaphæos conferuara
inrclligcrel^cct, inquagræce hæcleguntur. S^ctKTuAovg i7rctico7S/3ri/^ct7vc:,
y^' xpcif rlvj^flpct, K^iTflSHvctfjHc iJiovg d^^^\uod^, op^ov iui,eM^i, Ji[Smov
^ctpi^Sivc, K^^v7X^pC/Le{^ov '611 n ro^sctj cipiTcu iyz^ovTO 'fhilS Ji/2ci KMj
i^^c^y chuoaia YWj-^^a^tqi^CTaf iuTCOcJzf ^uov . Sdnguwcm reuomtntt JulUno
deJfCTAto Abomnihushomimlt4S €x oraculo rejpondtt Dcus y n.^entrct ^ cx ara
caperct nuclcospt^ my comcdcreta;na cum melle per tres dics : conualuit ^ ^
rtuens ptibliccgrattas egit præfente populo. ajuxi^ oLAixfvovoc; \6iK0v utToi
/uiAtrz^;, Ko^^^vpiov aujb^fivaf, KSH^ f&t^ iuipa^ i7np^i(7af ^ 73
JfAi/3"Cf, j^j ivKA ^ W^aiv ShujoaicL m^ici . i J cft: qua i]uicum(|ue
occupabantur, ll^ domcllicos mui cs dilij^cntcr oblt riiabant, ac
profcqucbantur. fic ubui. Cratcri mcdici rcruus,rcfcrcntc Porphyrio^nouoquodam
morbo caprusfuit Jtautcarncs eius ab ollibus abfccdcrcnrrlic
tcmporibusnoftriscxfccranda illa gallica pacnc cxitialis lucsuniucrfas rcgiones
ucxarc cocpir : ut nullo pado illud, quod ucl podciiorum hominum culpa, uel torruna
auc Dco ira uolcnrc contigir, Hippocraci crimcn artcrrc dcbcar, a quo cum duac
iam pracdiclac mcdi j;cinacparrcsad lummampcrrcchoncinproucctacfucrint, diuinis
cius manibus immorralcs fcmpcr habcndac funt gratiac . Ampliusq. illud actcrnac
memoriac mandandum, quod ambac medicinacpaitcslicutidiueifac rc ucra
fiint,paritcruarianomina habucrunt, altcraquc 7r^o^,\ccKTPLH, (iuc vyt^ti^m,
altcra S%g^wriKH nuncuparafuit, uocabul.s quidcm his tum abopcrc, rumarccirci
quam ucrsdntur,acccpt;s, quac quouiam fapicnrcr, arquc ucrc dcpromptac tucrunt,
nullamumquam apud ullos mutarioncmfufccpcrunr: qucmadmodum ctiaui ufquc ail
pollcriora tcmporahacc inucrcrata pcrmanlit inrer inedicos coniucrudo, ur omncs
duas niedicinacparres prinuirias cfticianr,a!tcramcurariuam, alreram
confcruatiuam nuncupantcs, quas ob id communi incdicinac nominc plci umquc
comprehcndunr ; quoniam curatiua, quac primo C ob maiorcm ncceiriratcm inixnia
fuir, id nomcn adepta ell, quod confcruarjua quoquc ei poltrcino adumcla non
modo obrmuit, ucrumctiam apud nonnullcs tantam auctorirarem acquiliuir, ut
iudicaucrint hanc folam medicinam ucram appcllari debere:illam
inccrram,falfam,mcramuc hominum alios deciperc itudentiuiu impofluram
cxfiilerc, nempc quac nudis coniectuiis, infirmisq. argumcntis primo ad
cognolcendos morbos urarur : dcindc in co f crc omncsfbrtuira
remcdia,incogniraquc medicamenra,ur plurimumadhibeant,i^ dcmum ram in
iudicando,qi;;im in curando non raro fallantur, quos raincn in grauillimo crroi
c vcrfari faciilimc cognofccnr, quicumq. humanas calamirarcs, morborumq.
incommoditarcs, qualcs fbrcnr, ni curatrix medicina fuccurrcret » acquo animo
aclhinarc uoiucunr : ut non abfq. lumina rarionc iulianus impcrator hanc pro
mcdicislcgempromuigaflc uidcarur. Otfmnasiua, A 3 IHN ^»pu,mcty.iAiovoi^v, if
/2ovMb-nzm e^r^py,,uciTcv oi^oyXi^rHg vu^gcv roig XoiTTOic: ;^^ovotc s
abomnibuscurialibusminiltcrijsimmunesuiucre. ' c De confiruMkcicfmihus,c Galcno
crebro fcriprum reperitur, exercitationcs, tot atquc tanta ad uitam fanam
traducendam bona præftare, quot et quanta uix vlla alia medicinæ initrumcr i
præftant . Quod fi Hippocrates in lib. de Locis in hominc fcripfit
Gymnafticani,& medi cinam cotrarias efre,quoniam altera permutatione opus
habet,altera non de fola ea medicinæ part e fcrmone habmt, quac i n medendis
decumben tibus clinicc a pofterionbus yocata,folum uerfatur.Plato ctiam,atquc
Plutarchus q uando dixcrunc r K I Ai V s. 9 A r. nr cUiascflc c.u.i
corpuslu.inaniini vcrfuitcsaitc-s, nicdicinain, &: gymnafticani, non ob id,
qncmadniodum Era(iftratus 6c Scdtatorcs> illasfciunxcruncfcd communcm
hominum loqucndi vfum fccuti funr, qui, quoniam pollcrius i:\mnaftica mcdicina
inticnra, ciq. adncxa clt, cas diucrlas nulla alia rationc diiCti
dfiwicbanr.Cctcrum quid fithacc ars cxcrciratoria pymnaftica gracco nominc
nuncupara, ab cius dcfinitionc, fiuc dclcriprionc pcrcrc dcbcmus, quam crli
luculcntcr cxplicatam apud Piaroncm habcamus,a nullotamcnaho, quam a(^.aIcno
nortro cam 6^ brcuius, &:iucidm^s ^^^.^ dcclaratam crcdo, ubi iradixit:»
Tfc;^Kii y\Jiiy(tstKH Uut Intsni/M rn^iv -^i •TTiiTiyvyL^WTmJ^iti^fi^
hoccftgymnaiLic a cllquac omnium cxcrcitationumfaculrarcs nouit, aut porius,
gymnallicaarscflfcicnria potcntiacomniumcxcrcirationum. Qu )in loco
animaducrtcnB dum cft, Galcnum fcicntiam non propric, fcd cf>mmuni:cr, ut
plcrumquc auftorcs folcnt, acccpillc, proptcrca quod
gymnaUicacumprofincopushabcat, &:fcicntiac nullum opusconlidcrcnt,
nccclfario a vcra fcicntia cxcludirur i quamuis alioqui caulfas cxcrcitationis
virium facpilfimc contcmplctur : clt mlupcr animaducrtcndum, Galcnum hac
dcfinirionc gymnaflicam a pacdotribicadiltinxiifc, quoniam illa ramquam
impcratrix&: cxcrcitationum qualirarcsomncs, &:carum cauflasfpccularur,
impcratquc, hacc vcluri minillra ilhus cxliflit, pcrindc ac gymnalla crar, quiomnium
cxcrcirationum potcnriasprobcnofccbat, casqiiC, prourfanitaxi,&:
bonohabitui cxpcdirc iudicabat, diucrfis homi-nibusimpcrabat : pacdotri ba
ucro, qui cas, quomudv:» fi-^rc dcbcrcnt,*&:pofscnt, rcipfa
dcmonllrabar:arqi:c hoc acni':!maricc cxC plicauit I^olybus fiib his ucrbis:
TreuJ^oT^lRxi roU^J^tJ^iaKovciTretix^ ttffctok Kxri f^tiop, iJiK^uf JtKxlt^y
ifcrrcrrt. KMTTuy i^oc^up Bii^i^fz^cUy jc u. cariKiA/usxyKetliKr^^tsx: idcft:
Pacdotr bac h( c cui ccnt pracuancan (ccundum lcgcSjiniuriam fKcrc iuftc,dccipcrc
. furari,rapcrc, viminfcrrchoncftiflimc, &: turpiffimc. Nam ii quisluw
irorum, &: ahorum, quia pacdoiribiscdoccbanri:r,adtioncsacftimcr,
liquidoconfpicicr ualdcijsaflimilari, quac aPolybo fcripra funr, ficquc
gymnaftam, &: pacdorribam noii parum dilfiniilcs faifsc:vcrumramcn, cum
intcrdum unus vtriufquc munus implcrct, noii immcrirocxiftimaucrunt aliqui has
duas ancsunam, atqr.c candcm cfsc, uduti nonnumquamidcm&:miliris
lir.pcraroris oflicio pcrfungitur; arramcn (ialcnus cascfscdilbnCias voluit,dum
gymnafticam uocarircfpcituhabitoad folam cxcrcitationis quahrarcm ' « L i u E
R. litatumnotitiam, quæ opmtione ipfa nobilior cd; pacdotribi-D cam clici ob
aitum ipfum cxcrcendi, vtpote /gnobiliorcm contcndif, haud ahter ac ii
dixifscraltcram harum fpeculatiuam, acarbitram,&:iudiccm;altcram pradlicam
efse, quæ omnesinterdum vna gymnafticæ appellationc a matcria, circa quam
ucrfantur, utpnarmaccurica,fufccptauocarentur;ficutifpccuIatiua,&:praaica
mcdicinæpartes unoircdicinac nominefacpenumcroappellantur led quod ucrcficuti
dcclarauimus,eymnartica talis efse: gymnaflaq.&pacdotriba
difl-crrenr,AriIloteIis tcftimonio quoq. copra
Darelicef,(^nipnncipioquaniPoIiticoruhoc fcrip:u rehquit: eV fiftnir" ^ a
"r 'i"'^' P'''^us aliqd' pcrfcdc cxMunt vniuseftconfidcrarcquid cuiq.
conuenia: g^ncrSeu e^ cac ^ft '^P^^ omnibus.Etcnim hoc gymnaftitarcs opere
ipZdoc^"aricuandae^elSptim co^oo ifM "^ ci. Dixi huiusartirtX?/r^
'"'f^'^ pcrfeaam, qiltum? . oo tcft "r"".' ctKuiiutl.ancfciSfnV.bai^f'
"1"^ uerfanI Bfit 2(ifl liOQ iit nimi licoj niin, . II A iJCrfantiir
> circa quas gymnaftica mcdica,ut in fcqucntihiis fum cicmonftrarurns,
quando in iingulis cxcrcitarionum gcneribus cicclarandisquomv)do in vnaquaquc
gymnaltica locuin habucrint fcparatim planuni laciam: nihilominus magnopcrc
intcr fc
dilcrcpanr,caunaqucraliscliffcrcntiacnullaaliacx(i(litpractcrllncmfingu]arum,quoHncomncs
lacultatcs diftingui fcripfit AriftotclcsrNain ludorum hnis crat
rcligioquacdam,qua Anri(^ui opinabantur fcfc Di)S rcm gratam illis^Iudis tamquam.
promiflam fa^uros -crar quoquc populi uoluptas, cui maximc &c rcfpub.&:
Rcgcs, ac impcratorcs lUidcbant, quo homincs u )luptarc dcmul11 in ofticio
contincrcntur: undcludoiumcxcrcitatoribustantum
honorcmtributumcflbfcribitPhnius, ut, dum cos inircnt,fcmpcr aflurgi, ctiam ab
Scnatu, in morc cfl^ct, nccnon fcdcndi ius in J Bproximo Scnatui, atcjuc
uacario muncrum omnium ip(is, patribufcjuc &:auis patcrnis, quod tamcn
fcruis, quando illi (imilcs ludosinibant, conccfliimfui^rc minimc crcdo . I)c
his ucroludis quicumquc aliquid cognofccrc optaucrir,librum Onuphri j PanuiniA
croncnfishabcbit,qui omnium diligcntiflimcut cflipfcomnium facculi noari in
hiltorijs longc ucrfatiflimus, hanc matcriam tradau:t . Arhk tica lincm habuit
robur, ut illius ui pofifct athlcta aducr(aiium*fupcrarc,&:coronampracmiaqucpr)polita
confcqui: quamuisctiamapud Graccos,&:I.atinos nonnunquam arhlctac uocati
funt, tam illi qui in ludis, quam qui cxtra ludospracmij gratia ccrtabant, quos
omncs fub nominc uitiofnc i:yinna(ticac ( dcquainfcruisloqucmur ) Galcnus
complcxus cftV C:ac:crum qui gratia bclli cxcrcitationcs pracdiclis obibant, id
non ob aliud Cagcbant,ni(iquoagiIitarcm, ac pcritiam compararcnt, quibus
pollca,cuinopoitcbat,hoftcsin pugna uinccrc pollcnt : atqucliarum cxccitarionum
difciplina vfquc adco fcucra apud maiorcs
fcruabatur,utciusdo^torcsduplicibus,quod(cribit Vcgctius,rc-, muncrarcntur
annonis ; &:qui pr.rum inilla piofccia-ni militcs,iml profrumcnto hordcum
cogcrcntur acci^ crc, ncc antc cisin rriticoreddcrcturannona, cjuam fub pracfcntia
pracfccti rnbunorum, ucl print ipum cxpcrimcntis datis oftcndiflcnt fc omncs
militiac cxcrcitationcs complcflc . Kx quibus omnibus manilw flu ii cft
gymnafticamnollram a pracdictis dillcrcnicm clks^cidcolinnma
cumrationcanobisinilhus dcfinitionc politum fincmluilVc,qui
cftgratiafaniratistucndac,&:boni corporis habituscomparandi.
QiKjducrocxcrcirationum omnium trcs pracd^Cii fiiics,a quibus tria
gyninafticacgcncraortafunt,apuductcrcscxftncrint,atquc omnes
fn^inumpubIicæfeIicitatisfinemrcIatifint,abuncIe JeclaA rauitSoIonapud
Lucianumin Anacharfi cfia!ogo-qua una iJIius oratione,tota hacc fententia
noftra haberi rata mcrcrctur,nifi Platonis&alioruminfcriusexplicanda
teftimoniaacccderent. Degymnafiicæ fubieSIo y icd nonnullas iScpcrcurinas picrrini
ad cxcitandani lirini quaciitasefsc pdicat.ltaq. valdc hallucniatum fuifsc
Budacu puto, quinifuisad Pandcctas adnorationibus Komanosgymnafioru,&:
palacllracexcrLitamcnris minunc vfus, nulla flrma rarioncprobat. De gymfujis
Antiqu0rum. Cdp. Vl. '^'mnaltica.liuc cxcrcirarona in ccrtislocis Hcri
foliram^qin iupra Ibtumnisaarioni modo conlcntancum cll,quid,loca ipfa,&:
qualia lorcncplanu faccrc . Nam ioca illa nil aliud fuifscq gymnalia
nuncupata,cx mulris,&: pfcrrim cx vcrbis Galcni infccundo dc tu.va.fcriprismanifc
llo c6probaf,ubi narrat gymnaB llum fuilsc publicum in lcparara vrbis rcgionc
locum cxllrudum, in quo ungcbantur,tncabanfur,Iu(flabanf Tdifcum iadabant, aut
talc quippiamhiL^itabanr,q loca ira nuncupara fucrunt,qm cxcrciratorcs ibi, vt
pluriuu"i dcnudabantur.^^fo^flf^K^it^ jnim antiquifTima vox ctiamdcnudari
li^nihcarc vidctur,vndc Marnalis librotcrtio. 0}
iocfma£jUJiMmeithiCp4rte,recc.ie i /, mdos pjrce videre viros. EtBardcfcncsapud
Eufcbiu li.vj.dc pracparat.Euang.c.viij Craccos ait no poiuiflc vlla vi fidcru
prohibcn, quin i gymn afijs nudis cxcrccrcnf corporibus. Vc ru an ocs,&:
toti sepcr dcnud arcnf q fini ratis tm gra cxcrccrcnf no cft ita
copcrruifufpicor rn,Iu(ftarorcs, pugilcs^tq. alios qu(jsda potuiflc dcnudari
qucmadmodfi Athlctis in rfu crat,quos rni fubligacula pudcdis tcgcdis ra in
publicis, in C priuarisccrtaminibus habuiliccr ufq. ad Homcri tcpora,a quocoru
fit mctio,ojs r6dccoriscxigir,&: hilloria Orlippi ab Euftarhio, &:
Paufania relata,cui fubligacula dclapfauidoriadcpfcrunt.ut indc poft modu
indultr:,(ir ncc ca gcilarc ira accipicda cil ranc| non magnis,&:
impcdictib^ /cd paruis,&: nulli'unpcdimcri uri liccrct,quc inorc vfq. ad
fua tcpora Komac ^pduraflc fcribir raufanias. Ad h-ec qnq. fub nomine gymna/i;
omncm locu,vbi cxcrcerenf, coprehcnfum fuifserepcritur : lic ut poika hacc vox
ad alia quoq. traflata cft, qucadmodu apud Iolcp!i^'i vidcrc licct,qui in
libris dc bcllo ludaicobalneaaliqngymna/ia nucupata cfsc dcm61lrat,vbi dc
Hciodc ita loquif.Naq. apud Tripolim,&: Damafcum,&: Prolcmaidc publi
cas balncas,c] gjmnnfia ciKUiu,Ijil>Iidc aut cxhcdras porticus c6di dir.Hacc
loca a Virruuio,C clfo,Plinio,atqucalijs Larinac linguæ audtonbus palacftras
nucup.ai i inucniorVndc ct coijcio Vitrumj rcCymmfi!^ ^ jj peftate in Italia.vbl
raras admodu,veI nullas extiti/Te palæftras,/luc D gymnafia,qnquit]cis
libroarchitefluræ earumædificationcsfradiruruslralicæ conluetudinis
nofuifleprædicit.-Naqui primi gymnafiæxædificaflrc crt dunf,fucrunt
Græci,licrcdendum cft SoDaZt ^P Lucianu, et M. ^TuIIio Ciceroni,qui in fecundo
dc Oratorcfcribit.gymnafia deIcdationis,&:cxcrcitationisgratiaab ipfis
pnnuiminftituta fiiifTe. Intcr Cræcosautcmprimi cxftitcrfitLace dæmones,ficur
Athenacus ex Ippafifententia,&PIatoin Theact. Sc primo de Iegibusincmoriæprodiderur,quosctiain
illa ipfa omniumpræftantilfiina,atqucfpcciofiftimaconftruxiflccx MartialisU bro
I .intelligcre Iicct,vbi ho§ vcrfus habct. ^rgiuasgenetatus inter vrhes Thibas
larmine caiitft,aut Mycenas^ p ^ntclarami{l)udon,aHtlibidinofæt Ledæas
Lacedacmonispalæflras ^ QuovcroPhuoinCritia du Atlanticam
illai-egiadcfcribit.q^nouc milliu annoru mteruallo ab actatc fua ante floruifle
narrat,ibi gy mnafiæxftaOc fci-ibir,qui LacedæmonQinuctuillafacit, cxade di
fcerncre nequeo.nifi totaillaCritiæ narrationefabulosa credam*.
PoftLaccdacmoniosAthenienfcsquoq.fuagymnafia crexcrunr,in quoru vrbe tria
extitilfe tcftant Paufinias,&: Suidas,altcrfi «W»^/w vocatu,in quo Plato
philofophiam fua jpfefllis eft;alteru Avxwa^vbi Anftoteles cdocuit,q(f
Apollinis Lycij teplu fuiflc icgitur apud Lu In Anach. cianuiah erfi Kiwttgyis
ubi nothi,fpurij,ac ignobiliores oes excrccba tur.fi quidcapud Cræcos tanto
odio,tataqueinfamiaviles,acfpurij notabant,vt qui vcre lcgitimi.ac nobiles
efscnt,cfi ijs cofuetudinc,aut cocm fefc cxcrccdiIocuhabererecufarcr.Pr.actcr
hæctria F mctioncfacit aItcrius,quod Canopu uocat Philoftratus in vita Herodis
Attici.Dixi in vrbc Athenicnfium tria fuifsc gymnafia, quod hcet extra vrbcm
efsent,erantiiihaud longcacdificata,utqproxima efsct urbi, m ea fuifse dici potucrit.ln
his etenim mortuos quo que fcpeliendi confuctudincm Græcos habuifsc
fcriptfieftapud -i.Epift.ft Ciccronccui Scruiusfc Marcelluinterfcdum in
AcadcmiaAthem».epj;,. nienfiimobilnfimo totiusorbis gymnafio fcpeliuiflefcribit
Quæ 1^'' antiqmtatis totius pcritiflin-ius inuenifse fcribit in ue tt.gijs
Hadriam impcratoris Tibmtinæ viUæ rcpracfenrara.Athe
næu,Hcrn,cu,Pan.'ithenaicu, minime gymnafia, vbi corpora exercercnt, tu.fsc
puto:fcd loca,in cibus aut difciplinarfi. &c aliaru artiu ftudus opera dabatur,ucl
fefta aliqua celebr5.bantur.vt in Panathe naicofcfta Panathcnaica. Corinthum
quoque gyranafiu habuifse, Craneum vocatiim,auclor cft Lacrrius libro tcrrio.
eaadcm nulliim pcnc oppidum fuit ( iraccorum, quod gymnafium non habcrct, uf
Anachar/is diccrc folebat.Komani poftrcmiomniumgymnafiapalacftras vocata in
vrbcad Craccorumacmularioncm Varronc aurtorcacdificarc cocpcrunttquostamcn
cacrcros quofcumquc tum magnihccntia opcrum, tum inacftimabih pulchrirudinc in
hoc gcncrcanrccclTillc, cx illis I hcrmarum ruinis, quar ad hanc vfquc dicm non
finc omnium Ihiporc pcrdurantcs, conrpiciunrnr,facilc conuincirur . nc liicam
i!!ud ^ quod dc Ncronis gymnalio fcripdt Marriahs lib.vij^ Qnid \frone peius ^
Qitid Thcrmis mtlius ^ctom^jiis ^ atramcp anrc Kcronis quoquctcmporafuiflc
Komac gymnafia cx 1'Iauti Racchidibus, B cuiuslocum apponam infcrius,col!igcrc
hccr. Nam gvnmafia tora ahquando Thcrmas ob aquæ calidac vfum ibi frcqucntcm
nuncu piri,apud audorcs Latinaclinguacncmodubitat,ficutctiamintcrdum Thcrmac
fignificantcamgymnalij parrcm,in qua lauaban tur,ubi propnigcu,laconicu,calda
lauatiolitac crant,ut cxmulrisau ^torum tt ftimonijs pracfcrrim cx Mai tialis
vcrfibus nupcr ci tarisclarc pcrfpicitur.Ciymnafium^thcrmacftadiu cfthac partc.
His omnibu* po:c ft iam vnicuiquc pcrfuafum cflc, (juanrum in criorc vcrfatus
fit(inuitus farcor)Blondus loroliuicnfis conciuis mcu.squi in fccundo Komac
inftaurarac commcnrario rhcrmas folum ad la oandi vfus inftitutas tuiflc
lcriplic. Voiio nc quis forfan admirarionc capiarur,quod dixcrim PIatoncm,arquc
Ariftorclcm in gymnatijsphilofophari confucuiflc ;[circdcbct in huiufccmodi
locis vaC ria hominum gcncra conucnircfolita fuiflc,quacomnia in fcnucnti
capircanobis ligillarim dcmonftrabunrur.ranta c nimcrat huiufccmodi
locorumcapaciras,tamq. fpatiofa ampIitudo,vrabfquc ullo impcdimcto diucrfac, ac
fcrc iiinumcrac cxcrcitationcs, &: corporum&canim^^rum pcragi
pofscnr,qucadmodum cx Vitruuij allaradcfcriprionc pcrfpiccrc quiuis mcdiocrircr
Iiac in rcvcrfarus potcrit ; quam cum in rcbus plurimis diucrfim cx Odaui;
Panlagathi viri tcmpcftarc noftra fummi iudicio in prima
cdirioncrradidcrimus,nur ipfa diligcntiusconlidcrara (vt icmpcrcuracpoftcriorcs
cfse mcliorcsfolcnr)caftigatiorcm,&:omnibus Virruuij ucrbis cxaiXQ
corrcfpondcnrcm cxhibcmus.ad quod agcndum clariflim is Aloyfius Moccnicus,
Prancifci hlius, loanncs Vinccnrius Pincllus, Mclchior Guillandinus, uiri tum
ob acrc in cunvtis iudiciu, cum ub lingularcm cruditioncm apud omncs
fpcctatiifimi, nccnon B 2 Andreas Palladius prifcæ totiusarchiteduracpcntiifiiriusnon
pa D rum adiumciuo nobisfuerunt.ita utnon vcrear.quin hoc pado
do^is,Vitruuijquefc]entiacftudio/isprobatæucniat,&qucmadmodum ad hanc fcrc
diem palæftræ ratio fuit incognita, fic in pofterumclara,afquemanifcfta
futurafir,Immo vcro,fi Odlauiusipfcrcuiuifcerct,non dubitarc,uterat
homofanfliiftimus^arq. dodilTimus, quin ctiam ipfe huic defcriptioni, Sc
Vitruuij contcxtui non mutato.fcd in aliquibus tantum rælius ordinato
Jibentiflimefubfcriberet.Placuif autem duaseiusichnographiasproponcre,
quiaaudor &: cmadratas,& obJongas ficri pofse docet. De paUeHramm
ædifiuttone^fs' xyftis^ex VitruuioLib.V. Cap. XI Vnc mihi videtur ( ramerfinon
fint italicæ confuctudinis)paIacftrarumacdificationestradere explicate,&:
quemadmodu apud Græcos conftituaturmonftrare.lnpaIæftrispcriftyJia,quadrata.fiue
obJogaita funt facicnda,uti duorum ftadiorumliabcantambulationiscircuitioncm,
quod Graxi uocnmJ^uuajUv.cx quibustrespor .
^fif"I^'iccsdifponanrur,quartaqucquæad mendianas regioncs cft conuerfa
dupJex.ut cum tcmpcftates uento iac Junt, non
poftitafpergoinintcriorcmpartcmperuenire Conftituunturauicmintribusporricibus
cxhcdræ fpatiofænabentes lcdcs,in quibus pliilofophi, rhctorcs, reJiquique qui
ftudijs deJeftantur,lcdcnrcs d.fputare p*flint. Jn dupl.ci autcm porticum F
colloccnrur Jiaccmcmbra,Lphcbacum in mcdio (hocluuem eft
exhcdraamplil],macumfcdibus.quactcrtiaparteI6g^ lata ) lub dextro conccum,
dcinde proximc coniftcrium,a conifte nomvcrfuraporticus frigidalauatio, quam
Græci aovW: itafacla,ut in partibua, quac lucrint circa paricrcs, &c quac
crunt ad columnas,nurgmc&habcantuti lcmitasnon minuspcdum dcnum,mc diumq.
cxcauarum,un gradusbini (int in dcfccnfu fcfquipcdalia
marginibusadplanicicm,quac planiticslit ncminus lata pcdum du(K^ccim: Ita qui
ucftiti ambulaucrint circum in margmibus noa impcdictur ab cun^^tis fc
cxcrccntibiis. Haccaurcm porticusapud Graccc^ jyoii 'lociutur,quod athk
tacpcrhibcrna tcmpora jn tcdi$ rtadi js cxcrccniur. Proximc autcm xyllum, et
dupliccm porticum deilgncfnrtrhyp^icttirac ambuIationcs^qitasGracc/irtfi/ftf/j^i.
/flff^noftri xylb appcHanr,!n quas pcr hicmcm cx xy(h>fcrcno cuclo arhlcrac
prodcunrcs cxcrccnti:r.I-ac iunda aurcm xylta lic uidcn tur,ut lint intcr duas
porticus (iluæ, aui platanoncs, U in his pcriiciantur intcr arborcs ambulationcs,ibiquc
cx opcrc fignino lUrio ncs. Port xyllumautcm Ibdium ira fiuurafum,ut poflint
hominum copiac cum laxamcnto arhlctas ccrtantcs Ipcvflarc.Quac in ntocni
buincccflariaujdcbanturclfc.ui aptc djlpoiuntui,pcrkrjpil 21 tigura paJacltræ
cumpcnilylioqinidrato Occafus g a B s II a •[? 0• D • • 90 Orrus A Pcriftylium
in palæftra quadratum&: oblongum habcnsam-D . B Trcsporticusfimpliccs. C
Portiaisquartaad meridianas Cacli regiones conuerfa, quæ duplcx eft. D Excdrac
in tribus porticibus fpatiofæ,in quibus phiiofophi, rhctorcsdifputabant. E
Ephoebeum,ideft cxedra tertia partc longior quam lata. F Coriceum a parte
dextcra. G Conifterium. ^ H Frigidalauatio in verfura porticus. I Elacothefium
adfiniftram ephoebci. K Frigidarium. L Iter in propnigeum in verfura porticus.
E M Propnigeum. N Concamcratafudatiointrorfuseregione frigidarij ion^itudine
duplcx quam latitudinc habens ex vna parte Placo^ . 3 nicum QJxituseperiftylio
^ Exaltcra Ocalidam iauationem R Porticusextra palæftramprima exeuntiLus. S
Pm-ticusfecunda fpedansadfcptcntrionem duplcxamplifllma
iatitudinc&ftadiata. T Porticus tertiafimplexitafadauthabcar. V Margines
circa parietes. X Marginesadcolumnas. Z Mediuexcauatumuti
gradusbinifintindcfcenfufcfquipedali F « Hypethracambulationcs proximcxyftum,
&: duplicemporti-' cum,quacaLatinisxyfta,aGraccisiirt^;/f,^i^uocabantur. D
J>iluac ucl platanones intcr diftas duas porticus. y Stationes ex opcre
fignino. Stadium itafiguratumutpofsethominum copiaccumlaxamcn to athletas
cerrantes fpeaarc. % Locadequibusl etfinon meminerit Vitruuius^ fiufst tamen in
palæftrancccfse ut lignarium,iiquarium, uafarium, latriBtc naimihwum ctil«,
&: finailk. . Dt '^itrijs Imninum generibns, quæ itj gymtiaJiA comonebAnt.
Cap. VIL 25 metli. B Aiua, adcoquc varia hominum in gvinnarijs conucrfantium
crat multituao, vr,rcfcrcntc4nihifaf nBrtffn y pJtrijwfj. 7\0kercar, Et ficuti
ctiam Galcni tcilmionio comprobatur^qui Tl.cagcnis cuiufdamphilofophi Cynici in
Traiani gymnal'H)quoridicpublicc difputantismcntioncmfacit : Triacnim fuidc
Komnc h)caJii quiin in lib. bus lirtcrariac cxci citationcs obircntur, cx
varijs Ga!cni !il ris colibru C gnofcitur,tcniplum pacisantcquamconflagiarct,
gymralia publica, cW^fK. Intcr-quac fcholam mcdicorum appcllatam (iquis
rcccnicat mcafentcntiaa vcronon crrabit. fuit autcm ca iii hfquilijsacdificata,
multLsq. imat;inibus, atquc rriarm(>fitK>ncs, 5c aliaincdicinac
Itudioforum cxcrcijia liimlcquid trad.in folituin iiiiflcatquc nunc incollcgijs
vocatisfir, qiiandoficfcholam eiufmodi propnos rai>uUrios habuiife, oftcndit
marmor cnm hac infcnptionc Romæ ad D.Scbaftiani rcpcrium. M. LIVIO. CELSO.
TABVLARiO SCHOLÆ. MEDICOKVM M. L1 £ R M. LIVIVS. EVTYCHVS E ARCHIATROS.
OLL.D.I/. IN. FR. PED. IIIL Alterum genus crar,Adolcfcentcs,qui vr cxcr.
itationu obferuationes,atq. modos addifcerct,ad gymna/ia acccdcbar,vbi a
gymnallis ipfisquafcumq. cupiebatexcrcirationes, edocebarurj Adole/ceres hbcros
palæftra cdifcere folitos fuiiTc facile couincirur ex iJIis Par
InEunu-menonisapudTerenriiiverbis, quibusiileCherea fub formæunuchi Thaidi
oflfercs air,Fac periculumin lirferis,fac in palæftra,in muficis.q hbcru fcire
æquu eft adolefcentc,foJiertc dabo.id q^ cJa,, riusmfra
demoUrabo.Tertiugenuserat Athleræ qui ibi feexerccbar, vt in publicis Uidis,
fcu in facris certaminibuspoflent&populu dele(aarc,nccn6 vidoria ac præmijs
potiri.&: qj-hoc fuerit,prererVirruuijauaorirareSueronius clariilime
demonftrat du refcit E Ncronc qiiandoq. gymnafiu ingredi foIitu,vt cerrares
arhJcras fpectai ct.Quartu genus crat ocs iUi fiuc nobiJes,fiue ignobiJes, qui
ue! miliraris difciplinac,&: forrirudinis,veI tuedæfaniratis,&: boni
habituscopamndigratiavarijscxcrcitationugcncribusinciibcbanr de prionbus elt
locus apud Cafliodoru Jib.v.epift.2 ^ maJc a Pamclio m adnor. ad Tcrrulliani
lib. dc fpe«ft. inrelJeau, vbi ita fcribir Oflenriuucncsnoiha in bellis,qd in
gymnafio didiccre virturis.ln Inic' l.^n '^' poflumus, cum fcribat -.c. e anno
ætatis fu? tr gefimo quindlo pafllim fuifle luxarione fummi humcn,n
paJacflra.Quindtum genus erar corum.qui fricabaruX cer n.fndbones ficrcnr a mu
Jris ante rcJiquas cxcrcitationes,nihiJo^irr^smnln quoquc fine vJJa
excrcitatione feorfum ab aH;, ut dc C.alcnofridione
adexcrcitationcspracpaKuoriaareliqufs diftin S;;Hn^ bihorcs.Hoc tamen
intcrerat,qct diuitcs,arq. primarcs Jabra et co lymbuhras^prias in cellis
alioVjui comunibiis habcba ^bjf^^ ucrfis tcporibus lauabaru r, mulri crar qui
ct folia ucl J.enca vej ar gctcaCqd-rcctat PJinius) fecu ferrcr,nc pcdcs nudos
cXc S nJi viJifnmi qu.q. poncbanr, quauis ctia rcftranr nonnuJjXh-hnnm
Impcratorc lauan loJitu, vbi plcbs lauabatur quoT& -n^S cX fccifTc cribit
Sucronius. Qui vero duntaxatunge7cm?rnuJ^^ gymnafi;s rcpericbantur, quonu uej
cxcrcirationTn3l K^^^ grariaungcbanrur. Abhiipoftrcmoonin Cn^ res ( ne
nuniflros,dc quibusinfra loq«cmt,r nuncC, cam^ gymnafia conuena banr,qux non ob
^nliud, nifiarvidendos eTe^.;/: . tarores tatorcs ut porc otion,&: nuUis
ncgotijs occupati eo ncccdcbar.Qiio in loco id ctiam animaducrtcndum
ccfco,dicbus f clhiiis gymnalia ma-islixqucnt:U:ituiirc.qu;UKlc)artificcs,autaIi)sfcrmcijsdctcnti
otiantcs in illis ob rcmittcndos Iaborcs,&: uoluptatcm capiundam
ucrfabantur. An in Komanorum Thcrmis mulicrcs quoq. ucrlarci>
tur,qucmadmodumuiri,nil ccrti aftirimrc auiim,niiiquod Komana maicftatCillud
dcdccuilTc vidctur, tacilcq. ficri potcMt impu. rac aliquæ et (peaandi,&
ludcdi graria^quod luucnalis.&: Marnalis innuucpublice vcrfarcntur in
^ymnalijs, nccnon in locis lcparatis,quac ibi lauadis tcminis folis cxlli uc^la
cn"cnt,pcrindc ac in priua tis balncis honcftac mulicrcs lauarcntur tam
ignobilcs et mcdiocri loco natacqua illuftriorcs, cu dc l>oppaca Domiri j
Ncronis uxorc LU.c.4.1. referat Plinius, quod ad au^cndu cutis candorO
quingcntas aimas B tctasper omniafccum trahcbat, cV balncarum cnam foliototum ^
corpus illo la^c macerabat: quod intcllcxi t luucnalis dum lcriplit. .niir p
nguia Poppacana. Saty.^, Spirat et lr:cipit agmfciyitq. Hb laciefonetur
Troptcrc^uod/ecumcomiteseducitafelUs. in qucm dcalbandl corporis nfum ihas
mulicrcs farinam fiibaccam, alios ninum,aphroni trumuc in balncis vfurpatrc mc
minit Galenus. Atqui Spartanorum Primo dc mulicrcs una cum uiris in palacfiris
cxcrccri fc confucuillc, practcr aIio5,fatis
tcitatumfacitPropcrriushbrotcrtioMultatuæSpartemiramuriurapalæHræ Scdmaj^e
vir^inei tct bona^ym^afii^ Quod non infames txetcet lorpore ludos Jntcr
luilafjtrs nuda putllas uiros, Cumpii i ueloccs fjUu pcr braihia i^^l.iS^
Jncrepat et ve fnlauis ad tnca trocht, TkluerulChtaq. ad extrtmas fiat ftmina
mctas, Et patitur duro vulncrapancratio, 7\(^unc ligax ai cifium gaudentia
br,nhia loiis, MiiliUnunc dijcipondus in orbc rotat. Keq. deHoc Spartanoru
morequifquam minMi dcbct,quando&: Plato in quindo dc repub.grauiHimis
arj:un.cntKs probaiiir ad flli€cm rcrum publicarum ftarum maximopcrc
conduccrcfi mulicrcs tamiuuenes,quam fcniorc* una cum viris nudac in pahu
(Iris,atquc gymnafijs cxcrceantur, qucd an fapicnrcr dccrc. um f ucrit, ^ an ad
conrincnriam tcmpcrantiamnc ex confuctudinc conlequcndam,ut Platoni m animo
crat>confcrrci,uon dl iocus cxaminandi. ^"'m qui Augufti Cacfansacrace
floruir,folum pnlac % nrasgraccastradiaiflcexipfiusucrbisconftar, quando I'
nmidiim Rcrant, c}U;ispoftca cxftru^aas licuii in raulris Gniccorum gymnafijs
.'jsnircs fuiiic probabile cft,ita pai-irer veririiiiilc fit Romanos (, vc /olcf
cfse poltcriorum in cxcokndis rebus mos) plurafuis addidr(Tc\tj6jac ucl
Graccoslatuerant, vclparum ab illis acftimara fu( f>ti>;:tiUOcjixa pai
tes gymnailorum magis principalcs cxplicata ftts baudquafjwam folas a Vitruuio
fignificatas in mcdium afftram, fcd lihis ni.llo {ku^ ordinefcruato cnarrabo,
quai difpedlm ab Auaorilnis tF.uIiras inuenio, quasut rei ipdus rario
expoftulare uidcttirio Gruecis,æq, Uomanis palacftris extitiCe : quaquam
Vitruuij E au^icrjtasEim nunqua multifacicndam cxiftimaui.nempe quc
■na^ctJ^oiixcyov &i fua actate minimcæftimatum puto, quod enim ab Augufto
i.uliis egrcgijs l-abricis, niflfolis Baliftis pnicfectusfuerit,
quandofcilicetin vrbc &extra Hrbemmagnifica ædificia cxftrucbanti!r,quod
ctanfrFroferc-pofteriorcauaorc nominatus inucniatur,practcrqiia in capituni
Plinij libroru caralogo.qui ab aliquibus minimcPIuiianus,ucI fattcm
adulrcratusputatur,magnam certe ip Ijuscxiftirnationisfufpicioncm meritGparir.
Ergoprimac symnaliorupartcsfucruntporticusexcdris fiuc cubilibus apcrtisplenæ
inquibusphilofopiu.&ihctorcs.mathcmatici, et omnis dcniq
dilciplinarumamarores difputando,lcgendo,ac doccdo cxcrcc-bantunatq. has non
longc ab alijs admodum litas fuifsc conijccrc poflumus tum cxipfa figura,tum
cxproucrbio indc nato(Difcfi quam F philolophu audire malut^quod in cos
diccbatur, qui in codc aym nafio intcr philofophos fcdcntes.atq. inde difcoru
crcpirus audicntcsrcliita fapictiac fchola ad proximum ccrtaminum locum
(rumpebanr.ln cxedris philofophorum adolefccntcs arq. pucros illos a difciplinarum
ftud ijs opcra nauabant, vcrfaros cfsc rarioni confcntancum cft: quod
cfsentillac ucluti icholæ quacda.ubi pofscnt fæillimc poft animoru
exercirationcs corpora ad fanirate, uel fortira
dincmiuiK:nes&pucricxcrcere/ubindcci.lauari.cmtcr»imLa.fflpridi.jauetorrras.
AlexandruSeucru poft Icaionemope raml^ pahuitrac modo fphacnftirio.modo
curfni.mocto lemL ludTs dcdiircmoxbalncummtromifse . JntCKhasadnnmerocmJ mcdl
corv.m /choIas.Secunda parscrar Ephcbaccm, quo mih. vJdfi^c apparet cos
conuemrc.atq. dcpracrt,ij^ ^ c^icrccd. gcncrc padio! ncs : 29A nes facerc
(oVxtos, qiii hiTiLiI cxcrcn-i, ac ccrtare uolcbant : qiiamquamfciam Philandrum
cius opinionis fuiOc, quod iu hphcbaco pubcrcs cxcrccrcnf. qua in rc ipfum
ualdc mchus fcnliflc cxiftnno, quam Guliclmum Chouhim, qui in fuo dc antiquoru
cxcrciratio^ nibusUbro in Ephcbaco iuucncs ftudcndi gratia lcdillc lcriptis
madauit. Vtrum ucro apud Romanos,qui cum uiris antc dccununi
fextumannumpucroscommcrcium uHum habercuctabant, hoc ucru tucrit affirmarc
noaudercm . Ncq. itcm ncgarc poiUnnus,GaLi.dc i.c. lcni tcmporc. pucros
cxcrccri in palaclba confucuiflc, curs
cumfP^^^'damacgritudinis,quamCommoduspucr,atq.lmpcratoristiHu$in
palacflraacquiliucrat, mennoncmfaciari Sipracrcrcainfccudo dc tu.ua.lic
icribat: oCn Kxiou^ ivporis moribus ita loquitur. l^tgo tihi cjims yigimi
fui\}c prtmn cop am DiiitHm longc a pdtd^ipio pc.iim vt effcrres ex acdibus
^ntc folcm cxoruntt m mjt in pMdcliram vcncras Cymnafii Tracfccty haud mcdiQcns
pocnas pcndcrcs : Idq. vbi obtigcrat, hoc ctum ad malnm arccjfcb.itur malum Et
dilcipulus, magislcr pcrhtbebantur imprubi. Jbi curfu, luctando, hajia, difco.
pugiUtn, pila Salicndo fc exencbant maps, q ^am icorto, aut fauifs, C
Vndcmihicoijcicndu uidctur pucrissumo mancpalacftraadcudi pracccptu fuiflc,ut
uiroru,qui tuc noadcrat,c6mcrciu uitarat,atq.
cthttcraruftudijsiucubcndioMumfupcrcirct.etcnim non dcfuifl^i-, qui pucros
nudos uidcrc,&: ncfandum coru amorcm libi conciliarc cx palæftns
ftudcrcnt,facilc cx ainatorio Pkirarchi iib.colligitur. habcturautcxcitatoPlautiloco
gymnadapublica Romac cc fuilfc antc
Ncroni5principatu,licut&:cxCatullo,acalijs.Tcrfiaparscrat Coriccu,qui
locus(ut mca fcrt fnia),p dcnudadis hominibus,^ ucl cxerccnaicl lauari,ucl ut
ruquc agcrc uolcbant,infcruicbat,alias a Graccis iTroJ^urift^.Sc a Calcno
yvtJHfccsHgiOP uocatus.Nili cnim Coriceuapud
Vitruuiumtalcmloculii^niHcatpalacllrasabipfo dcfcriptas abfq. hac parte omniu
maximc ncccfsaria cxtitifsc diccnduin
cf5Ct,quanonfoluminpublicisgymna(ijs,ucructiaminpriuatisaf^.^^^ tUifsc crcdo,fiquidcmPliniusCacciliusindcfcriptionibusuillac
fuac Laurctinæ ac Tiifcoru apodyteriCinteralia adnumerafrunde D illoru
fcntcrias jpbarc ncquco.qui Coryceu in Vitruui; textu legcdu putarfita
corycopilæfpecic,quafiibi ludui talis agcrefaut cou riceii pro tortrina, aut
corycefi tam^in eopueIIe,&: virgines««f«//« Græcis uocatac
exerccrentur.Quarta parserateleothcfium a lulio cpi. Pollucc
«AujrT/IfMc^aCæcilio Plinio unauarium uocatum, atq. in ifto ludaturi, &c
alias exercirationes, uel balneas inituri ungebantur,redungebanrurq.
Sed,quoniaopportunirasrci poftulare videtur,ut dc hoc gymnaftico vngcdi munere
ucrba facia, neq. Metrodori Scepiij 'sngt T«j«At/7rT««{.ideft,de ungcndi
rationc ciratus ab Arhcnæo Iibcr hodie extar,quatuor cgo dica:primij,quado, et
qui ungerenrur: fecundu,quæ cfscr undionis materia:rertiu,cuius finis gratia
ungcrcntur: quarrum.quo modo, &: a quibus undio adminiftrarerur.
llliquivclloturiuelfefecxcrciraturi in gymnafiuucnicbar,maiori
exparrefpoliabaturin apodyrerio:poftea horu nonulli, &: præfertim qui uel
lucla, vcl pacrarium inire intcndcbat, (na pugiIatorcs,curforcs5ac alij multi
undione no egebant) alipteriu
ingredientesungebatur,atq.iraunaiadIocu,ubierarpuIuis,dequo loquar mfcrius,
trafcunres pulucrc cofpcrgcbantur, ficq. dcinceps m cxcrcitationes diucrfas
diucrfi prodibat^poftqufi ucro fele,qnantum Iibuerar,excrcuifscnr,itcruad
undUianiireucrrcnrcs ibi a Mediaftinis,& Reundoribus ftrigilibusferrcis,de
quibus Martialis, Tergamus basmfii curuo difling^mre ferro, T^ontam fæfe toet
lit.tea fitUotibi, detergcbantur, in qua dererfione olcum, puluis,& fudor,
quæ de radcbanrur.fimul mixtain ufum mcdicum adfcruabarur, &:ab At!:h4ci
^'i^ aba!ijsueroWTtffuocabarur, urcxDiofcoridcPliF ii.defim.
nio,Gakno,&:AcriofaciIliiueconfirmaripotcft: ramerfi Auiccnme.8..& 4 na
libr&-fccundo faciat mctionem eriam fudoris ficci arhlerarum Tib"; et
quemputofmfscillum, cui nequcoleum,ncqucpuluisincrat ^,o 3 fim. quamuis Galcni
acrarc ftrigilcs adhiberenrur ad balnci vfum ni jT' c. 17. ^'''S''" Plerumquc
fponeiac crant, uel linci, nequccommunitcr fempcradminiltrabantiTr.fcd quifq
propriumfecum gerebar,& pracfcrrim quicumquc communii cum alijs mihumenra
habcre f ugicbar, vr infinuar Pcrfius Sar.v lp»er,7i,ur
corporaforriorarcddcrcntur.De Hcrculc nanu|uc,& Antco fcrauncm faciens ait,
^uxillum mrmbtis calidas infunditarenas, Plurarchus in libcllodcprimofrigido
huius fcnrentiæfu ifseuidc tur,quod athlcrac in uni^iionibus puluerc urcren tur
ru ad rcfrigera da calcfaifta corpora,rum ad cohibcndum fudorc,nc ranropcre
dclafsarcnrur. Egoaut cum Lucianocxiftimopotillimuufumpulucris cxflirifse, ne
olco manus labcrcntur, fcd facilius cxcrciratorcs fcfc comprchcndcrc ual
crcr,neue fudore difflucrcnt, aur ucnri corpora apcrta ingrcdercnrur. atq. hac
dc caufsa a Marrialc puluis ilk icfi uocarusfuir,ut ibi(flaucfc]t aphc)undc fi
qui aducrfariospcructos, &:lincpulucrc cerranrcs uinccbanr, maiori gloria
digni habcban^ tur,qualis fuir apud Plinium Dioxippus,&: Diorcus apud
Paufaniamjacxtfw/nomenpromcrirus. cuiusrci menrioncm fecit Horatirvira,\d
Macccnarcm fcribcns. Ul^.x.cfiJ Quis circum p^^go^, et circum ccmpita pugna x.
Magna coroniri conumnat olympia, cui fpes, Cui fit cond tio duli is fire
pulucrc pahuæ Ex quo fatis mirari ncquco Budacu,uiru fane doaifnmu, q I fuis ad
Padcdasadnorationib. hoc nouidcrir^malucrirq.flfWm.i.aWflr^^ii wc> (cu finc
ccrtaminc limplicircr diHu cfsc qq, &: hoc quoquc non abnuo inrcrdu aliquos
cfsc coronaros (inc certaminc, ucl qd* aducr fariusrcmporeconftiruto non
comparuifsct, ucl,quod ob robur, &:uinccndi confucrudincm a cuncris
uitarcrur, cuiufmodi fuilsc complurcs Paufanias, Diodorus, Hcliodoru#s
atqucSuidascommcmorant ««ic^wti proprcrca nominatos. Alijfunr,quicrcdantoIco
Oymn^O^ca^ C cxcrci34 ( dc vii. cxerciratoresunftoi ad arcedafrigora.&leuandasIaffifudincs.GaD
lenusfentit oleum ram ad exoluenda ptcrita lafTirudincm, &: futura
niitiganda.quam ad pparandum ad morus conduxinc. quibus cera addita cum GaJeno
opinor,quo oleum aIio u'i^'tuariu,&: couiftcrium cxpJicauimus: nuc ccrcras
partiin ab codc prcnnifsas,6i: ab alijs indicatas, parrim ab ipfomct cxplicaras
prorcqucmur. hrar iraq. fcxra pars lo cus quida palacllra uocari:s,ubi (Jiccbat
I.ydus illc PIai:ti^) curfu, ludado,halla,difc(),p yilaru,piia,(aIicdo fc
cNcri.cbar magis,qfcor ro,aut lauijs, 6:ubi k ribir Gal.hascxcrcirarioncspcragi
folitas luda,pui;ilacij,appcn(ionc manib.ad runcs,cxcrcitarionc,qua ftabant
pcdib. 6c manib. in pugnu uinCtis,casq. alrcri apcricndas porrigcbat,qua podcra
manib, aftollcbant,6L ua pciiiftcbanr,c}igcnus haltcres uocarucft,fchiamachia,&:armoru
pugna:( »alcno ucro afscnricns Oribalius Pcrgamcnus fafsus clk no modo has, fcd
&: alias fcxccnras fuifsc palacllrac cxcrcirarioncs. \'ndcanimaducrrcndu
cft, palacftia apud urriufq. linguac auvflorcs nuilta (ignihcarcprimo ro ruipsii
gymnalifi,ut cituidcrcpencs Virruuiu;fc(to,locuquccumq. cxcrccdis corporib.
idonc u, quopaclo locu uscft ( jceroin f.pift. tcrrij li.ad QJ .prima, &:
2.dc lcgibus,du uilia (iia Arpinatc de (c ribcns,palacftram ibi nominat,nccnon
\'irgiliusquinclo Acncidos, Td'S in^^am nns exerctt t ttumbra pulac/ttis^
&c Gcta apud Tcrcriu in Phormioncubi dixir, Ecc fi a iua palacftra
cxittbras.Tcrtioccitagymnalij paricin qua cxfnia Plauri,Ga!cnr, 6c Oibalij tot
cxcrcirationcs facbs pracdiximus,&: cuiusparu tum fordcscollcihas in panno
applicatas furunculosmarurarcfcripfcC
runrPlinius,&:T!icodorusPrilci.Hni*^'. iniUM f!VMi:h\ arionc accc^ifse
Catullum puro,ubi dixit. Abero foro, palntsira, flddio, et ^^vm asi^s ^ Mtfer
ah rr^ijvr . et Atranius lCi ibcns. Efcam '•epelUs tf i'ri mannw pei pj!j(
lincos, idcft, Palacftrac ufum (ut air Nonius) callcntcs. Quod auca Palacftrac
nuiris^llatui^^atqicolunis ftrigiiKnCi quacda a pulucrc,&: lucianriu
corporu concictu il)i f •utac abradcrcnrur, &:in uarios
mcdicinacufusfcruarcntur,abiidc tcftati funt Diofcuri dcSjPlini^ &: Gal.q
ftrignicnra quadoq; a Judoru m^^ilb arib. ortin gc:is icftcnijsucdira fiiifsc
irudir Plini^ Inucnioquoq.cxcrcirario j;c* ipsapalacftraru intcrdu palacllra
uocari,rdinarc,&: vcniiltc f'actvsinciapnoi;n;ci4Urlligc rc.iMs^c
;ui^ttorir.uc Lucilij*, cm'^hic ucrs"'' l/cyif .ipud Porphyriouc, iiiUuis
iioitt/sji cll uuiurn tcffi n^ij j lfli\i, ucciujn Plato iu Cliarinic^t C 2 pro
In Bacchi dibus. 2 cue. Udl. C2p. $ 6. coUc c, 14Dc Berecinchi .a ) li. i.c.
ii.T ^Cwcx. incd. Ii.i.dcle glliUS. li. i\c claris Orat. i 3« fto"^?* pi^o
Taurcipalænra locu{Tgnificauir,quo uiri doaiad colIoqucii-T) '^** dum
difputanduiTiq.conucniebanr. Ad hæc Plutarchus in /ecudo fympos.palæftra
uocarufcribit locu,ubi athletac cxerccrentiir, &: in quo lolu luda,&:
pancratiu non curfus, non pugilatus agerenrur. queadmodu,&: Gal. quandoq.
palæftra nuncupauit, ubi athletac f folum,&: craffitudini corporis
ftudenres exerccretur, quo padto accipiedureorapudHipp.quuinprincipio primi
Epid.narrat tubercula ijs efse oborta^qui in palæftra,&: gymnafijs
exercebanrur.For ml\lp^9 dubirauit aliq uis,an in palac ftra hac puhiis ftrarus
efsef, qm Gal.ipfam a loco,ubi puluis crat/'«fAA> dcquoqjacilc conijcitur m
fphac: illirio ncdu pilacludos,ucrum 51 ctiam alias excrcitationcs ficri
confucuifle, quado et in ipfo.Vcfpafianus fauces,ccrcraq. mcmbra(ut tradit
Suctonius)(ibimct adnu>• mt rum dcfricabat. C):taua pars fucrunt uiac
illac,quæ inrer porcicus,ac muros,ur cgo puio, litac crant,ab omnibus
acdificijs nudac, necnontotapcrillybjareaquac&: ad
fubminiftradamporricibus, ac ccllis lucc fadac erant,&: ad fpatiandum,
aliasvc cxcrcirationcs obcundas, quac ncc in palacllra, ncc in alro pulu^rc,
ncc in xyllis. ^ alijsuc locis ficri poilcnt.Has locum coculcatum paulloante cx
Ga Icno a nobis nominarum fuiflcopinv^r ira uocatas,quod nullis lapidibus,
latcnbu.vuc ftratac,fcd rudcs&iaciuato tantumfolo forcnt. In his curlum
fach'i cxillimo,atquc ad id :um diauli, tum dolichi, a quibus dolichodromi, 6c
diaulodromi lormas, atquc tcrminos ibi conltituros, tameriiapud Vi:ruuu'i nil
aliud lucrir diauIos,quampe r\'ftilioru quadratcrum circunurio duubus lladijs
dcfinita. In ipiis ctiam faltus,&: difci cxcrcitarioncs, quas palacllrac
ncijauit Galcnus(ut mea fcrt fcntcntia)intcrdum habcbantur. Nona pars crant
xyfti,&:xyfta,na vrraq.apud L'raccos& Larinosnr) parum difcriminis
obrinenr, fi quidcm \yftv>i> hi uocat porticus tcCtas ubi athlctac ^ pcr
hiemem &: acftarc,tcmporc ludationibus alicno cxcrccbantur: xyfta
autcmfubdialcs ambulationcs,ubi hicmc tcinpcftatc lcnic porticu
prodcunrcs,&: acltatc fcrc fcmpcr cxcrccbantur, ac ambulabanti atquc has
wif i/f ofti/tff a draccis n(>minatasfcribir Vjrruuius,quac
dupliccscraiit,aiiacnudac, a]iacplatanisalijsucarboribusconlitacad
pracftanduamocnirarcm,atq. illis,qi.i a folcoHcndcbanrur,umbram.dchis
loquebatur Miniu.s,dum pl aran(js ArhcM> xx. nisin
Acadcmiacambularionccclcbratas fuillc /cribir:i)cijfdcm
quoq.Miniusfccunduskrmoncm habuit qiiando in dcpinycndisi.rOean 1 ufcisac
Laurcntinauillisfuisxyftostotics dccantar.Ncc ahum lo cum inrcllcxir ifchomacus
apud Xcnophonrcm, quandvj ambiilationcminxyftofadam noniinauit,(icuti ncc
Phacdius apudPlatoncm, ubi cx Acumcnifcnrcnria fahjLrioiumfacirambularionc
inuijs,quam in curlibus (ub hi(cc ucrl)islti#r,frigidarium,rcpidarium,fuda.
^^QJ tioncm calidam,&: calidd lauarioncm : Qu,ic ucro balncis
infcruicbancfu.-runi hypocauftu:n,aquariuai,iSido vapore, Ctuda yirgine,
Menijq.mirgi. Scio quoque nonnullos, quod laconicum rorundum,ac ueluti
turricula in hcmifphacrium camcrata forct, idcm ctm Iphacrillirioi
nobisfupcrius cxplicatocffccifsc.quibus plane .-ifscntiri ncqueo. qiioniam
mihijrrationabile videtur,utin loco calido fudatfonibus D vE ift li
atci;aliasexcrcitariones,quasinrphacriftirio "^' •
''ficric6fueuiflctraditPIinius, exerccrct: fuirsctnamq. (uteftinpro^
uerbio)camino oleu addere, fi excrcitationesper fc corpora ualdc calefacientes
in calidillimis locis cgifscnt.De laconico pofsunt ucr
baluuenal,intc:hgi,fiucrfusita rcftituatun quidquid dixcrintali;: QuiLacedarmotiium
proptyfmate h.bricat orbem: namraxatquendaqd^inLaconici foliocopiofc cxfpucdo
efficcret, quo minus in ipfo pcdes ambulantiu firmari uak rcnr.Poft
Laconicufequebaturccllacalida labris aquæcotincndacpofitisrcferra. in qua
qt^apud Alcxim fuifsc balncoruin partcm, nullo modo probarc ualco : cum idc
alias ipfum intcr ^vmnafiorumpartcsadnumcraucrif.nifiuchmuspcncsAnriquojitAWi?
F fignificafsc totum gymnafium ipfum . Atquc hacc fL.lIi:ianr cc
pubhcorumingymnalijs balncorumpartibus. Fucrunr&iinnumcra fcre priuatoru balnea,
quac, &c aliquibus cx pracdidis partibus caruifse,&:alias habuifse
uenllmilc cft;;cd dc huiufmodi non cft mftituti noftri ucrba facerc . Quæ autcm
loca non cfscnt in tra balncas. fcd ipfis
tantuminferuircnt,primohypocauftumconrincbat,quod fccundum Vitruuij
dcfcripiionccratfornaxfcu caminataftrudura fubterranea calidario,calidac
lauationi,atquc uafario fuppollta, iii qua ad calcfacicndu tum aqua,tu prædida
loca ignis fucccndcbatur, ^ ne exftingucrctur a fcruis fornacatori bus ob id in
Pandcvilis a Papiniano uocatis,frequenter cum pihs,& glomis picc iUitis
cxcitabatur,de Iignis autc in hunc ufum adhibitis narrat PIu tarchus x prob.li
b.ijj.fympof.ædiles cauifse,ne ignis balncarum cx olea fudcenderrtur neq. in
cum conijccrmir lolium, quod horum nidorcs araucdincmcapiris,
6^vcrtigincslauantibusinuclKinrpracdicU^ pilarumapud
Virruuiumlib.v.cap.x.mcntioclara habcrur,ubi do^^
cctfolumcaldariorumitaftcrnendum cfTc inclinatum ad h> pocau fim,vti pila
cum mitratur non poflit inrro rcfillcrc, fcd rurfus rcdirc ad pracfurnium^atq.fic
facilius flamma pcruagari.fub fufpcniionc. Dc his loqucbatur Statius in
dcfcriptionc balncorum Etrufci. Crcpantis i^uditura piUs, ubi hniuidus igms
imrrat ^4€dibus, et tenuem ^oluunt hypocaufia uaporcm^ Vndc cuiuis manifcrtum
cflc potcft j n quam graui errore ucrfentur
ilii,quiHypocauftum,&:Laconicuidcm fuiflccrcdidcrunr. Auftor ert Scncca
iij.nar.quacft.cap.xxiiij.ncc no epift.xc}.;tcmpcftatc fua inucntos eflc
paricribus imprcflbs tubos, pcr quos circumfundcrcturcalor,qi'iima(imul, &:
fummafoucrctacqualitcr: illumucrocalorcm immitri confucuiflc cx Hypocaufto,«d a
lurifconfultis mcmo riac mandatum cft,&: ab Aufonio in MofcIIa fic
cxprcflUm: Quid quacfulfurcafubnru^a crepidinc fumant Bjlnedyferncnti cum
Mulcibcr haullns opcrto rduit auhcht^s tcctoria prr ca:u fijmmas,
Inclufumglomnans acfiuixpifante uaporem. Horum autc tuborum veftigia adhuc
quamplurima Romæ confpi ciunrurin DiocIctiani^atq.Caracallac gymnafijs .
Antchypocauftum via quacda crat propnigcu, quah dixcris pracfurniu a Virruuio uocata.Aquariu
cclla crat calidac Iauationi,arq. calidario ad^ ncxa,inquaalucus
magnusacdificaruscraradcontmcndaaquacx " aquacduLtibus,
autaliundcinucc^am, arq.indcmfrigidamIauatio nc,iS:calidapcrfiftuIascorriuanda.
Nonlongcabhocfirum fuitva (arium,vbi vafa confcruabantur balncoru fcruitijs
ncccfl"aria,&: vbi aqua pro ipfis calcf^cbat.dc hoc ita rradidir
Vitruuuis:Alicnca vafa nb.j « fupra hypocauftum tria copofita fuifTc,u!uim
calidarium, alrcrum tcpidarium,tcrtium frigidarium,&: ita c()llocata,uti cx
tcpidarioia calidarium,quatumaquaccalidxcxilfcr,influcrct,dc frigidaiioin
tcpidarium ad cundc modum. l)c acrc balncoru m,qui cxtrinfccus
admitrcbarur,(vrVirruuiusinnuit)caincaliciiflimolocoaucrfo a ^^^, Scptcmtrionc
&: Aquilonc fita crant, tum caldaria arquc tcpi daria Cap.io. ab occidcntc
hibcrno lumcn habcbar.Quod Oribafium fignificaflc puto, ubi cx Galcni fcntenria
Architcftos optimos balncorum domos ad oftauam horam vcrfas conftruxiflc
fcribir.Sin autcm natura loci impcdiuifser,utiq. a mcridic,lumcn ucroita
capicbatur, ut in mcdio camerdc forame laturclinqueremr^fubquolabrum exftruc D
baturxirca labru eratfpatioljquiclamargines,aurporticus,a Vitru uiofcolæ
uocati,in ^. ftatu a Seneca, &: l^lurarcho auftoribus i rauillimis fcriptu
re} erio, antiqiiioresmoIlibus,acmoderate calidis balneis ufos, ita ut Alex. in
lauacro et febrics,Galataruq. mulieres puJtis ollas in balnea fere tes
unacupuerislauarctur,&: maducaret; ateoru fcpeftare maxime calidas in
pretio habiras f uilsc, adeo q. tarint> qualis Tucca a Martialc fub his
vcrfibus dcrifus. 7s(ow fdice duro,flru^ili ve cæmento^
7iiuucnrusRomanæxercclxit«rJybcriprop|nquuc^ftirucriV^^ ne longius ad
dcponcndas mrrr cxcrxendifm c*)jirTaar;rs(tirdcs jrc Lih.i. dA
cogercnrur,qucadipodum fcnbir Vcgctius:ira,poftqgyninafia ob rc iiiiiit.
cxcrcirationes1nftitutarucrunf;:ic(^ij^lim adrriundandacorporaconftrucrc.Abhoc
autcufu ctiamfcmcl tanrumin dic coenandi,&:in Itraris du cocnarcnt
accumbcndi, ut infcrius copiofc demonftrabo,con{ucrudo inrrodudra
fuir.Poftcriori rcmpoic maiorcmhominum partcm balncis ob dclicias, arquc
molhricm ufam efleclai-ecoa(l.it',& pracfcrtim tcpidisquibas cxficatas, Sc
ab cxcratationibus, Vdfolcvcl Frigorc aracrcscorponspartcsattemperabant.Ncc
folu dulcibus aquis,fcd 6c mcdicatis ob dchcias yfos homincs tcltatur Galcnus
in principio tcrti/ dc medicamcntis localibus.Jialneisaliquosvti
confucuiikMpiod non poflcnt .ncquc fcrrcnrciboscapcrcnili loti.auciorcil
Plutarchus.qui T.tumlmpc ratoreiuic dc
cauirainrcri)tl"c,cxrclationibuscoru,qui acgrotanti tu. va. miniftrarinK,prodidit.Ouod
ct qui inualidum ad concoqucndasci bosvcntriculQ habcbant.cius corroborandi,
&:cibos conficicndi cratialauarcntur,aPolidoniomcd»corclatumcft,vtnorcmcrc
I li „p. nius in medicos inucctus lit, quod pcrfualiflcnr balncis ardcntibus
u.i^.c. i cibos in corporibus coqui,a quibus ncmo no minus ualidus cxn ct,
obcdicntiilimi ucro ctlcrrcntur.Summatim ob quatuorciufas balB ncain
vfuexftirilVcfcribit Clcmcns AIcxandrinu.MlM^afwWojm x^fKt^««
vocarunt.Cahdis&tcpidis ad conciliandum Li.j.pnefomnu;lngida Luubant,&:
ob vohiptatc,&: ut robulVorcs rcddcrcd^i.ci,. tur,calorq. naturalis intro
repuUus maior cuadcrctiidcoq. krc poft calidas balineas ca adhibcbat.quc vfum
primos ouim Huphorbuin lubacrcgi$,&;Antonium.\Iulam.Auguftimcdicos,rratrcs,yK')ftralfcrcfcrtPlinius
lib.xxv.c.vij.Channis quoq. mcdicus Malhlicnlis, damnato calidoi um balncorum
vfu, hibcrno t pc ct frigida lauari hortabaf,atquc in lacus ægros mcrgebat,qua
dc rc cxtat .Scnccie adllipulatio,;(cfc pfychr )lu r: u')C.ari.s.ptcri";qd
ct( vtrclcruntPhC nius,&; Agathinusapud ()ribali&)ad jprogada vita,
multaq.alia pftada.fi igida lauationc cofcrre opinati sut; hæc.n. dc (cipfo
rctcrt « 4. Agathinus. Equidc racpcnumcroa cacna cuacgrcin foinuu dclabor.pp
acftum,in trigidam dcfccndcrc coiucur. &C mirabilc cft qua iuciidam noacm
tra^iiligaiu.Qu.i balncasingrcdicbanrurpublicas,^ ancc dccimum quartum annum
niiiil foluillc.tcftatur luuciuhs., T>{ec pActt criJiu.t,nl's . Sjt », Alij
quadrantcmbalncatori dabant.&ol) id baincu rcmquadrautariam uocauit Scnec.i,dc
quo riacci; . Dum tn qHadrantclau.itum l^cx ibis. ->t. 6.
Cacdt:reSiluanop9*cim,q'adrantelauaii. Qucritur tn .Martialis.quod
plurisiibibalnca coftarcntubi fcribir, LiVio. jSulrKapuJtdtcimaiiilajjo
ficniHmqucpdutitHr, Qudirantts. Q^od forfan uel ob diuturniorcm moram.vel
alrerius rei graria, &: ipcontingerepoterar. Sar eft,quadrantem coe pretium
fuifse:quin et Antoninum Pium balneum finc merccde po pulo coftuuirre, tradit
lulius CapitoIinus,& Athenæus viij.dipnos. lcribitapud Phafelitasfuifse
legem.utpcrcgrini cariuslauarcnt.ppterea cum ita uili pretio licerct, nulUim
genus hominum a publico balneo arcebatunpucri iuuencs,uiri fenes, decrepiri,
nobiIes,&: ignobileslauabantunfed prac cæteris,phonafchos, cytharocdos,
'''lrlE-r^T*'I^=e"farebalneafolitosrefert »ed.i.e. (^al.quod
noccmoblæfam,&a/Tiduis vocibusexafperatam
aquarumduIciumhumedlationecurabanr integramq.feriiabar.HocfimiJiter uidetur
Martialis in his de Menophilo uerfibus fignificafle. Iiib. 7. Mcnophilipenemtam
grandis fibula veflit, ^ ft ftt comoedis ommbus vna/atis . Hmcego credideram {
nam fæpe lauamur in uno ) Soluitum vociparcere FLicce fuæ . Dum ludii
mediapopulofpeaantepalæflra, Delapfa efl miferofibula, verpus erat . Qiii
Mcnophilus comocdus crar,& ficut cacteri.Iicet recutitus, inSll'nT ''k '^f
cum Martiale in communi therma 1 ba neo auabatur. Muhercs Lacedæmoniorum in
balneis gymna ' ^vnT T^ Perfpedum eft, &: nedum in his, uerum et vna cum
v,nsprom,fcue:quod tamcn non in cundtis euenifse cre tZl^^r.fn'^''"f^^
balnci mulie! orjs mcntioncm ibi facit. «UMis eas ingrcdi ob ralubriiatem
uciitum apparetrquod ptcr turptudmemetacorporibusmuIiebribus.acracnllruncremcmL
" SSmA ''''''•T/'"Sr.^fcum ftarim coru molrm m cT "uii -f 1 'f''
cuin unis h non cudemlauacro, codein falccm / A faltcm loco ctlam antiquirus
lauilTc comprobat,qui libro dc analo gia fccundo tradit in balnco coniunda
fuiifc acdiHcia bina, ununi ubiuiri,altcrum vbi mulicrcs
lauarcntur:practcrca,C.(jracchus in orationcdcpromulgatislcgibus idcm
confirmarc uidctur, cuius vcrbaapud Gcllium italcguntur. Tudorcnim noparicbatur
vtruii.,o. quc fcxum iimul lauari,fcd commoditasconiungi dc(idcrabat.
Nifidicamusilla omnianon dc publicis balncis,quac tunc ucl nulla, ucl
angullillima, &: vilifli iia cxllitcrc,fcd dc priuatis cflc inrclligcn da :
qiTcmadmodum forfan Vitruuius intcllcxir, vbi vtriulquc fcxus jlauacra
coniungcnda monftrauit. ucrum cnim ucro pollcrioribus facculis mulicrcs
promifcuis balncis yfas cflc, quamplurimaru probatifTimorum auctorum
tcftimonijs comprobari porcll, intcr quos primo fcfc orfcrt Iuucnalis,qui
diflblutos Romanarum focminarum ^ morcs carpcns hacc fcribit. Cramf
occurfu.tactcrrima Vkltu Balnca ncBcfubit, conchss et caftramoueti T^lBc iubct,
m^gno g^uiet fudare tumultu, Cum lafTatagraui ccctdcrunt brachia maffa Caltidas
et tnliæ ii':*itos impreffit Aliptcs, ^4cftimm4m dominæ femur excUnure cocgit,
cx quibus ncmincm cflc cxiftimo,qui non uidcat mulicrcs tcmporc
luucnalispublicas balncas adiuillc, ibiquc ^S: cxcrccndo, &: lauandolinc
pudcrc ullofc virrs immifcuifrc.(]nod (imilitcr ciiis tcmpcftatc
Martialisconfirmauit. Omnia fotmincis quarc dileda cateruis Lib.ii. B-ilnea
dcuitat Blatara ^ 6c Cum tc lucerna balneator exfitn{}4 li. 3 in Vc ^dmittat
intcr bufluariasmoechar, tuftinauu Clcmcns Alcxandrinus, qui fub Antonino &:
Scucro floruit, in co, ^ qucm Pacdagogum infcripfit commcntario non
modofocminas communcsuiris balncas,atq.publicas in ufu habuiflc tcftarur,fcd
omni pudorcdcpofitocxtcrnisquibu/quc libidinisgratiafcfc nudas in ipfis
fpc(ftandas pracbuifsc. Quos morcspoftca dctcftans Gaccilius Cyprianus hacc in
libro dc uirginum habitufcripta rcli quit . Quid ucro quac promifcuas balncas
adcunt : quac oculisad libidincm curiofis pud(Ti,ac pudicitiac dicata corpora
proftituut, " quac cum uiros,ac a uiris nudac uidcnt turpitcr, ac
uidcntur, non" nc ipfac illcccbram uitijs pracftant. Cui fcntcntiac multa
ctiam fi" millimaa D. Hicronymoin I:pitt. ad Lactamdcfiliacinftitutionc
" fucrc prodita . Hisitaqucomnibuscuiuispcrfpcdum cfscpotcft, non pauco
icmporccum morcm&: Romac,&: ahbipcrduralfc,tu Cymnaflica. D fcminæ
atquc uiri in promifcuis baineis Jauarcntunquando etiam D non dcfuerunt qui
intcrdum hanc mulierumimpuramprocaciratem coerccrc tcntarint: qualis fuit
Hadrianus princcps, quera fcribitDioCaflius viros difcretosafcminisJauariuo]uifle:ficut&:Mar
cum Aurelium Antoninum balæa promifcua fuftulifle,
eadcmqucabHeliogabalorenouaraAlcxandriimSeuerumprohibuifle, refert
CapitoIinus,&: Lampridius.Ob quod item aliquando cenforia lex Jata
traditur,ut mu lieres a promifcuis balneis abfl:inerct,ncc commune lauacrum cum
uiris libidinis caufsa intrarenr, fub repudij,&: dotis amiflionispoena :
quod poftea in I.fin.titul.dc rcpud. &: inaurhcntico dc
nuptijsprofancitorcccpttmfuit. Quarationcfieripotcft,utbalneæaIiquæ muliebres
in foeminarumdumtaxat: ufumfucnntcxftrudtæ,quaIes Agrippinæ
AuguftacNcronismatns:nccnon Olympiadisin Saburra,& quas Ampclidem,ac
Prifcil E lam trans Tybcrim ad euitandum forfan hominum confpedtum ha buiffc
refcrt Viaor. Tcmpuslauandi poenesvetcres,quemadmoEpift> 87. dumnarratScnccafuir,
quod quotidie brachia, &: crura abluebant:tou nundinisfolum lauabantur,
Cætcrum poftM.Pompeij ætatcm coepcrunt fingulis diebus toto corpore lauari.
Hora uero vfque a temporibus Homeri fcre a pluribus obfcruata f uit paullo li
de tre. antcquam cibus fumerctur.non dcerant tamcn Galeni tcmpeftate, "fQh
^^ ualetudinis habita ratione lauarentur. ob q^ jpfe ngorem fine febrc uifum
tempore fuo narrat,quem ætate antiquiorum
medicorum,cumraripoftcibumlauarcntur,non elseuifumfcnbit, Vtplurimumautemmaiorpars
liberorum hominum prms exercebat.deindc baIneaingrediebantur,nonnulIi fine exer
Iniib. de ciratiombuslauabantur.AdnotauitGalenus,antiquospoftpilæIu F KL*"
b'^'"eis lauari confucuifle : quod fimiliter ante illutn Lib.4. innunifse
Marrialcm co uerfu vidcri poteft. l\eddepilam,jo:iatæs thcrtnarum, luderefergis
? yirgine visjola lotus abire domum,
NamdumhorabaInearumappropinquaret,tinrinnabuloquodatn figmficabatur,quo
pilælufores.atqucalij exercitatorcsftatim accurrercnt:aIioqui in gclidiflima Virginc,
qu am &: tadu iucundilliii.3i.c.3. mam,ficuthauftu
Marciam,rcfcrtPIinius,&: fic diftam quod nullis fordibus pollucrctur
traditCafliodorus 7, Var.iam claufis thcrmis lauabatur.fcribit enim
Capitolinus,antc Alexandri Seueri tempora numqua thcrmas ante auroram apcrtas
fuifse, &fcmpcr antefolis occafum claudi confucuifse, ipfumq. Imperarorcni
publicarum thcrmarumluminibus oleum addidifIe,quo&innoftepatercnt. 1 BHi
bfl m Phi opi inli culi W col isfc obi crai Cp:)& igd cisl bui iiitii iieii
hai aq : n A qiiodctla fcciflc I yconcm philofophiim imicniri gMCCnc fcrihit
Lacrtius in ciiis vira, Non mc larct qiiofdaalijs horislauifTc/cd ucl cxrra
gymnaiia,ucl in gymna(i)sgratian!icuiusafrcdionis,autaItcrius rci ucl
confuctudjnis,utfcribitMartiaIisdc Fabiano. iii>.^. LaJJus ut in thcrmjs
dccima jcfius, Ima Te Jn]"ar ippjc yCkfn lat(Cr ipjr Tiu Hoc CCrruin
eft,quod \'irruuius loco cirato mcmr riac mandauir,tcmpus Jauandi maximc a
mcridianci ad ucfj>crum fuiffc conftirutum. t um cnim fcmcl dumtaxar in dic
(aturaiciitur Maiorc\b, nulhiin tcmpushoc ipfoopporrunius habcharur,qu()d
circat^dtauam dici hcrampaulloantccocnam crar,ut Martialistclla:umrcliquit.
Suffiiit in ». I rtm rrifiiiis cctiUta p/tlænris, et j^;^ ^ Octauam pctf'i5
jcutaic ^laycbim'*r vna, Iib.ir. B Hadrianus Cacf. rcfcrcnrc Spartiano antc
Osftauam horam neminc niii ac^^rum huari voluit, quam horam criam lulium Cacf
prioribus facculis (cruafTc, conijccrc pofsunuis c\ Kpiflol. Ciccr. ad
ArriLf.i^.Ep. cu,ubi dc Cacfarc loqucns, hacc ait : lllc rcrrijs Saruriiahbus
apud Philippum ad horam fcptimam > nec qucmquam admilit, rationcs „ opinor
cum Balbo ; indc ambulauir in littorc, poll horam ocbuam „ in
balncum,tumaudiuit dc Mamurra,non muranir ; uuctus cit, ac„ cuhim,\yLvriKU¥
agcbar, iraquc &. cdir, &: I>ibit «Acic, iS: iucundc. „ Scd an
pLrpctuo ilhim uirac rationcm (cruarct Cad.haud clarc cx „ co loco habcrur ;
quando ci us folius dici rationcm c\p :>nir, in qua isfccundum
mulroramconlucrudincm u jmcrc ddtinaucrar, atq. obid «A»ff i.finc
timorc,&:iucundccdcrar,bibcratquc,ur ( quod crat mcdicorum pracc cprum)
uarij gcncris poru,ciboquc rcplcrus . C
pof>cr,dumircrdorm;tLim,uomcrc.iranunqLic locusillc ( iib.d^fai? agcbat)
mrcllii;iiudiciomcodcbct:quod licuri AiCiTHT/ic« a C.rac'j'^"-* *
cislimphci uocabul > dicirur camcdicinac rari(>,quac in rcbusad * '
humanum uichim fpcclanribus fira cft^iSL: K^i^^iKn. quac ad cxinanitioncs
pcrrinct; haud fccius J-utTixil > clt illa iyoayk y liuc rario, quac in
rcbus,(Si: modis uomitum paranribus collocara cft. Tot iraquc dc balncis
^^ymnafiorum, ac prmaris brcuircr didta fuHiciant, quorum ufus cum apud
anriquiorcs rarior cfscr, Afc lcpiadcs Pru(icnlisactatc Pompcij orator
habituscx ilfa artc nullumquacftum irahcns, cum ad mcdicinam fc contulifsct, in
caquc magnam ^Ioriam, &:au(5toritarcm brcui comparafscr, ob
blandimcnta^qulbus acgroscurabar,ob pcrpctuam finitaris rirmiratcm, 6i:quf)d
Romac lib.i.c^. qucndampromortuoad fcpulturam clarum miro gcnrium ihipo"a.
rCjUt CcI/us^Plinius,^: Appulcius tradidcrunr, uiucrc cognoucrat, IJIfio?' D 2
cum fiiii eumfrequcntiorcmreddidit. Vndccima,ac omnium poftrcmain D
gymnafijsparsfuit Sradium, ubi populus cum uoluprateathlctas certantes:
fpedabat: nilq.aliud erat,quam hcmifphoerium quoddam, multis gradibus
conftru6lum, unde poterant commode fpedatorcs^qui fcmperplurimi eoconflucbant,
certatorcs intueri. an autcm intcr ipfum &c xyftu, fcu peridromidasmurus
intcrcederet ; atqueindcpcr oftiumex platanonibus gymnafiorum arhletacin
arcnamftadijprodircnt, etfi a Vitruuionilcxplicatumhabcatur, rationitamcnconfcntaneumuidctur,
uniucrftim acdificium, nc cuiuispareret(quod eriam fupracirati Capitolini
reftimonio comprobari porcft) muro conclufum,&:proptcrea agymnafio ftadium
murifcptodiujfumfuifTe. De alijsgymnafiofereneccftarijslocis, reluti lignario,
uafario, latrinis, triclinijs, atque eius gencris muL tisnonloquor, quodhorumin
palacftrarum dcfcriptione mentio E non habcatur, ad noftrumque inftitutum minus
pertineat; ficut nec qiiomodo ambulationesillæ fubftratis carbonibus,atque cloa
cis proximisexftruercntur. Quæomnia^tamquamclara,autalibi commodius explicata,a
Vitruuio in defcribendisxyftisprætermilTaputo. luxra publicas thcrmasinuenio
exftrudas fuifTepopinas,quas Ifidorus lib. etymolog. xv. cap. ij. tradit huic
inferuiife, iir,quiob cxercirarioncs, autlauacrælfcnt admodumexinaniti,
diflblutiuc,habercnt,ubi ftatfrnrcfici poflent. atque hasforfan Plinius
intellexit Epift. iij. lib. j. quando poft balneum, &c triclinia popinarum
meminit . Hadenus dc antiquorum gymnafijs. De AccubitHs m coena antiquorum:, ^
femel dumtaxat in die ceenandtconfuetudims •rigme. LFVON1A M balncorum
explicatorum occafio iam fuadet, nosquc fupra polliciti fumus de coenandi fcmel
in die,& in coena accumbendi antiquorum confuetudinisorigincfermoncmhabere;
fi cxtraremnoftram videatur,atquc a Galcno de accubitu nihil explicatum
habeamus: haudprætcrmirrcndumeft,quin lcntcntiam noftramin medium proponamus,
alias eam libcntiflime mutaruri, fiquis meliori ludicio,ac eruditionepracdirus,
ucriorcm aliquam,&:magisrationi confcntancamdcmonftrauerit. Quod etenim
maiorcsnoftrimanccxiguumquid comedcrcnr, quodprandiumuocabant, &:ue. fpcrc
tanrum (arurarcnrur, dum coanarc dicebanrur, (exceptis ijs, quicoituufuri
erancquibus amedicis vcfpcrecocnarcinterdiaQ fuifle A fulfse fcrlpfic
Ariftotcles,& cxccptis SyracufanIs,qiios bis in dic ci^^nlc. bis
implcri,quifi rcs noiM cfscr,tradir Plato ) fLuis ab Horatio, Marj;^ j tialc,
Plururcho, atquc Galcno ( nc mulcos alios nomincm ) comDioncm. probatum ell:
fcd dc bis tulius mclius in uarijs lcdionibus nollris tradarum cft quod
fimilircr tcrcomncs cium cocnabantm flraris accumbcrcnt, pracrcr lapidcs
Romanos id clarc ortcndcntcs, doAiflimusPhilandcr infuis in Vitruuium
commcnrarijs audorurn antiquorum tcftimonijs clarum fccit, vt id amplius
dcmonftrandi laborcmmihiomncmdcmplcrir. Cctcium vndc nam hac duac
confuctudincsprincipiumacccpcrinr&quomodo vercaccumbcrcnr, ncmo, qiicm cgo
vidc rim, (luc cx anriquis, fiuc cx rcccntiori-bus, ira appolirc &:
dihgcntcr dcclarauir, quin poftcris dubirandi, &:plura dcfidcrandi occafioticm
rcHqucrir. Quod an ob rci ohfcuB rirarcm,an ob ncglcdum cucncrir,ignc)ro. Ego
fanc urra(quc illas, &:accubirusl(:ihccfAupii^.indic cocnac cofucrudincsa
balncorum ufu manafsc c\ntimo.& primo ur ita dc accubitu fcntiam,
pliiribus, ijfquc non fpcrncdi.s conicilurisadducor, quarum prima cft, quod
Homcri tempqrc „ qyando nofn adco frcqucnrcr bahicis vrcbarr^ur, coenaruri
fc^cbanr,vt m conuiuio Procorum apparct. tfjft^i^otr^ Kcci^. . -it*. id cft,
cyJt proci ingrcJjL /urit^ qui mox mdc /upcrhi OrdincfedcYunt lc^tmms, (5"
ordmc throms &: ubi Tclcmachus,ciulquc focjU5 a Mcnclao holpitio acccpti
poft lotioncmcocnant fcdcntcs. i^ovwi l^oyro wimmorralcs gratias agcrcHtcnim ei
qj' Plurarchus dc lo co c6fulari,nec no dc tnbus triclinioru lccVis
diifcruir>iam non obfcurucft,quam mirihcc quadrcr propoiira triclinij
Rhamuufrani figura.Simiiitcr,&:qab Horario dc conuiuaru liru varijs
inlocisnai^ C rantur,n6ahundcmchusintclligi pollunr,p(crrim quandofcnbir. Sacpe
tribiis lc^is videjs CQcnarc quaieiraQs : Efabi44Vf.: ' "is jfpcrf^crc cnm
ijs Tfdctcr cu) ^ . .iqujLm. Qucm locu dum Lambinus exponcrct, cur anriquos
cofucuiflc in quolibct Icifto niagoa cx partc quarcrnos cacnarc pala
aflcrucrir, f^nc miror, quafj non (ir cuiq. pcrfpcc^iflinuim, vr narrar Varro.
lcg^s cxftitiflc quac numcnun conuiuarum nouc cxc cdcrc,ncc pauciorcsrribusclfc
vcrabanr,hcut &:adagium illud vulgatiflimum, fcptcm conuiuiu,nouc
conuicium,atrc(brur.(^mimmo lulius Cap/roUnus rcfcrr L. Vcrum Impcrator:pracrcr
cxcmpla maiorum, cupi duodccim folcmni conuuiio prinumi accubui(ic,ira vt
prionIhis facculis porius fcrnos,atquc pauciorcs adhuc (ingulo 1 ccto con
uj^asdifcgmbcrc fo|itosfuifl'cconuiacatur:ni/icpula pjblica ' ' 1) 4 nuptialcs
S4 i. i iS h K nuptiaTcs cænas cxcipiamus.in quas cu magna hominu copia conD •
uenircr,nequaqua accumbcntiunutficrusfcruari poterar,vrcx PJu tarcKo, ac
Rhamnufiano lapide colhgirur,quo vcl epulu pubhcu,
velnuptial^cocnamrepræfentari non eftdubirandum,urob hoc Chacrephon apud
Athenæu in vj. vidcatur admitrcrc couiuas rriginra dunraxar innuptijs, in
quibus vcriiimilc eftnecefTarium fuine uocatorcmiIIum,cuius meminit Senecalib.
ii/.de ira cap. xxxvi;. &: qui fecundum cuiufque dignirarem conuiuaS ad
loca dcbita vb-' cabar. Quodaurem Turnebus,&Lambinusidem dcpuero aquam
pr.æbcnrc funt in tcrpretati, cquidcm non i mprobo.at forfan ncc abfurdum
hicrir,fi Flacci vcrba dc eo puero cxponarur, qucm tana. omncsfcre
mcnfarumfculpruræ antlquacquam poeraru reftim nia conuuujs femper
frigidam,& calidapræbuifrc oftendunr,qUeque cundos, ne ab ipfo male rra(Sarenrur,
reucriros eifc, et a quo E mordendo abftmuifre vcrifimilc fit. Jam fcfo M.iria
Magdalena u t ftansrctropcdcs Chrifti coenantislauerit, atq. loannesfupra
ciuf-dcmChnfttpcaus recubuerit,cxhaccademRhamnufiani triclin,j figura,fecus
quam pidorcs antiquarum rcru ignari faciat, 6c quam, Gaierarms Gardmahs
murilirer commenratus cft,fadlec6iicitur
ctenimhebræos,acaKiftumaccun,bendiRomanort,mconS^^ dmem.obferua/le practer
Architriclini accubitufq.: nomen • gehjs fæpe vfurpatu etiam id tcftari poteft,
quod Læi freqic^tcJ Rom.ac conuerfarcntur,fimiiiterq. Romani L Iudaca,ac in vfu
no Xuo£r"! Marriahsfigt^ificare hoc dV •, ) -.J ; Omi^ia cim retro pueris
obfonia tradas, F 1 1 Cur riM ntenfa tibl ponitur a pedibus i -'Siquidc.n coen
anribus alrc iaccnribus fpacia rfetro rcjinquebarur in qu.bus fcru.s uana
miniftranribus mulra offcrrc, et ab?ata rcci pcrc faclc crar,feruos namqucad
pedcs cænanriunrftareac ob?d a^edibus vcl ad pedes vocari /oluos ex mulrorum
fc^Sci r gcre hcct.Sencca hb.ii;.dc bcncfici;s. Scruus (j cocnain id ocde;
ftcrerat_,narrat quod mter cocnam ebrius dixiit.MarSs Mixta lagænaad
pedesreplct uino.Suetoniusin Galbi r,, . namverovfq.coabundantcm vrrnnl.i V '
"-'"fercoecircumfcrri mbcrcs Lraia n^^ paraacr.bushurctS
d^ndrefmt^l^Spt^" buitimpudcnti.dequoctiaAthen-ir^ncinV I u
P^"^^"Sed practer alia mox di autfuturam
laflitudincuirandampoftmodicum tcporis inreruallu lcdos intrarcntjatq. ibi modo
nudi,modo laccrnis,aljjsuc in id paratis uclUbus induti cænarct, atq. inde mox
aufta baincorum cofuctudmc vfq. adco accumbcdi morcm crcuifse, ut nobiliores in
dclicijs maximis cum habcres,lcd:os nunc marmOreos,nuncargcnteos (quod
dcHcliogabaloferunt) inidfcparatim exftrui curannr,neq.inijs,inquibustamenqua
plures, (utdc Lucio Vcro ImperatoretraditCapitoiinus,&pfcrrimpauperesdormire
conAieuifse puto) fcd in cubicuiarijs uocatis dormire uolueH rinr.quc morcm
accumbendi poftca uiiiorcs, &: paupcres ad diriolib ii.de ^l^^yi^^f^^ifn ^
balncisquaiiiori, itafrcqucnriflimum efTeteruiV.c.i ccrur,ur^Coiumclla praccipcrc
coacfrus fit,ne uiilicus nifi facris dicbus accubcns cocnarer;in qua rc no
fecus corigir, ac cuenifsc cofpi citur in baincis,arq. piurimis aiijs rcbus,quæ
in honcftum ufum, et quafincccftitatc quadaprimurcpcrtac,dcinccpsadluxu,
iafciuia, Uolupratc,aliosq. ufus rradudac fucrunr. Quis eft, qui ncfciar
ucrercs in couiuijs ocs propc cxcogitafse uoiuprares, nihiiq. rcliquifsc,
quodaddclinicndos animosfaccrcrrfic enimfermoncscouiuales ad animi
inrelligcntias afficicndas magno ftudio inuencrut, ad audirum oblcdandu muficac
uaria gcnera adhibuerut, ungucra preProb'^!^^ tiofiflima odoraruidicarunr,
ficut,&:coronasexfoIijs,floribusquc 6.cr fimp.c6rcxras,quas modo
manibus,modo coilo, modo capirc u r iapidcs F c.de anj.
Romani,Pluiarchus,GaIcnus, iSd Clcmcns AIcx. teftantur,tcncbati Rieda.
^i'^gi'5ria, colorc naribus, atq. oculis arridercnt,fomnu concap.8.
«^^l^iii^cnt^cbrictarcuirarcnt.quantuporrocibis^&potibusdclicatiflimisc6quircndisftudiuadhibucnnt,nonmodofidcfaciuntfcxii.7.c.ir.
decmiillacduliorumgcncra, utcxVarroncrcfcrtGcilius alonginquisrcgiombus
Romaaducda, atq. alia quamplurimaa iulio Poiluce nominaras, ucru ctia mulra, et
prope innumera AuAorum de rc coqumaria comcnraria ab Arhcnaco cirara.De
antiquoru io dic fcmcl ranru fcfc cibis implcndi c6fucrudine,cius ctia opinionis
fum,utcuad cmundanda corpora quotidie anre cibo5,urfnperiori
CapircdixnTius,ucrcrcslauaricogcrcnrur,6^aIotioneIcdlosin-rcdercntur,uixfcmcl
comcdcndi iii dicotiuipfisfuppcrcrct: quo^liia fi priuata cuuifq. negotia
fpcdcmus, li 6c cxcrcitationii. et baincorum, . s9 A rum.accubituscj. apparatum
c6fidercmus,magna tcporisparsipfi? infumirur, ut li ois in dic fiiturari
uoluifscnt, aut ncgocia omi ttcrc, aut balnca intcrdum ucntrc plcno adirc,
aliosq. multos errorcs, &c in ualctudinc,&: in alia uitac rationc
committcrc fuilscnt coa^fli . Comcdcndi uero horam,& modum balncorum
tcmporcatq. com moditatcmctiri inftiturum fiiifsc pofsumusa Galcnointclligcrc,
^ qui liintcrdum obacgrotantium infpcclioncstardiusfc lauandum ciubitabat,pancm
manc fumcbat,quo ccanac tcmpori fufticcrc ualc ret,quadoaIijllmili dc
caufsa,pancm,uinum,oliuas,aut quid aliud capiebant,uti non modo Galcnus f ilsus
clt,fcd ctiam Horatius,vbi defcfcribir. Tranjus non auide ^ quantum
intcrpclUtinani ymtre diem durare, B Quod porro vefpcrtinam horam cænæ
dcdicarint,in caufsa fuifsc præcipue uitæ commoditatcm cxiftimo;fiquidem
difticiie fuifsct poft excrcitationcs,balnca, &: cibum,agcdis rcbus opcram
nauarc; practerea cum accumbcntes cacnarcnt,alij ftatim fomno capicbaa tur, a!i
j modico temporis fpatio uigilantcs dormitum ibantrcx quo adhaccomnia nuUa
opportunior hora quam ucfpcrrina inucnicbatur, quamquam ctiam nonnullos, &:
pracfcrtim mcdicos in hoc ualctudinis quoquc rationcm fpcclafsc opinor, quando
in noAc melius, quam intcrdiu, cibi conficiuntur, tuncque pcrfpicuum eft plus
cdendum,quando plus coquitur . Hacc funt quac dc accubitus,A:cacnac
antiquorumorigincmihi w^ftfj^is diccnda uolui. 6$ A quc corpori afrcftiim
parcrcnt hi,nofccbat.Aclcrant fcriii fricandis corporibusdefl:inati,qui ad pracfcriptum
gymnaftacautpacdotribac,modo nudis manibus, modo vndis, modo cum lintcis alias
duri5,alias molhbus,alias afperis,aliasmcdiocribus,uario,ac diucrfo
modo,proutopuscrat,corpora fncabant. Poft hoscrant&rcundo rcs itaa Phnio,ac
Cdfo nuncupati,quod corpora ia cxcrcitara vnli.j. c.^y.
gcrcnt,reungercntuc.hos,fucrc qui crcdidcrint,a Paulo Acgineta iirrfOAu7rT«c
vocatos:fcd dcccpti funt, cum alium lUiflc ab his iicr^^wTTwoilcndcrimus.
McdialHni quoquc uyumafijs miniflrabant paumicta cuerrcnrcs,nccnon multa aha pro
lcruitijs gymnaliorum obcuntcs.Pyrrhus Ligorius intcr alia antiquitatis cius
præclarillima monumCta hanc infcriptionchct,mqua Mcdiadmorufit mctio. DIIS.
MANir>VS. S. B TITO. PLAVIO. OLENO SERVO. ET. PROCV R AT BALNEL T.FLA VI AVG
VCf. MEDIASTINO VIX .
ANN. XC. MEN "VTID. VIIIL T. FLAVI VS. T. L. POLVMNESTV S MEDIAS TINV S
AVG. N. FAC. CVR Adcrant ferui balnearcs,Iotos in balncis primo cum fpongijs,
modo purpura tinctis,vr rcfcrt Plini us,modo candcfacli^, dcindc cvm C lintcis
cxiiccantcs.hos quoque arbitror cgo confucuiflc flrigihbus corpora
cxercitatorum diftringcre, atquc a ftrigmcntis dcpurarc. Adcrantpilicrcpi,qui
fpliacris piccobh'tiscurabanr,nc ignis balncorum cxftingucrctur. quidquid alij
dicanr,qui pro piiicrcpis lu; fcrcspilac, vtpotcobftrcpcntcsinrclIigcndospuranr,maIc
fc nrcn-.tias Matrialis &c Stati j,dc qui bus nos locis fuis
loqucmur,inrcrprctantcs. Alipili,qui(ut rcfcrr Scneca)ad vcllcndos ab aliquibus
corEpift. poris parribus, et pracfcrrim alis pilos adhibcbanrur: nili uclimus,
vrdo(tti uiri ccnfucrunt,pcdicrcpos,& alipcdosapud Scnccamlcgercqualiin
gymnafijs cflrcnr,qui a pcdiculishomincs purgarcnr, &: inrcr occidcndum
ipfos magna vocc fingulos cnumc rarcnr,i(a vt Scnccaab huiufccmodi
vocibusoffcndcrcrnr.quornm tamcfcntc tia non probo,quod luucnalis ccrro rcflaru
faciar,fuiflc' in thcrmis, qui ab alis pilos aucUcrenr, ubi fcruos fuos
dcfcribcnj Pcrfico ait: T^ec pu^iUarcs dcfcrt\in balnca raucHS TcHi^ulos^nK,
yelUndas iam præbuit alas. 5«t. is« F Atque U 11 B E R Acquehos mo do
volfcllkrfdirf ob(?unrfumvfo5eflc:nuncre/ina, D (hanc enim m eueilendi^ vrronim
corporibus pilis maximum hoIi.i4 c.io. |ukcioncscKpliccn;,ucrumcciam
illamaba!i)s, quAclimilcm naturampcrindc,acnmcn obtincrc uidcnrur, ira
diftinguanr,nc lcctorcs acqiriC uocarionc dcccpti, ucl circa rcs ipfas
iiilignitcr dccipiatur.(^ idc® cum nos izymnafticam ucram tractarc
prf>fM>{ucrimus, quac racdiCiJiac pars clfc dchnita iam a nobis
tuir,ahacq. lint gymnafticac cir ca cadcm fci c ucrfaurcs . ncccflum arbkror dc
his tplis fcrmoncra liiccrc,quohabiro pofsit diucrliras ounuum 'faciUnnc
inrcrnolLi. jcj^ctcnt^sigiturquic fupcriusdiicimMs, ircs llatu i mu s
gyiniuJiic;>c4:oriiisfpccics gymiiifticain ucram fcu lcgirinum ( urcanr,
nihiloininas tinibas, -quor um graria fiivgulac infti tur-»c fuiu.
m:i;;nopciX', licut ctiarci fupra monlha-tiimui^ diflcrunr . Num gy.iauuftica
JmiplcNj^i: mcdic>nac pars i«l folum ourar, ur bomincs cwpcitawontim
modcraraiam ©pc,&:fani* arcmacquiraiu,rucanturuc;&: bonumhabinnn
adipifcantur; c^cAo>« ( diccoat Plat )) rtc wAAcc, (cAA« t^^-rgut^^ll^^
yj(xH'.€i aiS^iTiotz, idcft, 1 arc jr haud r 2 multas, fcd modcratas
cxercitationcshominibus bonum habitiim D inkrcrc . Hoc ua eire quoniam Gale nus
tu in libclJo ad Thrafvbu-, lum, tumin libris dc tuendauaJctudinc non minus
copiofc, quam JucuJenter demonftrauit,&: nosquoq. fuperius aJiqua ad hanc
fpcciem pcrtnicntia dccJarauimus,haud ampJius in ca celebrada vcrbis
immcrabor.fed ad BcIIica tranfibo : cuius unu ftudium erat
hommcs,pueros,atqueetiaapud nonnuJIos muJieres carundem
cxercitationumadiumentoita difponere,atqueaptarc,ut et inbello lck fortiter
gcrcre, et hoftcs propulfarc, &patrias tucri, et omnem
deniquemilitarcmperitiamtenere ualcrent.quamuis cnimhæc quoqueficut
&:f«perior bonum corporis habitum con.pararet, &: lanitatem quodammodo
tuerctur, quia tamen proprius illiusfi.nis erat homincs beJIis gcrendisidoncos
atque fortcs cfficere,proptc^r^a eandem no cfsc fatis apcrte conftat.quod uero
bclli ca gvmE nafticanuIJam aliam naturam habcatprætcra meexpIicatam,locupleti/nmum
teftcmPIatoncmin mcdium affcram,
quiinfeptimodeIcgibus(poftquamdecIarauitiuucnum, &c puercrumeducationem
maiorcm partcm in rcbus pub.obtinere) dcccrnit
publicosmagiftroshabcndos,quigymnafticampucros,atquepuelIas. &c uirsmcs
edoccar, quod ad afscquendam miJitarem pcritiam nil mclius paJacftnca
&:/aJtatoria gymnafticæ partibus inueniatur id quod etiam cJegantillimc in
tertio de rcpub. &aJibi Aiepe profecu tus fuit Polt Platonem
Ariftotcleslimiliter gymnafticam belli" cam modauo
Politicorumcxprcfseindicauitrubi tameas,quac athlerarum habitudinibus corpora
iuuenum deformare, et corum augmentationcm impedire ftudent Ciuitatcs, quam
Lacones effe ratos labonbus adolefcentes cfficientes reprehendit, eamq. pueris
^ gymnafticamtradendamconfuht,quæmitioribusJaboribus &: magismanfuetis
excrcitationibusiIIosrobuftos,&:inbellicisneaotijs uerc fortes reddere
qucat. de hacgymnaftica clare locutSm Galcnum non rcpcno, nifi velimus ipfum
dum Jcgitimam cclZ brat fub ea iftani comprchcndere . qu^d et ipfa bono habitui
comparandoincumbat,hcetadbeIlicamperitiam,&aptitudine^^ dtafuaftudia
dingat; atqucilli qui medicinæ gymnaftkaToperam nauant, etiam dum
oportct,beIIica uti ualcan^.VetetiSs in^er ZZr'"T ^^""^fti^^
niilit æ,1iTomodo! LsapudGr^^l"^" huiufcemodi ars apuci
oraccas,&: Latinas nationes in pretio habita fuerit Pr-i£> ter has duas
eft etiam gymnaftica aJia uidofa,& atlilct ca a nuncupata,quæ hominibus
robuftis efficicndis(talis enintf.ft Mi! lo Crotomara, et «hktailk, qucm
OJympiodorus quarto m te^ rolog. V ^ \ M V S. aut ludarivaut
isTctyKgitrtccfmcogcbzmur, iccirco cibo indigebantcorruptu &:.euaporatu
dJthcili,cuiufmodi eftcibusex fuilliscarnibus,quibus foli veri athletæ
uefcebantur, atquc tareserant> qui inludis,. in amphithcafris, &:etiaminalijslocisob
pracmium,&gloriamcertabanr, in hoc acetcris diuerfi, quod folum
uincere,&:coronam affequi ftuderent, cum alij ucl bono habi tui c orporis
acquirendo, &: fani tati tuendæ ; uel militari fortit:udini,&: peritiæ
acquirendæ intenderent,quos /impliciter gymnafticos,&: exercitatos,vel
athlctas bellicos nuncupari inuenio, ex. quo conignuraliumefie: (Tmpliciter
athletam^^ alium fimpliciter gymnafticum, necnon tres fuiffe artcs in
exercitationibus uerlantcs communinomine gymnafticæ vocatas, quarum
medicaomnibus magis proprieita di£ta fuit,alteranempe beHica (apud
mcdicosloquor, quod alijforfanhancprimariamefTecerint ) minus; tertia omnium
mini me nimirum, quæ a pracdi£l:is degenerans,. uitibfaiappellata lit' quacue
robori, non fanitatioperam daret : roburenim diuerfum habitum afanitate
cxigere, teftis eft Ariftotclcs viij. fed» problcm. vj. quo in loco pinguem
habitum robori ^fornitati ucro rarum conucnire fcribir«. /01 tiSl fe, rah t5|
TfcT^itio/a Gymna Htca^ Jfut Athretica:, CTa^. Xllir-Oftquam dc bellica gymnaftica,
atquc etia dc gymna^ fticalimplici,quantuad præfens negotium:fpcdabar,
fatisdifscruimus,iamopporrunum critde athleticafer ' mone habere;.quæ quonia
tcporibus Galcni, atq. etia fuperioribusmaxima audloritatem fibi
uendicaucratjideoeiopus IKfnas.ad fuit,uteam
longiffimaorationcatqucimpuriflimiscontumeliofillimifq. uerbis
infectaretur..quod qua fapienter fimulac iufte feccrit,
exhis,qdeilliusprofefsorumoribus,alijfq..conditionibus di£Vurus fum, facillime
clarum futurum /pcro.&ur aprincipio exordiar,Pli-^ lih.7.c.j lib, ad
K07i}(vi(€$, qua artis nomen ei conuenifse dixerit Galcnus, fi quidcm
"^**'^^* illius cxercitatores dum fge uidtoriæ, Sc præmij ( quorii gratia
qui certa.nu Cpro prii aut v:ni (cti effc val niii doi tat tai ca bi 1 .7.429
!> . vf IffXyi'^ J^utdh^os r« crxt ginrw 7r*j,»t«» KOtii' ret}^ Ktti,, n-flf
'f * J^iOfUKot 6 /fc Kcti KKriX^* 'J'«A«/i«f) fcribcndum dubitan polTctob vcrba
fcqucntia,quibus inuit robur cflcfuaptcnatura coniunctum cum pcrnicitatc ;
vciumtamcn,ut non inficior ctiam uocem Tfc;(f»«7.i. artis quadrarc, cum ars
inaxiinc valcat in athlctica,in qua cam robori iSc inagnirudini primum
omniumaddidiflcThcfcum tcllatur Paufanias in .'^cticis, lic non uidcocuraroborc
qu.)quc cclcriras fcpaiari.iicqucat cum rcs ipfa doccarplcrofqucviribusmagnopcrc
valci c,qiii tamcn inagciulo tardi potius.quam cclcrcs funt..Scd ut cumquc lit
chirc patct athlc t'aruomniuinltitutioncm,atq, dikiplinam huc rantum
lpc>.'tallc,ut corporismagnitudincm,iobur,atq.
cclcritatcmcompararcnr,quibusfoli cctcrosantagoniltas lupciarc,&:
pracmio,honorcq. potiri ualercnt. id c^uodlicctpluribus cti-caminum gcncnbus
conicnde Jcnr,qulnq. tamcnpi-accipuæranr,in quibusvcl femper.velplcD iimq. ram
in facris cerraminib.quain Iudis,amphithcarris,&:publi cis lpcaaculis,fed
pracfertim in ftadio,quod fere folis arhietis propnc deftinaru
erat,cerrabant,lu6la,pugilarus,curfus,falrus,& dilcus.
vndcludarores,pugiles,curforcs,falratorcs, difcoboli nuncupaban tur,qui
feparatimin fingulispollerent,ficuri Pacrariafta diccbarur, qui in luaa,&
pugilatu valebarrq vero in cudis quinqucperarhlus, &:vocabulo
Romanoquinquerriusvocabarur,urdoccr Fcftus;erfi Qilinquertioncs apud Liuiu
Andronicu athlctas fignificare fcribat idc Fcftus, apud quc ct peiiodon vicifsc
diccbatur is, qui Py thia, lfthmia,Ncmea,01ympiavicinct,nomineacircuitueorrifpc6tacu
lorfi accepto.narrarLacrtius Democritum Philofophum efse uoca tum
pentarhlum,forfin quod in iuucnrute vicifsct.Erantpoftmodu Haltcres,iacula,arq.
n6nullaalia,qucruquoq. certamina athlctæ E obibar,ar in pu blicis ludoru,
&: ficroru ccrraminu cclcbratiombus
raroillapcragebanrur,vnacxccptamonomachia,q.Græcosfaccr« dotes æftatis rcpore
in pergamo excrcere cofueuifle memoriac ^o3.3 ar. 13 didir Galenus.Quamquam
monomachos,fiue gladiatorcs apud ve rcresabAthlerisdiucrfosfuinbfcia,quod
M.Ciceroreftarumfecit Epift.fam.hb.vij.Epift.j.his vcrbis,N.a quid ego re
athleras pure defidcrarcqui gladiarorcscorcmpfcris ? Nifi dicamus qu^^memoriæ
prodituhaberura Dionyfio Halic.anriq. Rom. lib.x.arhlcrasalios Imffc
leuioru,alios gr.iuioru cerraminfi.arquc hospoftcriorcs fuiife
gladiarorcs.Deijsin DigcftoiTiIi. 9. t.l.Aquiliaab Vlpianofcripru rcpcrio: Si
in colluAarione vel in pacrario,vcl pugilcs dum intcr fe excrcctur alius aliu
occidcrir,cefllit Aquilia, quia gloriæ caufsa et „ v]rruris,noinuinæ,vidcturdamnfidaru.vndcpaterearbitror.'ipud
Maiorcs,hac athlctica 1 maxima exiftimationc habira.cuius ea erat ratio,qd'
homincsfempcrillasrcsextollerc .ac honore dign.is
cfhcercfolct,aquibusvoluptares,acdcIcdarioncsobtinerc ftudenr. ob quod cum arhlerica
in publicis Iudis,cctcrisq. fpcdaculis maxi mas voluprarcs publiccafferrcr^in
honorc habira arq. a multis exli.i*.c,4.
P^f'^^f"^'7q"'in^oathIetisludos ingredictibus vrrefcrt Plinius oes
a(rurgcbanr,cr,am fcnatus,ijq. fcnatui proximc fedcbat, necno cu parnbus,auis
parernis,a quibusuis muncribus uacabanr,&: ui6to resin
patnastriumphanrcsinuehcbarur,immo Athletis ingenuos cædercatciue
occidcrc,qd^ilijs vctabanrlcges, non modo licuiffcvcrum er.am hononficum fu.fle
audcr clt in lij.hypor. Pyrrhon. Sexrus Empincus Nc dicam, qd^ Eufebius in v.de
Pracp.ararion; cuangelica mulro fermone damnat vcteres,f.eo fuperliitionis,
arq. mfan..ie,nterdumdcucnifse,vtpugiIes,atqucathIetas,nDcorum numerumiefenent.
Quibus ommbusracionibusfatisclarumcfse poteft..uhlctlc.im .uu.quitiis magn.ic
auiVoritatis fuifrc : et proptcVca non tcmcrc illam Calcnum mfcaatum cfsc.dum
an.maducrfe rct.quantudani exca artis athlcticac reputitionc hununo i^cncu
acccclcretiliquidcno mo cuchianimi.vcruC-tcorpons bona;ita ccv rupebatur,ut nihilinucniri
pofsct.qcK maius hominib.q. gloriac, 6C pmioru rationc lUa vndiq.
ambicbant.dctrnncntu afla rcr, quc ulmodu
Euripidcsipoq.clcgcintiirimetcltatushutlubhilccucrbis. O / ^ch^v 0 IxfJv ovcfi
utLJviip OiiT ai S^wuAfv^ro^^S^ y^o-lg W ^*ip ^ rvxSn T% S^AoCyVfiSvo^
d^nijnf^^o^y KriiTUfT ULt oA.Sor f . . Msdtuverjati Mortbus y nonfacHe mutantur
in mclius. Quibusnihil cftmco iudicio,quod magisatli.ciKMC ftatil prod.if. Ncq.
tamcn dctucrut, qui hac pniciofam arcc comcrarijs cckbraC rc mtcrCtur, qualcs
tUcruc Tryph6,ac Thcon Alcxandrinus,qui ab athlctica,in qua cxccllcbat, cognita
cius prauiratc ad gymnaftica tadc dcfc iuit.Nc racca Platonc,quc Scrums,&:
Lacrtius ^pdidcrunt athlcta fuifsc,&: ca dimiisa ad philofophiam (c
contuhfsc.Scd quia athlctas pracmi) gratia ccrtarc,arquc vitam millc nccis
gcncribus cxponcrc conlucuifsc no fcmcl dixi,id hoc in loco ncqnaqua practcrirc
uolo,athlctisnon cadcquocumq. tcporc fuifsc {Smiv>i um gcncra
propolira,vcrum,vt Clcmcns Alcxan. ij.Pacdag.c.viij.mcmoriac prodidit,primo
fuir J^iaic fcu donnm,fccundo plaufusacrrio h liorum conicaio,poftrcmo cc rona.
. f,1 ^ citatcm, et ob fcoenos mores delcnbcTs ait Inter catellas cnferum
extalambeutet Tmitur aprigkttduks palæ/iritis, Attamen 1« rd le «!• am ith
Btflf /lii ilifl 101 prt lin cap i|iii m cik : 1' pre lii Hij n h bu Ci n ni p
B. . 75 A Atf imen iUos in frequcntiorc ufu habuific carncs tu bubulas, tum
mcnto o'^^ dur" ic, ac alimcntorum cralTitic no modoubcnos nut.u c.itur.
(cd f ri^utiusla.ur. pc,mancrc,u,,uo gcnc.x v.dusanv^^^^ nunil WiJofcj
i.nmodicc «tcrctur.cosmorbosm«*?«>.'.t ficcac faginat.on,s athlcta, u, quac
ut hc, ct ab ahqu,bus dubitatur, cgoucrofcmpcrputau. xc rophag.a.n .llam apud
Cachum &c loanncm Cafr.anum comemoratam.qua.f.hcus ar.d.is, nuccs &nil
coctum,n.lhumidufumcbanr,no., placc,itas,uta,r Arrianus in Epiftcto, non
frigidum potum, et dc qua Plautus m Moftc'I ma ubi adokfccns quidaita
loquitur,(iuo ncquc,ndullr,or dc iuucntutc crat artc
symnaftica,d,fco.halb,pila,curlu armis, cquo, uictitabam uolupc parfimonia.S^
duritia. Ordinc h,n,Iitcr nullum . aut pcrpulillum athlctas in comcdOdo
(cruafsc,m6c ccmpons nullam rationc habiufsc, fatis cxfuperiorib. clorum cfsc
potcft.nil, qd: 4/ refcrt Gulenus eos non æqiie mane, ac uefpere cibos
ualidifnmos ij ^ ' accipcre cofueuifTc/cd dfiraxarin coena,nomodo
rarione.Meruni[ etiæxpcnentia dodi cibosin fomno.quando calor magis
vigerm" tus, facjhus cofJci.alioqui coco-au difficiliimosipfis, cu ob
q,ualira^ tem eoru ualde calori rcliftcntc.tum ob im;r,cnsa quadrate. quauis f
H.i^c.r,S"ifl^'-itiirfenIinbPJiniiis,quifcnbitut;i'crasmaloi(refcmper ij
eosubiq.fomnoIcntosappelIans.Inmotuquoque&:quiefe cM nullam mcnfuram
feruare folitos athlctas teftatur Galenus,qui cos tw. modo tota dic
laborare,quando.f exercitium rUutf^fiuc KXTccanciiim,pueros quoquc cofueui/Tcin
palæftrisexercen,et prncrcrD tim Plato S.dclcg.qui tria
gcncrafccitpalacftritarum,pucros,imberbcs,& uiros.Non modo cnim fc arhk rac
ad inhibcnda ucncrcm frigidalauabant,vcrumctiam laminas
plumbcasrcnum,&:Iumborum rcgionibus ad arccndas ncdurnas poIIutioncs,&:
libidinis imIi.34.c.i8 pctusfrangcdosadhibcbacuttcftati funt Plinius,
Galcnus,& loanua. c.uic.' '"^^^ CaflianusJib.vj.c.vij.quam rcm ct
inTC^Iligerc voluifse D. Paulu arbitror,dum dixit . Qui in lladio currunt,ab o-mnibus
abftinent,&: hi quide vt mortnl^' ooronam,nos vcro utimmortalcm accipiamus.
lib adfflar Qil^,^cnaiTfis Tcrtullian^ hacc diccbatrNcpe cu&: Athlc tyrcs.
^^^^ icgrcgctur ad Itrldiorc difciplina,ut robori acdiiicado vacer,c6 ^ ^
tinctur a Iuxuria,a cibislactioribus,a potu
iticundicirc:cogLitur,cruCiatur,fatigantur,^ D. Chryfollomus i.ad Corint.c.9.
atq. Aclianus :Idc(Sy:Clcmcs Alcxan. lib.^.Stromaru^&SimpIicius in comcn^
li. is.c.6. tariofupi\iEpi:l:ctuintcIlcxir,quiRudio coronacathkcasauencre
ablbncre fcriplit,ianyh'us H.a:^ca^-foi>i iii, Rom. b^^^v^
HamcrO'Colligi,apud prifcosailos tu.rpc.ha:birum cfecnudos -ccrtarc^rimum aut
omnifi Olymp. vv.Kcaihum La^cdacmonixim Olympiacoftadi'0 dccurrcntcm
totunvcorpusdcnudafsc,pudcdi$ tancifltiifuWigarib us campcftribus obtcCtis. 77
ilnidjit exercitAtlo, tlf quomodo diffcrAt a lahorc (tj motu. OSTQVAM dc
Gymnaftica, quid fic>cius origincnvicc non vcrac,6aquacq.
fingulatimcxplancrur. hoc ctcnim fac'to,cum ars(diccbai Ariftotc^.Ethk.
lcs,)(it rcda opcrandi ratio,vidcbimus,qu:ic (ir in obcundis cxcrcitatiombus
hacc rccla ritio, quomodo iUarum unaquacquc, ucl ad parandumbonum habirum,vcl
fanirarcm dcfcndcndamconfcrat. P Excrcirarioncm iraquc dcfiniuir (
iaIcnus,fccundo dc tu. val.& ipfumfccurus Actius, tfscmorum vchcmcntcm,anhclitumalrcranrcm,ub:
yvtaict^ K/nw^v.&in-oW^fuic cxcrcirarioncm,morum,arq. laborc in:cr lc
diricrrc dcmonltrarrproptcrca qd' morus clt rcs quacdam magis communis,arq.
pluribus conucnicns quam cxcrcitatio, cumfacpcmulri moucanrur,ncq. cxcrjcri
dicantur,cxcrcirario ue ro non fit, niil vchcmcns morus : fnnilircr labor liccr
lit vchcmcns motus.ramcn non omnis labor propric uocarur cxcrciratio, fi quidcm
fodicntcs, arq. mctcnrcs laborarc,fcd non propric cxcrccri dicutur;
tamcrficriamaliquandocommuniquadam appcllarionc labor,cxcrcitAtio uocarur
rqiicmadmodiim (jalcnusab Hippocratcuocatumcfsc
ccnfcr,quandoisdixit,Laborcscibumpracccdat> icx. 3 1. ' &:,ubi
famcs,Iaborandum non cfiibi cnim vocchanc 7roVoj,quac,&: [^]^^ dolcrcm
&: laborcm,liuc damnum,ut Itroriano placui.6Lcxci cira„na,cu7 tioncm
fmnificarc folcr,pro cxcrcirarionc dumraxar accipi dcbcre l i tuiva^.
iudicar.c^jo cxcrcitaiio iiihil aliudcriccxfcntaiaGaicni,&: Ætij ^ nili
nifimomsvehemcns anhelitum alterans, yviivitrm^ Græcisappel-D latus,quod p!ci
uq.nudi,aur fliltem cum paucioribus ucftibus cxercerctur;quemadmodum
etiamlociiin,ubi ficbat>'t///^(cW appellatum fupcriore libro abundc
monftrauimus.Sed quoniam poflct ali quisetiamin gymnafijsab alreropcruim
vehcmentcrmoueri,qui tamen nullo padio excrcc i i diccicLur,iccirco hæc
Galcnica cxercitationis(paccciusdicam)definit:o haud quaquamintegra eft.&:
proinde Auiccnna Arabi m omnium dosftiflimus cum animaduertidethaud plcne
cxcrcitationemaGa-eno dcfinitam fuifle,a!iam definitionemin medium arrulit,
uid( iicct quod cxercitatio eftmo tus uoIunrarius,proptcr qucm anhc!iti.s
magnus, &:frcquens eft ne ceflarius.Quo m loco eos quoq. mcrito damnar,qui
leuem quamli bet ambulationem cxcrcitij nomire compcllant : non enim
appofuit(vchcmcns)quod,vbi magruSj&LfrcqucnsiitanhelituSjfcmper ^
necefll^riofcqui ur motumiilum vchcmentcmcxfiflere. fed neque hæc definirio
Auicennæ mihi plene fatisfacit : quoniam,etfi conueniatomnibus
triplicisgymnafticæ excrcitationibus, cas tamcn propricnon
complccl:itur:dequibusadmcdicum tradtare fpedtar, &: nos etiam loqui
inftituimus : fiquidcm omnia quatuor cauflarum genera haud quaquam
compleftitur, cum ncq. materialis explicetur, neque caufla cuius gratia.
Accedit item illud, quod multi uoluntarie uehementer,&: cii anhclitu au6to
mouentur, qui nullo padio dicentur proprie exerceri,ficuti ferui cum celeritate
dominoru mandata exfequcntcs,&: ficuti illi, qui vel inimicoru impetum, uel
quid aliud trifte cflugicntcs,&: vehcmenter mouentur, 6c frequenter,ac
magnopereanhelant : ex quo Auicennæ definitio haud pcr. fcfte totam
exercitationis natura copleditur s ficut neq. illa AuerF rois,qua dixit in
libro coIIedaneorum,exercitationem efle mcbrorum motum aliqua uoluntate fadlum.
Ideo nos alitcr definictes dicamus,quod exercitatio,de qua medici intereft
tradare, jpprie eft moms corporis humani uehemcns,uoIuntarius,cum anhelitu
alterato ucl fanitatis tuendæ,uel habitus boni comparandi gratia fa6tus. ita
namq. definitio omnes cauflas comprchendit, atq. foli definito conuenit : uerum
enimucro poflTet aliquis merito a me fcifcitari, numquid motus equi tando, vel
nauigando peraftus exercitaonis nomen mercatur, eo quod non libere a uoluntate
hominis, fed ab alio dcpendere uideatur ? cui rcfpondeo, non minus
equitantes,&:nauigantes alijs cxerccri dici debere,fi n6proprie,faItcm
communitcr,dum modo gratiafanitatis,uel etiam militarisftudij illud cfficiant :
quandoquidem propric exerccri dicuntur, qui exercitationcm nuper a nobis
definitam fufcipiunt.quibus vero aliqua tx comlraohibiu neccflarijs dccft,illi
potius communitcr, quii .propriccxcrceridiccntur,riue i fcipiis, llucab alijs
moucanrur, • tafidcm facere inerito lcripferunr &: Flaro, &c Gatexius
:fiqtuidem ^illaftatim ac in mundanahanc lucem ueniunt, f efe mouerie, agi
tarc, ac faltare confpiciuntur : veluti quoque pueri faititant, qui tamet/iin
hoc brufisimbellioresad fruendum hac uita excant,nihilominus &ip/i, quantum
conceditur, fcfc mouere nituntur iiitque exmotibus non parum voluptatis
accipiunt. qui motus poflmo^ dum crefcentibus annis dum codicionesfupra
defcriptasrecipiut, nil aliud planefunt, nHi iplilTima facultatisgymnafticæ
opera: vt omninodicere cogamur ipfiim,fi aon a naturafa£tam,faitem fecun dum
naturæ propenfionem efsc Huiufce facultatis cum Plato duasprimarias,atc[ue
uniuerfalespartes effecerit;proinde allatani ab ipfo gymnaflicæ diuifionemin
medifi proponemus, nou quod fub ipfaomniumexercitationum fpccies appofitc
contineantur, E fed quodanuUoalioartem hanc mehus diuifiun hucufqueuidcrc
contigcrit.nGque nos quifquam rcprehendere dcbet,quod in pluribusPIatonis,quemmedicumncmofanus
reputat,au£toritatem in tradanda re mcdicatantifaciamusiquandoGalenus ille, cui
no jninusmedici 3,quam Pythagoræ eius difcipuli credere tenentur, fcriptum
reliquit, Platonem Hippocratis imitatorem fuifse, nec vfquamabiUius placitis
receirifseinam Galenum hoc inlocofe;/>cdtuocauitLucianus; et in gloflario
habeturjccrnulat ;6t;,5W, quS uocem et ufurpauit Sc neca Epift.8.etfi cernuat
plurcs codiccs habeant. Secunda {^QCiQ%
eftfphæriftica,(iuepilæludus.naq(fludentes pila faltarent,præterHomeritcftimoniu,qui
fcxto OdyOeæ dcNauficaahæc tradit: TTiaich Hcw(jiKoict?^dj}tcaAQMoc iipX^'^
MoAttw^. idcft: Ludebantpilayvittisvcllisque remotis y Utqne his ^auficaa ob
niucas Jpe^abilis vlnas TrincipiiHn ludo dabat. tcftaturquoque Athcnæusex auaoritate
Demoxeni,ficutiinferius indicabimus . Tertiafpecies eft opx>i(ng fimpliciter
dida, nos limphciccrfaltationem diccrc polTumus. Totahacorcheftica quau is
maiores noftri ut plurimum ad uoluptates, ac lafciuiam poti us, quam ad aliud
utcrcntur,qui mos etiam ufque ad hæc tcpora pcrdurat, nihilominus gymnafticam
bellicam,athlcticam, atque mcdicamilla quoque prorfus non caruilTe conftat,
/icutnec ccteraf cxcrcitationes abuUa fereharum triumomifli fuifsc dcmonftrabo,
ubi in finguHs cxcrcitationum fpeciebus dcclarandis, quo modounaquacque
gymnafticæ illis feparatim ufa fit, indicareconabor . Bcllicam cnim abfque
faltatoria non fuifle, locuplctiflimumteftemPlatoncmhabemus, quiin
feptimodclegibus faltationcm in tres diuifit, militarem, paci aptam, atque mediam;
milirarcmque vocauit corum, qui modo exfilitionibus inaltum,mododcprcflSonibus,
modoinclinationibus hoftilium incurfuumin uafio A uafioncs^euirationcfq.,
imirabanturjquiq. figuris uarijsiaculatorcs, &c pcrculTorcs fimulabant ;
atq. hanc tanti fccit, ut uoliicrit in Rcpublicamaginroshabcri, qui mcrccdc
publicacondiicti uiros fimu!,ac mulicrcs hanc cdoccrcnr,arbirratus hac una non
paruadiumcnti accclVurum ad adipifccndamihtarcpcritia.&:nobihsauthor
Quintihanus hb. i.inft.c.z.tcllarur Laccdacmoniosfalrationcquan dam tamq, ad
bclhi utilcm intcr cxcrci rarioncs rcccpifsc.QiuJd uc roathlctica
gymnallicaintcrcctcrascxcrcirarioncshabucritaliqfi faltationcs,c6probari potcft
cx Plini o,qui Stcphanionc togarac fal ^^''^* tationisprimuinucnrorcm vrrifq.
faccularibusludis,(!s: D.Augufti, &: Claudij Caclaris (altalsc mcmoriac
prodidit : qucniadmodu 6c Plato loco nupcr citato laltationc a nobis mcdia, ab
ipfo d^^icfifi" THjL^lw nucupara in facrihcijs, atq. expiarionib. ficri
fohra,q a Ma B rincnfibus,&: Arcadibus cora Cyro fiicta rcfcrr Xcnophon,
rnidcns, libro i.dt apcrtc infinuarc uidctur, arhlcrica, cuius 6c ludos &:
furificioru cc^y'-^^^' lebrirarcs cfic ia dccrcui mus,falratoria habuifsc.(
lal.porro ncc mc dicinac Liymnartica falrarioncs a fc rcfpuifsc rainq fanitari,
et bono habitui mudlcsplanc conhrctur,quandoquidc in fccundoTrtei vycap.vltim.
Hvm' multos imbccillcs ualerudini rcfii tutos a fc ludis,
pacrarijs,ialtationibus, arq. alijshuiufccmodi cxcrcirationib, rcfcrr.id qd
AnOrib.r. ryllusparircr tcllatum fccit,ubi inicr cctcras cxcrcirarioncs
hominibus ad (anitatc conkrcntcs hanc ponit, mcdiamq. intcr chorca, &:
umbratilcm pugnam naturam rctincrc, &: ob i d puc ris,
mulicribus,atq.fcnibus,quorum corpus mirum in modfi inibccillum,&: gra cilc
cft,conduccrcfcribir. An ucro hacc cafir /alrario, quam Plaro up**yixLuu,i\\XQ
paci apram nuncupauit,(]uamq. animi in profpcritariC
bus,&:inmodcrarisuoluptatibustcmpcraticxfiftcrefcripfir, haud tuto
affirmare audco, fat (ir nobis hactcnus oftcndifsc nullum gymnallicacgcnushac
laltarionc caruifsc,inquam, &:in palacftncam cxcrcitationum arrcm a Plaronc
dmifani cisc iam diximus. De Sph.t€riliica. Cap. /K Altationem incubifticam,
fphacrifiicam, &: orchcfticam,fiuccommuni nomincuocaramfaltationcm
diuifimus,quarum unaqiiacq. iam nobis fufius dcclaia da lorct. Scd quoniam dc
cubiltica ab auctoiib. pauca admodum tradita rcpcrjuntur,omi(sa illa,rcliquas
duas prolcqucmur. Atquc primofphacrillica fcfc oflcrt, quac ramctfiHomcri
tcmporibusfimplicior cfscr,atramcnpollcrioribusfacculis mirain OymnajtUa. G 3
uaric«4 æratcm acqiiifiuit, m&c ipfa in gyrrKraii/s. t-am locumcSoLfD
«5:^0^5 quani pracfcdum awotdpn^/Koif voaitum haberc mcruerit. I.7.C. Jjr. 1«
uar pn^HV.op:, quxm pracfcctum arpotfp^i^^Kou. Qiiis vcro primus
fphæritticamhanc,fiuepilacladuminucncrit, fcripcores diiic/a fcntiunt. Plinius
inter Larinos Pytho cuidam hunc acccprumrcferc. A^alisCorcyreagrammatica
Nauficaam ludipihiejnuenrriccm, fcd ignoroquararionc,apud Athcnacum
facir.-HippafusLacedacmonijs, DicacarchusSicyonijsinuentum iftud artribuerunt .
Ex quo fir, vr ccrri quidquam fcntirc nequcamus,-&:co magis quod
TimocratisLaconis,aIiorumuc dehocludo commcnraria non habcmus, quibus forrafiis
&:ranracuarictatis rarioncm intclligere,&: incognira prope ludcdi pila
gcncra ccrtius cognofccrc poffcmus.in quibus cxplicandis cum huc ufq.
fcriprorcs non parum confufi fucrinr, arquc intcrdum a ucriratelonge
receffcrinr^nos, quantum ficri potcrit, tradarioncm hac clariorcm, minufq.
antiquorum fcripris repugnantem cfficcrc ftudebimus.PiLiiraqucludendi gencnlquaruor
duntaxat apud graccoscxftiriffe rcpcrio, uiyct^w T^pajjpcLV, fjLiTtfKVj^pajpoM,
yiivbju o-(poijpcJUf, ^ yicopvKOV, fiue paruam pilam, magnam, atquc pilam
inancm, et corycum,rcpono corycum inrcr pilac gcncra,quod licct
GaIcnus,Oribafius,&: Paullusab illisfccrcucrint, inftrumcntumillud, ut
demonftrabimus, nel pila crar,ucl pilac aflimilc . Paruac lufus fccundum
Anryllum trcsfpecics diuerfashabuir.prima crar,pila ualdcparua,in quaqui
cxerccbanti.r, corpore maximc claro ludcbant,&: colludcnrcs manus manibus
proxime admoucbat. fccQda crar pila maiufcula, qua cuhiros cubiris ludcndo
immifccbar, ncc corporibus mutuo hacre bant, ncc annucbanr,fcd uarijs modis
moucbantur,&:proptcr uarios pilæ iaitus huc,atque illuc
digrcdicbantunterria erat pila adhuc maiorfccunda,in quahomincsintcr fc
diftanrcsludcbant, &: in qua cum itararia, ac motoria pars cflct, qui
manebant,pila cmittcbanr cumuchcmcnria,&:concinniratc. inrcr has
fpecicsadnumcraridebcregcnusilludiudico, quodpcncs Athcnacum ifc^r^t901/ &:
(poivi^ uocarur, rumquiaa Galcnoin libcllo deparuæpilæ ludo fimul cum alijs id
quoquc cxplicarum habcrur,tum quia CleS.facilag. mcns Alcxandrinus, fcripror
grauiflimus, ubi dcmonftrarct ludum paruæ pilæ.&: præfcrtnii (puMct,
cxcrcitarioncm cflc uiris ualdc accommodatam,cam paruac pilac fpccicm fuiflc
hac oratione clarum facit:oV/ inucnTorc . aur>.-n. ^ «.rxx/C.r ^f^»x«,K«^?
^xnzo* /.cuf twsitx» rotwirlt^ yy^zy . K.«xw n.ut tAaCt, f/ ^W . X.
;,x*^r.^cr«x-;uoit-'J^«« i^lmptc,&: com;mn.tcr ludcrc folitos pcfpicuum
clhcitur.Hac ir.iq. I:.nr p.Iacpar..ac Ipccics dcquib.isa Gracc.s
.ncnt.oncmhabiralcio. .nqu.bus hp.ccncspli.lofophus.ncc non Ocfib.us
Clialc.dcnl.s ph.lolophus, nuo cum muhi cx Anrigoni rcgis ra.mliaribus hukd.
yrar..i cxlucbantur.mulrum cxcclluilfc dicuntur. Arqiu follux al.ap.lac parU.1C
ludorum £;cncra proponit, Aporraxun \ ra.i.am,..! quo
(clicctfcrcrccl.na.itcspi!a.n incoclu pro.jc.cbant,& a.itcquarcr' G 4 r-im,
- ram attingerct, excipicbant. Coctcrum pilam magna duos quoo. D ludcndi
modosnon folum exipfiuspilacmagnitudinc,ueru ctiam ex manuu hgura a
fuperioribus diucrfos cfl"ccifrc,Oribafius cx Antyilo rcftatiir, qucrum
unuscratludcntium magna,aJiusmaiore, lioc tamcn anibo communc poflidcbant, vt
/icuti in cccteris prædiCusJuiorcs fummasmanusscpcrhumcris humiliorcs,ita in
hac lcmpcr capiteahiorcs tenerenr, quandoq. ctiam fummispedibus ambuJabant ut
manus altius cxtoIlcrcnt,quandoq. falrabant, cum lcihcet pila fupcr cos
fercbatur,in qua proijcicnda vchemcrcr bra chia agirabanr Inanisporr6,fiuc
vacua,quod tcrtium pilacgenus fecmius,quahs fucnt haud farisexphcaium
habetun/iquid rame.i con.cauracxAntyllivcrbisaircquilicct,crcdohancpila,qucmad
modum S^coctcras cx corio cofutam fuinc,in hoc ab alijs diffcrcn tam,quod illæ
ucl pluma.^uclaliamatcriaihæcfolo venro,/iue E ære plcna forcr,arq. rantac
magnirudinis, ur ipfa difficulrcr lude. rerur Corycus uero quis cflct,
quomodoue ludus illc perageretur, cumAn yllus apud Oribaiium clariflime
exprcfl-erit, e?us orationem huc -duccre ftatui, quæ ita i„ V^aticLo coc^ceT habct
. K«,o.x^^ aSzvir(pcoP i,U7Ay^ccru^ yAy^af^^cy, -Hw^^. ^oyrL., .fo^i-npo.,
i-.^,.e^,^^oJ.oZv:,,n robumonbus arena implcuncins ucrS magnitudo a d 2e cor
Pons,&ndacta,cmaccommod«ur,rurrcndrturau7cmin« SXnt it u iS
l","!™ ' itcrum rcIrcijcicntcscmit nt.urc rr^, '/if,""';:^^
' ucntu ruooccunat,adcxt«mnm 1' ? r™';''' "/P°" »,,.;„r,;tr
™.r*,r^ot:'ald[&i^re! troccdat. . 17 A troccdat, c\quo fir,ur quandoq.
manibus occurranr, chim propin„ quar,quandoquc ucro pcctorc manibiis
pallis,quandoquc vcro ijs^ ad tcrgarcvolut.s. Hadcnus Antyllus.qui ramctii
hguram Coryci luporcomnibus tunc remporis nocam non cxprimar^conicdura ta
mcnalTcqui polTumus j^ipfum iphacricum ^aucfaltcm rotunduni cx matcria ccriacca
cxllitillc, alioqui ii angularc fliifsctin occurfu, &c manus, &: pechis
non finc laclio.nc pcrculTifsct . Hacc autcm li uidifsct Fuchfius, (anc
inrellixiikt, Valcriolam non finc racionc aducrfus ipfum contcndifsc, follcm,^:
corycum paullo minus, quamcoclum,&:rcrramdiflafsc. Ncquc ctiam fatisn.irari
folco anriquilTimum lcriprorcm Caclium Aurclianum,qui lib. v. tard. pafl* cap.
vlr. dicit variam uolurationcm in palacftra cfsc uocatam a Graccisccladian,
atq. coricomachian,nililirin codiccdcprauatilTmo crror,vt puro . Dc hoc
intclligcndum crt adagium illud, TTfi^KigvKOpyviJu^d^yrlrKt quo gcncrc
ccrtamins Apulcioin Thcfsalia ccrratum cll.Dc hac quoq. cxcrcitationc vcrba
tccir Hrppocrarc^ fiucPoIybus,ubijiL(';^/flfy,faI(o a Clornario follcm
intcrprcratam,ad artcnuandum corpus prohauitrqucmadmodum &:candcm
inrcllcxit Arctacus, ubi pro clcphanr icorum cxcrcitationibus xefv*. KoRox'(ti
probnuir,quas bonus i!lc intcrpr^cs,ucfc^io qno fpiritu, pcrac,aurfaccu!i
iaauSjincprcfatisrranftulir.Eandcmquoq.nucllcxifsc Coclium Aurdianum
cxi(b*mo,cuin ad polyfirci am diminuc damcorycomachiam(fic cnim
lcccndumcll)comnicndauit ijfdc propc rcmcdijs vfusqfa' ^b 1 lippocrarc loco
cifaro propollta funr. vndcargumcntatusfum,Auctorcficuti cetcra,ita
«ccorycomachia C ab Hippocratc mutuatii efse. qtiamufs textus ludicio mco
dcpraua ' rusfit. Locum vbi ludcbarur,Cor)'ceumapud Vitruuium
appcllari,ccnfucrunraliqui;quorumfcntcnriamp(>Itquam in fupcrionlnis
rcfurauimus,nilaliud diccndum cll.Arq. hacc dequatuorpilac lu di graccorum
gencribus,vidchcc t pila parua, pila magna,pila inani, &: coryco. quac omnia
diuerfa inrc r fc cxditifVc, non modo cx dcfcriptionibus nupcr allaris nuinik
rto conftar, ucrum criam cx Galcni vcrbisinfccundodc tucnda ualcrudincfcripris
: vbiintcr cacccras gymnafiorum cxc rcirationcs corycum, pilam parua,&:
pilam magna,fcpararim rccenfcr,ficut &: Paulus Ægincta iplum imi tatus.
quod profcdo non lccifscnr,nili quacda iurcr lc diucrla cxfti tifscnt pilarum
gciu ra,&: diucrfac ctiam cum ijs fadac cxcrciratio nes. Quac nunquidomncs
in Graccorum gymnalijs cxcrccrcnrur, parumfcHcrcfcrt.farfirinfcUigcrc,mcdicamgymnafticam,atquc
bcllicam,& pracfcrtini pi.cris cdoccndis incumbctcm pihu u cxcrciratiorcs
if citationcsvfiirpafrcsncque ad valctiiclinem,acngilitatcm compaD
randa,augendamiie cas cercris inferiorcs exiftimnfrc. atquead hoc
idmaxinrcfacit (]uod Knftathuislcripfit ad Xodyfs, Hcrophilomc
dicopolitamfuiflc ftatuam ac propceaintcr alia gymnalticac inftrumcta ct pilam.
Admirari aut nemo dcbct, fi nos in fuperioribus
fudosintcrathleticasexcrcitationes rcpofuimus,&: fubindc multas quoq. bcllicas,mcdicasq.
exercirationesludosvocamus,vtnupcrrime dc pila dictu ci\. a nobis ; quonia et
vetcru, &: recentioru tfi Oracc()ru,cjlatinoruloqucndi mos obtinuir,vt
multasexcrcitatio* ne5 natJ^iK^^Sc iudos vocarcnt,autquod a pueris g.7r«rA5
Gracce di cunrur,vt plurimil h\TCiit,aut qcf illi.q. exerccntur,non fcrio,(cd
io vidcantur,{iucgratiafanitatis,{iucalteriusreiid efficiant. ludi vcro,quos
athlcticæ efTc nos dicimus, ita propric uocabatur, quoniam foIatij,&:
voluptatis folius gratia in otijs fcftiuis agebfuur. E Dc PiUe ludo fecundum
Latinos. Cap. V OSTQVAM pilaludendiGraecis ufitatagencrafatis
cxplanauimusjfupcrcfl: &: ea quae aLatinis ; &: in vlu
habita,&:fcriptistraditarepcriuntur,explicarc:vnde,in
quibusamboconuencrint,&:inquibus diucrlifucrint^ perfpicuum futurum fpera
Quatuor igitur fuillc pilae genera ctia apu(i
Larinos,quibusludebant5inuenio,follcm,trigonaIcm, paganicam, &: harpaftum,
quae omnia fub nomine Jtalicac fphacrae a Coclio Aurcliano medico complexa
nonnulli crcdunt. Folhs erat pihimagnaexaluta confcda,(oloq. uentoxeplera, quae
/imaior eratjbrachijs impellebatur, &: fimpliciter piJa interdum nuncupaF
batur,ut apud Nonium ex Varronc,Purgatum fcito,quoniam uidebis Romae inforo
antc ianuas pucros pila expuJlim ludere \ &c apud Propertium lib.3. Cum fUa
vcloces faltitper Irachia ui^us. illtcrdum quoq.,pila vclox,ut apudHoratium
Sac.Iib.2.Sat.2. scupiU vdox M olllter auflcrum fludiofalkntc labvrefn, Seute
difcus agit* Hufufmodictcnimpilaecxcrcitationem licct uidcrein Gordiani tcrtij
Imp. Rom. nummis, quos hic dcpirtos adpofuimus,&: ex quibus conijccrc
licct,unumquciuqae iufcxmm nropriam pilam habuifle^atq-ueeum luduminfacriticijs
Pytlrij^ apud AipoUoniaras adhibitum cir]e,uttumex uoctr ns-ei Atum
ex^aima,-atquc facri- ficatorijs uafis colligere non eft difticilc Si
vcrominorerat,pugnis cijciebatur^atq. piigilJarisfoJIis, vt apudD PJautu in
Rud. cxtemplo HercJe cgo tc foJJcm pugiJIatoriu facia ; uocabatur.lntcrdu quoq.
hanc cadcm pilam Folliculum appellari crcdojlicuti a Suetonio in uita Augufti,
quem hoc pilae ludo ualdc deletVatum narrat.Quomodo ucro
JVIanialisIib.^.dixcrit. Tlumeayfcu laxi partiris pondtra follisy ' cum ex
corio ucnto replcto pila hacc confucretur^&non pluma.ut omncsfcrcLatini
audtorcs uno orc fitcntiir, quidquid alij rcfpondcantjOpinoregooblcuitatcmfoIIisponderapJumca
dixiflc.cuius lcuitatisgraiiancque.pucri, ncque fcncs aJioquiimbecillcsintcr
ludcndum vcl nimiuiii quid dcfatigabantur, &:propterca idc IVIartial.alibi
fcriptum rcliquir. iib.j^.. Itc froLul muriLS tis mibi connenit aetas, Fotlc
dtcct puercs ludere, folle fenes, £ Namuthocgcncrcludicorpora imbccilliora
cxcrccri ualcrcnt, nonmodoIcuispilacHicicbatur, ucrum etiamdicarus lufuilocus
nullis lapidjbus aut latcribusltcrncbatur, nclabercnturpcdibus ludcntcs,&,
fi fortc lapfi eflcnt, cx cafu damnum non patcrentur i &: proptcrca,cum
folum minimcpauimcntatum forct,cx cotinuo tcrrac attritu puluis cxcitabatur:
quamq, ctia ficri potcft,ut pauimcnta ludcrcnt,fcd pulucre humili &c cxiguo
illud adfpergcrcrur,ita ut pi lam rcfilirc non impcdirctur, atq. ludcntiQ pcdes
magis firmarcn-^ tur.Nam in pulucrulcnto folo licri hanc cxercitationcm
confucuiffe,innuitJVI.irtiaIis lib. i2.ubi Mcnogcncm quendam cx Thcrmis ob
dcIcAationem exire ncfcicntem in hunc modum carpit. Ifjugere e Thcrmis, circa
balnea non eft, Menogenen, omni tu licet arte v^lis, p Captabit tcpidum dextra
lacuaque trigoncm, imputet ex^eptas ut tibi fæpe pilas, Colliget^, et rcferet
lapfum de puluere follem, Et ft iam lotus, iam foleatus erit . Numquid autc
ludus ifte fucrit unus cx ijs, quos fupcrius fccundunl
Graccosauftorcscnarrauimus,uariacfcntcntiac fucrunt.Ahj cnin^ crcdidcrunt pilam
magna Graccoru>&: follc Latinorii idc fuiflV, m
tcrquosfuitThomasLinaccr,quicumin2.dctu. val.corycufollj traduxifsf't,in fcxto
poftuuidum liJ^:o magiiam pilam itcrum folj 2. Jtu.ua. tranftuht, quafi
corycus, &: pila magna non diftcrrct apud Galcnu, qui cxprcfsc ^ pila
paruam,&: magna,& cory cu diftinxit . Alij maluerunt corycum
Graccorum,foIlc Latinoru fuifsc : atq. hanc opimonc maior pars rcccmiorum
fcriptorum habuit, intcr quos fucre quidam, qui apud Onbafiu caput Cory ci, de
foilc pugillatorio infcribcud di Oi cd hfl dd pah W COiI( liisa con pim bj cai
m\ ki Sicn Doni ierl( !crc A kribcadum iudicarunr. fcd hi oC-s m.ignopcrc
hiillucinantur:^ primo,qui crcciidcrut follcj^Sc mænam pilam idc fuiirc,duabus
rationibus rcdar^uuiuur,quarum ahcra c(l, q Jludctcs magn*i pilafcmpcr fummas
manus capitc ahiorcs tcncbant, quandoq. criam fummis pcdibus ambulabant.ut
manus ahiorcs tcflcrct : ahcra cft,quo J Oribafigs hidu pihic may:nac no modo
acgrotis, fcd cti am coualcfccntibus, atqr bcnc ualcntibus inuiile iudicaui t,
quorum ticutrum habuilk folkm,facilc cft cx fupcrioribus iudicarc.Qui ucro
iollcm corvcu!nfui(Tccxillimarunt,muhisrationibus&:ipficrralTc dcprchcnduntur.Primo,quoniacorycusc
cuhninc gymnahoruinfufpcndcbatur,folhs h bcre emittcbatur . Secudo corycus
ficulnco grano^ aut farina,aut arcna implcbacur, follis folo vcnro . Tcrtio
loUis in pulucrc cxcrccbatur,cOTycus ucro no. Fuerur itc qui tollc pila i naB
nemfupcriusa nobis cx AncyllodcfcripramfuiiTccrcdidcrur. quibu^ cgo libcnter
a(Tcntirc,ni(i MartiaJis dixifict, fbllc mitiori actari couenire, &:
Antyllus pilæ inanis cxcrcitarionc non admodu
facilc,ncq.aptam,&:idaoomirtcndamcfsc ccnfuiset. Colligoigicur cx his
omnibus, quod cu follis,ncq. inanis pila Graccoru, ncq.magna corundc,neq.
corycus fucrit, eum illos ignorafsc. ncmo cnim c(l, paruampilam follcm
rcpuraucrit. Porro Trigonalis pila,qua hidcbatur,parua crar,ita nuncupara uel a
loco,ur uoluerur nonnuUi, ubi ca excrccbatur, qui locus triangularis crar; ucl
potius a ludctiu ( qj magis crcdibilc cft)numcro,figura, Sc liru.hanc cfsc
aliquando pili £mphci nominc appcllaram inucnio, ut aDud Marrialcm lib.vij.
TipnpiU^ non foliis^ non tc paganica Tbermis ^ vj Tracparat, aut nndi liipltis
icius bcbcs : Vara nec iniiHo crromatc brjcbia tendis, Klonharpalla uagus
pulnerulenta rar.is. Si enim fola quatuor pi lac gcnera facimus,ncccfsario cum
ceterac nomincntur, Trigonalis fub pila fimplici coplciflctundc hac fimihtcr
locutum credo Cclfum, quado dixir,ab aluo cirara ucxaris pila, &:rcliqua
fupcriorcsparrc s cxcrccnria conucnirc, quoniam in hujufccmodi ludo parrcs
infcriores fcrc fcmpcr fimue mancbanr, fupcriorcs perpcruo agirabanrur .
Quomodo ucro pcragcrcri:r cxcrcitatioifta,facilcconijCcrc pofsumuscx Martialis
ucrbis,in quibus dem6ftrar,luforcs ita triagulari fitus figura colludcrc
foliros,ur manibus urrifque modo fini ftra, modo dcxrra pilam uiciflim
cxpcllcrc,&: cxcipcrc ualcrcnr, nc unquam cadcrcr. in quo fumma
ludcntiumlaudcfuifseucrifimilcficfitur inlib. 7. ubi Polybum qucnda Uudat ob
agiliutcm finiftrac manus in iacicnda,cxcipicndaq.pila. 5)2 &:libro.i2.
&libro.i4. Slc palmamtihideTYigone nudo FnHæ det fauor arbiter coronæ, T^fC
laudet Volybi magis finiflras . Captabit tepidum dextra, læuaque trigonem. Si
memibiiibus Jcis expulfare ftniflris Sum tua ift nelcis, rufiice rcdde pilam.
Ex his mcherclc patet confiicuifsc trigone liidcntes a fc inuice mo do
niittere,modoexcipcrc pilam, modo finiftris, modo dexteris,eo propemodo, quo
nollratespila paruafupra funiculum ludunt,&: quo etiam Antyllus tertium
paruac pilæ lufum dcfcripfinGur-vero Mart. tcpidum trigona dixcrit tum loco
fupra citato,tum lib.4. Seu lentumcefoma teris, tepidimi4C trignna : haud fatis
mihi conftat.artamen,fi quid diuinare conceditur,dicerem proptcrca trigona
tepidum dixifsc, dft quod homines ludcndo^ob uchcmentcm utriufquc manus
laborem, &c afliduo rootus pi^ Jæ tenore magis incalefccrent: uel quod
locus,vbi ludebatur tepidarioin gymnadjs uicinus forct, &: proptcrca
ludcntes tamloci, quam pilac tcporcm qucndam percipcrcnt. itiucro fuifse,
ucrifimile uideri potcft : cum fupra tum ex Galeni, tum ex Martialis fei;!-,
tentia demonftraucrimus, poft pilac ludum ftatim confueuifse balnea calida ingrcdi
. Nifi malimus di cerc, poctam trigona tcpidum dixifse,quia ex continuo motu
pilac in manibus ipfa tcpida euadebat,eomodo,quoPropertiuslib. i.in Elcgialanuæ
conquercntis, dixit Tepidum limc,quod ex cotinuo fupra ipfum ftatu tepcfceret,
7{ulU ne finis erit noflro conce/fa dolori, i^^urpis y in tep^ limint fomnus
erit ? Excplum trigonalis pilacmihi uidcturillud,quodin nummis M. Aurclij
Antoniniapud Byzantios excuffis hucinmodum apparet. F Quem itc ludum in
liicrificijs ApoUinis Pythij Aftiaci adhiberi folitu,mcmoriac proditu eft. dc
hac pila quæ dicit Seneca 2. de ten. f.c.ip.efse
intcIIigendaputantaliqui.Eundemprope autfimilepaganicæ pilac lufum dcfcribi
cxiftimo a Pctronio arbitro in fatyricis,ubi huc in modum fcribit.Vidcmus (cnem
caluum tunica ueftitum rufsca inter pueros capillatos ludctcs pila .Ncc tam
pueri nos, quamquamcratopcræprcciumadfpcvflaculum duxcrant, quam ipfc
paterfamilias,qui folcatuspilafparfiua cxercebatur,nec ea am plius repctebat,q
terra cotingcret, fcd foUc plcnu habebat feruus, fufficiebatq.
ludctibus.Notauimus ct rcs nouas.Nam duo fpadones in diucrfa parte circuli
ftabant,quorum altcr matellam tcncbat ar genteam, altcr numerabat pilas, non
quidcm eas,quæ inter manus lufu expcUcntcs uibrabantur, fcd cas,cj[uac in
tcrram dccidcbant. Siiccedltpagcinicapilaficappcllatn, quodcflet
vuIgari5acfmocfu,D et in uillis pagis uocatis;ucI in pagis urbis ut plurimum in
ufu habe retur. Nam Dionyfius anriquiratumlib. 4. rcfcrt, Romam in qua? tuor
tribus olim partitam fi.iiiTc,quæ &c pagi,ficut earum habitatores
Paganijnominabantur. fiuc igitur ab ifi:is pagis, fiue a uiHis paganica pila
dcnommata fir,pari]m rcfi:rre credo.fat efl:,pilam fuifTe ex coriopluma
rcp!cto,trigonali latiorcm,non ita tamen ut cfi:foIIis,laxam, fcd duriorcm ;
fiquidcm follis, qui uento replebatur^ctfi
quantodUriorcrat,tantofaciIiuscoIudcbatur,quanto laxior,tanto difficilius,ut
ctiam tcmpeftatc noftra quotidiana expericntia comprobaf,ramcn paganica pila
quo ctiam durior elTcr, et pluma rcple batur,&: non i ta rep!ebatur,ut laxa
ufquam foret, fed vndequaque dur!flima,&: proprcrca difficulrcr ea
Iudcbatur,qucmadmodum uc nuftiflimcMarrialishocdiftichooftcndicIibro H^ic (iuæ
diffii ilis turget paganica plumay Folle minus Laxa efl, ^ minus arcta pila .,
Sub nomine enim fimplici pilæ intclligi aliquando foIIc,aIiquando trigonalcm,
paullo antc fignificauimus . Itcrum illud ignorari hoc in loco nolo, ctiam in
gymnafijs paganicæ pilæ exerci tatio^ ncm in vfu exftitifl^CjUt idcm Martialis
Iib. y.tcftatum rcliquit. Tipn pila, nonfoUis, non te paganica thermis
Træparat, aut nudiftipitis ictus hebes, Namcumfacpiusa nobis indicatum
fit,confucuifle fcre omncs» quifefein
gymnafijspilacxcrcebant,priuspilaluda|c,& dcinccps tatim balnea
ingrcdi,Martialis illis uerfibus demoimrat, inter ceteros pilæ ludos in
gymnafijs fe exercentium ad balnca præparatoriospaganicamquoq. adnumeratamcfle.
VItimum&:quartun| ^ Latinorum pilæ genus harpaftum fecimus. quod ob nominis
fimil litudincmidcprorfusuidctur quod^V^d^oVGræcorumrcratenint
pila,quamludcntcsalter alteri eripiebat cuius ucromagnitudif nis,^ cx qua
materia forct,haud quaquam ab ullo audorc cxplic:^ tumhabemus,nifiquod
Athcnacus his ucrbis manifcftum facit, harpaftum rotundum fuiflb. cA^x^
(panvScL 4;eaAf^TD, 0 otucrir,tum quia ciufmodi accubitus fibi ualde indccorus,atq.
a Chrifti vita,^^: moribus alicnus,fimulq. edcndo,& ibi bcndo non parum
incommodus vi derctur,tum quia a cuncftis prac fcrnmanriquioribus Euangclij
interprc tibus fir penitusignoratus, aut /altcm omiffus, minimeq. coufidcratus,
tum quia a piftoribusnumciuamnec fomnioquidcm aut cogitatus, aur ullomodo
cxprcflusinuenitur-quafi vcro haud fit verifimilcpotuiflc tato temporc,totq.
pcritos artificcs, atqdoftifrmios inrcrprctes iatcrc rcm non ita cxigui ad
pcrcipicndam Euangelij vcritatcm momcnti.Pe iriis Cja.conus,6^ Fuluius
Vrfinusrcrum antiquaru peritiflimi,quiq. muitis annis poft nicam gymnafticam de
triclinio fcripfcrunt,proculdubio ad vcricarem accubitus acccflcrunt,atq. fi
acquus Icdor Gollras cogirationesillorumfcriptiscompararc vclir, ccrtc fl:arim.
animaducrtct,fcrequicquidhac dcre boni dixcrunt,cnoIlrolibro acccpiiTe,
practcrita ramcn memoria, kcus quam fccit cruditiiTimus Galliac occllus Pctrus
Fabcr, qui non modo fumma ingenuitæ in libris fuis agonifticis
incredibiIidodrinarcfcrris,non: erubuit profitcri fcfc magnopcre cx Iibris-dc
re gymnalticanoftris profcciflc,vcrum cciam fcgctcm,quam cgo pi imus illius
pcne obliteratac artis rcnouaui,ira fingulari fludio, &c vberratc
pt-opagauit, cxonKiuirq. ut ab omnibu^ pro tanxo bcmcficio fibi gratias immor
talcsagimcrcatur. Iraquc ut omncm cxanimis dubitantum exi^ mam fcrupulum,
&: aliquid maioris lucis tantac rei obfcurirari affcram,acompluribus quoquc
rogarus,nonnuIla hocinlocotani deipfo accubendi ritu,quam dc ipfiiis Magdalcnac
firu^&: opcrandi modo adijcere dcliberaui, ratus mc hoc laborc id
cflfcdairum 9. ut gentcs tyindcm rcipfa melius confidcrata pauliatim rncipiant
uctuftum errorem exucrc, arque fimplicibusanimis pidluraueram cius favfli h
iftoriam pijs, &: vcritaris amantibus repræfentare . Qir :)d iraquc Vctcrcs
tam Græci,c[uanT Latini,arque Hacbici cpa tanrcs accubercnr;, nomcn ipsu apud
hafce cun£las gentcs receptiffimum facile pcrfuadere poteft, qucmadmodum a
paucis dubitatum iaucniojcpin uiclmiopro commode, &c faciluer
edcndo,atAqucbibcndcpairim aliquot fcculisufi fint . Quid autcmpropric antiquis
clTct triclinium non ita abomnibus confcflum habctur; Eccnim qui nupcr ad
Athcnacum crnditiflimas animaducrfioncs haudlincnugna laudcin luccm mifir
CaufKibonus monftrairc fi^ bipcrfu.ilir^triclinium inrcrdum fuilTc acccprum \
jpfo I)..bifaculc\ubi kzY\ (lcrncbanti r,proptcrca(]uc
is^uTciK^wcv,J^iKxrsiK^iJ^jiMxrfy ^i^op inucniri nominara, prout pauciorcs
plurc!>uc cw js c.ipicbat; ncquc ipfc ui alvnio apud aliquos fuiflc fic
appclla' xum, fcd quia in iH j Athcnad conuruio unufquifquc in mcdium 4d
proponcrc conabntur, quod infrcqucntius crat, atquc aliqmm Icitu dignam
raritatcm habcbat : iccirco cxilbmandum &ianQminAndo inurcndorriclinio
cundcm cffc fcnluni fccutos, qrxm&: Kcginaurbium Roma fcqucbatur • Atqucdc
Jiocipfo cuni l(;qi.crctur antiquus, &: grjuis icriptor Scruiusiu
Comm.adprimumVirgiHanac Acncidos diwt Vctcrcsftibadia .non habuifscfcd Itratis
tribus lciftis cpuIaircCundc triclmiurn Itcrni di'tum ) arc]uc eos crrarcqui u
Kant tnclinium ipfambalilicam,ucl cocnarioncm . Ncquc minus fatlunrur, qui
puiarunt rripodas iilos, dc quibus mcnno cft npud A:1k nacum cx Eubolo comico,
a^inquibus duo ucl rrcs cdcntcsrcpracfcntantur inmarmoribusuctulUs fuifsc
triclinia, quandoquidcm nulla ibi rruini lciftorum imago, nccucaccubirus
confpiciiur, fcdfunt dumta>at fcpulclu-aliiimcocnarum dligies,dc quibus
rrafam non rcrro,fcd antc, req. ftantc m,rcd genibus humi procumLcntcm vfquc ad
hacc tcmpcra depinx,crunt>& feipfos,& alios (fiita loqrilicct)
dcccpcrunr^pracrcrquam cnim quod vix imaginari porcft huiufmodi omnia
pcrficiamuIicrcpotuifse,certumcft etiam,ncqueaminiftrantibus illudpcrmi/sumiri
dcbuiffcfimulque indecorum ualdc fururum fuifse,fi mulier fubtus menfam
gcnibusfefchumiproabluendis, &:cxiccandisC HRl S TI pcdibus ftrauiffer
&, quac omnia incommoda cuni euitenrur triclinio, et accubiiu noftri^. ^
haud inrcHigere pofliim, eur debcanta quoquam ingcnio guftii prædiro rcpudiari,
eo maximc qnod nuHarurpirudinis Ipccics in ijs fpc£larur, quæ debcar ab ca rc
crcdcnda qucmpiam pium dcrcrrcre, quinimo fi accuratc ingrcifus mylieris
expcndarur, miniftros, dc accumdifc bcntcs 2« tcm^s latereponm, haud fccus,
atqucubi fcfe iii cxteriorc trichnij partc iuxta pcdcs CHRISTI locauit: quod fi
aliqiiid in illoaceumbcndimodo non ita laudabilcfortc npparcbacquifquc fibi
illiid pcrfuadcrc dcbctctiam quacindccora funtob populi confuctudincmfacpc
omncm foeditatcm amittcrc,nam mulicrum aliquibus non cirra noram fpontc
conuiiiij publici loci:madirc,ibiqi:c audcrc uiro adlucrcic, eumquc conrrc Aarc
vngcrc proculdubio rurpc,& indignum caftitatc CHR1ST1 poruiffet vidcri,
nill mo5 propc omniumorientalium caminuitaffcr, Certc Maldonarus inrclliycrc
nonpotuir, quomodo dicatur rtctilVc mulicr cicda, qua(i non cntnc
lciti-fupcrquos difcumbebanr ira alri,urip:i hcucrirfic ftarc, SC pcdcs cius
lachrymis lauarc, inrc rprcrans ftarc pro con/iftcre, Scd lunufmodiofcitantiam
conimilirob vcri triclinij ignorantiam,quod pcdcsaltos habuilVcnon cft
dubiranduin,ut faci^ Jccxiplapidurac!uccr>&:Virgilius dc Acnca loqucns
accumbcntcdixir iniciofccundi libru jrJe toro f^^^^ ^cntas fn orfts jtlto.
Arqui Tolcdus Cardinalis ob longam, quam Romæ traxir,moram, uidcndi, audicndi
rcium vctultarum pcrirosubcreaioccafioncmhabuit, forfanque noftram fcnrcnriam, &:pi.
duram compcrtam habuit, quod cam iampridcm cum do(ftiiriinis lcfuiris, quorum
conluctudinc dclcdor magnopcrc „ communicalVcm, priufquam publicarem.undc
facile confcnC rirtoros triclinioruin ira alros cxtiriflc, utmulicr nullolaborc
pofscr ftans rctro pcdcs cpulantis conrrcCtarc, lachrymifquc abiucrc :
&:ccrrc liccr uir doctiflimus noncxplicatc docucrit difcumbcndi modum
artamcn ex cius vcrbis vcrirarcm libi raaximc omnium inno,ruifsc parct. Jraquc
hoc iam conftirutum fir tricliniuni dictumcfsc, quod rrcslccti ftcrncrcnrur, in
quibus ira iaccrcnt, ut vcrlus menfam cubitis finiftris innixi dextcra manu
urcrcntur,pcdcfquc in cxtcricrcm partcm protcndcrcnr, ubi miniftri cranr,
&:ubi ftctit crcchi MAKlA, qucadmodum difcrtc faris, &:copiofc alil)!
cx uarijsfciiproribus declarauimus, &: ficur cx imaginc antcpoiita
clari/Time cluccr . Supra quid ucro ftcrncrcnrur lccli, non cftiraproditum,
arramcn licct conijccrc facpius fupra tabulata alriufcula clsc c.xrcnios, quac
nonnumquam criam apud Hc^ J& 3 bracos cx argento, aurouc conflata fiiifsc
colligitur ex pri-D mo capitc Hcfter in illius magnifici conuiuij dcfcriptione,
quod paritcr a Romanis hivftum teftatur præ cætcris Plinius lILro xxxi i r.
capi.vndccimo, fuifsc ucro fa£l:a Icftifternia primum lignca conijcere licct ab
co quodnarrat cxSenccaAgcliuslibro duodccimo, capi.fccundo, nempcSotcrichum
lignarium fabrum cxritifsc, qui Icdos tricliniarcs ligncos faciebat, cb idquc
data cftoccafio Adagij, vt cum iicllcnt rcm cxigui prccij, ncc multi artifici;
frgnificare Soterichi lcdis aflimilarcnt . Nunc ucro fccundumpropofitun^
aggrcdior,fcilicct an apud Hcbræos, quotcniporc CHRISTVS aflTuit cocnæ
Pharifaci, mos fucrit djfcumbendiirr triclinijs, quemadmodum Romac, qua de re
cum confulucrim Vitalcm Mcdicæum Florentiæ, artemmcdicam fanE (ftac,ac
feliciter cxcrccntcm,rcrumque Hcbraicarum longc pcritillimum, ismihiadco
dofte,&: diferte rcfpondit, iit in hciiufmodi graui difceptatione uix
quicquam doftius,&:eliniatiusdcfidcrari queat : quia tamcn ab
fcntcntianoftra noa nihil difccififse vifus cft, pro mca confirmanda ncccfsc
putoaliquid in mediumaffcrrc . Etenim dubitare minime oportct, quinapud
ucniftilTimos Hebræos uarius conuiuiaagendi mosfuerit, fiquidcm libro Gcncf in
cclebri illo conuiuio, quod lofcphus Fratribus, alijfque Magnifice, dcdit,
omncs fcdifsc mcmorantur, fimilisquoquc morislibroludith, libroprimo, Rcgum,
atque ahbi facpius mcniio clariffima habetur:atquifiThobiac,qui uixit ante
captiuitatcm Babylo^ niæ Iibcr Icgatur, ibi accubirus non obfcuram mentioncm
fieri cognofcctur, quamquam fortafsc diccrc licerct tunc illun^ apud AlTyrios
vixifsc, apudquosinufueratcocnantesaccunibcre. lam vcro dc Troianis,atque
Tyrijs fimihtcr exiftimar€ dcbcmus, cum apud ^'rrgilrum primo, &: fccundo
Iibn> difcumbendi confucrudinis commcmoratio fiat, ficuti libro' fcptimo,non
dubiamcmoria rcperiturfcdendi ad mcnfas vfus fubillis ucrbis Jlæ SacYis
SedcsepuUs: hic arteteiæfa Terpetuisfolwpams coufidere maifis. Vbiquamquam
inaliquibus eontcxtibus kgatur Ioco(confi. dpe}accumberc, attamcn Seruius
cumlocumintcrprætans dixit 71 A Jixlt Malorft epulari confueuifsc fcdenfcs,
.trqrc ilftim habuiffcmorcma Laconibus, &Crcrcnfibus, utVarro docuit
infibris dc gcntc Pop. Rom.in quibus dixitquid a quaqncrraxcritgcutcpcr
imitationcm. Hacc aurcui fcdcndiad menfav conluctudoRomanisccrtcillisuctuftillimisdiu.
&:in aliquibus oi:c.ilionibus ufurpata fuit, ficur ctiam monun;cntis
rclatwni jnucnitur Alcxandrum Magnum aliquando fcxccntos ut aic Athcnacus, vcl
fcxmillc ut cllapud Kulbrhiumduccsconuiuiocxccpif5C,cofquc omncs fcdilibus
argcntcis fcdcrcfcciffc. Atqui poftcrioribustcmporibv.s t.iui florcnris
Rcipub.qunm IMPERATOR VNI noncddubium nobiliorcs ialrcmaccumbcrcconfucuifsc,
idqucpractcrinnumcroslarinac linguac auctorc^ marmora quoquc tclhntur, ur
locuplctiflimc alias B dcmonflraui, arqixalij quoqucdocucrunt. (iraccos parircr
conftatcundcm accumbcndi morcm cf^c fcdatos, &:quod turpius cll, narrat
Athcnacus raatulas pro cxcipicndo a ucfica rxcuntc uino gcil.vrc confucuifsc in
triclinia,quas facpc ubi uino incalucraut ad capita frangcbanr, inrrodudo hoc
morc a Sybariticis populis fordibus omnigcnis olim dcdiriirimis .Vcrumdc
Hcbracis dubirarur an fimilitcr illi ad Romanorum imirarioncm accumbcrcpotius,
quam k\\irc loliri fucrinr, ut Jiacrarioncliccat cxiftim.u^c CHRISTVM iri fuifsc
loca. tum, ac proptcrcaMagdalcnam potuifsc (l.intcm rcrro pcdcs illius lauarc,
cxiccarc, ungcrc. lam ncro complura funr» quac cxfcriptoribus confrat cos a
Romanisfuif c muruaros,& lofcphusinlibroantiquir. narrat Hcbracos fcmpcr
cfsc fccuC tosrirus Romanorum poftquam fub connn djtioncm dcucncxunr, modo non
con-rariarcnrurparrijs lcgibus ur diccbam antca, manifcftum cflcx lacris Iibris
anrc captiuiratcm Babyloniaccam gcntcminconuiuijs tam publicisquam
priuatisfcmpcrfcdilsc. Vcrupoftquani in Habyloniam duCti fucruntcaptiui vu^oquc
modocdcrcconfucucrunr, fcncs fcilicctfcdc; ucs,iuucnes ucroaccumbcnrcs, utmos
crat Habyloniac, vcluri Habbini tradidcrunt,apud quosctiam lcgirur
accubitumfcrif litum, ucl (Iragulislupra rcrram cxrciis,vcl
tapctibusprcciofis«:s: pului naribus, ita utcubitis innixi lirnunn corpus
uniucrfum f( ruarcntifacta autcmfuit dcindclcx, vt tcmporc Pafchatisin durac
fub Pharaoncfcruitutis, Iibcrntionisq. commcmorationcquifquc accunibcndo
cpularcrur ^cr.crcns ucrodicbus liccrct unicuiqucproutlibcrctlcdcndojvclaccumbcndo
cocnarc: cx ouo 1: 4 pacct 72 2"patct apudludæos parircr accubitum
gloriofum qxiandoque fuifschabitum. Porr6modus,qi!0 Hicrofolymis
infecundadomofcilicctpoftlibcrationcm ab Acgypto,atqucpotiflrimumteporc Chrifti
conuiuia ficrent, non ita compcrtus eftjillud uero conftat, in vrbc fempcr
quinque hnguarum extitifle ufum Hebreæ,chaldeac,Syiiacæ, Graccæ, et
Latinæ.quarum Syriacainfrequcntiorivfucrac. Hcbracavcro nonnifi
adoiais,&:in difcipIiniscomparandi.vvfurpæa,{icutiolimRomæ Græca,& nunc
paflim Latina.Fuit autem in ludacam Syriaca lingua intro
dudta,quandodecemtribubusa SalmazaroAflyriorumregc ca
ptisinearumlocummiflæfuntinSammariam,partesqueci cir
cumuicinasAfl"yriorumcoIoniæ,utlcgiturxvij.cap.quarti libri Rcg.qui ob id
ab Hebræis dcinde fcmper funt Samaritani uocati,atque idco aucrfati,quod
Idolatræ eflent, mofaicosquc ri1 tus minimcut par crat,obfcruarcnt, ctiam fi a
Saccrdoteilluc in idmi/rQinftrudlifuifscnt. Huncergoin modumSyriacalingua apud
Hchræos tnduda.propagata, et conleruata cft, qucmadmodum ChaldacamSyriacæ valdc
fimilcmipfimctludæiex BabyIonia, ubi i!la vfurpabafur,fponte tranftulerunt.
Pofthoc vcro Graccisrcrum potitis, Rabbini dodiorcs ipforum lineuam ita
apprchcnderunt.eiufquc copia,&fuauitate funt deicdtati, ut Hcbraicacipflimacquarcnr.
Vndcpariterfucccfljt,utplerique eruditiorcsnonfolumGracccIoqucrentur,fedetiam
fatiselc-gantcrfcribcrcnt, qualcsfucrunt PaulIus,lofcphus,Philo,afque
alijplurimi. KomanipoftrcmocumIudæariifubiugalk'nf,neecffefuit,illc pnpulus
ipforum linguam latinam addifccrct, eaque pro ncgocijs agendis utcrcturiquac
ctiam fuit ratio,quamo brcmtituluscrucis ChnftiHcbraicc
GracccatqucLatincfcriptusfucruilludtamcn dchikelinguis,
&:potiflimumdeSyriaca ucic conftat ipfani fuifsc omniuniHierofoIymisufurpatiirimam,
atque muhis Graccoruui uocibus pcimixram,fiue id fueritob graccæ dclcdhuioncm,
qua ludæi afficiebantur, fiue
aliadccaufsa:folcntcnimquipercgrinisIinguisgaudcnr, ficpc illarum uocabula
proprijs commifccrc. Ergo hifce conftitutis,cumludæi linguam Romanorum
Græcorum, &: Afsyriorum,apudquosin ufu crataccubitus,utcrcntur,
vcrifimilceft quoquecofdcmaccumbendimorcmab ijs acccpifse.quodforfan .1
pcruicacibus ncgari potuifset,nifi compuircs Euangclij lo ci,ubi
c.iicubitr,s,&:uccubitusfir mcntio,aucrre teftarcntur Vtruip autcm
accumbcndi modus Hicroluiymiscfsct, qualis apud Romdnos in triclinio fcilicet
Ic6tistribusa(rioribnscirca nv ' flratis ucl ligneis ncl arijcnrcis,aut:iurcis
qu.ilcshabii . -lUosnarranrPhnius, Arhcnacus,&:alij,hauJ itaclarum clh Scd
ut omittam ludæos ucrcrcs, apud quos forfan uox triclinij vfitara in facris
libriscubiculumdumta\\it,in quococnabarur, SIGNIFICARE potcft,dcquo
Vitruuiuslib.Archircv^turac quarrotra>:tauir,ccrrc cum in Huangclio
nomincrur Archirriclinus,ncgari ncquit ludacosimiratosefsc Romanos,&
Græcos,in quorum conuiiiijs crant lstoc^)(ecl, idclt,conuiuij princi pcs.
Cacrcrum dodtifllmi uiri,qui accubirumquidcm inconuiuijsPharifacorum
conccfscrunt, fcd morc Hebracorum ftratis fupra rerram
lclimplicitcraccubirum,nonauremmodum lignihcer,&quod Pharilaci
iuxtapracccptum leuitici can. xviij. coua ctur lu
cl!sfcfciritibusquibusuispcrcgrinoiuma!icnarc,maxime Ronunorunviuosquoridic
inrucbanrur idolisfcruirc vfquc adca aiegedamnaris, Quantum ucroad Magdalcnaca
lonce difscnrire, (im ilquc oftcndcrc figuranfi tr*c!inij,.\: accubirus
isdefcripram, atquerunc rcmporis pallima Romanisufitaram. v^^isciiimignorat cam
fcmper uiguilscconfucrudincm, «t popuii principum morcs,quanrum ficri porcft,
imitenrur?maximc uiri n(jbilcs6J in cxilliiuarionc habin, qualcs cranr
Pliarifæi ;quos finon ob ahud falrcm uf Hcrodi &:Pilaro runcpro Imperarore
Tibcriogubcrnantibus,fimuIquc Romanorummorcs, ut ait
Iofcphusinrroduccrcfaragentibus,rcmgratam faccrcnt,ucrofimiIc
cftconatosinaccubiru^qui nillcgi rcpugnabar, ficur &:in mulris ilijs forfan
minoris momcnri Homanosimitari,quod Chrifti tcmporc omncs Oricnris
narionesfaciebant. Quqdporro ilcbraci inalijs plcrisquc Romanorum fcqucrcntur
rirus^abfquc multJ laborc indicabo; tumidcju >J imaginanturdcMahahaud
qaaquam conliJtcrcpofscmonftrabo . Itaque noneftnegandum poft redadum aPompeiom
Roma*D norum potcftatem ludacam, &: poft ArcheJaum iu/Tu Augufti in cxilium
expulfum eam nationempcr procuratoresfuifseguber natan^5 qua occafionc
Hicrofolymis^atque in orani ludæa innu^ mcrimilitcs, ciucs, atque cquitcs
Romani omni tcmporc h^xhi" tabant,quosacquum cftcxiftimarcfccundum
Vrbjsritusuixif^ fc atqiicipfis Iudæis,ut contingcre ubiquc
foIct,eoscommunicafse,ncque id Hcbraeos potuifsc afpcrnari, nc muJto
magisodiumprincipisfibi adfcifccrcnr. Er fi rcdc expendantur quae dc
Ronunorummoribiisin couiuijsfcriprcrunc Varro, Ciccro, Scrxca,
PIinius,PIutarchus,Su^tonius,Galenus, Arhcnaquod /iaiiJitcr fccifsc Chrillum in
cocna difcipulorum mcmoriac mandatum eft. quodctiam dixi in primo de.gymnaftica
Romanos/crcfcm pcrIauari,rQCcofqucrcponcrcfolitosprius quam menfaeaccuia
bcrent,idcmfa(ftitafsc Saluatcircm ncmoinficias irc ualct. lam dc ungendi ufu
polt balncum, pfitpracrcrClcmentcm Alcxandrmum Athcnacus quin^todecirao lib.
Dipnofophift. apud qu.emproprium,& odoratum ungucntum finuulis corpori
partibus dicatum Icgitur, utob id Mariaquoquc Roman(),&: Gracco
moi*curcns,uolucrir,6v: caput &: pedesChrifti, tamuiucntisquammortui
ungcix, qui quafi incrcpans Pharifacum quod fimilircr non fccjlsct, ccrtum indiciumacfulicfibi
placuifsc Romanorum, &: Graccorum ungcndi confuctudincmuWcruari . Et quod
di\itChi'iftus dc illo,qui acccdcnsad conuiuium nuptialc, laccrn.a adhuc
indutus ucftcm nup>i.rk'nvnon induifscr, dubio procui cx.ri^bus Romanis
torum fuit capium, Dc loc,i nobiliuirc rum m pontificali, tum iu ciuili,rumin
confulari conuiuioluib^banjL Romani,ut lurrat jf^iutarchusin Sympofiacis,atq.
Macro.bius.,non cxiguum difcrimcn, m inrcrdum mcdiusmcdij Icv^lj, intcrdum imus
ciufdcm, arq. primiaobilio.rcsrcpurarcnrur, cuius rci lUuftrccxcmplum
eftid^quoddixjtChriftusaducrfusiIlos, qui primos accubitus ambic 2^ 7&:
ccruicalibus fuperterramconrtratis,nonautcm alrc pofiris. C^i ucroSyriacc
EuangcUum fcriplit, ucl rranfumpllt,cum torLxn nomcn libi haud fuppctcrct
proprium, quo explicarc pofsct ucrum Romanorum triclinium/naluir ouod habebar
uli:rparc,quam rcm pcnrtusindeclaratam rclinqr.crc . At mhil hcc dl, prac ipfi
Magdalenae ingrcdicntir ilanti rctro iecu^ pedcs cius, quac omniauti
accommodari nullopacto queunt fifupra tcrram fi ut immcdiatepofiti Iccti, fic
trichnit) nofiro iudicandumunicuiquc pcrmitto,quamaptc congruant . Ncquc enim
crcdibilc cfl,fifefc mulicrgcnibusin tcrraminclinaflct fuifle idEuangcliftam
taciturum poftqiiam mmimc filcndum putaLit,quod Itarct rcrro,&:fccus
pcdcsjacl rymifquc cos rigarcrrnamqui tanta diligen[iarctulit,quaccumque
ibiconrigcrunr,non dcbcbat ctiam genuflcxioncm omirrcrc,&: mulromiiuis
pofi(|uam iam dixcrat jpfam ftcrifsc. Quarc
iamlarismonllratumarbitrorChriftoaccumbcnrccumitaaItefuifvclocaruin,ut M A R l
A, quac necparuacftaturac crat,potucr?t (lans creftarigarc ipfiiispcdes
lac.irymis,nec non manibus cos contrcihirc, 6c c apillis liccarc, d^ r jmquc
ungcicQuod toruRiluculcnri/rnnc cxpnmi in aucc|> ^^..A uiviiiiij .iQiui
fisura^ueiniacaincgarurumconfido, Cum 7ii L 1 i> r R . Ciin;
huaifo/ontioncpcruenifrei:j,iarno.ea j^^c^^m fnfflic0 ne accelcrarer, oWata eft
occafio AJphou Salaieroiii^ oUl^ iclui ta? dottiilimi prolcgomcna in
Sacroflmdam Euangeiicaln hiftoriamfingulari eriiditionc refcrtalcgere:atq,interlcgcndum
cu mihi Canon quadrjgcflimus fcxtus prolegomeni undecfmi
occurrinct,ubidircrtilIiniedeuniucrfiiaccubitusrationc, dequo Magdalcne in
lauadis atq. ungcndis Chrifri pcdib. GtUynec nou dcloannisin ciufdcm Chrifti
hnum recubitu difpuiar,incrcdibi lcm quandam lactiiiam fimiil,& admirationc
mihi pcperit, ctenim lactatusfum,quod mcas cogirarioncs,qiKis fcmper
nouas5&: forfananeminc alio propofiras cxifrimaui,auirofapientiilimo
&:raradodrinaprædito iraclare confirmaras,quafiquc inconcuflasrcddita.sinucncrimjAdmirarioncm
vero cacpi non exigua quomodo ricri porucrit, ut in rc ufq. adco obfcura ncc
uetufta il E muJ nos conuenire, ac in nulla re difcrepare licuerit; Et li enim
quotemporc gymnaftica mca in lucem exiuit^is adhuc uiuerer, quippequemfæpius
concionantem RomæaufcuItauerim,ubi cos libros dum Cardinalis Faræfij medicum
agcbam, &c compofui,& in Juccm ccjidi, attamcn vtrum eos uidcrit haud
quam* quc afiirmare audco, Ncquc uero credibile eft me ab eius fcriptis, quac
diflcrui dc accubitu accepifse,cum ea ha£ienus latuerint,ncq.ipfumeadem dcreita
dihgcnrerfcripfifse,nefomniarc quidcm ualucrim. Vndcqua^foler
efleuerirarisingensuis,puro eodcm fpiriru ambos nos ad ca fcribenda fuiflc
impuJfos, &c propterea quicquid ea d^ rc di Antc folcm cxoricnrcm nifi in
palacllram ucncras: (jymna-,> fijpracfcclo haud mcdiocrcs pocnas pcndcrcs.
Lx quo loco » gymnafiarchum colligitur in adolcfccnrcs^licjuid pcccafscnt,
animaducrtcrc magno Impcrio confucuific : ut ctiamclarius,> in amatorio Phitarchus
docuif. dc hoc &: Ciccroinfcxta Ver„ riuarum : Dcmolicndiim curaiiir
DcuKrriii^ ..iliarchus, cj.iod LLC. zionale Cenlrale di F» quodislocoilli
pracciat. Secundum locum habebaf xyftarD cha. hic ambobus xyftis, ftadio, $c
dcnique cundis athlctarum cxcrcitationibuspraccrat, ut kriptum
rchquitTcrtullianus m hbro ad martyres.&ut cx infcripcionc conijcitur, quæ
Komac in foroTraiani in hafiftatuæ Græcis littcris notata,a,not)isiic lauac
r.edditacft. DEMF. TRIVM. HE R MAPOLITAM. ALEXAN I) R1NV M. PANCKATIA STEM. P E
R I ODL VICTOKEM. P ALÆST R I F AM . ADMIRABILEM. ALIPTAM. PONTlFICEM. TOTiVS
XYSTI. PERPETVVM. .\YSTARCHAM. BALNEIS. AVGVSTl. PKA-EFECTVM. PA.£ T R F M M.^AVREL,.
ASCLEPIADES. QVL ET. HER" MODORVS. ALEXANDRINVS. HERMOPOLITA. MAGNI.
SERAPIDIS. ÆDITVVSPANCRA riASTES. PERIODJ. VICTOR. ALJPTA. (VS^EM. NEMO.
DETRVDERE. POTERAJ. INCVLPATVS. XYSTARCHA. FILIVS. PONTIFEX. tOTIVS. XYSTL PER
PETVVS XYSTARCHA ET BALNEIS AyGVSTJ. .præfectvs. Alvhoc, fcnfcnria
uiea,diucrrus fuit Pracfcaus luftaca Galeno lWT«7r«A«w«Tfl5UOcatiis,qui
pcrinde,ac Pacdotrib a quidamliid.intuimdimitaxat magilkr erat, cum
xyftarchiisplurium cxcrcitationum raodcrat()r,viPacdi'tribam nominauir,6:in
Protagora irafcriptum r cl i q u r : t Ti Tolfw tt^c: to Ctoi^ Trct^o^o r^tHccs
TTkykTtwcto hcctcc cwijlx mRi^ri^t ''cXP^T^i fjTTn^iTMJi TH ardos,accx
r^narisho^ minibuss clcdosfuif^c rcmporc/iio,iMdit.Prorogymnaliosuidetur Scncca
cp1il.83.cos uocafscquiiimul cxcrccmur uocabulo (quod cquidcm fciam)nulli
alrcri vlurpato, quamquam MureW.v pr^:'vnmallas kgciidum malucrit in/u sad
cumlocumnotis. .AuVwouoquc ab Ariftotclc 2.Ethic.cap.6.a Paulo Ac-li.3.i5,aItcr
medicr dumraxarmandara cxfcquirur,parircrPædoiribæxm-iiit:onfi cmniu faculr.Kcm
ignorabar, ^ymnaftacque pracccpra foium fa cicbat,vrpotc qui
vfum,&:difocnrias,&:modum cxcrcirationum cxpcricntia quadam
callcrcr,fcd ob ignoranriamfacpcnu-. mcroabcrrarct, vtinnucre voluit Galenus in
libcllodc pucra Ep!!cptico,ubi dixit,difiiciIcfuifseprudcntcmpacdotiibam
iniicniic.Manc ^ymnaftac, &:pacdotnbæ dilicrcciam Arifrotclcs quoquc
philofophus cognouifsc vf,dum S.PoIiticorum concludir, Adokfccn-.es gymnafiicac
atqucpædotribicac tradendos forcrquarum altcraqualcm qucndamf icircorporis
habirnm, al.;-: tcraopcrationcsjcSdquartoPolitx.locoanrcacirarordicir: rrot^
roC tsc^iJ^ot^ i&jv kccI rov yviAVxsiKOv woc^acrKW icwlcti, kcc\ rayrm
Isirwcf^vixiay. (iymnalrcs itaquc erar pfcctiis excrcirarionu,pædotribauerominificr.&:
panific:,coquo,
acacdificaroriproportionercfpondcns/accrepanes,obfonia,acdcsfcicntibus quidc,
minimc ramen,quid inipfis optimum fit,quid no optimum,inrcl
Jigcnribus,quamucfaculrarcmipforum unumouodquc ad ftuii tatcm babcrcr,non
dignofccnribu^. Hacc duo nomina apud Ho ji ci unon exfiftcre narrat
Galenus:quod,vranrca declarauimus, UA\i\v.:\ dumraxararris gymnafticac tunc
rcmporisapparcbant, jxquc arsad rcgulas ac formam rcdasfta,&:prui nde nco,
arrifcx, ^,aiirafccrtranc.Adcrat6^ SphacnTricus,cGru,quip;la hidcbr.t, ».
qtianim alias rwdens dxuerfis gcneribus jmifari ut vel harmoD nia,uel ry thmo,
uel nudofermone ; alias diuerfas res, vt vel mclioresjvel fimiles,ucl
detcrioresialias diuerfb modo,vt vcl agcntes, vel introducentes, vel
narrantes,atque aut alienam pcrfonam indutos, autnon mutaros;de faltationehæc
concludit: ccCrc^J^lrc^svStKa ^^oOvTTcti Xoogis i^ixouicicsyoi rSu Sgyhswp,
Kcci 'y^ ovroi rm ct^yLxri^o^ (cit pv^iAmi4i^evt/r(ci:^Kcei TrccSH^KcciHkKcci
TTgccfu^. i. Numcro ucro iplofinc harmonia,imitantur faltatores:ifti cnim
numerofa gefticulationis uarietatc, morcs, palTioneSx& aitioncs imitanuir.
Ex qua oratione apparct, og^^Hctiu^, Huefaltarioncm^ nihil aliud fuifse,quam
facultatemquandam motibus„ac gcftibus corporis^artificio quodam,numero, &c
ratione fadis imitandi hominum mores,affea:us^ &:aciioncs. qui cnim in
/.ciuilium dixcrat,nihil cfsc in rerum natL]ra,quodmagisexprimat
rerum.fnTulitudincs^quam numcrum, E &:cantum,.fapi€ntereriamfcrip/it,
filtatoresin imitandisadionibusnumcro uri . Quomodohacc per numcrofos morus
efficeretur imitario,unus omnium clariffimc poft Ariftotclem expreflir PIu
Prob^i. tarchus, qui in ix^Conuiuialium faltationem rrespartcs habuifse
fcriplir, iatioucm y figui-am, &:indicationem ; eo quia tora ipfa cx
motibus,&: habitudinibus >&: quieribus conftarct, perinde ac
harmonia ex tonis,atq. inrerualIis:Iationem dicir ipfc uil aliud fuif fe,quam
motionem affcdtus alicuius, vcl adionis, ucl potenriæ repræfenrariuam : figuram
uerofuifie habitudinem, difpofirionemque, in quam motio fiue lario
rcrminabatur, nempe quando falratores quiefccnres fecundum Apollinis, uel
Panis, uel alicuius Bac7>«fcl«& chæ( ureftapud Platonem) figuram
difpofiri in corporis fimilibus formis graphice aliquantiilum perfiftebanr,
indicationem au^ temfuifse non propric imirarionem,fcd alicuius rci, ncmpe
rerrac, cæli,vicinorumnumerofe, arqueordinarismoribusfadam decla'rarionem
quemadmodum namque poetæ, dumimiranrur, alias
nomintbusfi(ftis,aIiasrranflarisuruntur;dum ucro indicant,propria nomina
ufurpant ifimiliter faltatores imitantes, figuris, &: habitudinibus;
dcGlarantcs aurem, resipfasprædidis indicarionibusutunrur: adeo ut, fecundum
Platoncm, Ariftotelem, arque eriam Plutarchum, tora hæc falratoria facultas in
imitatione folo motu fada conliftcrct.iphq.faltarores nil aliud aOirarcnt^nifi
quod fefe mouentes numero,&: ordine gcfticulanres,aur lationibus, &:
figurismores&: aflcsaus imirabantur,aut indicationibus declarabanr, aut
omnibus fimul morcs,perrurbationes,atque adiones hominum rcpræfentabant.unde
non abfque fumma rationc Simonidcs r4 toi k DIU dd api m m m k m P7 A dcspoeta
faltarioncmpocnm taccnrcm, ficurl pocfimfaltntionem loaucntcm uocarc
folcbatiquamquam rcfcrt Plurarchus,rcmpcfta
^-o^^»"»rcluaucramfalrationcmamufica, cui aflfociabatur > dcprauatam
fuif^ci atqucacacicfti illa dccidcntcm in tumultuofisacindoc^^iis Thcatris
inllar tyranni cuiufdam impcrium tenuifsc,idq. poftraodumufquc ad rcmpora
noftra pcimanafsc, in quibus omnisfalra* tio corrupta cft,omncs cordari uiri
cognofcunr. 'i^uihus aurem prjnnishuiufccmodi falrationcm
hominibusdcmonftrauerir, iatis copcr:umnon habcrur, nifi quod Thcophraftus apud
Athcnæum rcfcrt, Androna Carancum ribicinem, dum fonarct, morioncs ar^•pno'*
quc numcros corporc crtccifsc, Sc ob id apud ucrcrcs falrarc uocatum hiifsc
ficclifsarc ; poft qucm Clcophanrus Thcbanus, &: Acfchylus mulras
fataroriac riguras iniicntrunt, quas i^wiciiovt B Sicula uocc appcllatas
Epicharmi audorirarc infinuar Arhcnacus. undc hodic apud multas Iraliac
narioncs Balli nomc adhuc pcrdurar.Fuitporrohaccfaltario
rantacc\iftimarionis,arquc honoris apudantiquioi-cs,ut Apollincm
faItatorcmuocarcnt,qucmadmodumPmdarus: O sj^Hscc AyXjaxs i>cij dc quibu^ lic
luucnalis» Torfttan exfpecirs ut Gjditana canoro Sat. x i. Inciptat prurire
chorOy plaufuq, probatæ icrram tnmulodcfcendat clunc pucllæ, Irritamtntum
veneris langtientis, et aird piuitis vrticæ &! huiufcemodi aliæ . Ab
inucntorc autcm modo uocarac fucrunr aliac Pyrrhichiac a Pyrrhicho quodam
Laconcfcu^ur alij maIunr,*a Pyrrho Achillisfilioinucnrac, in quibus arman
falrabant cuni canru, &: llnc cantu. ur uidcrc licct c\ i conc ab antiquis
lapidibu5Cxccpto, qucm hic poncndum curai.imus. H 1 A (Pyrrhichias autcm
noftris tcmporibus acmulantur illa pugnarum gcncra,quasMorcfcaspopularfuoc'ai3uloai^pclIant.)
Atquchac uarianominaobrinucrunt, utOrfitis, et Epichcdios pcncsCrctcnfcs,
Carpaca apud Acmancfcs 6c Magncrcs, dc qua Xcnoplion. 6. de cxp. Cyri. libro,
apochinosliue madrilmos, quam mulicrcs faltabant,&obidMartypiæ uocabanrur
quac Ibbihorcs,^: uarictarcmaiorc pracditac crant, ut dartyli,iambici,
molnfiica,
cmmcJia,chorda\,ricmnis,pcrfica,phryi;ia,nicariimus,thracius,calabrifmus.
Tclclias aquodam uiro TcIclio,qui primus camarmatas falrauir,fic uocara, qua
utcntcs Ptolcmaci milircs Alcxandrinn Philippi fratrcm fullalcrunt,aliac
rornarilcs liuc ucrforiac, quod lc in circum ucrtcntcs falrarcnt .
Erorianus,qui Andr.)macho
Ncronis,quodfcribirGalcnus,archiatrocontcmporancuse.\lhtir,has B faltationc5
/ir#t/c uocatas fcnbit.ahac infanac, ut caudifcr, mongas, Thcrmaultris,nccnonanthcma,quamfaltanrcsobibanr,ita
diccntes, vbi mihi rofic, ubi mihi lilia, ubi mihi apia : ahac ridiculac, uc
igdis,madrifmus, apochinos,&:fobas,morphafmus,C .laux,6dlco:
ahacfccnicacqualcs tragica,comic.v,&:lat\ ncaraliac lyricacquakspyrrhichia,
gymnopacdica hyporchacmarica. quac omncs quomodo ficrcut, non cft præfcntis
tradarionis dcclai arc ; fatis iit inrelligcrchanc rcrriamlalrarioncm
rotatqucplurc^adl.uc diucr (as fpccics, quibus libcllum proprium dicauit
Lucianus, habuiflc ficut ctiam diucrlis motibus tam pcdum, quam manuum
utcbatur. cumcniiujnotusomniscxfcnrenria Ariftotdis cximpullu, arquc 7..Phyr.
traducoponafur,falrantcsaurimpcllcbantcorpus,auttrahcbant;, &: hoc furium,
ucl dcorfuin, ucl prorliim, \cl rerroifum, ucl dcxr C trorfum, ucl fmillrorlum
: a quibus poftca motibus componcbatur
limplcxambulatio,flcxus,procurfus,raltus,diuaricatio,claudicatio,
ingcniculatio,clatio,iactatiopcdum,pcTmuratio:quil)Hsto:a
faltariopcrficicbarur. De finc faltationis^ ^ deloco. Cap. yilV M antiqui inccrraminibus,atq.ucnationibus,pcduni
cxcrcirationibusfcrc lcmpcr Itudcrcnt, manibusq.moucndisnullamcuram
adhibcrcnr,ucnlj-uilc hr, ut prius faltatoriapancs intcriorcs dumiaxar cxcrccns
inucuta iit^dcinccpsj^iifot^c^ft/icquacordinarasmanuum motioucs cdoccbar, ci
adiunctaiic, ut una cuin ccrcris pracdiCtis motionil^us mannum conncxioncm,
confcrtioncm, coinpcdnnationcm, diilcntio— H ncin ico ncm, complexum,
altrmationem falrarores pcragerent : arqucita D vniuerfa faltatio ex motibus
tam manuum,quam pedum ad rcprae fentandasresformatisconflata fir. quod autem
faitantcspraecipue brachia moucrent, figni£cauit et Ouidius ubi dixit: » . et i
de Sivoxefl, canta, fi mollia brachia, falta.arte auia. Brachia faltantis,
vocem mirare canentts. HuiusfinisprimariuslicetCvtdixiraus)imitatio foret,
nihilominus alios eriam fincs eam habuiffe compcrio ; nam ad rhcatra, &: ad
ludosvoluptatisgratia,necnonob rcligionemquandamadfacrifi loc.cit«.s cia in ufu
fui nfe practcr Platonem atque Plutarchum teftatur Galenus, qui in principio
curatiuac artis uchcmenter contra ful tcmporis homincs inuchitur,, quod
faltatoriae nimis opcram darcnt,
quafifolisuoIuptatibus,&ludisdeditibonasartesnegligerent. Qupd p
paritcradquacrendam corporisfonitudincm militaremqucpcritiameadem filtatione
maiores noftri uterentur, tametli fupra ex Platone comprobatum fuerit, tamen
addendum eftillud, quod omnisannata faltatiopyrrhichiauocitatano ob aliud
inucta fuit, niliquouirtuteilIius;tampucri,quam uiri,&:mulicrcs modo hoHcs
cffugerc, modoinuadcrc.aliosq. gcftus bellis gercndis neceflarios pcrdifcerent.
unde apud Xenophontcm Paphlagoncs Mimam filtatriculam a Myfo pyrrhicham filtare
iulfam confpicati,admira tes græcos interrogarunt, numquid mulicribus ctiam in
pugna uterentur.inhocquidemfaltationis gencrecum Phrynicus fe excellenter in
fabula gcthifct, illumfibilmperatorem Adienienfcs delegcrunt.
Nequcctiamdifficilccftindicarchanc candcmfaltationem, et bono habitui
comparando, et fanitati conferuandac no p parum conduxiffc. quandoquidem de
nianuum gefticulationc, dc^'Ptumicpcritur&ab Hippocra cur.aon^ ^ ab
Arctaco, atqueaIijs, procxcrcendis&:lanis,&: inrerdum «ap 1. ægris
corporibus ufurpatam cffc . Temporibus uero nofttisfaltationes alias temporc,
ordine,&: ccrto modo fadias talcm utilitatcmpræftarc ncmonegaret, qucmadmodum
Galenusfe plurimosfanitatircftituiilcaliofqueincafoliusfiltationisauxilio
confcruaffeconfitetur: quifimiliter et faltatorum excrcitationes intcr ceteraa
medico petita recenfuit. dum dixit: isx^^&v ctUnCrovciKtvkciis
ivttiSK^^ivrxt itlytsx, KCti tSi^tJ^mvvTxt s^icponwvoi ri^isa, Kcet ok^«»>
CflecTij IfxvisxvTtu, Kxi nygoofvgtvat, Kxi i/g.c)(i{ov(fiv \m Trrltsov
rKCKti>A«. idcft faltatorum uehementcs motus, m quibus maxime
fal>>tant,&vclociflriiTicuoIutati circumcirca uertuntur,necnon genua
fleæntes furlum exfurgunt, atcpc crura plurimum atrra* hunt £ . loi A
hiint>diuAncantquc. ut dubirarc ncmo dcbcat, quln Orclicfticam ingymnalY^ca
mcdicinac iurc collocaucrimus; praccipuc quod Socrarcs in conuiuio Xcnophontis
fc falratoriam tum ad ualctudi>confcruandamquc, tauTad corporisr)hurcompa
randum cxcrcuifsc palam profitctur, cuius quoquc gratia cum fibi amplam
domumoptallc tcrunt.Qui uero hanc orchcllicam cxcrcc rcnt,uariosfuiIsc rcpcrio.
Cinacdosmaximc omniimilaltandi arti opcramnauafsch^nihciuitPlaifrus : apud qucm
Pcriplcdomcnus fcncx lic ait. Tum ad faltandum : non Cinacdus vfquam magis
faltat,quamcgo.quamquam Nonius Marccllus Luciiij tcftimonio,atq.
ctiamPlaut:,valt, cinacdos didvisa uc crib. faltatorcsipIos,atqucpanromimos, 6c
totisuiribuscontcndcbant, utnonrarolic ludantibus ofsa aWqua frangcrcntur, ^Sc
luxarcntur, quac illis palaclbico quoB dam paclo ab alijs diucrfo fc rcmirrcrc
cofucuilsc rcllarur Galcnus . Hoctamcnanimaducrrcnducfsc duco, C^alcnunon
modoluchim arhlctica,qua rclpub.bcnc inlliruras odifsc fcribir,
improbafscuciu&:lanirariftudcri: inrcrduparcc laudafscur porc qua
roburquidem auecrur, at luxarioni s, ac fractionis ofliu, nccnon lufTocarionis
pcriculumimmincat. fmiilircr&:Clcmcns Alexandrinusqui tcmpore Galcni Romac
floruit,in iij. Pacdag. lib. ubi cxcrcitarionum traclationcm habct, lu
uolutatoriu nuncupabatur, fpcciesq. lucbc erat, na in luda ccrtantcs fefc
dcijccrc ftudcbant,rccUq. mancbanr; in pancrario aurcm noUi rarorio humi
proltcrncbatur;atq. ibi inuiccm c6plicati,fcq. mutuo conuolucntcs, altcr altcru
libi fupponcrc nitcbatur rqucmadmodu clariflTimc moftrant dcpicli hic nummi
cuiufdam Salulbj Audoris,, quifubValcntiniani,&: Placidiac Augultac
principatu Africac rcgno ui occupato ludos fimilcs, atq. alios ob uiaoriam
cdidir. tor A Dc hac cxercirarionc uerifimile mihi fit, AriRorelcm vcrha
rccifie, lib. S M ubiiiulhim crcftum,& ftantcm continentcr,&: tuto
uiccdcrc po^c '^demonftrar,quia pcrindc fe moucrcr,ut palacrtrirac, qui pcr
puliic rcmin gcnua fubfidcntcs procurrunt.Dc hoc itcm ahcui probabiIc
uidcrctur,Iocutumcnc Martialcm,ubi dixir. 7>{on diho qui vtncit, / q'a fnci
nmherr fiouit Et didt mclius thv ivccKKivoTrd^wj. nihpotius cxponcndu cllct
«WAiFOTraAw, rcficxioncsquapalacftrlta rcduii^opcdorc aducrfariurctrahcbat,ac
i(!iuilhus dcuitabat,aut potius ( vt crat Pocta fcmpcr obfcoenitaru amator) ca
lcdi luclaintcrprctcmur,(4. K?u^07ri?jiv Domitianum vocaflc tradit
Suctonius.&: quaafpurcilVimistam uuisq. foeminis cxcrccri confuclTc narrant
e^.colle.'?. Spartianus,Lapri dius &: Capi tolinus . Dc codc itc loqucbatur
AnB tyllusapud (^ribafiu,du dupliccluCtactrccit,altcracrcLlam,aItcrri fupcr
pauimcnto; pro luda lupcr pauimcnto nil aliud intclligcsnili PancratiQ
uolutatorium,quod tamen ualdc diucrfum crat ab alfc ra uolutationc,ab
Hippocratc ihts^J^Hirm nominc lignihcata,qua ho^ ^j^^: mincs in palacftra humi
prolh ati ucl loli, ucl cum alijs circumuolta. ucbantur,&:dc qua Coclius
Aurclianws ucrba fccit^ubi uolutatio^.Jdiact. ncmin palacftra pro diminucnda
carnc laudauit; fiquidcm inca ncc certabant,ncquc comphcabantur,fcd folum
cclcritcr fupra pa uimcntumnitidum, aut pulucrc confpcrftimfcfcrorabant. undc
Galcnus cam intcr cclcrcs motus non linc ratione poluir. 2. dc tue. De
Pugilatu,^ Pamratio, c> CefiiLus. Cap. I X. ^c^Kjr^^f X yilatoriam 'm/yiJUKH¥
a ( iraccis uocatam antc Troianom?\ rum tcmporam uiu tuiilcjtcftati funr
Hmius,&: antc Vli C «j Kjf^ nium Homcrus,qucm ctiam Plurarchus m
i.Symp.obProb.u §P--£^if fcruauit, continuo pugilatuml uCtac,&: curfui
iccirco pracponcrc, quoniam hoc cxcrcitarionis gcnus pii us iUis origincm
accepit,ficuti quoq.Lucr.hoc ucrfu innucrc uidciur. ^fjnaantiq ta manus,
yngues.diTitcsquc fmYUvt. Libj. Quid vcro clTct hæc cxcrciratio,quomodoquc
pcragcrctur, pauci (quod cgo fciam) diligcntcr cxplicarunt, &: minus cctcris
hac rcni intcllcxcruntilli,qui pugnaccftuu,&: pugilatum idcpcnitus cxftitif
fc uolucrunt . ex auctorum tamcn (cnptis conicLtura cofcqui pollumus in hac
cxcrcitationc homincs nudos conccrtarc cofucuillc, pu gnisq. ftrictisuclnudis,
ucl acnca,ucl Iapidcafphacraplcnis,undc ^^fCf«t;^t^, uel loris,laminauc
circumlcpti fcfc inuiccm pcrcutere,
modocaput,mododoihim,modobrachiapetcnres,ncque vnqua fcfe mutuo c oniplicantcsi
in qua pugnafupcrabat qui ucl aduerfarium pugnorum idibus in terra
profternebar,vcl grauius &: damnoD a. ^ymp. fius fcricbat;quamquam non
defunt qui ct calcibus huiufmodi puPf«b. gnamfavfliratamtradant,obidq. apud
Senecam cpift.Si. non o-qui hanc rcdiligctiflimc tra(flauit,nullum poc* E
ncucrbu de hac exercitatione habi]i.t,/icuti ncc vllus alius fidc dignusmcdicus
exccpto Arctæo, qui in ucrtiginofis pugilatu comeuarus. Qupd fipugilatus mcdicæ
gymnafticac excrcitationis gcnus cxftitifset,æquii ccrte crat,non adeo ab oibus
filcntio practcriri.Altera ratio eft,quod,fi natura pugilarus exa*5te fpeftemus
^ cii pcuflioncs, &: euitationes bellum gcrentib s necefsarias acmulctur,
ut diccbatPIutarchus,cdocearq.quin militarem pcritiamagnope re
adiuuet,infitiari non pofsumus; at cu iolum brachia,atq. pugnos
cxerceatjinterdumq. potius plagis,ac grauibuspcrcufl^onibuscor
pusofTcndat^quomodo ualctudinis conferuationi,bonique habitus acquifitioni
cofcrrc poflir,no uidco : ut tuto diccndu fir,pugilarum in gymnaftica mcdica
exiguu ufum habuifse, in militari ucro mul^ tum,in athlctica plurimumrcuius
principes,&: au(5lorcs fuifsc Amycum,atque Hpcum,prodidcrunt PIaro,
&:Galcnusi ncc noninqua adeo Glaucus Caryftius cxcclluit, ut quinta &:
vigefima Olympiadecoronatus pi(flæ,i. pugilatoris nominc pcr
excellentiammerucrit uocari . Pugilatorcs iftos pinguedini comparadac opcra
de\a f"|^c.^^S*^P^'d Tcrcntifi.quod agcbat, utgrauiuspcrcutere ua3, *
lerent,&:plagasip(isillarasminusfcntirent:cftcnimcxpcrientia&: ratione
coprobarij, obcfos minus ex carnibusiniurias fentire . Cur autcTcfprio illc
Plaurinus,ab Epidicointcrrogatus,quomodohcri lis filius
ualcrct,rcfpodcat>pugilice atq. athlcticc, no cft admodu j.dealim. dilficilc
conic(flura cofcqui.quod eria Galcnus fcripru reliquit, Lufacc.i. £tatorcs
potiiriinu athlctas ueros cfse uocatos,led pauUo antc ipfius 'tcmpora etid-codc
noininc appcUacos fuilse pugilesA pacrariaftes, qua dc rc ficri por ut Plauri
acrate pugiles ab athletis (liiicrfi cfTcnt, ^'J^u i evtriq. tamcn robori,
&: corporis crallitiuiludcrct^iSd iccircorcruus
illcmcritopugilatum,&:athlcticam fcparaucrit,hcriimquc fuum robuilum, tSc
pinguiucntrccflc llgnihcarit. Exluvla (5^pugilatu tertiumquoddam cxcitationis
gcnus componcbatur, quod pancratium communitcr gynmaflici omncs appcUabanr,in
hoc( ut tcllatur Arillorclcsprimo Rhcroricorum)qui cxcrccbanrur,aducrfa-^^^*
rios,&:pugnis rcrirc,&: comprimcre,&:contincrc,&: dcijccic
(hidcbantrnam pugilcs lolis pugnis conrcndcbanr,ncc umquam compli
cabanrur>ut commcndanda iit urbanitas Horatij,qui ^.SaryrJi.x.
ucnuitcadmodumphrcniticos, quod pugnisminiilros,&:adilarcs fcrirent
pugilesvocauit.luclatorcs comphcabantur,&:comprimcbant,ut dcijccrcnt,fcd
pugnis minimc pcrcuriebant, pancratiaflæ ^
tumurroqucutcbantur,&:tumcriamquacumquc aliararionc, ut
dcnribus,gcnibus,calcibus,rahrris, dcniquc toto corporc ( ur dixit
Paufania5)aduerfarium uincere contcndcbanr,arquc in eo a pugili^^-i clu, libus
dirfcrcbanr. quod iUi pugnis llrivftis, hi digirisfohimmodo in flexisccrrabanr.
atquc hoc iiiznihcarc voluir Oalcnusvbi fcrinfit: ^-^J^ %i A iKXso: TJu: in
pancrario protcndcrinr. tahs ctcnim manuum hgura prchcnfan'> dis
aducrfarij.scui maxime ftudcbant pancratia(bc,ut nomen quo» que lignihcarc
uidctur,ualdc accommodata crar,his dc caufis cxcr citatio hacc Trcmioiyav
uocara cflquandoquc,(icuti iMato Eurhydcmum 5rflrftfat;^0Kdixit,nccnon ambobus ditHcihus
ccrramcn habcba C tur,ob quod C lalenus in 6.Hpid.vbi renibus atfcdis cxerci
tationeni commcndar Hippocrares, fub tali cxcrcitarionc non dcbcre pancratium
ob magnirudincm laboiis intclhgi crcdit. qua itcm rarione pcrmotum opinor
Plaroncm, dum dc lcgibus lua ilhi paru al> ahquibus approbata fcminas
excrcendi rationcdudus, mulicrcs folummodo pofl nubilcm acrarcm pancratio
cxcrccri confulir. de Pancrarij fpccic quapia loqucbarur mcafcnrcnria
Galcnus,quandoincommcnrarijsfupcrhbcllum defalubri diactadixit,gymnaftas
fere,quos impinguarc uolcbant con(liruil]c,inrcrcxcrccndum TT^ ouis
ncfcif,maiorcs noftros intcr alias cxercitationes,utdVputatPIu:archusij.
Sympof. v. ad fpcchiculat, ad miIirarcscxcrcitationcs,adianos habirus
acquircndos inflirutas curfum quoquc habuifsc? cui locum pcculiarcm in
gymnalijs allignatum nullum uiderc licet, quod hacc cxcrcitario m uijs ipforum
communibus, dum ab alijs non occuparcntur, ficri pofscr, atquc ctiam quandoquc
in loco, ubi alrus puluis llrarus erar, (i crcdimus ^ Luciano,aiZcrciur.ncquccnim
pcridromidasad curfum,crfino-InHbioga mcn innuat" fcd ad deambularionis
ufum inftiruras fcimus cx fupcrioribus.Athlctacqui ludorum &: ccrraminum
gynmicorum cclcbritatcsrcpracfcnrabanr,ufqi:eadcocurrcndi uimintcrdum
acftimabant,ut (quod rcfcrt Plinius) licncm (ibi iplis inurcndum curali.i i
c.57 rcnt,quominus illc currcdi cclcritatc,(icuti folcr,impcdircr. Huiufcc
curfus ccrramcn, (icur 5c luctac primos Elcos linc ullo uctcris iDCmoriæ cxcplo
infli ruifsc audor cft I^aufanias : apud quc fimiliy.&^.Eiu ter
legitur,Endymionc filijs dc impcrio ralc ccrtamcn in Olympia .E|»ai. fe,quado
et Senecaintercxcrcitationes eorporis,quarurationehabcndacenfuit^primu locum
curfui dedit, etfi non admodum percipio,quidcpift.3. indicarcuolucritdumfc
Hieram fecifscquod raro euenit curforibus, aiirnam fi (vt eruditilGrausMurctus
putat) pro Hiera mcdiaftadij lineam cocipiamus,. quomodo curfores cx raro
ficcrc dicat,non fatisafscquor.Huius trcs tantumfpccies cflre-^ cifse AnrylJum
rcpcrio, altera in anteriora currcdi, aJtera m pofterioras, B riora,altcrain
orbcm.quauisitcapud Galcnu,&: (loIichu,&:diauIu i do!icliusdup!cx
unocurfu ftadiui diaulusduplcx, ic ipfc ftadium, fcd rcflcxo curfu.ut ficri
poflc cr^da pcryftiljj intcnonsambituiiuqucm diaulum,ob duorum ftadioru
mcnfnrani uocatum tradit Vifrimius,huiulccmodi curfui infcruific .
Quaproptcrfalfum illud cflc dcprchcndirur,quod apud Suidamfcgiriir,
ftadiodromus longiorcm tradumctiri curfu dolichodromis,cum huius conlrariu
manifcfto intclligar cx Parmcnioniscpigrammatc> M'i>.d
moucro&:2rauiorapondcrainrcrdumfupracapiir, nonnunqnam fupra
humcros,aliquando in pcdibus gcftafsc. qucmadmodmn uidcrc cft cx hac ucruftac
tabulæ pi^ura, in qua faltanrcs appofiriffimc repracfcnraniur : quamquc ur
anriquain,&: ucram a Ligorio acccpiixius.. i2t A dccorarcnt. Erar quoq. q,
fupra vircs oleo un£tos &: ui no plenos pcdib.falrarct;inrcr quos uidores
ij ccfcbanr, q. ita fcfc dcxtcrc gcrebar,vt plubricitarc humi no
cadcrct.atq.hijp uic^toriac pmio vtrc cfi vino tcrebatiq. vcro rcrra narib.pcuticbar,n6
linc magna uolupratc fpcAatorib. risiimoucbat.Ici auranriquirus
obfcruatuinludisiiaccho dicatis,quos«\ioc(iurccvSx TTfof TwKflCi^f «F.i.hic fub
dio fupra vtrcfalra,& Eubulusapud Ariftophanis intcrprctc Kcti7r§oarq.iIlos
ipfos ne torpcfccrct i marislitrorc (clc difcis,atq.iaculis,taq mili
tib.apris,cxcrcuifsc:quafi fi no lacdcdis hoftibJaltCu.niac agilirari jpforu
c6paradac hiuoi cx:crcirafio accomodata cfscr. Athlcras ucroi cofc
cxcrcuifsc,nccn6ipublicisccrtaminib.c6rcdifsc,manitc (IQ faccrc pot
coisaudtorum liua,qui intcrarhlcraru ccrra.minadifcumocsuno
orcadnumcrar,&:pracrcr hospic^luni/iuahic damus. SECVNDVS. 122 ficiit ctiam
Galcnus,Acrius, Paullus>&: Auiccnna inrcr cxcrcirariones fanitari &c
bono corporis habitui confcrcntes difcum reccnfcnt . Scd, priufquam longius
progrediar, rarioni confenrancum puto admonerCjDifcum pcncs fcriptorcs uaria
fignificafse, na ccftarur Suidas, discum fuifle inftrumcntum quoddam
rotundu,quod aliqn adco grauc crar,ut uix ab uno holc elcuari pofTctiucl uri a
D. Hicronymo dc fcipfo fcriptu cll. Dc hoc cquidc locurum opinor Solonc apud
Lucianum, ubi intcrrogans Anacharfin, nunquid in gymnafio globQ
qucndamiaccntcmacncum,atq. tcrctc,in paruifcuti figura formatum,ncq.lorum,neq.
balthcum habcntcm uidiflct,qui grauis,&: c6prchcnfu dilficilis crat, cum
manu furfum cxtortum in acrc ahquos iaculari confucuiflc,fubiugit:Aliqnct
inucnio,inflrumcntLi illud figura foHs corpori fimilcm habuiflc,quod ab
Aicxandro in ij. probl. (rfucisAphrodificnfis,fiucTrallianus,qctmagisfufpicor,cxftiterit)
foliscorpus /loxdj uocctur. Vocatus fimilitcrluir difcusquadra
rotunJa,quæpulacin mcnfasfcrcbantur. V ndc (/^i^K0cu fcrrcus, crat,mafsam
uocabir.Huic artcftari uifus cft Manialis his ucrfibus, Spicndida cum rolii mt
Sp^kmni pondera difci, isif procul pueri, ftt fi mcl ille nocrns, ' Alij.quibus
cgo afscntior,credidcr jnt difcum fuifsc laminam quadam trium ud quatuor
digitoru cralfitudinc, logiorcm paullo phis C pcde,alias lapidca,alias
fcrrcam,Cacncam quoq. ex fcpulcro Marci Mannij Philopatris Athlcrac in via
Salaria pofi:o fc uidifsc.tcftatus cft nobis peritiirimus Ligorius) cuiufmodi
maiorcm parrem, nc, du cx alto rucrct, fragcretur,fuifse puto, planam, quafi
lcnris fpccic rc fcrcntem,quam in acrcm proijciebant,fcd modo a iaculorfi
milTionc diucrfo,fiquidcm inmitrcndisiaculisbrachiapandcbant,mox prorfum
impcUcbant contra in difco manu adpedus adduda, atq, cxtrorfum U dcorfum
rcdu£la, rorationis inftar illum in acrcm ciaculabantur, ut pcrbellc cxplicauit
Piopcrrius hoc ucrficulo. M jffi^c nunc dtjci pondus in orbc rotat . Quod cnim
difcus figuram,quam diximus, lcnti fimilem habucrir, practcr Diofcoridcm
Icnticulam J^icn/ov nuncupantcm,cxprcfsa hic comprobar Difcoboli marmorea
ftarua, quæ hodic Romac ia acdibus loannis Bapriftæ Viftorij fcruaiur, in cuius
manu difcum figura a nobis cxprcfsapofitum uidcrc licet. qj* itc oftcclit
altcniis difcoboli brachiu Lapidcu hodie in mangi Tufciac duc is acdibus Pitris
u ocatis fcruatu, cx quib. fimihtcr difcu eiacuhidi modu inieUigere licet, ut
prudctcr nos monuit dodiflimus Peirus Vittorius ætatis noftræ
ornamctu,quibrachij figura ad nos miiit. . nj^ H.-irum
fbtuarufimilcsaliasdiK-isdifcobc^Iorfifuiflt ucrifimilc cfl. qrarumunacxacrc
Myroncm pracclarilfimiim (btuanufinxifle. a Quinftiliano cclcbratam,alii 1 aurifcum
pictorc illuftrcm cxccllcntcr 1215 Icnter pinxjflc,refcrt Plinius-Hanc forma
difcl una cu prædiO:is te
fUnrionijsriuidiflctjacmaturecxaminafrc^^GulielmusillcChoulus, nuqua ccne
affirmarc aufus cflet>difcii pila rotunda in mcdio pcrfo rata fuiflcjnifi
bonus illc vir nomine pilæ qualibet re orbiculatara practcrl atinaclinguæ
vsuintellcxerit. Atq. hoc dicojqifi D. Cyprianus in lib.dc fpcftaculis difcu
uocat orbe acneum, &: in Marci Aurclij Imp.numis quibufda Apolloniæ lllirij
cxcuflTis, quoru cxeplarfupra pofiiu cft,hLiufmcdi
Difcobolorulufusrepracfcntatur, in quo difcu quadra quanda orbicuIata,& in
mcdio perforata fuif feapparcr.Vt hinc conijcia,n6
vnadifcoruformacxftiriflc,qua fiuc in facrificijs,fiuc in gymnafijs
vtcrcnf.lllud attamc prætereudu no eft,in difco iaculado artc quada,vt Pindari
interpres oftcdit,neccflaria cxftitiflcjalioqui lacularorcs laudcfruftrati
deridcbarur,&: facpe damna infignia fpeftatoribus afl^c rcbat, quod a
Phoebo adiu fuit,quc difco HyacinrhuinrcrfccilTe fabularur. Difco fi^milc erar
al rcru excrcirationis genus,^AT/Jf»«; a Græcis appellaru, qd*" in
palacftra aditari folirufcribir Galcnus.hoc ab halrcribusfupra
nominatis,quosfaltatorcs,vt vehemcntiusfiltarcnt,manibus coprehcdcrc
c6fucuiff^e,dem6ftrauimus,diuersufuifsc aperte declarauit Antylluscuius,
verbaapud Oribafiuita fcriprarcperiurur in capite TFtfi iiKTUvo ^u^coi/r%, Koci
av yKocyiTrrQ u^oou, h Kgctrovyrxi ^iivov \\/ 7rgcrccfecundum dorfi aflenfum
manibus uiciflim fe fleacbat. Ex qui bus vcrbis plane indicari vr,quod,Iicet
halteres huiufccmodi ex eadcmatcria,atq. eadc forma,quafaItatorum pon dera eflc
poflcnt,nihiIominus ab illis diftcrebat,quod n6 modo ma nibus,ut
laIrarores,renerenf; uerum eria uarijs modis emitrerentur, pcrindc ac
rcporibusnoftrisapud multosin vfu habef,quifefe excf ccr,aur pila,autlapidc vel
fcrrcu,vcl plumbeumanibus,ac brachijs extcfis,&: circumadis in alru
mirtcntes, de quibus locurus fuit Aretacus,aua:or no minus probatus,qua
antiquusuibi in dolore capitis •f •cAT(/f(i)vi3 tum pro modoprofcdusgrauiores.Exquibusuerbis
elicitur Halteres fuifse maffulas quafdam, fiue manipulos ex uari js materijs
modolcuioribus,modograuioribusconfedl:os,eamagni* tudine,utmanu quilibet
caperetur. qui mcafenrentianedumfolis manibus, uerum etiam funiculis halteribus
ipfis circumfufis,deindeinter-proijcicdum explicatis,emirrebatur,perindeac
faciunt hifce rcmporibus mulri, qui fic aut rotulas ferrcas, aur cafeos, aut
quid aliudfimilcproijciendo certant An uero ^ATwftsaPlarone
interccterasadforrirudinemmilirarcm comparadam excogitaras
cxercitationcsnominenrur,nihil cerre explicatumhaberur: opinor
tamenegOjipfumubi 8.dclcgibus>hæc dcmulicrum propri js ^
CKcrcimionibusknbit,KaUiktsl(X)^ug(!Q nilaIiudanimoconcepifle,nifi quod jllæ
tumlapidibusamanibus, tum a fundis emillis inter fe cerrare dcbercnr. nam, et
«Arwftfi aliquando lapides erant, quos a manibus excrcitatores cijccre
confucuiflc indicauimus ; undc fub nomine lapidis a manibus «m Hi^AT«^ I30
tes,ac primo tendcntcs,deindc remittentcs illas eiaculabantur^atq. hi coramuni
appcllarionc rojwTxi^ucl rofhcci uocahantun vndc uencnum quoddimrofiKov
nominari fcribit Paullus Acginctamcdic-us,quod Barbari fagitras ad fcriendum
lethali us illo inficcrcnt:laculatio ucro non modo finc amcnro, arcu,ba!iftaue
efficicbatur,ue rum etiam grandiorcs fagittas, craffiorcfquc virgas,&
plcrumque graucs palos rcquircbatjquinimmo fagittarij folis brachijs fcfc mo
ucbanr, dKOvrilc.riQ aurcm fiue iaculatores iniadu brachia
contorquebant,cxrendcbanrq.&:practcreadorfum,necnofifemorapedibusimmotis
flcdcbanr,agitabantq.qucmadmodum tcporibus noftris, quos pali iaculatorcs
appcllant,fasftirare confpicimus:utrique tamc in huiufccmodi excrcirationibus
obcundis no paucis viribus ll.deærcj indigcbant, unde non fine rarionc
Hippocratcs, multos ex Scythis locls^' ^ pracimporcnria humidirarishumcrum,neq.
arcum intendcrc,ncquctelumcontorqucre poruilfe mcmoriæ mandauit,quiparirer in
initio libri dc fradiuris diccbar brachij figuram aliam eflc Iukkou' rKTyiZ
K(crcccfvjtu,cc^^oJ^t ivotqrkuJ^oPHiriv.KAMj^l \v M6o£iO\imv,%Kko\v7rvytAn.
idcft,in iaculationc f undarum, S>c lapidum cmiflionc,nccnon
pugihitu.Habcbantucro,quific excrcebantur,terminos,&:fcoposfibi propofitos,
quos modo præterirc,modo attingcrc, uiaoriæ gratia quifque conabatur.quod
explicauit Horatius hoc ucrfu. Sæpe difco, Lib. i.car. ^^t^pf trans finem iaculo nobilis
expedito. ' Ccrerum hoc in loco id prærcrirc nolo,quod balifta fuit tormcnti
Iib. de re quoq. gcnus,quo fccundum Vcgctium Iapidcs,&: fagittac
eiaculaiTic^c 1 ^f^^ &:quodfimilitcrfagittas catapultis,
&:fcorpionibusanti^ quos cijccrc confucflc fcripfit Vitruuius,dc quibu^
tractare ad inftitutum nolhum minimc pcrtinct: quas ucro nos fagirtationcs,
&: iaculationcs travftamus,illac funt,quas gymnaftica ficultas tamquam
propriasfibicxcrcitationcs complcctitur, Quod cnimmcdicinæ
gymnafticaiaculationcs, atqiagittationcs prolanitatis adminiculisin
vfuhabucrit, (licctapudauclorcs rarofcriptuinucniatur) ininfuaf. dciamcn
conijccrc poflumus, quod antiqui, refcrcnte Galeno, ad bo.ar. cofdcm mcdicinac
&: fagittationis, iaculationisuc DcosApolIinc ncmpc,atq. Acfculapium
cffcccrunt. At iaculationis vtriufquc tam cum arcu quam finc, praccipuum in
bcllica gymnaftica vfum apud prifcos fuifse, locuplctiflimum tcftcm Platonem
habcmus,qui mulicrcs,& virosfururos bcllisaptos hifcc in primis cxercendos
curauit, id quod mulicrcs Scytharum antca faccre folitas fciebat, quas Loco
cit. Hippocra,&:pcdibus, &:cxequisarcubusuti,&:lagittasciaculari
conA confacuifscfcriprum reliquit; ur filcam Homcrum, qui Myrmidonas Achillis
militcs, dum a bcllo uacarcnt, fcfc iaculado excrccrc, nc pcririam milirarcm
amittcrcnr, finxir.quam pcritia quanropcrc iaculandi,
&:fagirrandicxercirario,adii:uct,quanrumq.cadcm roboris laccrris
affcrat,clarc indicauit Vcgcrius in i.dc cxcrcirarionc militari lib.Arhlericam
ncq. iaculandi cxerciratione caruifsc,Hcr culcsilliusaudor rtdcm faccrc porcft,
qucm faLMttadi pcririirimum ca tacultare ccnraurum Kcf^um quamuis rcmorum 6l cc
ruam acri pidcm transfixifscharpyasq.uolucrcs m mcdio acrc confccifsc,rra dit
Scncca; atquc cum co alij . Ad hacc criam diucrfac illac,atquc
mulripliccsbclluac,quas in publicisfpcdaculis,acludisathlctæ
modoljgirris,modoalijs armis intcrimcbant, clariflimum argumcnrum pracbcnt,
ccrtatorcs illos athleticos iaculationcm quoq. B cxcrcuifsc, ncc modo
ignobilcs, ucrum ctiam maximc illuftrcs uiros, arquc ctiam Impcratorcs ipfos,
inrcr quos duo adnumcranrur, Commodusuidcliccr raullinacrij &c prioris
Taullinacfiliac, &: Marciprincipisfilius; nccnon Domirianus,quorum hunc
ccntc«as uarij gcncris feras in Albano fcccfsu fagirris plcrumquc mulris
idcnnbusconfodilsc,fcril)jt Tranquillus;iIIum ccnrum ictibusin arcnatoiidem
fcras Ihauifsc, ram ualidis niribus, urmultasuno conficereri6u,tradir
Hcrodianus: qui fimilitcr fc ribiradco illi ccr ram n^wnum fbilsc, ur, quidquid
oculo dclbnafscr, iaculo 6c fagirra contingcrer . hrgo iacuIarioncm,& in
bcllica,6c in arhlctica, &:iii medicinæ gymnaflica locum habuifse,
compcrrum cft; cuius quidcm iaculationcs duo pori llimum mftrumcnra fuifsc,
diximus, arcum,&:fagittas, quosalij Scyrhcn louisrihum, alij Pcr(cnPcrfci C
filiuminucnifse dicunr . lamucro fagitrarummulraslpccicsfeciPiinius. mus,alias
lubriles,&: cxnlcs^^quæ arcubus,^^ balilbs ciaculabanrur, ^ quafquc
plumbaras fuifsc cxiltimamus:quamplurimorum,quin manifclic apparcar nos dc
gymnafticaarrc nKdicinacfubiccta,&:non dc ullaalia rra6c cxcrcirarionum,^:
in viucnd6,ac conucr fando arhlcricorum morum prauitatcm cognofccrc,co£niram
dcKftari,arquccuirarc liccrcr* VANTVM commodi humanac huic uirac dcambula* tio
pracftcr,faris apcrtc (apicntillima natura dcmonftrl uit,quac mirihco quoda
arriricio,iini;uIariquc^&: prope diuma prouidcntia nobis pcdcsnonob aliud
fabricauit,mli ut dcambularc, arquc dcambulanrcs avftioncs illas, ad quas nari
fumus,pcrficcrcuaIcrcmus.quod cum Pracdo illc circaCoraccfium Pamphiliac
animaducrrifscr^ ne homincs,qui m cum incidcbanr,ambularc
amplius>&:rcliquauirac munia plcnc,honcftcq. obirc ualcrcnr, pcdcs
illis> ficur rcfcrt Cklcnus > mcmorabili partmm.
quodamcrudclirariscxcmploampurabar.l)cambuIariocrgo,qu5 vclurinccc(sariam,arquc
in primis comittodam fiuc natura Jiuc Dcus nobis rribUcrunr,quanro ftudio
cuftodicnda,arquc adiuuan da fir, nullus non uidcr, co pracfcrtim, quod fi
ullac cxcrcirarioncs corporisinucniunrur,quacvalcrudincmconfcruarc,imbccilliraurmamorbocontraaampcIlcrc,&:bonum
corpori habirumcompararc ualcant, quacq. apud omncs homincs>omncsq.
narioncsirt licqucnriori ufu iinr> una profcdo cxfillir dcambulario >
quam non K -f modomedlclpræcipuam corumgymnafticæpartemefleceriinf', D tjerum
ctiam antiqui omnes ufque adco acftimarunr,ut intcr cetera priuatis
excrcitationibus dcftinata,&: in gymnafijs, et extra loca, nullius maiorcAn
curam gcffifrc, nulliq. magis ftuduifse uidcantur. quam
utaccommodataomnitcmporc deambulantibus Joca cxæ-, dificarcnt. Nam(vt ccteros
audtores fide digniflimosomirtam) Vitruuius quantopcrc in deambulacris
fabricandis inuigilandum ccfuerit, unufquifq. cx eius fcriptis facile
comprehendct ; cgo ccrtc ante, et poft Vitruuij tcmpora i»numcra in urbibus
dcambulationibus loca magnifice extru6l:a lcio. quac omnia apud me tribus
generibus compleduntur, quia uel porticus crant, uel fubdialcs loci, ucl
fubterranci. Porticus enim quandoq. theatris,quandoque tem pIis,^a. liter
fuifleporticusambulationi dicatas,fcribit GaIenus3quandoE quefolac&feparatæ
exftruebantur,qualcsplurimæ Romae olim fucrunt, quarum ueftigia nunc
admirationc Ipcdatoribus pariunt, et qualis tiiit Pumpciana,de qua &c Ouid.
Tt4 mado Tompeia lentus (patiMre fub ymbra. &propcrtiuslibro 2. Scilicet vmbrofts
Jordet Tompeia columnisy Torticus aulaeis nobilis ^ttalicis &lib.4. Tu
nequeTompeia fpatiabere cuUus im ymhra, 7^c cum lafciuumllernet arena forum. et
Mattial.li. I r . €ur nec Tompeia kntus fpatiatur in ymbra. Exquibus
triumpoetarumuerbiscIarepatet,Pompeianam porticum ad deambulationes
cxaedificatam fuiffe, quemadmodum, &: quampluresalias iwid conftrudasefTe,
apudCiceronemtcrtiode F oratore libro difputatur. Quod porro lubdiales quoq.
iocos ad de ambulatium tam commoditarcm,quam iucundiratem maiorcs noftri
cxtruerent,atqueiIlosmodoarboribus confererent,modo
nudosrelinquerenL,praetcr,Vitruuium,qui cosin gymnafijs, &: extra gymnafia
quomodo ficri deberent^copiofifTime edocuit,argumento quoq, sLit xyfta illa a
nobis fuperius declarata,&: praecipue deambulatorium illud Arhenicnfium in
Acadcmia, quod pulcherrimis plaranis confitum ad id fuilse fcribir
Plinius,& ad cuius imitationcmAlcxandrum Seuerum nemora in publicis
rhcrmis,atque infuisaluifse cxiftimo.Subtcrrancosucrolocos quofdam ambula
tionibus deftinarosfuifse,quosob id hypogaeos Hegefippus,&: Pctronius
uocarint, haud uero dilfimile uidetur rquoniam temporibus,quibus mirum in modum
luxus creuerat,ficripoteft, ut una cum cuminnumfrisalijsblandimcntisexcogirari
finr achiitanda^aent wi caloi is molcftias. nifi cos porius creda^mus fiiifTc
crypro porticus vndiq. paricribus redas, iccirco in eam tormam fabricatas,ne
ambuhir.tcs a ucnris,&: a rcliquis aeris iniurijs lacdcrcnrur, qualis ho^
dic Romac in uiridario Varicano uifirur,^: quales fuii^e illos ucrifimile eft,
quos fc i nrer rui nas uillarum LucuUi ram in agro Tufculano, quaminmonrc
PaufilippouidifTt', tcftarus cftnobisLigoriusi quosue Plinius (ccundus in
uillac fiiac Laurenrini, &c Tu1 lcorum dcfcriptionibus plunbus ucrbis
dcpinxit. Dchis Varro apud Nonium,Non uidcs inmagnis pcriftylis,qui cryprasdomi
non habcnr,fabulum laccre a parierc,aut Huripis,ubi ambularc poirinr^ Qui cnim
ambularionibus fcfc cxcrccbanr, omncs fcrc fag nitatis gratia illucl agcbant,ur
neccflario cogerenrur fecundum tcmporuin murarioncs uarios locos habcre,quibus
cirra ualetudinis oftcnfioncm ambulationcs pcrficcrcnr. Softrarum Gnidium
architc^ftumcelebratinimum ambulationcmctiam pcfilem primuin
omniumGnidifccin'c,rcfcrrriiniuslib.xx xv i.cap. x i i. Nam
athlctasambularionibusnumquam uri folitosexeo crcdcre dcbcmus,quod ncquc in
ludis, ncquc in amphithcatris, ncquc in facris cerraminibus, quibus omnibus
infcruicbanr, vmquani tos ambulandoconrendifle legitur. Quod filocusin
gyranafijs arhJctarum cxcrcirationibus,a^ Iocusambularionibusdcftinarus,qucm
Xcnophon,& Vitruuius Xyftum uocarum fcribunt,uicini crant,non idco inferre
dcbcmus, arhlctas dcambulando cxerceri folitos,(ed alios in Xyftis
ambularcarhlcrasfcorlumexerccri confucuilfctnifi Q dicamus arhlcras quoquc poft
uehcmcntcs cxcrcirarioncs ambuJafTe, atquc illam ambulationcm apud mcdicos
aVfl^tfflrTrwVuocatamcflc, &:nonpropriccxercirationem :quid
autcmapucherapiaforct, infcrius dcclarabimus. Milirari limilircrpcririac
ftudentcsambulationem parum curafle credcndum cflcr,|>oltquam ncc Plato
ullam eius mcntionem fccit, nec in ullo bcllorum »;cnerc ad iumcnruin cffatu
dignum pracftarc uidcrnr, nifi Vcgctius cdocuiffct ualdc militibusfururis cx
u(u cfscurafliduo cxcrcitati ambulam fe celerircr,&: acqualircr
difcanr,arquc (^b id uctcrcm confuctudinem permanfiflc,ncc non
I).Auguftini,arquc Hadriani conftuutio nibuspraccaurum >fur(Tc,ur!nmen(c ram
pcdircs,quam cquircs cduccrcnturamI?uIarum,&:non(oIumin campis,fcd cciam
inciiiiofis^arduislocisdc(ccnderc,arqucadfcendcrecogcrcnrur,quo nulla rcs ucl
cafus pugnanribus accidcrc pofscr,qua non antc boni militcs aflidua
cxcrcirationc didiciflbnt.Habuit ucro hacc cxcrciratio ratio multas fpecl es
lum a narura ilJius, tum a loco, rum a /ine drD fumptas ;a natuia qui Jcm,
quoniam, cum ambulationcm dcfinic^ de ufu rit Galcnus cx crurum moru, ac quiere
conftare, motus ilie, &: per vaitmm. confequcns ambulatio, autcrar magna,
uel parua ; aut uelox, ucl tarda,aut uchcmcnis, ucl rcmifsa : a loco autem
uariabantur paritcr ambuIationumfpecics,quandoquidcm modo inurbefiebant,&:
in gymhafijs,modo cxtra urbcm, qucmadmodum Phædrus,&: In Oeco.
ProdicusapudPlatoncmfacicbant,ncc nonlfcomachusapud Xc* nophontcm, qui dum in
agrum pedibus fcruum fuum equum duccntcm fcquereriir>mcIiori fecxcrcitatione
uti diccbar.quam fiin xyftoambulaflcr j modo in
iocispIanis,modoafperis,modoareCoclius j^^jj^^ paralyricis Afclcpiadcs,
Eraliftratus, ac Themifon Chran.2. malc commendabant,modo
æquahbus,modoinacqualibus, moc.j.lib.dc dolongis,modobiTuibus\dc quibusomnibus
copiolillime difserc amCis 5.probI.parti. A fine dcmum accipicbantur
deambulationes, nempe quando velut auxilia (anitatis,ac boni habitUs
adhibebatur, vcl ad corporisrecrcarioncm peragebantur.poftquani enim
grauiorcscxcrcitationcs confcccrant,nc ftatim ad quierem tamquam a contrario ad
conrrarium rranljtus ficrct,ambularioncs paucas,&: remiftiores
adhibcbanr,ficut et poft medicamenra,ac uo miriones>arq. uniucrfum hoc
cxcrcitationisgenus iTro&^tar/^riKof appcllabantrquamquam ctiam gymnaftæ in
mcdijs laboribus, porirtimumq* in ijs,qui graucs uocarascxercitationes
obijfscr,apo3.*tu.va. fherapiainrerdum urebantur,quodGaIenus fummoperelaudan'
dum iudicauir. Apud Varroncm quoque, ur mcminit Nonius, habctur> aliquos ad
cxcirandam (icim ambulatione ufos efse. nam in lcgc Macnia ira fcriptum crat:Excrcebam
ambuIando,ut liti capacior ad cænam uenirer gUttuK An Erettum fhre Jit
e^ceratath. tap. 111. VI rcrum ipfarum naruras Icuiter perfcrutati funt,
iiihilambulationi ip quampedibuscredum ftarc iudicaruni. At quoniam profun^
dius quacrentcs in hajic fcntcntiam eunt ^ ereilosj.pedlbuTi^antes fi non
ambulSt, fLiltcm aliquo pado moucrijproptcrcaquc ftarum huiufccmodi ab
cxercirarionum ccnfu cxcludi minimc dcbcrc i idco eriam dc hoc fcrmoncm faccro
dccf cui ; co præfcrtimquod multi faUis rationibus duCt^ hanc opinionem ira
animis imbibcrunt> ut pcrtinaciter circdant> ftantes pcdibus nullo modo
madofcfccxcrccre,fcntcntiam fuam hunc in modum probanrcf» uidclicct quod
dcHnitum apud omncs audorcs rcpcritur,cxcrcita tioncmmotumcxlirtcrc, cui motui
(hitum planc contrarium cfse: practcr cctcros Plaro ubiq. pracdicat,dum inrcr
prima rcrum prin laSopK* cipiaftatum&: motumuclutiduo contraria collocar,
quostamcn apcrtilllmc allucinan facilc conuinciruriquandoquidcmomntsil li,qui
pcdibus crccli ftanr, licct moucri icnlibilitcr nullo modo uidcantur, attamcn
ratio ipfa,quod aliquo pado moucantur, ccttilfimc pcrfuadet . Nam &c
multorum uctcrum fcntcntia tuif,non quac moucri uidcantur, camoucri fola, fcd
multa immobilia apparcre unum eundcm locum obtincnria, quac nihilominu^ mcucri
ctficaciHimisrationibus,ac fcrcfcnfu ip(odcmonllrantur . Aucscrcnim non tam
quando modofurfum, modo dcorfum uolitant,in motu B efscccnfcntur,quamdum in
acrc locum unum fcrc immobilircr occupant . id quod iic probatur, quia li auis
quac IKirc in acrc immobilitcr uidcbatur, in co ipfo inllanti moriarur,
protinus in tcrramdccidit (utdcapodc illaauc manucondiata, quamniiimortuam in
tcrris uidcri, 6c uiuam lcmpcr in acrc mancrc fcrunt ) non obaliam profcdo
caufsam. nili quoniamcorpus illud in fublimi inotusalicuiusabanimaincorporc
faCti auxilio confiftcbat, quo moru poftca priuatum
corpus,arqucnaturacfuacdimifsumad ccn trum dcclinat,licuti dum cotra narurac
fuac inclmationcm furfuni fuftmctur, haudquaquam cadit, ncquc itcm pcrfcCtc
quicfcit, fed quali duobus motibus contrarijs ai;irarur, alrcro corporis
dcorfum a narura a(fti,altcro animac furfum conrra naturam corpus moucnris.
Idcm fcrmc cucnit in hominibus crcctisllantibus,quorum Ccorporibnsnaruraad
rcrram inclinantibus, Sc anima contrafurfumilla fuftincrc obnitcnrc, morus
quidam lcnfui immanifbftus fuborirur, cuius indicium illud habcrur, quod li
aninui a corporc crcilo ftantc cxcat, illico ipfum in tcrram dclabitur,quia
motus illedcficit,cuius bcncficioanimacorpus oaturalitcr ad tcrram incli narum,
furfum clcuatum contincbat: ur his rationibus omnino cuiuis pcrfuafum cfsc
dcbcar,cos,qui pcdibus crcCti IhuUjob conti nuos,&:conrrarios
animac,corporisqucobnixus aliquo pa:tomoueri,arqucipforum mufculos
omncscorpusgclhnrcs, &c a ccrra atrolcntcs,crigcnrcfquc uchcmcntcr intcndi
:cuiusinrcnlionis,arouccriam ipliusocculri morus racriro poftca cfficirur, ut
ftarcma^ iorcm laborcm,ac lallitudincm molcltiorcm pariat, quam ambularc,licuti
pracclarillimc a Galcno fcriptis mandatumcft. Ncque ri.ætre.. Plato ubiintcrprincjpia
rcrum Itatuin pcrmdc;ac motuicontræt riwm Lrium colTocauif^ucraprorfus
locutuscft, cum Ariftotcles. 5. Phyfi^ corumlibro longaorarione ncn
ftatummorui, fcd motum motui contrarium eflTe demonftraucrltiniti potius
aliquis dicar,Plaronem aliud gcnusmotusacftacus myftice (ut fo!er)
inrellexifle, cumex ipfisnaturas quoque diuinas ccnftare aHerar. Siigiturtot
rarionibus fatis comprobarur ; eredos ftantes aliquo pztito moueri, atquc intc
rdu non modicc laborarc, confenraneum uiderur,ut non ob id ftatus ab cxercirationu
ordme remoucdus (it, quod cxerciratio defi m'aiur cfTcmorus, &:ipfcminime
motus appcllationcm mereatur, quinimmo ficuri quaplures morus,qui fanitari,
&: bono habitui cofcrre iudicanrur,ct(i uerc ac proprie exercirarioncs non
ftnr,c6munirer ramen efTca nobis fupra abunde oftcnfum fuir : fimiliter &c
ftare eredum communi notione exercirationem cfTc cenfemus. Vnde fapienrijTimus
Hippocratcs, qui vlccra curanda quicte indigere alias prædicauir,
ftarc&fcdere ipfis inimica efsc fcripiit : quafi innuereuoluerir, dum
corpusfurfumueUedendo, uel ftandodetinetur, mufculos magnopcre conrendi, atque
etiam motum quendam interanimam &:corporis naturam generari, qui ulccra
ipfain cicatricemcoalcfcereminimepermittat.atquchoc efTepnro^quod
aCoelioinEpilepfiaccurarione rtans exercitium uocatur. Num ucro antiqui
gymnaftæ inrcr alias corporu cxcrcirariones huiufce modi ftatum rccepcrint, nil
ccrri affirmare audco . Athlcrac enim cumnullumferc ufum in ftando haberent,
nifi quando Milonis imitatoresrcdi ftantcs fefe ceterisaloco dimoucndos
oftcnrandi roboris gratia pracbebanr, vel ftaru non pcr fe, fed ob alium
urebanrurrideohaudquaquamfeipfos in hoc gcncrc excrcuifse mihi
iierifimilereddirur. Qupdquæfo cerrameninftandofolumefre6lum ccrnipotcrar,quod
autfpcdtaroribus delcdarionem afrerrer, aur facrificijs, ucl alio modo
amphithcatris, aut ftadijs infcruiret, uthorumgratiaathlctasfefe
exercercuclcertarc ftantcsfohtosdi camusfftabant tamea qui athletas ccrtantcs
fpe amphithcarris,atq. alijs pu blicis ( c C ri 10 ra idi do ad ao Ddc m OQI
nok tili ttiu tc bt fc( H .,4, A
cisccrtaminibus,fpcdaculisq.coronasuiclomcconfcqucmur,pa pulumq.
obledarcnt;uclutoptimum corporis lKibitum,atq.f;inira lcm ipfam
acquircrcnt,tucrcturq. Hos apud Kufcb.viij, Hift. EccL cap.xviij.M«;(«Tpiom.ichia,hoc
cft armorum fi^ta confrixio ^ ^j^ B uocata,necnonad diminucndam7roAic/us
anim.aris&iinanimis carcjmas nuquid nosob corum,qui ^> nobifcum
cxcrccanrur,ino;Mam,aducrfui. n )fmctipfos verc vmbratili puena
certarcaudcbii>uis.&:poltipfum Plurar.in 7. Prob. con„ . Uiuiahum
:«AA(7fc»,u;Ttt^ vfiKQotovsiot^rccr Hd'Hquafiæremnoticædcns. lam
ucrononminustelJs^quapugniSj ] et brachijs nudi^ huiufcemodi cxercirationem
ufurpata cfse rationi cft confentaneum . Hac itaq. fucrunt duæ pugnæ
fpecies^quaf maiores noftri cxercitationu loco in ufii habuifse rcperitrita ut
nulla gymnaftica cxftarct,q inter alias excrcitationcs hanc no rcceperit.quod
cnim athlctica uctuftilTimis vfq. temporibus pugnandi armis incidcntibiis
exercitationc urcretur, locuplctiftimu teftcm Plu z.VtQb, tarchu habemus,qui in
5. Sympof. fcriptu rcliquit, antiquitus monomachiam.f.aut fingulare certamen in
Pifa ciuitate,&in Elide Pcloponnefiregionc iuxta AIphacumfluuium,circa quam
quinfto quolibet anno^hoc cft,ut Pindari intcrprcs tcftatur, alternis
olympiadibus,fiuemenfibusquadragintaodo,autquinquaginta, cerramina olympica
loui facra celebrabatur, vfq. ad mortcm dcuidoru, cadcntiumq. iugulationcm
proccdcre cofueuifrc.Practcrea narrat GaIcnus,facerdotes in Pergamo prifcum
morc retjnuifsc, ut æftatis teporc monomachias uocatas cxercercnt,quas ne quis
credat fo li Gracccrri nationi proprias exftitifsc, adcudus cft Athenacus,qui
in quarto dipnofophifton auftoritate Nicolai Damafceni Philolophi pcriparetici
referr,Romanos monomachoru fpr£>ncula no modo in feftis,arque
amphithcarris,ucrum ct in conuiuijs a Tyrrhcnis confuerudinc muruaros
adhibuiffc; quamuis Romani no monomachosjfed
gIadiatorcshosocsnuncuparemaIuerint,quos lulij Cæfaris ærate in foro nouifsimc
pugnafse,quofq. pugnarcs Smaragdo lib. NeroncfpcftaffcfcribitPIinius.Hi quoniam
arrcplurimisabfurdis 18. et lib. plena excrcebat,ut a ceteris pugnanrium
cxcrcitationibus integre 37.C.J. dignofci poirinr,nonnulla dc ipfis brcuirer
cxpona, Nam illud primum dcreftandii plane habcbanr, quod ccrtantes qua grauius
poterant,fcfe fcrire ftudcbanr,&: non iolum( quod fcripfir Scribonius
Largus,qui*'Tibcrij Cacfaris,&: Mcflalinac ætate medicina Romæ
cxcrcuir)c6rufioncsin lu(ftarionibuspaticbantur,fed crianon raro vfq. ad
altcrius, ucl eriam amboru pugnanrium inreriru ccrtamea protcdcbarur:
quemadmodu,pracrer Athenacumjarq, Plurarchfi, 3.decr>p.
Calcnusquoq.rcftarur,quifcgIadiarorcsgi-auircr vulneraroscumc.pgcri. rafle,
&: ob id a fuac ciuitatis potificc in eoru mcdicum coopratutn Li.7.ca.3.
fuiflefcribir. Quin auctor cftGcl!!us,gIadiatori compofiroad pugnadupugnac hanc
propoficaforrc fuifse, aur occidcrc fi occupa
uiflcr,autocciabcrc,ficcfsafsct.vtid ucrumpurarc dc bcamus,quod M.Tullius.2,
Tufculanaruquacftionumcmoriac mandauir,athletas ctia vulncribus confcdos ad
dominosmittcrcfoIitoSjqui quærcrcnt,quid ucllent,(i fatis^a^^lu ijs cfsctjfc
ucllc dccubcrc. nam ufq. adeo A AdcomojTem.acviilncrA inrrcpidc obibanr,utncc
inscmffccrcnt . ncc multu mutarent.humfmodi ucro ncfandas hominfi cacdcs cum'
fiiftmere ocuhs no poflcr optimus Impcraror Anronin», nanar Di6 cu cdu^o
cau.flc,ut glad.arores no acutofcrro . fcd obrufis gladijs. et tcrcnbus
d.m.carcnr quod hodic fadirant, qui pu.nadi art d ^
fcendæopcranaiKi„t.Sccundaturpit.Kiinisfpcc.cLuamo,,o^ mor ac prod.d.r
glad.arorcs hordcarios vocaros quia antiqu.tus ' 'r.c... hordco u.d.tabant,
ucut l>oft Plini.,m Galcnus cofdcm 6, da, &: nandun .nft.tutum crat, .n
ipfo ccrtaminc fangu.nc cx vulncrc aducrfar. j b.bcrc.ra.nquam,;s ad confi.
mandf,animu, et uircs cfficaTn A Tl^'s,pracclarc admodum fic a Cvp,ia«
nodcclamatucfl Pnr.>turglad..itoriusludus,utl.b.dinccri,dcl.ul^^^^^ pus,
&: a ru.nac horismcbroru .nolcs robulb pi.,gucfcit,ut fa-.natus,n pocna
canus pcrcat . Homo occiditur in homin.s LoIupur!s " et ut qu.s po(r,t
occdcrcpcritia cfl.u fus cft.ars cft,fcclus no,i ar„m " gcnri,r/cd
doccr:qu.d potcft .nbuman.us.quid acabius d.ci T " Jud.oro tcqualccft ub.
fcfcrisobi;c.ur,quos ncmo damnau.^Jcra"
tcmtcgra,honcftarat.sfurma.ucftcprcr,ofa v.ucnrcsin vhro^eum " funus ornantur.mal.s
fuis m,fcri slonanf, pugnanr ad bcft.as nc, cr " ni.nc fcd ruxorc:ipcdanr
hlios fuospatrcs, rn^ ^ pracfto cft,&:fpcCUcul. hcctprcriu largior
muncr,s.xppa,-:tusam! "
plj^hcer,urmacror.busfuismarcrinrc./fr:hoc.prohdoIor,,mtcr&"
rcd,m.t,&: .n tom,mp,;sfpcftaculis,raq. d.nscffcfc non purantocu "
l.sparr.c,d.as.Hadcnusuir.IlcC:hnflia,ius, cuiusorariinchiccx"
fcnbcrcpIacu,t,qdadgIad.aro.-,accxcrcirariou,sp,au,rarcollc,;-" dendam,n,l
luculcnt.ushabcri poflir. Quat,-, prauiratc illud,nihi ualdc turpms cx,ft,mare
in mcntc ucnit,qd et Kcipub.Iibc-ratis &: Impcraroru tcmpon bus rar,
fucrinr fiuc nubilcs,fiuc ignob,lcs,f,uc
coluIa.cs.f,uclmpcratorcs,quifpcdacuIaadcoinh.inK.na,acomni
flas.r.o,&:facu.r.a plcna l.bcnrc.-, atq. maxima cu,n uuluptatc non inrucrcntur
. Numqu,d autcm cuiufuisgcncris homincs.an i^no.b,l,H,m. dumtaxat.glad.aror.a
cxc. cc. c„r,anccps ualdcfum.quod cn.m LcntuIusCapu.-icut rcrunr,g!ad.arorcs
alucr, quud C Tc " ir-cr. rcnt.us Lucanus, auctorc Plinio,gladiatorum
quadrag.nra paria in furo pcr triduum auo fuo,a quo adopratus
fucrat,dcdcrit,quod ucoymr.jUca. L nales cflent,&: tria illa ncfanda a
nobis prædida profirerentunmi1 hi ccrtc perfuadcnte
exomniumhominumignobiliflimo fimui, ac impunllimo gcnere,ueluti feruis
exftitiflc.Ex altera parte cu Galede frac nus rcferar,f:icerdotes
monomachiamcxerccrc fohtos,cum Atheklhhu nacus fcribar iUuftres uiros, atq.
Duces monomachiam cxercuiflc, cum Herodianus, arq. lulius Capitolinus Commodum
hnpcratore Spartiagladiatorcm eximiumfuiflc,&:inpublicisrhearris,fpreta
hnpera7eno" ^& ^ dignirarcgladiaroris parres adimplcfsc fcribanr,ciim
tradant AibmL alij Impcrarorcs ad bellum profedturos munus gIadiatorium,ac
ucnationes ederc confueuiflc,ut ciuiufanguine fic effiifo pugnæ quadam imagine
Ncmefis fe,idcfl: Forrunæ uis quædam explcrer, uel ut infuefcerent milires
vulnera,atq. cacdcs in/pedare. qua item ra tione SolonapudLucianum narratlcgem
Arhenienfibusfuifle,ut faAaach. iuucncs cothurnicibus fiuc qualeis, ac gallis
pugnantibus fpettadis fliudium impcdcrent,quo illi uolucrcs vfq. ad extremam
uiriudcfeaioncmroftriscertantcs intuentcs,ad
fortiterfubcundapcricula,&:contcmnenda vulncra ^neauibusingencroliorcs
apparerent, inflammarentur,cuius ftudij mentionem quoq, fccit Æfchines
c6tra'Timarchum,&:CoIumcllaIibri o6bui cap.2.Cuminquam hacc omnia
mentecontemplor,quaficrcdere cogor,tum nobiles aliqn^ tumignofciles
utplurimumathleticamhanc atq. gladiaroriam pd gnandifpcciem excrcuilfc iquando
criam apud Athenæumrepericnonnullos teftamenro cauifle, utr pulcherrimæ eriam
puellac monomachorum inftar dccertarent, aut qui in delicijs fuiflent
impuberes.ScdgratiæDcalmmortahfunthabcndæ quiad abolen dum huiufmodi nephaadum
morem quoq. principes impulerit,q(f primumabHonorio Impcrarore fadu ertc
perhiber Theodorerus ca.26.hb. quintihiftoriæ ccclcfiafticac .Atque exhisclare
patct, armorumacutorumpugiiam inter athlerarum
exercitationesadnumerandamcfle.quos fciamachiamquoqueinterdum,fiue
umbrarilempugnamexcrcuifse,inde faris conijcercpoflumus>quod Glaucus
Caryftius arhlera ftixnuusnon minus ob pugilatoriam, quaminumbra pugnandi
cxceilentiam celcbratus fir, ciqueftatua habiru, formaque in umbra pugnanris
erefta, ut Paufanias narrat, tradarur : nifi cerrius comprobarent illud hæc
Dionyfij in cap. libro de diuinis nominibus ucrba : oVe/) 0 cro^o^ bx. z^vovriaraA
/uj^fiTa^^ TTid^' r^^TS)VoiOAyj7iivol7rCipovUou;,04c:!ro?^M^^ d^ofek ^ja^ rii^
airctyomg-a^ vdf^ticvc tjyroQi/i^uOi, % cLTcl 70 Jb^coLtS € nv^oc; ^-toi/to^;,
axiTOvq aiq (nncLixa.')$iuj» nc;, oiovTOJ^ tHv airiTroLAcov ojutwv
jcwtpa.T/;tcvaf : ideft. Quod fapicns minime intcUigcns incxpertos uinccndi.
athletas imitatur, qui fæpe . Afacpe antagonlftis imbecillas cflTc fupponentcs,
prout Ipfis vidcriir, nccno aduerfus cos abfenres fbi tircr vmbratili pugna
ccrtarcs,aduerfariosipfosuiciflcpurar» Habuir6in ipfisq. mulicrcs &c uiros
claborarc uolucrir. Hanc rudibus
armis faCtam milirarc monomachiam illam fui fsc, quam Hcrmippus Manti nacos
inucnifsc,&: Cyrcnæos acmularos efse fcribir, Athcnac» cgofcrmccrcdo.iicuri
limiIircrcxirtimo,quamfcrimiam uulgusdi ^^^-^* cir,cam ipfam,&: non
umbratilcm pugnam, ur Kudacus in Com. ad C Pandcdas, Guliclmus
Choulus,&:aIij nonnullifalfoautumarunr, cfse,dc qua locurus PJaro mea
fcnrcnria uidcrur, quando in Lachcrc fcripfir,iuuenibus coduccrc, ur armis
pugnarc difcanr, quoniam lic habitus corporis robullus acquirirur, ncc ulla
cxcrcitarionc infcriorhæceft,aurminuslaboriofa. In hac haudquaquam
ccrtatorcs,qacmadmodum gladiarorcsfc ufquc ad ncccm fcricbanr, fcd rudibuS
reljs quafilcfcpctcre iiUiiccmfunuIanrcs,quandoque cria rc uera
fcricnrcs,&:plagarum inflidlioncs,&:aucrfioncs rdifccbant. Aliquando
ramcn cum umbra armis ct pugnabarcquod Cdtas pofl coenam fach*tafsc,Poflidonius
audor clhl^im ucro omnium frcquctiirimc pugnam aducriuspalum cxcrccbanr,qui
milirarcm difc ipli nam compararcoptabanr,quam cxcrcirarioncm ita faditaramfcri
^ fe bir Vci:crius,quod a lingulis ryronibus finguli pali dcfigcbaiuurin
tciram,iru ur inic.-r" iDn pr/vr, &rooo-ip ol r£jg7retXai^piijC
^etUiurig 7raj(^ovT^CyO rcaf i^zir oiiu(poripa>v ?\y^(p6(z^Tig 'i^zcovTcif
eig tcI cvavTict.i. Paullatim enimproccdcntcsin mcdiumamborum ignoranter
cecidimus,& nifi aliquo modo nofmctipfos defcndctcs eua mcmoriacproditum
cft. 1 m 1 li.i.fer.^. li.i.fen.^ iioc 2.C.2. j.de bclJo ciuili.
DeVociferatione y ^ ri/u.. VILNTER cereros,quos plurimos,atquc neceflTarios in
humana vira vfus habcr fpiratio, non infimum locum obrinuirvociferario. quaccum
nilaliudfiti quamacrisuehcmcnspercufl^o,rammatcriam, quam cflcdorcm,&:
lormam,ueI a refpiratione foIa,vcl faltcm non abfquc ipfa
fuppcditari,|AriftoteIes, &: Galenus pracclariirimis in i d cdiris
commenrarijs probarunt. &: iccirco non ab re fururum cflc duxi, fi,
poftquam defpiritusretentioneuerbafcci, ftarim uocifcrarionis rraftarioncm
fubiungerem. Neque enim ab hac me remouere dchuir, quod
Galenusmcdicorumprincepsaurnulla, aurquam pauciflfima dc
vocifcrarioncfcriprisiradiderit, quafiquceam intcrexcrcitarionesnumerari dcbere
non cenfucrir: quandoquidcm AnrylOribafium mcdicus cclcbrariflimus non modo
camexercirationcmcfleuoIuit,ucrumctiam cumad morborum diuerforum curarioncm,rum
ad uocis ipfius culrum ualde æftimatam fuiffcfcripfit. qucmadmodum itcm Ætius
Amidcnus, &: Auiccnna Arabs uno orc poftcdoribus facculis comprobai unr.
Nunquid ucro athIcticacprofeflorcs,aurmiliraris dilciplinacftudiolihoccxcr
cirationis gcnus in ufu habcrcnt, U li^apud nuUum audoi cm
noratumaducrtcrim:pcrfuafumtamcnmihi cft, ncurros horumuocifcrationcm taniquam
propriac ipforum profcflioni aut conucnicntcm aur filtcm rtcccfliiriam
cxcrcuifle . Qupd fidicatquis, &:arhlctasinccrtaminibus, &:milircs in
pugnis confcrcndis clamoribusnonfincutilirare vfos, quando Cacfarhaudfruftra
anriquirusinftirurumfuilfcfcribir, utinbcllo committendo fignaundique
concinercnr, clamorcmquc vniucrfi roUcrcnt, quibus rebus, &: hoftcs
rcrrcri,&: fuos incitari exiftimaucrur: proptcr hoc minimc fcquitur,
uocifcrarionis cxcrcimtioncm, dc qua nos agimu^>
miliraridifciplinacadttifccndac confcrrc. Duofolum humiiul gcncra uocis
cxcrcirationi fcdulo opcram dcdifsc rcpcrio, hirtrionicæ
uideIicetprofclTorcs,&: mcdicorum gymnafticos.Hillrionicam enim
profitcnrcs,fubquibuspracconcs,choriftas,rragocdiarum,&:
aharumfabularumlimilium rcciracorcs, ncc non uocibus ccrritcs
CoUoccqocifcrarioaibuscxcrccri foliros.locuplctiifimus tcftiscll Platoin lonc^
Anllotclcsinproblcmatum libris,in quibuskgip^^;^^/^' tur,Phiynici, ncc
noncriamantiquionbusrcmporibus tragocdias, comocdias,dithyrambos,arquc lcgcs
ipfas cantu rccitari^:onfucuif fe.ob quod uocis cxcrcitatio tantæ
cxiftimarionis fuit,ur,(icuri de athlctica monftrauimus,pubHcæ
uocifcrationiscerraminaaCoc''j^'"^B lio Aurclianofiib modulationis
agonillicac nominc intcllcaa, j> " pofuis uidori
pracmijs,inftirucrcntur.qucm morcm ufquc ad Galc ni rcmpora pcrdurafse,ex eo
conijcerc pofsumus,quod 7.dc mcdicamentorum compod. fccundum locoshb.
muhamcdicamctarcccnfct^uibus antiqui mcdici in ijs,qui uocc contcndcrc dcbcbat,
tum antc,rum poll ccrramcn urcbantur,ubi fimihrer narrat,
temporefuophonafcosomncs,cirharacdos,f.pracconcs,ncc non rragocdiam,ac
comocdiam pcrfonatos rcpracfcnrantcs,qui magno uocis excrcitio utebantur, li
quando uuccm contcndcndo oblæfilTcnt,
balneismultis,&:cibislcuibus,atquelaxantibusuti fohtos.Exquibus ucrbis
cuiuis intclligerc licet, non modo hillrionicæ profcflbres
uocc,&:cantu(quod dixit Plaro)limpIicitcr in rccitandis dram^^"«^maribus,rhapfodijs,aIijsuc
imitationibus fuis, uerum etiam alra uo ^ ce ufos,atq. ijs intcrdum
uniformibus,i nrcrdu uarijs,&: muraris,ucluriin rra^ocdiaad
macroris,calamiratisq. magnitudincmaugcndafav^uniohm,(cribit
Arillotclcs.Qiiarcmirari dcbctncmo,quod ^^^Pa«i ^oc aZ^ncnv y^^ivira^ •rfsyou
rivci yu/uvoLcnoL rolc a-raiuoLcnv -i 1? 7^ rov vrv/uuoLroc
KaL^i^tc^TrOieiiiwl^tJLU rolc TTOvovaiv, ocrv/u/SoLfvc-i (t rolc TroLf^iofc
^ravo/u^oic • idcft : Pucrorum uerodiltcnfioncs arquc ploratus,quiin
Icgibusprohibent,haud rede faciunt, confcrunrcnim ad incrementum, cum fint
quodammodo cxercirationes corponmi,lpirirus nanquc cohibirio labcranribus robur
parit, quod etiam pueri^ inter plorandum diftenfis . iTrecho,Pctawo,^riUmJleo.
Cap. IIX. 1 ca omnia,quae antiquis tcmporibus vlirat.i,ac,vt fic di1
cam,pcruulgatacrant, autad nos pcrmanus tradita, ficutdcanatomicaarrc narrat
(ialciuis, pcrucnilfcnt, i.jennat. lutab au«ftoribusfcriptismandara no
intcrijncnt.mul-admini.ia C tos profccto labores, qiios homiiics qiioridic m
oblciiris, ac anriquarisrebusadliiccm rciiocandis fuftincnr, cirra vUam
iaeturani crtiigiflfcnr . fed quoniamalia rcmporis di ururnirarc, afpcrirarcquc
obfoleucrunt, alia difficiliobfcurirarc dcprauarafunr,aliafcripro. ruminrcriru
dcfeccrunr, alia communi quadam lacculorum ncgligcnria numquam proprium nitorcm
rccupcrarunt, hinc fadum cil,ur in d ics coganrur homincs obfolcra rcnouare,
dcprauata rcformare, abolira rcficcre, randcmquc ncglcctis 6l dcturpatis
fplcndorcmicftitucrcncc non inranra obfcurirarc coadi, (omniantes quandoquca
ucrirarcprocul abcrrarc.iiucr quos cum cgo quoque limilcm prouinciam
fufccpcrim, qui arrcm gymnafticam elim iii magno prctio habiram,nunc pcnirus
obfcuraram, &: cmorruam ad luccm rcduccrc ftudco, mihi
ranromaiorcexcularionc di gnus vidcor, quantopauciorcs^aurfcrdnuliifcriptorcsfupcrfunr,
M 2 aquibus inftitutum mcura dirigi qucat.ne flleamplurima exercita D tionum
gencra, quae quod temporibus noftrisdefueucrinr, ucterumq. pcragcndi
casrationon habcatur, quomodoficrcnr, quaJesueefsent,diiiinandumcftporius,quam
ccrtiquidquamaffirman dum. Qucmadmodum deCricilafiaatque trochocontingit. Nam
icfwA,«ra)?s;t«aM o'4^?o? o>Vo^o? '^cWTuyjj^x^^aiyipyct^irc^yjcyj^ShvlwT^
^'^vx»,, idcft, Habcatuero circulus diamctrum hominis longitudine minorcm, ita
ut ipfius altitudo ufque ad mammas pcrtingat, neque fccundum longitudinem, fcd
in tranfuerfum jmpcllatur,fit aurem impulfor fcrrcus ligneam aufam habens.
Nonnulli rcnucs annulos rorae circumpofitos fuperuacaneos efse purarunt : at
hoc minimc i ra fe habct, quinimmo fonus ab ipfis gcnitus reIaxationem,atque
uoluptarem animoparir.Exquibus ucrbis clare patct, in hac excrcirarione homincs
circulum quendam magnum,cuiuscircumfcrcntiaeannuliparuiinfixi crant,quadamfer^
rca uirga anfam habcnte in tranfucrfum latus impellere confueuiffc,a quo duda
mctaphora M.Ciccro ij. epift. ad Atti.ix.fcripfir. feftiuc mihi crede, &:
minorc fonitu quaputaram orbis hic in rcpub. eft conuerfus.fcd cum hac actate
in ufu non habcarur^pofTumus fane aliquid diuinarc, ar cius formam,&: condirioncs
pcni tus cognofccre minimc liccr.quod cnim trochus graccus fucrir,de quo Hora
tiusiibHuscnt. et Curinliis ia /.J.tn cnr annulus mbe vagathr . ibidem. C(dn
Jtarg.itit obnii turba trocb^s. et l y tii tJtn /.I.V.' 'I?, C iiiitif quam
culus ahen i, jib 1 1. 0,,jmteU'rar^iitO(iulfonatiUreirotbus. in rroch ) namq.
primocrat circulus,&: in circulo anulus,qui fono fpcctatonbusuoluptatcm
atfcrcbat.adcrat Cx: impulfor cumanfaa rropcrtioclauisuocatus.ubidixit,
Inirenat et ver i cUu s adu.bina M 4 Curuitis 7.ACueiil. Curuatis
fcYmfpatijs,flupet infcia turba, D Impubisque manus mirata uolubile buxum Dant
animos plagae, minime trochum cfTcur uolucrimt nonnuIli,ficuti,&
excrcitatio ilhviuae hodic fupra ligneas tabulas pannis contcdas una cum
ligncis pilis efficitur,& truchus nuncupatur,trochi antiquorum apud
mefimilirudincmparuam gerir.Nam rrochusprimoin publicisgy mnafijs,alijsue locis
peragcbatur.Secudo is annulufcu annuios habcbatftrepitumcdcnrcs, ur homines
pcrviamambulantcsfonitu audiro longius ab incurfu trochi cauerenr. Poftremo ex
aere conflabarur,atque clauem aduncam habebat.quæ omnia nec feparatim,nec fimul
in rurbine/eu rrucho noftrisrcperirisefusipfe docer. urmcriro crcdcre
debcamus,ab hislonge diucrsuantiquorumtrop chu
exflirifrc,quem(vtcgoputo,apprime repræfenrarhæc figura. a Ligorio ad nos mi
ffa^quam fc cx forma in vctuftiirimo,atq.'ampIif fimocuiufdamComici vcl
Saryricipoctac monumcnro cxprdrain uia Tiburtina.ppe Romaaccepifreretulir.nifi
quodprærer annulos denresquofda circuIoinfixos,&: mobilcs monftrat. quos
adftre pitumaioremedendumappofirosfuifrc uero confonar. Trochum aute cu
Horatius inrer excrcitariones connumerer in arre poerica, Jndoctusq. pilæ
ydifciuCy trochiue quicfcit, 'HS ipiff^^ rifum tolLant impune coronæ: Cumque
Propertiusinter gymnafiorum cxcrcirariones rccenfeat: procuiaubio ad
gymnafticam aliquam pcrtinuifrcconfcntancu rationiuidctur.&: ob id cum
ncquc milirari,ncqucathlcricac iurcat tnbui qucar, fupcrcft nicdicinac
^ymnafticac cxcrcitarioncfuiflc, et illiuspracfcrtim^Cipucriscxcrccndisopcra
nauabar.IWscrtamc cxillimarictiamadmilirarcmaliquopadopcrrinuifscquod rcfcrat
Ammianus MarccUinus li. 2i.iulianQ Cacf. apud Parifios uai ijs fcfc cxcrcuifsc
motibus in campo, ^ inrcr alios quodam qucm du faccrct axiculis quis orbis crar
compaiiinatus in uanam cxcuds anfamrcmanlilsc illam,quamrcrincnsualida manu
ftringcbarrcxquo loco Turncbus fummi ludicij, &: crudirionis iurc ccnfuit
ciufmodi cxcrcitarioncfuifsctrochum.Hisdillimilcmformahabctcxcrcitationis illud
gcnus,quod,non multis ab hinc annis in Rcgno Ncapo g litano inucntum,hodicq. in
uniucrfa fcrc Europa ufitatu, apud Iralos Pilam &: mallcum uocanr.in hoc
crcnim primo brachia, &: dorfum cxcrccnf,qn mallcis ligncis pila ligncam
longc pcllcrc coguntundcmum cx ambularionc,quac rali cxcrcirarioni pcrpctuo
afsociatur,ca commoda fcrc rrahunrur,quac anbulantcs homincs
pcrcipiunr.urhisrationibus, licct antiquum non ht,minimc contcmni mcrcarur.
quamquamaliquisanriquoscriamhaccxcrcirarionc no caruifsc forfan contcdat,cum
apud Auiccnnam inrcr cercras cxcrlocckxdt cirationcsunumnomincrur,quod uirgis
rcrortis divflis alfulcgiaa
cumpilamagna,aurparualigncacflicicbatur,quasconditioncsap primc noftra
pilamallco conucnirc unufquifquc uidct, nili alias tacucrit Auiccnna,quod fuo
rcmporcnotilfimaccf^cnr. C Dc Equitatione. ACTENVS cas cxcr^ irarioncs profccud
fumus,quas hominesafcipfis cirra alrcrius rei adiumcntumobibant. Supc^ ''^•ft
modo fcrmoncm habcrc,in quibus homincsquidem fponrc,^ quodam modo libcic
moucbantur,ar coru morus al tcrius moucnrisopepcrficicbantur.quod cnim Galcnusiftis
duo^.dtuva. bus addidir gcnus cxcrciiarionis a mcdicamcntis favTtum, minimc
adinftirutum noftrumpcrtinctridcoilludfempcrdimifsumhacra
tioncintclligatur.lntcr haccpoftrcma primum locumiurc fi')i uiii dicat
cquiratio a Graccis mcdicis iTTTrccaU uocara, ncpc quac cctc
risdignior/ir,&:Iibcrumhomincm,urfcriprir in Lachctc Plaro,ma ximc
dcccat,nccnon vrriufq. cxcrcitationis naturam, illius fciliccr, quæ
anobisipfis,&:iIlius,quacab alijs in nobispcragirur,fccundu
Galenifcntcntiamfapiar. Equitationisprimuminucntorc Jicllorophontcm
exftitifse,auaor eft Plinius.poft Bellorophontem ThefsaD li.xc. y^. |j j
Centauri nuncupati cquitationc in bcllis uti coepcrunt, q lib.^ acre paullatim
ufq. adeo creuit, ut Hippocratis tcpore ocs fcrc Scythæ aquis&io cquisucherentur.quicumob
afliduas equitationescoxarum dolo ribus cruciarentur, per uenarum poft aures
incifionem ab ilhs curati,ad coitum ualdc impotcntcs cuadcbant; quamqua multi
erant infaccunditatcm eam a Dijsproficifci fufpicaics,quos Hippocrates redarguit,
quod diuitcsfcmpcr dijs amici, pauperes uero minime fint,(ut etiam Ariftoteles
id ab Hippocrate mutuatus confirnuuit,) i.Rheto.
g^pi.optereaacquumfuifsepotiusinopes,quam opulentos eouitio corripi, cuius
tamcn contrarium cucnicbat.Poft Hippocratis tempora cquitatio fempcr,
quemadmodum in Hippia a Phitone traditur,in maxima exiftimatione habita fuit,^
iccirco omnes gymnafti cæfpecicseam inter rehquasfuascxcrcirationcsrecepcrQt.
Nam quod in circis 6c ludis maiores noftri equitationis cerramina
adhiberent,præter01ympicosIudos,inquosuicefima quinta Olympiade equorum curfus
certamen mdudum iradunt;tcftatum facerepofsuntquatuor illac Romanac
faCtioncs.AIbatifciiicct, Rufsati,Vcneri,&:Prafini,quæ tum in circis,rum in
ludis,ac alijs cqucftri buscertaminibusadhibirisequisjfiuc ad
equitationem,fiueauriga tionemfemperccrcabant^tantumq. ftudiuequis oprimis
eligendis, ac parandis cxhibebant,ut Galcnus dixcrit,Vcnctæ,ac Prafinæ fa 7.
Metho. ^^iQj^i^ homincs ctiam ftercora cquorum odorare folitos,quo cx
illisanimaliuhabirus,atq, tcmpcraruras internofcere,&:cognitisinde
mclioribus uti ualcrcnt, fi quidcm harum fadionum conrentioncs potiundi uidoriæ
cayfla talcs crant,quæ ncc uUis fumptibus, p ncc vllis laboribus ac ftudijs
parccrc qucmqua pcrmittcrcrreo magis qd' totaurbsquafiquadripartita
crat,alijsuni,alijsaltcrifa(ftio nifaucntibus^nec ullapnrs ciuiratis
repcricbatur,aur ullushominu conucnrus,in quibus ccrraminum temporc dc
huiufcemodi fadionibusaur ftudiofiflime non difccptarctur,autfaltcmfermonon
haberetur,quemadmodum *ex Plinij lexta noni libri Epiftola,atq. his Marrialis
ucrfibus quifque conicfti.ra afscqui potcft. lib.n. Sæpius ad palmam Vrafinns
pGjl fata l^cronis VtruLnit,& viitor pracrnia phira nfert, I nunc liuor
cdax, dic tu ceffiffe T^crom . ficit nimirum non l^ero, jcd Trafmus, Dc Vrafvio
co/iun^a meas, enetoqiic lonuetUY ^ 1S{€V fadcht-qucmciuam pocula no^lrateum .
quamquamluuenalis maiorcm Romanæ ciuitatis partem Prafinacfadio16* B A
næfacrionifuifsctcmporcfuo, quando Maitialis quoque flomit, teftari uidcatur
hisucrfibus. Touvi hodie l\omam CircHs capit, et fr-ignr aurem TercutityCMcntum
viridisquo colbgo pMin. T^am fideficcret, mæftjni,attvnuamrjue vtderes Hanc
v)b(tn, veluti Cunnarum in fulucre vMiS Confulibus. Has ucro in f aucndo
diucrfis fa(ftionibus hommum acerrunas contcntioncs indc ortas fcmpcr
cxiltimaui, quoniam Romanorum quorumhbctucftimcntaqu.ituordumtaxatcoloribus
tcxcbantur, vclrubco,vclalbo,ucluindi, uclucncto,icdpraccipucrubc()magis fufco,
ut Martialis hifcc ucrlibusindicat, dc Canudna lana rubca tufca fcrmoncm
habcns, I{pma magis fufcis veRitur, Cj//m ruHs, libM. EtplaccthicpHcris,
miittbiisivicculor. &:obhocquicumqucci ta^ioni taucrc cogcbarur.quacfibi
fimilcm colorcm profitcbatur . Etfi huic fcntcntiac rcclamarc
uidcantureaOuidijucrba. Cuius equi venicnt,fai.'.toftudiufc requiras,,. je jrte
XVf mora,quifiuis etic, cns fauet illa,fau'. auundi. Scd dc equitationc
ludorum,&:fpcaaculorum,quam et arhlctica uocarc licct,plura non dicam :
quoniam cruditillimus Painiinus luculcntirtlmc fimul,& copioliilime iu
libris dc ludis ^iuos iam cdcre parat.uniucrfamhancmatcri.im pcrtradauit. Ad
bcllicam gymiufticam acccdo.quam ad acquirCdam cqucltrcm pro bcll-s
difciplinacquitationiscxcrcitioulamtuifclocupIctilhmctclbtuscflPIay.Jdcg.
to-ubi non modo uiroscquis armatos,acq. incrmcscxcrccri fiatuit, r ucrum
pucllis quoq. talcs cxcrcitationcs iniic concclTif, cafq. intcr cctcras
bdUcacgymnafticacfpccics, fiuc partcscuidcntcr collocauit ficuti Xcnophon
paritcrfcntiieuidctiir.apudquc ilchomachusuitac fuac rarioncm Socrati cxponcs
fic loc|Ufnr:;/tTa A t« iuoarxrw rxts ^ r£ w»Ai/Aii «fxyKxicM iTTTTXirixts o
vTt TcxxyiDV ovTt kxtko rm,^rrr.rx £ R Trai-T*,^o; JJ,x«^.Tr^. lioc cft .
Pcrlunoncm olfchomachc fic agcndo ni.h. placcs,quandoqi,idem uno tempore
coJlcdim fanita ti, atq. robon acquircndo opcram nauas, nec non ad bclla te
exerces, diumj/quc accumulandis inuigilas, quæ omnia admirarione digna nnhi
plancuidcnrur. Exhiscnim, &:Ifchomachi,
&:SocratisfcrmonibusclarillImumargumcinumcIicirur,antiquosadbclJicas
dilciplinas comparandas cquirarionibus ufos.Quod uero medicorum gymnalhc
cquitarioncs ad nmiratem rccupcrandam tuendamuc, nec non ad oprimum corpori bus
habirum ingeneran^^'^"' fcdimonium fufficcre dcbeicr:qui inrcr rdiquas
gymnaftr E cac exercirationcs minime infimum locum eam obrincre, cum ncdum
corpus fcd etiamfcnfuscxcrcear,fcribit:ni/Iquoquc Anrvlli LoccKac.
Act«j,&poftremo Auiccnnæ comprobatio acccderct, qui tam n'rrr
"''opportunas cxcrcirarioncs rcpoluir.nam&GermanicumTiberij
hnpcraroris ncpotcm, cumcrurum renuirate dcturparcrur, cquirationc a medicis
impcrariHam curafsc mcmonæ prodidir Suctonius:ut hoc excmplo pcrfuafi cre derc
debeamus, cquirarioncm ramquam utililllmam a mcdicis fcm pcr magnopcrc
cxiftimaram fuifsc:quamuis et apud ipfos ualdc re.ZllZT,"^ r V""
"^l"^ "chcrcnrur, et iJlis an gradarijs, aa afturconibus,an
fuccufsatarijs,an concurrcnribus:quorum omuiurn diuerfas operarioncs fuo loco
explanabimus. F DeCumliruefjiatione. CIXIMVS duo cfsc cxcrcitarionum gcnera,
alterum in quo homincs a fc ipfis folum moucnrur, alrcrum ab alijs, hiic, ut
Anftordis morc loquar,alrcrumin quofuapte natura,a!rerum in quo alio moucnrc
fcfc cxcrccntcs mo ucnrur Dc primo fupcriustradauimus, dcalrcroquod geftatir a
Cocho Aurchano: &: Plinio communi nominc, ab Antyllo, Herodoto, GaIcno,aIijfqucantiquioribus
mcdicis Graccis diiex » de tfie ^^•^"'^'^»^"^ "«^rl^-i ^^accrc
polhc.ti fumus : atquc iam de ^^:^cq"'^^"'0"c,quamGaIcnus mixtum
motum fccir,fc.-moncmex. • phcau.mus. adal.a.gitur rranfcuntibus primakfcoircrrin
curribus ue^tutio,quam antiquillimam fuifsc, ncmo inficiatur.fi quidem ut 171 A
vt Ar^ti uetuftiis intcrprcs tcftatur,primu5, ciui equos curribus iunxerit fuit
Ericluhonius, quem ob id intcr caclirum imagincs rclatu fcribit
Maniliusprimoallronomicorum. Porroforma,&: modus curruumdiucrfusexftitit.Nam
Pliniusmatcriam cunibus faciundis idoncam abietem probat, rotarum ucro axibus
Ilicc, fraxi num, atque vlmum . Vnde elicitur uetcrcs cx huiufccmodi lignis
currus fabrica(Tc,qui prioribus illis facculis duabus tantum rotis conllruebantur.alias
duas audtore Plinio addidcrunt Phrygcs. Scythas po-^^-^-cj^ ftca ct fcx rotis
currus conftruxilTc mcmoriac tradidit uctuftilfimus j-^^ ^^^^ auctor
Hippocratcs.quæ rotac Homeri tcporibus ftanno ornabanaqui$ et tur,at
porterioribus facculis no modo rotas,fcd tota uchicula cborc ||'^*^*^
ornatafuilVe,legimusapud Plautumin Aulularia,ficuti Plmij tcpcftate tota efTeda
atq. uehicula auro,ac argcnto indgnita confpicieB bantur. Varijs
practercarcbuscoopcrtafuilTcucrifimilcuidctur, plcrumq. autcm pcllibus,qucmadmodum
in probl. Romanis fcri-* ptum reliquit Plutarchus : licuti aliquando
equis,aIiquando mulis, aliquadobobusintcrdum uirisagifolita lcgitur.Quin
Hcliogabajnu^J^j^^g lum non modo uaria,3i: moftruofa animalia,(cd ctiam
fbcminas nuliogab, das curribus iunxinc,ijfquc ipfura ucdum c(fc,tradunt.Hacc
porro geftatio in currib. facta olim Romac inter mulicrcs in maximis delicijs
habcbatunad tantumq. luxum aliquando pcri!cnif,ut cas ipfa
vtifenatufconfultouctarc,coacii finr Romani. cuius rci gratia cum muliercs ira
percitac inter fcfc confpirallcnr, nc qua eorum concipcrct,ncue parerct, atq.
ita uiros ulcifccrcnrur, Romanos muraffc fcntcntiam,a:q. itcrum illis curribus
uti permilifsc,fcrip:is mandauit Piurarchus . In quibus dcinccps nc fcdcrcnr,
ncuc cquis pcr urC besuchcrentur. M. Aurclius Anroninusphi[ofophus,matronarum
confulcns modcftiacdcnuo prohibuit. Ncq. minus apud gymnafti cos hæc ipfa
geftatio acftimaia n pcrirur:quado,fiuc ]udos,&:facra ccrtammafpcdtcs,
fiuemcdicorum librospcrfcrutcris,inomnibus ca uhrata apparcbi t.Quis quacfo
nefcit nona 6c nonagclima Qlympiadc curruum ccrramcn in Olympicos ludos
inucCtum. Quis igno ratSynoridas,quibusanimas nollras Platoin
Phacdroclcganninmc alfimilauitjncc non bigos, quadrigasuc curruum gcncra in
publicisfacrisfrequcntcrcerrafsc?quodpoftea ftudium ira apud
Romanosexcultum,arqucau6tumfuir,utpauca,ucl nuUafcrcpublicafpcdacula edcrcnrur,
quin curruum certaminibus honorifica præmiapropofita (pcctarcnrur . OJb quac
rcfcrr Plinius in quadri^'.c.t garumcertamine,quod Larinarum fcrijsin Capirolio
cclcbrabarur,pro pracmio uiftorcm abfmchium bibcrcconfucuilfc, quafi
fanirafanltatem inpræmium dari ualde honorificum arhitrarenturmaD iores. An
vcro gratia bellicæ difciplinæ adjpifccndæ ucaatione in curribus utercntur
ueteres, nil certi affirmare audeo . Exiftima ^ pæd. tamen cum ab Homeri ætate
vfque ad Xenophontis tempora,
atqueetiapoftenoribusfæcuIisperduraueritmos,utinbeIlisecurribus quoq.
dimicarcnt, quemadmodum in equitatione exercebatur,quofierent
bcllisgcrcndisaptiores: fimiliter&incurribusfe exercerc ucteres
confucuifle, ne, cum pugnandum erat, tamquam inexercitati J&:
diuerforumagendi currusmodorum expertesfuperarentur. Cctcrumquod medici
gymnafticifimilemuedtationem tam pro fanis conferuandis, quam pro aliquibus ægris
curandisinufumrcceperint, clarillimc tcftatifunt Galenus, Antyllus, h^Yil
^^q^Auicenna : qui non modo eam inter gymnafticæ uerac exercitationes
reponendam volueriinr, immo et febriciE tantibus (quod paucillimis
exercitarionibusattributuminuenitur) tamquam maxime commodamcclebrarunt. huius
etenim quaii vafrn^altcru,inquahomincsueai va.cii.
fcdcbant.alreruinquoiaccbanr.atqueutraquchaccraroinurbe, frequcntiflime per
uias, &: extra urbem pcragcbanrur. iccirco fcriIn probl.ptum eftaPIutarcho,
Romanoscoaaosfuiflcin Scptimontij fefto ^o^prohibcre, ne ea die vchiculo uti
liccret, ut vrbs,&: fcfti celebratio non relinqueretur.
Nunquidautemfanifimul,&:ualerudinarij in ijfdemuehiculisexercerentur,
indicafle mihiuidctur Herodotus apudqucmlcgirur, febricitantescurribus, qui manu
ducuntur, ' ncc non bigis geftari foli tos, atque illos a pi-incipio pcr
triginta fta diamoucri, deindeca conduplicare; hos a ftadijs triginta, aut
quadraginta initium duccre, &: ufque ad fpatium altcro tanto P maius
progrcdi confucuifle . Sanos ucro omnibus curribus, &: teais, &:
apcrtis fine ullo difcrimine ufos cfsc, ucrifimile fit : etfi
fortafscprincipcstcdispotius, quam dctcdis ucdtoscredere pofsumus, quadorcfcrt
Dion hiftoricus, Claudium Cæfare du profpera ualctudine utcrctur,caputq.
trcmulu,&: manus,ac linguatitubantes habcrct,primu olum Romanorfi vehiculo
undiq. obrccto gcftatfi ef fcficuti Pliniusiunior ob oculoruinfirmitatc fc
aliqn vsu illo tcfta^ tur Epiftolarum lib.7. ita kribcns ad Cornuru fuum: Pareo
collcga,,clariflimc, &:infirmitatioculorum,utiubcs,confulo.Na&:huc
tct\o,, uchiculo undiq. occlufus, quafi m cubiculo pcrucni . £x his igitur
oibus cuiq. cognofcci-c licct,talcm cxcrcitationcm no minus ccteris gymnafticis
probara fiiifs?, quippc quos, &c non aurigas moruu ommum cxhac gcftacionc contingentiufaculcares,
&: conditiones probe intcUcxifrcfcribir Galcnu Je//a. Cap. X U ECTiCAM,
atq. fcllam ob commoditatem potius eorum, qui vcl fcncviutc, vcl morbo impcditi
ambularc pcdibus non potcrant,ucl ob dclicias, quibus fcmper homincs lluducrunt,inucntam
fuilTc^t^ob aliud,non dcfunt qui opincntur: ncc forsa finc ratione;qnquidcm
nuUa apparct probabilior caufla, qua indudi uctercs huiufcemodi inllrumcnta
cxcogitaucrint, \ quod cquitarc,^ pcdibus ire ncqucuntcs,aliqua rcm
optaueriiif, qua do mo cxirc.p vrbcs uagari>iter faccre quam commodc
ualcrcnt: nifi dicamus,impcratorcs,Rcgcs,atq. Principcs nc in facicndis
itineribus a folcui ucnto, pluuia tcmpcrtatc, atq. fimilibus oflcndcrcntur,
lccticas,&: fcllas vndiq. obtcgi,6c rctcgi aptas inucniflc,quas alij po ^
ftcadiuitesluxus,ac uoluptatis,fiuecommoditatisgratia,&:pollremo
mcdici,gymnaftacq. ad vfumhominufibiipfisconcrcdirorum traduxcrint.vtcumq.
fit,conftat,quosnupcrrimc diximcdicos,atq. gvmnallas illas ad cxerccnda fiicpc
ualctudinariorum,rarius fanoriim quoq. corpora vfurpafle.Scncca cnim Epilt 5
6.ita dc gcllationc loquitur. Agcftationc cum maximc ucnio non minus
farigatus,q, fitatumamI>ulaflcm,quantufcdi:laborcftcniin diu fcrri,ac
ncfcio, an co maior, quia contra naturam cit; quac pcdcs dcdit ut pcr eos
ambularemus,ocuIos, vtp cos vidcrcmus. Dcbilitatc nobis induxe rc
dclitiac&quod diu noluimus,poflc dciiuimus,mihi tamcn ncccf fariumerat
concutcrccorpus,utfiuc bilisinfcdcrat faucibus difcu terctrfiuc ipfe cx aliqua
cauflii fpiritus delior erat,extenuarct illum iaftatio, quam profuifsc mihi
fcnfi.Quac ucro tam lcdticac,qua fcN læforma fucrit,nil itaccrtuhabcf,quin
dubitarccuiuis liccat, at« lamcn vcrilimilc cft,in capulumar,&:lcdulum
ftratum fuiflc,quo &: iaccrc. JL i B £ k iacere,&fcdere,&:prout
Iibebar,quigeftarentur,pofIenr.anm cete D ris fucrit noftræ diflimilis, uel
potius fimilis jcredo non admodum diflimilem exftiriflc^nifi quod noftras a
mulis,uel equis ferc fcmpcr geftatur, illa antiquorum ut plurimum afcruis kx
portabatur, atq. ob id Hexaphoros nuncupabatur, uri ex his ucr/ibus Martialis
Lib.s, pcrfpicuum fit,inquibus Afrumquendainpauperem,&:iuueneiu
deridet,quod Icftica gcftari uellct. Cum jis tam pauptr quam nec mijerabilis
Irus, Tam iuums, qnam nec Varthenopæus erat, Tam fortis, quam nec cum uinceret
Artemidorus, Quid te Cappadocum jex onus effe iuuat ? f^deris, multoque magis
traduceris ^fer, Quam nudus medio ft fpatiercforo, 2{pn aliter monftratur ^tlas
cum compare mulo » Quæque vehit fimilem hellua nigra Lybin, £ Jnuidiofa tibi
quam fit ledica requiris ^ T^on debesferri mortuus Hexaphoro : fimilitcr &:
ubi Zoilum carpit, quod lc£kicam fandapilac fiue feretro mortuorum fimilem
habcrct. tlh,!, Laxior hexaphoris tua fit le^ica licebit, Cum tamen hæc tua ftt
T^oile fandapila . Lib.^. Nam exhisliquido
intclJigerequifq.poteft,le(flicamferefempcr rcmfulm!^qucm vlum Cappadoces
Marrialis, Gcrmanos TerruIIianusadhibirosfcribunt)fiqueinterdumaliquis
lcdicariorum numcrum augcre uoluifset, prorinus fuifse norarum, qucmadmodum
idem Marrialis indicauir, ubi Philippum qucnda infanum uocat, quod ab odo
fcruis Icdica eius ob quandam diuitiarum inanem oftcntationem pcr urbcm
geftaretur, OBaphoro fanus portatur ^uite Vhilippus, F Hunc tu ft fanum credis
^uite,furis . Cumitaquclcdica antiquorum itafchaberet,nonmodoprofedc commoda,
uerum ctiam conciliando fomno,dum claudebarur infcruicbar,ur luuenalis reftatur
his ucrbis. Tslamque facit fomnum claufa lcHica jenejira. tamq. frequcnsillius
crat ufus,ur caftra Ie£bicariorum,qui folum gc rendislcdticis, ucl criam marronis
in eis dcponcndis,ac gcftandis, ur eft apud lurcconfulros mcntio,
dcftinabanrur, pluribus in locis habcrcnrur,in
quibus&:iuraipfisdabanrur,&: aliaincaftris
ficrifolitaagcbantur,quamquamlibcrtis omnibus Icsftica perurbemge ftariuerirum
crcdam, Sucronij audorirareinduilus, quiClaudiu Impcrarorcm Harpocratilibcrro
ledica per urbcm uchcndi fpefta culaq. publiccedcndiius rribuiflcfcribir.
ArquifcIIam duplicem fuiffc . J7$ A finffctradidit
Antyllus,fiucpotiusciusintcrprcs;aItcrani,Hi qua fc^»'i-chro. cicbant,c]uac ucl
coopcricbatur, ucl apcrta lincbatur,&: a nonnullis,ucluti a Coclio
Aurcliano,porratoria fclla,ac fcrtorium diccbaturuilrcram in qua
iaccbant.primam quoq. tcmporibus noftris uidcrc licct,cum podagrici,diuitcs,
atq. alij principcs dclicijs nimis dcditiillaquotidicuchantur,quaitcm uiros
magiftrarum gcrcntcs olim gcftari confucuiflc,atq. indc currulis fdlac, in qua
ranrum fcdcbatur,nomcn cmanaflc arbirror:fccundam,in qua iaccbar,non
habcmus^quod cgo fciam,nili dicamus lc€ 17:6 Dc Agitdtione per lcCios fenfdes,
Gr* ^er cunas faCta de ^ Scimpodio Ca^. Xlh VOD agitationcm pcr ciinas, &:
Icftulos pcnfilcs, quos d uos fub KhivH^ vocabulo a Græcis complexos fcntio,fo
dtam inter gymnadicæ excrcitationes recenfere velim, lorfan aliquis
mirabitur^cum hac tempertatc cunæ iolis pueris cblandiendis inferuiant,p
aucilTimiq. finc, quibus medici pcnfiieslcftulos parari iubcant rucrumtamcn
ismirari definet,{i Galenum,Hcrodotummedicum,Actium, &: Auicennamdiligentcr
icgcrc placucnt : qui cum hui ufccmodi agitationcs inter alias
corporumhumanorum exercitationcs adnumerarint, cur
amefiIcntiopræteriridcbcant,nonuidco. Nam cunas ob pueros potius,quam adultos
excogitaras fuiflenon equidcm diffitcor,fcdpu-^ to talem motioncm interdum ui
ris cum ad lcnicndos dolores, tum adconciliandumfomnum non parum adiumenti
pracftarepofse, Oriba lib. u t pracclarc fcriptum eft ab AntyIlo,&: Ætio,
apud quos lc6tus fiil^ h^fte. cramobiliaiuxtaangularcs pedcs habensnilaliud
meafemcntix fignificat,quam cuna^s ipfas,quas etiam intellcxit Cclfus,vbi
dixit,(i „ ne id quidcm eft,uni lcdi pedi certe funiculus fubijcitdus eft, atq.
„italea:ushuc,&:illucimpellendus.&:fi Oribafij interpresnomen
jtAiF^spro Icdtica transferre maluerit, et iccirco omnes illosprorfus falli
crcdo, qui in gymnaftica medicorum eas nullum ufum habere cenfear. Quibus
fimilis quoq. eft exercitatio illa puerorum,duni in vlnis a nutricibus
geftantur, quæ ic a medicis, &: a Platone pro ^ ipforumualetudine
miruminmodum probatur. Eadempropeeft U.'2.^.ca.3. tamlcquiavulgatæ,&:omnibus
manifeftæ clsent . Quætemporibus noftris cum a plerisque ignorcntur» opcr^e
opcrnepretlum me fadurum fpcro, ii bi cuiicr, qujd fcnrio, in mcdium artcram .
Kam ck* lcchilispcnlilibL.sqi-ev piiinum ab Afclepiadc cxcogiiatos rradit
Plinius, opinor cosruiflclcctos quofdam^ ! paruosmodo c\'ligni:>,modocx
acrc, modocxar^^cnro (maiorcs nollros criam argcnrcos lcrtcs babuifle A ripfir
Plinius) conftruftos,qui quatuor angulis runibiisadcubitium Inqucaiiaalligaban
tur,ita ui rcrra fubla'^i aliquantulum,qua{i in acrc.pcndcrc uidcrcn
tur.Balncafimihtcr^f^enhlia a Scrgio Orata,tc(lc plmio^primum inlib.^.c.r^
iicnra,non quac fuprauClAtkbanr^ai^rconcamcrata l(>ca, ut uoluc runr
aliqui;,lcd nuIlaa!iat"uin*ecrcdo, qiiani labra illa ucl marmorea,
uclacnca>ucl Ifgnca^ad lcc>ulorum imirarioncmlaqucaribus appcnfa, quo
mmimo qucliber manunm impii!fu,a!ias!enitcr,a!ias uchcmcnriusagirari ualcrcnr.
quod Scnccaad LuciIIum fcribcns B nobis manifcrtauit hisvcrbis. Jjalncarum
fnpcnfura inncntacft: nequid ad lautitiam dccflcr . His igirur moribus
quolcumque cxcrccri mcdici praccipicbanr, huic uni porifTimiMn iludcbanr, yr
morum citra Jaborcm, Jalfirudmcmic ullam aflcrrcnr:
dcincepscurabanc.nciniexcrcirationc iliaiucundiras dcliderarcrur, quac
profcLlomaglia in lcflulis, armaximain l.alncis rcpcricbatur, ncmpe quac
pracfcr luauillimum iHum morum,aquac dclcdiaiioncm addcbanr, dum ca molliiTMic,
blandaquc ntillarione quadam (ingula corporis mcmbra rangcbanr. fi namq. balnca
pcnfilia eafuiflcinrclliganrur, qunc fupratcifta ficrcnr, quomodo in illis
maior illa uolupras, ob quamlccundum Scnccam&: Plinium excogirata tucrunt,
rcpcrircrur,quam in alij5>,non uidco . Dc pcnlili lccto dixir Hcrodorus,
gcftarioncm in illo t.imdiu facicndam C cfsc, quadiu quifpiam in fclla gcitaius
quadræinra Itadiorum ircr conficjcbar.alrcri ramcn ciufdcmaucttorisfcnrcnriac
hbcnrius acquicfco>vidclicct huiufccmodi cxcrcirarioncm,quatacfse debcat,
facile numcro dcriniri non pofsc. quod non rantum in his, fcd &: in omnibus
alijs fcnrio obvarias, acdiucrfas acgroranrium affeitioncs, quibus non cadcm
vJlo modo conucnirc* pofsc, oinncs vel mcdio critcr in mcdica arrc pcriri uno
orc pracdicanr . Lcftulo pcnlili fimilcaliud inflrumcnrum uctcrcs habuilsc
iiuicnio,quoJ QKitiTriJ^m Gracci, fcimpodmm Larini codcm vocabuloappcllarunt. huc
licctnufquamappcndcrcnr, crar tamcn vcl lcdtusparuus, vcl quidinformam lccti
pcnfilis conftrudum : arquc ipfopcr Yrbcs,& pcruias ram uiri quam muhcrcs
gclbbantur,ur Dion hiftoricus dcmonftrar,fcribcns,primo Aug'iliu,ac Tibcrium in
fcimpodijsquandoq. uchi folit05,cuiufmodimuIicrcs rcmporcfuo gcN 2 Itabanrur,
178 L 1 £ R ftabantur, fecundoquod Seuerus, dumBritanniamobirer,fcimpoD dio
undiq.obtcdoferebatur. Ceterum quahshuiusinftrumcnti figura exftiterit,haud
fatis conftat: putandum cft tamen fellam f uffe ita fabricatam, ut ledum
plumcum paruum caperet,ita ui nxftum, utpenderc viderctur,
inquofinonpenitusfaltim exaliquaparte, qui ferebantur,iacebant, &c vndique^
ne ab æris iniurijs læderentur, coopcriri poterant. hoc intcllexiffe meo iu
dicio uidctur luuenalis,cum Crifpinum quendam mordcns diccbat. Sat. I. dedit
crgo tribus patruis aconita, vehatur Venftlibus plumis, atque iliinc defpiciet
nos ? dc eodcminterpretanda efthæc infcriptio quam mihideditAldus Manuiius
Paulli dodiffimi, &: eloquetiflimi filius cruditiflimus, quamquc Parma ad
Andream Naugcrium olim allatam retulit. E D. M L. ÆMILI. ViCTORI. QVI. PRI DIE.
NATALEM. SVVM VICESIMVM. ET. SECVNDVM. PRVNA. I N. PENSILI POSITA. VRGENTE.
FATO. SANVM. IPSE. NECAVIT. SE. L.ÆMILIVS. VICTOR. PRINCIPALIS.ET ÆLIA. VENERIA.
FILIO. PIENTISSIMO E T. S 1 B 1 Mcth. neque aliud fignificauit Galcnus, quando
balnea ingrediendi mo-dumhedicispracfcribens haccfcriptismandauit:
ccggCfjsoOt/rccSQu-^ TioiAcci Ko^i^^ai ^iv \ial rov
cmiiATroJ^o^ltsriHcchccniou, idelt, ægrotantemuolo portariin
fcimpodioadbalneum. nequealiudLibanius Li.j^.c.io rhetorin
librodefuaipfiusvitaintellexir, dumdixit:cLidomi fum, F in le^to iaccoivbi vero
in fchola,in fcimpodio.ficut etiam idem intellexi t GcIIius,ubi fcribit, fe
Frontonem Cornelium pedibus grauitcracgrum
infcimpodioGræcienficubanteminuenifle. Patet itaque non modo ob delicias,atque
uoluptates a maioribus noftris iedlulos, ac balneas penfilcs, nccnon fcimpodia
; uerum ctiam, &a medicis gymnafticis ad cxercenda valetudinariorum corpora
vfur pata fuiflc . Quale porro fuerit inftrumentum illud machinamentu
li.3.c.^.& raptorium,&: macron fparton a Coelio Aureliano
uocatum,quaIii11. y.c. yJt. apud eundem rccufsabilis fera Italica nominata,
quibus duobus geitabantur, nonduii) mihi plene compcrtum eft, cum a nullo
alioau(5loreipforum mentionem hucufque faitaminuenerim. nifi tucrit. utfupra
diximus,petauruii>, uclpotiusfic Coelij contextus deprauatus. De
O^AUigiitiotiey Ti/cAtione. . NTER gcftarionisfpccics,quacplurcscxerccndis
corporibus cxftitcrunt, nauigationcm quoq. rcpofuit Antyllus, quem fccurus
Ærius, 6i poft cum Auiccnna manifcftccampro cxcrcirationc habitam dcmonftrat;
id quod utriqucnon ramabcxpcricnriamcoiudicio dclumpfcrunr, cjuam ab antiqua
diuini Hippocraris fentcntia, qui nauigationcm &: moiicrc corpus,
pcrrurbarc dixir. ni(i quod Auiccnna nauiga4.Aph.i4 tioncm inrcr dcbilcs
cxcrcitarioncs adnumcrauir, Hippocratcs ue ro eam corpus magnopcrc pcrturbarc
afscrir, id quod potius uche menris quam rcmilli motus argumcntum vidcrur . Hac
nauigationis excrcitarionc duas pracfcrtim gvmnafticas, fcd non admodum B
ufasinucnio, mcdicam fcihccr,&: bclhcam . Mcdici ca utcbanrur ucl ad
ahquorum fanorum habitus confcruandos, ucl ad nonnullorum acgroranrium
fanirarcm comparandam, ad (anos urcbanrur nauigationc,quod(i!t ab Ariftorclc
fcripnim cft) marcob placidas i partjV. afpirarioncsfalubriratcm inligncm
facit,undc nauiganrcs fcmper coloratiores exliftunt,qu;im m paludibus
dcgctes.Ad acgroros ucro,quoniam idcm humorcsputridos, ac nocuos rum
uomitu,qucm frequentiftinxinfucris præfcrrim parir, rumucnris,ac vaponbus
ficcisex/iccare narum cft.quare dicebar Auiccnna nauigarioncm 3'''^oc.i,
lepræ,hydrop](i,apoplcxiac, ftomachi frigidiratibus,nec noninflarionibusciufdem
magnopcrc prodcfsc. Plinius ucro&phrhifi-Jj^P cis,&:fanguincm
excrcantibusadiumcnrum afTcrrc Annaci Gallio * nisportconfulatum iracurati
exemplo rcfta^us cft . qu: ircmab huC iufccmodi affcclis Acgyprum peri non ob
rcrram ipfam,fcd proprer nauigandi longinquirarcm ccnfuit ; utcriamcius
NcposPlinius fccundus ZofJmum libcrrum fanguincm rciCLtanrcm co fc mi^ ^ ^pi^*
fifse,&: confirmarum a ualerudineredijfsc narrar. quamquam audor illc
nomine Plinij falfoinfcriptusin libro i.dcrc mcd. Icnfc-^-*^'^rir phrhilicis
utiiius c(sc in faltibus m( rari, ubi pix nafcitur,qua in
marinauigarc&cmarinaloca uifirarc. quod etiam tradirumcfta Marccllo mcdico.
nam &: Galcnus ix.dc linipl.mcdic.ubi dc rcrra Samialoquirur, mcmorar,
multospulmonc vlccraros Koma obid in Libyam profcclos, annis aliquot inculpatos
uixifsc, poftca ucro morbum recruduifse, ubi non pari cura uuicbant . Modus in
nauigationc ualcrudinarijs obfcruatus /ic ab Hcrodoro dcfcribirur, ^ .^, quod
afcxagintaftadijsincipicbanr, i?cin duplum Iiorum dclincbanr.Porro
luuiijationis plurcs fucrunt durcrcntiac, quando aliac Oynwtilica^ N J in iso
in mari,aHæinfluminibus, aliæinmagnis-, aliac rnpaf uisnaui-a bus,aliæ
remis,aliæ remulco, aliæ uento, aut uchementi,aut plain lib. de cidiorefiebant.
De nauigationcperflumina traditumefta Plutar^^aufliiua» cho, cam minus naufeam
producere, quam mare, quod tam odor, quam timor c maris adfpcdu proficifcenres
corpora pcrturbant,arqucfic uomirumcicnt, quæ resa fluminibus minime contin^it.
conrra Coclius Aurclianus in inueteratis capitis doloribus cctcris practulit
longam pcr marianauigationcm> quoniam (vtipfe inquit) fluminalcs, ucl
portuoliic nauigationes, ncc non ftagnorum, incongruac iudicantur, nimirum quæ
caput terrcna exhalatione
humcclantcsinh*igidant,maritimacuerolatenter,atq.fcnfimcorpus apcriunr,&:
falfac proprictatis caufsa corpus adurunt, atq. eius
habirumquadammutationercficiuat.Hicigitur fuitapud
gymnafticosmcdicosnauigarionis vfus, quam paritcr bclUcacftudiofos E amplcxos
fuifse diximus. quandoquidcm Naumachiac illac, quæ a Romanis in
circo,uelaIiquoterræ finuprope Tibcrimmanufa&io tali cxcrcitarioni
dcfignato rcpræfentabantur, fuerunt quidcm ad populum obIc(Sandum (ccundum
aliquos praccipue infti^ tutac, qualcs ilhicquas ab impurilfimo Hcli ogabalo in
Euripis vi £.Y vrbe ad marc huc prodimus pjbuiituyyt, procxcrcitio
Gymna(lico,&: Palacftrico hoc habcmus.quactamcn pifcario cum a Plaronc
improbara (ir,quod ncquc animus.neIn fopnift quc corpus in ipfa cxcrccarur,
lurcmcriro cam ramquam nulli uriJcm omncs fcrc gymnaftici rcicccrunr,nili quod
^jalcnusipfam ini.itu $5. tcrcxcrcirationcs,quac limul opcrafunr,rcpofuifsc
uidcrur, iicut ^P-'« et Auiccnnaingrcdicnrcm pifcaroriasnaucs dcbilircr
cxcrccri ccfuir. quorum fcntcntias duabus dc caullls infinnas rcputarc
debcmus,rum quia ncurcr corum cxplicatc, quid boni affcrac pifcario, Q
declarauir,quali excrcirationcm huiufccmodi non admodum probarcnt > fcd
communcm porius quandam fcrmonis confucrudincm fcqucrcnruri tum quia ipfcmcr
Galcnus pifcatorum habitus du^ ros,arquc aridoscflc dixic.cuiusaridiratis
rarionc Ariftordc pifcamcd^mL tores marinos pilis ruris pracdiros cfse anrca
fcripfcrac.unde mcdi3» p^rtic ci,qui bonum habirumcorpori
cxcrcirarionibusacquircrcftudit, quomodo durum,
([^aridumcfticcrcpifcarioncuclint,non uidco ; pracccrquam quod cunctac propc
pi(carioncsfub(olc,&:inlocis facpe maloacrc plcnis pcraguntur, una cxrcpra
maricima : ut his omnibus crcdcrc cogamur, pilcationis laborcm mcdicos parui
ælhmafsc. Ncq. ramcn dcfucrunt Jnipcrarorcs,qui cxcrciratioius cuiufdamgratia
inrcrdumpifcarcntur,ccu dc Cacf, Auguftofcriprum cft a^Sucronio,6«: dc Alcxandi
o Scucro a Lampridio, dc (luo ira fcribitrVfus uuicadi cidcm hic fuir. piimum,
i;t /i faculLis cfsc r,idc/lli cumuxorc non cubuifscr.marurinishorisin hu i';
fuo,in quo N A &:d:uos «2 et diuos pnncipes,fed optimos eledos,&:
animassadiores,;m qucis et Apollonium,&:,c[uantumfcriprorfuorum temporum
dicir, Chriftum,Abraham,&: Orpheum,&: huiufcemodi dcoshabcbar,ad
Maiorum effigiesfacrafacicbar. Si idnonpoteratproloci qualitarc, vel
vcd:abarur,vcl pifcabat,ucl deambulabat,uel uenabarur. Hæc Lampridius.Quid
aurem fucrinr pifcatorij ludi,qui quotannis mcn fe iunio rrans Tyberim a
prætore urbano pro pifcaroribus Tyberinis,au(5tore Fcfto,agebanrur, nonduin ira
cerrus fam,ur turo affirma re queam,arhlericam gymnafticam, cuius ludos
fui(se,diximus,pifcationis exercitium habuifse. De Natatione. V.
AGNA,&:fereincredibilis apud ueterefuitfempernatationis exiftimario,
tanrumque per plura fæcula illius vfus uiguit,utnonminus pucri narandi arrcm,
quam primalirrerarum elcmenta edocerentur. quotempore cum nullamaior ignorantiæ
nota inuripofset,quamdum aliquis nec lirteras,nec natare fcire diccbatur, fadum
fuit,ut pofteriores il lud in prouerbium conrra bardos, &: prorfus inerres
continuo recc perint, adhucq.iraloquediconfuerudopermaneat,quando naran di
peritia,fi non eofdem honoresobriner,quibus anteadtisfæculis
afficiebarur,falrem nec penirus neglefta, nec inurilis iacet. Ratio enim, qua
impulfi maiores noftri narandi fcienriam ranti fecerunt,
hæcunaiudiciomeoexftirir,quodprimis illis remporibusapud 5c£ rcfpub.quafcunq.
viri fortesprac cæteris,ut fcribit Ariftoreles, ho Prob.y.&
norabanrur,qua(i ab hisloIis,&ciuitatum filus,&: imperij propaga
2.Rhc.c:.4 ticpendc rer:&: ob id quifq. uel faltem maior nobilium, arq.
eriam aliorumparscomparandæforrirudiniufque aprimis incunabulis incumbcbat .
Quocirca,ut in naualibus quoque pugnis,quæ runc frequcnriuscommitrcbanrur,in
rranfeundis uadis,ac fluminibus homincs nandi arti confiii pcricula magis
euadcre pofsent,minusucformidarcnt, (quando facpcnumero milites mare ingrcdi
coadi ob nandi ignoranriam fuffocabanrur, qucmadmodum exerDc Cyri cit^-^i ^yi*i
cucnifsc memoriæ prodidir Xenophon ) ficq. forricres minons jntcraquarum
pcricula ficrenr,natarionispcritiam exrulerunr;qua «^pc^i^ctiam rarione Komani
uerercs,ut Vegerius fcribit,quos ror bclla,&: continuapericula
miliraremdifciplinam docucrant,campum Mar llb.i dcrc tium Tybcri vicinum
dclegcmnr,in quorum alreroarmorumexer miii.cio. citationcs
inirenr,inalterofudorcm,p-uIueicmq.diIuerent, acfimul if, A mul natarepcrdifccrent
>uthisrarionibus,ac VcgcrijauAoritate facilc lit iudicatu,militarcm
gymuafticam nat.mdi cxcrcjtacione noncaruifse. Cctcrumpoflcnori tcmpore non
modonaranoob difusrationcsufurpatarcpcntnniicrum etiamob ualctudinis con
fcruarioncm,nonnullarumquc adcdionum curationcm mcdicis gy mnallicisipfiim
probatam hiific Antyllus tcftatum rclic|uit. q:i". J itcmfcnfillc uidctur
Galcnus inprimo ad Glauconcm,ubi Liboranribustcrtianafcbrc
conccdit,utungantur,&: balncum ingrediantur, ibiq. madcfiant,&: li
uclint, ctiam natcnt . Qiiod cnim natatiocxcrcitationisloco habita
tucrit,practcr Oribalij ^uidoritatemdccaintcrcctcrasexcrcirationcstradantis,
&:alauationc,dc: qua libro pollca dccimo fudirunc fcripiit fcparantis, ipfa
qnoquc ra tio pcrfuadct, ncmpc quia in huiufccmodi morionc infignitcr uiiiB
ucrfum corpus,&: mouctur,uc duobusmodisnatabant, ucl inpifcina,qLiam m
frigidario luifsc /upcrius dcmonftrauimus: (tamctfipifcinasapud
Varroncm,&:aIios La:inæ C linguacauvftorcspropriclocapifcibusalcndis,
^faginandis dicata fignificarc crcdatur)ucl in labris illis amplis,quac adhuc
Rouiæ uifuiitur . Qu^od in pilcinis, quac in frigidario tlicrmarum acdificatæ
erant,quafquc thafio lapide aliquando circundiitasfuifTc tra dit
Scncca,iiatarcnt,omnium clarilfiaic ollcndit Ciccilius Plinius, Epm. 7,9^ qui
in Epi(t.li.2.viilamiuam cxacliifimc dcpingcns,dc balnciscius itafcribit. indc
balnci cclla frigidaria fpariofa,&: cf}afc,cuiusin contrari js parictibus
duo baptiftcna ucluri cieda linuantur, abunde capacja fi innarc in proximo cogitcs,
adiacct undormm, hypocauftum, adiacct propnigcum ; balnci mox duac ccliac magis
clcganrcsquamfumptuofac.Scdhoc clarius explicat li.^.ubi Tufcos luos defcnbcns
iiitcr ccicra hacc habet . Indc apodyrcrium balnci „ Iaxuin,(5(: hilarc cxcipit
cclla frigidaria,in qua baptirtcrifi aniplum, natare Iatius,aut tcpidius udis.
Ex quibusomnibusfatisapcrtum cft, tdyin gymnafijs fiue balneisueteres nare
folitos,atque in higidan} D baptifterio alias pifcina uocata>de qua
menrioncm kcit TertuUianus in lib.de baptifmo, et dc qua exiftimo locutum
Galenum dum in y.Merhodi ficcitatcuentriculi laborantescurandiratione
edoces,magis laudat lotionem in balneo fada Iv rocgHoXviJiHSg^is . ideft,
inpifcinisnatando inftitutis,quam h70i\i4iKgotQm/tMig,c[[iamquam etiam
pifcinaminterdum in area gymnaliorum acdiricatam credo, ut teftatur Plinius
loconunccitat Ojinquopoftdidaucrbaait. In areapifcinæft:&: ante Plinium
Maitialis, quili. 5. Liguhnicuiuf* dam infuUi importunitatem dcfcribcns dixit)
In tht ftncjs fu^io Jonasai aurent > Vifcinam peto, non licet natare . ni
uelimus Martialempotius de publica pilcinalocutum cflc,quam fuilfe RomaCjCx
multis, &maximecx Regionum fragmcntofub E porticuCapitoIina intclligcrc
poflUmus,vbi Vici publicac pifci* nac clara mentio habetur,de qua ita Feftus
Pompeius.Pifcinæ pu blicac hodicq. nomen manet,ipfa non exftat, ad quam &:
natatum, cxercitationis alioqui caulTaueniebatpopulus: unde Luciliusait, Pro
obtufo ore pugilc, pifcinenfis res eft. L)e huiufccmodi pifcinis fcriptum efta
Dione Maccenatemomniumprimumm urbeaquarum calidarum naratoria inftituiflc .
Quod ucro in labris illis fimiliter natarcnt,ucl faltem natantium inftar
mouerentur,conijcio, cQ ex magnitudinc labrorum,tum exuerbisGalcniin i.
adGlauconem,quandoin tcrtianæcuratione natationemin aqua commendat:quoddc
pifcinis gymnafiorum nequaquam intelligi dcbet ; tum cx Coclij Au rcliani
uerbis, qui in capitis dolorc, atquc etia in p arrhriticis curandis, natationem
minimc fub dio fad:am > nec non fcruentcm, atq. ctiamfrigidam probans,duo
demonftrat;primum in locis claufis, &: ctiam apcrtis, qualis crat arca
pifcinac, altcru ta in aqua calida,quam frigida natari folitum, unde clicio
natatione feruentem folum in labris faditatam.cf fi Plinius in locis paulo ante
citatis pifcinæ calidac mcntionc fccit,fub hifcc uerbis,Cohæretpifcinacalida
mirificcj exqua narates mare afpiciunt,dc calcfa ^ta ui foIis,&r maritimo
fituporius^quam de fcruclac>aab igne,ut intcIIigitCocIiuSjUerbafcciflc
uidetur. Quac extra gymnafia,fiue priuata balnca cfficicbatur natatio, modoin
fonfibus latifl]mis> modoinlacubus,modo in fluminibus, modo in ipfo mari
agcbatur. dequibusfcrmoncm habens Ariftotcks,dixii,nichi?s ir mari, '
quan\influuionitari,diutiusqucibi moramrrahi,quoniam ucluti mare aquæfuæ
corpulcria,cra(Tnieq. maiora>quam dulccs aquæ fLliiA fuftinct oncra,ita
facilius corpora hominum cleuata tcn'cr,& confe qucntcr minusilla
pcnctrarepotcft, cuin dulcesaquaco!) rcnuirale luam citius,&: lcnius
illabatur . Hxrra balnca quoq. apud aliquas nationcs loci pcculiares nando confti
ucbantur, et idc(. KoXvitSHd^xL uocabarur,ftcuri legirur npud
loanncHuaniZcliftamdc Jcfu ('accocap/p.. dicctc,«Tflc)/t,wcTiiy
icMvfcJ};I^fflw/ TQ\/ ciMixiJL K(c$ w^itijubi nacaroriam Silocanriquus
intcrprcs iranlluli:. lraq.na:aLioncarccdismorbis,fanifq. corporibus
cxcrccndis,&: confcruadis vfitaram fuKTciam Luis parcr: quando itc
Ariftotcles fcripfit naranrcs in maii filubritcr cxi naniri . vcrumramcn illud
animaducrri uolo, plcrumq. ob dclcsflationc,6i: ad ardorcs,&:liccirares
rcmpcrandas,h()mincs nararc conlucuilfc,cuiU5 graria in acftarc dumraxat natan
folitum luir. DcVcnatione. (ap. XF. RÆCLAR IS SIMA cxrat
GaIcnifcnreria,cxomnibus corporum cxcrcitarionibuscaproculdubio vtiliffimam
vidcri, quacncdum corpusfarigarc, verum criamanimam oblciflarc ualeac, 6c
iccirco fapichtifIn lib. dcludo parluc pilac. iimos illos haberi dcberc, qui in
ucnationc cam cxcrccndi corpora formam inucncrunt, in qua mirifico quodam modo
laborcs uo* Iuprarc,quafiq. laudis cupidirarc ira rcmpcrantur, ur tacilc
iudicari non podir, maior nc fit corporis, an animi motus . Acccdit huic^ quod
natura ipfa, quac animalia cuncta hominis caulla produxit, ueaarioncm quafi
praccipcrc, &: acccptam habcre, ut lcripfir Arii. PoJiu Q
ftoteIcs,uidc'ur,quumin ipfa propriaspoflcllioncsacquircrcconc^ tur,fpcLtacuiumq.
nullo fcclcrc conraminarum cxhibcatur, fcd
fimul,&:corporisrobur,&:animi uigoraugcarur . Exquoncmonoa uider,quam j
rudcnrcrfcccrintmcdici,(]ui pro cxcrccndiscorpo-* ribus,ijfq. ualidis,&:
lanis conferuandis, ucnationc ranroperc acftimanmr,cuius nimiruftudio antiqui
illi mcdicinac parcntcs Ciiiron,Machaon,PodaIirius, AcfcuIapiusufqucadeo,ficut
rcfcrtXcnophon, arferunr, ut non minus in ea laboris, quam in arcibus, in
qLibusualde cxccllcbant, (ibi impcndcndumquoridic purarcnr, Ncq. ucrofolam
medicinac gymnalticamhuiufccmodi cxcrcirationcm,fcd bcllicam quoq. &:
achlcticam rcccpifsc,proba(scq. credcndum cfti fi quidcm uel dclcvflationcm,
&: gloriamAiuarum gratia arhletac Iaborabanr,ueI milirarcm pcririam,&:
f(.rrirud:nc,quibuibeilicacgymnafticac cxercirarorciinuigilabant/ifpcAcmuSj^
cumu. n6 cumuhti/Iime omnes in ucnationis cxercirio reperiuntur, atqueD
ineopraefertim^cf noninauibus dccipicndis, fed in terrcftribus animalibus fiiie
dolo capiundis Jaboriofe uerfatur,dcquomagis noftramhanctraftarionemintelligi
dcbcreuolumus. Etncfineilli .ftrii:mau£lorum teftimonijs hancfcntctiamaudad(
ri.in:isproferrcuidcar,quomcdounaquacq. gymnaftica uenandi excrcitationc
ufafic, iaminccptam uiaminfcqi.ensdcmonftrarc conabor. Qupdenimilla
bellicacfortitudini affcqucndac maximumadiumcntum pracbcrc putarerur, locuplcf
/fime teftarum fecitPIato, quipoftquam in Thaceteto^&y. dc lc^ibus /cnandi
difciplinam in trcs fpccics, aquatilium fcili( et, uoIatiJ «um, Sc terieftrium
animalium diftinxiflct, improbaiisaijjsduabusproiLuenumeducationc,detcrret'iuinucnatione
in h le 7. dclcgibusita concludir. J^' w -mv ^TTcwuzLTcL ^cW^
\x^cr^^ci^^v(TiTc^ii^] Trdiyumq^iT^ i (piKoTTOVH 4t/ „ viv.v\ ;:^fv CtTlCCVniV
jyjtpA^cn J):>6^uo/Cy (t TiXnya^c: y(t /SoXajqcwTix^^Hpi^OrpXov-ngofjOi^aiJ^ieicxA
yy ^ OeioA ^^;weA^c.idcft,Solum itaque tcrreftrium ucnatio,capturaue, „
athletis noftris rcliqua cft,atque harum,quae dormientia animalia yy peculiari
uocabulo nodurna uocata pcrfequitur, fcgnibus conue5,
nit,nulJamq.mcrcturhiudc,ficuti ncc iIJa,quae laborum intcrmif„ fioncs habens,
rctibus, &: laqueis non laboriofi animi uiftoria fera5, rum robur cujnccrc
conarur.unde folam ilJam optimam eflc rclin5, quitur,in quahomincs quadrupedia
equis,canibus,&:proprijscor „poribu$i]cnatur,quosomnesfuperantini,qui
fortitudinisdiuinae F 5, poifcliilonem curantcs proprijs manibus
currendo,fcriendo,&: iacu yy lundo ucnaiioni opci-a nauant. Ex qui bus
uerbis clarc pater,quan„ tum 1-Jato in comparanda fortitudine bcllica diuina ab
ipfo nuncupata, vcnationem dixcrit cxcrcitatoribusinilitaribus confcrre.
quosqnomodoipfcfub dOXY^iiiV nominc comprchendat, fuperius indicauirnus.
Euidentius,quam Plato,locumhunc cxpJicafleuidctur Xonophon, qui dc Cyro in eius
pacdia ita fcriprum reliquit: T?^ TToXiM^-ihg Ji lv}}ca dcniY\or to; OY\pav [f^yof,
bWtp icryteiv rctZrct fivn yy ;!^ rcw^rl^v n^^bf/^iJO^ € jAce^c a^ic^lw
icTTtYKTiy ttoMuixZv ^tvcLf, iW/jcTicJidAnCv/.Wlw. idcft,
Excrcitationisautcmbellicacgratiaeos ^ ad ucnacioiiem cduccbat, quos haec
cxercere oporterc cxiftimabar,hanc ratus &:omnino bcJlicarum cxercitarionum
optimam, ' &: cqucftns ucrifiimam. Quo ia loco nemo non uidct, quaiu apcrcc
A apertcucnarioncm ad exercitationcm bcllicamomniiun nuximc conducerc ccnfucrit
. undc poftca in lib. dc vcnarionc iuucnc.s ad capclTcndamhanc cxcrcirarioncm
duabus praccipuis rationibus adhorrarur;tum cf corporibus bonam ualcrudincm
comparat : tum cf cosad bellum
maximcinltituit^drcnuofqucmilitcs^&cctcrisrcbus agcndis idoncos rcddit . At
Arillotclcsnon tantum bcllicac iib r exercuarioniucnandi lludium conduccrc
uoluit, quinimo illud ^ ipfiuspartemmanifcltaorarionefccir : ut nullaamplius
dubitat io fuperfit, quin intcr cctcras nulitari gymnafticac infcruicntcs
cxcrcitarionesuenatio quoquc locum obtinuilVc dicatur. Quod vcr« . nec
athlctica profcflio huiufcc gcncris cxcrcitiocarucrir, vcjk-: nes in
amphithcatris ab Imperatoribus facpcnumero rcpraefcnra tac,&:apud
Latinosfcriptorcs miru in modum cclcbratac dcir.ouB ftrant: quac liccrab hac
noftra nuilrum diucrfic fuilTcanpai canr; illius ramcn fpcciem praefcfcrcbanr,
nt mpc cum bcftianj,arq. alij mortisfupplicio condcmnari co prorfus modo
aducrfus fcras, vfq. ad alcerius intcritum (ur rcfcrt
Suctonius)contcndc:cnr,quo vcnatores contraminus immancs bclluaspugnarc
confucucnir.t . Dc medicorum gymnaftica, quod fcilicct ucnaiioncm ualerudini,
Sc bono corporis habitui comparandis, tucndifq. probarc u, ncmini non conftarc
arbitror, quando,practcr Xcnophonris lcnrentiam i Jctnfiu citaram, practcr
Galeni aucloritaxm, qui inrer cxcrcirationes corporisfaniratiinfcruicnrcscamrcpofuit,
ludoq paruac pilacin hoc ludo parfoluminfcriorcm fe':ir,quod maiori appararu
indigcar,proptcrca " nec arrificibus,nec ciuilibus ncgotijs implicitis
conucniat; practcr iuniorcmPlinium, quiuenationc corpus fanum confcruaflc
inii-li y.cpift, ^ nuar, practcr aliorum argumcnra, unum Ra/is Arabis mcdici
cruditiirunitcftimoniumfufHcercporcft, apud qucui icgirur, contigiflVin quadam
pcftc, ut, dum omncs fcrc pcrircnr,foli vcnarorcs, in jo.coa. obfummam
ualctudinem airiduisexcrcitationibusparram^incohimeseuafcrint.ncfilcntiopractcrcaLaccdacmonios,
a quibusolim ad coenam Dionyfius Syracufanus acccptus, fc cibis appoliris dde
Aari negauir. cui flarim rcfpondir coquus idco illud cucnifsc,quia nec in
ucnaru,ncc in curfu laboraucrat, &: idco fiti, &:famc carcbar,quibusLaccdacmoniorum
cpulac condicbantur. Itaq. mirari nullopado debcmus,fi Mithridatcm,qucm ufq.
adcofanitaiis,&: uitac ftudiofum fujfsc fcimus,vcnationi ita auidc opcram
dcdifse lc gimus,ut fcptcm annis, neque vrbis,ncquc ruris rcdo vfus (it . Ergo
nianifeftuna cuiuis iam cfsc potcft, quantum in cxerccndis pro uaicrudinc
corporibus ucnatio apud uctcrcs acftimar^i fucrit. cuius cum multac cflent
fpecies, quanim aliæ rctibus, aliac laqueis, uifco,& aucupijs,
aliæcarniuoris,&:rapacibusauibus,aliæcanibus, fagitfis, uel puris, vel
rindis ; quas ideo Gallos uenatorcs hellebo^
roinficereconfucuiiretraditPlinius, quia circumcifo vulnere can.xy.c. y.
rotencriorfcntitur : aliac armismodo in uolarilia : modoin rcrrcftrcs belluas
peragebatunilias ucnationcs aptiorcs cxiftimaras arbl tror,
inquibushominestampcdibuseunres, vcl currcntcs, quam equis vcdi fcras canibus,
&c armis infcdabantur ; nempc quas tum
corporamagisexercere,tumfenfusomncsacucrc, tummaiorcm
animisuoluprarcmafrcrrcncmoncgarit . Eam enimuenarioncm,
quaccumaccipitribus&afturibusaducrfusaucshifcc temporibus exercetur, an
commendarint antiqui mcdici, affirmarenequco, 7.de his.
quod,IicetAriftotcI.memoriacprodidcrit,incaThraciac partc» ' quæ olim
Ccdropolis uocabarur, homincs focietarc accipirrum perpaludes aucupari
confucuiiTc ; nihilominus gcnus illud venationis noftræ ualdc diflimilc fuiffe
uidetuv; quandoquidem illi iplilignis, quacmanibustcnebant,
arundines&:fruteramoucbant, undc aues ob ftrepitum cxciratas, euolaresq.
accipitrcs dcfuper infecLabantur,quorummetu aucspcrculfæ terram
repercbanr,ibir. quc pcrcufTæ baculis a vcnaroribus capiebanrur, &c earum
parres' accipitribus diftribuebantunnoftrum ueroaccipitribus,atque aftu
ribusedodtispcragirur • quodantiquos ignoraflc, et Conftantini Imperatoris
actaie inuentum eflc, infinuat lulius Firmicus :_ ficutr etiam ignorarunt cam
uenarionem, quac canibus arte quadam m-^ ftrudis, &: rctibus aduerfus
cjualeas,pcrdices, &. faiianos cxercctur. Sed dchisfatis. Exflicit Liher
Tertinj* .0 m H?9 "De ratione agendorum ^ ^ dc exercitatiom ryS. Cap. L VM
gymnafticæ origincm^ciufque fnccics» &: fpccicrum(ut (ic dicam) fpccics ab
antiquis traditas,ac inufu habiras,iam clara,quantum conccditur, cfTcccrimus,
ad pcrficiendum tradationis noltrac inftituru rclinquitur, prius
U!iiucifa!cs,communcsuc cxcrcitarionumomniumrcgulas tradcre,quarum dudlunon
modo li '•gula cognofccrcs Ycrumctiam vti unufquifq. pofTit : dcinceps ad
parr\-n!.:ria,&: magis propria rranfcudum c rir,ur in llngulis cxcr
citationibus,quid boni>&:quid malirclkicat, flicilitcr pcrnofccrc,
&: cogp.itum partim amplcdijpartim cflligcrc valcamus.luiflct
profcctoinanispropcIabor,acuanum ftudium cxcrcitarioncs vfquc adcoapud vetcrcs
cclcbraras pcriicftigaflc-,niiictiarautiliratcs,&: commv>da,quori:m gratia
totam gymnalticam,&: c6didcrunt,&: in
quotidianuaimcdicorumufumcduxcrunt,pcrfpc^ta,&:cIarahabe rcnt
iIli,qiiibushaccnoftralcvttirarc,ijsquc ad faniMtis profcCtum non ofciranrcr
uti placucrit.Arq. in hoc idc ) magis inihi clabciran dum efle cenfco,quoniam
Galcnus Hippocratis arque Plaronis pla ^ citafccutus^in omnibusquidcm
artibus,lcd pracfcrrim in mcdicina, uniuerfalcsmcrhodos parurn iuuarc
clamar,nifi particulanum tractationcs,ac indiuiduorum fpcculationcs
accelTcrint, quibus rii r€s communi mcrhodo inucntac ccrrius contirmcntur, tum
carum fimilitudincsac diflimilifudincs,unde omnis iiumana deccptio,ut in
Phacdrofcripfir Plato,principiumfumir,probc difccrnantur . Hanc igitur ab
anriquis philofophis, atquc mcdicislaudatam uiam incedcntcs,tractandorumomnium
ab iplius cxcrcitationis narura initium capicinusrquam cum dcfinicnmus morum
qucndam corpo ris clfc, atquc omncnrmotum ncccllai io diffcrcntiac nonnullac
fcquantur,nimirum vchcmcntia,rcmiflio,ccIcritas,tarditas,&: limilia: &:
proptcrca in quouis motus localis gcnrrc corpus quod moucndum cft,Iocus ubi
moucri dcbcf,tcmpus in quo moncarur,ac iplius morus mcnfura,atquc modus cx
nccclHtatc rcquirantur, confutaris corum,quidccxcrcitarionibu5
maIcfcnfcrunt,opinionibus,primo diffcrcntias illas excrcitatione confequentcs dcclarabimusrfecunD
do,quæ fint corpora excrcitationibus apta,& quac inepta, dcmonftrabimuiittc
rtio, qualis efle dcbcat locus,ubi jJli excrcitationibus operam nauare dcbent,
qui uel confirmandac, vel conferuandæ ualetu dmi ftudent: quarto, quodnam tcmpus
cxercendis corporibus opportunum habeatur; ficuti namque corpora omnia non
omnem excrcitationisfpccicmpcrferunt, ita fimiliter non quiuislocus,nec
quodlibct tcinpus cuicunquc aptanrur.Sed,quia
jmpcrfedahæctraaatiorcmancrct,nifimcnfuracxercitationispracfcribcretur,ideo
qujnfto fubiungam,quantum cxcrcendum fit.Addam &: fexto modum,quo
exercitatio adiri debeaf,atque fic ad particularium cxcrcitationum qualitates
examinandas dcfcendcns nihil relinqucre conabor,q^ in hac materia iurc
dcfiderari qucat,&quod l ædieca. ab Hippocrate,fiue Polybo pro
laboribus,aut cxcrcitationibus tra E dandis cognitu necellarium pofitum fucrit.
Scd hoc antequam aggrediar,illud prius hoc in loco præfandum efTc, iudico, ea
omnia, quæ in hoc quarto volumine tradituri fumus,tati in vniucrfo
exercitationum negotio mojnenti cxfiftercut, ijs uel ignoratis, vel negledis,
excrcitationesdetrimcntapotius,quamcommoditatcsuIlasinferant.-innumeræquandoquidemcxcrcitationes,
utpræcla1. J tu.va. re fcriptum eft a Galeno opportune ac prudentcr adminiftratæ,er
^ liSo. ^^^^^ naturæ in corporis tcmperie fadtos, tum hominum in
ui&mac.ruc! procuIdubioefsentilli, quinatura corporis imbccillimi funt, qui
cum ab exercitationibus utilitarcmcapiant, ceterosquofcumqucabijfdemiuuari,
&:iccircoillis uti dcbere confequens cft.His crgo rationibus pcrfuaii
cundispaffimhominibusantecibumfaltem iniungendas excrcitationes ef'fe
prædicabant: fed&ipfiapcrtiirime hallucinati deprehenduntur, Qiioniam
cumhominumnaturæ,&:conditioncsufqueadeo pcl^«^lHicrlac fint,ut neminem
inucnire (fiturfcripfic Galenus) alteri fiE milem prorfus liceat, fintque
quibus medicamcnta noceant, quib. 5^. Epid. profint,quosimmodicuscoitus,fiucAc
illos,qui hoc alfcucrarunt,toto caclo abcrrafsc^quamuiscxcrcitarioncm commu
nitcr acccpram, prourquaflibct ucl minimas corporis agitariones
compIcdirur,ncmini fano ncgari pofsc farcamur, quando nihil fanitati tam
hominum,quam brurorum acqucperniciofum, &:lcrale, ^ im:cniri:r, arqcc
cuiufli iK-r motus cclsario, confumatumue orium, quibusnon tanrumuniucrius corporis
habitus mfignircr rcfrigcra tur,calor natiuus
hcberatur,humiditatcsfupcruacuæcrcfcunt,mo Icftusquc quidamomnium uirium torpor
connurritur,ucrumcria, lib.dcdb. utdiccbat
(;alcnus,cunctamcmbratcnuia,dcbilia,atquef1accida ^cuadunr,& fubindc nonrarocxiriaIcsmorbinafcuntur,qui,abhui"'^c-cau,
moribus frigidis plcrumq. origincm duccntcs,ucl ad mortcm, ucl
ndpcrpctuamualctudinis offenlioncmpcrducunr. N 4 K^' a.Aph. T^darguu7itur^qui
ajfueto Jolum exerceri uolebant. Caf. III ESTAT falfa eorum opinio condcmnanda,
qui affuetos folum cxcrceri debcre,inafluctos minimc cxcrcendosefrc iudicabanr.
quorum fcnrentiatametfifpecicm ucrirarisquandam præfeferat, cercrisque duabus
iure anrcponi mercarur,haud tamen prorfuscrrorcuacar,dum alTuerudini nimium
rribucre, quafique fupra narurac condicioncs illam ftatucrc uidcrur. Ccrerum ne
honimplacitainiuftcrcfcllerc crcdamur, &rariones, quibusadducliin eam
fcntentiam iucrunt,&:crrata,quæ commife runtjin medium proponcmus,vt
vcritas facilius cluccre acquo iudi ci pofl^t.Iftiitaq. cum legiffcntapud
mcdicoium principcmHippo cratcm,eos,qui confuctifuntfolitos
Iaboresfcrrc,etfifucrintimbccilles, et fencs non confuetis, fortibus, &c
iuucnibus facilius ferre ; quacq. cxlongo rcmporc
confuerafunt,erfidctcriorafinr,inafluetis minus incommodare,affeueranrer
pronunriarunt, ncminem iaaf fuctum cxcrcirationibus,&: laboribus committi
dcbcrc,aIioqui ma ximopcre offcndi^fcd dumtaxat aflueros, ncmpc quos partcs
cxcrci tatas robuftiores habere,& proptcrea laboribus finc damno refiftere
experientia demonftrat. addcbant his rationcs, primo quod omnes illi,qui
cuilibetrci infucfcunt, raagna ex partenaturæfuæcouenientem confuerudincm
deligunr;quoniam lædentia expcrri, il la rcpudianr,&: iuuantibus
adhacrcnr.unde excrcitationibus vafl^iic ti in illis tamqua fibi familiaribus
confcruari debennqui ucro quie fccndi confuctudincm contraxcrunr,ab
illanullopadofunrremouendi,quafi tales expcrri fint ab cxcrcirationibus fc
ipfos ofrcndi,&: aquierc utilitarcm
capcrc.Sccundo,quodiuxtaphiIofophorum,&: mcdicorum placitaconfuerudo in
naruram rranfit, &:iccirconon fccusconfuerudincm
pcrmuranrcsobIacduntur,atquciIIi, quinaturam pcrucrterc, &: aducrfus illius
impctus obrcnderc conantur . Tcrrio quod fi confucti quicfccrc longo rcmporc
fani ira uixerunt, ucrifimilefir,in eadem quictc rcliquum uitæ curfum ipfos
fanospe ra£luros;exaducrfo ucrendum cflc, nc ijdcm ægritudines diucrfas
incurrant; fiquidcm pcrmutantes in contrarium uiucndi rationem, &c alia
ipfi confcquentia in contrarium ftarum pcrmurari, nccefTarium vid etur . Huiufcemodi
crgo rationibus indudi, ifti conftantcr affirmarunt, confuctudincm non debcrc
murari, &: ideo folitos cxcrceri cxcrccndos cflc, &:foIitos quiefcerc
in quiete permancre dcbcrc. Scd,urdixi, liccthiinifuisculpantiam
fcntcntlanifcciiti fmr,att.uncnncqiicipricrroril)us carucrunt,c]uia
Hippocratcsin i-Apluytf omnibus ad inallucta tranfcunduin cllc iudicauir,nc
quando ad illa dcfccndcrc coaocratiscitataaudtoritasineofcnfuaccipi dcbcr,ut
uolucrit,qucmad^ modum&:nos,vclimus,nolimus,aircntiii cogimur,afluetainfolitis
minusturbarc, ncquc proptcrhoc interdixcrit, quin ad infolita
quandoquctranfcundurnfir,6jpracfcrtim cumafsucta ualdcpraua funt,&:
inafsuera mulro mcliora.Piinlacitaquc raiioni rcfpondc
mus,a{TumptumfaIfumcfscuniucrfahtcrintclIcdum, quoi;iamlicuti multi
coniuctudincm naturac corum conucnicnrcm induunr, ita quamplurcs ucl dulccdinc
allcdi, ucl ncghgcntia, aut alijs detcnti ftudijs,ucl prac nimia ftupiditatc
fcfc lacdi non fcnticntcs,iii malis confuctudinibus, &c naturac ipforum
inimicis pcrfflunt; qucmadmodumfaciuntquicfcendo, &:afsuctJ,6d dcdiri,qui
quictisuoluptarc dclibuti non fcnticntcs ofrcniioncm cialfucucrunt ; non aurcm
quod cam tamquam fibiipfisconucnicnrcm clcgcrinr, nimirum quam iam antc
hominibus cundis inimicam probauimus. Adfccundamucrorationcm dicinius,
narurainprofcdo,& confuefucrudjncm parum diflcrrc ;haudtimcn fcqui cx
hoc,quod numquamconfuctudo mutari dcbcat: quandoquidem fi mcdici naturas
prauas, idcll naturalcs intcinpcrics cincndarc, in mcliusq. permurare omni aite
contcndunr,ur faniratcm,&: habitum bonum Q corpori ingenercnr,cur itcm
pclfimac confuctudincs ab illis in honclliorcs, &: falubriorcs pcrmu tari
ncqucant, i gnoro ; co pracfcrtimquodfacilius cxfuuntur,quac confuctudinc
fucrunt conrra£ta,quaraquac aprincipio orcus anatura tradita. acccdit huc, quod
otiandi confuctudo pcrniciofa cll, quia ( vr diccbat CcHus ) I ib. r.
poteftincidcrc laboris ncccflitas. Tcrriacpracrcrca larioni oppo^^i' ^
nimuseos,qui inprauisconfucrudinibus pcriiftunr,tamctliob iu.cunditatem non
aducrrant,pcrturbari, ur mnucrc uoluit Hippocra tcs,dum haudquaquam inalsucta
dctcriora non rurbarc, fcd minus tiirbarc dixir ;ncqucproprcr hoc
Iaudari,45^probari dcbcrc,quod multo tcmporein fimihbus confuctudinibus
uitamfanam traduxc rint : quoniam ficnti diccbat Galcnus,illi,qui cibis mali
lucci uicb* tant,longo tcmporc maligniratcm intus alcntcs,tandcm qualibet uel
minima occafionc pcflimos morbos incurrunr, fimiiitcr iquoquc in pcirimis
confuctudinibus pcrfcucrantcs facpcnumero .dealini. mtus 2CO intusmaloshabitnsconcipiunt,
quos pcraliquod teinpusnonpercipiunr,quoufqiic humores praui orionuiriti,
&fupra niodumaudi incurabilcs^&molcfblfimas acgrirudincsinducunt.
Qiiarnobr^ claborandumclt,uniucrfJsfiinam uitam
optantibus,utmalacconfuerudiniinnutritiminimcfe uoluprare, atque damni
ignoranria decipi linant,immoquamprimum ab earecedcrc, paullatim tamc, et ut
dixit Hippocratcs iKTr^odxyooyHt ftudeanr,illud procompcrto
habentespotiuscumaliqua molellia pcrmurandas cfse pcrniciofa^
confuctudincs,quaminiIliscum delcftationc pcrfiftendunK Atque hæc pro male de
Cikcrcitarionibus fentientium refutationc diifcafufficiant. Tcmpus modo cft,
qude corporæxercitationibus accommodentur,quod tcmpus,&vjUilocus,
dcmonftrare: fcd antcquam hoc aggre Jiamur,diffcrentias,ut fupra promifimus, ipfiusquc
tradatioiiis ordo expoftulat, cxercitationum breuitcrpcrcurremus.
exercitationHm differentijs. Ca^.V. ViCVMQVE cxantiquis excrcitationum
facultatem fpecul ari)&: fcriptis tradere aggrclfi fuerfir,tres primarias
illarum diffcrentias effcccrunt^ quarum aliamTraf«(rxw/«si;cflV;j4//xf/poft
^/TxJ^ mærores infcruiebat; &c proindc hic motus a Galeno cxtrcma fO| A
cxcrcicatlonis pMrs nominatus rcpericnr, quoniam fcrc fempcr po;l
magnascxcrcitaciones.ncad concrariamquictcm illico tran(gredcr"cntur,ipfamadhibcbant,ucporc
qui ol) carditatcm,6^ trcqucntcm intcrpolitamquictcm mcdium inrcr
cxcrcirationcm validam, ^ &: conlummatam quictcm tcncrcr. Porro cxcrcitatio
limplcx apud ^;i.cVp"g. inedicosgvmnaflas
multasdiricrcntiashabui(fclcgirur,alias ab cxtrinfecis,aliasab vtcndi
rationibus,aliasa motusipfiiistum quanritaicrum qualicatibus dcfumptas: quac ab
cxtrinfccis accipicbaa tur,plcrumqucalocononicn f^rticbaiKLr, quando uc!
lubdio,. vel (ttb tccto, ucl in mixta umbra, quam CTroavi^iiyn Gracci uocant, cxercitatio
pcragebatur : itcm quando aut locus crac calcns» ^^utfrigidus, aut^mcdia
tempcric, &: practcrca auc planc ficcus^ aut humidus, auc mcdio modo
atcempcracus . Diifcrcntiac ab B uccndiracionibusacccptac huiufccmodi
cxllitcnint,quoniam aut continuus erat motus, aut inrermiflus.ct li concinuus,
æqualis, ucl inæqualis;fin intcrmifsus,aucccrroordine,aut cirra ordincm,prac^
terea vcl linc puluere ficbat, ucl cum pulucrc, acquc co alias mullo, alias
modicoi finuliccr agcbatur ucl linc olco, ucl cum ulco, atqueipfoaliasexiguo,
aliasmulto. Quac autcm ab ipliusmotus quantitacibus acccptac inucniunrur
dirtcrcntiac, talcs func, quod cxerciracioncsucl mulco ccmporcdurabanr, 6c
multac diccbantur,vclbreui, mcdiocri, arqucpaucæ, &: mcdiocrcs uocabantur.
Diffcrentiac amocus quancicatibusdcfumpcacillacquoque fueruncquacauimorricc
accipiebancur: nam li uismagnacrat, magnacxercicacioilin parua,parua ; lin
mcdiocris,mcdiocrisappellabatur. Porro a qualicacibus ica dirtcrctias a Galcno
captas in^ g"^" r ucnio, quod aut in breui tcmporc mulcum fpatij
mcticbatur cxcr«p.io . cicacione, liuc brcuc (parium
lacpiusinmodicoccmporctcrcba^ tur,atquehæc cxcrcitaciocclcr,acuta, &:
vcIoxnuncupab:uur, qualis curfus,umbrarilis pus:na,achrochiri(mus, lufus paruac
pihc, fi^coryci^kicTAt^fi^uk^-BrrrvA/^w^, &:quacin paladkis ai^tirabancur
humi rircumuoiucarioncs i auc multum tcmporis in brcui fpatio infumebatur,
tardaque &:lcnta cxcrdcatio talis motus nominabatur, ut lcnta ambulatio,
ucdatio in Icctica; aut in mcdiocri tcmporc mcdiocrc fpatium, iiuc brcuc
plurics moucndo pcragcbatur, licqucmcdiocriscxcrcitacio
cuadcbacrprætcreamagnai-umalia præccr uim, cclcricatcm quoq. adncxam
^QVQh:ixUc2 racelerirer agirari; al/a fine velocirate fiebar, et Ivr^,;^,,!>
idcltva!cnsexeraratiouocabatur,ficurfodere,peraccliuiaanibu. lare.quatuor equos
habenis llmul coercere, funem manibus apprcheniam fcanderc,haIteres,omnefque
Milonis exercirationes.quod emm uchcmens,& ualens cxercitatio communi
nomine magna diaph/"^-^ mtclligcrc liccr, quæ Galcnus fcxto popularium
morborumlcnptarciiquir, vbiinter cnumcraras exercitariones, &: equirationem
magnam uocauir . Similitcr Sc paruarum alia cum ahquauelociratchcbar,
&:rcmifni,fiucixA«T«f /ocabarur, alia fineullacelcritatc, 6c «V/^(lf,'iue
Ianguida,aur imbecillis dicebatur,cxquibusduobiisgcneribus eranr uec curam
habcndam cllc iuGcrunt, ut quod morbofum corpus, quæxerciratIonc, &:qua
quiete indigeat,ne ullasperturbaD tiones,motioncsq. fuftinear, optime
pernokatur. Quocirca fccundum iftos corpora, quæ immodica intempcrie calida
Iaborant,nuI lisuehemcnribus,rcmiirisue exercitationibus accommodantur, quod
calor, qui diminui debet, ab jllis potius augmentum fufciLp^iu^' pit,
quemadmodum Galen.de Primigene fumma caliditate laborante narrat, qui ncdum,a
uchcmentioribus cxcrcitationibus, immo,& ab exiguis dcambulationibus in
porticu ante balneum fadis magnopcrclædcbatur. undc mcrito condcmnandus eft
AfclepiaLK2.C.14. des Pruficnhs,quiin ardcntibus fcbribus;refcrcnte
Ccl/o;gcftationibus utcbatur, in alijs uero fcbribus, &c raorbis mcdicamcuta,
ac uomitioncs tollcns, inedia, fiti, uigilia, luce primis dicbus ægrotantcs
inftar tortoris, cxcruciabar,alijs autcm diebus
ambulationibus,geftationibus,baIneis,Ica:ulisquepenfilibuscxercebat. Inhis E
ctenim Galeni, &: Antylli fcntentia cxftat, acuta fcbrc laborantes ab omni
motu rcmoucndos,in longisfcbribus,atquemorbis(quos omncs nonnulli ex antiquis
mcdicis aliptarum officio tranfmittenIn prooc. dos, ut rcfcrt Coclius
Aurclianus, falfo credidci unt ) ubi acccfno lib^hron. urget,nullo paifto
cxerccndos, at in interuallis decubitum non • fcmpcr confcrrc,imino aliquando
utilcs cHe inotiones,exercitationcsciue ; quod innuifle Hippocratcm arbirror,
dum in feptimo cpidemiorum diccbat,aliquos inueniri infirmos,qui nepenitus
torpeant, a lcfto expellendi funt. quod item innuere uoluit AriftotcCi.i6.
leslibromoraliumNicomachiorumdecimo,ubi fcripfit febricitantibus in uniucrfum
diætam,atque inediam confcrre, ahcui tamcn forte non ita conducere. Qui
præterea corpus aridum,ac infignitercxficcatumhabent, ficxerccantur, aridioreseuadunt,
&: F ideo illis quics apprime congruit, quam humcvflandi uim pofndeLoc.
cltat. rc ncino ignorat,quamquc Hippocrates dum cahdis naturis conue
nircfcribit, necimmodicccalidas imtemperiesintclligit,necjau(ao j c
GaIeno;quamlibct motus,fed uehementioris tantum ceffatione, ficuti nos hic
deficcis corporibus intelligimus,quæ geftationibus, &c ueCtationibus
aliquibus, atno magnis motibuscxcrceri poffunt, dummodo uires
permittant,cxcrcitationesq. modcratæfint; alioqui ficur ex modcrato motu calor
cxfurgit,cxcitaturq.,nec non huinorcspaularim cuancfcutiparitcr eximmodico
calorinfirmus exftinguitiir,humiditatcsq. magis diffunduntur . Corporaitcm
calida, &:ficcaimmoderatc nullis exercitationibus aptanrur,minus quoquc
caIida,&:humida,ncmpcquægrauiori quam cctcra morbo fubi jciantur,maioriq.
curaopus habcant,Frigida porro,fimulq. ficca corpora ucl nullis
cxcrcitationfbus, ucl minimls, Sc naldc rc^ miiTis cxcrccri clcbcnt»cum fcmpcr
practcr morbi pcculiarcm affli-, €lioncmimbccillcsuircshabcanr,ExcrcirationibiTs
non iraofrcnduntur corpora H igida, licutj ncq* himiiila. At
frigida&:humida aliorum omnium maximc cxercitarioncs fuftincnr; quod morus
cx liccando, 6c calcfacicndo ucluri quoddam rcmcdium /ir,modo tamcn non cxrra
modum adhibcatur. Arquc hacc omnia diCta inrclliganrur dc illisacgroris
dunra\ar,qui uniucrfum corpiis imrcmpc^ ratumhabcnr,quoniamfiqui$infolacorporis
partc mcmbrouc, autinplunbusintcmpcriem patiatur,rcpcririq. pojrumodus, qua
parrcs fanac citra acgrarum offcnlionem cxcrccanrur,procu]dubio huicacgrotoexcrcitariomagis.
accommodatacririquippcquac fa narum parrium habitum bonum confirmans, infiriuis
criam confcB qucnria quadam auxilium pracftct.ColJjgcnrcs igitur dici nuis,nul
lum corpus intcinpcrie quauis laborans magna,(5c uchcmcnti excr cirationcgaudcr.cjfcdahq(f
rcpcriri,cui cxcrcirationcs cxiguac, et ualdc modcrarac auxilium arierant
inrcrdum. qualcs ucro cxcrcitariones linrillac, &: qualibus in morbis,arquc
corporibus unaquacque congruat,in fcqucnribus libris dcclarabjmus,ubi parncu larcs
fingulaxium excrcirationum faculcarcs ubcrius cnarrabimus.. Dcmorbolisobmalam
formationcm corporibus fimili propcuia) dcrcrminari dcbet,modo illi nona
gcntrarionisprincipjjs,lcd nu-> per,&: cafu(ut ira dicam)ortum duxcrinr
. Hacc ctenim fiuc totam corporisfiguram deprauatam.ut in lcucQphlcgmaria,fiuc
parrcm aliquam.deformaram habcanr, niii aHTcdus alij impcdicnrcs aflb^ cientur,
ab excrcirarionibns utiluarcm. capmnr, ncnipc quac&: ^ contrjrra
dirigcrc,&:a(peralenirc,OS&: toto corporc, et cruribus extcnuaD fn ^.obid.
tos curafle, gloriatur GalenuSy Ccutitem Germanicum, a tenuitacom.j. iQ
crurum^equitarionis bencficio,liberatumaIias diximus . CorpoSecudodc raiubinde,
amorhoin numero corrcpta> fmc isfuperfluus, fiue iTtu vf fit, excrcitationes
cx fe rainime recufant, et tunc præfer""tim,.quandofimilismorbushaud
eft innatus,ueluti inlapilhsrenum, quiexuehementi motu^concuffioneque ab
anguftisrcnum tiijs ad latiores, tandemq.ad ipfam ueficam defcendentesmagnas
ægrotis moleftias adimunt. Corpora uero ægritudine in fitu laba fantia,modo nou
ab ortu, nullum fereexercitationis genusadmittunt, quod membra dum proprium
locum, atque fitum amiferunt» non modo rcponendafuntin propria fede,
uerumetiampoftquani repofitafuerunt,tandiu ab omni motus gencre arcenda, quoad
optimeconfirmata priftinum habitum repararinr, alioqui fimo*J ueremur, maiori
nocumento: afficerentur. quo fit, ut hac infirmitate captimajoriex parte
exercitari non debeant. Atque hæcde lecundo morborum genere,mala formatione
fcilicet laborantibus corporibus divflafufiiciant. Remanent corpora
tertio.genere morborumcontinuatisuidelicet folutione correpta,quæ folutiouel in
cute,uel ia carne, uel in oflibus, uel iiineruis,ac huiufcegeneris
fimihbuscontingere folet, atque modo>lbla,modofebribusaflociata i ubi corpusaliquam
exhis folutionemfebri alTociatahabet, nulIomodoexerceridebet,quandoquidem,
firaro febricitanti* busexercitationesconueniunt, quantominus coauenieru:,abi
alijsmorbis turbabuntur? Qiipdfi citra fcbrem fola: contiauifo-, lutio
adfit,eaq Jit iaparte nobiU,atqueuitæ maximencceflaria, ue p luti
cerebro,uentriculo, iecore, acfimihhus,proculduhiæxerci~ tationcsquæuis
maximeaocent,nempequæ,&:fpirituspartiafreftæ necefl-arios. ualde
diftrahaat, &: humoresomncs tuncagiteat, quando firmos,&:quictoscfle
conucniret,neob eorum atHuxuni morbus
magisincrudefceretj^liamcmbraigaobiliorafipatiantur coatiauitatis
diuifionem,poteruntægri mediofcriterexerceri,.modo ncc infignis lit
affeftus,nec pars laborans excrceatur.. Suntnonnullihac acgritudinc capti, qui
noaparnamutilitatemamoderatis, immoderatisque exercitatiombus pcrcipiunt^quales
fcabioh,, quorumcutiscumabhumoribusfaIfis,&:acutisdi{ciadatur,ex ma
tuuehemeati efficitur, ut humores illi tam per fudorcm, quaav pcroccuJtam
tranfpirationem euacueatur,atque ipfiscuacuatisa morbo libereatur.
(^amobrcmacri iudicio diligeatique aaimadijcrfioneiahisomnibusopuseftjquo
optime cogaofcatur iaqtiibus morbofis corporibus congrua!KCxercirationcs,&
in quibus mi nus lubita fempcr prac oculis uniuerfali hac rarionccuiusduvftu rarillimc
contingunr errata, pofsuntquc parricularia ira dirigi, ut
numquamlocoauxiliorumdamnafuccedant>
n^cc9r^orihHtUAlctuMndrtjS^(^/enihhus€xerc€nclis^ C^p. IIX. \' AMV IS
apudmcdicos(urfiipradiximus)inrcrcorpora acgra,arqiic fana rcponanrur ncutra,
iilaq. in mul tiplicrsdiflcrcntias parriantur, quia ramcnparumad noftram
rradationcm pcrtincnr, corum loco ualerudinaria Itatucmus, cum quibus
comprchcndi uoliimus tum omncs ilB los^qui rcccnrcr amorbis,ac dccubitu
cuafcrunr^ncc dumpcrfctfle antiquumhabirum recupcrarunr; tum fencs plerolquc,
ncmpe quos Galcnuscodcm modo,quo ualerudinarios, curari dcbcrc Jctue.
pracccpir; nec abfquc rarionc,fiquidem fenc(flus,auLtorc Ariftotc"nirieme
lc,eft quidamnaturalis morbus. undc.qui funt acratc graucs, cam c. uk. viucndi
rationcm fuftinere nequcunt,quam fani pcrfcrunt. E^^-ncr'
goualctudinarijsillis,qui moxa morbiscuafcrunr> intcr cctcra rccap.4. iwedia
pro intcgra ualcrudinc ipfis accomodara praccipua cft corporis
cxcrciratio,aquamcmbræorumlninanrur, humorumrcliquiac inaniunrur, calor
cxciratur, et dcnique torus corporis habilus reftituirur . Elt ramcn omnc
ftudium adhibendum, ut a principio lcncs, brcues, tardi, ac remilfi morus
cxfjftant, dcinccps, prout uircs magisinualcicunr>fimilitcr,&:magnirudo,
ac longirudocxcr Ccitationisaugcacur,randcmque inmcnrcillud XKTrgo^Ttty^yi^
ranropere abHippocrarc dccanrarum fcmpcr habcndLui crit,ncob
imporrunumabcxrremo, ad cxtrcmum rranfitum maiora crrata eommirtantur, &:
prouirium rcftirurionc imbecillitasmaior,fiuC profh-ario fucccdar. proindc mcrirodamnandusucnit
Aucrrocs,^.coiied. qui morbofa corpora quoridic cxcrccnda cfsc ufquc ad fudoris
^^P'^inirium,arquc anhclitusclcuationcm nimis libcrc confuluit: ita
tnimuchcmcns cxcrcitatio tantumabdU ut ualctudinarijs, fiuc morbofis
(qucmadmodum ipfc uocar) ullum clTatu dignum bencficium pracftct,
utpotiusuircsadhuc dcbilcsmagisconftcrnet, caloremquc natiuumcxmorbo
uixrcuiurfccntcm fcrcexftinguar, aut faltcm infignitcrhcbcrcr ; /iqiiidcm
bonuscftin conualciccniibus,fcd cxiguus ( ut fcribit dalcnus) ianguis^atquc
unacum ipInartc io fpiritus uitaliSjCii: animalis ; ipfac ucro particuiac
folidac ficcio' P 2 rcs, aio^ resj&confcquentcr corumuiresfunt
imbec^iHiores, atque earumD dcm rationc corpus vniucrfum frigidius. unde ad
cmendandam huiufccmodi indifpofitioncm neceflaria funt quæcumque
probumatquefccurumexhibent alimentumi &c præter hæc
moderatimotus,qualcsvehicula, amibulationeslenes ; non uchcmentes raotus,qui
ficuii folidaspartes arcfa^ftasficcioresreddunt, ita calorcm diminuunt,
&:liircs imbccillas confufnurit. Cetcrum fcncs, quorumactasplurimamob
caloris dcfcdum,cxcrcmentorumcopiam coaccruat,cxcrcitationibus magnopcfc
gaudent,'tumad exf urganda huiufcemodi rccrcmcnta, tum ctiam ad confcruandum,
atq.plAcidi cuiufdam ucnti inftar cxcitandum,acccdendumuecaloirem^ qui
fccusnimio torporeexftinguipericlitarctur . Attamefl, in præfcribcdis fcnum
exercitationibus quatuor animaducrti debcnt, uircs, corporisafTedlus,
confucrudo, &:iiitia particularia, E quacplcrumquefenumcorpora infeftare
folent. ratione uiriura^ quas fcncs fcmpcr imbecilliorcs habent, acutas
cxcrcitationcsjuec n^.v.hcmcntes, &: mukas, quæ corpus ftccant, extenuant,
&: infirmant,,itu itmaximoperccaucredebent/equi
veromitiores,quaIesfuntgcfta;.^.^':,^!trojac intralairitudineminambulatio.Prodicusenim
qui ualetudi-' utlicx^S nis ftudiolidimus^exftitit, &:ob id (
Ariftoteleau»5iore ) ea omniai quibuscctcri cum
voluptateutunturirecufauit.,iamingraucfccntcactatc(ut rcfert
PlatoinPhædro)Athenisad Megaræmoenia ibat, indeque domum reuertcbamr . quæ
excrcitajtionis menfura. haudquaquam.ommbus fenibus accommodari polTct, cum
Plato ipfc cum,&:fibi,&:alijs nimio oiercendi ftudiomolcftiampeperide
dicat. Antiochusparitermcdicus^annosnatusplufquamoiioginta, quotidie fcrc, ut
fcribit Galenus, domoad forum ftadiorum F trium fpatio, atque intcrim ad
uifendos acgrotos pedibusambulare folcbat.quod fi ci longius ire neceffe
crat,fclla,aut uehiculo utebatur. Ad hacc narrat Plinius fecundus, Spurinam
urrum in uiuen.MUr. do maximeprouidum, quique,aurium, &:oculorum uigore integro,nccnonagili
ac viuido corporc,feptuagdimurafeptimumannuniattigitjhanc regulam
conftantiflimcfcruaffe, utmane ledulo continerctur, hora fecuda inducrctur,
ambularerque millia paffuum tria, mox lcgcret, ucl colloqueretur, dcinde
confideret, tum uchiculum adfcendcrct,pera£bifq. itafeptem
millibuspalfuumiterumambularetmille, iterumrcfideret, uclfccubiculo, autftylo
rcddcret ; ubi hora balinei nunciata foret, quæ erat liyeme nona, j)it ni
æftate odaua, in Solc, fi caruiflet ucnto, ambularet nudus, deinde pi la
mouerctur^uchemcntcrA diu poft modumlotus accumberer, Jii A&paulifpercibum
diftcrrcr, Ob rorius corporisafTcflum cxcrciMtioncsfeiiumin hunc modum
dctcrminari dcbcnt, quoniam corpus optimi rtatus, ficutin iunentutc ad
vchemcntifTimos quofque laborcs idoncum maxime cll, ita in fencdla fc habct ad
omncs niediocrcs, quiucrofcnesaut cralusfuntcruribus, authitopcdtore, aut
cruribus, ulrra quod par cft, gracilibus,aut quorum corpus cxiguo clt thoracc,
aut admodum angufto, aut valgum cft, uarumue, aut alio quouis pado a mcdiocri
tate rccedens, id ad eas omnes excrcitationcs incprum rcddirur, quac uitiofa
mcmbra maijis ofTcndcre, quamiuuarc polTunr, ut vocifcratio thoraccm, ambulatio
crura.dLiimiiitcr. lam vcroconfuctudo maximamlibi ucndicat partenidd excrcitationisfpccicm
dchgcndam,quando Hippocra tcs dixit,cos,qui foliti (unt laborcs fcrrc, etfi
fucrint imbccillcs,uel B fencs, non confuctis, forribus, atquc iuucnibus
foliros facilius fcrre. nam (icuti confueta minimc lalTant, quos cxcrccnr, immo
criam delcctanr, parircr infucta tum moleftiam adf crunr,tum lafTant . Senes
igitur omncs confueris laboribus cxcrci rari dcbcnr, (c d tamcn uehcmcntia
corum rcmifl-i,quia, (i corpora fcnilia vigorcm, calorcm,. robur, et omnia
denique diminuta habcnt,iuuentutisrcfpcvfcuexcrcitationcsquoquc minorcs
rcquirerc, rarioni confcntancum cft. Vltimo uiria corporum fcnilium propria
cxcrcirationum ipiis ncquaquam conucnienrium gcnus dcmonftrabunt. quac cnim ex
lcui caulfa, a vertigine, comiriali morbo, graui ophthalmia, auditus imbccillitate
capiunrur,cxcrcirarioncs caput oricndcntcs cuirarc nccclTc eft : fimiliter
&: in omnibus alijs affccti^ bus, non folum fenes, ucrum &c cuiufq.
ætaris homincs ita fc gcreCre dcbcnt, vt ijs cxcrcitationibus fcdulo abftincan
t, quac paticntcs parrcs magis cxcrccrc,&: pcrrurbarc natac funt . Si c
itaq. dc valcrudmarijs, ac fcnilibus corporibus cxcrccndis itatucndum crit. T)e
corportLus pims exercendis. Qtp. I X. V I CVMQVE corporis cxcrcitationcs
fanitati inutilcs minimc rcputarunt,in fanis cas prac cetcris
comcndandascfTcdixcrunt,tamquam nccclTarium propc cx/iftat, /i cxcrciracioncsad
bonum habirum comparandum, atqucualcrudincm confcruandam non ignobilc auxilium
pracftanr, ut in {anis maximc adiumcnrum oftcndcre polfint. Hoc tamcn ucrum
cft, antiquos mcdicosmulras fanorum corporum diffcrcnriascflcci(sc, intcr
quasprimum locumobtinct corCymn^ifiica. P 3 pus 2»» X
PusiIIiidperrc(aafaniratcpracdituiTi,quodmenfura,®ul^ tcris pofitum
fuit,potiufquc mente defignari, quam in ulla rcgione i.dctue. ^pf^l^^u^niri
potcft: ctfi Galenus multa corpora temperata in Mal.cap.7, regionc inueniri
memoriæ prodiderit.De tali namquc corpor^cnuUibicxiifteatcfcrmonemnon fum
habiturus, feddeillistantum agam,
quacirapracfcntefanitatefruunrur,utvalcantline la molcftia cuuvftas illas
aftiones obire,quac communitcr ab omni^* busexercentur. cum enim medicus
arrifcxfenfiliumrerumexfi-. llat,quacfcnfuifefc produnr,&: non quacfola
cogiratione comprchcnduntur, tradtarc debct . Hæcitaquc corpora fana,quoniam
quotidiecomedunr,atquenutriuntur,nccclTariomuIta cxcrcmcntagcnerant,
quacnificontinuoacorporcperexercirationcs educantur,tandcmprauas
difpofitionesingenerant : undeprudcnrcr ^.aph.zs, fcripfir Galenus, homincm, fi
vraturmcdiocri cxcrcirationc,&beE ne concoquat,corpus a fupcrfluitdtibus
mundum rcdderc . Vcrum enimvero infanisquoqucplurima confidcrationedignafcfc
offerunt, tam cx partc exercitationum, quam ex partc cxercitandorum. Ex parte
excrcitationum fciri dcbet, nullam exercitationcm, nec vrolentam,neque
immodicam cfreideberc, utinlibro i^^gi lUKgcc^ c^)«/f«2adnotauit Galen.
&:propterea excrcitationcs.foflorum mcllorum ncminifcrc eorum conucnrunt,
qui profpcra valetudinefruuntur;ccleresmotus,&:
vehcmcnresinrobuftiscommendan^ tur, qualis lufta, difcus, pila, &: huiufccmodi,
co magis fi confueti fuerintj moderati omnes quibus vis fcre aptantur . Porro
cx parte corporum exercitandorumhismenrcm adhibcri oportet, confuetudini,
ætari, habirui vniuerfali corporis, parriculari rationi uiuendi,necnon
temperaturac . Dc confuetudinefacpius diximus F ctiam in omnibus obfcruari
dcbcre, fiquidem quæ confuetac funt cxercitationcs, licct fint aut nimis
vchementes, aut nimis rcmiflæ, inaffuetis maiorcmutilitatcm,atque
dclcdationcmpariunt;atfi quis vcl minus,ucl plus quamconfueuit^intcrdum
excrccatur, protinus molcftia cuidcntcr afficitur,ita ut non raro fcbrcs hac
ratione ll.decaufconfingere, fcripferit Galaius,dum excccicatioacs confuctæ
dimittuntur. Quod vcroadactatcmpertinet, iam diximus, prouercb.cz?^^
(flos,&:fencsremifliorcs quam ceteros,&:pauciorcs excrcitationes
pofccre ; pueri, iuuencs, atque uiri motibus fcrc omnibus pro fua
quifqueactatefufficiunt,modoaliud quid nonprohibcat, autmodum corporibus
priuatorum, &: non athletarum conuenientem minime exercitationes
tranfcendant. luuenes cnim ( diccbat Hip-^ pocrates,fiuc
Polybusinprimodemorbis) fiplusconfucto laborcnr» iti A rcnt jConuuIiionibus
fortibus, &: rupruris uarijs carnium, uenarumque ftarim.i?^ magis,quam
fcncs tcnranrur ; quod corpusroburtum,t^ liccum habenr,carncmdcnfam,ualidam,onibustcnacitcr
adhacientcni,cui circundata cutis uoJdc tcnditur. quac omnia mi nus fcnibus
inlunr, &c propterca illi rarius huiufccmodi mahs capiQ rur. Dcuniucrfali
aurcmcorporishabirullcdcrcrminandumccnieo,quod pingues,6i: obcli^quanromagis
cxcrccanrur,ranro profpe l^pirth -riorefaniratc utuntur,quandodiccbat
Ari(torcIc$,moru pingucdiiicm cliquaruquodfi criamcxcrcitationcslinc
uchcmcnrcs,arquc acurac,nihil omninonoccbunt. Nam Hippocrarcs corpulcntorum
irincrauclcKia dcbcrecfl*cuohiir;quinctiam(}alcnusinrcr cttcra, M-Mcth. quac ad
cxtcnuandum uii um illum obcfum quadraginra annos na tumadminiftrauir.fccurfum
udocem adhibuillcrcfhitur . Conrra Cjracilcs in confummara fcrcquictc dctuuri
poftuhmt, quia licuri^cQlL corpulcnti cralii contrarias habitudmes cx
conrrarij^ortas ha^J,'*" bcntvitdconrraria proipforum
falurcexpolccrcuidcnrur,ahoqui i.icuua. niagoopcrckcdun Mjcahqui funr,quibus
cxcrcirarioprodcf* k mdicctur,ij pro^ ^ -lu pauca,0^: ualde rcmilla opus
habcnt.un defapientitliinus Hippocratcs iummarationciulHr,urgracilcsiter ^CJ.
diæ faCturi lenns pal]ibusincedar,quosircm Mangoncs,& Mcdici craf" j^
(efaccreuoJcnres,uirgis ucrbcrabanr,ur carock'uarctur,&:ad cam ;ihinentum
rrahcrerur.Qui ucrointcrpingucs,v!s:gracilcs,ucI lv(rjgfii,iiuei]uadrati,uel
parumadalteramparrcmdecUnantcs exillur, mcdiocrircr,aut criam uchcmcnrcr, modo
nr^n immodicc cxerccantur,utilitatcm inligncm pcrcipiunt ; nimirum cum corum
ca. lor iramagisconfcrucrur/upcrfluiratcsquequotidianaccxhaurian ^
tur.Deparncularimcmbrorum habitu idcdiccndum, craflas,fcilicet partcs magis
excrccndas, renucs minus, nili carum renuiras ex nurnmcnti dillriburione
impcdita,ucl dcfcctu proricifcatunquo in cafu, 6c exerciratio conuenit, 6c
gcnus illud ungucnti, ctiam pilis aucllcndis a mcdicis cxcogiratum,Dropax
uocatum, dc quo MarUalisiib.j. V/llothro i^^LUuKjuc 1.1'iJs y C dropace calu^m
. ' I' Jsjunquidto/Jurcm GJtrgiliar^etimcs > et lib.2. Lættts dropjce ta
qHoUdmno, Hirfktisegtitrurtbyr fgetiisif. Paritcr,&:partcsomncs
corporismcdiac inter graciles, &: craflas cxcrccndacfunr, In ratione
uiucndi hoo infupcr animaducrri dcr bvtrUr qui parum ct>nK'dunt, parum
cxcrccantur,iuxra Hippocratwic^cnijubi tunulaboraudupiaont-Uj uui itcm
uigilanr,a]j I I cxercitationibusarccndi, ncmagis cxficccntur, neue molcftfacD
molcftia maiorfupcraddatur,contra qui multum comcdunt, multumcxerccri
dcbent,quoniam diccbat Hippocratcs,non potcft homo comcdcns fanus uiucre,nifi
laboret : in talibus cnim opus cft mult o calorcut niultum concoquant, multus
calor ab exercitatioi.^tu.va. nc,diccbatGaIenus,facilefuppcditatur,practercamuItum
mandu cantcs magnam cxcremcntorum copiam aggcncrant,quac nifi
magnis,&:muItisIaboribus diminuatur,in prauas difpofitioncs
cofpusdcducunt.qui fimilitcr multum, et profundc
dormiunt,multisquoqucexcrcitationibus indigent,quandoquidcm in
iftispcrfpirationes rctincntur, atque adco fanguinis copia partcs extcriorcs
dcfcrir,lubitqucinteriora, utadaftocultcllonon acque cfflue3.5hifto.
rcuaIcat,qucmadmodumfcribitAriftoteIcs,& obidfomnolcnti ^^ omncsdecolorati
cuadunt,unde hos faris cxcrcirari nccclTeeft, quo pcrfpirarionibus aditus
parefiat, fanguisue ad extcriora fcruan daarqucnutrienda rcuocctur. Dcmum ob
tcmperaturæ rationcm fic dc cxercitationibusiudicium fercndum credo,ut ficciucl
nihil omnino, ucl lcnte fatis, et minimum laboriofe excrceantur. nam
cxcrcitationes,quas fuaptc natura exficcare conftat,fi in ficcis corporibus
adhibcantur, quin intempcricm augcant, ncmo fanæ mcntis dubitarit.
CaIidiquoquc,&pracfcrtimacri,acmordaci calorepræditi
exercitationcsmodicasrequirunt, ne a motu pius 4.Aph.i3
æquoincalefcant,ipfisquc,utfcribit Galcnusfolacin necelfarijs ^.epid.co.
adionibus obcundis motioncs fattac fufticiunt . Vndc Ariftotelcs, ^anic'
quacrcns, cur ali j fcdcndo pingucfiant, alij macrefcant, ideo eueProb.i. nirc
dicit, quoniam alij frigidi funt, alij calidi, ali j cxcrcmcntofi, p ali j non
; et qui calidi funt, pingucfiunt fcdcndo, cum corum calor fine motu cibi
concononimmerito dubitari poflct; co quod Ariftotclcs fcriptum rcliquit,
corpora humida a laborc fi]flbcari,qiiia a caliditatc motushumidum in uaporcs
conucrritur,qui mox copiori,&: lcruidicflcdi calorcm nariuumfuffocanc:
atramcn ratio fccuspcrfuadcrc ui derur, quæ dcraonftrar humida corpora
cxcrcmcntis abundare, et propterea iplls laboics ualidos congrucrc, tum ad
cxubcrantcm humiditatcm confumcndam,tum ad fupcrfluirarum co~ piam adimcndam .
Quaproprer, ficuri notat Pcrrus Apponcnlis, icntenriamAriftotclis dc illis
inrcUigcrc oportct,inquibusquatuor concurrunr, ut fint humidi, &c calidi,
ut humidi tas lir irulra, cuaporabihs,atquc circa puImoncm:talcs cnim
filaborcnr, &: multumexcrccntur,pcriculum cft,ne humidiras a
calorcinrrinfcco acutoin uaporcs conucrfa pulmonis,&:cordis
rcgioncmoccupan^ dofuffocarioncminducat . Quiab his humidam
corporisrcmpcricmpoiridcnr,nullum nocumcnrum,quinimmo
cgrcgiamurilitatcmabcxercitationibus,&: laboribus percipiunt;arq.hacratione
cx mulieribus humida tempcric in uniucrfum pracdiris illac faniorem, &:
minus molcftam uitam dcgun r, quac diurius, 6c ualcntius elaborant, &c
cxcrccnrur, ficut &: cacdcm apud quas gcntcs,&: in quibus locis
laborarc confucuerunt,facilius pariunt, ut kribit Ariftotclcs ; neque utcrum
ditHcuItcr gcrunt, cum labor ca rccrcmcnta
confumar,quacinmuIicribusotiofis,&:fcllulanjs augcntur. Quaccunquc
ucrocorpora calida(imul,6^ficcafunt, nullopa^to cxcrccriconucnit;quæ
calida,&: humida, cxcrcitationcm
admittunt,atmodcratam,nonuehcmcntcm,noncitatam : frigida,&:/icca rationc
frigiditatis cxcrccnda lunt, rationc autcm ficcitatis neC
quccelacs,ncqueuaIidosmotusrcquirent, fcd modcratos,&:potius lcntos: fngida
atquc humida omnium maximc ab cxcrcitationibus uchemcntibus, &c uclocibus
iuuaniur, quippc quac fupa -a.cancam humidiratcmabfumunt,&:calorcm natiuum
cxcir.inc.augcntquc. Sicigifurdccorponbuscxcrcendisinuniuerfuui dctciminatum
lit. Dc locfj In quil^HJ excrcitationes ficri debent. Cap. ^y^.ffK A N T A cft
locorum uis,atquc proprictas,quibus rcs ia
iplisfaciacuarijsmodisdilponuntur,utnon modoplan tarumnaturac,ficuri
Thcophraftusfcribit,non modo ^^c.brutorumfacultatcs,qucmadmodumaudorcftAriftotclcs,ucrum
et ipforum hominum corpora,atquc animi, fccunduin
Hippocratis,&:Platoni5fcntcntum,prout indiucrlislocisucl nafcuntur,
2il.mai;ishvpcrhron conimcdarunr, quampordcus,(S^hypogacum,licut,6c
Phacdrusapud Plaroncm in diaiogo iplius nonunc infcripro cx fcntcncia Acumcni
mcdici, cuius ctiam a Xcnophoncc cclcbris hc mcntio, dcambulationcm, cx[l^ ti-a
ciuitaccm iaLhun ci, quac in ciuiraribus ctH. i iir, pracrulit hifce tt^VCrbis
'.ti \,yu£ mI cSTruiiyiW^ AKOVtAivui KcciccTccs oJ^Jx/^ TTcioOyLCti ToOi
Tr^rrccTOv^^cfHffi yxg iKOTroort^STotiv Ivtoi^ J^^ot^n^ iivcti, jdcli:, McO
auccm, 6c tuo obcdicnslodali Acumcno, m vi)s ambulationcs facio : has cnim
dixic minorcm lafruudmcm parc rc, quam illas quæ hn curribusagancur, Dc hoc
cnim Placoms loCo cum luprapromifcrimus, nv"^s plura diduros, iam occafio
poliicira fcruandi opporru na fclcurtcrr, cosmagisquod Marlilius
Fic!nus,uiralioqui doctilliB mus,dum Phacdrilcnccnriamcnecrcdidit, uc
hiciiiorcs linrambulacioncs, quamcurfus, dupliccm errorcm rurpiccr commific;
rum quia rcxtiis (Sracci lirceram,ai]t non inrcllcxir, aur linc ncccflicatc
cranlnuitauic, dum loco t»v IvToi^J^^iyiOi^, pcrindc cranrtulit, ac(i ccxcus
habuilVcc TivJ^^itmy ciim quia Phædro Acumcno ridiculam propc rcinlc
adlcripfiirc nonanimaducnit :quis cfuæloadcomruHus,(&:ignarus cll, quin
cognofcac ambularcfacibus clVc, quam currcrc ? Mchus igicur lanus Cornarius,
qui nupcrPlatoncm Latinum iccit, fentcntiam illam inccrprctatus cft, cum
Phacdrum tcccrit diccntcm falubriorcs cllc ambuhirioncs in uijs,quam in
curlibusfactas. quod uc accipicndum,atqucintclligcndum (ir,uarias inucni
doclorum hominum opinioncs; alij namqucarbicratifunr, «/^fo/nwj fiue curfuii
apud vetcrcsGraccos fuific Qin urbib.
uiasplanas,lcdoblapidcsftrarosafperiufcuIas, &:brcucs ita appellatas ob
frequcntiam hominum pcr cas ambulantium i co padito, quoctiam
hodicrnadicapudmultosciuirarum uiacmagis irequcntarac Curfusnuncupanrur. cui
fcntcntiacopitulari uiderur Hippocratcs 5. Epid.-.ibi mcntioncm ciiiufdam
facif,qu' propc cur fum habitabat his vcrbis: 0 7roc§i tov J^giiJLov
opcioQVyTHS wktoqcchjuic li^i' daf. idcft, quidc propc curlum habitans nocte
languincm euomuit, ucro liue uias dixcrunt fuiflTc quafcunquc uiascxrra
ciuitatcm nulla artc fabricatas,nullis lcgibus llratas,(cd inacqualcs,mini mc
planas,&: dcniq. talcs,qualcs ud narura,ucl cafu fadac rcpcriutur : atque
ideo Acumcnum magis ambulationcm in uijs, quam in curfibus probaffe : quoniam
ficuri fccundum Cclfum, 6c ipfo anrilib.i.ca quiorcm Ariftotclcm forraffc
Acumcnum in hoc fcciirum, Tfl2t^ jV/yJ"^ TF^iTriroovoi
KWfdCiiJ^Qy^iKOTrii^ioi wii/oiivi^Mi rHv irjSuHv. Idclt ambulationum
lllacminusdelafsant, quæ fiunt inuijsinæquali. bus, quam re(ftis, cum
ambulantes pcr loca plana, &c æqualia fempcr ijfdem membris laborcnt,
ambulanres u cro per inæqualia roticorpori laboremmagis diftribuant,
&:iccircominusdefatigcntunitaambulationcsper uias fadac, ut potc inæquales
fadtisin curlibusnimirum acqualibus exli^eiTtibus facilioreseadcmratione
cxliftunt. Alij dixerunt rot/ffc/^fJ/iovc r^xftitilTelocaquædam tra£l:u brcui
ambulationibus dicara, limilia ijs, quæ in palneftra anti-» qui ob ambulandi
commodita.em acdificabar, quacquc IniJ^goiAic^ajuocatas rradit Virruuius,
&c quorum clarifrinam menri ;ncm fecit Eupolis, apud Lærtium m Platon Iv
IvjkIoi; J^goptcurt akccJ^H'' lAOvSiov^ ideft, inambulacrisAcademi Dei umbrom.
uiasuero exftuif e dlas, quas paullo anre ex prædi(5l:)rum opinione
indicauimus, et ob id Acumcniim rede fcniifsc, dum ambulationes in vijsminus,
quam incurlibus defatigarc ccnfuit; quandoquidem . Ariftoteles fcriprum
rcliquit, eos ambulando magis defatigari, quipcruiasbrcueseuntcs fæpe, ac
facpius repeccre coguncur, quam illi, qui longas uias pcrambulantes numquam
repetuat, cum illi priorcs modo quiefcentes, modo euntes ab inæquali mo' tione
pcrturbentur, quod minus iftis euenire perfpicuum eft . Hos poftrcmos melius
cctcris fenfifse, femper ego putaui, non tam quod ambulano in uijs perada
eligibiliorfit, quam in curfibus, tum ob rationcs prædidas,tum ob liberiorem,
et puriorem ærem, qui non in locis breuibus,&: occlufis, fed in vijs
apertis crebrius infunditurrquamquodcurfum ita Platonemin Phædro
intclligere,uerifimihus cft, quando &: in principio Thcæteti fimili uoce in
cadem prorfus fignificatione uti uidctur fub hisverbis: tegnyxg ltf
rS^ooJ^gcfieo HMl(povroW£tgoir\rmgovroi ttCroO^ KxiccCrity vvv&: loca
fccundum mare ad mcridicm,aut occidcntc fpc^ftantia tiigicnda crunr, c]uoniam,
Virriiuio auctorc, caclum mcridia^num pcr acftarem folc cxoricnrc calcfcir,
mcridic arder,undc cxcr citarihne magnoincommodoncmoibi poteft. Quodfi
fupcrbilfi mac,arqueinnumcræ illæ porticus ob dcambularioncs, &: alias
cxercitationes, ut fupra rctulimus, crcftac, fi ampliirima illa gymnafiaad hoc
a maioribusnoftris magniricc exacdificata babcrcntur,nuIlusprofcdo locus
aptiorinucniri polTct, qui omnibus fcrcexercirarionum gcneribus magis
futficcrct :fcd,quoniam illorum ruinas uix nobis intucri liccr, danda opcra
crir, ut unufquifq. locum fccundum condicioncs iam cxplicaras cligar, illud
icmpcr nicnre rcuolucns, tametfi multæ fint exercitationes, quac loca
angufta,&:occIufa expofccreuidcntur, inijsramcn haudparuni B delc(ftum
quoquc habcri dcbcre : ut, fi non omncs qualitatcs, aliquasfaltcmcarum, Sc
mclioresex ijs, quas inmcdiumpropofuimus, habcant . Quamobrcm fcitiflimc
confuhiit Galcnus, ut do^i^mus, in qua cxcrcirandi funr homincs, h\ cme calida,
acftate frigi"^'"P-^da, uel fcmpcr tcmpcrara cligarur ; fin mmus,
procurctur, ne ipfo pracfcrtim die calidior,frigjdiorucfir, quampublicus
totuisurbisær. Quasomncs pracdidas condirioncs unoucrbo complcxuseffc uidcrur
Acrius Amidcnus, ubi gcftarioncm, nauigariolib. j.c.7. nem,&: omncm dcnique
cxcrcirarioncm in falubri loco,&:puro acreficridcberefcriplit . Aliac
fimilircr poflcnr indicari iocorum condiciones,ncmpe inæqualjras litus,
planirics,&: huiufmodi: ied,quia parrim
cxplicaracfucrunt,parrimfupcruacanca&: teporcmferuarc non poteft. amplius
corpo-. ramotupcrfpiratiora,&: folutioracffcda, meatufquc pcrfudationcm
patefasfti frigusintima maiore ui penctrarc permittunt, ac* ccditctiamquod fcfc
cxcrcentes acrcm continuo permutant, ac ^r. partiu pcrmoucntj&iccirco^uti
diccbatAriftotcIes,currcntcs hycmc,ma P prob. 12. gisrigcntltantibus.quod ucr
noftra ambiens corpora, cumftamus, ubi lcmel concalcfadus cft,nulla amplius
molclliam inkrt; cum au tcmcurrimus, alius atquc
aliusfubindcfrigidus*occurrit,iraquc fit, ut magis rigeamus • Paritcr qui in
cxtrcmis frigoribus cxcrccn-. tur,uchcmcntius arigorcpcrcutiuntur:
nimiuspractcrcacalorcxcrccri uctat,nccnonficcitas immodica,quoniamaltcr
calorcmnatiuum, et vniucrfum corpus immodcratc refoluit, altera magis>
quamparfit>humiditatcscxficcat. Tcmpusitcm excrcitationibus fcrenum,atquc
lucidum cligcndumcnt, fugicndum ucro nubilum, obfcurum, craflum; quando licær
dcprauatus ctiamabfquc cxcrcitationc apcrtos corporis mcatusfacilc,fubit,
humorcfqucfccum inuchcns mcmbris non finenoxa afligir, et pcr confcqucns
grauiora non Imc rationc corpora rcddit, animumquc deinceps gnuat
;qiiodinfcfcno nufquamanimaducrtitur,quln potius al> illo corpora ad morum
adiuuari,fpiritusq. fuaptc natura luciditati amicosconfirmari',&: animum
rccrcari pci fpicuum cft. id quod Hippocr:itcm (ignifi^ alfe puto,ubi
dixit,(?/4«ritrc &:incoctos humorcsconficicnre cxcremcnra
paucif(imagcnerantur,atqiic indc minus iIIacducincce(Tariumcft, ncquc
cxcrciratioconucnit>quaccxiguam urilitarcm aficrenspencu lum magnum adncxum
habetine fcilicet ær hyeme madore opple tus coi-pora moru reclufa illabcns
nvignopcrc lædat.Kx altera par teuctuiliirrnus audor Hippocrarcs, iiue Polybus
tria cxcrcitandos ^.dctlict» hommcs admonitos u )!uit,ut lallitudincm omni
temporc caucrcr, ^utdcambulationibus marurinis corpus exercercnr,
urhyemc&:fri gido tcmporc magis ac diurius cxcrccrenrur,ccflanrcs tamcn
priuf quamlaatq. ctiamaurumno cor[x)raabambicn Li.i.c nteacrc faris
exficcata,fqualcntiaquc rcddita haud amplius pcr motumarcficri
dcbcrc,ncqueitemcalorcm alioqui languidum,&:imbccillem magis rctundcndum
minucndumuc.Galcnus ucro,muIra ^ ^^-^ rumrcrum, quasmcdicifcquunrur,auLtor
bonus ccnfuifTcuidetur, ual.ca.zquod ficuri corpora rcmpcrata in rcmpcraro
rcmporc,ncmpc ucrc> cxerceri poftulanr,(imili pavflo corpora frigida in
calido, calida inc frigido,humidain (icco,(icca
inhumidocxcrccndafinr:qu;ififcmper illud obfcruari dcbeat, utcorporibus
adaliquamintcmp^-rie' dccliiumibus tcmpus,atquc locu5 coiurariaiucxerccndo
chgati^ tttu R .9. epm. tur.Neque hoc in locoprætermitrendum ccnfeo.quod
PIin?us iuT> S Fulcc: 'exercitatione æftaris tempore a fc ficri fc>!ita,
ubi a Fufco mterrogatus,quomodo diem acftate in Tufcis difpennirer,in
huncmodumrcfponditde cxcrcitationibus.-iibihoraquarta uel quiMta.ncquc cnim
certum dimcnfumo. tempus.utdiesfua/itin xy ftummcvcl cryptoporticum
confcro.rcJiqua meditor,& didojVc hiculumadfccndo. Ibi quoqucidcm quod
anibulans.autiaccns* Duratintentio mutationc ipfa icfeda, Paullum
rcdormio,dcmde ambuIo,mox orationem ^ iræcam,! atinamue clarc,&: intcntc
non tam uocis cau la, quam ftomachi lcgo, paricer tamcn &: illa
firmaturitcrum ambuIo,ungor,exercecr,lauor.& paullo poft. Nonnumqiiam cx hocordmcaliquamutantur.
nam (i dm iacui,uel ambulaui, poftfomnumden.umlcaioncmq.nonuchiculo.fcd
quodbreums,quod velocius,equo gcftor, ucnor aliquado.ln particuJari por E ro
tcmporc excrcitationis dcfcribendo Ariftotdcs aliquando moPk,..nhb.,um cum(vt
ipfi ctiam imputat Plutarclius) quipoftfumptum cibu •iit,commcndauit,coquod
tunc caloramotu auduscibum mox inot ftumfaciliusconcoquat,cuiustamen contrarium
eucnit, quando pcr motum calor a uentriculo ad uniuerfum corporis ambitum
rctraausnonfolumnonadiuuat concodioncm .quinimmoimpelocclt '^i'«;
r(ii^oMW(tKAvvrM.f,iivH(Cisis ci(m tua cura dapes, Et bomts MCthcrio Uxatur
ntBatc Catjjfr > lngcntiq. tcncl pocula plcna manu, Tunc admitte iocos
^^rcjju timct ire licenti, w/f aut fphacrillirio, aur curfui,aur hidarioni„
busmoHioribus incumbcbar, arqucindc undus Iauabatur,ira ut „ caldarijs ucl
numquam', uel raro,pifcinisfcmpcr utcrctur, in caq. „ ^ una horapropc
mancrcr:bibcrcr ctiam frigidamclaudiam iciunus „ ad unum propcfcNrariii.
Egrcflusbahicism i.lrumladiSiSjpanis fu„ mcbar,oua dcindc, mulfum,arq.his
rctcdusaHquando prandium „ inibar,aIiquando ufq. ad cocnam diflTcrcbar, pranfus
cft ramcn facpius. Horariusquoq.paullodiucrfius, &:fcipfum, Sc ahos hbcrc
Lib,i,fcr. uiucnrcs in cxcrcitationibus cfficcrcfohros> arrcftari uidctur,
ubi Sat.t^. pollmultahaccfcribit. quartam iaceo ; poH hanc ragor, aut e^o Uclo,
v>f wf fcripto, quod me tacitum iuuet, ungor oliuo, 'hlon quo fraudatis
immundus V^atta lnccrnis, ^sl vbi me fcffum Jol acrior ire lauatum ^dmonuiry
fagio rabiofi temporafigni ^ Tranfus non atude, quantum interpcllet inani,
P^entre diem durarr, domcflicus ocior, hacc eQ ^ita jolutorum mijcra
ambitione,grauiq. His mt confolor uitlurum fuauius,ac ji QuæHor auusypatcr
atque meus ypatruusq. fuiffcta. Illud ramen hoc in loco ncquaquam pracrercundum
exiftimo, quod maiorcsnoftri, quorum maiorparsucl cxiguumquid>uel nihii
omnino manc manducabanr, fcmclq. tanrum in dic farurabanrur, horaodtiuadici,
ucl nona commodc cxcrccri porcrant, aut criam occidcnrc (olc. Cctcrum ærarc
no(lra,c]uando uix vnii, aurahcrumcft inucnire, cui non lir in morc pofirum, 8c
vcfpere,&manecibisfarurari ; nulla inomni rcmporcopporrunior apparct horii,
quam marurina ^paulloanre cibi fumprioncm ; nimirum cum corpora lciwora ySc ub
cxcrcmcncis magfshbcra, niagis ob i26 I B R obpræuiiimfomnumualida, magis
dcniquc a quibufuisimpcdi-D mcntisfollitafunt^&practei^a minus imminct
pcriculum, quin extcrnuscibus probc confcdtus (it: ficut contra in vcfpcrc, cum
nondum cibus concoftiontm affccutuseftjcorpufquc fupcrfluitatibus magis
redundat,magisq. grauatur, potius quicfcendum, qua li.i.fen 3. cxcrcendumcfTe,
quifqueuidct: uti quoquc animadutrtifle AuiJoc.2,c.3 cennam arbitror, ubi
dixit:"In hycmc vcro ratioiii conucnicns erat, ut fcrc ufque ad vefperam
tardarctur, fcd alia prohibctia hoc uetant. Erit iraquefcre
pcrpctuonoftrishilcetcmporibusmane antecibum quibushbet
fanisadcundacxcrcitatio,iique vllus auftorinucnictur, quipoftcibum
cxercitarioncmcommcndct,mo. do prudentcr confulat, non gratia fanitatis, aut habitus
boni comparandi illud faccrc, fcd potius gratia alicuius particularis
aficjlionis curandaccognbfcctur. E/t Sc aliud hocinloco magnopere E
confiderandum, ueter^s tam Romanos^ quamalios multos fcrnpcrdics, atquenoftes
fcparatim in duodccim horaspartitos eflb.; atquc alias dici maximias,ut in
acftatc, alias minimas, ut in hycme, Udecitaliasacquinovflialesuocafl^c:
numerumautcmhunc fcribit Galemfpcc.no ranquam ommium utjIiflTimum ab ipfis
deledum eflb, quo^ titia atq. niam dimidium continct, &:duplum, &:
quartum &: fcxtum, 8c «pfj!^* usincredibilia crrata jjT A ta committi
folenr,&: plerumque ( urar Plinij vcrbls) infcitia capi^M.n talis cuadit.
cumquc nos cxcrcirarionis toram arrcm rradcrc profitcamur, iamquantum
vnufquifq. cxcrccri debcat, monftrarcconabimur . Et nc lingula cxplicantibus
nimis diuagctur oratio,uniucrlaquantitatiscxcrcitationum tradatio cx
hisconftabit, Quis cflc dcbcatcxcrcitationis communis tc rminus: Quantum
fortcs, quantum dcbilcs, quantumlcncs,quantum uiri,quantum pucri,excrccri
debcant;quantum hycmc,aclbtc,ucrc,&: autumno;quanlum tcmpcratc uiucntcs,
quantum humidi, caHdi, frigidi, &: ficci ; quantumualctudinarij ; quantum
non alfueti . his ctcnim cognitis nihil,quatcnusad praclcns caput attinct,
dciidcrarciurcpotcrir. Sed antcquam rcm aggrediar, adnotandum duco, dc
corporibus acgris non hiturum lcrmoncm; tum quia paucas cxcrcitationes B
rcquirunt; tum quia fccundum morborum uarictatcs uariantur cx* ercitationum
lpccics,atquc mcnfurac;&: iccirco ccrta rationc dcfiniri nequcuiK. Tcrminusigitur
cxcrcitationum communis,qucm Galcnus,Oribalius, Auiccnna,&: Actius
Hippocrarcm fccuti docucrunr,duplcx cll,U!ms,quandofciIicct uapor fudori
aliquantir.dcloclf fperpcrmixtusfcntitur, vcnæ intumcfcunt, atquc
anhchtuspcrmutatur:cum cnimab cxcrcitaiionc duorcquirantur, mcmbro^ Ji.i.fcn.ij
rum robur, &: caloris au(ftio, qui fuccos concoquat, concodos nutricndis
mcmbris diflribuat, atquc dcmum inutilia dillipct, nifi^.cpia.^' cxercitatio
tanta fit, &: ad limilem tcrminum pcrucniat: ncque^« bcnc,ncquc pcrfcdc
illaomniaobtincripoifunt, altcr tcrminus c(l, ut tamdiu cxcrccatur vnufquifquc,
quamdiu color floridus ciusfaciei,&:corporiingeneratur; motufquc acritcr,
acquabiliC ter, &: concinnc edit ; ncc ullamcflaru dignamlalTitudincm
percipit . quod li calor cuancfccrc incipiat ;vcl corporis moles paullo
contractior vidcatur,vcl lalTicudoiamimmincat: illicodcliltcndu cft; ne, fi
ultcrius progrediatur, corpus plus iufto gracilefcat : boni fucci unacij
maliscxhauriantur:&:tandcm calornaturalisdcbilior reddatur; &: idco
loco roboris acquircndi uircspotiusdcftruantur, (imilitcr ubi motuum
alacritas,acquabiliras ; ud concinniras rcmitri quippiam, collabiq. ccrnitur;
utiquc llatim delincrc opor tcr; itidcm (i infudorcaccidar ulla
qualitatiscius,qua!uitati.suc mutatio, quippc qucm, &: copioliorcm (cmpcr,
&: fcruuiiorcm cdi parcft,prout motus vchcmcntiorcsfiunt.cum igituris
autminor, aut frigidior rcdditur : tum fcito corpus cxhaunri, rcfrigcrariquc,
&:ficcari plus iufto. &:proindc corpori cxcrcitando diligcnrcrattendcrc
conuc 01% ur, quando pracdittoruni lignorum aliquod apCyn.n.iiiica* 3 parere
lam incipiat, protinus cxcrcitatio dimittatur. Atque hi !> funt communcs
quidum tcrmini, quos magna fc/e cxerccntium pars continerc dcbct . Succcdunt
poftca particularcs, pro quibus ita dccrctum uolo, quod ualidi diutius ccteris
(nifi quid aliud obftct) cxcrccripolTunt, quamuisctiamuircs aliquantifpcr
fatifcercnt ; nimirum quæ facillime rcfurgcre poffunt. dcbilcs parum ccrte
cxerccri oportct, alioqui i\ in his uircs ucl tanrillum pariantur,difficulter,
et longo tcmporereparantur ; et iccirco fatipfis crit incalefcere citra fudoris
principium.Scncs du fe cxcrcent omni cura fudorcm ctfugere dcbent; ncmpe
iicci,&:aridiexfiftcntes, ita maiorem ficcitarem conrrahunt; pracrcrea c um
iam dixcrimus, exercitationesiniuucnrutcconfuetasinfcncLtute congrucrc, hoc in
loco fciendum cft, fcmper fcncs minus quam iuucnes (oIcbant> excrcendos
cffc, omninoque lalfirudinis fcnfum cflugicndum, terE minumq. excrcitationis
eorumfamisexcirarioncmponcndum, ficuti Socrarem iam fcnem fe exercirare, donec
cfurirer, folirum legimus. Viri, fub quibus comprehcndunrur omnc^ inrra
adolefccntiam, et fencfturem exfiftentes, moderatas exercitationes poftulanr:
uel enim ofFendunrur, fi plusiuftocxcrceantur, uclpaucum omnino frudum capiunt,
fiminus, uel utroque modoprauum aliqucm habitum conrrahunr: quocirca tcrminus
communisiamexpofirushisomnibus mirificc aprabirur. Pucri a primo ufque ad
tcrrium æraris feptenarium mulris laboribusprobefufficcre poflUnr . quocirca
&: incalcfcere, &c anhclarc, &: ludare &: aliquantifpcr
defarigari ipfis impune concedirur : excrcmenris enim plurimis ob viucndi
imprudentiam cxubcrantcs afudoribus, &: laboribus multis iuuanrur ; uiribus
autem ualidis pollentesa F leuibusdcfatigarionibus minimc oflfcndunrur: haud
ramcn raoduminlabore pucros umquam exccdcre conuenit, &:tanto minus,
quantoprimo fcptenario uiciniorcs exfiftunt^ fiquidem
inicmpeftiuæxcrcitationisduritiecorporis pueri,ad auftum, anatura quam maximc
comparari inhibcrur auclio, ob quod pæi.Jtu.fa. dorribas nonnullos fui temporis
damnauir Galenus; quod plus c^x.7.pol. equo pucrosexcrcerent .fimilitcr, &:
Ariftotclcs improbandos iudicauit Laconas,quinimijsIaboribus, &:
exercitationibuspueros cfTcratos rcddebant, ficut &: illas nationcs, quac
athlctarum ha bitumlaboribusinpueris gencrare ftudentes corumcorpora
deformabant,augumcntumq. impcdicbant. Nainter eos,qui Olym* piavicerunt,duo,
uel tres tantum exftitcrunt,quiijdcmadoIclcentes> fi^ uiri fint ui
inaniuntur, calor naturalis excitarur,&: pcrbclle conco^liones omnes
pcrficiuntur. Dcmum uaIctudinarios,qui mox a morbisrefurgunt, cxigua admodum
cxcrcitatione utidebcrc, ncmoignorat; quoniamhorumuircsinfirmæ ualde
exfiftcntcs,caIorquc debilis, &: membracxficcata,fimulta cxcrcitationc
agitcntur, nonpoflunt non fummum dctrimentum fcntire:proinde ifti i ntra
anhclitus muationcm,intra caloris aduentum,intra dcniqiie dcfatigationem ^
quamIibetexcrccndifunt:prouttameniftireficiuntur,uircsq.
crefcunt,&:mcIiufcuIieflecoeperunt,adijceredebentexcrcitationes. Poftrcmo
qui exercitationibus inafl^ucti funt, cum prauam illa confuctudincm dcponi
deberc,iam oftenderimus, prius cxpurgari ab
humonbus,&:fuperfluitatibusexfcgnitie ortis fecundum Galeni confilium
dcbent,alioqui periculum imminet, ne a fluxionum perniciofis morbis protinus
tcntcntundcinccps primo parciflTimc exercendi funt pcr aliquot dics, poftea
cxcrcitationis modus paullatim augendus, quoufque ad tcrminum illum pcrucntum
fit, qucm inafl"uetis fufficcre,&: citra ullam molcftiam calefacere
experientia docuerit:cofemper(quod fupra quoque dcmonftrauimus) animaduerfo,
omnibus immodicam excrcitationcm noccre, nempe quæ pucris incrcmcntum
adimit,&: mcmbra colliquat, uiris inæp qualcs intempcrics gignit, atque
febrem interdum, ficuti de illo Calc.^.dcimmodice excrccricoaclo narrat Galenus
in libro de cauifis præ i/mp.cau. inchoantrbusjfenibusimmodicabiles
Iaflitudines,atq. ficcitatcs pa rit;omnibusque tandcm aliquid fcmper boni
cffluere lacit. Quamquam Ariftoteles ij. ethic. ad Eudemum libro, vbi virtute
medium eflc probatjCxceflum in excrccndo defcdu magis laudat,licut in cibo cont
rariu mjo/^c^t/^inqu lOKoci Tngi to (raipix Iv /u^ rots Tromg vytui/ongoy i
VTns^lA^u^liQnsKcci iyyuTigov roi ykaov \v J^i r7i rgoq^n « fcAAu4^2 vTnsSo^HQ
&c quac lcquuntur. Immodicac autcm cxercitationis hæc
fignafunto,dumarticuIicaIidiore cff"ecli fentiutun dumuniuerfum
corpusaridum,&: inacqualeapparct ;dumin motu/enfus doloris
cuiufdamulcerofifuboritundum labor coade,&:nonfpontc dimit titur;dum
poftfudorcm pallor fuccedit,ficut in athletisimmodice
cxercitatiseuenireconfucuiflc au6tor eftAriftoteles;duminfolita denique, prob.
Si . f ji A clcnlqncacualdcmolcftalafririido pcrcipitur. Tota itaquc
quantitatis cxcrcirationum ra:io liis omnibus nobis pracfcripta fit.Quod
limulta particularia a quoquam rcpcricnriavi'iac a nobis aui i^^no rata,aut
prætcrmi(rauiJcantur,iIludfciat,nihilquod ad un ucriamartcmncccflariopcrrincat,
circ,quia uclcxplicitcuclimplicitc a nobis comprchcnfum habcatur^.juamquam
ctiam mulrac cxcr citationcsfunt, quarum quanritaris tcrminum non cxprcllimus,
quod a tcrmino illo communi pracfcripto corum mcnfuram accipi uolumus, Dc modo
exercer^di. •PRÆTER locum, tcmpus,&:quan:ita:cm, quæ
inobcundiscxcrcitationibusfununa curaobfcruari ^ d^t)crcdcmonllrauimus,
adcft& modus,qui urin illisipfis, fic in plcrifquc alijs rcbus rc(ftc
pcragcndis tantum potcft, ur, nili is adhibcarur, cctcra
omniafupcruacancarcddamur, inrinitisquc propc crroiibusiam uia latilfimcpatcat
. Qua dc rcmaximead huiustraftationis abfolutionem pcrtinct, ut modum,qucm
anriqui in cxcrccndis corporibus tcnucrunt, quoquc tcmponbus noftris unus
quifque fanitatis ftudiofus uti non linc fru(ttu potcft, &: dcbct, apcrtum
brcui fcrmonc faciamus. Modus igiriir,quo uctcrcs ad fanitatcmufoslcgimus,
fuitis, qucm Oribalius Pcrgamcnus lulia^.coiic. ni Impcra. mcdicus, Actius
Ainidcnus, &: Arabum doc^^tillinius Q Auiccn. inmcdiumattulerunt.
Virinamque,&:iuuencsexercenLi.i.for.j di ubi
Iotiopfcctaconcodioapparcbat,faccibusqucaluum
cxoncraucranr,maiorparsfcfccxfucbanr, mox fricabanrur mcdiocritcr,
^'ufqucquofloribuscolorin fumma cutc refidcns, &c arruumflexibilitas, arquc
ad omncm motum agiliras pcrfuadc bant ; pcrfiicati olco dulci mungcbantur ;quod
urmagis ariusquoslibcr pcnctrarct,manibus undccjuaquc
prcmcnribus,&:cxplananribus apponcbatur; abundtioncqui luctatione cxcrceri
uolcbant,autpancratio, pulucre conlpcrgcbantur, alij protinus in
cxcrcitationcm, proutcuiquc alt^rraalrcri uiilior,atquc
grariorapparcbac,dcfccndcbanr,pcra(fta cxcrcitarioncpaullum quicfccbant,dcindc
fh-igili bus, ucl afpcriufculispannisltrigmcnta a corpore cradcbant,quo fado
aliquando rurfum fricabantur, iTroi^gctnwTiKH didta
fridionc,nmilirerqucungebanturaliasinfoIc,aljasadigncm,utCornc-liU5 Cclfus
tcfUtum facit; ficq. fcrc fcmpcr balneum ingrcdicbantur Lib i.Sci bis bon.&
ina.ruc. 2iS JL 1 ii £ R tur conclaui quam niaxinic alto, lucido, et fpatiofo,
rariiisfcip/bs D inducntcs ad capicndum cibum accedebant. Atque hic totus erat
modus,quouelin gymnafijspublicis, uel inpriuatis locismaior pars liberorum
hominum,&: eorum qui valetudini curandæ, et bono habitui comparando
folemniter incumbebant, frequentcr utcbaturNecquifquammiretur,quomodo liberi
hominesfingulis diebustotcorporiscurisoccuparentur, quando omneshomincs,
ncdumclarioresquotidie defricarifolitos, multi audores,&
pracfertimCoIumella memoriæmandarunt.de quo defricandi
morc,&modo,fiDeopIacuerit,aIiquando tradationem huic adijciemus.
Cecerumuerifimile fit quamplurimos ahosexftitifTcqui uel
negotijspublicis,priuatisque impcditi juelnecefllirijs uariarumartiumoperibusdetenti
;uel aliqua ualetudinis ratione coa€ci hoc pa£lo minime excrcerentur, fed
fridionibuSj&undlionibus ^ dimiffis^quafcumquc poterant exercitationes
ample£lerentur;ficuti &: multi reperiebantur,qui pracdidarum cauffarum
aliqua nullo modo exercitationibus uacandi otium habebant; quibus omnibus
exadiore uiclu,^: fanismedicamentis opus cflb tradit Galcnus. Verumenimvcro cu
actare noftra gymnafia illa ob exerccndi com moditatcs ab antiquis fabricata in
vfu dcficrint cflc%neque gymnaftas,&: pædotribas,ncque aliptas,&:
reundores habcamus,a quibus fricandi, ungendi, tandemque quomodouiscxercendi
modos,atque commoditates quæramus, fat erit illis,qui aliqua neceflaria oc
cafionc impediti Iibcrefcfeexcrcendiocium ncquaquam habcnt, ut potius
quomodocumque poflunt, excrc eantur, quam fcmper in confummataquietedegant;
modo tamen hoc unumobferuent,ne ftatim a cibo excrcitationes cas, quas gratia
fimitatis facerc uolunt, ^ folicitcnimis adcant,fcdfalrcm aliquot horas
intcrponanr, quo quam minimum ficri potcft nocumentum inde fcquatur . Porro
quifuæfpontisfunt,&:maioriocio propriorum corporum curæ Iibere uacare
queunt,hæc omnia diligenter obfcruarc dcbcnt.pri mo u t corpus tum a
fæcibus,&: urinis, tum a mucis, &: fpuris
accurateemundarc,caputpcærc,manus,&:facicm ablucre ftudeat, ne excrementa
in uarijs corporu cauiratibus,atq. in ipfo ambitu laten tia,a motu cxcitata
uaporarionib.oflcndantjftridisq. mcatibus nonunquam infarclxi,aut
exercitarionis calore cliquata obftruftiones, fluxionesq, diuerfas pariant.Sccundo
ut corpus ijs indumcntis obtcgant,quælaborcm ipfi fupcraddcrc nequcant, quacuc
interim a uentis,fiqui erunt,ucl afrigorc tucantunautctiam fiacftus urgear,
feruurenullopadoaugerc,fiucfoucrequcantinam indumcnramfi cxercrcitandLs
prudctcracc6modcntur,pracrcrimpcdi'mcntri,quocl laboraruris in motu pracftarc
folcntiniigncjfaciunt quoquc, &ut motusdchita mcnfura ludcrj6j alia
iucomoda rulHiicant;(iqui dcm fudor ita indutoru finc motu multo cucnics,
vcluti Arillotclcs i.par.^fb. dirpurat,dctcrior cft co,qui a laborc cmanat.
&huiusargumcntum p°t?o pl eft,quod ita fudatcs dccoloratiorcscuadunt, cu
humor pcr fumma blc.j. ' corporis pairus,arq. incalcfccns ab
cxtcrnoacrcrcfrigcrari nopof. lit,& indc pallorcm tacilc contrahat,(i
mulquc corporis pcrfpiratio» a qua graruscaloremanarcconfucuit a ucllimctis
inhibcatur. Tcr tioobicruanducrit,ut rcmiflc,ac lcnitcr unufquifq. cxcrccri
incipiat,dcinccpsciusintcntionc augcatpaullatim,ufqucquoad tcrmi nu, qui fibi
conucnicns uidcbi tur,pcr ucniar, atq. vchcmcntia rurfum pcdctcntim rcmittcrc
catcnus conctur, quatcnus fibi iam fitis B fclc cxcrcuilTc dodus cxpcricntia
fcntict: na fiibito ab intcnfis cxcr citationibus incipcrc,non folum
imbccillibus,fcd ctia robullis cor poribus fummc pcrniciofum iudicauit (lalcnus
. Quarto ijs,qui inpu!cp"iicpl ter excrccndum
fiidant,curandumcrit,iitpcrada cxcrcitationc ue ftcsludorc madcfaclas
cxfuant,&: ficcasrciumat,idqucli ficri potcrit in loco tcpido, aut
tcmpcrato, aut faltcm ncquc frigido, ncquc ucnris pcrflatojl ctcnim humcctailla
indumcntarctincantur,facile cft carnibus a calorc rclaxaris itcru fudorcs
imbibi, ficq. dcnuo corporismcarus ob ftruitiir ; practcrquam quod pannimadidi
mox frigcfafti horrorcs,factorcs ac alias molcftias inducunr,atquc inde fcbrcs
mtcrdum oriri folcnt. Quindoobfcruandum ciit,nc(ficut criamfupra admonuimus)
poftcxcrcitationcm quam primu quicri fele dcdar,aut cibumfumat,fcd bIando,iSc:
valdc remiflo potius aliC quo motu utatur,tantumq. a capicndis cibis
abftincat,quoad perturbatio illa, quafiquccorporisfiudTtuatioacftuatiouc, ab
cxercitarione gcnita proilus ccffaucrit, ciq. tranquillitas quacda, &:
icuatia fuccclTcrit. 1 otusitaquc critcxcrcitadi modus^ordo,primocorpusa
fupcrfluitatibus quibus vis cmundarc, caputpcctcrc,manus &:facicm
ablucrc/caccommodatc inducrc,rardos,&: rcmi(Tos motusincipcrc,ad
cclcriorcs,&: uchcmcntiorcs proccdcrc,itcrumquc paullatim rcmitterc,
madcfada fudorc indumcnta cxfucrc, blande pollrcmo moucri,&: fcdara
cxcrcitationis pcrturbationc cibum ca pcrc . Atquchacc dc uniucrfalicxcrcitationum
Ipcculationc mcthodo difputatafufiiciant.RcftatmodoparticuIarcs fingularum
cxercitationum naruras, arquc cffct'tus cnarrarc. quod infcquenlibus libris,
quanrum ficri potcrit,plcnc pracftarc conabimur. ExpUcit Libcr QHams. AR~
rDeordine agendorum\(^ den(mnHlhsfcituclignis. Qap. L Iciiti nullus ab
excrcitationii particularium cognitionc fru(fius cxpcdtandus cfler, nifi rcda
arq. vniucrfalis methodiis, quafupcriori Iibro
abundefaiis(nifal!or)tradidimus,optimcpoffidcreturi Ita proR do illa
infruduofa,ac prope modu uana cuadcret, nifi hæc parricularium fcreomnium
exercitationum tradatio, quam g aggrelsuri fumus, illi conne£lcretur ; fiquidcm
incerta, ac fallax ea cogniriouidcri potcft, qua cxcrcitatio vniucrfali quodam
padto accepra iauareintclJigitur.fed /i qualis cxercitatio,quod
nocumetum,quamucconunoditatcpracftareidoncafit,cognofcatur,proculdubio nihil
amplius rclinqui conftat, quod exercitationura quarumuis fcicntiam opcantis
animum expJere iure debeat . £ t iccirconcinchoataanobis gymnafticæ tradtatio
impcrfc(flarelinquatur,infcquentibusfingulos exercitationum iamenarratarum
effcftus profequcmur; atq. hos cum ex antiquoru audoru comprobatis experictia
rcftimonijs, tum ex rei ipfius narura infpeda, quam 12. Meth. ef e
ueracodiriones rcru mueniendi rarioncfcripfit Galenus,dicere conabimur. Et ne
citra ordinem totus futurus fermo uagetur,ita
matcriahuiufccmodidcclarareinftituimus,utprimocommodain F corpora humana cx
unaquaq. exercitationisfpecie emanatia,deindc mcomoda figillarim explicctunna
illud, quod quaplurnnis mcdicametis eucnirc ufu c6probatur,ut fi alicui
corporis parti,&: affeftui profunt,alijs noccar, in cxercitationib. item
contingere, nemo ignorat.lnexplicadis præterca utiliratibus,atq.
danisamcbrisfupcrioribusprincipiufumentcs, utplurimu in ultima,atq. infimaferiatim
terminabimus,prius tn iHis enarratis, quæ nullum corporis particularc
mcmbrurcfpiccrc vidcbuntur.His autcm fic pertradatis,duo me faltcm pcradurum
cfsc fpcro:Altcrum cp maiori facilitatc,firmioreq.cognitione quicumq.
hacclcgent,animiscorum infidcbunt : Altcrimi 9 habito a ualctudinis ftudiofis
excrcitationum alfiduo dclcau, uel nulli crrores, ucl quam pauciffimi
committcntur,ficquedemummulticorum pcrnicioforummorborum euitabuntur,c[uos
dcCdia, laborum abftinenria,ac cxercitarionis ignora tio non conrcmnendos,
quofq. inrcmpclliuus cxcrccndi vfus continuoparcrc foletiillud namquca narura
compararum cffc norunt omnCvV,urilla,quaccorporibus nuftrisadmorainliynitcr
conduccrcanimaducnunrur, cxdem plcruq. magnum dcrrimcntuintcrat, li ucl nullo
paclo,ucl prauo ordinc, arq. omnino importunc adhibcanrur . quod ctiam m
cxcrcirarionibus iplis fcrc conringcrc, iudicauit Galcmis,ubi lcriprum
rcliquir,cos,quianrccibos,arqucop ^cd porruncfcfcc.xcrccnt,haud exquidra
vidusrationc opushabcrc, ^;',5°".^ quin inrcrdum Naturac in ualcrudine
commillos dcfcduscorrigc rc,qucmadmodum cxaducrlo
iIIos,&:accurariorcuic'tu,(!!;caliiduis mcdicamcntisindigcrcinfupcrquc
natiuamfanirarcm corrumpcrc, qui ncquc ante cibos aliquo pado,ncq. ordinc,ac
tcmporc fcrB uariscxcrcitarioncsadcunt. Cumiraquc taliordincquacad nniucrf-ira
^'vmnadicam [>crh\icndam fupcrlunr, pracdfclrs adiungcrepropoLtum mihifit,
id anrccetcrapracfariopcræprcriumcllc duco, nos in
fupcrioribusgymnafticamfaculrarcmnonincuratiua,fcd in confcruariua mcdicinac
parte collocafsc. Hr tauK"omncs uctcrummcdicorum(cs.^tas, acpracfcrrim
Mcrhodicos, quormn principcsAfcJcpiadas,
Thcmiion,&Soranuscxftireruht,incun6tis fcrc diururnismorbis cunndi^
cxcixitarioncsaliquas magnopcrc commcndafscut cxlibrxs Oirncli j Cclii, qui A/clcpiadcm
in multis fecurus tuit, nccnon Coclij Aurcliani mcrhodici, atquc Arctaci
c^^roclarillimc iQrclhgcrc liccr.quod fimilircr Galcnus,(S^ qui Galcnum in
dogmatncorum fcetafuntimirati,magnacx parrc confirmarunr. cd ac ud mc, vcl
ilJcrs omncs cTrahc quis putct, ira fcnrcntias noC ftras accfpi dcbcit
uolo,qj.f;gyrTTnafticam principaliter circa fanitarisconfcruarioncm ucrlari,
ccinfcqucnrcrcirca curariuamrnuUa ctenim cxcrcirationcm,quaIifcumquc lir,
u(l]uam rcpcrics,quin iii /aniscorporibus abfqucnoxaadminifti\ uiqucar,atpaucisquibuf.
damcxccpris,nimirumambuIationc,gcftationc,uc^tion9,ac limilibus, ulx uha,
aiiraltcra inuehihir, quc ægroratibus impune conccdi qucatiimmo
illa^quacadhibcnrur^porius ut rcmcdia,quam ut cxercitarioncs commcndantur,cum
in fanisonincscxcrcitationcs folum fiant,quo bonani ualcrudincm rucanrur,
optimumquc corporishabirum inducanr: macgrotis
vcroiccircocacdcnuidminiftrenrur, ur morbo cxpcllcndo aiiorummcdicamcnrorum
inftar coopcrcnrur.Quandoigiruranriquorumirl varijsmorbiscxcrcir^^ tionibusaliquibusurcndi
confucrudincm inmcdium adduccmus, noD crir,^ullusadmirationccapiarur,uofq.
icprchcndar,ra(|tiam' gymnafticam foli conferuaroriæ inferuire ftatuerimu5,
quoniam,D &:nosrei ipfiusnaturampræ oculishabentcs,ita dcterminandum
cenfuimus,quemadmodum ueteres alias experienti js alliduis,alias morborum
coditionibus permotipaullo diuerfiusfentirequidcm uirifunt,fedreucra
afententianoftranonrecefrerunt*
Aliudinfuperhocinlocofummaconfiderationedignumexiftimo, quod licetinmulcis
excrcitationibus diucrfus exftirerit antiquorum mos ab eo, qui hodiein
ufucftfere apud omnes, ucluti pilæ exercitatio, luda, difcus, pugnæ, atque
fimilia ; nihilominus cu m parum noftra confuctudo ab antiqua recedat,folifq.
accidentibus quibuf dam,& non in rei natura differat/crc eofdem eflfcdus,
quos illi fuis atrribuunt, nos noftris dare potcrimus,modo vnu, aut altcrum
obferucmus, antiquos undiones, ac pulucrcs in multis excrcitationibusadhibere
confueuifTcquas nulli hodie,aurquampauciflimifæ ciunt; aique hoc multi momcnti
efle ad uariandas utroriique qua2. S dtælitates,quando dc his Hippocrates verba
faciens fcripfrt, cxercitata. iuxta tioncs in pulucrc, atque oleomagnas
diflcrentias fufcipere, cum puluis frigidus fit, olcum ucro calidum, atquc inde
oriatur, 9 hyeme oleum corpus magis augct frigus prohibens, ne quid a corporc
demat : Æftate uer.o caliditatis exceflum facicns, carnem liquar, cum, 6c a
temporc,&:/.ole6,ac laborc corpus calefiat;qucmadmodu
exaduerfopuluisinæftatemagis augct feruoremæris,&:corpo^ ris rcmittens,in hyeme
autem f rigus,&: algorcm inducit.præterea maiorparshominumfcmel duntaxat in
vcfperefaturabatur, noftratesbiscibosfumunt, quoditcm non parum
refcrradiuariandas cxerci tationum condicioncs • Vnde c^ui de noftri temporis
exercrrationibus æquum iudicium fcrre optauerits: dcbebit quid un^ J
aiones,& quid uiia dici faturatio importent^exaæ penfitare >ro^ tumque
illud noftris adimcntes,in reliquis eofdcm,ucl parum diuerfoseffcdusexiftimare.
De Jingulomm exercttationis diff^eremiArum eff^e^ihus. IL RES præcipuas
cxcrcitationum difreretiasabantiquis Mcdicis excogitatas fuifle fatis conftat,
quarum prima excrcitium Trr^fpc^rxwfl^ixif, fiue pracparatorium, altcra
(ic7ro6i§ctmvriKh y icrtia fimphcitcr exercitatio nuncupata . Excrc itationcm
pracparatoriam, fiKultatem cogendi, meatus corporis denfandi,
eorumquclaxitatemcorrigcndiobtinere. fcriptit pfit Galcnus. quadc
caufla;ulilctæ,qui Jcfirarc corporumfudo3 ^ta.va, ics
impcdirc.&iconfcqucntcr robur confcruarc fludcbanr,antc "^jetuc.
jrcrcras cxcrcitationcs pracparatoiia utcbantur.quam ircm ufurpaual.c.3. * bant
quaplurcs homincs poil coitum,ut laxirarcm corporis in motu ucncrco gcnitam
cmcndarcnr. dc mcridiano coiruloquor, cum cx nodurno oborra laxiras /aris a
fomno curarctur. cuius rci yraria magnopc^ftfSocIarum laudarcfolco,c|ui apud
Plurarchumnodu ^.Cymp. coirum ob hoc excrccri dcbcrc aducrlus Epicurum mcdicum
grapf^^-^uilllmc difpurar.ficuri quoquc Paulli fcntcntiam,Galcni,ar^ lij
opinionibuspracfcrrc confucui,dum is conrra ipforum placira Li.i.fcr.i
tcmpusconcumbcndi fccundum cibum inucfpcrc antcquamfo mnus
muadar,opp()rtunucxfillcrc credidir: quod lalTitudo cxcoitu
contraCtaobdormicnri ftatim rcmitratur. ExcrcirationcmapoB thcrapcuruam ram pro
cxcrcirationis partcquam pro fpccic ncce pramcorpora ab iramodicis
laboribuscxfuita cmollircmcatusq.
corporisrclaxandocxcrcmcnrapurgarctraditumcfta Galcno: un j.detuc. dciure
mcritopoft uchcmc*riorcscxcrcitationcs,poll uigilias,poft nucrorcs, a quibus
corporum mcatus clauduntur, uircsq. non parumdcprimunrur,urplurnnum
adhibcbarunin ijs quoquc commcndabarur,qui palacdrac laboribus alfucri, ob
uirac negotia cogcbantur illos dimirtcrc, Excrcirationis fimplicitcr acceptac
diffcrcnriac,quac ab cxtiinfccis dcfumcbantur, cos ctic(ftus pariunr, quos
locorumipforum,aquibus fumunrur, condicionesproduccrc pofl*un::& idco,qui
in calidis locis cxcrccntur, magis cxurunrur, cfui in humidishumidiratcm
conrrahunr,ficque dc fingulis. corpo^ ra namquc ab cxercitationc rarclacta
facillimc difponuntur ad im bibendas quaflibct acns,&: locorum quaJiratcs .
De diffcrcntijs ab utcndi modis acccptis in hunc niodum dcccrncndum crir,cj)
cxcrcirariones pcrpctuac, fiuc continuatac, &: acquabilcs magis
dclaffanr,quam inacquabilcs. rariocftcadcm, quam atrulit Ariftorclcs
bic.r&fx inprobleiaaubus,uidclicct mcmbraa mulro moturcfrangi,atquc
inulruineflcmotum,qui unus,&:continuuscft,ac acquabilis.inacquabiicTTi
ucrononidco fic dclaflarc,quiacxmutationc nafcitur requics^ Jaborq, oinnibus
partibus dillriburus a lingulis minus fcntitur : quairidcin rarioncmotus inrcrcifus,
acordinatusminorcm defarigationcmparir, nin.irum cum inrcrruptio quicrcm,quics
laflirudinisminus inducat. txcrcitarioncs cumolcopcradac non inodo pracfeatcm
laflitudincm mitigar,ucrumctiamfururamprohibcnr,ficcitatcmq. arcct, acad
morusprompritudincmmaiorcni gcjacrant: cuiusrcigratia
Polliononagcnariusactatcmfuamolca cxtiia23« 1. extrinfccusadhibito acceptam
rcferebcit, QuæcumpuIucrefiLirit D excrcitationespracterquamquod frigidiora
conferualit corpora^, efficiunt quoque,ne ludor itafacilitercff?uat j neucilla
tantopcre i^tuva ma apud antiquos fuerunt gencra, quæ fere omnia hodie abolita,
uel faltem non uHrata efle cum conftet, fuperuacancum foretfingulorum eflfedlus
percenfcre.proinde fateritillaadnotafTcin quibus a,dc difta pracftandis,&:
cun£la illa conueniffe, atque etiam noftram conueni propter ii rc ucriftmile
uidetun;^tifow/4/flf(/ etcnim fiue manuum gefticulatione attcnuare
humores,atque furfum carnes trahcre,placuit Hippocrati fiuc Poly bo.quam
fimilitcr in inuetcrato capitis dolore,ubi P^ulLiba.cun latim malumfoluitur,commendauit
Aretacus,ueluti, &:in uertigi^^''^'
nofis,epilepticis,cocliacis.Saltariodemum,quæ motu uniucrfum corpus
calcfacit,arcendis rigoribus, atquc etiam nonnullis trcmoCribus ualde
accommodatunpriuatim ubi ftomachus in concoquen do laborat, crudosuc humorcs
aggrcgat, utile remcdium exfiftit . prætcrca labantcscoxas,infirma crura,malc
tutospedcs,vfq. adeo confirmat,corroboratquc,utpaucainuenianrur,q fimilc
auxilium pracftare queant. nequc itidcm altcri ccdit huiufcctnodi excrcitatio
in cxtrudcndis a rcnibus,fiue ucfica lapillis. Cæterum quod p-gnatibus mirum in
modum noceat, tcftatum rcHquit Hippocrates, in li.de na ^jj^j cantatrici
mulicri,quacne calumnias fubiret,utcri foctum abij cere cupicbat.confuluit, ut
faltarer,pollicitus ea faltationc concepjtum corruprum iri,vcluti poftea
contigit. Quicunque vcro caput debile, ac vcrtiginofis aficaibus obnoxium
habcnt, proculdubio ab illis circuitionibus,uerfuris,motibusq. continuis
ofTenduntunfimilitcr oblæduntur quibus oculi illacrymantur,aut in uidendo hc
betem acicm habet,perindc namq. in tripudiationibus alicui eucnir,
acinrotationibus,in quibuslacpeoculitantumdctrimentum p patiuntur,vt nihil
omnino vidcant,atquc interdum cadant . Rcnes languidos,&; fupcrcalefados
habcntes,fcminisq. Ruxum, y>voggoitt» aGraccisuocatum,qualibctdc
cauflaincurrcntcs afaltariotiibus abftinere conuenir:ahoquieorum
affca:ionescxmotu calcfacicnte magisrccrudcfcunr.Arquc hacc omnia a mc difta
intclligantur de ea faltationis fpccie, quam antiqui fine armis obibanr.quod h quis
armatæ,quarn vocarunr,falrarionis condicioncs pcrnofccre aueat, inhunc
modumucrcarq. brcuitcr ftarucrc rc porcrir,uidclicet om iiia quæ ab iUa
gignuntur ucl bona, ucl mala, cadem ab hac eftici, nifi quod armara uchcmenrius
membra cxcrcct, magisque illa in%.itvi.u. calefccrc,&:fudarc facit. ob quod
Galcnus intcr uchcmcntcs cxer* ' citationcs non in poftrcmo loco pofuit,dum
quis graui armatura te ausceleritcragitatur.. J41 DtluJorum ptUe effe&ibus^
Cap. IV* Vdorum pilac antiquitiis complurcs cum npud Latinos, tu apud Græcos
cxilitiflc fpccics, abundc in fccundo li Ca.4. et i ^ bro indicaui mustcx quo
nullum opcrac pretium cu hoc in loco,vbi folas cxcrcitationu qualirarcs
cxplicarc pro pofuimus,cadcm rcpctcrc :illud duntaxatanimaducrti volo,quod
&: li noftra hidorumpilac gcncra vctcram gcncribus undcquaque non
rcfpondcant: funt tamcn magna ex partc ualdc (imilia : &: ideo corum
commoditatcs,atq. nocumcnta lingulatim cnan arc ftudcbi mus,ut fada noIlrorun\
cu illis coparationc, quid confcrant, quiduc noceant, utraquc fimul cognofci
poillr.fcd nc tratfiatio ifta confundatur, iicut alias fccimus, primo graccos
ludos, dcindc larinos 3 profequcmur codcm ordincquo (upra ufifuimus.In co
ctcnim c6ucnirccunclaharumcxcrcitationumgcncraccnfuit Auiccnna, q» Li.r.rcn.ifortcscxliftut.
Hoc pracrcrcacommunccxomnibushuiufccmodi ludis comodum pcrcipi*ur, quod qui in
iplis, ud ipforu aliquo fcfc cxcrccnt,promptiorcs ad motumrcddantur,ijsquc
uitalcs adioncs roborctunpcculiariter ucro paruac pilac cxcrcitatio intcr
ucloccs citra uiolcntiam,(S: robur collocant Galcnus atq. i^aulhis,cuius me ^^:
ritocorporacra(Ta,ut limilcs cxercitationcs faccrc didtum fuit,atre nuat.
ideoq. apud Noniuin a Lucilio iLriptum inucnitur, Cum ftu» dio in gymnalio
duplici corpus iiccalTcm pila.Primaautcm paruæ graccorum pilac fpccics,fccundum
Antylh fcnrcntiam, carncfoli^^iidl!" damrcddit,brachijs,dorfoatq
pullulantibus coftis magnfi vtilitatc cjp.j». pracftat, cumquc in ca
cxcrcitationc crura magnopcrc laborct,ad Q acquircndumroburnon parum proficiunt.Sccunda
cxcrcitationis paruac pilæ fpccics pracftantiliima rcputabatur olim, q>
corpus fanum, &c promptum ad motus cum roborc coiundo pracftat, adfpcchim
hrmat,ncquc caput rcplct.Tcrtia vcrofpecicsoculos, atque brachia iuuat, fpinac
proptcr inflcxiones, quac currcndo fiunt, comodum aflcrr,crura proptcr curlum
mirum in modum firmat . His poro omnibus paruac pilac Ipccicbus cun(ita illa
coucnirc cc/co, quac (jalcnus in libcllo fuoillisdicato,
paucisucrbiscoplcxuscft, uidcliccttp tumanimoruin virtutcm pariant, tum omncs
corporis partcs accommodatccxciccndo bonam corporis ualctudincm,ac nicmbrorum
concinnitatcm cfficiant. Pihic magnac fpecics prima fccundum Antyllum
totumcorpusfirmat, cumq.ad dcduccndam infra matcriam uclicmcntcr coopcrctur,
capiti in primis, cunclisq. fupcrionbus partibus, non ignobiJc luuamcntum
aficrr. dc hoc luR 2 do 242 Llb.^. dofermonettthabuineputo Alexaodrum
Trallianum, quandoinD "P-vlti. curationc priapifmi fphæræ exercitium
comcdauit, quo mareria i n diucrfum retrahatur,& fpirirus flatulcrus
digerarur. Secunda fpc cies,quæ plus iufto magna pila pcragitur dum proi
jcirur,&: urraq. manu proprer magnirudinc cmitritur,brachia firmar,fccl
nimis duras plagas infert, ob idq. non modoægroris, aut conualcfcenribus
eftinutilis,ucrum eriabcneualenresimmodicadefatigarione afficit. Inanis
pila,quam rerria effccimusjacquc exerccr,ac mororia,in qua curritur,atramcn non
admodum facilis cft,ncq. apta,arq. ideo li.i>.c.vlt. omirrendæameffcconfuhr
Oribafius ex Anryllifcntcnria. Pilæ, &magnæ&: paruæ cxcrcirationcm
vertiginofisobcffeiudicauic hsc vlti Areræus,quonia capiris,&: oculorum
circumuolurioncs, arq. inte' tioncs uerrigincs afferunt.Coryci excrcirarioncm
inrcr vcloccs adnumcrauitPauIIus, quascum didum anobisfit corporacrafliora E
lib. V chr. aricnuarc,fumma rarione Cochus Aurehanus ad diminuenda po•culf.
lyfarchia hanc exercirationc, qua a Graccis corycomachia uocari i.dediæ.
fcribir,adco probauirpfccurus in hoc (opinor) Hippocratc,qui
corvcomachia,&: chironomiamidcm pracftarCjquodjuda^rradidir. Hoc excrcirationisgenus
iudicauit Antyllus mufculofum corpus rcddere, roburq. afferre, et prætcrca
uniucrfo corpori aptari, ncc non ob pIagas,quasinfHgit, omnibus
vifccribusidoncum cxfiftcre. Arcracusitem in elaphanricis KogvKoSoKm laudauit.
firamen quis plagas in pedtore a coryco ficri foliras coniidcrcr, facilc
fcnriet,eos, qui pedore debih ucxatur,fimili cxcrcitationc periclicari,&
quan doq. contingcrcpo(fe,utinthoraceuafarumpantur.Arq. rot,siir q dc pilac
Graccorum ludorum qualitatibus dici poflunt . Succedut lufus Larinorum
gcnera,quæ &c ab ipfis quaruor fpecicbus comple ^ xa omnia in ufum
fanitatis rcccpta fupcrius dcmonftrauimus . Horum primum locum obtinct
cxcrciratio f ollc acla, quac uniucrfum corpus cxcrcct,fcd dum brachijs
impcllitur, dorlum in primis atq. li.i.chro. brachia firmat . ob quod Coclium
Aurclianum de hoc pilac ludo ^^•^* ucrbafecifscexiftimo, quadoin
cpilcpticishumcros fphacrac lufu excrccri
mandauit:dumucropugniscmirritur,manibusmaior utilitas contingit: ambo tamcn
uifccra adiuuanr, calcuhsq. a rcnibus, &: velica cxrrudcndis mi rificc
confcrunt,coxaf3&: crura imbccilHa In ciusui confirmant . Nam Auguftum, qui
huiufccmodi affcdibus corporis ta.c.8o.&
fQii^;itabatur,corumgratiafolliculicxercitiu(vtrefcrtSuctonius) adamafse
opinonqcf cum præcipue fupcriores partes exerceat,ijs, qui citatam aluum
habcnt,(Smqucinprimis laboriofamclTc,magnusphilofophus Ariftorclesproy. partlc
bauit, vbi currcntem ambulanti comparans, illummagi.slabo! j;e
P^^^b38pcrfuadcrc conatur, quoniam elatus, atquc pendcns corpu.^ fupra lc totum
fuftinet, ambulansvcro partc inliftcntcuiciffimfuftcnta- tur,qua(iquc paricti
admotus rcqui cfcit. qua rationc itcm coringc- rc dixitait currentcs poti us
qua ambulantcs cadamus.Curfus præ- P^"i autcni, licct humorcs ad infima
la- bantur, illico tamcn ad fupcnora rc/iliunt, ucluti cotingcrc i n pila fuper
pauimcntu iac^a ccrnitur, quac fi blandc iaciatur, inibi quic- knifm
uiolcntcr,ftatim fupra rcfilir. I)c thoraccauickgiturapud Galcnum, currcntium
fpiii :um anhdum, arquc afthmaticum rcd- ^P^- di,necnon intcrdum aliqund ipfis
uas in pulmone,aur pedorc rum ^^rMcVho. pi. quodnon tantuminrdligidcbctdciliis,
qui ad cum aflVdum prius difpo/iti eranr, vcru dc a^ijs uchcnu ntcrcurrcribus.
Achan- rhioenimillc Plaurinus cum ad ChaririUm uclocinimc cucurrif-ln Mcih.
fcr, dicit cx curfu rupiffc ramiccm, &: iamdudum fanguincm fputa- re.
fubramicisnominc (ut fufius dixmuis primo Variarumlcd.
cap.2.)pcdlori5ucnaslariorcsinftar uaricisfignificas. Ahoquifcri- ptum 2j2 ^
Pfob. pf eft ab Ariftorele, eos, qui non concitate admodum currunt, D
numcrofcfpirare,quod ipforum motus proportionatus cfficitur, modumq, refpirandi
fenfibilcm præftanscxplicare numerum ua- let. iUis, qui uel in bubonibus, ucl
alibi rupturas patientur, curfum cauendum præcipit PaulIus.Ad hæc ardorem urinæ
ex curfu au-, &c hominesteftaripofrunt,&cerui,quiintercurrendum vf- que
adeo huiufccmodi ardorc ftimulantur, ut, nifi mingant, facilc capiantun quam
rem animaduertentes fagaces uenatores,eos pro- fequuntur, necmingendi
iplisporeftatem faciunt. Curfumitem hepatelaborantibus, nccnon renibusmale
afledisinimicum efte, lib»4.c.«* tfaditumeftaCornelioCeIfo,&:abEphefio
Rufo.Atque hæcom- niadecurfureclainanteriorafadto a me explicata fciantur. pro
}bidcm qu^'^ idfilentionoefTeprætereundum duco, quodi^riftctelesfcri- pro.jtf.
ptumnobis reliquiti videIicet,eos,quicurfumconcitare agunt, g conuulfionibus
maxime corripi, ubi quis inrer currendum eis ob- ftircrir : quandoquidem ea
potiflimum conuelluntur, quæ in par- tem contrariam vehementer trahimus, atquemouemus
. unde Ci homini currenti,vehemeiiterq. membra ultrapropellenti quisob
uiamfactusobftirerit, accidicut in partcm contrariam earetor- queantur, quæ
adhuc ante pertendunt, atque proripiunt . itaquc conuulfio tanto vehementior
incidit, quanro curfus conrenre ma- gisagitur. Curfus infuperreila ad
anreriorafadtus, atquelongus i.ldiact. abHippocrare nuncupatus, fecundum eius
fenrcntiam fi fenfim fiatjcalefacit, &c carnem dirfundit, ucrum corpora
rardiora, arquc craffiorareddir,multaq. comedentibus urilirarem præftar. At re-
Onb^Ciui curfusinpofteriorafecuadum Antyllum non celerirer mitus,capi-
Lococita. ti^ocuIis,tendinibus,ftomacho,&:Iumbisaccommodarus, arque p
utiliseft; iccirco nonrepletcapur. Circularisuero curfusfccun- i.dcdiæ.
dumHippocratemcarnemminimediffundir, arrenuar aurem, di- ftendit carnem, 6c
ventrem maxime : proprercaq. acuriflimo fpiri- tu utenres humiditare in fe
iplos cclerrime trahunt. qua ratione ab Irt lib. ic ipfo in ijs commendatur,
qui nigra aftra in infomnijs uident, nem- pe quibusmorbusforinfecusimmmeat.Capur
valde oftendit, ver- li.de Vcr figincsq. utTheophraftusfcribir,
abundcmggerit;thoracem y&c crura uitiar;ideoque rcpudiari omnino dcbct.
Sunt curfus per ac- cliuia magis laboriofi, magisq. thoraci, &c crurihus
inimici; fimili- ter, &c pcr montcs : pcr decliuia ucro caput uchcmcntius
afticiunt, uifccraomniaqualVant, coxasdcbiles pcrrurbant ; perplanacur- fus
illa omnia præftanr,quæ iam dcclarauimus . Ccrcrum qui rc- tliocorporc
obeunrur, &c fudorem moucado magis humcctant,. 25J tc carncm calcfaciunt
.idcoq, Coclius Aurelianus capitis dolore la borantcs,utuc{litos
currcrcfaciamus,magnopcrc curandum prad- cepit;qucmadmodum Thcodorus Prifcianus
lcriptis mandauit,ci;r L' i aJTi fum cum ucllibus lancis pcrao: um althmaticis
prodcflc; hunc tamt 'l'^^;^^^^ dccoloratiora corpora cfticcrc ; quoniam
finccrus fpiriius ailabeiis ipfanon depurgar,fcdin codcm
fpiritucxcrcentur;audorcftHip- pocratcs.qui tamcn cundcm in illis probauit,qui
ftcUas dcficicntcs \^;'' in infomni)s,vidcnt, quod fccrctionem in corpore
humidam ac pi- tuitofam factam,&: in cxternam circumfcrentiam illapfamcflc
figni ficctur.Qui pono nudis corporlbus efficiuntur,ficuti magnam (udo rum
copiam clicmnt,ira gcncrofc pcr occultos halitus cuocant hu morcs,corporaq.
magis deurut.quocirca Ariftotelcs ludorcm,qui i.partl«. corporcnudocurrcnti
prodicrit, criam fi mmorlit,magis laudat,^^^- 3^« • quam qui fub ucftc lc
prompfcrir,argumcnro illorum,qui nudi cur fum aclhuo tcmporc achrant,quiq.
colorariorcs rcdduntur.indutis currcntibus non ob aUud ccrtc,mfiquod,vtomnesqui
locahbcra, &:adfpiratiora
incolunr,mc;iuscoloranturijs,quiimpcdita,&:filcn tiatencnr,fic ctiam fcipfo
quilque colorariarcft, cum uclurifpirituiafflanti placide patcr,quam cum
pcrftrictus,obduc'tufqueacaIo rc nimio angitur.quod certe ijs accidit magis,qui
vcftiri pcrcurrut. &: qui nimis dorm!unt,quippc qui vcluti adftridi, 6^
propcmodum ftrangulati,minus rcliquis lc fc modico fomno rccrcaniibus colore
florenr.Curfum vniucrfim acccptum magis hycmcquam æftare ex vfu cflc crcdidir
Hippocratcs,liuc Polybus in fccundo dc diacta libro.cx aduerfo Oribafius tnm
hycme, tum acftarc mcdia conucnire fcnfir. cuius forfan fcntcntia ucrior
mdicabitur, ii fudorcm quis " æftate magis, hycme minus procurandum cum
Ariftotele arbitratusfucrir.fcd dc hoc iam fupra abundc difpurauimus,ncc
quidquamampliusrcmanet, quod ad finicndum hanc curfus tradtationempcrcincat,
^icipræfit t filtns. Cup. I IX. ALTVM inrcr vchcmcntcscxcrcitationes,
quacexrobuftaatquc cdcri componuntur,collocandum iudicauit Galcnus,&:
pracfcrtim illum, qui (inc ulla intcrmiffionc iugitcrcontinuatur; qua dc
rcipfum calorcm natiuumaugcrc,&: cocoqucndiscibis, crudisuc
humoribusconferre apud omnes pcfpcctum cft,licctpoftca capiti,arqucpc6tori
noccre 2^4 re cx eo conftet;quod in huiufcemodi cxercitationibusalrerum ve D
hemenrcrconcuatur, alierumin inclinationibus, atquedor/iin. flexionibus
comprimitur, et ex comprcfflonibus mox uafa ram pedoris, quam pulmonis
franguntur: ut eueniffe interdum nairat rMeth.a Gaknus, Hocprætcn afalrui
communeincft,utgrauidasmulieIn prin.dc rcs abortiri facillime faciatrncqiic
iftud ab Hippocratc folum,cetc
'"'•^'""'•risq.vetuftilftmisaudoribus^ubiqueconfirmaxum
cft;verum etiam ipfa rerum pareiis,optiraaq. magiftra natura nos vberrime
edocuit, nimirum quac capreas,& cctcra brutorum gencra faJtantia
firma'^|J^"Tuentisquibufdam ut indicrat GaJenus, muniu t, ne ligamenta,
partium. quibusfoctus in utcro condnctur, d iim illafaltarccoguntur,faciliter
difrumpercntur j quod munimen cum humani generis foeminis ncquaquam conceHbrit,
opinor cam co confilio id efTccifle,ut cognolcGrenthomines,dum nmlicrcsin
uterogcrunt,quaflibetfaI E tandi occafiones ipfiseffugicdas eflc. Multac funt
faltus fpecies,qua rumduas OribafiusAntyllum fecutusnominauit, exfilitionem
uidelicet,atquc faltum ita propric uocatum.dc cxfilitione,quæ
quodammodocuriuiadlimilatur, hanc fcntcnriam tulit,illam diuturnis capiris
raorbis accommodari,fhoracem adiuuare,cum inflcxionibus ualcntibus careat \
materiam,quæ ad partes fupcriores rapi-tur,ad inferiorareclinare,
cruribusimbccillis, fcfenon alcnribus, excarnibiis,ftupidis,atque
trcmulispræfidiuraafrerre.hanc eriani ineij^iiitaintelkxiflcopinor
Suetonium,ubi Auguftum ambularefolitum, "^" ka,utin exrrcmisfpatijs
fubfultim decurreret,fcribit, quafi fic infirmitati coxendicum femoris, et
cruris /iniftri, necnon ucficæ calculis,quibusafflidabarur/acpeoccuTreret* De
faltu ucroproprie (kappcllato dixit,cummatcriaminfræxa(fliusdeduccrc,fed F quia
thoraccm nimis, et uiolcntia motus, et magnis inflexionibus coneutit,
ciusafrcdionibusminime conucnire; ucrumtamcn, &: nd motum, et ad adlrioncs
promptum corpus ualdc rcddcre ; quod Li.i.c.ii. fi ad natcs ( thciatiir
faltus,qualem Lacænarum mulicrum fuifle iam diximubvcaputjCxeiuCdem
Antyllifcntcnria,peculiariterpurIi. T.cur. aat,&: pur2,andb ficcat. atquc
dc hoc mcntioncm fcciflc Arctacum clir.c. I. o r 1 puto, ubimuctcrccapins
dolorclaltum, et fimTrcttAvTou cc;wA«riy laudauit, licut, &: asomncs,atq.
ncruos,uaIidillinic inccndi confcfliis cfi.qua i\aione cfHcitur ^utafTatin;
corOymna/lica. S pus 2j6 L pus calcfliccrchacc excrcitatio iclonca/ir,&:
pndcrtim dorfi m, quod maximc iniadtandis haircribiisfarisfaccre
uidciur;practcrca canicm crcar; priuatim ucro fupcriorcs parrcsab ilia cxcrceri
mc^.^tiKva. ^^^^iiic mandauir Galcnusicuius rarioncantc ipfum Areræushucap.14.
iufccmodi cxcrcirarionc in antiquo capiris dolorc,qui paullatim
finiatur,ufuprobauir,ucluri ctiamin cocliacis&: ucrriginofis . Sccl
Oribafuis Antylli aucloriratc humcros ipfam cxercirarc,fl:omachoquc,qucm
diffluxio infcrtar, quiq. imbccillus cft, &: in quo cibus acclcit,fiuc
cumhiborc concoquirur,accommodari fcribit^Iau Li.j.chr. darin arthriricis
Cochus Aurchanus,urprimo manibus ccra cmol licndadcrur,aur manipuh
tcncanrur,quos palacttriræhalrcrasappclianr,tum primo ccrci,fiuciignci cum
paruoplumboinrcrclufo moucndi porriganrur, dcindc grauiorcspro modo profcdus:
Ga^.^tnen. lcnus cuidam, qui mordax, praccalidumquc fcmcn inrcr cmirtenva.c.14.
dumfcntirc non ranrum fe,fcd criam muiicrcSjCi mquibusrcmha bcrct,rcfercbat,
inter cetcra auxilia,fcfc haltcribus excrcerct,fuaK.p. cult. fir: quem poftca
fccutus Aicxandcr Trallianusin priapifmo curando huiulcemodi cxcrcirationcm
commcndauit,quod animaducrterct ipfam non modo ad rcrundcndum, infirmandum.quc
fcirxn, ucrumctiam ad matcriamin diucrfum rrahcndam,fpiritu5q. flatudc comp.
I^ntos digcrcndos conduccrc.fimilitcr qucquc Galen.in ulccrum me.pcrge crurum
curarionc,nili quid aliud impcdiar,haltcribus pcradam ntn.c2,x.
cxcrcitationcmprobauit,proptercaquod fic impcditur, quo miepi. cg. humores
viccribus noxijs ad parrcs infcriorcs delabanrur.ldcm eriam,ubi purgatio,aur
phicbotomia rcquirirur, ncc eas æras, aut ægrotantis uoiunras pcrmirtir
jlocoipfarum fupplcrc iudicauir . Verum enim uero,ncq. capiri,ncq. thoraci
fimiicin cxercitirioncm congrucrc uilus affirmarer,quorum aitcrum nimis, arq.
inacqualiter agitatur,aircrius autem uafi,nc ob maximam,qua brachia
urunrur,uimaIiquo pado labcla(ftcntur, pcricuium imminer. Quain rem fortaffe
colidcrans Marriaiis,fo{rionem,quam Galenus,&:exercirarioncm iimul,&:
opus fccit,ficur fupra oftcndimu6,huic excrcira tioni propofuir fub hifcc ucrfi
bus. lib. X4. Qlfi^ percurjt flulto fortes hattere lacerti i Exercct nicl us
uinca foffa vros, Huiuscumfccundolibro rria fcccrimus gcnera,Primum caomnia
pracftarc crcditur, quæ iam cnarrauimus : Aitcrum ucro parttculari quadam
facultarc crura,neruosq. confirmare35 cuin tamcn Uco coruin apiid alios nndulac
plunv bcac,tcrrcacuc,ipiid ahosiarcrcs ac lapidcs jipc /phacrici,6c
i;raucsvfurpcnrur,uihiltiguraillarcfcrtad uariaiid )s cdcftus,ctficicdumuc, nc
cadciu faculras ram in ufu nolb-(Tum, CjUam in prifcoru inucniariir,co
mai:isquod haud fciusqui h.odic fcfc ocrccnrin la pidibus,ucl
mallulisproijcicndis, brachia,d )rfu:n, omiu fq. fupcriorcsparicsmoucnr^coniorqucnriicac
f;u ichanranriqin halrcru excrjitarorcs. ur hac una rarionc omncscrtc dus a
nobis fupra cxpo :n iu)ftr:s criam cxcrcitationibus cxpcctari dcbcanc. ^
Dcdtfci:, atquc tACtilationts cjfcciil us. C^p. X. ^yr^ quamuis apud mcdicinac
probaros auch rc5, y \ P^u^Ji^ omnino mcntioncm tac^tmi inucniam,ob idq. W fl
forralTch^cusiftc dimirti pollularct i quoniam tau:cna (ialcnoprodirumfuir,
diici iachim, ncdum cxcrcitationcm apud anriquos cxftirilfc, in jymnafijfquc
ric ri T(;]iram, ucrumcriam inrcr uchcmcntcs cxcrcitarioncs haud poflrcmumlo*
cumobrinuillc, arquc hodic quoq. apud mulras narioncs in iifum excrccndorum
corporum ucnirc, proindc ilccis ( utaiunr) pcdi* bus practcrirc iUum omnino
nolui . Quo circa in priinis fcicnduni erit, hanc cxcrcitationcm, modoin
ccrcrisnon dclinquarur,accomraodacccalclhccre, &:proptcrcah-igidis
corponbus,arquc illis, quibus ucloccs excrcitationcs ncganrur, pcrfci^tc
conucnirc, C nccnonimbccillos, ^ infcrioribus mcmbrisinualidos modcrntc
corroborarc. cum ctcnim magni, atquc vchcmcnrcs obnixus in 16gius difcum
proijcicndo rcquiranrur, fir ur uch.cmcnria motus, ac mufculoruminrcnfioncartus
ma^is folidcfcant, 6c abcxcrcmcntis purgcnrur . cuius purgarionis mcriro
confuluir quandoquc Ga^'^P' lcnus,uf, ii quando purgario, Sc phlcbotoniia rcqui
rcrcrur, ncc ipiph! facaliquibus impcdimcnrisadhibcripofscnr, earumuiccpcr
difcum IdCtj, cxcrcirario admittcrcrur, quac nimirum id pracllarcr, quod in
plilcboromia, 6c mcdicamcnrorum purgationc, cxoptarcrur: pcculiarircr
autcmcxcrciratio iila brachia, lumbos,ac dcniquc uniucrfum dorfum corroborarc
idonca cll, quac fciliccrpar tcsin ipfo maximcoinnium agiranrur; in
vcrriginofis quoqucab Arcracocommcndarur. AI)illisucro magnopcrc cuirari dcbcr,
quicuinqucautrcncs, aut choraccin inalc aHcCtoshabcnr mamil2 li liferuidiores,
atqueflaccidioresredditiincredibilcquandam difD lolutionemcontrahunt;
huiusinterna aliquauafa, uttcftatumfecitGalenus, nonraro difiumpuntur .
Etnequiscredat,candcm cxercitationcm cxftitiflchaltcrum,atquc difci,
fciendumprætcr li.i.c. t i. u^riam utriulque figuram iam a nobis in
fuperioribus libris dccla' ' ratam, hoc quoque difcrimen
habuiflre,quodhaltercsuarijs contordonibusaltiusagcbantur, difcusuero,
etfiinaltum proijcerctur, tamenlongitudofpatijiadationeperadti potiusmetiebatureo
fcrmc pado, quo hac tcmpcftatc faciunt, qui fcfc in latcribus oblongis
proijcicndis cxerccnt, in quibus ijdem effcaus uidentur, qui ohm in difcobolis
uifcbatur . laculatio porro ficuti a difci iadlu par rum in ipfa proicdtione
difTerrc uidetur, ita quoque uires fimilcs,&: adnocendum,
&adiuuandumobtincrecredendum eft. quofit,ut pauca dc hac cxcrcitatione
nobis diccnda rclinquantur . lllud miE nimefilcntio obuolui debcrefcntio,
uctcres fcilicct nonfincmyftcrio Acfculapium,atque Apollincm, ambos mcdicinac
audlores, ambos fanitatis magiftros arti iacujadi tamquam Deos præfecifse;
nimirum hac fcntcntia innuentcs,huiufcemodi exercitationem bo næ ualctudinis
confcruationi, bonique habitus acquifitioni ftrenuamopcmaflcrre.cuius
exercitationispoftquam plurcs fpecies cffccimus, alias a iaculorum, fiue
fagittarum uarietate defumptas, alias ab arcubus fcu baliftis,quibus illæ
emittuntur, acccptas, omncscandcm planc facultatem polfidere autumo, nifi quod
cos. qui in fcrrcis uocatis palis iaciendis cxercentur,hoc admonitos uchm,ut
magnam curam adhibeant ; quoniam fæpe numcro
peritonacumdifrumpi,inteftinaqucinfcrotum defcendcre,&:per
confequcnshcrniasin fimihbus excrcitationibus generari experientia F
compertumcft: cumquein emittendo maximauis, arqucmtenfa fpiruusrctentioadhibcatur,
pedori adftrido, atqueinfirmo huiufccmodi iaculationem aduerlari puto.Non eft
quoq. illud igno. M randum,quodMarcusTulIiusmcmoriæprodidit,PhiIoætem, lo ScS.
dum cruciarctur, non fercndis doloribus propagafse tamen uitam
aucupiofagittarumiaculationefaiiOt Dc Df deanjhuUtiomim qualitatiLus. [^ap. X L
I vHumcft cxcrcirarionisgcniis, quod illis, e]ui fanirati
opcramnauanr,maximcquacrcndum, arquc cognofccndum (it,quodq. ceccris
quibufcumquc frcqucnrius a cunctis fcrc hominihus, omniq. rcmpoi e cxcrccarur,
un-im proculdubio dcambulationcm cfsc ncmo ncgabir : fiquidc nulluscll,iiuc
pucr, (iucadultus, fiuc fcrcx, qiii non modocam pracftantiirimam, fcd folam
cxcrci tarioncm non crcdat . pauci ramcn rcpcnunrur, qui ucl rarionc,ucl longo
vfu, quibusqiiacquc corpons parribus,&: prolic^u noccar, pcrfc(^tc
animaducrttrint :id quod cucnifsc cxillimo, cum ob uarias iHius fpcci cs, rum
ob poftcriorum hominumincuriam, qui &c in huiufccmodi rcbus, &: in B
quampluribusahjs anriquioribus ncghgcntius, atquc ofcirantius fcfc gc fscrunt .
Quamobrcm opcracprctium faclurum mc cfsc fpero, ii, dcambulationum fpccics
praccipu as rcccnfcns, confcqucntcr quid unaquacquc tam boni,quam ma!i cfticcrc
valcar,dcnionItraucro. fcd duoantc cctcraab omnibus coniidcrari cupio.
Primumciuodfacpcmucnirccft apudau(5torcsmcdiunac (jraccos, &: Latinos,
praccipi fimul ambulationcs, &c cxcrcitationcs ; quafi illac ab his
fcpararacncc cxcrcitationcs linr.quorum fcnrcntias fic intcrprcrari uolo,ut
lempcr,dum iplas lciungunt, fub nominccxcrcitationum, cas, quac propric ita
appcllantur, fignificcnr; cum ambulationes.communitcr, dc non propric
c:ula!ioi1c cxcrccrcrur, i.chronlc. primo tarda, dchinc mcdio tcmporc fortiori,
arq. paullo crcdiori at,3/itisnocct ^qu.-^ndoquidcm ol) mmias dcambuKitioncs
non raifchiadicosdolorcs 6c podagram gcncrari, fcribir Galcnus ;Hcii:i cx
adacrfo icmiJfa n arthrincis, (S^p ^d.^t^n^^S &: ulccribus ini> 4 ternis
conucnirc,mfinuarunt Coeliusj et Celfus, ubi deambulatio] nc molli
rtramine,coæquato folo pera£tam iplis commendauit.debcnt cnim(vt fcriptu cft a
Tralliano)qui podagra, et articuloru affedionibusturbantur^fitTf/fiyc, kottov
Trohhoti moueri, potilfimumqucante,&:non poit cibos. Nam lallitudo
hismaximcaduerfatur,utquac articulosplusiufto calcfaciat,&:inflammct,ipfiq.
aliam rurfus matcriam cx longinquioribus particulis ad fe attrahe
tes,arripicntcsq. fluxibus iugitcr caufllim fuggcrant. Multa deambulario
lccundum Antylli fcntcntiani iuuat cos,qui caput,ucl thoracem male afTe^ttum
habcnt, &: a quibus infcrnac corporis partcs non nutriuntur,quiue in
excrcirationibus uehcmctiori motu egct; pauca ucro prodcll ijs, qui poll
exercitationcs non lauantur, quibusacibo dcambuIationibusopuscfl^jUt isin
fundum ftomachi dekendatj&quibus grauicasin corporcfcntitur. Longa,&:reda
ambuIatiominorcm,quambrcuis, molcftiam parit, capiti prodcft :ut Oribarius
j^^j^ immcrito Coclius,atquc Cornclius Celfus cpilcpticis curandis
Jii>^.i.ca.4. ^^ni ex vlu cflc' uidicauenntiat nmiiscxlugit
humiditates,atquc exCeU b^^ ficcat.ob idq. mcrito accufandus cft Thcmifon, qui
atrophia labochronic/7 rantes duodecim ftadiorum fpatiu grcflfu conficerc
fuadcbat. Longa,5d concitata fingultui comprimendo,fccundum Actij fcntcntia,
rtrcnuc prodcfl:brcuis ficuti magis fatigar, cum ( vt diccbat Ariftoteles ) cx
motu, &: quictc intcr rcflectcndum orra conftans diucrfitatis illius opcra
laborem inferat,ita quoque reucrfionibus illis c6-. tinuis caput labcfadbt :
&: proptcrca ab codem Coelio non fine rationc cpilcpticis damnatur;cuiusrci
cauflliambulatio quoq. circu Jaris mcrito improbanda eltjUt pote quæ caput
ucrtiginofum redProbl.38. dar,&: oculis uehemctcr noccat.Nam CafTuis
mcdicus antiquus in liDelloproblcmatri,qucm graccalingua confcripfit, caulfam
indagans, ob qua motus rcfto tramitc fafti ucrtiginc non generent, fcd folum
circuIarcs,ob id accidcrc dicit,quia motus rccti minimc difllationem matcriæ
impediunt, circularcsucroea ficri nonfinunt, quod ær vchcmctius illifus
prohibcat;ad hacc matcriac intus
agiiantur,qucmadmodii,8^foris.ubicircumlatæ,neque forasprodire ualcntcs motu in
capitc uertiginofum cfiiciut.ficuti namquc iilerici omncs externos fapores
amaros fcntiunt, &: qui fuflufioncs in ocu lis patiuntur,quofcumquc colorcs
rubcus iudicanr,fimilitcr in circularibus motibus,cu in oculis humorcs in orbcm
aganrur, omma cxtcrna circumfcrri uidentur,ficque vcrriginofa paflio
oboritur.Ex ambulationibus,quac cum intcnfionc crurum calcibus
incumbcndofiunt,qucmadmodumfcriptum cftab Antyllo, capiti malc aftecto
conucniunt,itcmquc thoraci humidiori,utf ro conuuIfo,purgalioni lupprcflac,
parribus infcrnis ab aHmcnto fruclum non capicn tibus,6c oninino quibusmatcria
furfum rcpit. Quac ucrocxtrcmis digitisobcuntur,easobfcruatumfuit,propric
lippicntibus, &:aluo fupprcflac utilcs clTc.Quac vcro totis pcdibus riunt,
cum fub aliqua fcmpcr pracdivitarum diffcrentiarum comprchcndanrur, ipfarum
cciamfaculrarcsobtincrcrationi confcntancum dl, Arq.hacc dc fpccicbusabipfo
motu dcfumptis. Iterum dc deambuUtiomm qUAlitdtihus.. * NTER
dcambulationumfpccies,quac a loco accipiun tur,illac,quæ fiunt in montibus, aur
adfccndcndo,aut dcfccndcndo excrccnt.li fianr adfccndcndo,ualdc profccto
uniucrfum corpus fatigat ur,quoniam rcfcrctc Ga ^^^^y* icno ar rollunrur co
motus gcncrc,&: pcrindc ac onus quoddam fufiinenrur ab i)s,quacprnnum
moucntur inftrumcnris,rcliquacorporismcmbrauniucrfa. fcribu Ariitotcl.
ambulationcs pcr accli- » ra^tfc uia,tamctfiCnt
hcbctiorcsmotus,magisfudorcmprouocarc,quam^^°^ ^ pcrdccliuia,ncc non fpiritum
pro(illcrc;quoniam graui cuiquc, ut deorfum lcrri fccundum naturam cll, fic fcrri
(urlum conti a natu- ram,itaq. caloris narura,quac nollra prouchit corpora, ut
nihil pcr dccliuelaborat,li(- pcr accliucprcfsaoncrc nirirur,acriusq. ob ciuf
modi motumincakfcjt, &: fudorcm mouct, &: fpiritum proliltit, cum
ctiamcorporisuariusuitlcxusnon nihil atfcrrc caullacpofTit, Q utdircda
fpirandireciprocatioaufcratur. qua rationc fccundum Antylli fentcnriam ralis
ambulatio ctiam thoraci, qui fpirirum cxi- guum ducar,&: pracfcrtim antc
cibum confcrt, maiorumq. cxcrci- tationum uice nonnumquam fupplcr.Lcgitur dc
Dcmollhcnccoa fueuiffe iplum adfccndcndo dcambularcarqucintcrambuhldum
orarioncspr()nunciarc,qu() lic productac fpirirus c(MUcntioni,qua oratorcs in
diccndo opus habcnt^aduclccrct. Vcrimi cnmi ucro i:c nibusinfirmis eadcm ualdc
aducrfatur;proptcrca quod diccbat Ariflotclcs,duadfccndimus,non corpus lurfum
iaCtarc, diltcntio- ncmquc corporis,&: gcnuum moucrc; ad hacc gcnua ipfa,
quac fc- cundum naturam in antcriorcm parrcm llcdi nata lunt,quali coii- tra
narura f kfti rctro,ob idq. magnopcrc dolcrc atq. laborarc. Ex altcra
partcambulatiodccliuis,quacdcfccdcndoobirur,magisak tcraa cnpirc adinfcriorcs
parrcsirahir; atfcmora inualida nc') parii lacdil,*nimirum c^uac, ex ciuldcm
Ariaorclis fcntcntia in hoc mo- ^;P|J«^C' tu 2«4 JL i b 2 K tti contra Naturac
inclinationcm ante aguntur, quafiq. moucndo D crura uniuerficorporispondus
fullincnt, &: proinde uchcmcnrcr fatigantur, Ambularioncs,quac tum
adfccndendo,tum dcfccndcn lib.i.ca.i. do pcraguntuf,a Cornclio Celfo
comprobanrur,eo quod ita uarie* tare quadam corpus uniucrfum moueatur ;ni/i
tamcnid pcrquam imbecillum fir.Quac ucro fiunr inuijsplanis, &:acqualibuscx
fcn- tenria Ariftotelisob motus,quamferuant ( utfic dicam) uniformi-
tatem^,magis corpuslaboreafficiunt,&: obnaturac,quam tcnent fimilitudincm,ciriuslaborcsfiniunr,necnonad
fpiritum,&: ad cor- pus acqualitcr conltiruendum magis accommodatac funr,
quam fa (Sæ in acqualibus . Ar dcambularioncs pcr inacqualcs uias fadac non
modo minus fatiganriucrum criam utiles ijs funr, qui cito dc- ambulando defiitigantur.
arquc hoc Anryllus inrclhgcbat, cum ambtilationcs,quæ in vijs pcragu:Ur,minori
cumlaborc fieri fcri^ ^ Oribaflus P^cas,quasin locis deambularionibus
dicatisobimus.Hoc Jococitat. id^n^ iilnuereuoluit AcumGnusmedicusapud
Platoncmin Phæ- dro,ubi ambularioncm in Vijs, ambularioni in curfibus præpo-
fuir, dcquofupra larius difputauimusjieque aliud intcllcxir Ifcho In Occo.
ixiachusapud Xcnophonrem,quandoambularionem, qua ipfe ia agrumferuum cum
equofcquebarur,ambuhirioni in Xyftisfadæ: præruiir. in his ramcn
difterniinandis Ualde rcfcrr, numquid in praris, inlocisafpchs, an in
arenofisefficianrur ; quoniam fi fiant in
pratis,bIandifiima€proculdubiofunt,nihiI omnirto knfus tcn- tanr i
nihilcommoucnr, ar eas caputimplcrc, tum proptcr odoriy luauitarem, rum proprcr
humiditatcm, quac illis inhacrct, auctor cft Anryllus.Fadac in locis afpcris
caput rcplcnt . Quando aurem inarcna,&: maxime profunda (quod genus cft
vchemcnrilTimæ ^ t^crciratioiu*s ) aguntur, magna cfficacia pollent ad omnes
corpo- Inviu Au risparres firmandas,corroborandasque,cuius gratia Auguftus dum
guih.c 80 coxendice,&:femore, &:crurefinilh"o, non fatis bcne
ualcrct,im moficpe ca parte claudicarcr^hac dcambularione confirmabarur. fic
enim locum Suetonij inrcrprcrari dcbcrc ccnfco. ubi cum are- narum,&:
arundinum rcmcdio ufum rradir,arcnarum quidcm runi ad deficcandasfluxionesjtum
ad confirmadam,ur iudicauijcoxam, arundinum ad contincndum,&:
claudicationem impcdicndum. quodquomodoficri debcr, cdocuir Cato lib.dc rcruft.
cap. 160. Ad maicriam fubmdc,e fupcrnis ad infcrnas parrcs dcduccndum, camque
difTipandam potcnrilfimæ cxliftunt, &: idco malc fcrfiin a li.i.chro.
Coelioraxatur Erafiftratus,quod dcambulatiohcin arcnofis locis wp.t.
paralytieosexercendosfuadiiret.fub porricu fattac ambulationcs, aut. 2. s.c^
fcrrim fi uiridia adiint, quod ralcs magnam fakibritarcm habcant : &:primum
oculorum, quod cx uiridibusfubrihs, i^nc cxrcnuatus acr, proprcr morioncm
corporis mflucns, pcrhmar Ipccicm, ^ ita autcrcns cxocuHs humorcm cra(Tum,acicm
tcnucm, &: acutam fpccicm ichnquit . Practcrca cum corpus in ambularionc
calcfcar, humorcmcx mcmbris acr cxuucndo imminuir plcniratcs, cxtcnuatquc
dillipando, quod plus incll, quam corpus porc(Hullincrccxquo, ut
inhypacthrislocisabacrc humorcscxcorporibus cxugcrcnrur molc(iiorcs,qucmadmodumcx
rcrra pcrnchulas vidcnrurrconfuluitarchircCK^rumprinccpsampItllima,
&:ornariflima fub dio, hypacrhrifquc ambulando collocari in ciuitaribus
acdihcia. Vcrumcnim ucro apud mcdicos fubdialcs hac dcambuC lationcs plunmas
diflcrcntias obrinucrunr. nam quando propc mare hunt, &c liccandi, Sc
craifos liumorcs attcnuandi uim haOrihaflus bcnt; quandocirca flumina, et
ftagna, humcdarc poffunt: fcd utraqucnoccnt, U pracfcrtmi llaizna, idcoquc non
rcmcrc has omncsin Hpilcpricis damnauir Arciæus,quando in mcditcrrancis
partihus a^untur, qucmadmodum(upradictis(unrpracltantiorcs, ira quoquc tac^is
circamarc ccdunt. quando in rorchumcdtanr no finc damno:fcd liin locisauium
uolaru Frcqucnrarisambulcs,c:li^ cacifnmusismoruscrir ad cuocandum pcr halirum,
adlcuandum, haud fccus,arquc li in fublimibus locis ambulcs . (iuac dcindcfub
Dioin locisucntominuspcrflatisambulatio c thcirur,valcrfccundum Anrylli
fcntcnriam ad cuocandumpcr halitum, 6,^ ad cxcrcmcnra difpcr^^cnda
:itcmqucrcmirtir,ncc fcrir. hanc Actiusincohcisdoloribus a trigida caufla
ortiscommcndauir, fcd quac 2^^humqucdi(Tolurum roborat.atque dehacfor^rafsc
lo€ip,z. ' quebaturCoclius Aurclianus, dum ftomachicis deambularioncs fub Dio
promodo viriumadhibendasconfulcbat, fi fub Auftro, caput rcplet.fenfuum
inflrumenta hcberar,a!uum moJlir,atque addifloJuendum ualctrfi
7Gphyrisfpirantibus,talisambuIarioccrcris omnibus, quac in uento funr,prærtar:
non enim habctinfuauirares boreac, quin potius manfucrudo fimul, arque
iucunditasfunt coniundæ. Quac in Apeliote fir, mala cft, &: fciir, atque
irafchabentambulationcsfuL dialesinuerisperadacSequuntur, libi 1^>"el
inumbrarquainre audoresdiucrfafcntire repcrio.Cornclius Cclfus, fi capur fcrar,
meliorcm ambulationem in fole, quam in vmbra cfsc dixir, &: mcliorcm in
umbra, qua E parietes,aur uiridariacfficiunr,quamquærea:ofubcft. Exalrera parre
Oribafius au^florirare Anryili dudusimprobat illam, ueluri quæ cffundar, capur
implear, arquc inæqualirares gignat . quam fententiamnon auderem alteri pracponere,
nifi&rario, &:uere. rummedicorum, praclcrtimq. Hippocratis, &:
Galeni audorirates tcftatum fecifscnr, folis radios humanis capitibus maximas
noxas infcrre. ncmpc quac fi calida,&: humida, magis calcfiant &c
cliquenrur ; fi ficca, ficciora rcddanrur, &: dcmum quæcumque fint, femper
offcndanrur, modo vcl ruftici, ucl alij fub fole viuere
afsuemorb'^Qi^^^P^obecognofcensHippocrarcsfiucPolybusad euiranda capiris
dcrrimenra non quamliber dcambulationem, fcd folaminfrigore, aur in fole
peradam uerat. Atqui nonillud tacendumefseduco,fempcrcligi porius debere infolc
ambulare, F quam ftare, 8c ambulare uelociter, quam fegniter, ficuri
præceprumfuirabHippocrateinlibro defalubri diæra. cuiusreihac Prob" quod
cumftamus, calor pcrmanet, ficquc ampliuscalefacir. corpuserenimnoftrum(diccbaris)uapo^
rcmqucndamrepidumdcfe conrinuo mirtit, qui proximum,&:
ambientemæremtcpefacit, undc ær pofteaillc corpus calidius rcddit, cum aurcm
quis in folc mouerur, flatus excirarur, qui refrigerare
nospotcft,quandomorusquifqucfrigidushabetur. Ambulandum potius in vmbra(diccbar
Cclfus) quam paricrcs,aur uiridaria cfficiunr, quam quæ rcdo fubcft : quoniam
ær aflidua quadam,&:bIandauenriIarionefaIiibriorrcdditur. qui ær quoniam
interdum ab arboribus noxijs infici, &: corpora deinde coraminare
confueuir,ut dc nucc arbore, arq. Narcifso mcmoriæ prodidit A
PlutarchuSjproptcrca hiiiufccmodi umhrasintcrdc.imbulandum s Sympo. fugcrc
cxpcdict . Ncquc ifcm curam adhibcrc minorcm oportcr, vtarb()rcsrorcfui]u(;ic
vitcntiir,qiioniam, fi pcr ipfas fi-cqHcnrcr qi.ib ambiilct,mcmbra tacilitcr
lcpra rcnranrur,atqiichumscam Laitus apud Phirarchum in nat. quacft. attuh t
rationcm, quod ros corporibus illabcns ipfa mordcar, arquc cxcorict, ucl
potius^quod arorc colliquatis arborum iupcrhcicbusafpcr^oquacdam noxia inde corporibus
aflufa inhacrcat,quac parrcs cxtimas ipforum mor dcat, arquc difcindat : ctcnim
rori uim colliquatiuam (mKriKovy non J^kKriKQf, &c rc ipfa, &: ucrufto
codicc pcrmorus lcgcndum puto) incilc pcrfpcctum faris illud tacir, quod ros
bibuus gracilitatcminducit, ut mulicrcscac manifefto dcclarant, quacalioquin
obcfac dum tcnuibusucftimcntis,autlancis rori collii^cndo opcB ram nauanr, co
in cxcrcitio carncs confumunt . In oinnibus aurcm fcrcprodcritfubijsumbris
ambularc, quas cpilcpricis probauit Arctacus vertiginofis, ncmpc /ub arboribus
myrro, aur lauro, aut intcracrcsC^ bcnc olcntcs hcrbas
calamcnrum,pulcizium,thymum, mentam, maximc quidcm agrcftcs, 6c (pontc nafc
cnrcs : lin harumcopiadclidcrcrur,intcrhumanocuItu procrcaras.Hftin hac
quoquenon cxiguumdilcrimcn rcfpcctu cadi, quod, dum fcrc* num cft, tunc
ambulatio lcuar, pcr halirum cuocar, arrcnuar, bo— namrcfpirationem,i^moucndi
faciliratcm parat : dum ucronubibusobtcgitur, grauiratcmaflcTt, pcr halitumnon
euocat, tandcmquc caput implct.Dc ambulationibus facicdis,ucl hycmc,ucl
acftarc,ucl alio rcmporc,di\imus in libro quarto, ubi tcn^^pus cxcrCjp.n.
citationibus accommodarum dc/iniuimus : fupcreft ranrum illud Q adncvftcrc,
ambulationcs quaslibcr anrc cibLm ficri dcbcrc, ruin manc, rum ucfpcrc:quandoquidcm
matutina aluum cmollir,licrcdimus Antyllo/cgniticm afomnocontr.iotam dilfoluir,
fpirirufquc attenuat, caiorem augcr, &c appcti tum excitar : quinimmo
Hippoi.dcdiac crates hanc candcm humidioribus tcmpcramcnris cc)ucniiv, quod
humorisrranlicuscxinaiiiaiuur, ncquc animac mca*tus
occludantur,fcribit:licut,&attcnuarc,ncc non partcscirca
captitlcucs,agilcs,ac promptas reddcrc, 6c aluum tolucre conlirmat, ucfpcrtina
ucro ad fomnum homincm pracparar, acinflarioncs difpcrgir, caput
ramcndcbilcmale afficit,ob idqiic iurc accufarur Scrapion a Coelio,quod
cpilcpricos impcraret circa ucfperam amhi larc, ac jjj, ^ ^^^^ rurfum
conquiefccrc, &: dcambularioncm rcpcrcre. Pollcibum cap. 4. diximus cxiguam
ambularioncm afl^ucris conucnirc, arque illis, 4juibus non fmc laborc in fundum
ucntriculi dcfcendit cibus : illis paritcr, i6t i E R ^ ^ warirer,
quibuscapiTtrepIcrum cft, lcmam poft cibnm dcamhuD cV.l*! dc ^commcnaauit,
Galcnus, fccutus fcrrafsc in hoc Arc«op.mcel. tacum, qui in uctufto capitis
dolorc candcm in ufu habcndam uoluit.quamquam lccundo dccomp.mcd.ubi dc
dolorccapiris €xcbrictatcagit,ucJir, ncqucmuhum comcdcndum,ncqucftatim a cibo
dcambulandum . In rchquis quo modo conucniar,non uidco, 6c proptcrea Dioclcm
medicum anriquiflimum, &: cLiriflimumfatismirari n6pofsum,quod phthificos
dcambularionc pofl Ccl.lib.i.prandiaucxandoscfscuoJucnt, quac licuti
concoAionem ciboruminrcrrurbat, ita muJtosadcaputuaporcscftcrri, arqucibi in
humidirarcm conucrfos ad pcc^tus, &: puJmoncm difflucrcliicir,
quonihiJphthilicis conringcrcpcrniciofiusporcft: comagis,quod i.dcdiaf.Iicct
I-lippocratcshuiufccmodi dcambu/ationcs in humidioribus tcmpcraturis approbct :
aluum ramcn, corpus, &c ucntrcm liccarc E confitctur:
nciIlaomniainmcdiumadducam, quacdchuiulccgcncrisambuJatione fcripta funt in
Jibrodc infomnijs Hippocraii adfcripto . qui Jiber cum muJra fupcrftitiofLi
conrincar, forfan aliquis ijs > quac ibi dc ambularionc poft prandium in
pJuribus commendata dicunrur,paucam fidcm adliibcar . Hadtcnus dc ambuJa^
tionc, iam cetcra aggrediamur. ^uos ereClum slare ejfefius partat. 'i^O S, qui
pcdibus crcvfti permancnt, cxcrccri, quonum alniiidc in fupcriorilnis
dcmonftraui mu5,hanc rcm amplius in dilputarioncm rcuocarc prorfus ridiculum
forcr. proinde, quot modis luicc cxcrcitatio uarictur,quosq,quacquc pariat
ctfcdus, dcclarabo . Quod ctcnim ' hacc cxcrciratiopriuatim
dorlipartcsalTiciat, Aucrrocs, intcr Arabas non inhmuSjfarisapcr6 collca.
rcdixit . Qiii igirurtllud dcbilca narura, ucl cafulbrriori funt,"P-*fummo
ftudio id cxcrcitationis jzcnus cuirarc dcbcntjicmpc quod ( ut (acpius dixinnis
) maiorcm, ciuam ipfa ambulatio^dcf-uigarioncm pariat : quibus etiam in rcnibus
inflammatio, ud ulccra orta funr, ncftcnt, magnopcrc caucndum cflc, ccnfuit
Rufus Ephcfius. Lidc paf. dtbcntquoq. huiufccmodi cNcrcitationcm aucrfari,quos
ucl hcrniac labor lolIicitat,uel i n cruri bus, aut fcroto, uarices dilatantur,
ucl ulccra in infcrioribus part ibus orta funt, aut qualibet de
cauffaoriunrur,quam fcntcnriam nilimcdicorumauctoritasconfirmaffetiucram tamcn
cHc ipfa ratio pcrfuadcrctrquac fcilicctoftcndir, in ftantibus graucs humorcs
citra difticulratcm prorucrc,cosq. mo ^ do hcrnias,modouariccs,modo ulccra
gencrarc,foucre,&: augcrc: nam quod varices gcncrcntur,ctiam luucnalis
pocta cognouit,qui Saty.^. cum quandam mulicrcmlanumrogantem dcamici victoria
furura deridcrct,uolcnsfignificareob importunas mulicrupctitioncs
haru(piccm,ficunctis !nfcrui(rcr,ftando,((icquifqueharulpcx proalijs rocabat
I)cu)non parumlaboraturum,aifVaricofus fict harufpcx, Maruim quoquc fcmiu^
omncs,laboriofum uirucxftirillc,ob quod ^^"^-^ci* fi quis dicat, ei uari
ces, quibus afilis.'tabaf ur, in ambobus crun bus ^*"' ortas ob nimios in
llando laborcs, cum minus crraturum cxiltima rem. Vcrum cnim ucro,&: in hac
cxcrcitationc non paucac diucrfirates rcpcriuntunproptcrca quod tcmpus,
Iocus,atquc firus uarias quafi fpccies cfficcrc uidcntur. A tcmporc nafcuntur
duac fpccies, quando aut antc cibum,aut a cil)o,quis ftando,is: vcl pauco
tcporc, ucl multo cxcrcctur. A locofuinuntur diffcrcntiac^quoniam vcl in '
folc, i7o folc,uel In uml)ra,&: hac aut claura,aut aperta ftatur. A fitu
dcmum D euariantur ftandigencra,quando uelunopede,uel ambobus,& uelijs
totis,&:planis,uelextremitatibuseorum, calcibusfcilicet,&:
fummisdigirisltamus. Ante cibumftare uentriculi cxcrementis
inaniendisauxiliatur,afthmaticos,&difficiliterfpirantesadiuuat, ucntrem
cmollicurinam prouocat, crura, &c pedes corroborat, &: fiquando
deambulationi uacare non concedatur, illius uices fupplerepoteft. Vertiginofistamcn,&:c]uibusad
fuperiora rapiuntur uapores, nullopadlioconducit, cum
extalierCw1afta:ionefacilius caput afumispetaturrnamtantamad hoccrifiicicndum
potcntiam Pctr>A fi^^il^^i^i^habct,utnonnulIi boues,&:cætcra animantia
poncnfis (quodfcripfit Ariftotcles) minus homines tuffirc,
minusquccatary.partic. rhisuexari crcdiderint.quoniam ipfis mininie
crcdtisftatibus haud ita uaporcsnaturafurfumicndentesin eorum capita fcrri
pofllint. E QiKi item ratione eo$ omncs damnare uehcmcnter foleo, qui,fi alto
capite dormiant,minus a catarrhis fe vcxarum iri putant,cum po ' tius
contrarium eueniat,vt fcihcct qui humiliori,&: fcre cctcris me bris æquali
capitis fitu dormiunt, uel aliter iacent, minus a uaporibus capitc
tentcnt,minusq. a capite ad pcvflus humorcs defluant. Quamuisfccusiudicadum
fit,vbiquisvcntriculi in conficicndo cibum dcbilitate uexatur.Quoin cafu
Pofidonius apud Actium magnopcre ftudendum efte iulfit, vt in dccumbendo caput
altiori fitu contineatur, quo cibus magis in ventriculi fundo accommodctur,
&: ob id nutrimcntum minori molcftia coquatur.Atquc hoc intclli gi
debctdeijs, quimultum ftant:ftare etenim pauco tcmporc
cxiguumquidprodcfl*e,nequcmultumobeffepotcft. Qui porro communi illo
effato,Prandia poft flabis, indufti poft fumptos cibos ftaF r dclc61:antur,ij
fcire debent,fi mediocri quodam rempore ftctur, defcenfui ci borum in
uentriculi fundum id infigniter coopcrari,&:
confcqucntcrilloruconcodionemperbelleadiuuarc, nec alioqui ullam cffatu dignam
iæfionem afferre: uerum fi multo tcmpore ita qui5pcrmanfcrit,prætermolcftiam,quaob
ciborum intcrdupondus,prætcrla(fitudinem,qua exlaborc afficitur,variasitcm
offcnfioncs fubirc cogitur.Primo namque maior vaporum copia fuperio rem
corporisrcgioncmimpctif,maiorhumorummuItitudoad infcriora praccipitat, atq.
indc vlccra in cruribus,gonagras, &: poda gras gcncrat,cicindc
thoraccm,atquc fpirationc vniucrfiim non parum Iabcfa&: totam mingendi
athoncm uitiant, quando vidclicct crudi humorcs ex fimili fiti ad . J7I A cas
partcs dcfcrutunrcncsq.&lumbi uchcmenterincalcfcunr>dcbilitdturq. ut non
tcmcrc vidcatur pracccpiflcRufus Ephcfius, ne quis vlccribus rcnum
Iaborans,ctiam fi morl^us inchnarc cocpiffcr, ftarct. Statio in vmbra (cmpcr
aliquibus cx pracdidis difTcrctijs ad ncctitur,ut fit multa,vcl pauca.ucl a
cibo,ucl ante cibum, et proindc qualicumquc adncxa rcpciiccjllius cflTcdus
continuo cxprimct, modo umbrac ratione aliquid fccus non acccdar.hoc autcm
dico, quia facpcnumcro umbra, vd cft locorum concluforum frigido^ rum, atq.
humidorum; ucl noxiarum arboram, ucl alrcrius p"erniciofæ rei,quas omncs
corpiis macularc, &: faniratcm dcftrucrc nemo ncgabit.c:actcrum de
llantibus fub folc in hunc modum dcter minandum eflc, iudico, quod fcilicet
Itare fub folc in æltarc fumg moperc calcfacir.immo fcnrcntia eft Ariftotelis,
cum llamusin fo^f^ lenosmagisdcuri,quamdummvOucmur,ctlipcrfcmotus ipfc quo^quc
calcfaccrcuaIcat,quodaIiasfuliuscxplK aunnus. Si iijiturita clt,rationi
confentancum crticitur,iuuamcnrum infigncualdcfrigcfadis corporibus indc
accedcrc,vcluti h\ dropicis,caccdicis, quibusidaCoclio,&();n
iibusfcrcmcdici's laudatur. InickTicis Lib.j.ci iteincurandis tali infolationc
vfum Archigcncm rcpcrio. ncinte^'v^^f' rimlilcntiopractcrmirranrur ca,quac apud
Acrium cx Antylli fcn mcdTu* tcntia lcgu:ur,infolarioncfcilicctvarijsmodis
anriquos vfosfuiflc, "P-'' alias cum unJlionc,aIias iinc unctionc,modo
fcdcndo,modo iaccn do, modo Itando, inrcrdum ambulando, inrcrdum currcndo : dc
^ quibusomnibusinhunc modum dccretum elt, quod /i infolatio *
adminiftrcrurnonpurgatoprius corporc,max:inum capirinocuC menrumaftcrr:
undcfacpcnumcro mirari mihi conringit,quogcnio ductus Plinius maior,non modo
purgato corporc,ucrum ctiam polUibuminacltarcfubfoIcmancrct,
acdcindcinfngidalauare-rcpift tundchac ctcnimlocurosfuilfcmcdicinacaiictorcs
arbirror,quan dodixcrunt,ab illacorporaplufquam par lirincalcfccrc,fcbrcs,atquc
capitisdolorcsgignir Namliantcaquam corporafolicxponatur, opporrunc
cxinanianrur, aut /inc unctionc, aut cum unctionc ricripotclt:hatcura
unctioncm,capiri diuturna frigidirarclaboranti fuccurnt,quod illud durius,arquc
impallibilius reddar, Sc ob idmcriroinEpilcpiiacuranda a Mcthouicis
nonnulliscommcnCcciu.x. datur, modofit inlolatiomodcrata./icutitcm in ca
in/aniacfpccie i:iuarccrcdirur,quacafrigidaintcmpcricorrum ducir:pracrcrca
occultas difflarioncs augct, ludorrs clicit, carncm confcruat^pingucdincm
tollir, ocdcmata oinnia, 6cpracfcrtiin hydropicadcprimit:ncquc tamcn iplu noxis
fuiscarct, quandoquidcm mr)ra Cymn^flica. X quacuis 272 quæuis fiibfole bilcm
augct,&: confcqucnter ijs, quibus calornacc^^apk. ^^^^ mordaxcft,valdeaduerfatur,
ut a Galcno fcriptum cft,/pirilo. tumque crafliorcmjdenlioremue efficicns,
afthma, &: orrhopncam i.^tu.va. exacerbat. Cactcrumftabfquc un^ftione
infoIatioadhibcatur,in cactcriseofdem efredtusparit,nifi quod corpusexficcat magis.tanquampingui
illoadufto,&fubindcmaiori nigrcdine fupcrficicm totaminficit, nccnon carncm
inftar caurcrij cuiufdam dcnfasminuspcr infenfibilem rranfpirarioncm cxcrcmcnra
diuaporari facit. Li I fcr i*arionc huiufcemodi infolationcm ad minucndam polyfarcap!^*^^
chiam ab Ærio laudaram ccnfco, Vcrumramcn duo hic animaducrfionc digna cfle
cxiftimo, alrcrum, quod medicos, ubi fub fole moram probarunt, prærcgi pannis
capira uoluifle opinor,quoniam,practcr Coelij audorirarcm,&
ratio,&:cxpcricnriademonftranr,capita derc(5ia,fi foli cxponantur, ualdc
ofTcndi, ncmpe quæ fupra modum calefa£la vaporcs a toro corporis ambitu ad fcfe
attrahuntjficqiic omncm malorumiliadem, &:præ cæreris cararrhosibi gcncranr
: quod minimc,ubicapira teguntur, euenire fua.partlc. fpicandum cft, proptcrca
quod,utfcripfit Ariftotclcs, indura corrdccauf' Pf^l^4"nuda,cum ab
illiusradijsminus fis ^i^rb. icrianrur.atquc hoc torum a Galcno fignificatum
crcdo, ubi dixit, eos,qui nudi fub fole mancnr ^uniucrfum corpus calcfaccre,
qui uero induti, caput folum • nam dcmonftratum cft a nobis libro
tcrtiOjMaiorcsnoftros numquam ferc caput tcgcrcfolitos:nemire'
murGalenum,dumindutosfcripfit fub folc, capitctantumualde incalcfccrc dixit.
Alrcrumanimaducrfionc dignum cft,quod, ficuri fedenres, &:ftanrcs fub folc
uchcmcnrius incalcfcerc, fiueporius deuri expeiientia conftat,quam
ambulantcs,&: currcntesiparirer,& cæteras pracdiftas affcdiones, tam
bonas,qua malas facilius recipiunt. Atque hæc vniucrfa a nobis dida dc
ftantibus planis, ac totispedibus intclliganrur.ftarc namque calcibus innixos
non mo dolaborcm acmolcftiam inducir,uerumetiam nuUumiuuamcnrO cfTaru dignum
pracftarc crcdirunquemadmodum fimilitrr cos,qui fummis digiris ftarcconantur,
practer farigationcm illico fucccdS tcm,parrcs illas callis molcftiflimis
aflicerc compertum eft, &c pracfcrtimquandoquis co frcqucntcr vratur j hi
fiquidcir 'Mudunum commodu nonnumquam rccipcre uidcntur, ut longins multis
alijs profpciaare ualcanr, cuius gratiaab antiquis fpcculator, fiuc Apho.^ nia
dcillis,qui non armari ccrtant accipicnda purcquandoarmatum ccrrarc
inrcrcxcrcirariones limul,atqi:c opcra ma ifdl • rcpofuir Galcnus,qui limilircr
ccrrarc aducrfus u nbram {ctKtctiicc^^ip t-^tu.^u cunt Gracci,) cclcrcm cirra
robur cxercirationem cilc ludicauit, |;'^; ut Auicenna quoquc,cV Paullus
pollipfum ccnfcrc uili funr. Cum doc.rcii itaquc rcs icafcfc liabcar, pugna non
armarorum rim aduc rfusliomincs,quam aducrfus columnam adminillrata in primis
magnope rc calcfacir,cxcrcmcnra cducit/udorcscicr,cxr.bcranrcm larncin fupprimit
proindca Coclio incuranda polyfarchia adhibcrur, l; dcinceps
brachia,atquchumcrosconfirmat,ciura(5»:pcdcs mirum cjp.Tiu
inmoduinexcrcet,cctcrum capitadcbilia,6«:ucrtigini obnoxia no parum labcfa^tat
.rcnibus ircm laboranrcs huiufccinodi cxcrcitat»oneinfugcrcpracccpir Galcnus.
magis cxcrccrc, l 2 &:unn 274 1 et uim maioi em corporibus infcrrcquam
iftam: quonia,nt ab Alc D Prcb pcrbcllc fignificaium cft,athlera, fi obnitatur
antagoniftac, tortitudmcm ci us augct ; Un ccdat, ncquc rcJudctur, robur ciufdc
refoluit. Atquicapugna, quac corporibuspugnanrium armatis cxcrcctur, inrcr
vchcmcntcs cxercitationcs collocada eft,quac cu robufta, &c uahda corpora
cfficcrc dcbcant, iurc meritoNicias apudPlatoncmin eodialogo, qui
Lachcsinfcribirur,dixit,quod Iv STTMi^yi^^wi&r,fiue armatum pugnarc corpora
robuftiora, li quod ahud cxcrcitationis genus, rcd^dit, ncq. vllo aho minorem
Loco cit. laborcmparit. Dehac quoque exercitationeab Antylloproditu ^
rcperitur,corpus ab ipfo ad morum aptius, et ad carnem fufcipicndam rcddi,
uerumramen propriam atquc maximam cius
pollicirationcmcxliftcrc,utcorporisfirmitarcm,&:longam rcfpirationcm
gignat, cumilli, quifcfe pugnis fimihbusdcdunr^omncmaHam
£fpiruuscxpulfionemferrcpoflint: facitautem huiufccmodipugna carncm laxam, &:
mollcm, nccnon capiti admodum noxia ert,præfcrrim quando galca plusæquo
obtcgitur, cuius pondere preffum nonparumlaborat . illudhicnon ignorari uolo:
cTrhoyxtxlav, fiue armarac pugnac exercirationem, nc quis dccipiatur eandem
effe cxiftimans cum armata ludatione, oTrhm-miKn ab Acfchylo vo-
cata,quandoquidcmhacramquam ludtac fpecics armisin mani- bus nullo modo
utebatur, fcd dumraxat ccrranres totis corporibus armabantur, ficque armati
inuicem ludabanrur, cuius ludationis arbitrcr uolurarionem illam armaram,
fiuccelcrcmagir aioncm, t.dc tue. quamGalenusin numero vchcmcntium
excrcirationum repofuit, * ^^' fpecicm quandam exftitiffe . An vcro dc hac
armata pugnæ fpecie intcllcxcrit Coclius Aurclianus, quando in curanda
polyfarchia F poft plurima alia cxcrcitationum gcncra comprobata dixit . Tum „
hoplomachia, hoc cftarmorum fiifta conflixio: apudmcdubium nullum,ut
exfuperioribuspatct, relinquirur: quoniam, et fino- menGraccum hanc ipfam
lignificare uidearur, nihilominus, &: nominis ab ipfo illata explicatio,
&c ufus demonftratus manifcftum argumcnrum faciunt,cum
dcpujTnaillafcrmoncmtaccre.quæ nu- dato ab armis corporc excrcetur,quæq. ad
diminucndam carnem a nobis laudata fuir, cum hanc poftrcmam carnem, fed mollcm,
SC Jaxampotius augcre Antyllusiudicaucrit. Dc gladiatoria pugna
nouidcturhiclocuscxpofcerc, ut fcrmo ulIushabearur,proprcrea quod cum armis
incidctibus,ac pungcnribus anriquirus agcrctur,
uclinlctaliavulnera,uclinaltcrius pugnaroris, aut eria vrriulquc
ncccm,plcrumquc terminabatur . VnUe ncminem non uiderc ar- bitror qiiantnm
ahfit, ut fimilis ^onccrtatio iillam pronigandis morlns, tucndacuc fanitati
opcm afTcrrc ualcat : ca cnim cft,quæ liodic apud miiltas Chriftianorum
nationcs fub Duclli nominc no fincmagna ciuitatum aliquandocladc cxcrcctur,
quamq. &:anti- quis, Su noftris tcmporibus ab uno hominum inimicilTimo
Sathana rcpcrtam ad pcrdcndas animas fuiflr fcmpcr crcdidi . quod naquc non
monachiam antiquorum, ut falfo probarc conari funr, qui huculquc ducllum
trailarunt, fcd potius gladiarorium ducllum huiufcc tcmporis rcfcrat, pracrcr
multa in qnarro libroa nobis dc- clarata,hoc itcm at cftari vidctur,
fciliccrijfdcmarmis,atquc co- dcm propcfincducllarorcsconccrrairc, quilnis ohm
gladiatorcs pngnabanr: illud unum inrcrccdit difcrimcn,quod illi tum gloriac
cuiufdam inanis gratia, tum præmiorum fpc, fcd fcrc fcmpcr ui B quadam,utpotc
ud ad fupplicium condcmnari,ucI in id cmpri,at- €juc cdodi ad ccrtamcn
duccbantur : ifti ucro fpontc,&: nuUisco- gcnribus,nifi folius honoris uana
quadam, &: faila dcfcnHonc pro- lcdantcaguntur: ut hac rationc minus
cxcufationc digni habcan- tur,cum fpontc in propriam ruant pcrnicicm . Vrinam
rcllpifcanC randcm homincs, uidcanrquc idquod Haibari krc nulliagunt, ranto
minus Chriftianos dccerc rfic profcdo &c multac urhcs, quac ob hoc inrcftinis,
&: facuillimis di(Tcn(ionihus cxagiranrur, ad mc- Irorcm ftatum
rcuocarcnrur, &: mulrorum anim.iSus,corporibusq. mcliusconfulcrcrur. At nc
longius a propoiiro noftra diuagctur ©ratio, hacc fufficicnt, fi illud
addidcro, quod Cclfus, Scribo- jii,^ ^ nius, Plinius, Arcracus,atquc alij
plurimi rcfcrunt, ab Antiquis li. decop. fciliccrcrcditum fuiffc,gIadiatoris
iugulari fani^uincm cpotum lu- "''^i*; ^^ C uareepilcpricos. quam rcm
poriusad prodcndam iplorum fcri- nam fupcrftitioncm, quam ut ullam fidcm
adhibcndam ccnfcam, li^nificare uohii. 2)e qudTunJxtn altarum exercitatiomm
qualitatihus* l II. VLTA apud antiquos cxftltcrunt excrcitati onum gcne- 1 a,
quac quoniam non ita frcqucntcr vfurpabantur,ab aucloribus cclcbrata non
iiuicniuntur :inrcr haccau- rcin primo fcfc offc rt ri iK^6)^u^il%:ccci, ucl
manibus fum- fliis conccrrarc, quod, /iue hituc jpccics aliqua forct, utnon-
nuUi crcdidcrunt,fiucicparara quacdam cxcrciratio, urCalcnus ^^^jl^gp^ccnfuifsc
uidctur,u ui poft luclam alias quafdam cxcrcitarioncs ad- OymnaHica, T 3
numcrans nummn^acrochinTmum nominaf, facirqiicrnam7cftealii conftar ipfam apud
Galcnum, Actium, Paulum, et Aui-. l.ib.3. c j cennam i nrer ucloccs finc roborc
exerciraiioncs locum obrinuifle, lill.fen 3*cicndijcorpora tcnuandi,carncs,fuccosq.
dctra- doc. i^c.i hcndifacultatcmpolHderc, ut appofircinfinuarc uifuscft Hippo-
fitf^cftato P"^^ qucmlcgirLiracrochirifmumatrcnuare,&: carnes /ur-.
cap.Ti^^umtrahcrcproprie ucromanus,atquebrachiafccundi;m Gale- Lib.4.c.4 num in
ipfæxercitanrur. cxquorir,utilIisconueniat, qi ibushas- locQcitac,
parrcscorroborarcin animocft,ficurijs ualdenoccr,quorum chi- nigra,uel
aliusmorbus,&manus, &: brachiainfeftare folct. dchoc locutu e(Tc
CeIfumquiscrcdcrcpoteft,ubi in ijsqui ab arida luHi exagitanrur, exercirarioriesmanibu
speradasprobar. PorroUTrA^- ^f/^^ij^jideftecplerhrizare, a Galcno
inrercxercirarionescitraro- *oco cit. bur,6^crccntium,quamCraccihatcro. copiam,
vcltrachc! ilmumuocanr,cxcrccri, vcrumramcniIlisma\imc vcrcnda clUalis
cxcrciratio,qu! vcl pc^orcvcl dorfo,vcl capitcnoadmodum valcnt.Parictiam
paclofi quis(vr Milo factirabar) g conucficrcfc, ojcrcq. dc loco volcnti
pcrmirtar,cnira maximc corrob.>rarcpotcrir,qucmadinodum manus
maximopcrccxcrccbir,cisq.fortirudincmacqLirer,lipuynum alicui apcncndum, ucl
malum punicum, aur talc quippiam manil)us complcxus aufc rcndbmpracbcar:quod
ramcn arthriridi,aur chirajiracobnoxijsminimccongruct.Roburaurcm partium rum
cxcrccr.rum hrmat,fiquis a!tcrumcomp!cxusmcd;um,aut ctiamipfc
mcdiocomprchcnlus, manibusdigirisq. pcdinatim iundis,aur qucm complcciirur
abfolucrc fc iubcar,aur ipfc lc a complcctcnrc loh,ar:nih quod in hoc pc
riculum immincr,nc vifccra labcfadcnrur c\ nixibus illi5,qui adhibcntur,dum
dillolurio quacrirur.lra criam (i quis alrcrijm,(|ui vcrfus ipfum lc inclinct t
larcrc aggrcflu5,ilia manibus compIcxus,ccu onusaliquod fublarum inuiccm
prorcndar, rcducarq. acinagis,fi C dumgcltar,ipfcnixu, rcnixuq. corporis
vrarurnic narnquc fpinam vniucrfam corroborabir,lumbos tamcn,arquc rcncs
dcbilcs habcribus noccbir. Acquc vcro qui pcOtoribus cx aducrfo innixi magno fc
conaru inuiccm rcrri^ilunr,;;^ qui a ccruicibiis pcndcntcs dcorsu
trahunr,vchcmcnrcrquidcm cxcrccnn^r, &: pcrconicqucns robur corpori
vniucrfo comparanr:at pcriculum fubcunr, nc thoracis vafa aliqua rumpanrur
iplis,ncuc aur capur,aiit collum malc aihcianr. Hacc iraquc oinnia ramcrfi apud
vcrcrcs inrcr ccrcrascxcrcirarioncs habcrcnrur, nihilominus haud ira in
frcqiicnri vfu fucrunr, 8c pracfcrrim nobilibus,ac illisqui non
fincluauirarcquadam fanirati opcram dabanr. h;ic ircm rcmpcfiarc non dcfunr,
qui ipfis vranlur,qn )v.jn')d' ' rario,iflhibcarur,pcni:us aiicrrcrc nolo. T 4
De D Def^mtuscohibitiomsfacultatibus^(df. I V* I #n K-K^ ETENTIONEM
fpiritusfpecicmquadam cxcrcitatio' * nisefTccumabundc inlibrotcrtiodemonftraucrimus,
idampliusrcpetcrenoneftopus:il]uddumtaxat adiuii C gamnonfacilerepcriri,in qua
nam difTcrcnda locata fucrit.nifi quod animaducrtcntes nos in huiufccmodi
cxcrcitationemufculosabdominis, aque thoracis ualentcrintcndi,
&:fu^.partic. binde inpartibus interioribus calorcm augeri,ut
Ariftctclcs,&: Prob. Galcnusmcmoriæ prodidcrunt,eam non riciiiinc
uchcmcntia 1. dc diac i^^icare poflTumus : &: propter hoc iure ab
Hippocrate didum fuit, ^ fpiritus dctentionc meatus difparare, cutcm
attenuarc,nccnon ^ 3. dctuehuniiditatcmfubcutcm extruderc poffc. A
Galcnofimilitcr,&: ia^bartii^bAuiccnnafcriptumcft, rctcnrioncm fpiritus
mcmbrafpirituamcd.c. 87 lia calefaccre,corroborarc,&: cmundare,necnon
anguftas cauitadoc 1 c \ ampliorcsrcddcrc. Quod etenimfpirituscohibituscxpurgarc
thoraccm ualcat, clare conftat : quippe qui in.ipHi rctcntione undiquccompulfus
inanguftosfe rccipcre meatus cogitur, cosq.li ampliustrufus, propulfusq.
fucrir, ctiam pcnitus tranfirc, atque extcnuati iam agitationc cxcrcmenti
nonnihil fccum arripcre, eo propemodo,quo intucmur opificcs angufta
inftrumentorum foraminauchcmcntiore fpiritusinflatucxpurgare:quandoquidemis
quanto ulterius pcr uim coadus impcUitur, tantum ab ipfo quæda impelluntur,
qiiacdam trahuntur, nam truduntur quac antc occurrunr,attrahuntur quac ad latus
funt pofita, impetu ipfo motus vtraquc coada. Qupd ucro ex retcnto fpiriru
cauitatcs cuadant latiores,hinc probatur,quoniam fi thorax in medio corporc
locatur, fanc illo magna afiqua infpiratione acrc impleto, et dcipccps fuprcmo
laryngis ofculo Imgulac opera claufo, nccno mufculis toto tho race
prcllo,necclium cft ærcm comprcfTum vndique mcatibus cor poris uniucrli^^
infcri,ficq. inirufum cos undcqnaqiie dilararc,modoinfcriorcs dum iUuc
impcllirur, modofuperiores. ficergoper fpiritus retcntioncm cauitatcs corporis
amplificantur,pedoris partes cmundantur, ipfæq. atque etiam aliac intcriorcs
calorem ici O^nip. ^j^^ipi^ri^^cuiusmcritofrigidacaflrcdioncs, &:prac{crcim
inflaPr^? tioncsrcmoucntur. ut non tcmcre Plato fubpcrfona Eryfimachi li.d mcd.
ixicdici,nccnon
Ariftotclcsmcmoriacprodidcrmt,fpiritumcohiifbroT.d^birumafmgultulibcrarc.
quorum placira fccutusGalcnusabco^mp.cau.icm uoiifolumlingulcumjvcrun^ctiain
tuffim afrigida inftrumcntorum rcfpirationis intcmpcric conrraiftam cxftlngui
tcftatumrcliquit: ciuodaucla in pcvftorc caliditarc cx tali cohibitionc
anguftos quoslibct mcarus fpirirus coprcffus pcncrrcr,cun &: ab auribus
cxpcllunt : limilircr obftcrriccsiftud rcftantur,quacad
parruscxpuIlioncmfaciliorcm,&:ccIcriorcmrcddciidam partiincntcs fpirirum
contincrcpraccipiunt . in quoltamcn ipfas facpc crrarc fcnbit Acrius,quando cx
nimia hu ytr^h, 4. iulccmodi
fpirituscohibirioncancunfinata,liucartcriarumincui[Lli\c. ribilcsdilararioncs
incurrur.t in faucibus, nccnon pupillarumin prob. 48. oculis,ut Aucnzoar
tcftatus clLDiccbar Ariftotclcs fpiritu rcicnto mdiusaudirc nos, quoniam
rcfpirario ftrcpitum qiiCndain moucr, quocum careanrrctmcnxcsiUam, mclius
uoccspcrcipiuntrti.ij. c.i C quanuiis CalTius Mcdicus alitcr fcntirc uidcarur. Exftar
ircm Plinij aucronras,quod cucrfos,fc anclcnrcsq. ac iaccnrcs, fi quid ingruar,
conrraq. i(ftus,fpiritum cohibcrc fingularispracfidij cft. Si igirur
afpiritusrcrcntione rot commoda xjriri conftat, prudcnrcrfanc Coclius
Anrclianus ipfam allhmaticis, ftomachicis,arquc licis'^|^^J"^*y curandis
cgrcgum opcm pracftarc lcriprum rcliquir.Ncquc ramcn ub. ^.c. huic ranrum
tnbucrc dcbcmus,quiii ctiam ipfam aliquacx parrc obcflc credamus,quandoquidcm
Afclcpiadcs capur opplcrc rcfta lus cft,cuiusfcnrcntia a Gak no ccrre cxplofa
fuit . Ego vcro illam prorfus non cfTc rcpcllcndam puto, quoniam
manifcftoconfpicimus, dum fpiritus rcrinctur, ucnas,atquc artcrias colli
intumcfccre, oculos ampliiicari, gcnas ac uniucrfum vuhum contrahcre ma» iorcm
ruborcjn, tandcinq. caput totum compati : quacomniailJius rcpktionijs cUra
inditu clTc, ncmodubiiat . txquohr,ul Dioclcin Dioclcm tota uia abcraflTc pro
ccrto tcncam, dum fpiritum rctcnD tk.i.«a.4. tumin epilcpfia curanda praclidium
afifcrrc dixir:/icut Coclium laudo,qui in ciufdem aflfcdus curationc fpiritus
rctcntioncm uitari debcrcuoluitjCumccrrum pcriculumimmincar,nctuncfanguincad
caputrccurrcnrcmorbusmagis exaccrbctur. In fanguinis CgcUi.a. quoq.
rcic£lationc talcm cxcrcicationcm a Mcthodicisdamnaram inucnio,quibus aiTcntiri
cogor^propterca quod rum a calore in pe(floris cauea gcnito,tum cx uaforum
inflationc,diftenfioncq. facilii mc debilia,&:rclaxata vafafranguntur,
frad:aq. iterum relcrantur. Ampliusqui veliierniasjvel
crcpaturaspatiuntur,autpcritonacum, atquemteftmæxrilia,&:fragilia ab
ortuobtinuerunt,nullo pacto in rctinendo fpiritu cxcrccri debcnr, quoniam hæ
partcs in aclioneifta uchcmcntcr contenduniur,& pcr confcquens, nifirobuftæ
fint,citra mulrum laborem diuellunrur,qucniadmodum apcrtifii^ mam fidcm pucri
faccre poflunr,qui fi interdum nimis quam par iit flcndOi aut
aliquomodofpiritum contineanr, protinus ijsperitonæum, fcrotumuc difrumpicur,
6c dcinccps intcftina dclabcntia, aut flatus intercluii,uix fLUiabiieshcrnias
pariunt: quod fimilitcr tu bicinibus, &c cantoribus, dum nimis fpirirum
retinerc conanrur, facpenumcrofolet cucnirc,&: præfcrtim quando illi
wiJ^ctlguuy ( quod Galcnus ait lib. de mot. mufc. fccundo in finc, ac 6. h\nd.
com* 4, tex.24.&:dcquonosin varijslcct.cgimus^ac pluraadhuc dicemus, cum itcrum
librum cum rccognitum, atque auclum propediem dabimus) fiue edidum ficere
uolunt . Vna feruata ratio ab huiufccmodi pcriculis tucbitur, fi modcratc, aur
potius infra mediocritatem (imilisrctentio peragatur, ubiagcnda crir: alioqui
pcrfici nequaquam poterit,quin prædida incommoda fc^ quantun De ^octs
exercitAtiomm fAcultAtibus 3 tsf primo de rvocifcr^itione^ OCIS multas,fcd unam
præcipuam excrcitationemcf feccruntantiqui mcdici,quam gracci t«i^
(cVflf.quoruomniunaturapcrfpcv^ta nihU rcmarc mancbif,quod luiiufcc
cxcrcitationis cognitioni arfdi valcat.Er P «l^^jtu^ go prima
uocitcrarionibus,qnaccumquc (int illac,adfcripta ab An j| 6'.
tyllo,Plutarcho,Paullo, Actio, et Auiccnna codiciocft,quod thoUn, raccm,arquc
uocalia inltrumcnta pcrbcllc rxcrccr. diccbat Aucr\-^V'c.s rocs pulmoncm
propric a uociscxcrcitio rcfpici . (ubindc naturalc iiki.f.s.d. calorcm
augct,purgat,hrmat,arqucarrcnuar,folidas corporispar* "J,';j^* tcs,
robultas,puras,&:ort"cnfac mmimcobnoxiasrcddir. addcbarcap.i, '
Auiccnnna hanc cxcrcitationcm colorcm dccorarciquod cnim ca loraugumcntum
fufcipiar>indcoritur ;quia fpirrrusalliduomoru, taai actraCtus, quam
cxfufflatus collidirur, artcriturquc, licq. cx ca collilionc, 6c atrritionc
calorcxcitarur i puriiarucro huiufccmodi cxcrciratio itum quiacarncs raiiorcs,magisquc
rraiftabiics cfficir: tumquia cxmoru uocalium inflrumctorum humiditatcsinrcrnac
B confumunrur,quod cuidcnriflimc dcciarat dcnfus uapor cx orc v v cifcrantium
urodicns, 6c fupcrlluitatcs uctullioruhumoruunicuiqucmcatiii adhacrcntium,quaccxccrnunturnonfolumin
pracdi£tis uocifcrarionibus, fed ctiam alijs pkn ibus modis. lam vcro firmarur
calor, 6c artcnuacur, quv)niam uafa abftcr^^uncur, nuilti humorcSjUt
fputa,muci,(^pitiiitac conlumuncur,quac licut
antcacalorcmobfcurabant,dcbihrabanr,&:incra(Vabanr, iracduda cundcm
puriorcm,uaIid!orcmq. rc linquunr, &c hinc pollca lolidis partibus maius
robur,maiorq. impallibiliras fuccrcKic.Si icaquc hacc ica fc habcnt, racioni
confciuancum clt, ijs, qui humidirarc occupatas inrcriorcs parres,quiq. uniucrfum
corporis habicum frigcfa^tum habcnr,uociicraciorH*ni gcncrofum praclidium
cxliftcrc.qucadmodum.illisprcdictis racionibus cam ab Anc) llo,
CoclioAurc!ianp,&: Actio commcndaramfcimusltomachicis, uomcncibus, acidum
ru:tancibus,acgrccoiKoqucntibus, cibos faltidicntibus, atrophia
Iaboranrjbus.languidis,cachccticis.
hydrC'picis,althmaricis,orchopnoicis,phchilicis,diuturnopcctorisauclcpti dolorc
uexa tis.apoftemara in choracc rupra habcntibus, mulicribus
pracgnantibus,picaobfcllis, autlccundum Alcxandruinctiam parcurienci^/j^^g^'^
busad parcum tacihus cduccndum,non minus n,.chro, affi.iunt,quamcorporis
immodicacgcftationes, luuatmfupcr clacap.i. ralcf Q crir,fi rifu fcfc cxcrccrc
uolcntcs alas fibi ipiis litillari facicnt ; probi^ «!' ptcrcaqnod
magnusinillispartibns ucnnlarum,atquc arteriarum concurlus cxllat, quac
tuillatac concalcfiunt,^: fpirirum fu[)indc cxcalcfadiioncgcnirum
pcrunincrfumcorpus diflundunr. Ncqnc ucrolatcic qucmqnam dcbct,ualidnm
rifum,(icuti dixir Plaro, ma gnam mnrarioncmparcrc, ncmpc dc quo cclcbratnrapud
Graccos hicfcnarins. j t Ato; HKccigo^ tyjigcrois (Niviy KccKiv, i d c ft
Rifusinrcmpcltinusintcrmortaksgraucmalum. Siquidcmtalis,practcr immodcraram
fpiriruum ctiulioncm,pnicrcr nimiam agirationcm,calcf'achoncmuc,
nonraro,fccunduiii Ariftotclis,&: Jococftat. Alcxandri
fcntcntiam,uchcmcntcm rcfolurioncm indncir:qno. p|^^*|; niam uiralis
uis,&:inlitus calorimmodicc foras prodit,ac indcfir, ur /ic ridcntcs
fudcnr, ac rubcantfangninis adncntu : calorcm crciiimnatiuum,igncmqucipfnm,ficuti
pcr loci appctitioncmfurGymnajiica. V fuiu fum cffcrri, fic pcr alimcnti
dcfidcrium ima patcrc ncccfTc cftjgiD turutralibctmoucndi
rationcpcrcmpta,calorinfitusinterir5& uis omnis vitalis cuancfcit.ut non
abfquc rationc Homcrusfinxcrit oayff. ^ Procos rifu cmori, Arcrf ixmSges
dyccvoi X%$S0Cs ivetct^otiwot p/tAo) \kSccvou, idcft, tum Troci illuflrts Mams
extollentcs rifu cmoYiebantur ; lU.^pao Nccnon Aglaitidas apud
Xcnophontcdixerit,rifum huiufccmodi ^ ^y"moucntcs ^ncquccorporibusjncque
animis prodeffc. Porro caput,ac thoraccm pcculiaritcrab huiufccgcncrisrifii
offcndi ncmoncgauerit,qucmadmodum interdum laxata maxillarum ofla,
dorfumq.oblæfum animaducrtimus. Flctum tamctfi Ariftotclcs in pucris
laudaucrit, quaficorumcorporaflcndocontrafta, &:conE a.Tufcul tenfa robuftioracuadant,Ciccroq.
fcriprum rcJiqucrit, athlctas, cum cxcrccbantur, ingcmifccrc confucuiffc, ut fc
intendcrent ad firmitaremscxiguum tamcn ufum in tucnda bona ualctudine habe
rceno fcimusrpucri namqucfortafreaploratuminusofrendutur, quoniam ci a primo
ortu infucfcunt, quippc qui ftatim ac ex utcro parenris in luccm uencrunt,
plorarc incipiant: cuius caufTam SoInlfa og fimusephcfius cxplicauit cfle ; tum
quiatenuis fpiritusaluce concap.17. cutitur :tum quia infuctam tcrram
attingant,quandomulieresin Prob. 61.
nauibusparicnresmutumcdunt.quamfcntcntiamfecutus Alexandcrmcdicus addidit,iIIos
minime audiendos cfse,qui animum dicant, quod amifso caclcfli domicilio corpus
inhabitarc tcrrenum occocpit,iccirco infantcm cogcre doIere,atque
plorare.Cæterum adultiores qucm nam cx fletu capcre frudtum qucant, nufquam ui^
deo. quod cnim is corpora frigidiora intenta, ac debilia rcddat, \qco citat.
pr^ictcr Ariftotclcm ob pracdiita ficntcs acutiorcm uoccm rcddej.Aph.y4 re
narrantcm, Galcnusquoque atteftari uidctur,ubipucros,dum plorant,
intcrruptofpiritu ob uircsdcfatigaras refpirarcfentit.qui * itcma
flcrunonriumquafcbrcsacccndi pcrfpicuctcftatuscft. quatumfubindeoculisipfis
dctrimentum atfcrat,mdc conijccrc faciInprok. literpoffumuSjquodlacrymis ab
humoribus oculorum (fiCalfio medico credimus) dcflucntibus eos confumi
ncccfllirium cft.ut Ilb^ fummacumratione eloquentilfimusauitor Carnclius
Cclfuscontfcur.ocu. tinuos fletus oculos imminuere fcriptum reliqucrit ; ne
fileam quantum damnum uox recipiat, dum fauccs,ac uocalia inftrumenta intcr
flendum madefadla, exa fperataue, cam raucam cfficiunt, tuflcsq.ac noxios
catarrhos iatentcr concipiunt.nam, &c apud Coclium Aurclianumlrgitur,
ploratum poft cibumuaMcftomciclium labcfactaic. Kx quibusomiiibus colligitur,
aut nullum^aut cxiguficmolumcntum a llcru corporibusacccdcrc,(S nes illas
cxcitant;in altcris humorcs ad infima dclabentcs eos morbosfoucnt,ac
incrcdibilitcraugent. Inde eft,quod Aretacusin curatione epilcpfiacfolam cius
vcrtiginis infpcdioncm,quamfacit inftrumentumillud, quod RiptBiKX dicunt,
&: dequo fuprafumus locuti epilcpfiam induccrc monuit.Hoc fortaffc
exercitationis gc^bro^ I nusintcllcxit Auicenna,quandodixiti Etludcrecum
uirgisretor€3^*2^** tis didtisalfulcgiam cum pila magna,autparua lignca, nifi
quod illud intcrfortcs excrcitationcsrcponcns, 6c pilam magnam
nominansanoftrodiffcrrcdcmonftrat, ncmpc quodfitdcbiIe,foIifquc paruis
fphacrulis agatur . Habcmus Sc aliud motus corporis gcnus, quod piHs ligncis
cxcrcctur humi dupliciter, uel pilas in circu fcrreum humi dcfixum manibus
impcllcndo, ucl cubo lignco cas approximando, quod quidc genus dorfum ob
inclinationcs cotinuas E exercct, attamen caput ofFcndit, atque rencs; in
quorum ulceribus Inlib. æ IfxTrmkvsiTriKv^^s uitari mandauit
Rufusmcdicus,nequeadmoMetue! dum pro ualctudinc probatur. legitur cnim apud
Gal.cxcrcitatioual.cap.5 ncsinchnato capite,
dorfoueperadlasncquaquaminisconucnire, qui occafionc qualibet Icui ucrtigine,
cpilepfia, ophthaImia,auriQ dolorc, guttuns, aut altcrius, capitis, &:
colli inflammationibus occupantur . Prædidis omnibus tum notior,tum trcquctior
cft pilamallci uocati cxcrcitatio, qua uetcrcs gymnaftas caruiflc nemo nd
fatctur ; fcd quanto magis tcporibus noftris pencs cundlas nationcs ipfa
inolcuit, tanto magis ncccflarium uidctur illius flicultatcs declarare. Nam
quod ex magnis fitcxcrcitationibus,ac uchemctibus facilc cft,&: a
laborc,qui fuftinctur in ipfo,&: ab eius natura conijce re; a laborc,
quonia fu quam pcr fccrcram difflarionc cxinanirc inrendunt . Cctcrum ncmo,ucl
mcdiocritcr rci mcdicacpcritus, lgnorat,valctudmarijs,ac dcbilibus,quorum
uircslcui dc caufladc ftruunrur, excrcitationcmilhm minimcaccommodari:
tantomiftus illis, quibus capita ma!c aticda funt,aut aliquo padlo imbccilIia.
nam,&: qui dorfononadmodum valcnt, quiqucrcncscaIido5, urinasq. acrcs
habcnt, cx talibus moribusfummopcrc offcndfitur, licuti quoq. nocct cxcrcitario
bacc,vbi parfcsinfcri( rcsinflammationcm,aut abum tumorcm pati folcnr .
Summarim poflimt, qui fanitarc fruunrur, ad cam rucndam,oprimumq. habirumgcncrandu
pilamallco fcfc cxcrccrc : qui vcro aliquo pafto ab acgritudine
occupantur,omnini>abftincrc dcbcnt.illudq.fcmpcr mcmoria tcB ncrc
opcracprctium cihcjuac dc cxcrcitationibus bona a nobis pro mittunrur,
ucrarcpcriri,modocaratio tcmporis, ]oci,quantiraris, modi, arquc
corporumfcructur,quam in ^.libroncccflarramcfle monftrauimus. alioqui fi
ncgligatur, mirum non fitjoco bonorum incmcndabilia mala iucccdcrc :
qucmadmodum lacpcnumcro in propolita cxcrcitationc cucnirc ccrto fcio,quac cum
fcrc polt pran dium a plurimis agarur, nullo falubritatis loci, ac rcmporis
habito dclcctu, no fua culpa,lcdcxcrccntium incuria pcrniciofasaflcLtioncs,ac
prauos habirus inducit. quo magis omncs admonco,ut diligcntiam, a Maioribus
nollris in cxcrccdis corporibus obfcruatam, quaxitum
conccdifur,imitantcs,mcIius valcrudini, atquc mcmbrorum robori confulant, ncquc
commitrant, u t proprij.s ci roribus, &c fanitatcm /imul
dcpcrdant,&:honorcm, dicctc GalcnonoUro mar.dctac C pnum dcdccus illis aXc,
qui a narura fanam corporis conftitutionc lortiti cam ob cxcrcitationum,ac
rcttc uiucndi ncgligcntiam cor. rumpunr,arquc morhofam rcddunt. Erquoniam hoc
in capitcduo diximus,altcrumquod pilamaIIcus,cxcrcctdorfum,aItcrum,quod illis
cuitandum crt, quibus dorfumcftnnbccillum, fcicndum crir, Galcnum
voluilfc^inlcnibus dcbilcspartcsnumquam cxcrccri,in r.dctuc. alijsfcmpcr
dcbcrc.rarioncm, qua indu^^us illud dixir, hanc fuifle ^ cxiftimo ; quoniam
dcl)ilitasfcnumcmcndarinonpotcft, cumcx uirtutismotricisdcfcctu
proficifcatur,alioruinucrorcparabiIiscft. undc, quandonos aliquas partcs
imbccillas minimccxcrccndas confulimus,fcmpcr dc imbccilHtatc confirmata, ac
incmcndabili, non autcm dc rcccnri,arquc dc curabili,dida noftra inrclligi
uoluBU]s:nca Galcni placiris,(]ucmomnc5mcdicifcqui tcncnturjinhac lcntcntia
rcccdcrcuidcamur. (jymfiiiiiica. V 5 DC 291 I T)e equitationibHTfacuttdtibus.
CaP. II X. ^ Quifationcm,qua Galenusaliquadointer ca,quæ exercirationcs
fimul,&: opcra nucupar,adnumcrauir, ex eiuf dcfcntcnriamagnam
cxcrcitarionccfl'e,aperte conftaf# Quo circa,quanru fit cx fc, potcrit natiuu
calorcm auge rc,&: cxcrcnicntoru inanitioni opitulari.Efl:
aurnoparuadiflrcrcritia,an cquus(fic appellocquLi,mulu,&: aliud qif
uisporrandishomi nibusaccomodatum animal)lcnrc,cclerircrucgradiatunanfuccuf Oribadiis
fcr;an afl:urco fir,ac ro]urarius,an currat . Dcplacida,&:lcnra equiÆt^iib*
ratione fcriptLi inucniturab Antyllo,atquc Actio,fiplacidc equus cap.7! ^
gradiatur,nihilmagis, qua lafTitudinc, &:pracfcrtiminguinibusaffcrrc.dc hac
inqua ucrba facics Hippoc.mcmoriac prodidir,continua cquitationc laflitudinc
magna parerc, homincsq. infoccundos E &: cocundi impotcrcs rcddcrc,n€C no
dolorcs diuturnos,&: claudiProb. ij. carioncs
gcncrarc.ncqJccircofcntctiaHipp.danandauiderur,qcf aqu*&!oc! Ariftorclcs
cotrario plane fenfu fcripru reliquerit, cquiranres afficap 1 1. Jjje
libidinofiorcs cuadcrc; quonia gcniralia continua arrrcdatioprobifii
ne,motioncq. incalcfccria fpiritu cocipiunt, ficq. cociidi cupiditas
inducitunfiquidc Hipp.dcplacida,&:nimisfrcquctiloquirur,vtpo te q lcni motu
no ita calcfaciar, &: pcndctcs coxas,arq. pcdcs oblac tlattAriftotclcs ucro
dc ca,q cquo ccleritcr gradicre,&: inrcrdu fuccuflTanrc^fcd
noadmodutrcqucrcr cxerccrurjUcrbafacirjUnde particula(afliduc)qua larini
intcrprcrcs apponut,cu in Gracco Arif.co dice no inucniatur aufcrcda planc
erir.Hacc erenim equirando faU69 cita. io dctcrior cJi, nimirumquacuniucrfiim
corpusmoldlc quaflcr, &dolorcscxcircr,auiZcarq. Sicut in Niprns
illcfapictiirunus Gracciacfauciusintclligcbat,ubi diccrct. Tedetcntim ite, ^
lcddto vijh nefucceffn Cic. 2. Quo itcm Lucilius pocta antiquusinnuit,dum cquum
fuccufllmtcmtactrum nuncupauirhoc ucrfu. Noaius SuL i ii[iatorii t.ie:ri,
tariiq, c tballt .Ad hacc fuccuirationcuchcmcntcr caputoflrcndcrc,coI!um,&:
dor fum,&: narcSjCxpcriunturilli, qui aliquadoin hunc modu cquitarc
cbguntur. Dcniqucli vlla cflcquita:io,quac uifccrapraccipuc( id. Q n.farcrur
Ga!c.)agirarc apra iit, proculdubio nfic propofita ralrs cft, ijtu.yi. aqua
nofolu intcriora omnia concuti,ucrum criafiifpcndi,qua/iq.cA?-»'» arripi
uidcntur.illud unuhabcrciuuamcporcll, ur cibis,atc]Lc cru dis humoribus
concoqucndis,aIuoq. cicndac,ac vrinac prolicic4idacnccno a rcnu(q J Auiccnnac
placuit)loco lapillis arquc arenu ^.^ lis ad infcnora dcduccclis adiuuarc
qucat.Scd,quonja maicribus riamnis comoda hacc c6pcnlantur,ocs ab
cxcrcirationclimili ablli cip.vk. ncant cofulo.ln aflurconibus cquirario(ca4n
lic appcIIo,quam uulgari nominc portanru,aut trainauocant Itali,&: dcqua
itaMartia. Hic breuis ad nioncrHm rjpidos qui coUigit unones j^-^^^ yenit db
aunleris gcnt bns aHnr cqu^^s ) qucmadmodummagis corpus, &:mcmbra gradarij
cquiucctionc cxcrcct,ita mmorcm molcltiam parir, liquidcm mollis illaalrcrno
cruru cxplicaru glomcrario minimum larigat,pcculiantcrq. aluum citarc ufu probatur
. Dc cquitatiqnc i;urrcntibus cquis(;i(tta,licct V 4 ' apud Arift.icgatur, ita
cquitantcs, quod magis caueant,mlnus caD In hb. dc dercjtamen eam improbarc
uidctur Galcnus hac rationcquia fæl«c indo . pe contingit cquitantes in terram
deciderc,& nonnumquam ex ca fu emori*fed præter hanc multæ exftant caudæ
aliac>ob quas a fa nicatis ftudiofis huiufmodi cquiratio omni diligentia
euitaridea ^dixta corpus(vtfcribit Hippo.)nimium calcfacir^exficcat^atquc *
extenuat,ob id ad minuendam carnis multitudincm a Coelio Auli. T.c.vir. reliano
probara, caput male afficit, fcnfus hebctat, oculos non pa* Sca. ^pb.
nmioflcndit:quandoquidcm Ariftor. cauflam indagans, cur, qui cquo uehunrur, quo
longius equus dccurrcrit, co magis cmitrcrc lacrymasfolcnr, fignificaridco illud
eucnirc,ucl quoniam morus calcfacics valde humorcs oculorum eliquat,&:
lacrymas indc cict, ucl quiaficutiuentiaducrfi oculos pcrrurbanr, fic
acroccurfans tanromagisfcrircporcft,quanro cquus uclociiis agitatur.Iacdit E
practcrcahacc equiratiotam thoraccm,&pulmonem,quam uifcc rauniucrfa. Quod
criam rencs maximo dctrimcnto afficiantur, fidcm Hiccrc poflunr multi, quorum
alij vrinac ardore,aIij lapillis, alij vlccribus modo rcnum, modo vcficac, modo
pcritonaci vfquc ndcoob hanc excrcirarioncm follicitaii fuerunt,ut
fereijsaffcctioni bus mortcm obicrintrnc dicam quor luxarioncs, quor ofiium
fra^T:urac,quor mcmbrorum diftorfioncs facpcnumcro indcnafcanrur,dum
brachia,dorfum,coxac, et crura fupra modum laborant . Vidcant igiturquos
currcnribus jatquc mutaris cquisitinera fua obirc dclc(ftar,quot,ijsci.
gnuifiimispcriculis^ncdum ualcrudine, ucium eriam falurem ipfam fubijciant,
quomodoc]. non ingenuorum,autfanirarcm curanriumac uiram,(cdpotiuspcrditorum
hominum,athlcrarum,nihiIq. uitam,qua nobiscarius,aut optatius nil rcpcritur,acftimantium
opus cxcrccant. Hadcnus de cquilaiionis fpccicbus, quarum nullam ægrotanribus
admodum confcrrcfcripfcrunr Antyllus, arquc Ærius, quasq.necijs, quimcdicinam
fumpfcrunr, uUo padto congrucrc mcmoriac tradidit Solodscltat. i-;inus Ephefius,
ncquc illis, qui rcnum morbis malc afticiuntur, cap.^i^!^' ucl carum
inflanuTiation conucnirc ccnfuit Galcnus. 6,cy\d! Sunt qui in equo fedcntes
gcftari dclcdcntur, quac cxcrcitatio paTlll rummalcualcntibus ufui cflc mea
fcnrcnriaporcft, nam,utmolliflimc ucharis, tamcn laflfirudo inguinum,
Iumborumq.&: durafufpcnfio,cxpIicarioq. percipirur, quando fubpcdancis
corpus fijftentare,pcrarduum eft, ne dicam nnpoflibilc. acccclit &:mala,ac
dolorificailla concuftio,fiquomodoincitatiusfcraris. Vaknabus m^igis 4onkrrc
eadcm porcft, corpus, animum, &c ftomachu^i S S. 2«5 A chum hrmandorfenfus
cxpurgando,acucndoq. fcd pcftus.tirquc pc dcsdcbilirar. DegeSldtiontim
inHnitierJimnjinbus. Qaf. 1 X. j NTEQV AM gcftationu fcrmoncm aggrcdiamur,
illud prius adnotandu lcvfloribus uolumus, nos minimc ignorarc, multos
cquitationcm inrcr gcftarionis fpccics rc-, intcr quos fuit Actius Amidcnus ;
fcd ncqualiu.j.c. ir. quamhorumopinionemfcquiuoluiflc; tum quia Cornchus CcL
antiquus fimul, &: cclebris au(flor, ubi gcftarionis fpccics adima^crauit,
nc ucrbum quidcm dc cquitationc faccrc uoluit, qua(i alica gcllationc
iudicaucrit, id quod nmltos ahos opinaros fuifle conijcitur cx Antyllo ; t um
quia cxprcflc Gal.gclLitioncm, 6c cqui tationc diucrfas cflc dcclarauit in 2.de
tu.val.ubi ahas cxcrcitationcsanobisficri tradiditiahas ab cxrrinfcco, ut
gcftationcs:ahas mixtasclfc, quahs cquiratio cfl ; tum quia, (i gc(titio, ur
dcfiniunt omncsauLlorcs,mixta cft cx motu,&: quictc, phiribus corporis
partibusnonmoucri^ apparcntibus^uniucrfo autcm corporc alalionc moto, hacc
condicio ab cquirationc longc abcftjn qua fcihcctmanifclhrtimcomncs fcrc
corporis partcs moucri confpiciuntur.fcd ifla parum rcfcrunt, quando criam
Antyhus, atquc Actius fcparatim dc cquitationc ipfa ucrba fcccrunr.Hanc inquam gcftationcm
ab cquirarionc fcpararam,nccnonagraccis4/»f^ uocatam, mulras quid-jm habuiiic
fpccics, in fupcrioribus dcclarauiQ mus: at quacomnibusuniucrfah
gcftarionisnominc comprehcnfis facuharcs attribuunrur, pr.us cxplicabuntur,
dcmum parricularcscftcsftus finguhi adlcripros pcrfcqucmur, fcd prius id
ignorari nolo,facpcnumcro apud auclorcs rcpcriri gcflationcs, &:
cxcrcitationcslimul nominaras,quafi utracqucinrcr fc difrcranr,quorufcatctiæ dc
cxcrcitationibus proprijs,quac vchcmcntiorcs morus gcftationibus cxiifhmt, non
autcm dc communircr acccptis inrcrprcrandæ fcmpcr crunt. hlt igirur geftario
fccundum Antyhi, Actij, atquc Auicjcnrcntiam,inrcrplacidiffimas,atquc dcbilcs
cxcrciralocrsciti. tionc5,&: proptcrca non folum fanis, &c
ualcrudinaijs, ucrum criam 16gis,ac inciinatis morbis,&: dcniquc ijs,
quibus lenrac morboruin rchquiæ rcmanenr,ncc alircr cliduntur,acc6modatac funr.
In acu toru nonnuUiSjUt ab Aretaco in Lcchargicis, ncphriticis probatur.
quinimmo tradit Cclfus Afclepiadc ctiam in reccnti, uchcmcnriq. locodj^t, fcbrc
>praccipucq. ardcntc ad difcuticndam cam gcftationis ufum comprobaflc. qiiod
prof cclo pcriciilofc cfficitur, mcliusq. quicte elufmodi impctusfuftinctur.
Infanisctcnim,ac ualctudinariisgcftatiOjCumnccIafTirudincm corporibus ingcncrct,immo
caferc magnis cxcrcitationibus /imilitcr moucat, poreft calorcmnaturalcm
augcrc,matcriac multitudincm difcutcrchabitum corporis fir
marc,actionesrtupidasexcitare,fcgniticm di(ToIucrc,corporis turbationcm
fcdarc,ijs,quos uigiliac cxcrccnt, fomnum conciliarc,& contra ctia
vctcrnolis,ac diflolutis rcdimm adfc, vigiliasq.pararc* nam fomnum conciliat,
cxcremcnta, quac a capitc ad ftomachu«i delabuntur,pcr halitum digcrcndo, quac
nhiiirum parrcsfunt uigi liarum praccipuac cauflac : fcd vigilias poftca inducit
corporis tcnorcmadfcrcuocando,&:corroborado.&:, quamgua Scnccacpift. L
V l.vidcatur gcftationcm faccrc magis hiboriof;mi,quam ambulationcm;ciustamcn
oratio intcrprc tanda cft dc co folo, qui ualctudincoftcnfusab omnibusfcrc
turbarur. In quibusmorbis dcgC^ ftationcpcriculumfaccrcpIaccbit,fic cxpcriundum
cfsc confuluit lo^o cita. Cclfus,{ilingua non crit afpcra,finuIlustumor,nulla
duritics,nuU tolus dolor uifccribus, aut capiti, aurpraccordijs
fubcrit,&:cx toto numquam geftari corpus dolcns uoluit, fiuc id in
toto,(iuc in partecftjnifi tamcn lolis ncruis dolcntibus; ncquc umquam in
rcccnti fcbrcfcd in rcmillionc eius.Nihilominus,citra multasobfcruatio
ncs,abaucloribus probatasenc inuarijs affcftionibus gcftationcs
rcpcrirur.Coclius Aurcl.in libris, quos dc morbis diururnis infcri pfir,cas in
incubonc(quo morbo plurimos Romac quali cx cotagio nc quadam aliquando
pcrijirc, rcfcrt Silimachus Hippo. fcdhitor)
commcdauir,fimilitcr&:inuocisamputationc, inhacmoproicis,in
quibuscandcmdamnauirAfclcpiadeSjinafthmatCjin ftomachicis, in clcphantiafi,in
colicis,in arthriditc. Thcodorus Prifcianus quoquc, &:antcipfum
ArctacusgcftationcsadhibcndasuoluitinmeanchoIia,inatrophia,
infplcncricis,necnon in ftomachi doloribus.lifdcm cxcrcitationibus in illis,qui
valdc cxficcati funt,arq. re7.Mcth. fcdioncopus habcnr,Galcnum
vfum,aIiquandolcgirur.Quin &:ip fcmctCcIfusprofacroigne curando gcftationem
laudauir, utnoit fempcr condicioncs ab ipfo dcmonftraras obfcruatu ncccflarias
fo re hifce auAoriratibus conuinccrc ualcamus.Non cft tamcn igno* rb % cur
randum>magnopcrc rcfcrrcquonam in loco quis gcftationi bus vtd ciiron.c.7
tur. quod Arctacus cocliacorum cxcrcitntioncs dcmonftransv eim
cætcritpractulit, quac inrcr Iauros,myrtos,arque thymunref ficitur. Dc
gejiationum inn/thiadoi USlicA^dtqut fellapaYtt^ cularibusymbus. X. Xplicatis
ijs,quac ab aii£toribus dc gcftationu flic^ltati* businvniuerfumtraditatucrunt,
iam ad parcicularcs dcfccndcrc opportunu cll,iiprius illud in mcmoriarc=w^
uocaucrimus, fcriptorcs.f.mcdicinac,qn finc additione gcflationis ulum in
fanis,atq, ualctudinarijs nominant,dc qualibcc cius fpccic intclliycrc : qni
nuUa fcrc inucnitur,quac ipfis utilitcr accomodari nopolluiquando ucroin
acgrotis loquutur,iiucrdum ocs,fcd in rcmiilionibus
morboru,intcrduplacidiorcsl]gnificarc, Vchiculoru multa fucrc apud maiorcs
nollros gcncra, quoru luxuria vfq.adco intcrdii Romac crcuit,ut,rcf'crcntc
Plinio,aurca,ac ar li.^^.cir B gctca taccrc nolintucriti.fcd hoc
practcrinftiiutunoftrucft.Nam, quac pro fanis,aut acgris in ufu habi ta funt a
mcdicis uchicula,alia ab anmialibus, mulis.f.autcquisagcbantur,aliaab
hominibus, U utraq. ucl tardmfculc,ucl cclcritcr.Gcllationc vchiculofa^taquis
cctcris acriorc clTc dixcrit Ccllus,njhilominus,fccundu Galcni fcn ii.i.c.i
tcntia,intcr dcbilcs cxcrcitationcsrcccnfcrimcrctur.quofit,utfa^^^j"
nis,ni(ialitcrcxcrccri impcdiantur,minimcomniucoucniat.Va!c^^d/iuci
rudinarijs,atq. fcnibus nugis, qucadmodu Antiochii fcfc cxcrcuiffc,&:
Cacciiiu Pliniuacccpimus: maximcucroægrotatibus, dcquibus fcrmonc facicns
Antyllus dixit,gcftationcm in uchiculo fadam uimquandaamolicdi,c6moucndiq.
morbosftabiIcs,&: pcrmancntcs habcrc.Qua proptcr Scncca cpilij 6.ad bilc
taucibus infixa di* fcuticnda,&:ad
fpintusdcnliratccxtcnuandafibimirificcprofuifTc C fcribir,qui, fi aliqui fimplici
permanenti, &: diuturna fcbre iadentur, tu i.cht. modo uircs fcrant,gcftari
pluhmum debet,ut Coelius phthificis co of/bSus fuIuit.quandoquidC
geftatio,minus mouens corpora,quandoq. febrcm magis cxcitat, Ergo in
fcbricitatibus,qui ad integritatc pcrueniunt, uel quorum longa admodum remiffio
eft, uel qui fcbribus tenentur longis, etiani fi non magna intcrualla habeant,
conuenit hæc gcftatio.quam fimiliter in multis alijs aficftibus, nempe in
dolore capitis;in cpilcpfia,fi fcrri qucar, in mania, in paralyfi a Coelio
Aurel. commcndari, ex eius dc chronicispaOionibus inkriptislibris clare
habctur. ut ctiam nos tuto, ubi rcs poftulat, fimilibus geftationibus
acgrotanrescxcrccrc valcamus, dum tamcn maturo morbo,atquc iam inclinantc illud
agarunalioqui, fi,adhuc fæuicn te,aut incipicnrc affc6tionc,gcftatio
adminiftrcrur,accidentia acer biora, &: pcriculofiora confcquunrur, quoniam
morus, ut diftiparc urilircr concodos humores,ac cxcrcmcnrorum rcliquias
potcft, fic Calorcm augcrc, fpirirusquc &: humorcs nondum quieros, &:
rcpurgarosexagirare natuscft* ex quo fummumftudium adhibendum cft,ne
crefcctibus crudisuc morbis, pracfcrtim calidis gcftario, aut
aliaquæuiscxcrcirarioadminiftrerur, fcd in narurisfolummodo, frigidis,atquc
illis, qui manfcfte inclinarc animaduertuntur. De leSit penjtlis ^ cunamm, ac
Hauis gefiationumfx^ cultatibus. (^ap. XL Vi primuslcaulos pcfilcsexcogitauit
Afclepiadcs,duabus rarionibus(utrcfcrt Plinius)illud cfrecifsc uifus eft; tum
ut blado eorum iadatu fomnos alliccrct : tum eria, urmorbosextenuarer.quibusrarionibus
addudipofteriorcsin curandis acgris corum ufum frcqucnriorem reddidcrunti totfo
cic. quamqua grauis auAor Cornclius Cel.cxcrcitationc hanc tantum modo
adminiftranda aliquado iudicauir,ubi ncq. nauis,ncq. ledicac,ncq.fclIaccopiadarur:liccrpoftcaJinapoplcxiacuægcrrefurgit,ipfum
Icai moru cocuricndu pracccpifsc inucniarur Vcrum.n. ucro AnryIlus,Actius,atq.
Coclius, ctia li nil aliud deficiat,^p multis
afrcdionib.dcbclhldis^lcaispcnfilibusinfirmos excrceri uoluerunt,quinimmo(quod paucis
coccdirur) hanc gcftarionc tam antc cibu^qua a cibo prodcfsc dixit Anryllus.na
pri mo fcbricitantcs,aut diuturno morbo dccubctcs, in quo corp.ora columpta
fefe crigere non ira valct, autEllcborufumcrcsatali gcftationcutilitatcrccipe
Ætms U. reiudicaru eft:dcindc in his,qui vircsa lcbrili aflrcdlioncrccolligere
incipiiir,nccn6 in lcthargicis,&: in appctctia ciboru dcicda candc prodcflc
cxpcrimctisinucntu fiiit.ncquc dcfucrut,q ipfam in furiolis,ac phthificis
laudaucrint . Qucmadmodu,&: Actius,&: Prifcia nus Thcodorus
phrcniticisadhibcdaccfucrunt, quo blada illaagi locomat, rationc fpirituu
pcrrurbatio lcnircrur,&: fomnus alliccrctur. Ex gcYmQ^i:^^^
nerepcfilislcclilcympodiu quoq. circ,m6lbauimus:&:iccircoubi a Coelio,arquc
alijs gcibtioncs I pcfili lcdo ^pbatas uidcrimus, idc ic dc hac i ntclligcrc
poterimus.Lcdtulo pclili non diflimilc alia 1 cilofaCta gcilationis (pccic
inucnio,quam primus(quod cgofciam) intcr mcdicos Cclfus monftrauir,vbi
dcficicnribus cacrcris gcihrio ni dicatisinllruincris, voluir vni pcdi lcdi
funiculucflcfubijcicdu, ^ arquc ita Icdu huc, &: illuc manu impcllcndu.id
quod criam Amydacnu Actium fignihcarc uoluiircarbitror,quand(j
fcriplir,duascfl^cocitac. fc lccti gcftationes, aut pendlcs, aut fulcra mobi
lia iuxta angularcs pcdcs habctis. Hoc cquidc illud cxcrcitationis gcnus
cxiftimo,qd^ ab Auic.fub cunaru rcuolurionc dcfcripru fuit,arquc idc nomcn uf
li.i.ren.j. quc ad rcpora noftra rctinuit: crli. n. ab ipfo inrcr dcbilcs
cxcrcirationes rcccfcat,dcmulccdisq. pucris potius cx Galcni fnla,n6 fanis, aut
infirmis cxcrcitadis aptu viilc.iturmihilominus ijs c6ucnirc cre dirur,quos
febrcs dcbilirarunr, licur ct illi,qui ncc duin fc moucre, nequc federc
valcr,quiq.ab hcllcbori potionc valde^pflrarifuerut, aut fccundu Cclfum
alicuius mcbri rcfolutionc patiutur.quin,fi talisgcfbtiofuauircr
adminiilrcrur,prcr fomni iucudiratcqaffcrt, fla Q tus quoq.
difl"oluit,rcliquijsmorboru capiris,vcluri (hipori,&: obliuioni
prorfus cxflingucdis,c6ducit,appctitri mouct,&: naruram fopi tæxfufcitat.Auic.i.4.trac.2.c.i5.ad
c6pcfccdum niiniij iudorcpci pit,ut acgri ponarur fupcr illud inilrumcntri,quo
pucri,vcl iuucncs foict in acrc cocuti, atque ita in acrc frigido c6cuti,q J
quidc puro eflc genusillud inflrumcri,cuiusfadacflmcriofuprali,^fub Ofccl laru
nominc. Inrcr gcftarionum fpccics vlrimo loco pofucruiu fcrc ocsnauigationc,cj;
cacrcraru omniu Icni/lima fccir C:orn.Ccl.fcd.&: Jq^^ huius
quaplurimainucniuntur difcrimina:fiquidcn6parri interclt, anquisin llagno,anin
flumincan in mari nauc gcratur: &: in nuri, an in portu,an in litorc,an in
alto,an turbato,an tranquillo . Nauigatio fadtain
ftagnis,lacubus,autpaludibuscactcris in falubritatc poftponiturquonia ut
plurimum cx aquis ftagnantibus,nifi fint maris alicuius inlhir,purridi vaporcs
clcuarur,qui acrc inficicrcs nauigationc magis fufpcdam rcddunt, Tt non
immcritofcriprum lit ab ^ Anlt, ioi ;pirt;c. Arift.paluftrla loca incolcntcs
fubpallidos, ac fomnolcntiom cua D probleiti. dcre.minus noxia cxfittit io
fluminibus nauigatio, nempe q au^torc in probh PJ^^i^^ho timoribus carcns
naufcam ullo pafto non commoueat. wt. uerumtamcn ta hacc,^; illa,quac cxercetur
in ftagnis,in capite ma* lib.i. C.I, le affcfto incogruac a Cocl.Aurel.iu
dicatur, g> humcdantcs caput tcrrcnæxhalationeinfrigidant.Duabuspracdiciis
maritimanaui gatio valde pracftatior crcdif,quonia mari fcmpcr uaporcs ficci,
Sc calidi educuntur,qui Iatcnter,ac fenfim nauigantiu corpora
rccludunt,necn6falfæproprietatiscaunacxcrcmctaabfumut,atquc ho minu habitus
quada facili muratione reficiut,&: i ccirco huiufcemo di
excrcitatioincun6tisferc morbishumidis,ac frigidisamedicis
probaf,&:priuatim a Celfoin tufliomni,aCoelioac Arctæoindo lorc capitis,!
cpilcpfia,fi ferri quc it,in fanguinis fputo,in phthifi, in kl:critia,in
hydropifi a Tralliano in frigida vctriculi intcmpcrie coE
medatur.Inphthifinamquc praoftantifiimuremcdiumnauigatione Ii.28.c.4
fcmperaMaioribus habita tui(le,tcrtatusfuiiPiinius,quihac ratiolib.3i.c.6 nc
phthificos Acgyptupctcre cofucuiffercfcrt, quo cuni Annæus crplV/.'^' Gallio
poft cofulatu lam fcre phthificus, &: ZofimusPIini js nepotis
libcrtusfiuiguinis rcicftatione laboras profcdli c{renr,ad fanitatc rc
ftitutifucrunt:qqbarbarusilleau6tor Plinij Sccundinomincfalfo infcriptus h.dc
rc mcdica lib. dicatphthilicismagis cofcrreinfal tibus,vbi
pixnafcitur,habitarc,q in marinauigari.Porrocx
maritimisnauigationibusIcnifiimadixitCelfuscam,quæinportu efficitur ^q tamcnin
capitisaftcctionibus una cuflLiuiali,&: (tagnali improbauit Aurclianus.
Quac uero in litoribuscxcrccrur nauigatio iucundifiima habctur,dcquacclcbratuhoc
proucrbiQ narratPlui.Sympo. tar,
7rAoOsiJilvi7rctso!yuvy7a%gi7rxTogitis,oculoru,pcdo ris,&: denique
omnibus,jpptcr quac bibitur cllcboru,mcdctur. Vc rum gcftatioin alto mari
pcrada rcliquaru uchcmentifiimacxfiftit, &: mutationcsplurimas, atq.
maximasfacit,nimirum, cum animus mixtos affedus habcat,&: triftitia,&:
/pc,timorc,atquc periculoano do gaudcntibus,&: lactis,modo in
anguftijs,&: pcriculis ucrsatibus, lib.^ cau. nauigatibus,quac fimul omnia
magna uim habcnt,vt quoq. Plutar. cognouirjngentcs uomirusconciMndi,ac
confcquenteromnc vetcrcm morbum prof ligidi : &: proindc iurc dixit
Auic.nauigationc hanc adcxllingucndas pracdictas acgritudincs cfficaciorcm
cflc. quin&mixrioilla motus,&:quictis, quapracdita cft,fiquid aliud, probc
corpus nutrirc idonca cil.Quac tranquillo mari pcragiturin nauigcftatio
nonadmodii(diccbat Antyllus)magnam rurbarionc,Oribafiw ncquc coculfioncm
atTcrtrcx quo Kr,urt*crmcacc6modata (it ijs,qui-^*^'^'*^ bus ctiam gcftatio in
cui ri bus c6ucnir:ni(i 9 hoc nugis habct, iti purgato acrc,ubi n6humidi
uaporcs,fcd ficci,6 halitii euocarcfirmarccalefaccrc attcnuarchomuu mq. tandcm
niuriæ minus obnoxiu faccrc p6t:a Plinio fcriptii cft kixata homi^
nucorpora,& quadrupedunatado in cuiuflibctgencris aquafaciU rmciL«sredux^NatatiocaUdæmoiIircindurata,c;to^^
ios A fngcnta crcdlra cft.&ob id a CocHo Aur.in curadis
arrhrlricisconicndaca,ab Actio cx uiciitc Gal. in i)s,qui cutcm corporis
dcnfLita liabcnt^at abca'caputoiTcndi,uircs(]Uodapattocncruari,ncmo ncgarct :
alio ctia non carerc uirio dixit Coclius.uidclicct Inimorcs lundcrcncc ipfos
rcfolucrc. Fri^ida ^ intns calorcnariiium rcpc!- Icnsiplitm ualidiorcm cfli
iatciborumoprimam,iS^cita cocodio- ncmpracltat: cxubcranrcs humorcsdilHp.it, et
intus rcfrigcratas parccscalctacit. undc iurcctia ipf-im in
arthritici.slandauit Aure- lianus car.itionc mo:us,oua Hippoc. frii;idam rc
ranoaflfcaislargc artuiam rcmcdium cfTc rcgio morbo labo-
rantib^sinacftatc,(S(: Hcrodutusapud Actium ad euitandumacftu frigidam
natationcfn commcndauit. cxpcricnria ramen confl:at,(i quis ca frcqucntcr
utarur ncruos lacdi, 6c inrcrdum furdirarcm c6- B trahi, quod Agarhinus apud
Oribadum confclTus cft . Atquchacc omnia a nobis dida accipianrur dc illis
narationibus,quac ad gym nallicam quidcm mcdicapcrrincbanr,fcd m inimcfcmpcr in
i^viti- nafijs cxcrccbantur.illac ucro, quas in gymnalijs iplis ficri confuc-
uiffcin 3, lib. probauimus, (iuc in pifcinis, (iucin ampIilHmislabris
agcrcnrur, duos praccipuos fincs fccundum opiniorcm noftram ha bucrunr,alrcrum
ut motuillo blando^quo narantcsagitatur,aqua magis corpora pcrmcarcr, licq.
mcmbra copiolius huincC"tarcnrur: alrerumutmaiorcuoluptatcin
moucndofcfcfrucrcnturquando- quidcm aqua mota, pracfcrtim balncorum fuaui illa
artrcdatio- nc fingularcm quandam dclcctationcm artcrt.Dc pifcatoria cxcrci
tationc,quam diximus cx Platonis fcntcntia ncc animo,ncc corpo- Ii.jTm^ ri
prodcflc, &: proindc ab illo optari, nc iuucncs huic incumbanr, Q pauca
ucrba faciam, tum quia fcrc fub nauigationcm rcducirur, ut cadcm rcpctcrc non
lit opus : rum quia a mcdicis propc nullis cam tnufu habitacflc coftarnificf
Auic.intcrdcbilcscxorcitationesad-^^^® ^*"- numcrauir, quando quis in
nauicula pifcaroria moucarnr,&:ob hoc g pi fcationc nullam calorc natiuu
augcrc crcdcndu clt,cum &: Arifl. pr^ob.x! * icrip(crit,pifcatorcs
marinos,idco rufo colorc cxillcrc,quoniam in- tus frigcnf,cxrra
ucroquafiadururur:habcnr.n.qui in maripifcan- turhanc praccipuam c6moditatc,q»
coru corporaualdccxiccatur, &c proptcrca minimcomniucorruptionibu.s/ubijciutur:
quin fipu- trcdo aliqua intus larear,protinus cxugitur, cofumiturq. ut magna cu
rationc fcripfcrit Gal. pifcatoru habirus duros, ac ficcos cflt, co- i-dc dmp
rumquc vlccrapcrindc cxiccata cotinuo apparcrc,ac /ifilitaforcr.
"'^"^^*^- i}upd ucro (cripfit Sucr.Auguftij intcrduhamo pifcari
confucuiflb,mcj^. r7' id poti' animi laxadi caufa, qua ualctudinis gratia ab co
a^cbatur X 2 nc De yenaiiomr conditionibus. Cap. xni. D libro i.dc paruæ pi tæ
ludo. .ENATIONIS cxercitationcm comparansludopariiæ pilac Gal. illudfoliiminteripfasdifcrimenpofiiifse
ui- dctur,9 altcr modico apparatu indigerct, et ob id cuius ^
excrcitatufaciliscfsct:a!tcra vcropluribusinftrumentis opus haberer,neq. ab
omnib.fcd ab ingcnuis dumtaxat,atque diui- tibus cxcrccri poffct.hoc aiit hcct
Galcni forfan tcpcftarcatque ct in ahqua ucnationis fpecic tcporib» noftris
ucru forct,nihilominus in maiore cius partc fccus rc fcfc habcrc compcrru cft,
qn facpenu- mcrounOjUciduobuscanib.aurpauUo plurib. inftrumcntisrufti- cos,
atq.paupcrcsucnadicxcrcirationcfrcqucrarcconfpicimus.ut hac rarionc ipfa
minores laudcs pilac ludo n6-mercarur,neque pau \fT^^' eicrib.ucrbis cius
facultarcs a nobis cxphcari dcbcant.Cum.n.Gal. ^^^' '
ucnationcintcrca,quæipfecxcrcirationcs&:opcranuncupauit, rcccnfucritxumq.
illiuspcrfpcaanaruramanifefte monftret,n6ab. fque uchcmcntia,magnitudine,arquc
celeritate ipsa cffici,nimiru in qua mulrac ahæ cxercitationes,curfus uidchcet,
ambularioncs, fahus,iaculatio,uocifcrario,& aliæ ncccflario rcquirantur,
rationi confcqucns cft cam his faculrarib.pracdira cflc, g> corpora uchcme
tcr calcfaciar,cxcremcra dirtipcr,carncs,&: fuccos exubcrnanrcs mi
nuar,fomnosprofundosgcncrer,&:proinde concoqucdis
cibis,crudisuc.humonb.magnoperc conferar:quodq. ait Xcnophon,auditu ac vifum
acuat,fimulq. fenedutc rctardcr.ob quas cgrcgias faculta tcs illud cflc ucrum
cxiltimarc dcbcmus,cf Razes Arabs audor gra In vcon. uiffimus cx Gal.fcntctia
memoriac mandauit,uidcHcet in quadam ^ tin. irac/ pcftc contigi flc,ut omncs
fcrc pcricrint,&: foli ucnatores o b afliidua Li '5^^*
cxcrcitatroncincolumcs cuafcrint.Caetcrum quoduchemcnribus *' ^ excrcirationi
bus a mcdicis attributum repcrirur,neque Tcnancii la- bor carcre viderur, vt
fcilicer caput offcndcndi ui poUcat maximc, fi importunc cfficiatur,quemadmodum
in 4. dc acutoru vi£lu apud illum audtorcm lcgitur. Quantum ucro ad
parricularium ucnatio- nisfpccicrum qualirarcs arrinet,de
duabusfoluucrbafaciam,tam- quam i n his folis rora ucnadi ad fanitatcviut
acgritudinc pertmens faculras confiftatiillae funt,cc|ucftris,ac pcdcftrismam
fciut omncs, qualibct ucnarionc,fiuc canibus, fiuc rctib. fiuc auib.fiue
arcubus, fiiic ali js inftrumcnris excrccatur,ab hominibus agi, cpi aut pcdib.
proprijs cant,aut cquisinfideant.Equeftrcm igitur(italiccar mihi appcU
irc)vcnarionecxcrcctcs,cum modo currcntib. equis,modo radicntiL>.agant,modo
uocifcrarc,modo quiefcere cogantur^omnib. cpil njb. partlb.labonre
uidcrur,&: iccirco multi hac exerciratione crc didcruntcorroboraripeftiis,
ftomachum,inrcftina,dorrum,atc]ue crura: cgo vcro ca cuirarc iUis praccipio,
quibus capur facil.tcr of- lcnditur : quibus fradionis ucnarum in pcdorc
pcriculu immincr, quibus lapilli in rcnibus aggrcganrur,quibuspcritonacum
dcbi'e, aut uUahcrniac fufpiciocft, i4id tc frcna iuuant temcrana f Jacpius
illis Trifcedatum ef} cquitcm rumpere, quam Uporem. Porro vcnario pcdcftris
cadcm fcrc c6moda, 3i: incomoda in cqueftri repcrra contincr, nifi s», dum
curfibus, ac faltib. fcras inicdatur uenator,per montes,per uallcs, pcr deuia,
pcr filuas, pcr filtus, minori cerrc pcriculo, quam in cqucftri, fubijcirur :
ar maiori labore Q afficirur,magis incalclcir, magis pcdes, &: crura
corroborar :pracrcr haec lihidinis ftimuIos,cocrcct, quando Hippo!\ tum
ftudiouirgiSencca m nitatis hoc ucnarionis gcnus cxercuiflcfcrunr.Excirar quoq.
ucna"^S^* tio appetirum,(icur coquus illc Dionj lio dapcsaucrfanti
rcfpodir, ipfidcfuinl' laborcmin iicnatu, qui appctirum gcncraficr. Ncurra
tamen,g» uchcmcnrior cxfiftar,lcnibus,aur dcbilibusaccomodata inucnirur,
fcdillis ranrum,qui robuftasomncscorporispartcsfortiti finr,quiq.oprimc
ualcar.urnon abfquc iudiciofuramoCorncl. u. i.c i. Ccl. dixcrir,fanum hominc,
lic bcncualcnrc modo nauigarc, modo cpiihiib. > ucnari dcbcrc . quod li
Plinius ncpos fanitarcfuam uenarioni, qua ruri in Tufcis objbar,aliquandoacccptani
rcruiifsc uidcrur,iudicandum eft, aur iJla modcraiilTimc
ufumfujfsc,autporiuscorporc robulto,ac fano ita ualuifsc,ur nullo padlo a tanti
laboris uchcmcntialacdcrerur.Eritiraq. ommb.hanc cxercitationcmmirc cupicntibus
tibus duo neceffanum diligentcr confiderare, prlmum an corporis D roborc
polleant,inculpataq.fanitate fruantur:fecus,ne grauiflima
t3ericulafuftineant,iuredubitandumuidetunfccundum,numquid modcftia quadam,&
iucunditate, aut potius citra dcleaumuUu, 8c cafuquodam,ut plcrumquc
fit,vcnationi opcranauct.Qaicuquc.n. fuarum uirium, aeris, temporis,
quantitatis, loci, &c modi rationem aliquam habere uolimt, multa profcao
corum malorum uitarc poffunt, quibus cctcri cafu fcfe excrcentcs fubijc.untur :
eo magts. quod u^natio Ulud praecipuum in fc habct, quod nulla aha cxcra
?atioineummodumobtimufl-eapparct, utfc.hcct totum fcrcd e nonrarof.birequirat.
vnde aut vcnatorcs mter excrcendum cibum capcre, &c a cibo magnos laborcs
aggrcd. coguntur, quo ualctudini nihil pcrniciof.us effc poteft ; aut tota d.eic.unant,
quod tamctfi fortafleminusoiTcndat, ncquc tamcn ipfum noxapenitus b
circt,quando practer confuctudincm illud efficitur.nccnopoftca ufquc adco prac
fo.nccxfaturantur, ut uentriculum concoqucndo mirum in ./odum fatigcnt, f.cquc
&c cruditates, &c aha mnumcra malafubcant. Artis Gymnafticæ finis. fcx
artis Gymnaftica:Jibroriim clcnchus, cjuorum primus libcr continct . r: E prwc
pijs Mcdicina. Capiit prifnum, \ De t Ofi/eruatiua Vartihus, et (jtiid
tr.iBjfuiuni . Cilp. X. ^t}dfitgyr)ifia§U(a (^r.otiipUx. f.3. Dt ^ymrajttcx
ftbu^o, et tius laHdibi*s cap 4, SiHr ttmpore,et quo pa^o caperit CymnaHica
c^P*')' Dc Cyn:n.iS 'S annqui rum cap. 6. Dc V. 1 Ps hiniinum j^t nerilus y qux
in gyn.na/iaconurnicb^nt ^^P^J* De^yfnnalioTHdiucrfis partlbus. f.8. DepuU^ra,
et alVjS gymnasi» part.bus cjp.^. Dc h^b eis ^ymnafiorum, atque etiam dejiadto
cap. 10. De accuf iius in ccma antiquori m, CT Itmd dimtnxjt in die cpundi cor^
fuc'udinii origine De au^oribus gymnaflicjt, fjr ^ymna" ftorum mth:fiiis
cap.li. De t*ium ^^yvihuflicdt ffefie*urn d.jfi' tcniui.beUicaJtji^iuma fiue
mediia^ CT vitiofa feu athlt tica cap. 1 3 Dc vitiola gymf.aslica, ftue
^thlctnacaf.l^. Dc riuendi ^thlctarum ratione Qf^id fit excrcitatiQ,Cf q^o
differat ^ a Ubore,& r/iottt. cap. l. Dt vyonMitic^ mcdi^je dhificne cap.i.
Defaltatoria car.]. Defphxnflica c^p.^. De piU ludo fccundum l^thos dp.y
GymnafticA, De orchifiica, fiue ttrtia faltatottapar te cap,6. Dt
finefaltationisy C^ de loco cap.j. DeluSatoria cap.9. De pugilatu,&
Tancratio, et Caiiibus cap.^. DcLurfis cap.io. Dc faltu cap.11. Dc difcOy&
halteribus cap. i De lAcuiatione. cap.i^, {TirS. Dt agendis, et dc rationc
prufentis trati^tionis cap.i. De drary.bulatione cap.2. ^ncrcclum slate fit
exercitatio cap, ^, Dc pu^narhmgeueribus cap.j^ De nofinuliis a.tjs
e.xtrcitationum ipe^ citbits cap,^. De Ipiritus cohibitione cap,6. De
vociftratiot.c, et alijs vocis cxerci'* tatioribus cap,j. De Cric ljj:a,
Trocljo, et Vilamailco cap.S. Dc eqmta tione cap.g^ De curruii vcctatione cap,
i o# Dcgffiatio^'C in ititica,& flla . c,i i. De agjtatn nc per ia tos
ptnfilcs, C^ per cunxs facta,^de sciv.podio. ca.tt. De nauigationc,&
pifcationc. cap. i j . Dc natatione cap. 1 4. Dcvcnatione capij» D LIBE !{
Qr^riTffs. E rationc agrndorum, et deexer* iUaiionis vfu cap.t, r €on*
Confutatio opiniows eoritm, qui exeni^ tationem in fanis damnabant; et de
exercendi necelfitate^ atquc commo^ ditate ^ cap»2, Jmprobatio eorum quiomnes
homines cxerceri debere ftntiehant cap. 3 • J{edarguuntur qui affuetos folum
exerceri voUbant cap.^ De exercitationum differentijs ctrp. 5 . De corpdrum
morborum, et fanuatis generibus cap.6. ^n corpora agra vllo paUo exemrt co
ueniat cap.j. Decorporibus valetudinarijst&fenili' hus exercendis cap.S.
T>e corporibus fanisexercendis cap.c). De locis in quibus excrcitationes
fieri debent cap.io. De tempore cxercitationibus apio, cap. 11 Qumta fieri
debet excrcitatio cap,\ 2. Demodoexercendi cap.12* DEordineagendorum y &de
nonnullis fcitu dignis cap. i. De ftngularum exercitationis differen' tiarum
effcciibus cap>2. De faltaiorui: effcHibus cap. l . De ludorum pilx
cjfeBibus cap.^. De luH^ commoditatibus,& incommo' ditatibtts cap.^.
Depu^ilatus,Vancratij^& Cafluum fa cultatibHs cap.6. Dc curfus natura ^^pl'
Quid praflet faltus ' cap.i» De halterum conditionibus cap.pta Abrnhi vt Dc* jb
Aicx. Sc fo cbjtur lii d Aiaci;nua Pljtonisi».c Av nbitus con.uttudn
viidcnunant 5 3 b AvCubitUN viroi u fomw S > et dcmccps Accombcnimm numcrus
quis tflci. 54.oribus palam cxjhjhcbaniurA qiia dc cauf» I c Ac^yptus, Homcro
aatorc,mu!ta$ hcrbjs ic mcdicjmcntj habuit » b Actcct rxiri'.rcs.uscorp^iri
.iccidcntib.6. f Ac:as i cxcrcitationc cit c6;idcradj i ' i.t.
Asbii^dcscrrauii.rifum dicca$nct)i o po ri,ncqucanim" prodcfTc. i.b.i«8 d
AKoniiTjrib-. Ab-ti crant vna faCtto Rcmana i6d c Aldus M inuii* luncnis
cruditiflim». . 7« d Alcx ndcrScuc. us Impcrat. cxcrcitjtionis Ciula aliquando
pirc-b.uur 181. ciuos Dcos colcrci 1 iii d ad maiorum cmgics facrafacicbac
'b.d. Akxandri Scucri Imp cxcrcitia port lcctio ncsquxfucrint . 1 ^ (>Jtm balnca
viro rum JcmulicrumicHrauit jo.d Alcxan.Sci«cri.s Impcr fcrc fcmpcr frigida
Ijuaiioncvicbatur,rurocalida jy c Alcxan-Scucrus Impnoluit mijcnuos
cur(ucxcrccri AlcxandtrScucrusImpcrat. ncmora pub. ihcrmisiunxit ^^^l Alcxandcr
S.ucru^ Imp.qiu viAns rarmnc 1. jfDpndio auihorc, vccrctur 2 1 Alcxandcr
Maccdonum Rcxqnid ante cibi (un^pticncm agcrct . C A k x.mdcr prop' cr cruris
vul nus lcdica m mtlitari txpc»mionc vtcbatut 197-^ Alipiiu^ in gy mnalTjs quis
circt,& quid •^gc rtt io fjtta, anibulationi m portKU fjdx a Ccllo przfcnur
16 ^.a Ambuijuo lubdiahsinuitas habcc fpccies ibidcm Anibul..tio fub Solc, vcl
in vmbra faAa ab authoribus Jiucrh^ diucrnmodc acccipitur ibid. Amoubtio fub
Solc minus Ijrdit, quam fta tio,& qua dc cjula cx Ariliot. fcntcncu 266f.i7l.J.
17*.C AmbuUuo m vmbrj Tafta, quxnam fitboaa ibi. Ainbu?atio pcr jrboics rorc
fufFufjs fafta Icprjti* fjciic inducit,& cur 167.2 AnibuIat:o
cpiIcptiCiS,& vcrtiginofis conuc nicnsquarfit ifj.i» A.itbuljdo antccibum
ficri dcbct, et qua dc cjufa ibid. Ambuljtio pcft n.i qb conucniat. i67-C
Ambulationis matutina;,& vcrpcrtinac cifc Aust]ui(int ibid. A-niciis
Bibriciorum Rcx ccftu claruit, 8C fuit a Polliicc intcrfcftiis iio. f Ammon
apud Ouuccltu vahiic ii/.a Andrc.Ts B iuiius vir multar dodtrinar. 34 Andr
Pjlljdius Architc pcrii (Ti iius. 19 C Ani;iiiJ Ijborjntcs lin^a cffngunt. 145.
C AnimuN H^k^ corporis aux ijo nihil laiidc di pniim clficcrc potcll ij.a
Afincus^-illio fanguincm cxpucns nauigatKJHC fanus f .^usclt i7y.b Antlicus
lccundum platoncm fuit lu^Jtionisarusauftor ioj.a V X Antiol AiKiochiis
lucdicirs quo cx;rcicio vtcretur 2rf>.e f Aiitioch^ mcdic* vehiciilo
geft.ibat.2«?7.h Antiq: bis indiean femcl f iturarent. 5 2.f Antiquoru inos
viuciedi rpa iucgna. 57 a Antiqui in rtratfs coenab:inc 53. a Antiquiomnes
voluptates in couiuijscxcogitarunt ^g.e Antiquoru ftudiu in cibis ac potibus
dclica tilTiniis coquircadis inignuni fuit. 58.6 Antiquorum fcripta quonam modo
interic ' runt 161.C Antiquorum maior pars raane vel nihiJ,cxt guum quid
fumebat 225. c Antiquorum maior parsin vefperc folum faturabatur ij^.e Antonius
Pius Impe. balneiimpopulo fine mcrcede conrticuit 48. d Aphorifmi Hippocratis
txplanatio 13 i Apodytcrium in palacilra quid fucrit. 291.C Apodyterium in
balrieo quid elTet 40. f Apollini cur Athcnicnrcs gymiiafium con • fecrarunt
g.d Apollo iacubtionis, et medicinæ Dcus ab antiquis indicatus 130. f Apollo
iaculationiab antiquis eft pr.^poG • tus,& qaare 258.6 Apollonius vt Dcusab
Alcx.Seue. colcbatur iSid Apoplciaici Tral. fententia le^ica vti pofrunt,&
qua dc caufa 229 Aponaxisquid Sj.c Apoltemata in pedore rupta habentes
vocifcrationc iuuantur 281.C Apricari quid faciat i4o.d Apuleius Ccifus in
Sicilia qucndam a canc rabido motfum curauit 4 0 Aquas fornudo,Pompeio viucnte,
primo fe nobis manifeftauit 4 c Aquis mcdicatis etiam vtcbantur in lauatione ad
voluptdtem Aqua c cx extrmfecus cor^i accidctib. 6.{ Aqujc omnes Ipontc
nafcentes caJidæ funt Ariftot.authorc S^yc Aquarium quid cifct 4^.^ Archigencs
fuit Had.Imp. archiater. 1 9 i.f Archimcdcs facpc figuras mathcmaticas in
corporc vnfto dcfignabat ^i.d Ariftotelis fcntcntia dc gymnaftica Sc
p.Tdotribica, 10. d Ariftfentcntia Jcartc gymnnftica. i^.a Ariftot.fcntcnti.idc
motupoftcibG. 2 2i.a Ars gymnaftica,GaIc.fcntcntia,cft maxima BUs £jcult^^s
confcru;itrici$ y.b Ars gimnafticn qb. na rebns pficiatur. ib^ Ars gymnuftica
quouiodo fcicntia aGalc?' no vocctur 10. d Ars gymrtaftica quid nam circa
corpus humanuoa operctur 12 f Arsgymnaftica ad boniJ corporis habitum a
cquirendura, ac finitatem conltruanda maximc j^dcft muitorum tcftimonio.i^ Ars
gymnattica homini cft naturalis. 13.C Ars gyninaftica quo tempore inccpcrit i
r* b.c.d.& quomodo ord/ncm ac regulas ac ccpcrit i5.c. c Sis vtcrcntur 6^,c
Athlctx quo n lc a Pbto voctntur. 6'j.b Aihlctaruni vii^ns ratio.qu.c c^ct 7iC
Athlct» cur pjllidi fiant poft bborcs cx Arift rcntcntia 74 c Aihlctar a Vcncrc
pfu^ ahftinucrunt. 7 5 b Aihlcrjru xgrjruJincs fccundii G.il. 7^ J
AtMct.cymn.^njca raltationcs habuit. 85. a Athlci.v amlnil :tionjb. no
vicbjniur 13 rb Aihlctr sducrfus palu fc cxcrtcbani -a AthlctT c« fpiritus
cohibitionc nonpaiu auxil j capicbant M4 J Athlctacftatim po{\ cxcrcitationcm
potuin vi?abjnt,& qua dc CJufa 124 d AthJctx frcqucni.rrmc vtcbantur
putilbtu,luc1a,& Pjncratio i4^ d Athlctar olkntationis ctiam gratia fpiritu
rctincbjnt u^f Atrophia bborantcs vocifcrationc libcrun Tur *Sic Atrophiam
gcftationc curabant Thcodorus Prifcianu>,& ArcixuN ay^.d Attoniios
aliquo ftuporc Actius oca.itiunc curabat Author huiusoperis cur dcgymnafijs
fcribc c fibi propofucrit 7 * /uditus f .iriiu rctcnto mclior fit 179 b Aucs in
acrc fiarc apparcntcf an aliquo mo do moucantur 1 ^ 7.3 b Aucrrois fcntcniia
dci;squi cxcrciiationc dinntiunt iP4C Aucrroisrcprchcnditur, qui ccnfuitmorbofa
corpora quoudicad fudorn initiu cffpcxcrccnda ^^9.c Aug Imp.lci;cfjnciuit,Tr
militcs cduccrcn tur ambuljtum in mcnfc ^ i^T C Auc.Imp. fimpodl" qnq;
vchcbat. I77 C AuKufius Impcr.foUcfccxcrccbat, et qua dccaufa .^y^ Au^.Imp. in
finc dcambubrionis fubfultim currcrc vldcbatur et qua dc caufj.i W c Aup Imp.
coxcndicc,fcmorc,&crurcfini/tro bboras ambubtionc in li.ircnama «invc
pfuudafccxcrccbat,&quo. z6^.f (jymnAlitcA, Aup.Impc. poft coenamlcaica
lucubratoria vtcbatur Z99.^ Aurcli.inus Impcrat. thcrmas hycmalcs in
tranllybcrina rcgionc fccit lo^.f Aurium dolorc p.iticntcs lufta Ixdit.a^^.C
Aunumdolorcvcxaios gciUtionc Galcn. Tral. et Actiui curabant i.b Bjlucoru fitus
fcJm Vitruuij Inlam . 43-f> B.ilncoru acr cxtrinfccus et intrinfccus.ibi.
Bjlnca multum calida Gal.icmporc in dcfuctndincm abicrunt 44»C Balncorum
magnitudo,mobilius,imroobi~ liias.figura ibid. Bjlnca non cundcm fincm habcnt.
4Cf.e Bjlncis calidis .tcpidis,& fngidis antiqui diucr fa rJtionc vtcbantur
47. b B.dncum rcs qujdr.'itjrij cur vocctur. 47. c B jlnco-um hora qux fucrit y
o f balncj fcmp antc folis occafum claudcban tur,ncc vnqujm anrc.iurora
apcricbantur jntc AKx.Scucri Iinp tcmporj 5o.f Bjlncis ;'cnfi]ibus Afclcpudcs
in xgris curandis utcb.uur. i^^.f.d.a ScrgioOrata funt inucnta 177.*
Bjptilkrium jn balnco qiiid cffct, 33?. C Bcll'iro; hron fuit cqtatiouis
inuctor 167. c Bigis PlJio animjs airimibuit Bi^ix in pub facris frcqucntilli
ncccriaucrunt ibid. Blandi Forliuicnfis crror dc thcrmis ly.b Botubrij I
gymiufijs botulos vcdcbat.^4 c Braclua,dum quis manibus vjcuis currit, quodjmnu>di
dt didi -wccul us loi.a Cyrws rcifurumRtx ct oris laborcs magnopcrc xllii: juit
K.d Ciliuscrai vchiculi fpccics 208. c Cbudius C.tl.vcliJtulo vrdiquctcdo
primus.fc i|u..iido cinfus 172 f Clauduslnipc H.npt>cii lil cjio fuo
conccflit,vt |> vil c JtN n iPi i ni pt ftjculatic nc cur;bat Arxictus 24C.d
et \t cifcr; iicnc. 281. c et cxcrciiatK i:c jmcr n ) rios,Iaiiros, et
ih)nun>f-6a Coitu VI tri vcfpcic rcn bi nam cr-i io.f C6tc6ioncm In-p cdit
cxcrciiatio cx Frafiflraiifcnftrtia J5>i b.c Conct Aio^ a ijuictc, et ab
cxcrciiaiicnc mtdcratt f-^a multum iuuitur. 192. f Ccnccciucics c.fliculicr
vocifcrai:onc iuu:;niur 281.C Cf niflcriu i pal^flra vbi ra crat 20.f 34. c
C61ctuai.u.i n (d:cjrxpaiJ aqbufda lola digna tidttjVt ncic mcdicjr» ncUt 5.C
Ccnfcrujijua n cdicii ap pais a cjuibufJam in trcs paritstfl diuifa 6c
Confciu.niiua tcf fiiiucnti.-. quatuor nominibus a n cdicis cc mprchcnduniur.
6,( Conflartini Impc icmporcaccipi irtscdo ccric^pciiint ifcSc Ccnluciudo nopra
cx paiic conucnit nalur.T txcrcitati corpc ris i>8 c f Cofuctrdirt
pn.uiiic'» valdc Ixdutur.ib:d. Ccnluciudo n .2d Coipori» hibiiusab
cxcrcitaiioiic coniipruaiur ^ i^ic Corpcris virtuic* pcr cxcrcitaiioncm
forticrcj fitri et opcdititrcs i^2.f C( rporis n ( n l la pcr cxcrcitationcm
fir* mitatcm &i robur accjuirunt. ibid.ii^^.cl Ccipons hjbiiusab ot:o
dcflruitur.i>2.C H7C Corporiim tria gcncra a mcdicis confidcrantur,&
tjux 2*4 d Corpora argra an aliquo pafto dcbcat cxcr ccri 105-^ Cotpora Gcc2
motibus lcuibus et raodcrans vti pt flunt io6'( Corporib. c-hdiN et ficcis
null.T imodcratat (xcicitaiiocscoucnjut 2c6.f 2 i 5 b 22p.C Corf oribus
fripidis et ficcis cxcrciiationci icmjfia-corucniunr. ibid 115.C x^od Corpora,
t]uoru vnu mcmbi u intcpcricm paiicur,(]uomodo lunt cxcrccnda. 207 a Co;pu*
nulJu tjuauismtcpcric laboraNdct vthcmcti cxcrcitationctxcfccri. 207.b
Corpcracb malam formationcni morbofa, qu(.modo luni cxcrccnda . ^^]^* Ccrpcra
in nun cro n.oibofa cxcrcitationibus vti pofluut 208. d Corpcra zpriiudinc in
fitu laborantia nulIt. ocrcjtationis gcncrc vii dcbct,& cjua (ic caufa
/^'^' Corpoia valctudinaria ^ n3 fub fc/m huV 4 itts t. Hi> au^oris fnhm
pfit: coiuiiicre. ioy.a Cor^ora rciiiun ciir niuica cxcrcaiciita gencrcnc iio.d
corpbra femim t]iiibi!s exercicacionibus vti debeanc zio.e corporum f.inorum
differencias multasancitjui medici conditucrunt 2 1 i.c corpus perfeda fanitate
prxditum potius mente confiderari poceft,> quam re ipla inueniri ziz.d
corpora multa temperaca in ftia regione inueniri dixit Gal. ibid. corpora
cominuniter fana difta excrcmcn ta quotidie gcneranr,fe ob id excrcitatio nibus
indigenc ibid. corpora frigida, vehcmenter, &multum exerceri debcnt zi^.f
corpora humida excremencis abundanc, et ob hoc mulca cxercitatione
indigent,ibi. zzy.c corpora humida .1 labore fufFocari^hæc AriItocel. fencentia
quomodo ficincelligendaconciliator exponit ibid. corpora in æftatc potms, quam
in hyeme funcexercendæx Anft.fententia.izo.f corpora quibus temponbus finc
cxercenda &locis zzi.e corpora calida et humida moderatis exerci tacionibu»
indigenc ibid.& z z corpora fngida et humida mulcis, et vchementibus
exercitationibus mdigcnt ibid. et zjo.d corporaabijrde,c]uadoq, lacdutur,
qhdoq,' iuuantur,proucinisapplicancur. zj 5.a corporis carno/itas mulcis
cxcrcicationibus remouctur Z38.C corporainduto minusa fole calefiuntfccu duin
Arilt.rnlam,& qui dc cnufa z/z.e Cttrpora luxara tum hominum tum quadru
pedum nocando in arcus fjcillimc rcfti • tuuncur 3^54^ coriceum in paL^ftra
vhiham crdc.zo. f. et quidclicc zp.c.87.b corycus quid cfTct cx Antilli fementia.
8^. e. ioi C.Z4Z. d cornarius corycum malc follcm intcrprctatus eftm
Hip.conuerfione 33. c cornarius malearguit Budxu. 1/ 8.& i ij) coxas
debilcs faltatio coufirmat 1^0,6 coxis cx Hippocfenccntia equicacio eft ini
mica 25^. a craneu gymnafio apud Corinthios. 1 8.f craffi luando cibu
dcbcncrumere. ZZ3 c cmcn mediareruus hornbili q^uod^ uioibi genCre
captusfiiit,quo carncs ab oftlbuscadcbant J.a cracin*' poeca cur faJtator fic
vocatus. loi.b crepacuras patietes faJtu dent vitare.zjy-a &dircun. Z5:8.c.
et /piricum recentum. zBo.d quomodo fiant Z84 e. f criptoportids antiqui ad
deambulandum vtcbantur,& qua dc caufa z^^j.a crifijafii forma ex Oribafio,
quasnata fuerit. KJ^z.d.eius vciJicas zc9. h crico mcdicus Komar fub Traiano
floruit • Z4f.c crudos piJæ Jufus Jardit 243. b crura infirma fdtatio
corroborat 240.0 crurum vlcera haJccre Gahcurabac. z 5 ^.e cruftuJari; in
gymnafijs cruftra vcndcbanr. 64 c cunisquomodo in ægris curandis anciqui mcdici
vccftntirr jyS.e.^oi.b curatiua mcdicinæ pars ob neceftitate prius eft inuenta,
et a quibufdani impcftura quedam dicitur J.b.c curz fjnnm corpus conferuanc ^.f
currendifaculcas a natura daca cft aninvalibns ijya curfus ccrcamcn
Elciinfticuerunt iiy.c currcns ab ambulaiitc quo diftcrac. z y i. a currcntcs
hycmemigis rigienc ftautibus, &quadccjura zzo.f currentium fpiritus anheJat
zjz.d curribus faciedis marcria apta e abies.iyi.a curribus manu dudis
rebricitantes, vt inquit Herodotus, vtebantur et quancuni fpaci; pci ficerenc
171. e curribus ois gcneris fani vtebantur. ibidi" curribus tcais
principes vtcbantur potius, quaHi npcrtisantiquitus ibid, curru tcfio Plinius
iunior propter oculorum infirmitatem vtcbatur ibid. currus niulta apud antiquos
crant gcncra, et q et quo rimilia,& djftimiha erac. 1 73.^ curruhs vedatio
ab Eiichthonio cft inuen. i7i-a currulis vedatio.ipud mulieres Romanas in
maximo honorc h ibcbaLur J^i .b currulcm ve»ftationcn) R' m.mi mulicnbus
abftuIerunt,ob nimium luxum, poUca il lis rcftiiuci uiu,& qua dc cauia ibi.
cwrulis vcdatio jpud gymnaftiLosacftimata erat 171.^ currus duarum rocarmn
antiquitus erat in v^^i» 171.» currus quacuoi: rourum Phryges muene(uat ibid;
Curcus. Currus fcx rotjrG Scythac inucncrunt ibid. Curiustoimacl^ vuiia ibid.
Cui uu ccrtamCm ludos oly mnios quando htinucaum i^ic Curfor i]ui lic cx
Ariftot.fcntcntia. 70. d CurluN G^l. rcntcntia no parQ cofcrt ad i\
nitatc,& bonum habitum. i i5.c.245>.b Curfus t|uis motus lit.io i.ccius
vtiiita',& i4y.c.&infra. Curlus trcs funt fpccics cx Antylli
fcntcnIi6.f Curfus apud vetcrcs Grrcos cjd fit. .b Curfus omnis fcbritntibus
nocct. 149. c Corlum pro vcrtiginofis curandis atqi cpiIcpticis
Arctacuslaudauit ijo.d Curlus circulariscrtcctus cjuifint& omnino rcpudiari
dcbct ibid. Curlus co$,t|ui fungos comcdcrunt, et qui a rcriptionibusnfti
iunt,iuuac iso.f Curlus quo rcncs ixdjt,& luucc. ibiJ. Curlu non in pulucrc
fa«fto faucium intcrio run: cxulccratiocuratu. ibid. Curluspcdcs et crura luuac
ibid. Curfu^ qua dc caula cx Anfto.fcntcntia ca putUdac zT*'dCurfus a quibus
vitari dcbcc lyi.d Curfus inpoltcriorafjclus quarnain auxilia cx Aniylli
lcntcntia corporis partibusprxUcc iji.c Dutius pcracdiuia, et dccliuia
difiircnuac Cu! fu^ corporc nudo faftus quid c/Hciac . Curlus nuo tpc magis
Gtfacicndus. D DArcs apuJ Vcrg.ccftu valuit. irr.a Ocaaijulationis vtilitas.
c.i^y. pcr totum capur. Dcambulationib.loci apii qui fint. 16 3. b Dcainbulatio
multa^ habuit (pcs c et infra. Mi^.c Dcambulaiionc qh vti dcHcmus. xtfc.d
Dcainbulationis ctfc ftiis qui fint. ibi. Dcambulauo mcdiocriscit magis in vfu,&
quxfic Jbid. Di amtiu!ationc pro inrjnij,& afthimatc cu randis C^l
Aurcl.vicbaiur itfo.f Dcambulationc proidcricis curandis Archigcncs vtcbutur
ibi. DcamboLtio pauca quibus nam conucniat Ui d Dcambulatio cxtrcmis digiiis
fafta lippicn nbusconfcrc 26 3. a DcdnibuLuoDUin dificrcntir, a loco liiin-
pt.r qux fint z(ondcrit. 187.C 307. b D;orcu.s aducrfarium vn^uni et finc pulue
rc lupcrJUit 33.^ Dioxippus aducrfarium un^ura, et finc puliicrc fuj)pcrjuit
ibid. Dilius quot ngn:ficjt.& quæ 123. a Difci cxcrciuciu fuit antiqua.
cius vti litas xj7. b Difci figura qualis fucrit 125. c Difcus tobuftjs
corporibus conucnit. f Dilci cxcrcitationc loco pcrg itioni.s,& plilc
botomii, fi quid impcdut, vti pofrtimus cx Gal auihoritatc 257.C Difcobjli I2Z
Dilcus a ijcuhtiouc tum in iuuado tum in Ijt Jcndo p.irum diftcrt ibid. Difcus
ab haltcrc dirtcrt D(»ictibus vjrius lcrmo fiibucnit. 283 b.c DoIichu>cui(us
quis fit ii^.e Domitianus Inipcr. laculationc cxcclluit. 13 i.b Domitianus fmp.
locum pro vocis cxcrci- tJtionc inltituit 1 5 8 c Do: fun) dilcus . o: tobor.n
25 7 0 Dorfumdcbik- h. bcntcs crc^ti fiarc noii dcbcnt,& (juadc caufa i69.b
Dracunculi cu ca ci tira et br.uhia multis cir ca marc rubium Jpparucrunc,&
quid fa- ccrciic 4.t* Dropax I. Dropax qind fit 213.C Dubiiaricncs duac circa
cxcrcitationes or- ta? foluuntur 102. f Duellum a quo (itinuentf:,&
cuipugngan tiquorum generi refpondcat i/f^a E ELxothefium in palcftra vbi nam
eifet Il.d. 2C.f Illeborum qui fumpferunt geftationc inle ftica fada iuuantur.
2^^.a et in lcdis pen filibus. 301. a JElcphantiafjs Acgypto famiharis quo tcm-
porc Itahs innoiuit 4 Blcphanticos vfu coryci Argtcuscurabat. C.&
vociferationc.282 c. Cclfus de ambulationc.26 j.c. Afclepiades gcftatio nc 2^6.
f Elcphaticos natatio maritima iuuat. ^o4.d Entelkis apud Verg.ceftu v.duit. i
j i.a Ephcbus Athcnis lcrpcntem pufillum, et Ibtim ambulante cfi feniinc
cmifit. f.a EphiEbuminpalcltra ybi nam crat,& quan- tum 2o.f.24.e Epilcpfia
jnfolationc modcrata fccundum meihodicos cuiaiur 271. c Fpilcpfii gladiatoris
lugulati fanguinc cpo- to recDiicirm quofdani curaiur b Epilcpfia /pirmi
rctento C^l.Aurel.autho- re non curatur. 280. d Epilcpfia quo pafto
vociferationc curciur 282 e EpilepfiiE vthiculo pcr lonf^a via vehi non
conducit C^I.Aur-cli .luthorc 2^7 c cpilepticos gclUtibnc Gal.Tral. et Æt.cu-
rabant ibid. epilepti.curfus vchcmcns ex Thco Prifcia- ni li ia Iibcr.n. 2So.e
et loga et rcdaam- buiatio tx Cxl.& Ccl.authurit 2>)2.c cpilept. A £ius
curabat n^ancu gcfticulatio ne.24 o.d i.Tdit de ambulatio. ifi.a.e cpilcpticis
Aiu)]Io auihorc nataiio omnis obcft 304. c Cpifcyrus lufus quis 8j cquitaiio on
fit cx rcitatio 79 a cft motus Uiix us fctundunj Gu c. i^o.f ipi.d equitatio
q.d cfficiat et ciu.s inuctor. 167. c lcnip in h(jnorc tll hab:ta ibi. et 170,
d cius vtilitaic.v,& dan na. i^i.c.f cquitutio (ucculfantc cquo fafta qu
dcffi- ctat 2i?5.b cquitntio pcr afiurconcs cquos fuda qiiid ctfici.it ibid.
cquitationis pcr gradarios ccjuos L&x cfic dus 1^3- c cquitantcs
curaliquando lacrhymas em/t- tant 2^4.d cquitatio an fit geftatio ibi.
erafiftratus mifiione fanguinis e mcdicina aufcicnda,atq.- ctiam oem
cxcrcitatione inutilem ad fanitatcm iudicauit i^i.b crafiftrati r6ncs,quaiuor
qLus cxcrcitatio- ncm inutilcm cffc ad fanitatcm dixit.ibi. crafiftrntus per
inedia trium aut quatuor dieruin nniltos affcftus curab..t 15 3. c crafiftraius
eft damnandus,qui multos gro tos dcambulationibus poft cibum cxcrcebat
crafiftrati loncs foluuntur. bid. et infra. c erafiftratus malc a C^Iio
reprchcditur . paralyticos de, mbuhtionc in locis harc nofis f.(^a cxcrcendcs
ludicabat. 26^ £ Err.fmicrror 154 f crcftum Ifarcan fit cxcrcitatio.i^^.f.
vtih- tas et nocumenta 16$ crcdi liatcs quodamcdo mouenrur. .C ercftumftare
antecibi fumptjoncm quo- modoiuuat ^. c crcdum ft:arc multas habctdiffercntias,
et vndc capiantur i6p c creftuni ftarc poft cibos fumptos quid fa- ciat
crichthonius currulcm vcdationem inuenit i7ia cryfimachus mcdicusad fingultnm
curan- du fpiriius cohibitione vtcbaiur. 1 j ^.e cfculcnta lu cibi tum rcmcdij
caufa a:grotis txhibcntur ^.f curhorbus lubas regis medicus,& Antonius Mufa
fratrcs vfum aqux fngidx poft bal nca caiida nionftrarunc 47 b curipidis
fcntentia dc athktis 7 i.b c cxcrcmcnta diucrfis modis e corporibus au fcruntur
ipo.f&infra cxcrementa in corporihus detcnca multas morborum fpccics
gcncrant. I5>2.c. i >.b Cxcrccntcs fc fuK Cdc m.igis incaLlcunt
ciaicffcntcUjqu^ n qui luoucntur, fs: ijiu dccaufa ibiJcin cxcrcmcnca in Iiycmc
cur paucagcncrcn- tur 21 i.b cxcrcitatio cx mcdicorum fcucntia fcm- pcr ancc
cibu n a lanis fic-ri dcbjc. cxcrcitjtioancc cibum dupliccm vtihracc aftcrt
2i2.f excrcitjiidi tria dcbcnt obfcruarc 1 cxcrciiationis fadx poll cibum
nncnmcn- ta,qu.t fint .ii excrcitacio non dcbct ficri vbi Itomachns cil valdc
vacuus,ir(ium hoaunu n quant.i clfc dcbcat,& dcoilium ibid. Excrcitatio
fcnum minc^r cfTc dcnct quim, cum luucncs clfcnc ibidcni Excrciiatio hycmc
fada'citra fudorcm ficri dcbct Excrcitario ucre fafta vfque ad fudorcm
fic.idcbct ibid. Excrcit.it o Autumno fafta minor cffc de- bct ra.quar xlbic
fit ibid. ExcrcitJtio iiulfuccorum qu.T, et quanta c(fc dcbct 2jo.e txcrcitatio
immodicj oibns nocct. 2 3 o.c Excrcitaiionis jmmodicjc fun.i. ibid.
ExcrcitJtioncm luucncJ quando dcbcant incipcrc ExcrcicJtioni pcragcndx qui
modus cft adlitbcndus ibid. Excrcicationcm viri quandodcbcant inci- pcrc ibid.
Excrci- Excrcitationem antequam incipercnt anti- quiquidnam fjceient ibid.
Exercitationem Ifatim poft cibum nemo dcbetmfjpcrc f Excrcitatio prius remiflTe
ac debiliterincipi dcbet,dtmde paulatim jugeri. ij^ a Exercicatjonis
particularis cognitio, fiue vniuerrjlicoonitione,null.im aftert vtili
tatem,& conira a34.e BxercitJti ibtmi poft excrcitationem ve- Iks
niadcfjdas debcnt dcponere, &in loco tcpido et temperato *33 «b
Exercitationcm anctijiiam quis [incjpiat, quid nam faccrc debcat ^33*3
Exerciiati non ftatim poft cxercitationcm debenc quiefccre, ncc cibuni aut
potum lumcre z^^.b.c Excrcitationis modus Sc ordo totus .itK)nc incjuibus
morbis cunndis A • (clcpiadcs vicrciur 295 c.& infra Gclbtio ui nuripcrcurbato
ofTinino fu- gicnda,bid. GclUito ia iTiari traquillo fada quid cifi • ciJt
ibide.n Gclhtiofine additionc acccpta quomodo ab authonbui capinur i^T-a
GclhtK) vchiculo f.K^ i qtiibui conucnut, 5c quibusnon conucniat ibi. Gclhdone
in qutbu^ mor bis curardis G.il. vrcrctur 297 c et infra GclUtio morbif
diuturnis prodcll ibid. Gc ihiionc lcllj,5c lci5^ica fj {gfli yti pof (unt
morbu iam inclinjntc jco.c Gcliationi^ in aJto auri fadar cflfcctus . Gymnafta
nuHut antiqucrum fcriptorum fulficicntcr tradiuit 7.a GymnaGa qur njiii fucris
: Gymnafia quare » et a quibus pnmum fint inucota ibid c GymnaliJ dicbus
feftiuis magis frequcntata crant,& quarc a Gymn:r:iim cui jntiqui Tibcri
propinquu ctfcccnnt 4oC.ri.nLcntia dc houmie co.iicUcntc,& nonlaboiaate
i^i^ Hipp.patn.i cemperata fuit Hippo.iudicat, Ibhs r.idios capitibus humants m
i^nasnoxjsalFcrrc 26 6 e Hippo.Hcrodici Scly^nb: lani difcipulus aricm mcdicjm
illultrauic 2.d.4'i.c Lsboribiis ir.:ifluctos aliquando cxcrccrc dcbcmus,&
qua dccaufu i^^-^-^yO.S Laborc^ mcdcrati quibus nmcorponbus conucniant 21 5.b
laborcs vchcmentescjuibus nam corporibu^ conucniant ibidcm Laccdcmonjj
vcnationc fc cxcrcebat . c Laccdimona? djmn.at Ariftot. cjuod pucros niirijs
liboribus affligtbant. 2 28.f Laccdzmonuno Jcxcrat, ne in balnca pix inferictur
/^4.rbu Ijbor.intibus ohlic d Lcdi apud anti(]Uos varij crant 5 8 b LcC^lus
fulcra mobilia habcns quiJ fit. 1 76. e.joi.b Lc^lis pcnfilibiK pro ari^mium
cxcrcitip antiijui mcdici vich.intur. 17. .d.quid c(rcnt,& quomodoficrcnt
joo.f LcdispcnniibusjCelfoauLhoie, quando vii dcbcmus ibidctu Lcftis pcnfilibus
gcftiiio f.jifta tam antc cibum,i)u.Tm a cibo prodcll ibid. Lcftici qujrc ci\
inucnia. ^ . a. &• quot numero /crui ca portarcnt. 1 73. c et inf cius
vfus. lyS.f et 2y9.b Lcc^ica pcr vfbcin gcftari lilcrtis crat vctitum LcOica
noftra cui anticjuorum fcllccorrcfpondcat I7y.3 Lci^ica in languciibus aniiqui
mcdici vichjntur i7^-b.2yj?.b Lcclicaa fclla diffcrcbat i7J.c.& 2yp.b
LcCtica muhi vfus apud antiquos firit. 2^8 Lcfticj,in cj (cdttcs.cjn.i vii polfiiit
^j^^^.b Lcd^uh pcnfili) agitatio quaudiu ficri dcbcat I77.b Ledionis
fpecies,& caruni ad fanit;tcni vlus .285.2 Lcftio quomodo ficri dcbeat 2
8y.c Lcclionc rcmilfa polt cjborum fun.prionc vti poifiiirtis ibid et inf.
Lcnti laborcs quibuldam corporibus ronucniant 2if.b Lcilurgica fcbrc I horjnies
in Ic(flica dccuml cntcs vchcbjniur 2^p.a Lcucophlcgmaiia corpus totum
dcturpat. 107. b Libcrat .i morbo, ijuid /ibiauxflio fucrit,' tabcUuI s
notabaiit, ac tcmpiu Apoiiinis dit.Tl)ant 2 d Libarij in Gy mnafijs liba
vcndchant. 64 c Libcrtis c.it intcrdi^^um quominus pcr vrbcU' ItftJCj
vchcrtniur i74 f Libcrdc ji)l€2 prope paludcs& rtagna, et huiuiuiodi .nlia
funtuula 2i8.r X-oca pro|)e marc ad Mcridicm,velOcciden tcm fpcftantia lunt
mala ibidciii )Loci ad cxcrccndum apti funt tres conditionc.s& (\i\x
ibid.& 2 i6.f Locorum vis cjuantumpoflit 215. c iofus, Tbi uocis
cxcrcitatio ficb:^t, Luduii) cur intcr nthlcac.is exerciiationes cnnmeraucrit
hniiis opcri^ anthor 88. d Ludi B.iCiho dicnti ctc7xo'A/A di^i I2i.a Ludi
matutinj qui cfunt, et qui magui 64. c.&^5«a Ludoru victoresr,uo
honorarentur irb.c Ludajpræfcdus,& eiusonus ^o.f L^^d fincs trcihabuit lof
.a.quatuor modis fieri potcU ^ 24*.e f Lud^fjriæarcis au^orCs,quifuerint loj.a
115 c Lud^im G.ilcn.artis gymnafticæ minimam partcm c^ic ludicauit f.cius jpud
antii)U()s matnus vlus fuit 244 d Ludam noltro lempore cx^rcent rullici,
quoinodo apud auticjuos aihktx excrtcbant i44.c Lufta vchemcnter, et corporc
crcdo fafta quid corpori pr«lK t 244. f Liida habentib.crura d( bilianoccc
i4^.c LuCta cjui rationc pefton uocet 2 4^.c Lu non vencfic.i,& quomodo 8.e
Medicina! cjuando opus non cr.it i.b Mcdicinx jurtes, cum Imt duicrfap,diucrfa
cti.Mn nomina fcrtii.T lunt j b Mcdicus quomodocorpus hununum co«fidcicc li.C
Mcdicus I « M I w w Mi M W u I McdioKcft artifcx trcs fcnfaias iraftans 2X1 d
Mcdtcumcnta «luofdani luuant, quofiljm Kxdunc iif6.c >1cdi.jltini in balncis
c^d faccrct 30. c 6^.2 MchncholicosiuCta 1 hcodorus Pulcianus curabjt i45'3
^lclaniholici, dtim lcgcrcincipiunt, ^ur lomno capuncur t^6.d MdanJiulian» I I»
odcrui Piifciai.us, et Arccjtu^ gclbucnc curnbant i96.t Miichior Cuilanpe
baincu cr^nt lici%& i]ua rjiK iic j*d Jdc nfa \ Icdi lin.ui a-)ud antiijuos
parabaniur 56. ( Menlhua ranicatcm corrunipunc 48^ Mcnftrua fdliixs cuocat. 2
M* ^ dcambuUcto * 26or.t^3.a Mcntagra x^riiudo Plinij .xuic noU^ mnotuit 4f
Mctforcs ciuayccaufaa uiAu iaordinato 5: prauonon la.djncur Mcthodi vniucrfalcs
cx Gai. fcntcncia nifi { .iiticubribus fpcculationibus lungan tur parum luuant
i8y b Militaris diidphnx cupidi gymn.i/ia ingrcdicbaoiur 2tf.c Milo Crotoniata
f ir robu(li(Iimus. 67 2 NatJtionis locui c^uid fit i^i^c et 184 ^ cius f^Cviti
S^i. N.tacio ijuibu-da argritudinibus cx Aniylll lcuttntiJ,&: O-i.o nucnit
ib^.a.ib^.C Nataiuri i)uid agcrc dtbcot,antC4uam natcnc Nacatio inicr
cxcriitationcs numcrai 18 j.a Nacationcm cur anutjui addifccrcnt ibid* iSj.a.^f
3.b N:.t:uo i l^uuio f-^a fomnu inducit So}.c Nacatjoncm in ai^uis fpontc
nalccnubus fa dani Aniyilus iipprobac 3®3«c Nat.tio pcrnicioliil ma i]uz fit
jc^.d Njiariolub Dio fjCta cjuid c pcictur C N..CJC10 fjcihus in mon cjuam in
iluuip iic Aniijuihorc ibidcin Nacacio cahda indurata cmoiht, et frit,cfaaa
calcf-CiC &: tius nocuincnca 304 f Nacacio (rigida caiorcm nacurjlc validum
(Hlicir,& conicdiou( n) adiuu.t ibidcm Njtaiionc frtc]ucnti, ii ^uis
viatur, ncrui ixduntur .3?^»* Naiuiar caijdac fircundum Hipp. cjuiciccrc dcbcnt
i96.( Naturar hon.inum adco diuci fx funt,vt oc mo .Jtci I j^iorfu^ iit limiiis
ly^.e Narura coijoribus lioliiis mcatus muitos curdcdcnt 152. c Naiun» calidis
cjuics cmucnit 206. t N. u luatio an (it cxcrcjtatio 78 f Nauigaiio «juibus
nioibis autliorc Auiccu* X fiotit. proGt ^ 3oa.f.i7P.b N.iuigitionis modus
valctudinanjs conucnieris qui fic cx Herodoti lentetia 179 c N.iuigitionis
fpcciesliinc mulcæ, et qune& 175? C.301.C Nauigacio pc^ flu nen fact i
minns perturbacquam qu^ per ni ire, Sc quare, quibufdam murbis conueriiac i8o.d
Nauigjtio incer cxercitationcs ab Antyllo numeratur I7y.a Nauigacio corpus
raouct,& pcrturbac ibi. et quare i8o.d Nauigjtioncquinam vtintur jbid.
Njuigantes Ciwn mjgiscolorati ijs, qui m paludibus dcgunr,& qua de caula 1
8 i.e Nauig jtioneranii> fjiftjs cfl Anneu Gallio fangainem exoucns 17^ b et
^oi.e Naumjchia: cur a Po^.Rom.iint inftitut e. 180eNe)iei ludiapud
Cleonasagebmtur ly.b Ncphretici Trdl. rencentia icdtica vii pollunt,& qua
de caula . 29-^ a Nepiiriticis njuigatio maritima prodeit . 303,3 Ncrolmp.
gymnafiaquindo; ingrediebitur,vtathierasccrtantes videret 26 c Nero Imp.muficu
cercame mftituit. i/S.c Nerolmp. ia lcvftica cum macrc quandoq'^ vehcbatur 299
c Ncro Jamina pe Aori iuipofita fubea caniicacxclamabjc ^60. d Nicomjchus
Smyrn.^cus uilde crafTus qua vu ab Æiculapio fic curacus a mmii illa crafiicie
207.C Nitro,& aphronitro fricabanrur 3 4.C Numa fccudum Plutar.
voluitadorationes fcdendoficri X59.b Numeruscxprimit rcru fimilicudincs. 96. d
O OCuIi lachrymantcs Irduntur faltationc i4o.e Ocuii lippictcs, et lachr-ymofi
d quantumuis mimmo motu l£duncur,quiete vero rccreantur. a.b Oculorum
circumuolutioncs vertigine lari^untur lio.d Pcrljp v;rtu\ rationcm,
cxcrcitationc.n il'Iigcntcr proti:cbintur i^S.a Pcrfis bborct lOr^Hiris Cyrus
inditUiUnrc abi luin.)tioncm.'»riu^nf c «tatis nrnimcntu 1x4 PotuLiicj (u ciui
tu ii rciucJij CiUia xgro iiscxh:bcntur 4.f PhcnmJa vjuiJ V vnJc diratur S^-f
Phcrous d lco Hyjctnc'iu intci fecit in^ c Philagnus nudicus pofluuium lcininis
cicrcit .iionc partiu * lupcriuruin cui a bat 147 c curluk Aiuyllus 190 f
PhiUiiiv)ua Pilx tMgonalis figura 9^ Tila p.igjnica iju.e nam cffct. ^4 d
tudjtlt nauigations fpccics,«ia Pilcjiorcsroanrini cur pilos rutfos habcac
Pilcina pub.Romr vbi mm fucnt 1S4.C Py.h.igoras c|uidain athleci» primui carncm
cxlubuir 7x.f Pythagoras voluit aj jratiuncs fcJcnJo ticri i b Pyrh"Chiacfjltat'oi
t im»,i Put.ichuv M ylc.i^* PhrV'»i)nc Arhcnicna d uc 5c p.r-r.uij'tc
cxccll.v.cit, b c)ujm fc itJtu i i {*')' jnc »ci ercda luit. 1 o.d Py hici InJi
Dwlphis j^cb iKur i^.b Pjiuaufi vc citcrjtion> luuantur 181 c I'1'roni lcnt.
ntia dc aitc jvmnaflicj. 12 f P aio Ijudjr in v.Jcrcp. vt mujicrcs nuJx cnm
vins in pjl^lha cxcrccantur C Pl iio f .11 oiMfdjni Jthlcta fuiC 7 1 .c l'lato
uit Hip fcdacor 80 c Piato buJauir vc et pucri et virgincs,& niu lic cs, et
ho iiincs tam nuJo cor|>orc quainannitocx-rccrcntur . 116. d P.aro knbcns
llitum motui contrariu n n6 prorlus vcrj locurus cll H d Pijco diCic njcurjs
diuinjs cx motu et ijuic cc c onftjrc ibid. Pi.iuti vcrlus dc ariticjuorum
pucrorum nio nbus in p.iiaftra 29 b Plimuv fciibjt aihlctas alitjuando coitu
vti iolitj iuniori-i ctercitatio ^ fiicrit. zii.d Pilinms miior diim vocc ik it
>m^clio Uboraret,lc«ftione chra liberjciis cft zSf.b Plini us Co^cilius
vchiculo gcU.ibac. zyo.b Plinius Romac Sclla vtebatur, vt intcr cundum rtudijs
vjciret i99.c Plmius lunior corporis (anicatem ven.itioni rcfc-rebat 1 8 7. c.
3 07 c PoJalirius vcnationc deleft.ibatur i Sj.a Podji»nci faltum dv^benr
fugere. i n»3 trochum 289.C Pidagrico. Icnes et rcmifT* iuuat deambula tio,5t
vehemens I«.iit z^^i.c PodjgriciTral. fentcntia Icdtica vti poflfunt et tiu.i
de caufa ^99.\ Pofis fecundum Simonidcm eft faltatio loqucns 96. f Pompeij
magni exercltia i i^r.c Ponb nau.nachiarius quarc fic vocatus flt . Poppca
Domitij Nero. vxor, quid faccrer, vt cutis candorem acquircret 1 7 . A Porphyrius
philofophus carnis vfum cur prohibuit lyj.c Porticus tres extra palacflra
quomodo di* fponerentur zo.i Porticns erant partes gymnafiorum piincipa
les,& quomodo fe habcrcnt 2 8.e Porticus Pompeiana ad deambulationem
ædificata Porticus in viridario Vaticano qualis fit . 135. A Potabant veteres
cornibus boum $$.h Pr«edo quidam in Pamphilia homincs pcdi bus priuabat c
Prandium apnd antiquos quij c^fet r i-f Prafinæ fa£tioni maxima ciuitatispars
fauebat i68e Prafini crant una faftio Romana ibid. Pratinas pocta cur fi
vocatus faltator.ioi.b Praxagoras rcprchnditur, qui cpilepticos
deambulationibus plurimis,& vehemen cibus curare nitcbatur 26 i c Pracmia
ccrtatoribus cur fucrint mftituta. 14 c M.A PriapifiTJum p'\\x magnr Itifu
Tralianuscu rabat.242 d.atquc •tem halterc |i5^.e Prodicusacgra corpora
cxerccri iudicabat. loj.b.propter quod ab Hippo.rcpr chcn diiur 2 4T.b Prodicus
valctudinis ftudiofifid nus fuit . iio.e Propn^geulpalæftra vbina crat.
xo.f.^J.A Propinatio iuxra veterem nrum', m cohni* uio f^ftj cx Rh minufiano
lapide $ Pronerbium in harcnani dcfcendeie vnde fit ortum i6.d Prouerbium illud
difcum ( fljuani philofophu audirc malunt) vnde fitortum.z». C Proucrbiu Ne
qras in ftadto dolic hu. 1 1 7-a Pjouerbium trjnfiremeram ii^.b Prouerbium
contra eo$,qui nec litcras, nec natarc fcicbant idz.c Proucrbiu a mari et terra
fumptum. 302.6 Pueraquam prxbcns ^6.b Pueroru geftatio in vlnis nutricutn eft
qiix dam ipforuin cxcrcitatio Pucn poft H;ppocr. æcatcm podraga labor.irc
incc^crunc propter ingiuuiem. 4 e Pucri frcqucntifli.nc faltationi opera dabac
loi.b Pueri muficam Pbtonis, et Ariftot. fcntentia dcbcntaddjfccfe 1^0. d Pucri
a ploratu ex Ariftot. fcnrcntia proht beri no deber,& qiia dc ca. i/^o.f .6
Pucri Gal tempore in aquispueriles ludos exerceb-int 183 b Pueri vfque ad
vigefimum primum ætaiis annum labores muJtoi indiffercntcr fer^ repolfunt 228.
c Pucris perironf um aut fcrotum fpiritu rctento rumpitur 28o.e Puellaj funt ex
Piatonis fentcntia gymnaftica bcUica cxercendæ 66.£ VucWx pulcherrim^ fingulari
ccrtamine cer tabant 144.C Pulmonc vlcerati,inculpati viucbantin Ly bia i73,,c
Pugil quifitcx Arift.fententia 70. d Pugilatusante bellum Troianum fuit in vfii
iu7 b.fanitati parum confert. 247 A pugilatorcs quomodo certabant 1 07 c
pugilatusin gymnaftica mcdica exi?uuin vfum habet "loS.e pugilcs vocabac
veri nthlc f fm Gal. loS.f pugilcs,& athlctT aliquand j in Deoru numcrum
relati 7 1 /\ pugihuu imago i02.b pulueribusin multis cxcitationibus antiqui
vtebantur,& qua de caufa 236^4 puluis uim habet cmplafticam cx Galeni
fententia 23 8. d ^u^ilatus nocumenta,qua; fint 247 c pu^ilarus fuit paruui
LulUs in gymnaftica mcdica d pugn.B nomcn plura fi.^nificat i4'>.f pugna,
dcqiuhicaudoragit, quidcflcj et quoc Qot eiuj fpcclcj cxOubafij fcnicntia ibidciv.&:
X73.a Fuona > mbracilu cjuomodo ficbat . ibidcm lOI. c Pugna tcK.rum quomodo
ficret ibid. Pugna firgului is tjm n t d«ficrct ibid. Puiinas fingul.ucs t
xcrccbant Ijccrdoics in Fcrp mo G.il.iemporc 14» c Fugna jdiicrfus pjluni
^uinam >tcicniur. 14 >.c.X7J.a Yiigna vmbrjtilit ubi i Cjleno budctur .
i4'.C27?b Fugns arm.)tj a Dcmea inucnta. 1 ^6 c Fu^nis fingularcs eiiani Romani
cxc.cc bant 14^5 d ibid. Fngna fingutarit rudibus armis fMi a NLn tu^^t^ crt
inucnta I4rb Pu!u:s in vn^^ionc quid prapftarct j.a et 1 > 8.d. vnJc portantur
3 f.e Pyrrhus Ligoriu^ annquitatis pcrrtifs c Fyrrhrchix U!talionc$ tjux
fucrint,&^ S"^ laucntx QVatUans crat mcrccs baJncacori data. 47C
Quadrata corpora abcxcrcitationc quomoiio iuu..ntur ^i^^ Q^ad. igx m pup. faais
ficpc ccitaucrunr. c Qii:^rtana bborantcs, vocifcratio iuuat Qumqucrtio qui fit
cx Ariflo. fcnicntia. 7o.d.c Quotidiana fcbrc laborantcs in lcAicadccumbcntcs
vchcbjntur a^y a R RAucnnj Strabonis authoritate acrem fjlubrcm habcbat 7^.2
Kjiis fcntcntia dc vcnationc C Rcncsdcbilcs I.Tdii faliatio 240.^ Rcit.cd.oruii
omnium njtura eft, vt profint,& abquid cnam c^ftcndant 1 51 a Rcnibus
malc-ttcaisIuOa nocct 14 rc Rcnum lapiili optimcialiatione otrudunrur 240 Ci54f
Rcru imbefillitate, vcl feruore, vcl \Kcrc artcC^i liliu vitcnt 25 5 J et
dilcu. 2^7.c Rcnu.n jnfl.imni tionc laborantcs crc^i ftjrc noo dcbcnt 169 b
Rhjmnufi nu^ lapis, in quo fculpta cl\ fbrm.jTrKhni),3nti(]U!friinus 56
Khcforcs in palacitras ad difputandum con ucn:cbant 20.c28c Res i6nc finis
raria noU Cirrire funt a Rcfoluti Tral. fentcntia lcAica vti pofujir, et qua de
caula 19^ a Rdpirjtio ctcbraium ofcitationuin cft rcmcd.um a7P.a Ilcurdurcs in
balncis qui clTent 50.^.63.« Kigorcs f.iltatio atcct 240. d Kilu^ qCo
fiji,& quid cfificiat 16 i.a .6 Konuni { ('liicmi oimhO ^yn n^ifia ad GiaB
corum inntJiionrm ihuxctunt 18. £ Kcmjni in bulncis mulio græcis lafciuiorct
Romani fuos miliies et mari et tcrra cxcrccbant iSo.f Konunorum n^uliercs
Varronis tcnimonio in cc dcni loco cum viris lauabaniur. 48 f oppofi:ioncm J3 c
Ros vim habct colliquatiuam, et idco bibitus gracilitJtcm inducit 2^7 a Rot^
curruum Homcri icmporc ftanno or^ njbantur i7i.a RuHus tphcfius Romac fub
Traiano floruit 145. c Ru.tati eraot voa fj^io Romana l^S e S SAItantes pondera
aliqua habcbant quorluiii 1x8.4 bjita^oria: cxcicitationis fpecicS|& cius
diuiiio 81 Saltatoria facultas in imitatione foio mrtu fjda confiliit fi6,£
Saltatio fccundum Simonidcm eli pf>efis tjccns 96 f et inf, Saltatio vcra i
mufica fccunduui Plutarchum dcprjuata cli 97't S. Itjtioiiis inucntor quis
fucrit 97.2 Sj/tationum diuerfa nomina vndc fitoria» 97.C Sjltationis finis 100
d Saltjtioncs vbi nam ficrcnt loi.b Saltationcm antiqui in conuiuijs exerccbic
10 I c SaltJtio qurqi antiqiiorum ordine, ronc, et proportn nc indigcbjt ijy.b
Saltaiio opportunc fjdU inultas affcrt vtili. tatcs, cadcm inoppoitunc
jdminifirat^ multa dctrimcnta iionum prriiat . c SjIius viilitjs,»ntingunt,
(]Ui Ic cxc:cucrunt,5c ijua Jccaula 19 r A Somni pr«.tundi concodioncn»
mcliorcm efficiunr.S: quj dc ciufa ibi. Soao capiutur Irpc mtctc fpcculatcs.
Somnolciiii ciir fiiu dccolor.jti i44-5i.c SpiMtus cohibmo »'jciat • } • a.
cius rpcc:cs.i5} b.cim vtiliiJS.X78 d suibus conucniat cius nocumcnia.ib d b
Spiriius cc hibiuoncintcr c £tcras cxcrcita iioncs Athlcix d«abus dc caufis
vicba t«r, Snlcnis xgtitudinibus cx Aciij kiucntia curlus clt vtilis no.d.f
Splcnctu-oNgcf^..tioncThccdoius Prilcunus,& Arctruscurabant Spuni apud
antujuos m.igna infamia nocabantur et a nobiLum commcrno cxtrudcbantur, Spurma
qua vi^us rationc Spurini nnJiOi fanitnrc cofcruaJa.Spura corpuscxinaniunt
StadiumgymnjfDspars 5*. Stanscxcfcttium ' Starc maio: ci. corpori bborcm
affcrt^.iua ambidarc,& quarc Starcc.lcib.s3ut;..m.n.,d.gitis innitcn. do
nihitn.li molcitumattcrt »71.» StclUsdcfic.cntcsminromn,svidctcs.,uo
„.odoabHippoc.c»ircntur ^n-A Sccphaiuofuuinucntor togatx (altation.i
StcVcoracorpascxInaaiunt Scomichaccxgritudo Plinij rtaic aoftro orbi not.i
f.iCta cik ^-^ Stomachusin coqncndo dcbili» i falta. 10- nc corroboratur
Sio.nachu n frigidis morbis opprcnum cu- latcurfus ^^^-f Scomachicos fpiticB
rctcnto Cxl. A'»r. cu- rabat.i79.c.& vocifcratiotic i8i.c.Arcle pij
gcftaiionc Stomach 1 dulorc Thcodnrus Pr .fcianus, « ArctJTUs gcduionc curab.mt
»bid. Scomachi .itK a;ombui curandis gcftntionc Actius vtcb.itur X98.C Scomacho
l.>borancibus vnftiones cxcrcita tioncs,S£ vocifcrationci commcndat Oa lcnus
. . »8'' Stomachicos n.itatio maritima iuuatjo^ c Strii;ilcs balncorum quid
cUcnt, et cx qua inatcria hcrcnt 3'^' Siudia corpus confcruant fanum 7 A Sudorcs
corpus cx luniunt Sudor cft motu piouocandus,5c q»a dccatt Ta . Sudor finc motu
proucnicnf dctcrior co dt quj a laborcproucnit »53^ Sudor ijua dc caufa manus
cxcrccniibus cx Arift fcntcntia cffluat »47 c Sudor liccus qnisfucrit Suc
omjlocusdcrcincdioh.ncnaru et aru dinii.Aiigu :ti,qu.j fit mtciligcdus. 264 t
Suftii(i o'1's co.o ts fubcos ludicant a^i.i SurdtcatccaptosGjj.Tral. 6c Actius
gciU- tionc curabant ^ a Theon Alcxan deathlccica fcripfic 70. c Th' rpiui
pocta riltator cur /ic vocatusioi. b Thv /Tcilus mcdicus Ncronis actatc floruit
. is^.a Theffali qna dc caiifa ccntauri fint Tocati. 167 c Tjbcrius Impcr.
fcimpodio quandoq; re- hcbatur Timonis a v.\i Juobus nicnfibus, finouiis annis
in cufC-nis IiticabJt " y.a Tyrrhcni lub eodei» regmncnto cum mu- lieribus
jccumbcbanc f^.c Tjrrheni nd tibiam pugnis certabant 107. c Titus
Imp.hujbatur,vbi et plcbs 16 f Titus In.p.qua dc ciuIj /it mortuus 47 a
Tonfillas pjtjcntibus iuda noccc Thoraccm hJtcre lardit . 25^. f& difcus.
Thorax humidus ambuKirione fada cilci- bus incunibcndo fauatur 2^3.3 Thorax
difficultcr fpiras deamhulati' ne p accliue fada luu it cx Antvili /iua 2^^3 .5
Ti i.; erant Kt mx Joca,vbi licterarix cxci ci tatioi:rs h.banr,& t|n« z^.b
Tricliniuin marm orcum vetufti/fimu Pa tauij in nedibus Khaniniifijnis ^6
Tryphon dc atbleiica fcripfic Tripudia nfa faltationibus antiquoru cor-
rcfp6det& in quo .ib illisd fferar 239. b Trochus græcus (|uomodo fiftus
cflct no- bis cft ignotus i62.f.& iatinus ibj.& qui- bus conucniat
2op.c Tubi perquos circufundcrctur calorpro- diens ex bypocaurto 4^.3
Tubicinibus ipiricu rctcnro pcritona:um runipitur 280. c Tumorcs laxos
gcftatione Actius curabat 298.e Tuflfis (icca, fpiritu reteto,curfu no in pul
uerc fa{ko curatur ex Celfi fnia 2/o.e Tuflis i frigidacnufi orta fpniius
cohibi- tionccuratur 278.^ Tiifli^ a filcntio cxtinguiiur i^^.f Tybcrius
Impcrator omnium primuscolis d'.vIorcm cxpcrtus 4 f V ^TAIerius apcr milcs
cæcus quo rcmc- dio, oraculo pra?nunciante, fucnt a cicit..tc libcraius f.c
Vjlcriob rc^cpniar contra Fuchfiuin, fol- Icm et Corycum diffcrre Valcrudin.jnj
quomodo Cwt C/fcrcendi . 20p.b.23o.d Vjljrium quid cfret 43.^ Varices pjticntes
fjltum erftjoianr: 25 f.i Vjricibus Ijborantes cre£li ftare non dc- bcnt 16^ b
V.iriccs quomodo gcnercntur ibid. Variar lc Romana if^.c Ventres fngidos luda
curac 2 4y.a.& curfus 2JO.f Vertiginofos manuu gcfticulationc curabat
Arct;tus 240. d VerriginolosI.Trditfaltatio 24o.c.&pilv lufus Vcrtiginofi
luftam vitarc dcbent 1^6. c et curfum ciicularcm. 2j:2.f. 2^2 f& trochum.
201; c Vcrtit;inof?js m.^Ic curabat Aret.rus pugi- Jjtn 247 c. cuiabat c:iam
difci cxcrcit.-i- tionc 25 7. c Vcrci- I N D E X ^cmginora p.ifllo vndc omtur
i^Ti.f Vci tioinofos ycajiione Gal.Tral.& Aci.cu rubant ^ ^ VcrcJuN cr.u
vchiculi fpccics i Vcrus I npC: priinuscuin duodccim (olcni conuiuio .iccubuic
54«a Vcficx lupiUi optime,rjltattonc cxtrudun tur VixapuH vctcrcs grarcos qux
hnt 2i7'C Vitjili.r l"«nuin corptis conlcrujnt 7 or.inccs lcdica vti
potTuni. I9f a ViJ»cr.iriiin morlibus tibt.iruin moduli pro- lunt.vt Gtllius
rcfcrt lc jpud Thtnphra itum inucniirc i^^.c Virgo lons ladu crat iucundtlTima
y o.f VirgmcN lccundu m 1'btoncm lunt in gym- n^ifticabcllica t xcrccnJx 66S
Viri tJnrum apud aiuiijuo accuinbcb.it,non muhcTcs y?c Viri apudantiquosquoium
niodo accum- bcrcnt H-^ Virinoic quid intcliigat hic auftor. iiS.c Viri funt
tcrc omuibus iuor>l>us apti. z i i.r Vilus dcbdicati . Jt oOicuritjti
gelbtiorc- tio icrla facic tjcla, Auicen.autho.^c.con tcrt 298 d Vitruuiosfl
iruitxtatcCjf.Aug.iS.d cius auihorituv apud jntiquos parua luir.iKid. VlccribuN
quictc curandis llarc et lcdcrc ad ucrfantur 13^ Vlccribus intc. nisjCf 1 et
Cel. auihonbus, dcambulauo rcnv^a, et molLtcr f-^da prodcft i6\.c Vnftione qui
nam vtcrentur 30 d Vrd onts mJtcr.aqux fucrit Ji.d Vnaionis finif 3 3 c Vndio
poft balnca quid prxftabJt 3 1 .f Vnd 10 ab aotiquis quomodo ticrct, cii !n-
ccnum ^d VnAionibus in miiltis cxcrcirarif»nil us jn- iKiui vtcb.«nrur,&
qua dc caula x 3 icic^asna- ui-Jiionc lihcratusclt lyj^.c.joi.C a>T4rvf qu;d
iii 64 f.5>4. f- cius vtihtas. AKnSnp mcndicum,& crroncum ligniticat 1
i8 d f ^ifdflU quid fignificct.i 4y courtesy of the Bibli REGISTRVM *
ABCDEFGHIKLMNOPQJ^STVX. Omnes/untquaternionespr.Ttcr * &X qui
funttcrnioncs, ac Dquintcrnionenu. VENETIIS, APVD IVNTAS. M D C i Grice:
“Mussolini said that ‘ginnasta’ and indeed ‘ginnasio’ were effeminate –
‘ginnico’ is the word!” -- Geronimo Mercuriale. Mercuriali. Girolamo
Mercuriale. Mercuriale. Keywords: il ginnasio, attivita ginnica, bagni romani,
Refs.: H. P. Grice, “Me and the demijohns,” Luigi Speranza, “Ginnasia,” The
Swimming-Pool Library, Villa Grice. Mercuriale.
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice e Meriggi – il deutero-esperanto – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Como). Filosofo
italiano. Como, Lombardia. Citato da VAILATI (vedasi), “SCRITTI” – “un
appasionato”. Progetto di lingua a priori, il blaia zimondal è elaborato da M.,
professore dell'istituto tecnico di Como. Il blaia zimondal parte da un
principio fono-simbolico. Ciascun *suono* possede un significato naturale
(Grice) o *senso* generale corrispondente al suo modo naturale di formazione
fisiologico – fisi, NATURA -- luogo e modo di articolazione dei foni. Così ad
esempio -- a, vocale aperta, esprime ciò che è grande, alto, forte, bianco,
evidente. -- i, vocale ANTERIORE alta, per il fatto che è prodotta serrando
quasi completamente la bocca, esprime ciò che è piccolo, basso, leggero,
interiore -- u, vocale POSTERIORE alta, esprime ciò che è basso, scuro,
pesante, lontano, futuro -- p, consonante occlusiva bi-labiale sorda,
suggerisce idee di forza, pressione, pesantezza, caduta, blocco repentino -- k,
consonante occlusiva velare sorda, simboleggia l'idea di solidità, di siccità
-- l, consonante laterale, esprime le idee di fluidità, di morbidezza,
d'elasticità -- r, consonante vibrante, esprime le idee di rotazione, rapidità,
rumore. L'udito dei vertebrati si è evoluto principalmente con questo scopo:
identificare la natura degl’eventi a partire dal suono che emettono. Solo più
tardi l'udito è stato ri-ciclato dalla nostra specie per servire
all'apprezzamento di parole o musica. Ma il ri-ciclaggio è stato solo parziale.
NOBILE (vedasi), VALLAURI (vedasi), Onomatopea e fono-simbolismo, Roma, Carocci,
Bussole. La capacità di associare dei suoni della propria lingua a suoni
naturali è, a detta di VALLAURI (vedasi), professore a Roma, propria degl’esseri
vertebrati. In sostanza, cioè l'uomo è in grado di produrre suoni che ri-producono
avvenimenti della realtà e di associare a questi - più o meno consciamente -
determinate idee. Così,malgrado l'alto grado di formalizzazione che i suoni del
latino deve possedere per funzionare da supporto del sistema morfo-sintattico e
lessicale, esso conserva dunque una prossimità sufficiente ai suoni naturali –
nel senso da H. P. Grice, ‘fisiologia razionale’ – natura -- per surrogarne
l'originaria funzione biologica di indizi percettivi degl’eventi rumorosi. Sul
fenomeno del fono-simbolismo è comunque consigliabile una certa cautela. Ad
esempio, sebbene il suono vocalico [i] puo ri-condurre alle idee di piccolo,
carino, soave (cfr. it. 'gattino', 'micio'), e il suono vocalico [o] a idee di
grandezza, mascolinità, robustezza (cfr. it. 'colosso'), non possiamo ignorare
i numerosissimi alegati contro-esempi, sia latini o italiani (cfr. it.
'massiccio') che non (cfr. ing. big 'grande' e small 'piccolo'). «fl» esprime
il senso di fluidità e liquidità insieme (cfr. lat. FLUMEN, it. 'fiume'. L'associazione
di significati – SEGNATI -- a singoli fonemi e nessi consonantici è un tema
ricorrente nella filosofia a partire dal Cratilo di Platone, che riconosce ad
esempio alla lettera greca lábda |! un valore di scivolamento, come dimostrano
le parole greche léia 'cose lisce', olisthánein 'scivolare' o liparón 'unto'. Anche
il matematico e crittografo inglese Wallis nel De etymologia sostiene che il
nesso consonantico [sl] veicola l'idea di scivolamento -- cfr. ing. slide,
slip, slime, slow. Ne discorre ampiamente, in tempi più vicini al filosofo,
anche Brosses nel suo Traité de la formation mécanique des langues et des
principes PHYSIQUES [fisi: natura] de l'étymologie, in cui sostiene che il
nesso [fl] evochi l'idea di fluidità - cfr. lat. fluere 'fluire', fr. souffler
'soffio', ing. to fly 'volare') e l'italiano CESAROTTI (vedasi) nel suo Saggio
sulla filosofia delle lingue nel quale, trændo proprio da Brosses la maggior
parte degli esempi, riporta proprio il caso del nesso [fl] della parola latina
FLUMEN come espressione di liquidità -- Per approfondimenti sull'ideologia
linguistica di CESAROTTI (vedasi) vedasi BAGLIONI, L'etimologia nel pensiero
linguistico di Cesarotti, in Cesarotti. Linguistica e antropologia nell'età dei
Lumi, cur. Roggia, Bari, Carocci] «bl» esprime il senso della parola; «kr»
ricorda le armi e le macchine; e così di
seguito, con l'abbinamento di ogni suono a una determinata capacità espressiva.
Se il singolo suono contiene gia da sé un significato [NATURALE, o megliore,
FISICO, O FISIOLOGICO], combinando i suoni a due a due è possibile costruire
dei significati più complessi, risultati dalla somma dei singoli significati. A
questo modo :«pr» la pressione rumorosa. Con questi elementi è possibile
formare delle radici monosillabiche corrispondenti a delle idee precise. Ad
esempio congiungendo le sillabe «kl» (composizione delle idee di solidità e
fluidità insieme che corrisponde praticamente all'idea della costruzione,
artificiale e naturale -- e «am», che esprime l'idea dell'amore. La sequenza
«klam» INDICA il concetto di 'casa'. Ma «klim», che rende l'idea del piccolo e
della costruzione, significa 'stanza da bagno'. È evidente che tutte le radici
di sensi vicini si formano tramite la combinazione e la variazione delle vocali
e delle consonanti. Sebbene si tratti di
una lingua a priori, cioè non derivata da altre lingue storico naturali, vi è
un caso in questi due sistemi linguistici si incontrano, ed è, ovviamente,
nelle onomatopee. Essendo il blaia zimondal una lingua di tipo filosofico –
alla J. L. Austin, “Sound Symbolism,” Bodlein, consultato da H. P. Grice -- che
vuole dimostrare la vicinanza dei suoni della lingua ai REFERENTI extra-linguistici,
le espressioni linguistiche di suoni già presenti in NATURA non possono che
essere modellate su questi stessi. Così ad esempio si ha «uul» per 'ululare',
«meua» per 'miagolare, ecc. Non mancano comunque casi di somiglianze con
altre lingue realmente parlate, e in particolare con le lingue romanze e
germaniche, forse retaggio della provenienza linguistica e della formazione
dell'autore: «bank» per 'banca', «ordo» per 'ordine’. Cesare Meriggi. Meriggi.
Keywords: deutero-esperanto. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Meriggi”.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Merker:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – il filo d’Arianna –
Arianna abbandonata a Nasso – la scuola di Trento -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Trento). Filosofo italiano. Trento, Trentino. Grice: “My
favourite of his books is ‘storia della filosofia ai fumetti.” -- Grice: “The
fact that he found Italian words for all that Kant says in “Metafisica dei
costume” is admirable!” -- Grice: “I love Merker, and for many reasons; he has
philosophised on what makes me an Englishman: my blood, or the fact that I was
born in Harrborne?” Grice: “I love Merker: he uses metaphors aptly like ‘il
filo d’Arianna’ to refer to what I pompously call ‘the general theory of
context.’ --Si laurea a Messina. Trascorse
un periodo di ricerche in Germania. Allievo di VOLPE, insegna a Messina e Roma.
Cura edizioni italiane di classici dell'età della Riforma, dell'Illuminismo e
dell'idealismo, nonché di Marx, Engels e del marxismo. Dopo essersi occupato
dei problemi lasciati aperti dalla Seconda guerra mondiale, si occupa dell'idea
di nazione, dell'ideologia colonialista e infine del fenomeno populista. Da
ricordare la sua opera di divulgazione della storia della filosofia. Inoltre
egli ha scritto ben trenta voci per l'enciclopedia filosofica della Bompiani,
fra cui le più importanti sono su Heine, Mann, Zweig. Altri saggi: Le origini
della logica, Milano, Feltrinelli; L'illuminismo, (Bari, Laterza – la metafora
della luce della ragione ; Lessing e il
suo tempo, Cremona, Convegno; Marxismo e storia delle idee, Roma, Riuniti, Storia della filosofia, La filosofia moderna.
Il Settecento, Milano, Vallardi, Alle origini dell'ideologia. Rivoluzione e
utopia nel giacobinismo” (Roma, Laterza); Storia della filosofia, Roma, Riuniti);
STORIA DELLA FILOSOFIA: L’ETA ANTICA -- Storia delle filosofie, Firenze, Giunti
Marzocco; Marx, Roma, Riuniti; Erhard, in L'albero della Rivoluzione. Le
interpretazioni della rivoluzione francese, Torino, Einaudi; La Germania.
Storia di una cultura da Lutero a Weimar, Roma, Riuniti; Lessing, Roma, Laterza;
Il socialismo vietato. Miraggi e delusioni da Kautsky ai marxisti” (Roma,
Laterza); Storia della filosofia moderna e contemporanea, Roma, Riuniti, “Il
sangue e la terra. Due secoli di idee sulla nazione, Roma, Riuniti, -- sangue
lombarda – piccolo vedetta lombarda – sangue romagnola -- Atlante storico della
filosofia, Roma, Riuniti, Europa oltre i
mari. Il mito della missione di civiltà, Roma, Editori, Filosofie del
populismo, Roma, Laterza, Marx. Vita e
opere, Roma, Laterza,. Il nazionalsocialismo. Storia di un'ideologia, Roma,
Carocci,.La guerra di Dio. Religione e nazionalismo nella Grande Guerra, Roma,
Carocci, La Germania. Storia di una cultura da Lutero a Weimar, Roma, Riuniti, Hegel,
Estetica, Milano, Feltrinelli, Torino, Einaudi, Kant, La metafisica dei costume (Grice: “My
favourite Kant, by far!”), Bari, Laterza, Hegel, Rapporto dello scetticismo con
la filosofia, Bari, Laterza, Paracelso, Scritti etico-politici, Bari, Laterza,.Lukács,
Scritti politici Bari, Laterza, Herder,
James Burnett, Lord Monboddo, Linguaggio e società, Bari, Laterza, Lessing,
Religione, storia e società, Messina, La Libra, Kant, Lo Stato di diritto, Roma,
Riuniti,Forster, Rivoluzione borghese ed emancipazione umana, Roma, Riuniti, Humboldt,
Stato, società e storia, Roma, Riuniti, Marx, Engels, Opere, Roma, Riuniti, Roma,
Scritti economici di Marx. Roma, Editori Riuniti, Fichte, Lo stato di tutto il
popolo, Roma, Riuniti, Hegel, Il dominio della politica, Roma, Riuniti, La
scimmia e le stelle, Roma, Riuniti, Maj,
Il mestiere dell'intellettuale, Roma, Riuniti, Kant, Stato di diritto e società
civile, Roma, Riuniti, Fichte, La missione del dotto, Roma, Riuniti, Marx, un
secolo, Roma, Riuniti,Kant, Per la pace perpetua. Un progetto filosofico Roma,
Riuniti, Hegel, Detti di un filosofo, Roma, Riuniti, Marx, Engels, La sacra famiglia, Roma,
Riuniti, Marx, Engels, La concezione
materialistica della storia, Roma, Riuniti, Kant, Che cos'è l'illuminismo?,
Roma, Riuniti, Lessing, La religione dell'umanità, Roma, Laterza,, Forster,
Viaggio intorno al mondo, Roma, Laterza, Engels, Viandante socialista, Soveria Mannelli,
Rubbettino, Hegel, Dizionario delle idee, Roma, Riuniti, Osborne, Storia della
filosofia a fumetti, Roma, Riuniti, Bauer, La questione nazionale, Roma, Riuniti.
La discreta classe delle idee. E’ Merker,
asul sito di Rifondazione Comunista Il
contesto è il filo d'Arianna. Studi in onore di M., S. Gensini, Raffaella Petrilli, L. Punzo,
Pisa, ETS, T. Valentini, “Ideologia della nazione” e “populismo etnico”. Le
riflessioni storico-filosofiche di Merker, in R. Chiarelli, Il populismo tra
storia, politica e diritto, Rubbettino, Soveria Mannelli, Curriculum vitae, su
uniurb. Curriculum vitae. Nato nel circondario di la scuola materna e le elementari, nonché al Wilhelms-Gymnasium la
prima classe ginnasiale. Trasferitosi a
Trento, continua ivi la scuola media e il ginnasio-liceo fino alla maturità classica conseguita al
Liceo "Prati" di Trento.
Iscritto alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell'università di Messina,
si laurea ivi con 110 e lode in
filosofia e una tesi su "Hegel e lo scetticismo". Con una borsa di
studio è a Napoli all'Istituto italiano per gli studi storici ("Istituto
Croce"), e poi in Germania un periodo di ricerche. Alla Facoltà di Magistero di Messina è presso
la cattedra del filosofo Galvano della Volpe assistente volontario, poi
straordinario, incaricato e infine ordinario. Nella medesima Facoltà,
conseguita la libera docenza in Storia della filosofia, è stato professore
incaricato di Storia delle dottrine politiche,
temporaneamente anche di Estetica, e, a concorso vinto, professore
straordinario di Storia della Filosofia. Vi ha diretto l'Istituto di filosofia
e per incarico temporaneo anche quello di Letteratura francese. Chiamato alla cattedra di Storia della filosofia
moderna e contemporanea della Facoltà di Lettcre e Filosofia dell'università di
Roma "La Sapienza", vi ha
conseguito l'ordinariato ed ha poi continuato la sua attività Facoltà di Filosofia di quell'ateneo seguito per
l'insegnamento di Storia della filosofia moderna. Uscito dai ruoli, è
professore emerito dell'università "La Sapienza" con decreto
ministeriale. Nella Facoltà di Lettere e
Filosofia ha presieduto per un paio di anni la
Commissione di Facoltà per l'ammissione degli studenti stranieri, nella
Facoltà di Filosofia è stato per un lungo periodo presidente della Commissione
scientifica del "Centro di servizi
interdipartimentali Biblioteca di Filosofia". Nella Facoltà di Filosofia
ha fätto parte di un collegio di Dottorato. E stato più volte in commissioni
universitarie di concorso per docenti universitari di prima e seconda fascia,
nonché in vari atenei per concorsi di ricercatore. Ha partecipato con relazioni
a congressi internazionali di filosofia e storia delle idee, a iniziative
culturali di università europee (Innsbruck, Zagabria), all'attività didattica
di vari Dottorati in Filosofia, a conferenze e dibattiti con studenti dei
licei. Ha tenuto un seminario di lezioni presso l'Istituto italiano per gli
studi filosofici di Napoli. Per
formazione e storia personale è bilingue (italiano e tedesco) riguardo a
lettura, scrittura ed espressione orale. Ha buona lettura dell'inglese,
francese e spagnolo, familiarità con il
francese e inglese orale. Adopera il computer per uso personale di lavoro, non
ha capacità e competenze artistiche.
Studi e ricerche Iniziali
attenzioni per la logica e dialettica di Hegel si sono concretate nella
monografia Le origini della logica di Hegel. Hegel a Jena. Successivi interessi
per periodi fondamentali della cultura in Germania, - dall'epoca della Riforma
(ad es. con un'edizione italiana di testi politici di Paracelso) fino al secolo
illuministico - hanno condotto alle monografie L'illuminismo tedesco. Età di
Lessing e Introduzione a Lessing. Un percorso parallelo e ulteriore - intramezzato in Dialettica e storia da un tentativo di
bilancio dei problemi - ha collocato via via le vicende della filosofia dentro
un più ampio quadro di storia della cultura nel quale assumono particolare
rilievo le idee e dottrine politiche dell'età moderna. Ne è un esempio la
monografia La Germania. Storia di una cultura da Lutero a Weimar. Studi specifici sono stati dedicati al
pensiero politico liberale di Kant, Fichte e Humboldt, poi ai giacobini
tedeschi in edizioni di testi e nella monografia Alle origini dell'ideologia
tedesca. Rivoluzione e utopia nel giacobinismo.
Con un'appendice di testi e
documenti. La linea d'indagine di storia delle idee si è estesa verso Marx e il
marxismo, con i libri Marxismo e storia delle idee, Marx e Il socialismo
vietato. Miraggi e delusioni da Kautsky agli austromarxisti, nonché con la cura
di parecchie edizioni italiane di opere di Marx ed Engels. L'interesse per i problemi rimasti aperti
nell'epoca della Seconda Internazionale ha poi stimolato ricerche sull'idea di
nazione, sulle ideologie del colonialismo e sul fenomeno politico-culturale del
populismo (con, rispettivamente, le monografie Il sangue e la terra. Due sécoli
di idee sulla nazione; Europa oltre i mari. Il mito della missione di civiltà;
Filosofie del populismo. Vi si è aggiunta una ricostruzione storico-critica
della vita e delle opere di Marx e delle sue incidenze (Karl Marx. Vita e opere.
Monografia Il nazionalsocialismo. Storia di un'ideologia che ha collegamenti
con le ricerche precedenti sul populismo.
L'analisi delle tendenze e dei nessi che emergono dalla storia delle
idee si è accompagnata anche a riflessioni sul metodo della storiografia
filosofica e a tentativi di renderla fruibile per la didattica. Di questo
filone hanno fatto parte un manuale di Storia della filosofia e più volte
riedito, e un Atlante storico della filosofia. Bibliografia Complessivamente le pubblicazioni - tra monografie, articoli vari, saggi, recensioni, voci di enciclopedie, relazioni a
convegni, testi in opere collettive -
ammontano finora a molti. Di cui
sono monografie: Il nazionalsocialismo,
Storia di un'ideologia, Roma; Karl Marx. Vita e opere, Roma; Filosofie del
populismo, Roma 2009; Europa oltre i mari. Il mito della missione di civiltà,
Roma; Atlante storico della filosofia (Roma; Il sangue e la terra. Due secoli
di idee sulla nazione, Roma; Il socialismo vietato. Miraggi e delusioni da Kautsky agli
austromarxisti, Roma; Introduzione a Lessing, Roma; La Germania. Storia di una
cultura da Lutero a Weimar, Roma; L'illuminismo in Germania. L'età di Lessing,
ediz. rinnovata e accresciuta, Roma; Marx, Roma; Alle origini dell'ideologia
tedesca. Rivoluzione e utopia nel
giacobinismo. Con un'appendice di testi e documenti, Roma-Bari, Marxismo e
storia delle idee, Roma; Dialettica e storia, Messina; L'illuminismo tedesco.
L'età di Lessing, Roma; Le origini della logica hegeliana. Hegel a Jena, Milano.
Nicolao Merker. Keywords: storia della filosofia – l’eta antica --. il filo
d’Arianna, Teseo e il minotauro – omo-sociale – Teseo – Arianna abandonata,
giacobinismo, populismo etnico – etnico ennico etnicita ennicita – etnos, Greek
ethnos, Latin ethnos -- -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Merker” – The
Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice e Messalla: la ragione conversazionale e l’orto romano –
Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Garden. Friend of Orazio. They study
philosophy together. He opposea GIULIO (si veda) Cesare but eventually makes
his peace with Ottaviano. He writes philosophical treatises. Allow me to address
briefly the L’ORTO philosophy within the context of the difficult tines
covering the years which witness the downfall of the republic and the birth of
the principate. In 'L’ORTO in Revolt'
(J.R.S.) Momigliano takes as a starting point the conversion to L’ORTO of CASSIO
who rapidly comes to the conclusion that GIULIO Caesar has to be eliminated
because of what appear to be his tyrannical tendencies. The author emphasises
that during this crucial period the adherents of the L’ORTO philosophy did not
maintain a passive political aloofness. While some followers of L’ORTO actively
support GIULIO in a noderate way, a mumber oppose him, among whom are I. Manlio
Torquato, Trebiano, L. Papirio Paeto, M. Fadio Gallo, and, as the evidence
suggests, L. Saufeio and Statilio. Monigliano concludes with the statement that
on the whole, the events prove that Cassio is not an exceptional case among the
contemporary L’ORTO. The majority stand for the Republic against
Caosarisa." Horace seens to have felt an antipathy tovarda Mbullus and his
patron M. which may be explained to sone extent by political factors, in
particular the strong republican sympathies which the latter still professs
under the principate. Of M., Monigliano notes that ORAZIO writes of him,
'quanquan Socraticis madet sermonibus', a dubious expression, but the Ciris
(whatever its date and author) shows him well acquainted with the L’ORTO circle,
and his leader is, as he proudly proolaimed, Cassio (Tac.Ann.; Dio; Plut,Brut.).
I suspect then that he is a definite member of L’ORTO. It is, then, I think
possible that M.'s political persuasions are coloured by his philosophical
thinking and that his intellectual interest in L’ORTO is not nerely of an
ethical nature. Monigliano, arguing along the lines of Diels, maintains that in
a passage of his treatise on the gods FILODEMO of L’ORTO is expressing a
political viev: "the words reflect the indignation of a man who sees the
defenders of the Republic play into the hands of the tyrant. Similarly in his
treatise on death the same philosopher recoends that sen should be ready to
face death in the event of political persecution. Followers of L’ORTO are
capable of reacting decisively to political circumstances, this being a major
point advanced by Monigliano who maintains for instance that the sane Saufeio is
not outside politics absorbed in the 'interrundia' but that he mingles
philosophy and political action which probably acoount for his being exiled and
falliag riotin to the proscriptione, and that Cicerone’s friendship with a
number of L’ORTO is based on the faot that adherents of the philosophy
possessed political feelings with which he sympathised. Both democracy and the
non-tyrannical state find approval in the L’ORTO theory of the social contract,
though the adherent of the philosophy is generally advised to renain outside
politios. When ve consider M.’s resignation fron the office of 'praefectara
urbis' on the grounds that the pover with which he vas invested was
unconstitutional (incivilis; see Putnam, C.A.H) I suspect that republican
scruples combine with his adherence to a philosophical mode of thought which
preached political aloofness, affected hio decision. His is a detached
involvement" comments Putnam on M.'s republican sympathies and resignation
from office, and suggests political as vell as stylistic sympathy between M.
and Tibullus. The philosophical overtones in Mbullus' work in uy opinion
reflect this sympathy and remind us that both poet and patron have reservations
about contributing wholeheartedly to the advancement of the new regime and its
ideals. In the programme elegy it is a detachment from the sort of life which
would contribute to the welfare and strength of the state which the poet
manifests. Disambiguazione – Se stai cercando
l'omonimo, si veda M. console. Console della Repubblica romana Scultura che
probabilmente ornava la parte superiore di un piedistallo marmoreo contenente
l'urna cineraria di M., rinvenuta nella villa di quest'ultimo ed ora conservata
nel Museo del Prado. Figli Marco Valerio M. Messallino. GensValeria PadreMarco
Valerio M. Corvino Consolato. Proconsolatoin Gallia Comata. Militare e filosofo
romano, patrono della letteratura e delle arti. Membro dell'antica gens
Valeria, di ideali repubblicani, nella battaglia di Filippi combatté al fianco
di Bruto e Cassio. Passa poi dalla parte di Antonio ed infine entra nelle file
di Ottaviano. Trionfo di M. -- rappresentazione sul frontone del Palazzo
Krasiński a Varsavia, opera di Schlüter Si trovava nell'Illyricum a combattere
gl’Iapidi a fianco di Ottaviano come tribunus militum. Consul suffectus assieme
ad Ottaviano, e prese parte alla Battaglia di Azio a fianco di quest'ultimo. In
seguito ha il comando di una missione in Asia Minore. Combatté contro il popolo
alpino dei Salassi, come proconsole della Gallia, dove soppresse anche una
rivolta tra gl’Aquitani. Per queste imprese celebra un trionfo. Tacito
riferisce che e nominato praefectus urbi, ma M. rinuncia alla carica dopo pochi
giorni adducendo motivazioni legate alla sua incapacità di esercitare
l'incarico. In quanto princeps senatus, autorevole esponente dell'aristocrazia
romana, avanza la proposta dell'attribuzione a Ottaviano del titolo di pater
patriae. M., letterato Alla partecipazione alla vita pubblica, accompagna
l'interesse per la filosofia. Influenza considerabilmente la filosofia che
incoraggia sull'esempio di Mecenate. Il gruppo che lo circonda e noto come il circolo
di M.. Tra gli altri comprende Tibullo e Ligdamo. Amico di ORAZIO (si veda) ed
OVIDIO (si veda). Elogiato da Tibullo per le sue vittorie in una elegia nel Corpus
Tibullianum e in un poemetto -- il Panegirico di M. Suoi omonimi sono il padre,
console, il figlio Valerio Messallino, e un discendente M., console come
collega dell'imperatore Nerone. Una sua parente, forse una sorella, sarebbe la
Valeria, sposa di Quinto Pedio, console
insieme ad Augusto, che aveva proposto la lex Pedia contro i
Cesaricidi. Syme Wilkes Velleio Patercolo, Tibullo, Tacito, Annales:
quasi nescius exercendi. Svetonio, Augustus. Fonti antiche, Appiano di
Alessandria, Historia Romana (Ῥωμαϊκά) Dione Cassio, Storia romana. (testo
greco e traduzione inglese). Svetonio, De vita Caesarum libri VIII.
(testo latino e traduzione italiana). Tacito, Annales. (testo latino,
traduzione italiana e traduzione inglese). Tibullo, Corpus Tibullianum. Velleio
Patercolo, Historiae Romanae ad M. Vinicium consulem libri duo. Fonti
storiografiche moderne Cantarella, «M., Ovidio e il circolo dei poeti»,
Corriere della Sera, Syme, L'aristocrazia augustea, Milano, BUR, Wilkes,
Dalmatia, in History of the provinces of the Roman Empire, Londra, Routledge Voci
correlate Casal Rotondo. M. Corvino, Marco Valerio, su Treccani.it –
Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Olivetti e
Lenchantin De Gubernatis -, M., in Enciclopedia Italiana, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, M. Corvino, Marco Valerio, in Dizionario di storia,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana, M. Corvino, su sapere.it, De Agostini.
Marcus Valerius M. Corvinus, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia
Britannica, Inc. Opere di Marco Valerio Messalla Corvino, su PHI Latin Texts,
Packard Humanities Institute. Opere di Marco Valerio M. Corvino, su Open
Library, Internet Archive. Predecessore Consoli romani Successore Gneo Domizio
Enobarbo, Gaio Sosio con Gaio Giulio Cesare Ottaviano III Gaio Giulio Cesare
Ottaviano IV, Marco Licinio Crasso. Circolo di M. V D M Guerra civile romana
VDM Conquista romana dell'Illirico. Portale Antica Roma Portale
Biografie Portale Età augustea Categorie: Militari romani Scrittori
romaniMilitari del I secolo a.C.Scrittori del I secolo a.C.Romani Consoli
repubblicani romaniValeriiGovernatori romani della SiriaAuguriGovernatori
romani della Gallia Mecenati romani[altre] Marco Valerio M. Corvino, console. Marco
Valerio M. Corvino Console della Repubblica romana Nome originaleMarcus
Valerius Messalla Corvinus FigliMarco
Valerio Messalla Corvino GensValeria Pretura Consolato Censura Marco Valerio M.
Corvino (in latino Marcus Valerius M. Corvinus
o anche Marcus Valerius M. Niger; filosofo
romano. Pretore quando Cicerone e console e, console quando Publio Clodio viola
i misteri della Bona Dea. Censore assieme a Vatia Isaurico, e sempre in carica,
tentarono di regolare lo straripamento del Tevere. Non tennero il lustrum. Smith,
Dictionary of Greek and Roman Biography and Mythology, Boston: Little, Brown
and Company, Robert S. Broughton, The magistrates of the Roman Republic, II,
New York, Predecessore Console romano Successore Decimo Giunio Silano e Lucio
Licinio Murena con Marco Pupio Pisone Frugi Calpurniano Lucio Afranio e Quinto
Cecilio Metello Celere Portale Antica Roma Portale Biografie Categorie: Politiciromani
Consolirepubblicani romani Valerii [altre] Consul. Roman Senator who lived in
the Roman Empire. He might have been the brother of empress Messalina. A
member of the Republican gens Valeria. The namesake of the Senator and Augustan
literary patron. He may have been a son of the Senator and consul Marco Aurelio
Cotta Massimo Messalino, who was a son of M. or possibly the son of the consul
Marco Valerio Messalla Barbato, thus making him the brother of Valeria
Messalina, the third wife of the emperor Claudio. A member of the Arval
Brethren. Served as an ordinary consul with the emperor Nerone and then as a
suffect consul with Gaio Fonteo Agrippa. Starting with his consulship, he is
granted an annual half a million sesterces to maintain his senatorial
qualifications. Biographischer Index der Antike, Lucan, Civil War
Paterculus, The Roman History, Lucan, Civil War Shotter, Nero Der
Neue Pauly, Stuttgart, Tacitus, Annales, Tacitus, Annals of Imperial Rome D.
Shotter, Nero, Routledge, Lucan, Civil War, Penguin, Velleius Paterculus, Yardley
e Barrett, The Roman History, Hackett Publishing, Biographischer Index der
Antike, Gruyter, Political offices Preceded by Nero II, and Lucius Caesius
Martialis as Suffect consulsConsul of the Roman Empire with Nero III, followed
by Gaius Fonteius Agrippa. Succeeded by Aulus Petronius Lurco, and Aulus
Paconius Sabinus as Suffect consuls Categories: Valerii MessallaeAncient Roman
patricians1st-century Roman consuls1st-century clergy Marcus Valerius
Messalla Corvinus Article Talk Read Edit View history. Not to be confused
with Marcus Valerius M. Corvinus, consul. Marcus Valerius M. Corvinus. A Roman general, author, and patron of
literature and art. The triumph of Corvinus in the pediment of the
Krasiński Palace in Warsaw Print of the Roman General, made by Hendrick
Goltzius. Corvinus was the son of a consul, Marcus Valerius M. Niger, and his
wife, Palla. Some dispute his parentage and claim another descendant of Marcus
Valerius Corvus to be his father. Valeria, one of his sisters, married Quintus
Pedius, a maternal cousin to the Roman emperor Augustus. His great-grandnephew
from this marriage is the deaf painter Quintus Pedius. Another sister, also
named Valeria married Servius Sulpicius Rufus, a moneyer. Corvinus marries
twice. His first wife is Calpurnia, the daughter of Marco Calpurnio Bibulo.
Corvino had two children with Calpurnia: a daughter, Valeria Messalina, who
married Titus Statilius Taurus; and a son called Marcus Valerius M.
Messallinus, consul. His second son was Marco Aurelio Cotta Massimo Messalino,
consul, who is believed to have been born to a second unknown wife on the basis
of the 22-year gap between the consulship of the elder son and the consulship
of the second son. The writings of the poet OVIDIO (Ex Ponto) reveal that the
second wife of Corvino is a woman called Aurelia Cotta. Another fact supporting
the theory that Aurelia Cotta is the mother of Marcus Aurelius Cotta Massimo
Messalino is that he was later adopted into the Aurelii Cottae. Corvino is
educated partly at Athens, together with ORAZIO and CICERONE. He becomes
attached to republican principles, which he never abandones, although he avoids
offending GIULIO Cesare or OTTAVIANO by not mentioning them too openly. He
is proscribed, but manages to escape to the camp of BRUTO il giovane and CASSIO.
After the Battle of Philippi, he goes over to MARC’ANTONIO, but subsequently
transfers his support to OTTAVIANO. Corvino is appointed consul in place of
MARC’ANTONIO and takes part in the Battle of Actium. He subsequently holds
commands in the East and suppresses the revolt in Gallia Aquitania. For this
latter feat, he celebrates a triumph. Corvino restores the road between
Tusculum and Alba, and many handsome buildings are due to his initiative. He
moves that the title of “pater patriae” be bestowed upon OTTAVIANO. Yet he also
resigns from the post of prefect of the city after six days of holding this
office because it conflicts with his ideas of constitutionalism. It may have
been on this occasion that he utters the phrase (but in Latin) "I am
ashamed of my power". His influence on literature, which he encouraged
after the manner of Gaius Maecenas, is considerable, and the group of literary
personalities whom he gathered around him — including Tibullus, Lygdamus and
the poet Sulpicia — has been called "the M. circle". With ORAZIO and TIBULLO
he is on intimate terms, and OVIDIO expresses his gratitude to him as the first
to notice and encourage his work. The two panegyrics by unknown authors (one
printed among the poems of Tibullus as iv. 1; the other included in the
Catalepton, the collection of small poems attributed to VIRGILIO) indicate the
esteem in which he was held. Corvino IS HIMSELF THE AUTHOR OF VARIOUS WORKS –
ALL OF WHICH ARE LOST. They include memoirs of the civil wars after the death
of GIULIO CESARE, used by Svetonio and Plutarco; bucolic poems in Greek;
translations of Greek speeches; occasional satirical and erotic verses; and
essays on the minutiæ of grammar. As an orator, he follows CICERONE instead of
the Atticizing school, but his style is affected and artificial. Critics
consider him superior to CICERONE, and Tiberio adopts him as a model. He writes
a work on the great Roman families, wrongly identified with an extant poem De
progenie Augusti Caesaris which bears the name of Corvino, but in fact is a much
later production. Places associated with Corvinus The so-called
Apotheosis of Claudius, the top part of an Augustan-era funerary monument that
may once have contained Corvinus' funerary urn. Found in a country villa at
Marino once owned by C. Valerius Paulinus, a descendant of Corvinus, it is now
in the Museo del Prado in Madrid. Corvinus had a house on the Palatine Hill in
Rome that used to belong to Mark Antony before Augustus presented it to
Corvinus and Marcus Vipsanius Agrippa. An inscription (CIL = ILS) records
Corvinus as the owner of the famed Gardens of Lucullus (Horti Luculliani)
located on the Pincian Hill where the Villa Borghese gardens are today.
The Casale Rotondo, a cylindrical tomb near the sixth milestone on the Appian
Way, is often identified as being the tomb of Corvinus, but this is debatable. Corvinus
is also recorded in an inscription as being one of the three friends of Gaius
Cestius responsible for erecting statues that once stood at the site of the
famous Pyramid of Cestius which is located close to the Porta San Paolo in
Rome. In 2012, a luxurious villa of Corvinus was found on the via dei
Laghi near Ciampino. The finds included seven colossal statues of Niobids that
had toppled into the piscina apparently due to an earthquake. Another luxurious
villa of Corvinus on the island of Elba was identified as his. It was burnt down.
Since its original excavation it was believed to belong to his family since he
was a patron of OVIDIO who wrote of his visit to Corvinus's son on Elba before
his exile on the Black Sea. Recent excavations below the collapsed building
reveal five dolia for wine which are stamped with the Latin inscription
"Hermia Va(leri) (M)arci s(ervus)fecit, made by Hermias, slave of Marcus
Valerius. Legendary ancestor of Hungarian royalty The triumph of
Marcus Valerius Corvinus in the pediment of the Krasiński Palace in Warsaw The
Wallachian-Hungarian family of Corvin, which came to prominence with Janos
Hunyadi and his son, Matthias Corvinus Hunyadi, King of Hungary and Bohemia,
claimed to be descended from Corvinus. This was based on the assertion that he
became a big landowner on the Pannonian-Dacian frontiers, the future Hungary
and part of Romania, that his descendants continued to live there for the
following 1400 years, and that the Hunyadis were his ultimate descendants – for
which there is scant if any historical evidence. The connection seems to have
been made by Matthias' biographer, the Italian Antonio Bonfini, who was
well-versed with the classical Latin authors. Bonfini also provided the
Hunyadis with the epithet Corvinus. This was supposedly due to a case in which
the tribune, Marcus Valerius Corvus, while on the battlefield, accepted a
challenge to single combat issued to the Romans by a barbarian warrior of great
size and strength. Suddenly, a raven flew from a trunk, perched upon his
helmet, and began to attack his foe's eyes with its beak so fiercely that the
barbarian was blinded and the Roman beat him easily. In memory of this event,
Valerius' agnomen Corvinus (from Corvus, "Raven") was interpreted as
derived from this event. The Hunyadis called themselves "Corvinus"
and had their coins minted displaying a "raven with a ring". This was later taken up in the coat of arms of Polish
aristocratic families connected with the Hunyadis, and also led to Marcus
Valerius Messalla Corvinus' triumph over the Aquitanians being commemorated in
the pediment of the Krasiński Palace in Warsaw. See also Korwin coat of
arms Ślepowron coat of arms References Jeffreys, Roland. "The date
of M.'s death". The Classical Quarterly "Valerius Corvinus".
lib.ugent.be.Syme, R., Augustan Aristocracy, Syme, Augustan Aristocracy,
Skidmore, Practical Ethics for Roman Gentlemen: The Works of Valerius Maximus,
p. Sullivan, Apocolocyntosis, Penguin, Anonymous Panegyric of M.: translation
by Postgate. Schröder, Katalog der antiken Skulpturen des Museo del Prado
in Madrid. Vol. 2: Idealplastik. Mainz: von Zabern, Cassius Dio The excavator Canina,
deduced from a small piece of inscription with the name "Cotta" that
the monument had been built by Marcus Aurelius Cotta Maximus Messalinus for his
father, Marcus Valerius Messalla Corvinus, but this inscription and other architectural
fragments are now assumed to have come from a smaller monument at the site, and
they may have nothing to do with Corvinus, cf. Grifi, "Sopra la iscrizione
antica dell auriga scirto", Diss. del. Acc. Rom., Rome Marcelli, "IV
MIGLIO, 14. Casal Rotondo", in: Susanna Le Pera Buranelli et Rita
Turchetti, edd., Sulla Via Appia da Roma a Brindisi: le fotografie di Thomas
Ashby: Rome: L'Erma di Bretschneider, Papers of the British School at Rome
Seven Statues Linked to Ovid Recovered from Roman Pool – Archaeology
Magazine". archaeology.org. Retrieved 28 June 2023. "Ben-Hur
villa at risk of demolition in Rome". The Daily Telegraph. London. Lorenzi, "Excavating an Ancient Villa:
Photos". Seeker. This article incorporates text from a publication now in
the public domain: Chisholm, Hugh, ed. M. Corvinus, Marcus Valerius".
Encyclopædia Britannica. Cambridge Wiese, Berlin, Valeton, Groningen, Fontaine,
Versailles, Schulz, De MV aetate; M. in Aquitania, Postgate in Classical
Review, Sellar, Roman Poets of the Augustan Age. Horace and the Elegiac Poets, Oxford;
the spurious poem ed. by R. Mecenatë. Syme, The Augustan Aristocracy, Clarendon,
Political offices Preceded by Gnaeus Domitius Ahenobarbus Gaius Sosius Roman
consul with Octavian III Succeeded by Marcus Titius (suffect) Biographie
Other IdRef Categories: Roman governors of Syria Roman augurs Romans Ancient
Roman generals Patrons of literature Ancient Roman patricians Urban prefects of
Rome Valerii Messallae People of the War of Actium. Luigi Speranza, “Grice e
Mesalla: L’Orto” – The Swimming-Pool Library. Marco Valerio Messalla Corvino.
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice e Mesarco: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale del figlio di Pitagora –
Roma – filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotone). Filosofo italiano. Crotone, Calabria The
son of Pythagoras. He leads the sect after the death of Aristeo. Mesarco.
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice e Mesibolo: la ragione conversazionale e la scuola di
Reggio -- Roma – filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Reggio). Filosofo italiano. Reggio Calabria,
Calabria. Pythagorean according to Giamblico. Mesibolo.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Messere:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – l’implicatura di Sileno – la scuola di Torre
Santa Susanna -- filosofia pugliese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Torre Santa Susanna). Filosofo italiano. Torre Santa
Sussana, Brindisi, Puglia. Ricevuti i primi rudimenti del sapere dai chierici
locali, i suoi genitori (Pietro Messere e Teodora Di Leo), sebbene non agiati,
decisero di fargli frequentare il seminario di Oria, assecondando così il suo
vivo desiderio di intraprendere la carriera ecclesiastica, qui dimostrò sin da
subito una profonda passione per lo studio. Ordinato sacerdote per poi
ritornare al paese natìo, dove divenne un maestro di grande dottrina. Da
autodidatta si applicò allo studio della filosofia, della matematica, della
storia ecclesiastica e civile, nonché anche alla musica e al canto. Incolpato
dell'omicidio di un giovane chierico, fu messo in prigione nelle carceri del
Vescovo di Oria, dove rimase rinchiuso per sette anni, tuttavia non si lasciò
mai abbattere dallo sconforto; anzi, procuratosi alcuni libri, M. si applicò
allo studio della lingua greca, per la quale già aveva dimostrato una forte
predisposizione. Dopo un lungo e dibattuto processo, la sentenza finale lo
dichiarò innocente e assolto da qualsiasi reato. Risentito con i suoi
concittadini per averlo ingiustamente ritenuto reo, dichiarò che il suo paese
mai più lo avrebbe rivisto. Fu così che M. partì per Napoli, dove rimase fino
alla morte. Nella città partenopea ebbe modo di affinare e approfondire la sua
cultura, divenendo un personaggio di rilievo nel mondo intellettuale napoletano
del tempo. La grande conoscenza della lingua greca gli conferì grande notorietà
nonché una cattedra di Lettura Greca, che mantenne fino all'anno della morte,
presso l'Università degli studi di Napoli. Tale cattedra era stata nuovamente istituita a spese di Giuseppe Valletta, filosofo,
letterato e giureconsulto dell'epoca ed amico di M.. Valletta aveva una
profonda stima per il Messere, il quale fu assiduo frequentatore della sua casa
non solo quale insegnante dei suoi figli e nipoti, ma anche perché divenuta
luogo di riunioni dei più eruditi intellettuali del tempo. Fra i suoi molti allievi
che assistevano alle sue lezioni, ne ebbe alcuni divenuti celebri, si annoverano
Andrea, Barra, Caloprese, Gravina, Valletta, Capasso, Cerreto, Egizio, Donzelli
ed altri. Vico, noto filosofo suo amico, gli dedicò un breve madrigale dal
titolo Ghirlanda di timo per Argeo Caraconasio.Il mondo culturale napoletano fu
caratterizzato da importanti innovazioni a livello filosofico, scientifico,
civile e politico. Tale fervore culturale aprì la strada alla nascita di un
numero notevole di accademie, che divennero luoghi di discussione aperta e di
diffusione di nuove idee filosofiche e scientifiche. A Napoli le principali
accademie del tempo furono soprattutto quella degli Investiganti e quella di
Medinaceli. Che sia stato memM. bro autorevole di entrambe le accademie e
frequentatore di circoli e salotti letterari napoletani è testimoniato da non
pochi documenti, tra cui manoscritti e altri a stampa conservati nella
Biblioteca Nazionale di Napoli; le sue lezioni ebbero un così folto seguito di
giovani tanto da far suscitare invidie fra i letterati fanatici dell'erudizione
i quali, a furia di schernirlo per la sua ellenofilia, diffusero in Napoli
addirittura la moda letteraria della macchietta dello pseudogrecista,
satireggiata pure da Vico nella terza Orazione inaugurale. Fu anche tra i primi
membri dell'Arcadia fondata dal Crescimbeni e dal Gravina, ove gli fu
attribuito il nome pastorale greco di “Argeo Coraconasio,” “dalle campagne dell'isola
Coraconaso”. E fondata a Napoli la Colonia “Sebezia” dell'Arcadia e anche qui
il Messere e tra i primi iscritti.
L'aver ripristinato l'insegnamento della lingua greca in Napoli valse al
M. non solo il titolo di “ristoratore della greca erudizione”, ma contribuì
alla ripresa dello studio di Omero, influenzandone il pensiero poetico e
filosofico del tempo. Notevole fu l'influenza che egli ebbe sulla formazione
del pensiero del Gravina. Essenziale nella vita culturale di Gregorio Messere
fu anche l'amicizia con Valletta, suo allievo. La conoscenza che M ha della
filosofia fu ugualmente vasta tanto che gli valse l'appellativo di “Socrate” e
quando si riferivano a lui veniva anche chiamato il “Socrate dei nostri
tempi”. Non fu solo un insigne grecista,
ma anche un poeta. Compose infatti varij componimenti, tra distici, tetrastici,
serenate, sonetti, madrigali ed epigrammi in italiano, utilizzando talvolta uno
stile che il Lombardo definisce “stile mezzano e semplice”, di carattere
pastorale. Un suo epigramma è contenuto in una lettera che Canale inviò al
Magliabechi. Non mancò di scrivere componimenti di carattere burlesco e
giocoso, in cui contrapponeva l'immediatezza della satira e del dialetto alla
ricercatezza esasperata della poesia del Seicento. Si esercitò soprattutto
nell'Accademia di Medinacoeli, dove era uso chiudere la seduta accademica con
la recitazione di componimenti poetici. Compose finanche versi che celebravano
importanti eventi del regno; tra i più salienti, si ricordano quelli contenuti
nel volume scritto in occasione della recuperata salute di Carlo II. Da ricordare
sono anche gl’emblemata contenuti nel volume scritto per i funerali di D.
Caterina d'Aragona, e a cui si ispirò Vico in occasione dei funerali di due
uomini illustri Tra le tante
collaborazioni con letterati del suo tempo, degna di nota è quella che ha con VICO
per la pubblicazione di un volume in occasione del genetliaco di Filippo V, tre
sono i componimenti contenuti in esso. Fu anche collaboratore di una
Miscellanea dal titolo Vari componimenti in lode dell'eccellentissimo Benavides
conte di S. Stefano. Fatta eccezione per alcuni componimenti inseriti in
Miscellanee poetico-celebrative, di M. non esistono opere a stampa. E a ciò ne
dà spiegazione il Lombardo quando afferma che egli fu uomo umile e schivo tutto
dedito all'educazione dei giovani più che ai propri interessi personali, anzi
la sua modestia fu tale che pensò bene di distruggere i propri scritti. Le lezioni accademiche di cui si dispone sono
quelle che tenne nell'Accademia
istituita a Palazzo Reale dal viceré duca di Medinaceli. I codici delle lezioni
sono conservati attualmente presso la Biblioteca di Napoli. Due di queste
lezioni trattano di poesia. Qui argomenta sulla funzione e natura della poesia,
dei suoi rapporti con la storia nonché sul problema delle origini della poesia
stessa. Tre altre lezioni sono di carattere storico, esattamente: due sulla
vita di NERVA e una sulla vita di DECIO. Il codice napoletano contiene anche un
Discorso vario in cui sono presenti motivi autobiografici e una lezione
sull'origine delle maschere. L'Accademia di Medinaceli non ebbe lunga vita e,
nonostante la sua chiusura avvenuta a causa di rivolgimento politico, continuò
ad essere personaggio illustre nel panorama intellettuale e culturale
napoletano, come dimostra il fatto di essere annoverato tra i primi membri
dell'Arcadia sotto la custodia Crescimbeni e successivamente della colonia
napoletana “Sebezia”. Storia della
litteratura italiana Biografia degli
uomini illustri del regno di Napoli Le
vite degli Arcadi illustri scritte da diversi autori, e pubblicate d'ordine
delle generale adunanza da Crescimbeni, pRoma,
(biografia scritta da Lombardo). Cantillo,
Filosofia, poesia e vita civile in M.: un contributo alla storia del pensiero
meridionale, Morano, Napoli, Prezzo, Storia delle origini di Torre Santa
Susanna, Tiemme, Manduria,. Imma Ascione, Seminarium doctrinarum: l'Napoli nei
documenti, Edizioni scientifiche
italiane, Napoli; Lomonaco, M., la poesia e l'impegno civile tra Gravina e VICO,
in "Diritto e Cultura", VLezioni dell'Accademia di Palazzo del duca di
Medinaceli: Napoli, Rak, Napoli,
Istituto italiano per gli studi filosofici. (regio esim liepiera preso Niccola
Gjervasi'altirante 1.os. re ( lessen Blusere Filologo Filosofo Namquein Tore diliuramnemlá
iTera d Ohrante nel mio Mori in Nlapoli. Ebbe per convincenti indizj, co di
Gregorio la sospizione Fu rinchiuso perciò nulla egli fosse reo. me che di, laddove
impreseda prigioni per sette anni nelle del greco linguaggio, stessolostndio
non conosceva neppur lo avanti, che inbreve con tanta sollecitudine però,e sn
tranoi il maestro ne diyenne solenne restauratore della greca erudizione. onde
cadde sopra se del quale per le figure. Vi attese Lo studio delle greche
lettere era a quel tempo venuto tranoi insomma decadenza, l'erudizione esi
renduta goffa e grossolana ; onde egli adoperó ogni sua cura per richiamarla
alla sua dignità primitiva. La profonda sua scienza nella mentovata favella gli
seçe meritamente occupare. la catte be i
suoi natali in un mediocre luogo della Regione de' Salentini, oggi Terra
d'Otranto, detto la Torre di S. Susanna, discosta da Brindisi intorno a miglia
dodici.Suoi genitori furono Pietro Messere, e Dianora di Leo amendue di onesta
e civil condizione. M., comechè non proveduto nella sua primiera età di
sufficienti maestri, seppe col proprio suo ingegno, e colla sua mente, velocis
sima e disposta a d apprendere le più difficili cose supplire a somigliante
difetto. Egli attese da se solo aiprofondissimi studj della filosofia delle mattemati
che in buona parte, della Teologia, della Storia Ecclesiastica e Civile.Nè
intralascio fra la severità di sì fatte discipline l'onesto diletto della
poesia e della musica, e tanto in questa ando avanti, che giunse a cantar con
lode la parte di basso. M., tutto che si fosse dedicato al Sacerdozio,
gl'intervenne una disgrazia, la quale fieramente l o travaglio. S'invaghi un
compagno di luididonzellafigliuoladiricco,e nobilpersonag-:
gio,enefudipariamorericambiato. Il padre di lei, avutone sentore, lo fece
assalir da due sgherri, I quali si accompagnavano con M., ilquale go dea il
favore parimenti del mentovato Signore. Ilgio vine amatore ne rimase trucidato
I و Fu de'primi ad essere annoverato tra gli Arcadi col nome di Argeo
Caraconessin,e la sua vita ritrovasi descritta fra quelle degl’Arcadi illustri
P. 1Scrive a richiesta degli amici sonetti, madrigali ed epigrammi nell'una e
nell'altra lingua, i quali componimenti riscossero a que'tempi non poca laude.
Mirate la dottrina che si asconde Sotto il velame degli versi strani. Queste
poesie furon da lui recitate nella dotta adunanza che CERDA, allora vice-rè di
Napoli, tenenel Regal Palazzo. E certamentefuscia gura, dra di greco linguaggio
nell'Università de'nostri Stu dj. Bentosto si vide la studiosa gioventù correre
a folla alle sue lezioni, e zione,che non solamente I giovanetti,ma puranche
crebbe talmente la sua riputa persone distinte per merito di letteraria coltura,
a n davano con maraviglia ad ascoltarlo. Allo studio della greca sapienza
congiungeva M. quello delle scienze più sublimi ; perciò i più doiti scienziati
che erano allora fra noi ed ancora stranieri contava egli fra i suoi amici. Tra
quelli si annoverano Lionardo di Capoa, Francesco d'Andrea, Buragna e tanti
altri ;'e fra gli stranieri il P. 'Mabillon il quale par la di lui con somina
laude nella sua opera Iter Ita licum ;e moltissimi presso de'quali e il suo
nome in somma estimazione. Il suo verseggiar burlesco e maccaronico era un
dotto poetare, e sempre ridondante di greca e di la tina erudizione, sicchè
isuoi versi in questo genere tranne lamateria ridevole,erano molto colti egenti
li, sì che avrebbe poluto egli dire con ALIGHIERI: O voice avete gl’ntelletti sani.
Il suo modo di comporre era quello che da' maestri vien detto mezzano e
semplice, e varie poesie dettò in istile boschereccio e pastorale. Molto però
egli valse nel verseggiare giocoso, ed in quella spezie di poesia, già
inventata da Folengio, il quale si dice Coccai, che volgarmente maccheronica
vien chiamata . che dipartendosi quell'erudito e generoso Si gnore, seco
portate avesse, con le altre cose i c o m ponimenti di quella dotta brigata, e
che Gregorio non ne avesse gl’originali serbati, e non ne rima nesser che pochi
in mano di alcuno de'suoi amici, Ma egli, intento qual novello Socrate ad
istruire la gioventù e far rinascere fra di noi lo studio e la scienza della
greca favella, la quale è detto brac cio destro della buona letteratura, poco cura
le sue cose, e poco ambi di rendersi per le stampe famoso. Dilettavasi egli
infatti più della sostanza che dell و, e
più d'istruire la gioventù S!11 renza della dottrina erudizione. diosa, che di
far pompa di lussureggiante арра Le virtù cristiane e socievoli di M. pareg giarono la sua erudizione e la sua
dottrina. Era el FILOSOFO e religioso al tempo stesso; ottimo Sacerdote, ed
affabile senza ombra di bassezza o di poca digni tà,sprezzatore
grandissimodellericchezze, tal che pel noto fallimento del banco
dell'Annunziata avendo perduto quelpiccolo avere che collesue ono rate fatiche
erasi acquistato, uimase in una fredda in differenza, motteggiando giocosamente
come se nulla gli fosse intervenuto. Nè minore fermezza d'animo egli nella
morte di tre nipoti per sorella Biagio, Giovan Batista e Capozzeli, giovinetti
di grandi speranze i due primi nella medicina,ed il terzo nella legalfacoltà, da
lui sommamente ama. ti, ed allevati alla gloria ed alle lettere. Poco curante
egli si fu dell'amicizia de'potenti, e di ogni fasto, dimostrò e di ogni civile
onore. Maravigliosa era in tutto la sua temperanza, talche i suoi costumi
pareano più l'ultimo fine siccome un necessario termine dell'uomo, e narrasi,
che es antichi che nostri.Riguardava sendo un giorno aperto, per alcun bisogno
di fabbri ca,l'avello di Giovanni Gioviano Pon'ano, ritrovan dosi ogli con un
amico, lo prese vaghezza di scen dervi.Di fatti discesovi, sudettesi in una
delle nicchie da riporvi i morti intorno alle pareti, e narrasi che mosso da
involontaria allegrezza,dicesse: E chi sase questo è il luogo che dee a me
toccare? Somme lodi son queste certamente per M., il quale nato essendo nel mezzo
della magna Grecia, nell'antica patria degl’Architi, degl’Aristosseni,degl’Ennj,
de'Pacuvj, e intendentissimo non meno della grea, della latina e della Italiana
poesia, che della più saggia FILOSOFIA, la quale insegna non pur colle parole,
ma col sobrio onorato Con grandissimocordoglio di tutti gliamatori delle buone
lettere, preso di ac cidente apopletico passò a miglior vita,e fu sepellito
nella detta Cappella del Pontano, siccome in vita avea desideralo. La sua morte
fu onorata dal pianto di afflitte vedove Ο Φερδινάνδος ΣανΦελικιος ευγνώμων
ακροανης DIAGISTRO DOCTRINAE PULAETIVNI. Ταυτην την Ακαδημιαν ο ποιησαντι e
virtuoso suo contegno di vita. Fu per Γρηγοειω Μεσσερε Σαλεντινω Εν ελλαδι φανη
εις ακρον ταις παιδειας εληλακοτι il Socrate de’suoi tempi, e datuttiriguar
chiamato . Tanta era e cosi dato con istima e con ammirazione perfetta in lui
la notizia delle lettere greche, che mosse invidia e stupore in parecchi
sapientissimi Greci na zionali,iquali,passando per Napoli,vollero vederlo ed
ascoliarlo. Siccome abbiamo accennato,aluisideve in buona parte il risorgimento
delle buore lettere della greca dottrina, per tanti ragguar spezialmente che si
formarono sotto la sua di. devolissimi letterati sciplina,eperciòhaeglispeziale
eprecipuaragio ne ai nostri elogj ed alla nostra riconoscenza. Nel no vero de’suoi
discepoli furono i Biscardi, Gennaro d'Andrea, i Calopresi, i Gravina, i
Majelli, i Cirilli, i Capassi, gl’Egizi, e tanti altri lumi della n o stra
letteratura iqua’i malagevole sarebbe qui no minare . tal ragione e di
miserevoli bisognosi, a quali questo uomo incomparabile in ogni maniera di
virtù distribuiya tutto ciò che al puro uopo della sua vita soperchia. va.
Intervennero ai suoi funerali tutti i professo ri della R. U. non che ragguarde
volissimi personaggi. Uno di costoro già suo scolaredi nobilissimo tegnaggio,
insigne per lettere e per la scienza della pittura e dell'architettura,innalzò
a tanto maestro la see guente iscrizione in greco ed in latino. Τα Διδασκαλω
Διδακτρον. SALENTINO IN GRAECA LINGVA AD SVMMVM ERVDITIONIS PROGRESSVM DE
ACADEMIA HAC OPTIME MERITO) FERDINANDVS SANFELICIVS GRATVS AVDITOR ANDREA
MAZZARELLĄ PA CERRETO. Quantunque non abbiasi cosa alcuna alle stam IV.
sti. pe di M. Torre di S. Susanna, luogo della Terra d'Otranto, tuttavia
egli ha buon diritto che di lui si parli in Gregorio Messo nella ro
edaltriGreci st'opera. La disgrazia avvenutagli que di dover soffri re,sebbene
innocente una lunga prigionia to di omicidio, lo determinò Greca, e così
felicemente venir riconosciuto qual ristauratore dizione nel Regno di Napoli, e
il Mabillon nel suo Iter Italicum parla con somma lode del Gregorio . Occupò
egli la Cattedra di questa lingua nellaUni versità della Capitale, e la insegnò
con tanto grido, che oltre la gioventù contò fra lisuoi discepoli non poche
persone per coltura e per sapere distinte ; e fra i più celebri alunni da lui
istruiti si noverano Gennaro di Andrea, il Caloprese Capassi ed altri
molti.Benemerito, il Gravina, il perciò della Greca Letteratura congiunse na
del poetare, e conobbe le altre scienze con gran vantaggio attenzione
specialmente Religione all'epoca della sua morte accaduta ordine di persone il
compianse . ogni funerali i Professori ai suoi, ed, ed ebbe onorata s e per
sospet a studiare la lingua vi riuscì, che meritò di poi anche alla erudizione
lave dei giovani che con zelo ed istruiva ed educava alle lettere ed alla
insieme, perlocchè crate. La sua dottrina e le sue cristiane virtù, m a
specialmente una carità generosa giunsero a tale,che appellavasi novello S o .
Intervennero tutti della R. Università altri ragguardevoli poltura nella
cappella dove riposano le ceneri Pontano discepolo con iscrizione Greca e
Latina da un del suo composta. personaggi della Greca e r u Fu egli ascritto
fra i primi Arcadi sotto il nome di Argeo Caran conessio. Biografia degli Uom.
ill. del Regno di Napoli. Allorchè si aprì il concorso per la cattedra di
lingua greca. Grice: “When they called Messere ‘Socrate’ I hope they don’t mean
Alcibiades’s implicature, ‘my dear Sileno!’” – Gregorio Messere. Messere.
Keywords: implicature, Sileno, Socrates, Socrate Sileno, Socrate, Silenus.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Messere”.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Messimeri:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – la scuola di
Seminara -- filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Seminara). Filosofo italiano. Seminara, Reggio
Calabria, Calabria. Grice: “He was of a noble family – he was into the free
market – so his is a philosophical economy.” Domenico Grimaldi (Seminara),
filosofo. Esponente dell'illuminismo napoletano. Francesco Mario Pagano.
Nato in una famiglia aristocratica che faceva risalire le proprie origini alla
nota famiglia di Genova, ricevette la prima educazione dal padre, il marchese
Pio Grimaldi, un uomo colto che aveva cominciato a introdurre criteri di
conduzione innovativi nelle sue proprietà terriere, peraltro non molto estese,
di Seminara. Non essendo molto ricco, il padre lo avviò agli studi giuridici,
in previsione di una possibile professione forense, all'Napoli. Nella capitale
napoletana M. fu raggiunto dal fratello minore Francescantonio, fece parte con
il fratello dell'Accademia dell'Arboscello, frequenta le lezioni di economia di
Genovesi. Si trasferì a Genova, dove ottenne la riammissione nel patriziato
della Repubblica di Genova, ottenendo così il permesso di esercitare alcune
magistrature. In Liguria, tuttavia, M. ha modo di approfondire gli aspetti
tecnici, economici e sociali legati all'agricoltura il cui studio lo spinse a
viaggi in Francia, specie in Provenza, in Piemonte e in Svizzera. Si interessò
in particolare alla colture dell'ulivo e del gelso per l'allevamento dei bachi
da seta. Venne accolto fra l'altro nell'Accademia dei Georgofili, che premiò
una memoria, nella Società economica di Berna, un centro di cultura
fisiocratica, e nella Société royale d'agriculture di Parigi. Saggio di
economia campestre per la Calabria Ultra François Quesnay, maggior
rappresentante della fisiocrazia Frutto delle sue ricerche fu il Saggio di
economia campestre per la Calabria Ultra, esposizione di un piano che, partendo
dalle condizioni di arretratezza dell'economia calabrese, secondo la dottrina
fisiocratica, ne indica i mezzi atti a la trasformare situazione economica
della Calabria. All'epoca il settore produttivo più importante era l'agricoltura
in quanto i posti nell'industria erano pochi, le alternative limitate
all'edilizia, ai lavori pubblici e al settore terziario; l'agricoltura era
tuttavia quasi esclusivamente di sussistenza, e lo scarso reddito determinava
un esodo massivo dalle campagne. Per Grimaldi l'ammodernamento dell'agricoltura
e l'integrazione tra agricoltura e allevamento erano le condizioni prime per
avviare la produzione industriale e il commercio. il successivo aumento del
reddito agrario avrebbe dovuto essere reinvestito nell'industria tessile e in
quelle serica, lattiero-casearia e olearia. La presenza di industrie avrebbe
innescato un circolo virtuoso in quanto avrebbe potuto richiamare un afflusso
di capitali per la ristrutturazione fondiaria e l'aumento delle dimensioni delle
aziende agricole, con successiva formazione e sviluppo di attività miste
agricolo-manifatturiere, specialmente alimentari, con impiego di mano d'opera
locale. L'imprenditore Vecchio frantojo ligure dismesso M. si impegna
a tradurre in pratica questi progetti, con l'aiuto finanziario del padre,
impegnandosi nel miglioramento della coltivazione degli olivi, chiamate dalla
Liguria maestranze e tecnici per creare a Seminara nuovi frantoi "alla
genovese"; rese poi pubblici i progetti e i risultati delle sue
innovazioni con un'opera edita con una
dedica a Beccadelli, marchese della Sambuca. Si dedicò più tardi alla
produzione della seta. M., che inizialmente intendeva assegnare
l'ammodernamento dell'agricoltura all'iniziativa privata, si rese conto che
l'approccio utilizzato per l'ammodernamento dell'industria olearia (in questo
caso, introduzione in Calabria della lavorazione della seta alla
"piemontese") non sarebbe stato sufficiente nella lavorazione della
seta per ostacoli di natura fiscale nel regno di Napoli, ossia del dazio sulla
seta calabrese. Diede pertanto inizio a vivace polemica nei confronti dei
controlli oppressivi doganali e dei monopoli statali nei settori delle
manifatture e del commercio. Il politico Sir John Acton La riflessione
sull'influenza dello stato nel mercato della seta, diede avvio al dibattito sul
problema della libertà nel commercio internazionale, in particolare nel
commercio del grano che aveva assunto una notevole importanza dopo la carestia.
Una delle proposte più importanti di M. fu la costituzione, nella Calabria
Ultra, di società economiche concepite come centri promotori il miglioramento
della tecnica agraria; ma la proposta non trovò il necessario sostegno né nei
proprietari terrieri né nel clero. In seguito allargò lo sguardo dalla Calabria
Ultra all'intero Regno, proponendo di svolgere un'attività conoscitiva sulla
struttura economica del Regno mediante la predisposizione di piani di visite
alle province napoletane affidati a ispettori di nomina regia, con proposte di azione
sulle "cause fisiche" dell'arretratezza, principalmente la mancanza
di strutture per l'irrigazione innanzitutto nelle Puglie, per le quali
suggeriva il ricorso anche al lavoro coatto. Filangieri Grazie alla
notorietà raggiunta con i suoi saggi M. fu nominato dal primo ministro Acton
assessore al neocostituito Supremo Consiglio delle Finanze assieme a
Filangieri, Palmieri, Delfico e Galanti. Il terremoto che causò gravi danni e
lutti alla famiglia Grimaldi. Grimaldi fu favorevole all'istituzione della
Cassa sacra, proponendo che ricostruzione fosse eseguita secondo un piano
pubblico che prevedesse iniziative strutturali per l'ammodernamento della
produzione agricola e industriale. Si adoperò per l'apertura a Reggio Calabria
di un istituto professionale nel quale si insegnasse "l'arte di tirar la
seta alla piemontese"; la scuola, diretta da M., ebbe un certo successo,
ma venne chiusa nel L'interruzione negli anni novanta dell'attività
riformatrice di Ferdinando IV di Napoli in seguito alla crisi collegata alla
rivoluzione francese comportò un atteggiamento di sospetto, da parte del
governo napoletano, nei confronti dell'intellettualità progressista. A Grimaldi
venne rifiutata la nomina, proposta dal Galanti, di presidente della
costituenda Società patriottica per la Calabria in quanto massone. Fu
addirittura arrestato, come gran parte dei massoni reggini (una cinquantina
circa) in seguito all'assassinio del governatore di Reggio, Pinelli e
trasferito nel carcere di Messina dove si trovava alla nascita della Repubblica
Napoletana. Suo figlio Francescantonio aderì alla Repubblica Napoletana. Saggi:
“Memoria ai gergofili sopra una specie di pianta pratense chiamata sulla”
(Firenze); “Economia campestre per la Calabria” (Napoli: Orsini); “La manifattura
dell'olio nella Calabria” (Napoli: Lanciano); “Manifattura e commercio delle
sete del Regno di Napoli alle sue finanze, scon alcune riflessioni critiche
sopra il bando delle sete” (Napoli: Porcelli); “La pubblica economia delle
provincie del Regno delle Due Sicilie” (Napoli: Porcelli); “Piano per impiegare
utilmente i forzati, e col loro travaglio assicurare ed accrescere le raccolte
del grano nella Puglia, e nelle altre provincie del Regno” (Napoli: Porcelli); “L’industria
olearia, e dell'agricoltura nelle Calabrie, ed altre provincie del Regno di
Napoli” (Napoli: Porcelli); “L’economia olearia antica sull'antico frantoio da
olio trovato negli scavamenti di Stabia” (Napoli: Stamperia Reale); “L’Ulteriore
Calabria con alcune osservazioni economiche relative a quella provincia”
(Napoli: Porcelli). Franco Venturi, Illuministi italiani, V: Riformatori napoletani, Napoli: Ricciardi,
Piromalli, La letteratura calabrese: Dalle origini al posivitismo, Cosenza:
LPE, Istruzioni sulla nuova manifattura
dell'olio introdotta nel Regno di Napoli da M. patrizio genovese, socio
ordinario, e corrispondente dell'Accademia de' Georgofili di Firenze, della
Società di Agricoltura di Parigi, e di Berna, In Napoli: presso Orsini, a spese
di Porcelli, Osservazioni economiche sopra la manifattura e commercio delle
sete del Regno di Napoli alle sue finanze, scritte dal marchese Domenico Grimaldi,
con alcune riflessioni critiche sopra del Bando delle Sete” (Napoli: Porcelli);
“Relazione d'un disimpegno fatto nella Ulteriore Calabria con alcune
osservazioni economiche relative a quella provincial” (Napoli: Porcelli);
“Piano di riforma per la pubblica economia delle provincie del Regno di Napoli,
e per l'agricoltura delle Due Sicilie, scritto da M., Napoli: Porcelli); Piano
per impiegare utilmente i forzati, e col loro travaglio assicurare ed
accrescere le raccolte del grano nella Puglia, e nelle altre provincie del
Regno scritto da M., patrizio genovese”
(Napoli: Porcelli); “Relazione d'una scuola da tirar la seta alla piemontese
stabilita in Reggio per ordine di Sua Maestà, sotto la direzione di M., e
l'approvazione del Vicario generale delle Calabrie don Francesco Pignatelli”
(Messina per Giuseppe di Stefano). L'opera apparve anonima ed è attribuita a M.
da Melzi, Note bibliografiche del fu Melzi, edite per cura di un bibliofilo
milanese con altre notizie, H-R, Milano:
Bernardoni) Galanti, Giornale di viaggio in Calabria; introduzione di Luca
Addante, Soveria Mannelli: Rubbettino, A. Ubbidiente, Il pensiero e l'opera di M.
e Francescantonio Grimaldi. Testi di Laurea. Università degli Studi di Salerno,
Facoltà di Magistero. Perna, Dizionario Biografico degli Italiani, Roma:
Istituto dell'Enciclopedia, Basile, «Un illuminista calabrese: M. da Seminara,
in: Archivio Storico per la Calabria e la Lucania, Cingari, Giacobini e
Sanfedisti in Calabria, Reggio Cal., "Casa del libro", Morisani,
Massoni e Giacobini a Reggio Calabria,
Reggio Cal., Morello, Romeo,
Alcune precisazioni su M. un riformatore Calabrese, in "Historica",
Antonio Piromalli, L'attualità del pensiero e delle opere del marchese Domenico
Grimaldi, Cosenza: L. Pellegrini, Luciano, M. e la Calabria, Salerno, Carucci. M.
la voce nella Treccani L'Enciclopedia Italiana. Grice: “Isn’t ONE Sicily
enough?” Giovanni Antonio Summonte, storico vissuto a cavallo tra il XVI e il
XVII secolo, all'interno del secondo volume della sua Historia della città e
Regno di Napoli, inserisce un trattato dal titolo Dell'Isola di Sicilia, e de'
suoi Re; e perché il Regno di Napoli fu detto Sicilia. In questo scritto
l'origine della distinzione tra due «Sicilie» separate dal Faro di Messina
viene individuata nella bolla pontificia con cui papa Clemente IV investì Carlo
I d'Angiò del Regno di Napoli: «Papa Clemente IV, il quale investì, e
coronò Carlo d'Angiò di questi due Regni, chiamò quest'Isola, e il Regno di
Napoli con un sol nome, come si può vedere in quella Bolla, ove dice, Carlo
d'Angiò Re d'amendue le Sicilie, Citra, e Ultra il Faro: e questo eziandio
osservarono gli altri Pontefici, che a quello successero, e si servirono
degl'istessi nomi. Imperciocchè 7 altri Re, che al detto Carlo successero che
solo del Regno di Napoli, e non di Sicilia padroni furono, chiamarono il Regno
di Napoli, Sicilia di qua dal Faro. Il Re Alfonso poi, ritrovandosi Re
dell'Isola di Sicilia, per essere egli successo a Ferrante suo padre, e avendo
anco con gran fatica, e forza d'armi guadagnato il Regno di Napoli da mano di
Renato, si chiamò anch'egli con una sola voce, Re delle Due Sicilie, Citra, e
Ultra; E questo per dimostrare di non contravenire all'autorità de' Pontefici.
Ad Alfonso poi successero 4 altri Re i quali furono Signori solo del Regno di
Napoli, e si intitolarono, come gli altri, Re di Sicilia Citra. Ma Ferdinando
il Cattolico, Giovanna sua figlia, Carlo Vimperadore e Filippo nostro re, e
Signore, i quali anno sic avuto il dominio d'amendue i Regni, si sono intitolati,
e chiamati Re delle due Sicilie Citra, e Ultra: la verità dunque è, che questi
nomi vennero da' Pontefici romani, i quali cominciarono ad introdurre, che 'l
Regno di Napoli si chiamasse Sicilia.» La stessa tesi è sostenuta da
Giannone nella sua Istoria civile del Regno di Napoli, in cui si citano vari
stralci della bolla pontificia, con la quale Clemente IV concesse l'investitura
a Carlo d'Angiò «pro Regno Siciliae, ac Tota Terra, quae est citra Pharum,
usque ad confiniam Terrarum, excepta Civitate Beneventana». In un altro passo
la bolla proclamava: «Clemens IV infeudavit Regnum Siciliae citra, et ultra
Pharum». Secondo Giannone è dunque questa l'origine del titolo rex utriusque
Siciliae, che tuttavia Carlo d'Angiò non usò mai nei suoi atti ufficiali,
preferendo gli antichi titoli dei sovrani normanni e svevi. Marchese Domenico
Grimaldi. Grimaldi di Messimeri. Messimeri. Keywords: implicature, economia
olearia antica – antico frantoio da olio a Stabia -- Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Messimeri” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!: ossia, Grice e Metello: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale – Roma – filosofia lazia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A Roman general and politician. A
pupil of Carneade. Quinto Cecilio
Metello Numidico. Metello.
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice e Metopo: la ragione conversazionale della diaspora di
Crotone -- Roma – filosofia basilicatese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Metaponto). Filosofo italiano. Metaponto, Basilicata. Cited by
Stobeo – He writes a treatise on virtue [VIRTUS, ANDREIA] which survives. Giamblico lists him as a Pythagorean.
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice e Metrodoro: la ragione conversazionale degl’ottimati di
Crotone -- Roma – filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotone). Filosofo italiano. Crotone, Calabria. A Pythagorean
and son of Epicharmo, cited by Giamblico.
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice e Metronace: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale nella scuola di Napoli – Roma – filosofia campanese --
filosofia italiana – Luigi Speranza
(Napoli). Filosofo
italiano. Napoli, Campania. Metronace. Porch.A popular teacher of philosophy at
Napoli, where Seneca attended some of his lectures.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e
Micalori: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale --
Ganimede e l’implicatura sferica di Giove – filosofia lazia -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Roma).
Filosofo
italiano. Roma, Lazio. Grice: “I took my
ideas on longitude and latitude from Micalori” -- Grice: “By calling it
‘sfera,’ Micalori’s statement ENTAILS rather than implicates that the Romans
were wrong.” Professore a Urbino. Opere: “Della sfera mondiale” In Urbino,
Mazzantini, M., Antapocrisi, In Roma, Francesco Roma Cavalli. Zeus features heavily in a
lot of starlore, and the Eagle constellation is no exception. The
predominantly accepted mythos for this constellation is the abduction of
Ganymede. Zeus had facilitated the kidnapping, fancying the beautiful mortal
boy as his personal cup-bearer. In the constellation, which is situated
south of Cygnus on the equator, making it visible from both the Northern and
Southern hemispheres, poor Ganymede can be seen hanging from the claws of the
eagle as he is swiftly taken to the heavens. The constellation appears
alongside several other bird constellations. The Eagle’s wings are spread,
giving it the appearance of gliding through the stars. As Hyginus states, the
beak is separated from the body by a milky circle. It was also said to set “at
the rising of the Lion and rises with Capricorn”. (Hyginus, Astronomy,
3.15) Greek astronomy Humans have a natural urge to identify
familiar things amongst the twinkling stars of the mysterious abyss above us.
These narratives came out of astronomical observations and ancient time
tracking. The study of the sky began long before the earliest Greek sources
that (sparsely) discuss them, Homer and Hesiod. They likely developed during
the transition from oral to written transmission, but to what is extent is
unknown. Even though the Greeks were late to the constellation
conversation, they received a lot of their knowledge from their Eastern
neighbors. The Greeks introduced the word katasterismos, or catasterism, which
refers to the process of being set in the heavens. Constellations were used for
navigation and an indication of seasonal change; many extravagant mythic
connections were added later. Today, there are 88 constellations
officially defined by the International Astronomical Union, and many of them
have been accepted since Ptolemy’s The Almagest. Constellations created
by the Mesopotamians between 1300-1000 BC originate in older lands, but the
Greek astral mythos canon was solidified by Eratosthenes, in a work now lost to
us. Zeus and his trusted companion The myth of Ganymede is very
ancient lore, being told in the tale of Troy by Homer (Illiad) – albeit with no
mention of an eagle escort. In the fifth Homeric Hymn to Apollo, Ganymede was
said to be whisked off to Olympus by a ‘heaven-sent whirlwind’. The eagle
was not connected to this tale until the 4th century BC. The constellation was
accepted as an eagle prior to this, so it is presumed that this addition was
made to make the story fit the stars, probably because Ganymede is said to feature
in his own nearby constellation, the water-pourer (Aquarius). Micalori. Keywords: implicatura sferica,
planifesferio, Casali. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Micalori” – The
Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Miccoli:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale d’ANTONINO -- homo
loqvens filosofia lazia – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Roma, Lazio. Grice: “Miccoli is a
great philosopher – and surgeon – My favourites are his ‘Corpo dicibile,’ which
trades on my idea of what it means to ‘say’ something; and his ‘Homo loquens,’
a play on Aristotle’s ‘zoon logikon,’ but which Aristotle would find otiose:
man is the ‘vivente’ that speaks, or the ‘animal’ that speaks. To say that it
is the ‘homo’ that speaks relies on Darwin’s classifications and phyla of homo
sapiens sapiens and the rest!” La
divertente commedia umana Incipit Chi si accinge alla lettura dell' Elogio
della follia di Erasmo farebbe bene a non dimenticare taluni antecedenti
biografici dell'autore che spiegano meglio l'ironia bonaria dell'opuscolo. Li
richiamiamo. Geertsz, latinizzato secondo il costume degli umanisti in
Desiderio Erasmo, nacque figlio di illegittimo coniugio. La famiglia paterna,
in auge nella borghesia di Gouda, come apprendiamo dallo stesso Erasmo, si
oppose alle nozze riparatrici del figlio, costringendolo, con inganno, a far
intraprendere la carriera ecclesiastica al malcapitato giovanotto. Citazioni Come umanista Erasmo si sente
apparentato alla società dalla duttile forza della parola che ne saggia
criticamente le valenze in termini di ironia, sarcasmo, gioco allusivo,
bonarietà lungimirante, tolleranza magnanima, moralismo contenuto. Fin dalla
dedica dell'opuscolo a Moro si arguisce che l'autore non vuol propinare
sapientia austera e compassata, ma buon senso brioso che permei di sé la vita
quotidiana della gente, fosse anche d’ANTONINO che sul letto di morte, lui
filosofo, esclama, a un certo momento: «Sentenzio me cacavi! La sapienza dei
dotti è tanto altezzosa quanto sterile, diversamente dal buon senso che cambia
in meglio l'esistenza non sofisticata. (Sotto la penna dell'insigne umanista
olandese si fronteggiano al femminile Sapientia e Stultitia: la prima, per
voler essere austera ad ogni costo, diventa stolta; la seconda, in quanto
«forza vitale irrazionale e creatrice», si palesa veramente saggia alla resa
dei conti. L' Elogio della follia conserva un fascino di imperitura attualità.
Lo si desume dall'analisi di Histoire de la Folie, dove Foucault evidenzia il
confine sfumato tra ragione e sragione in epoca di alta tecnologia, e altresì
dalle invettive di Nietzsche contro lo smunto bibliotecario, lo stitico
correttore di bozze, il pallido burocrate stipendiato, emblemi tutti del moderno
«uomo alessandrino». (Explicit Erasmo conosce e cita perfino pagine della
Bibbia a riprova della bontà dei doni che Follia concede ai mortali. Un modo
questo, di prendere in giro anzitempo la presunzione dispotica delle società
economicistiche che intendono mantenere sotto loro tutela il cittadino
«minorenne» sempre bisognoso di dande e mordacchie. Gli autori classici sono,
tra l'altro, spiriti lungimiranti. A tali società alienanti di oggi e di domani
Blake, con spirito erasmiano, potrebbe ripetere: «esuberanza è bellezza. La
divertente commedia umana, introduzione a Erasmo da Rotterdam, Elogio della
Follia, TEN, Introduzione a "Vita di Gesù" Incipit Il contesto
storico culturale della Vita di Gesù La recente edizione storico-critica delle
Opere complete di Hegel consente di far chiarezza sulle discussioni e
congetture che hanno tenuto a lungo il campo nella letteratura hegeliana a
proposito dei cosiddetti Scritti teologici giovanili, la cui indole cronologica
vengono ora sancite su base filologica e critica più accorta. Più che ai titoli
apposti da Nohl ai vari frammenti e più che alle congetture sulla data
probabile di tali scritti, è più fruttuoso rifarsi agli anni di formazione
filosofica e teologica di Hegel nello Stift di Tubinga e reperire nel curriculum
studiorum le ascendenze prossime che hanno influenzato maggiormente l'autore in
una speculiare lettura dei quattro Evangelisti, da cui desume Das Leben Jesu. Citazioni
Gli interessi culturali di Hegel, negli anni tubinghesi, sono prevalentemente
filosofici, incentivati dalla lettura di Rousseau, Jacobi, Lessing, Kant,
Fichte su temi sociopolitici ed etico-religiosi. (Hegel, studioso di filosofia,
si sente chiamato a lumeggiare «spiritualmente» la situazione storica del suo
tempo e a porre le premesse di carattere razionale per l'avvento di un «ordine
uguale di tutti gli spiriti». Il lettore del Leben Jesu si accorge subito di
trovarsi di fronte a una forma di scrittura audace, che desacralizza e
sdivinizza la persona di Gesù, riducendolo a maestro di morale sublime. M.,
introduzione a Hegel, Vita di Gesù. TEN. “Filosofia della storia”, “Corpi
dicibili”, “Homo louqens”. Paolo Miccoli. Miccoli. Keywords: homo loquens,
corpo dicibile, corpi dicibili. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Miccoli” – The
Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Miccolis:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – BRVNO – filosofi
italiani al rogo – la scuola di Corato -- filosofia pugliese -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Corato).
Filosofo italiano.
Corato, Bari, Puglia. Grice: “Miccoli reminds me of G. Baker, who dedicated
most of his life to Witters! Miccolis
to Labriola.” Considerato uno dei massimi
studiosi di Labriola. Si trasferì a
Perugia per gli studi universitari, laureandosi in filosofia a pieni voti con
una tesi dal titolo «Il pensiero politico crociano e la genesi del
liberalismo». Abilitatosi cum laude all'insegnamento di storia e filosofia,
professore in vari licei della provincia, occupò una cattedra stabile presso
l'Istituto tecnico per geometri a Perugia, accostando l'insegnamento di
estetica all'Accademia di belle arti Vannucci. Divenne responsabile del settore
culturale del PCI per la regione Umbria; ma, preso dagli studî e
dall'insegnamento, lasciò l'incarico, comunque seguendo sempre le vicende
politiche con attenzione e passione. La sua è stata una formazione liberale:
considerava suoi padri spirituali Labriola, Croce, Gobetti. Dalla fine degli
anni Settanta la sua vita sarà rivolta allo studio del filosofo cassinese Labriola,
da Miccolis ritenuto «un buon punto per capire la storia d'Italia». Nascerà
quindi il Carteggio labrioliano, in cinque volumi, presentato da Cesa all'Accademia
dei Lincei, edito per gli auspici e con il contributo dell'Istituto italiano
per gli studi storici e dell'Università degli Studi di Napoli
"L'Orientale" e favorito dalla consultazione, nel frattempo divenuta
possibile, delle carte Labriola del Fondo Dal Pane, acquistato dalla Società
napoletana di storia patria. Su tale monumentale lavoro è stato scritto: «un
evento letterario, probabilmente l'acquisizione più importante tra le fonti
della cultura italiana postunitaria; e, di più, senza esagerazione, si presenta
come un capolavoro ecdotico, per accuratezza filologica ed esaustività del
commento. Miccolis era certo divenuto col tempo l'esperto più sicuro della
impervia grafia del suo autore, della quale conosceva ogni piega e ogni
anomalia, dei contesti politici e culturali in cui Labriola si muoveva della
spezzettata, dispersa e contorta
labrioliana, difficile da padroneggiare: si era anche impadronito, in
base a una sensibilità linguistica non comune, del "vocabolario"
dell'Autore in tutte le sue sfumature, ed era perciò in grado di respingere o
di dubitare di attribuzioni di testi, datazioni improbabili, letture sghembe».
Miccolis scrisse inoltre sistematicamente per varie riviste (Rivista di storia
della filosofia, il Giornale critico della filosofia italiana, Belfagor, Critica
storica, Nuovi studi politici, etc.); numerosi sono i suoi saggi e notevoli gli
ulteriori apporti documentari alla labrioliana.
Collabora intensamente con l'Istituto italiano per gli studi storici e la
Fondazione Biblioteca Croce: aveva il compito di revisionare i carteggi
crociani, e sotto il suo controllo passavano i volumi dell'Edizione nazionale
delle opere di Croce. È stato anche uno dei principali animatori dell'Edizione
nazionale delle opere di Labriola, per la quale aveva contribuito a definire il
piano editoriale, i criteri metodologici, e il problema del rapporto tra
l'opera edita di Labriola e il fondo manoscritto della Società napoletana di
storia patria. Adnkronos, Filosofi, E'
morto M., massimo studioso di Labriola, Bari, SAVORELLI, Rivista di storia
della filosofia, Opere: “ Il carteggio di Labriola conservato nel Fondo Dal
Pane” «Archivio storico per le provincie napoletane», «Con la Sua calligrafia che mi ricorda i
papiri greci...». La filologia, la guerra, la Crusca nel carteggio di Croce con
Pistelli e Lodi, a c. di M. e Savorelli, in Gli archivi della memoria, Firenze,
Biblioteca Medicea Laurenziana, (rist. in Gli archivi della memoria e il
Carteggio Salvemini-Pistelli, a c. di R. Pintaudi, Firenze, Biblioteca Medicea
Lauenziana, Polistampa, Labriola, La politica italiana Corrispondenze alle «
Basler Nachrichten », M., Napoli, Bibliopolis, Labriola, Carteggio, M., Napoli,
Bibliopolis, M., Labriola, Dizionario biografico degli italiani, A. Labriola,
L'università e la libertà della scienza, M., Torino, Aragno, Labriola, Bruno.
Scritti editi ed inediti M. e Savorelli, Napoli, Bibliopolis, M., Labriola.
Saggi per una biografia politica, A. Savorelli e M., Milano, UNICOPLI, M., Gli scritti politici di Labriola editi da
M., A. Savorelli e M., Napoli, Bibliopolis,
G. Bucci, M., il ricordo a un anno dalla morte, "Corato live",
W. Gianinazzi, M. Prat, In memoriam "Mil neuf cent", Savorelli, M.,
«Rivista di storia della filosofia», fa A. Meschiari, M. studioso di Labriola, Rivista di storia della filosofia.
Stefano Miccolis. Miccolis. Keywords: filosofi italiani al rogo. BRVNO. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Miccolis” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Michelstädter:
l’ebreo italiano e lla ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale
– il giovane divino -- l’implicatura persuasiva di Platone – filosofia giudea –
filosofia nel ventennio fascista – filosofia italiana -- Luigi Speranza (Gorizia). Filosofo italiano. Grice: “It’s difficult to grasp
Michelsteadter’s implicature: his study on ‘persuasion’ is brilliant – he was a
close reader of Plato, and he uses figurative language, as ‘il giovane divino.’
My favourite is his account of the persuasive rhetoric of Cicero.” Grice:
“Michelsteadter plays with the etymology of persuasion, which is cognate with
‘suave,’ as it should – sweet talk, we should say – which I could make into a
maxim which would not be strictly ‘conversational’ unless under the category of
modus – ‘be sweet’ –But the sweetness applies in general to my framework: the
emissor aims to be sweet if he is going to try to influence the other, and will
be influenced by a sweeter co-emissor.” essential Italian philosopher. Ultimo di quattro
figli, da un'agiata famiglia. Il padre, Alberto, dirige l'ufficio goriziano
delle Assicurazioni Generali ed è presidente del Gabinetto di Lettura goriziano.
È un uomo colto, autore di scritti letterari e di conferenze, rispettoso delle
usanze tradizionali ma solo formalmente, per rispetto borghese -- è, anzi, un
laico, un tipico rappresentante della mentalità materialistica. Il semitismo
non sembra quindi incidere molto sulla sua formazione culturale, che scoprire
solo più tardi e con non poca meraviglia di avere un antenato cabalista. Iscritto
al severo Staatsgymnasium cittadino, fa propria la rigida Bildung asburgica.
Con le traduzioni dal greco e dal latino ha i primi approcci colla filosofia. A
iniziarlo sono Schubert-Soldern, solipsista gnoseologico, secondo il quale
tutto il sapere va ricondotto alla sfera del soggetto; e l'amico Mreule che gli
fa conoscere Il mondo come volontà e rappresentazione, di cui resta traccia
soprattutto ne La Persuasione e la Rettorica. Nella soffitta di Paternolli,
oltre a Schopenhauer, legge e discute, con gli amici Nino e Rico, i tragici e i
presocratici, Platone, il Vangelo e le Upanishad; e poi ancora Petrarca, Leopardi,
Tolstoj, e l'amatissimo Ibsen. Conclusde gli studi ginnasiali e progetta
di iscriversi a giurisprudenza; in seguito abbandona l'idea e si iscrive alla
facoltà di matematica a Vienna. Ma l'anima è giàper dirla con Leopardi nel
primo giovanil tumulto verso un altrove che non riesce a riconoscere nella
ferrea logica matematica. Si iscrive al corso di Lettere dell'Istituto di Studi
Superiori Fiorentino, città in cui vivrà per quasi quattro anni e dove conoscerà,
fra gli altri, Chiavacci, futuro curatore delle sue Opere, ed Arangio-Ruiz,
noto filosofo. Continua a ritrarre, fra tratto espressionistico e schizzo
caricaturale, la varia umanità in cui s'imbatte, sia nei mesi di studio che nei
periodi di vacanza al mare e in montagna. Scrive moltissimo, in modo quasi
ossessivo, dalle lettere ai familiari (in particolare alla sorella Paula) alle
recensioni di drammi teatrali. Un evento luttuoso segna la sua vita: la morte,
per suicidio, del fratello Gino. Due anni prima si era suicidata anche una
donna da lui amata, Nadia Baraden. Mreule parte per l'Argentina. Questa
partenza è segnata da un evento significativo, una sorta di passaggio del
testimone. Si fa consegnare da Rico la pistola che porta sempre con sé. Completati
gli esami, ritorna a Gorizia e inizia la stesura della tesi di laurea,
assegnatagli da Vitelli, concernente i concetti di persuasione e di retorica in
Platone e Aristotele. La sua attività è febrile. Oltre alla Persuasione scrive
anche la maggior parte delle Poesie e alcuni dialoghi, tra cui spicca il
Dialogo della salute. Il suo isolamento diventa pressoché totale, mangia
pochissimo e dorme per terra, come un asceta. Vede solo la sorella e il cugino
Emilio. Comunica al padre che dopo la tesi non avrebbe fatto il professore, ma
che appena laureato sarebbe andato al mare, forse a Pirano o a Grado. Dopo
un diverbio con la madre, impugna la pistola lasciatagli da Mreule e si toglie
la vita. Sul frontespizio della tesi aveva disegnato una fiorentina, una
lampada ad olio, e aggiunto in greco: apesbésthen, «io mi spensi». Amici
raccolsero i suoi saggi, ora alla Biblioteca di Gorizia. Sepolto nel cimitero
ebraico di Valdirose (Rožna Dolina), oggi nel comune sloveno di Nova Gorica, a
poche centinaia di metri dal confine con l'Italia. La breve vita di M.
scorrecome risulta dall'Epistolarioall'insegna di una volontà di vivere
continuamente illuminata dal desiderio di un altrimenti e di un altrove
metafisico che fa di lui un impulsivo, un irrequieto esploratore di linguaggi e
di mezzi espressivi, capace di spaziare dalla pittura alla poesia passando per
le ripide vette della filosofia. Nell'apologo dell'aerostato incluso ne La
Persuasione e la Rettorica, l'essenza del pensiero occidentale, la rettorica,
viene fatta risalire da M. a un parricidio: quello di Aristotele nei confronti
di Platone. Questi, nella metafora costruita da M., escogita un mechánema, una
macchina volante per abbandonare il peso del mondo e giungere all'assoluto.
Maestro e discepoli riescono a librarsi negli alti spazi del cielo, ma restano
a metà strada, fra una mera contemplazione dell'essere e del tempo e la
nostalgia della terra e delle cure mondane. A riportarli sulla terra ci pensa
allora un discepolo più scaltro e intraprendente degli altri, Aristotele, il
quale, tradendo il maestro, fa scendere il mechánema restituendo così a tutti la
gioia d'aver la terra sicura sotto i piedi. Questa nostalgia del mondo
intelligibile platonico fa quindi di lui un discepolo di Schopenhauer, più che
di Nietzsche. La costituzione della metafisica è per lui una storia di
rettorici tradimenti, la vicenda di una verità dai grandi persuasi tanto
proclamata agli uomini quanto da questi disattesa e inascoltata. Quanto io dico
è stato detto tante volte e con tale forza che pare impossibile che il mondo
abbia ancor continuato ogni volta dopo che erano suonate quelle parole. Lo
dissero ai Greci Parmenide, Eraclito, Empedocle, ma Aristotele li trattò da
naturalisti inesperti; lo disse Socrate, ma ci fabbricarono su 4 sistemi... lo
disse Cristo, e ci fabbricarono su la Chiesa. La persuasione è la visione
propria di chi ha compreso la tragicità della finitezza e ad essa vuol tener
fermo, senza ricorrere a quegli «empiastri»i kallopísmata órphnes, gli
«ornamenti dell'oscurità»che possano lenire il dolore scatenato da tale consapevolezza.
L'essere è finitezza che si rivela solo nella dimensione tragica di una
presenza abbacinante, ma gli uomini rigettano questa tragica consapevolezza
ottundendosi, pascalianamente, nel divertissement. Persuaso è chi ha la vita in
sé, chi non la cerca alienandosi nelle cose o nei luoghi comuni della società
perdendo l'irrinunciabile hic et nunc del proprio esserci, ma riesce «a
consistere nell'ultimo presente», abbandonando quelle illusioni di sicurezza e
di conforto che avviluppano chi vive abbagliato dalle illusioni create dal
potere, dalla cultura, dalle dottrine filosofiche, politiche, sociali,
religiose. È questa «la via preparata» dalla quale a tutti fa comodo non
discostarsi troppo; è questo restare perennemente attaccati alla vitala
philopsychìaa far sì che la "rettorica" trionfi sempre. La vita,
soffocata dalla ricerca dei piaceri, della potenza, finanche dalla presunzione
filosofica di possedere la via e quindi la vita stessa, non vive, perché in
ogni istante ciascuno rimane avvolto dalle cure per ciò che non è ancora o dal
rimpianto per ciò che non è più, mancando sempre l'attimo decisivo, quello che
i greci chiamavano kairós, il tempo propizio. Perciò nella vita facciamo
esperienza della morte, di quella «morte nella vita» cantataquasi una danse
macabrenel Canto delle crisalidi: «Noi col filo / col filo della vita / nostra
sorte / filammo a questa morte». Il pensiero di M. procede di
conseguenza, per liberare il potenziale di tragicità dell'esistenza, attraverso
violente contrapposizioni concettuali (persuasione-rettorica, vita-morte,
piacere-dolore), senza alcun tentativo di mediazione dialettica. M. respinge,
con un gesto iniziatico, l'idea di costruire una dottrina sistematica della
persuasione e della salute, in quanto «la via della persuasione non è corsa da
'omnibus', non ha segni, indicazioni che si possano comunicare, studiare,
ripetere. Ma ognuno ha in sé il bisogno di trovarla e nel proprio dolore
l'indice, ognuno deve nuovamente aprirsi da sé la via, poiché ognuno è solo e
non può sperar aiuto che da sé: la via della persuasione non ha che questa
indicazione: non adattarti alla sufficienza di ciò che t'è dato». La salvezza
individuale è possibile solo in una singolarità irripetibile, irriducibile,
concentrata in sé. Il solipsismo di M. è perciò radicale: non ci sono
vie, non ci sono cammini, c'è solo il viandante che nel deserto dell'esistenza
è «il primo e l'ultimo», crocefisso al legno della propria sufficienza e
schiacciato dalla croce di falsi bisogni. Poiché il mondo è negatività
assoluta, al pensiero non resta che negare questa stessa negatività rifiutando
i dati dell'immanenza: «Solo quando non chiederai più la conoscenza conoscerai,
poiché il tuo chiedere ottenebra la tua vita». Si tratta di una sentenza di sapore
quasi buddistico: non a caso Mreule enfatizzerà la figura dell'amico
descrivendolo come «il Buddha dell'occidente». Produzione artistica La
produzione poetica e quella pittorica di M. possono essere considerate un
prolungamento e un completamento di questo sentimento tragico e mistico. Come
nel verso poetico egli tenta di esprimere l'inesprimibile, di dire con parole
ciò che sfugge al sistema di segni codificato e perciò già da sempre istituito
retoricamente, così nel segno pittorico, nello schizzo rapido e scherzoso come
nel ritratto composto e meditato, traluce l'impossibilità di giungere a quella
che Parmenide chiamava la ben rotonda verità. Non siamo giocati solo dalle
parole, ma anche dalle immagini di una realtà fatta di colori e di forme che ci
sfuggono nella loro immediatezza e alterità, «come chi vuol veder sul muro
l'ombra del proprio profilo, in ciò appunto la distrugge». Anche l'arte e la
poesia, come la retorica filosofica, si rivelano infine per quello che sono:
fragili orpelli di cui si orna l'oscurità dell'essere e che ogni linguaggio
escogitato dall'uomo sarà sempre impotente a esprimere. Saggi: Saggi Chiavacci,
Sansoni, Firenze); “Scritti scolastici, Campailla, Gorizia, Opera grafica e
pittorica, S. Campailla, Gorizia, Il dialogo della salute e altri dialoghi, Campailla,
Adelphi, Milano Poesie, Campailla, Adelphi, Milano, La Persuasione e la
Rettorica, Arangio-Ruiz, Formiggini, Genova, edizione critica Campailla,
Adelphi, Milano poi, con le Appendici critiche, ivi,). Epistolario, S. Campailla,
Adelphi, Milano nuova edizione riveduta e ampliata, ivi, Parmenide ed Eraclito. Empedocle, SE, Milano,
L'anima ignuda nell'isola dei beati. Scritti su Platone, Micheletti, Diabasis,
Reggio Emilia, Dialogo della salute. E
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saggio introduttivo di G. Brianese, Mimesis, Milano, La melodia del
giovane divino, S. Campailla, Adelphi,
Milano La persuasione e la rettorica,
edizione critica, A. Comincini, Joker. M.-Winteler, Appunti per una biografia
di M.. M. si riferisce, nell'Epistolario, al bonno Isacco Samuele Reggio, confondendolo
con il padre di questo, Abram Vita Reggio Campailla, Il segreto di Nadia B.,
Marsilio,. Da articoli di cronaca americani dell'epoca, si apprende che il
suicidio avvenne con un colpo di pistola alla tempia destra. La persuasione e la rettorica La persuasione e la rettorica Poesie La persuasione e la rettorica Magris,
Un altro mare Il dialogo della salute, Biografie e studi critici Acciani
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Studio Tesi, Pordenone (Civiltà della memoria). Arbo Alessandro, Dizionario
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biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Catalogo
Vegetti della letteratura fantastica, Fantascienza. LA PERSUASIONE
E LA RETTORICA Della Persuasione La persuasione L’illusione della
persuasione Via alla persuasione Della rettorica La rettoric Un esempio
storico La costituzione della rettorica La rettorica nella vita Il
singolo nella società Gli organi assimilatori. I modi della significazione
sufficiente. Note alla triste istoria che viene narrata a Abbandono della
vita socratica Il Macrocosmo Il riflesso del sole La decadenza Il discepolo Proiezione
della mente d’Aristotele sui modi della significazione Della composizione della
Rettorica d’Aristotele La Rettorica d’Aristotele c il Fedro di
Platone Della dialettica e della rettorica IL DIALOGO DELLA
SALUTE POESIE II canto delle crisalidi. Dicembre.
Nostalgia. Marzo. Aprile. Giugno
. Risveglio. Alla sorella Paula. Onda per
onda batte sullo scoglio. Ognuno vede quanto l’altro falla.
Aon è la patria — il comodo giaciglio. Per ora a bordo — non
è lavorare. I figli del mare. A Seni a - Le cose ch’io
vidi nel fondo del mare Da le lontano nelle notti insonni. Ili -
Non sorridente sotto il sole estivo .Dato ho la vela al vento e in mezzo
all’onde V - Se mi trovo fra gli uomini talvolta Ti son vicino e tu
mi sei lontana .... VI — Parlarti? e pria che tolta per la vita
All’Isonzo. EPISTOLARIO SCELTO Alla Famiglia . .
. Gorizia-Venezia Venezia Ferrara
Bologna-Firenze Firenze
Firenze Firenze Alla Famiglia Firenze Al Padre Firenze Alla
Famiglia Firenze Firenze Alla Paula Firenze Alla Madre Firenze
Alla Famiglia Firenze Firenze
Firenze Firenze Alla Paula.Firenze Alla Famiglia Firenze Firenze Alla
Paula Firenze Alla Famiglia Firenze Firenze Firenze Firenze Firenze
Firenze Firenze Al Padre Venezia Alla
Famiglia Firenze Firenze Firenze Al Padre Firenze Alla
Paula Firenze Alla Famiglia Firenze Al Padre
Firenze Grado A Chiavacci Gorizia Firenze Alla
Famiglia Firenze Firenze Firenze Alla Madre
Firenze Alla Famiglia Firenze Firenze Gorizia
A Chiavacci Gorizia Alla Famiglia Vicenza
Firenze Firenze Firenze Alla Madre Firenze Alla
Paula. » rie Firenze Alla Madre Firenze Alla Paula
Firenze A Chiavacci Firenze Gorizia Al Padre Firenze
Alla Famiglia. Firenze Al Padre Firenze Alla Famiglia Firenze A
Chiavacci Gorizia Gorizia Alla Madre Firenze Alla Paula Firenze Alla
Famiglia Firenze A Chiavacci. » Gorizia Gorizia A
Chiavacci Gorizia Firenze Alla Famiglia Firenze A
Mreule Bologna Alla Paula Firenze Alla Famiglia
Firenze A Patcrnolli Firenze Alla Paula Firenze
A Paternolli Firenze Alla Famiglia Firenze Alla
Paula .Firenze Alla Famiglia Firenze Alla Paula
.Firenze A Mreule Gorizia A Chiavacci S. Lucia
A Mreule S. Lucia A Marino Caliterna S. Lucia A
Mreule S. Lucia Allo zio Giovanni Luzzatto S. Lucia A
Marino Caliterna. igog Gorizia A Chiavacci
Gorizia A Paternolli .Gorizia Gorizia A Marino
Caliterna Gorizia A Mreule A Chiavacci .... Gorizia
Gorizia A un amico Gorizia A Mreule S. Valentin
Gorizia Gorizia A Paternolli Gorizia
igio Gorizia III. igio Gorizia igio
Gorizia igio Gorizia A Chiavacci Gorizia
A Paternolli Gorizia A MreuleGorizia Al Padre Gorizia A
Paternolli Vili, igio Pirano Pirano Gorizia
Gorizia A Paternolli A Emilio Alla Madre Al Sig. Gelati,
Segretario dell’Ist. Studi Sup. di Firenze SCRITTI VARI
A. APPUNTI - NOTE - CRITICHE LETTERARIE - DIALOGHI - BOZZETTI
Una messa. Da un notes. Da un notes.
Commento a un brano di Stirncr. Su Wenn wir Toten erwachen di
Ibsen Sull educazione del fanciullo (a proposito di una
conferenza di S. Sighele). 7 - Salvini c gli Spettri
.' Più che l'amore Tolstoi. La bora. Nota su Ortis Poesia
d’occasione. A Benedetto Croce. D* fuori la vita
rumoreggia. II (igog-io) Discorso al popolo. w
16 - H&r) xéxQnai ó v/J ~ Con cert’aria eroica. I utta la
natura non è che volontà dell’Uomo Bacio le mani ai rozzi
materialisti Voi vivete perché siete nati. Non sei né il
primo né l’ultimo »... L’individualità illusoria.
’ASiaipogla . Insulta novantanovc su cento. Aiace non dice a
Eurisace « tu non intendi » Quando si guasti il filo al mio coltello
Conoscere è dolce a chi conosce per vivere. La donna che ama.
Diritto di possesso. La rct lorica crede di fornir le chiavi
.Achille insensibile alle parlate. Sicurezza di fronte al freddo
Della vanità. L’individualità piccola vive con 1 ’insouciance
Anche le conoscenze credute speciali .... ! Huss a un
contadino. ’Evlxi](JE &iì/iòv éxdarov. Frammento
sull’amore. La ferma connessione dei tegoli ~ Tò gwóv
. La morte è detta solo in riguardo alla vita Prima forma della fine
del Dialogo della salute APPUNTI PER TRATTAZIONI SISTEMATICHE Ardan
va nella luna per un tratto di spirito. La catarsi
tragica. FI eoi aotpiaq xai evdaijuovlaq (In ogni punto della
vita...Aia tcov òia25 - Questione centrale. Aristotele vuol organizzare e
sistemare . Le virtù. La dialettica. Platone ha bisogno dello
Stato (negl dtxaioadvtjq Chi cerca il giusto. Giusto è chi
giudica sempre ogni cosa trasfe rendosi nella necessità causale di
questa. Chi è debole ha tutto lo stesso (xc.Montanara
ÒQfviii). Il prediletto punto d appoggio della dialettica
socratica. Premessa metodologica. .. vorrei comunicar la ribellione /
all'universo. Carlo M. Carlo M. è un pensatore che disarma e, per usare un suo
lemma, "coinvortica": disarma l'interprete, nel senso che lo coglie
alla sprovvista, immettendolo all'interno di una teoria di riferimenti e di
allusioni, così ben congegnata nel tessuto connettivo della Persuasione, da
scoraggiare ogni pretesa od ogni buon proposito di "esatta" acribia
filologica'. Allo stesso tempo, addentrandosi nella lettura, l'interprete non
solo rinuncia alla sua perizia di glossatore, alla sua pazienza di risolutore
di trame, ma si trova costretto a tralasciare ogni impegno asettico,
scientifico, oggettivo di compilazione. M., infatti, impone di non essere
neutrali, il suo pensiero è soprattutto, e consapevolmente, provocazione: chi
lo affronta, vi si scontra, ed è chiamato direttamente in causa, ne viene
ammonito innanzitutto come uomo. Questa violenza (e leggendo il nostro lavoro
s'intenderà tutto il peso di questo termine usato qui), cui il Goriziano
sottopone il suo lettore, e dunque anche noi, può indurre due e solo due
effetti: o suscita riluttanza e irritazione, più o meno ironica, più o meno
seria, oppure reclama una disperata devozione**. Comunque, non permette
accomodamenti o sufficienze o imparzialità. Noi apparteniamo alla schiera dei
devoti, e la nostra tesi ha in ciò molti dei suoi innumerevoli difetti, ma
anche - ce lo si lasci dire - tutti i suoi pregi. Se ci è lecito, a questi ne
aggiungiamo uno ulteriore, di natura metodologica, per quanto la cosa possa
sorprendere, vista la particolare curvatura che prenderà la nostra
impostazione: frequentando M., infatti, nelle nostre assidue riletture, ci
siamo alfine persuasi che il Goriziano richiede una personalissima metodologia,
ritagliata su misura, che egli stesso ci ha suggerito. M. aborre la filologia
fine a se stessa, dichiara a chiare lettere che non gl'interessa, che anzi lo
infastidisce, e a chiare lettere confessa piuttosto l'interesse per la viva
espressione dell'intelligenza e del pensiero, per opere da cui spremere "succo
vitale"?; com'egli stesso ammonisce (seppur di passaggio, in una nota), 1
Ci trova poenamente concordi la posizione del Piovani, secondo il quale «non
c'è scienza storica [e dunque anche filosofica] là dove il metodo filologico,
che è il metodo della storiografia, non è seguìto»: «onestà d'indagine, che è
pazienza e sacrificio, attenzione di analisi, che è amore dell'altro, dicono la
moralità della filologia, anzi dicono della filologia come moralità».
Puntualizza il filosofo, tuttavia, che quello filologico «ovviamente, è un
metodo che ogni ricercatore segue a suo modo, con maniere personali e
personalissime». Questa sottolineatura ci rinfranca e c'incoraggia in questa
rostra nostra difficile ermeneutica d'approccio a Carlo M., pensatore che - a
nostro giudizio - richiede, forse più che altri, una scepsi filologica ed un
taglio di ricerca molto peculiari, diremmo addirittura ad personam (ma cfr. nel
seguito della nostra analisi). [Le citazioni da Piovani sono tratte da P. Piovani,
Conoscenza storica e coscienza morale, ed. Morano, Napoli, 19722, pagg. 48-51
passim]. 2 Espressione-concetto di M.. Altre espressioni tipiche del pensatore
goriziano, riscontrabili in questa Premessa, verranno asteriscate [*]. 3
Indicativo, a tal proposito, questo stralcio di una lettera al padre Alberto,
scritta da Firenze il 31maggio 1908: 1 chi si avvicina al suo pensiero deve
«far forza alla propria erudizione» [PR 14], perché - aggiungiamo noi - la voce
della Persuasione non è apofantica e, come tale, è insofferente ad ogni
approccio razionalizzato o erudito o categorizzante o puramente storiografico. M.,
"profeta" di Persuasione, non può essere soltanto letto, né può
essere decisamente soltanto "studiato", ma semplicemente accostato,
in maniera inesorabile, e condiviso o combattuto. Diventare, come lui, «povero
pedone che misura coi suoi passi il terreno» [PR 4], diventare compagno di
viaggio, e con lui - durante il cammino - conversare, come i discepoli amati e
amanti amavano fare con Socrate. Oppure, divenire intralcio al viaggio e
cercare occasioni di sosta forzata. Così, se s'intende per filologia la puntigliosa
computazione del dettato, la sua scolastica e la sua patristica, la mera
analisi testuale, la collazione, l'idolatria della parola e dei suoi rimandi
eruditi, il gusto per la citazione affine e raffinata, allora La persuasione e
la rettorica non è un'opera filologica. Se invece per filologia s'intende,
com'era per Vico, il rispetto e l'amore della parola come espressione del
pensiero e della sensibilità umana, come risonanza intellettuale ma soprattutto
morale, come pretesto per far filosofia "civile", allora essa è anche
un'opera filologica. Parimenti, se s'intende per ricerca la compilazione
archivistica, l'interesse esclusivo per l'inedito, la serietà sterile e
compassata di chi affronta un'opera coi ferri del mestiere, tacendo la propria
umanità in favore dell'esattezza scientifica, allora la tesi di laurea del
Goriziano non è una tesi di ricerca. Se invece per ricerca s'intende l'ascolto
della voce interiore, lo scandaglio dell'umano, l'elezione degli autori che si
leggono come istigazione dirompente a rimeditare la propria contemporaneità e
la propria condizione, se insomma è ricerca di se stessi attraverso il testo
che ci è di fronte, laddove la voce dell'autore, seppur muta nel foglio, ci
parla nel profondo prendendo a prestito le nostre parole, allora il suo lavoro
è anche ricerca, e ricerca sofferta. Se infine s'intende per critica
l'individuazione e la risoluzione di problemi testuali fini a se stessi, la
ricognizione delle contraddizioni dell'autore, la destrutturazione e la
ricomposizione dell'opera al fine di svelarne soltanto i punti deboli o quelli
forti, nel raffronto con la tradizione, ancora una volta l'opera di M. non è
critica; lo è invece se la critica è un'operazione di pensiero, che non chiama
in causa il concetto, ma il giudizio, se porta ad un punto di discernimento e
di crisi il pensiero di entrambi (dell'interprete e dell'autore), laddove la
crisi segna non soltanto il vacillare delle «lo in queste 2 settimane ho
lavorato. La prima settimana in casa, la seconda in biblioteca dove stavo dalle
8 alla una o le 2 a far lo 'studioso' [virgolettato ironico di M.] a uso e
consumo dei forestieri che venivano a visitare la meravigliosa sala della
Laurenziana. Il semplice studio d'analisi d'una traduzione di Brunetto Latini
d'un'orazione di Cicerone m'impigliò nella questione del testo che Br. Latini
poteva aver avuto sott'occhio; dovetti occuparmi della storia dei manoscritti
di Cicerone, ed esaminare quanti ho potuto trovare qui anteriori a Br. Lat. per
confrontarli colla sua trad.[uzione]. Poi studiai pure i manoscritti fiorentini
della traduzione per correggere in parte l'edizione. Non sono lavori fatti per
L'unica cosa che mi interessò sono le osservazioni che ho potuto fare
sull'eloquenza e sulla "persuasione" in genere». [E 320-321]
convinzioni e delle convenzioni, ma anche un elemento di svolta, un nuovo
inizio di sensibilità e di riflessione. Queste distinzioni non cavillose ma
sostanziali, che abbiamo addotto per render ragione dell'atipicità del lavoro
accademico di Carlo M., possono comodamente adottarsi anche per ciò che
riguarda il nostro lavoro accademico, il cui intento, o pretesa, non è far la
pantomima o la fotocopia di quello: in M., abbiamo trovato confermati
convincimenti che, da sempre, sono stati radicati in noi. In realtà, il
Goriziano è un autore che - data la stratificazione complessa del suo dettato e
l'estrema eterogeneità dei suoi referenti speculativi e letterari - si presta
volentieri anche ad accostamenti arditi e più o meno raffinati: la fantasia
dell'interprete corre a briglia sciolta e viene incoraggiata nel far aderire M.
ad una propria, personalissima Weltanschauung. Quasi sempre, il risultato che
se ne ricava è quello di un sostanziale tradimento della parola genuina del
Goriziano, che diventa il viatico - e spesso, il "megafono" - di
convinzioni e "persuasioni" esistenziali, speculative e politiche che
in realtà, nella maggior parte dei casi, appartengono esclusivamente
all'interprete: basti pensare (e speriamo che questi esempi-limite esauriscano
la portata della questione) a come il nome di M. ricorra, e sempre con pretesto
corroborante alle proprie posizioni, in opere tanto diverse quali possono
essere quelle di un Massimo Cacciari (dove il Goriziano diventa un'ulteriore
epifania della Krisis), di un Aldo Capitini (laddove la Persuasione diviene
religiosità autentica e umana) e addirittura di un Julius Evola (dove M. vien
chiamato a testimonianza del valore metafisico della "purità")‘. Il
nostro accostamento, dunque, è stato progressivo, talora blando, talora, e più
spesso, esasperato: come dire, volentieri il gioco ci ha preso la mano e,
rileggendo quanto abbiamo scritto su M., ci accorgiamo d'aver spesso confuso,
anche noi, la nostra prospettiva con la sua, o meglio, d'aver reso trasparente
la nostra "persuasione" attraverso la sua, utilizzando anche noi il
suo dettato come viatico di una ricerca ed urgenza esistenziale che, in primo
luogo, ci appartiene. Un qualcosa di analogo accadde del resto anche al
Goriziano, tal che la sua tesi, nata come uno studio scientifico sui concetti
di persuasione e retorica in Platone ed Aristotele (il cui nucleo originario si
conserva nella sezione "maledetta", come qualcuno l'ha definita,
delle Appendici critiche), si tradusse ben presto in un'apologia della
Persuasione. La sua tesi scientifica si era risolta in una ipotesi
esistenziale, e M. non ebbe scrupoli a ritenerla "ufficiale", a
"sottoporla in commissione di laurea", perché se è vero che una tesi
di laurea è 4 Per una motivazione che non ci vergogniamo di confessare
esclusivamente politica (una salutare posizione antidemocratica, una tantum),
abbiamo ignorato del tutto l'odiosa interpretazione evoliana; quella di
Cacciari la abbiamo assorbita nel corso della nostra trattazione, senza
palesarla più di tanto; riguardo a Capitini, invece, cui va tutta la nostra
simpatia, ci riserveremo di approfondirla nelle nostre Conclusioni. un'opera di
ricerca, è altrettanto vero che la vera ricerca è quella umana, socratica,
soprattutto se poi - e qui facciamo riferimento alla nostra - è una tesi di
filosofia morale. Nel suo scritto accademico, M. si disincagliò dalla
"scientificità", per porsi in diretta sintonia con la voce della
Persuasione. Ma non fu assunzione di sregolatezza o di a-criticismo, frutto
esclusivo di un'operazione di gusto o di genio; bensì, semplicemente,
l'escussione di una strategia ermeneutica altra (ogni strategia di scrittura comporta,
del resto, una specifica strategia di lettura), una tecnica d'interpretazione
dialogica che collabora col testo e che trova nel divino Platone * il suo
teorico più convinto ed esemplare: leggere non glossando, ma filosofando, e
intender la filosofia non (soltanto) come scienza del pensiero, ma come sapere
a vantaggio dell'uomo’ [cfr. Eutidemo, 288e - 290d], e quindi etica e politica:
pensiero che si svolge tra, e non sugli, uomini, con le parole degli uomini,
anche se il suo linguaggio è talora più suggestivo che rigoroso. In tal senso,
assumendo in pieno anche noi questo profilo euristico, abbiamo tentato un
"romanzo storico-filosofico" della persuasione in M. e abbiamo
accompagnato l'autore nella ricostruzione eccentrica, ma fedelissima (fedele
alla sua eccentricità), del suo pensiero. Proprio a questa oculata scelta
metodologica rispondono sia l'andamento narrativo della nostra esposizione, e
qualche confidenza che ci siam presi durante il suo corso, sia l'accostamento
del pensiero del Goriziano a pensieri "alternativi" (il Buddismo, ad
esempio), laddove l'accostamento non è arbitrario, ma confortato da effettivi
riscontri biografici e testuali; sia le forzature cui sottoponiamo i testi
dell'antichità classica filosofica e tragica (forzature, ancora, non nostre, ma
dello stesso M., filologo "patologicamente" originale: ci siamo
limitati a seguirlo e, in certi punti, ad assecondarlo), sia infine il
privilegiare testi ed autori in apparenza estranei alla storiografia filosofica
"ufficiale" (Ibsen e Tolstoj, sopra tutti), solo perché è quasi
esclusivamente su tali testi ed autori che si innesta e si forgia l'immaginario
persuaso di M.. Di contro, abbiamo adottato anche noi un opportuno (o per noi
tale) armamentario euristico per avvicinare il Goriziano. Innanzitutto,
l'orizzonte - morale, ma appunto anche euristico - entro il quale si muove la
nostra tesi è quello delineato dalla ragion pratica kantiana, non solo qui
assunta come la prospettiva etica, per noi, più alta mai raggiunta dal pensiero
in assoluto, ma anche - nell'economia del nostro discorso - come valido modello
per indagare e segnare "i limiti e le possibilità" della condizione
persuasa in M.. Il punto più importante di contatto tra il cosiddetto
imperativo iperbolico del goriziano e l'imperativo categorico kantiano è da
riscontrarsi, a nostro avviso, nella forte esigenza - 5 Definizione, questa,
tra l'altro cara ad uno dei nostri maestri putativi, Nicola Abbagnano. 6 In
questo, è possibile accostarlo al Nietzsche de La nascita della tragedia e de
La filosofia nell'età tragica dei greci. necessaria, ma non sufficiente - di
autonomia, che le suddette posizioni presuppongono: il regno della Rettorica
viene, di contro, a palesarsi per antonomasia come regno della eteronomia, in
tutte le manifestazioni, dalle più subliminali alle più sublimi, dalla sua
componente prima e fisiologica (la deficienza *) alla sua realizzazione più
completa (la tecnica politica e panoptica del corpo, tanto per esprimerci con
una fraseologia foucaultiana). Alla luce di quanto detto, cercheremo di
assimilare il vir” persuaso alla volontà santa, così come descritta da Kant.
Quando, invece, la nostra analisi s'appunterà nella de-costruzione del
dispositivo rettorico, ci avvarremo proprio dell'aiuto di quella lezione di "smascheramento"
retorico (lezione profonda e pervicace, intelligente ed irriverente), ch'è il
grande lascito di Foucault, inteso da noi come apice della cosiddetta
"scuola del sospetto". La difficoltà del concetto di Persuasione,
difficoltà quindi prima di concettualizzazione che di realizzazione, acquisterà
- a nostro giudizio - nuova chiarezza e nuovo valore in questo tentativo di
approccio critico che, a quanto ci consta, appare inedito nelle letteratura
critica sul Goriziano. Gli ulteriori elementi sinergici, di cui si terrà conto,
sono quegli stessi retaggi esistenziali che M. rielabora ed
"attualizza", ritenendoli egli stesso le cifre più essenziali di una
vita sana*, ovvero il messaggio e la simbologia cristologica e (nella sua
variante laica, se ci è permesso di esprimerci così) il messaggio e la
simbologia socratica. Secondo un taglio, invece, chiaroscurale, si
evidenzieranno distanze/vicinanze con i mostri sacri della Rettorica, ovvero
Hegel e ancor più Aristotele. A tal proposito, si utilizzerà l'opera dello
Stagirita - paradossalmente? - come una delle chiavi più adatte per penetrare
l'assunto M.iano, e da essa si ricaverà la formula euristica di entelechia
etica per designare appunto l'atto autentico della Persuasione. Persuasione che
acquisterà, per quanto possibile, contorni ancor più definiti nel confronto con
la fede (si tenterà una correlazione tra il Persuaso e il "cavaliere della
fede", figura kierkegaardiana), tal che, ancora una volta, la Persuasione
apparirà coi crismi di una esperienza e di un esercizio l'è vero religioso, ma
di una religiosità "laica", che si slaccia dall'eteronomia del
rapporto con Dio, per vestirsi di una propria spiritualità umana tutta
particolare, democratica e libertaria, ovvero fondatrice di democrazia e di libertà
(in questo contesto si accennerà all'opera di Aldo Capitini, che proprio in tal
senso intese il monito M.iano). Insomma, l'approccio che tenteremo al
"concetto" di Persuasione mirerà anzitutto a far terra bruciata
intorno ad esso: giocoforza, l'avvio a tale approccio verrà inaugurato in 7
Utilizzeremo, d'ora in poi, con preferenza questa dizione per indicare l'
"essere persuaso", sia per evidenti ragioni di brevità, sia
innanzitutto a ragione della forte valenza semantica- morale-storica che i
latini assegnavano a questo termine [cfr. almeno C. Nepote, De viris
illustribus]; vi contrapporremo homo per designare l' "uomo della
Rettorica" legato alla terra [homo > humus]; e soprattutto dominus,
colui che detiene i fili del potere all'interno della "comunella dei malvagi"
[per il significato di quest'ultima espressione, cfr. il prosieguo del nostro
lavoro]. media re, ovvero con riferimenti diretti agli scritti ultimi del
giovane filosofo goriziano e con iniziale preferenza per le lettere e le
poesie, rispetto alla stessa tesi di laurea, ch'è il suo lavoro più conosciuto:
ciò nella convinzione, nostra personale, che in quelli il concetto di
Persuasione abbia acquistato una dimensione, come dire, più consapevole e
vitale, urbanizzata e "politica" (insisteremo su questo punto),
quanto mai avesse nello scritto accademico, laddove ogni definizione a riguardo
- soprattutto nelle prime battute - si risolve volentieri in forme ermetiche e
tautologiche, talora francamente impenetrabili. Il tutto, nel tentativo - che è
paritempo pretesa - (autocitandoci) «di individuare il nocciolo etico di quel
suo [di M.] stesso pensiero, e di finalizzario ad una sana eudemonia (quella
che il Goriziano assimila alla vera 'salute') a vantaggio del nostro tempo,
cercando d'intravedere - non potendone visualizzarne in modo corretto e
'coerente' la consistenza e la realtà - la possibilità di quel porto di pace *,
da lui stesso vagheggiato», convinti che «la cifra autentica del suo pensiero
sia riposta in un'esigenza davvero semplice e umana: la ricerca, ch'è
l'esigenza appunto, della felicità possibile per l'uomo». In questa ricerca e
in questa esigenza convergono significativamente, per l'appunto, anche la
prospettiva socratica, quella cristiana e - non ultima - quella kantiana: e su
una cattiva (in senso proprio e lato) deflessione di tale ricerca e di tale
esigenza si è fondato, e si fonda tuttora, il mondo della Rettorica. Postille
metodologiche. a) Nella stesura del nostro lavoro, abbiamo preferito riprodurre
la falsariga M.iana: strutturare il discorso sulla Persuasione e sulla
Rettorica in due grandi blocchi, "monotematici", opportunamente
articolati in paragrafi atti a focalizzare i singoli progressi dell'analisi.
Ovviamente, i due capitoli non conducono esistenza autonoma, ma presuppongono
una serie indefinita di rimandi reciproci, evidenziati - nel nostro caso -
dall'Intermezzo (ma non solo), ponte di passaggio dall'uno all'altro e
frapposto ad essi. b) Sempre seguendo suggestioni M.iane, accordiamo grande
valore alle epigrafi: queste abbonderanno in riferimento a paragrafi di estrema
importanza e complessità. L'epigrafe, infatti, per M. riassume, e in certo modo
"scolpisce", il senso e la prospettiva di un discorso, e, allo stesso
tempo, lo arricchiscono di sottointesi atti a favorire una "complicità
etico-ermeneutica" tra lo scrittore e il lettore. c) Durante il nostro
lavoro, indicheremo generalmente (ovvero, a meno che non si avverta il bisogno
di approfondire l'appunto) con le seguenti sigle i testi di M. più citati,
facendole seguire dal numero delle pagine cui le citazioni fanno riferimento, e
apponendo il tutto, in parentesi quadre, a fianco del brano citato: 8
Paradossalmene, perché M. individua proprio in Aristotele il suo nemico
dichiarato [cfr. oltre]. - Opere, a cura di G. Chiavacci, Firenze, Sansoni.
1958: 0; - La persuasione e la rettorica, con Appendici critiche, a cura di S.
Campailla, Milano, Adelphi, 1995: PR; - Epistolario, a cura di S. Campailla,
Milano, Adelphi, 1983: E; - Poesie, a cura di S. Campailla, Milano, Piccola
Biblioteca Adelphi, 19945: PP; - Il dialogo della salute e altri dialoghi, a
cura di S. Campailla, Milano, Piccola Biblioteca Adelphi, 19952: D.
Quest'espediente ha una doppia utilità metodologica: 1) evitare un continuo e
fastidioso affastellarsi di note e di rimandi spiccioli a pie' di pagina,
elemento di distrazione durante la lettura; 2) (e più importante) mostrare la
ferrata logica di rimandi e di allusioni che informa tutta l'opera di Carlo M.,
secondo l'intima consapevolezza, che è propria al filosofo goriziano, del fatto
che ciò che si sta comunicando è in fondo un unico, anche se articolato,
pensiero [cfr. nota 161]. d) Trascriveremo, con spaziatura e formattazione di
paragrafo e carattere diversi da quelli comunemente assunti dalla nostra
scrittura, periodi o espressioni di M. o di altri autori, o che comunque non ci
appartengono. e) Riguardo espressioni e citazioni in greco, fatta eccezione per
talune ricorrenti nel dettato di M., si preferirà la translitterazione latina
(ad es. gui --- philia); le citazioni, tratte da filosofi o scrittori non
italiani, in linea generale si riporteranno direttamente in traduzione. f)
Infine, invitiamo - si licet - a non trascurare, durante la lettura, le note a
pie' di pagina, alcune particolarmente strutturate e complesse: molte note,
infatti, rappresentano vere e proprie "appendici critiche" al
paragrafo in questione, e articolano un discorso tangenziale e approfondito di
taluni aspetti del pensiero M.iano che, di non minore importanza, tuttavia
avrebbero appesantito, in prolissità, il corpus del paragrafo stesso. Capitolo
| La persuasione more geometrico demonstrata. Persuadere: 1 - indurre qlc. in
una convinzione o spingerlo a compiere determinate azioni; 2 - ottenere
approvazione, ispirare fiducia. Definizioni (rettoriche) del dizionario
Garzanti [...] guardar in faccia la morte e sopportar con gli occhi aperti
l'oscurità e scender nell'abisso della propria insufficienza: venir a ferri
corti colla propria vita. "Definizione" di M., nel Dialogo. 1.
Introduzione metabiografica. Mi pardi non aver voce, così m'opprime questo
triste incubo d'inerzia faticosa dal quale non ho saputo ancora riscuotermi.
Quella voce che viene dalla libera vita, quella m'era necessaria per fare il
mio lavoro come io lo volevo; m'ero illuso di poterla avere: e mi son trovato
invece a desiderar solo di non parlare, a non aver nessun interesse per ciò che
pur m'ero proposto di dire quasi con entusiasmo. E d'altronde finir la tesi era
la necessità per me per uscir da questo abbominio, almeno per poter sperar
d'uscirne, per aver almeno una via. Ma scrivere senza convinzione parole vuote
tanto per poter presentar carta scritta, questo ancora m'era impossibile... E
in questo triste giro mi son dibattuto questi mesi malato nell'anima e
impigrito nel corpo, a volte giungendo a raccogliermi e a riaver in me vive e
concrete le cose che altrimenti mi danno solo un tormento oscuro; altre volte e
per lo più vinto dall'inerzia disperdendo le mie forze in questo e in quello
che sembrava distrarmi dalla noia e tanto più fortemente mi stringeva nella
brutta necessità [E 440-441], Queste parole - scritte da M. all'amico Enrico
Mreule, quasi ad un anno dalla partenza di quello per l'Argentina -
rappresentano, nella loro disperata sincerità, come un'epitome esistenziale dell'impasse
(almeno per poter sperar d'uscime, per aver almeno una via...) in cui grava il
nostro giovane autore, a pochi giorni oramai dalla sua morte. L'onere della
tesi di laurea, questo «mostro informe qui crescit eundo et quod crescit non
it» [E 417], viene affrontato in ultimo con la pedanteria (anzi, ci vien
d'usare un ossimoro: con la dotta sciatteria°) di chi è già consapevole
dell'inutilità, travestita da illusione, di poter fare «con le parole guerra
alle parole» [PR 134]'°; di chi - forte di questa consapevolezza - si presta
tuttavia al gioco della Rettorica, fatto di scadenze e note filologiche (fumo
negli occhi per un "messaggio" che tanto i professori non capiranno,
ironizza altrove M.)'', di vita consegnata alla carta, e per questo non più
vita. Una consapevolezza, infine, affidata in forma definitiva e paritempo
programmatica alla famosa prefazione all'opera maggiore: «o lo so che parlo
perché parlo, ma che non persuaderò 9 «L'interesse d'aver fatta una cosa non è
l'interesse di farla» [E 441]. 10 Tratto dall'epigrafe alle Appendici critiche.
11 «Il mio lavoro procede a lenti passi, anzi non c'è un progresso
materialmente sensibile. Ma non me ne impensierisco, perché ormai è questione
di tempo e difficoltà grosse non ne troverò più. - Tanto poi per quei
professori è tutto buono; per loro è come arabo, non hanno vie e criteri per
dire se va bene o male; tutt'al più potrebbero rifiutarlo e perciò è stato
prudente aspettare fino a Ottobre, che così potrò buttar loro negli occhi tutta
la polvere necessaria e che andrò raccogliendo in questo tempo. -» [E 392].
Antimo Negri, giustamente, fa notare che «solo le Appendici, del resto esse
stesse non fino in fondo, sembrano, vertendo su autori classici, soprattutto
Platone e Aristotele, obbedire alle regole del gioco dello "studio
scientifico" accademico» [A. Negri, Il Lavoro e la città, Roma, Ed.
Lavoro, 1996, pag. 45]. In un notevole passo della sua tesi, M. destruttura i
"meccanismi di potere" sottesi alla dinamica succitata:
«"[...]Tu devi far uno studio su Platone o sul vangelo" gli [al
giovane studioso] diranno "è perché cosi ti fai un nome, ma guardati bene
dall'agire secondo il vangelo. Devi esser oggettivo, guardare da chi Cristo ha
preso quelle parole o se omnino Cristo le abbia dette e se non meglio le
abbiano prese gli Evangelisti o dagli Arabi o dagli Ebrei o dagli Eschimesi,
chi lo sa... Naturalmente parole che valevano in riguardo all'epoca, adesso la
scienza sa come stanno le cose, e tu non te ne devi incaricare. Quando tu hai messo
insieme il tuo libro sul vangelo - allora puoi andar a giuocare". [...]
Così si conforta il giovane a perseguire nel suo studio scientifico senza che
si chieda che senso abbia, dicendogli: "tu cooperi all'immortale edificio
della futura armonia delle scienze e sarà un po' anche merito tuo se gli uomini
quando saranno grandi, un giorno sapranno "». [PR 131; corsivi di M.].
Abbiamo preferito anticipare già qui espressioni- conclusioni del Goriziano, al
fine di proiettare da subito chi legge nel vivo della polemica M.iana. nessuno:
e questa è disonestà - ma la retorica "mi costringe a forza a far
ciò"? - o in altre parole "è pur necessario che se uno ha addentato
una perfida sorba la risputi"» [PR 3]. Una citazione, questa, che è a la
page, tra coloro che affrontano il filosofo goriziano, anche se talora mal
intesa o superficialmente valutata. Tuttavia, a ben vedere, è già qui che si
delinea, si dibatte, e implode, il problema (l'aenigma) della persuasione e
della rettorica. Ed è questa (ci si perdoni quest'ulteriore incursione
metodologica), anche, una delle peculiarità che caratterizza il nostro M.:
ovvero, il fatto che da qualunque prospettiva si prenda la sua opera, qualunque
suo scritto si abbia sottomano, ci si trova già subito e prepotentemente
proiettati nel cuore dello scontro millennario, umano e storico, tra
persuasione e retorica appunto. E' altresì anticipato, in forma lata ma
altrettanto perentoria, un assunto che informa e struttura e, in un certo modo,
pregiudica ogni assoluto tentativo di discorso su "che cosa sia" la
Persuasione: la Persuasione è dopo tutto l'indicibile, l'impensabile: una
"condizione" senza pensiero, che non possiamo visualizzare e nemmeno
interpretare concettualmente, né tantomeno comunicare, secondo le leggi della
logica della cosiddetta "ragione occidentale". Ogni "parola
sulla", ogni "pensiero sulla" Persuasione, già solo per essere
concepito, deve prima essere elaborato, sottoposto ad artificio, manipolato,
interpretato, per separarlo dalla sua primigenia e consustanziale assurdità: ogni
pensiero sulla Persuasione si profilerebbe, così, già di per se stesso come
Rettorica. Appare chiaro, inoltre, ma non è male ribadirlo da subito, che il
progetto originario - di trattare, nella sua tesi di laurea, | concetti di
persuasione e rettorica in Platone ed Aristotele - si allarga e sviluppa,
inevitabilmente per M., nella considerazione dell'intera vita umana, culturale
e sociale. Non solo. In effetti, l'applicazione di questi due principi o
categorie (per ora definiamoli in questo modo) investe una dimensione ancora
più ampia, assurgendo a cifra dell'intero esistente. Ovvero, tutto il mondo,
inteso sia come "totalità dei fatti" (tutto ciò che accade) sia come
"totalità delle cose" (tanto per parafrasare Wittgenstein), risulta
permeato, intriso, e quindi - dalla prospettiva del Nostro - rimeditato alla
luce di questi due principi. Questo è un punto nodale. La persuasione e la
rettorica, nell'accezione del giovane filosofo, subiscono così non soltanto uno
slittamento concettuale rispetto alla concezione che di questi due principi,
che di queste due parole, il "senso comune" ha. La rettorica - ad
esempio - non è più un'ars, una téchne, con una sua patente di nascita,
storicamente contestualizzata e con un'applicazione "pratica":
ovvero, non è larte del parlare e dello scrivere in modo da convincere, o
persuadere” un uditorio, non è una professione di eloquenza e non denota 12 in
greco nel testo 13 E' interessante come la denotazione povera di questi due
termini s'incontri in questa definizione, tratta dal dizionario Garzanti, quasi
a testimoniarne un significativo appiattimento. altresì, per estensione, un
atteggiamento o comportamento che mira solo all'effetto esteriore e non è
determinato da un'autentica esigenza spirituale (la retorica del bel gesto, ad
esempio). Tutti questi aspetti non sono altro che i "modi" e gli
"attributi" in cui si manifesta la Rettorica originaria: ne sono la
mera fenomenologia, e anche la più povera. Le parole-chiavi di questo pensiero,
dunque, sono da M. essenzialmente intese «in un senso diverso da quello
corrente, che rivela influenze ebraiche, greche e proto-cristiane. Come osserva
Mario Perniola, persuadere si dice in greco peitho, e l'uso transitivo del
verbo, persuadere qualcuno, non appartiene al greco arcaico ma ne rappresenta
una successiva trasformazione. Dunque la prima accezione di persuasione era
essere persuasi, aver fiducia. Anche nella Bibbia dei Settanta [...] la radice
greca peith- traduce la radice ebraica bth-, usata nei libri sapienziali
dell'Antico Testamento per indicare la disposizione d'animo del giusto: la
fiducia. Mentre la fede, pistis, nel Nuovo Testamento implica il rinvio al
futuro, l'attesa di una salvezza a venire, la fiducia-persuasione è,
nell'Antico, qualcosa di presente, un possesso attuale. Il senso della
persuasione M.iana è molto simile»'*, come avremo modo di approfondire.
Giusticato appare, dunque, il nostro confessato imbarazzo nell'approntare la
presente tesi, e ci figuriamo l'espressione ironica di M., se potesse leggere
le nostre pagine, e le altrui, sulla sua opera e sul suo pensiero. Ma ancora
una volta, la rettorica ci spinge a far ciò: un dispositivo machiavellico così
diabolicamente ben congegnato da riuscire a rendere la voce della verità la
propria pubblicità, ammantandola casomai di simbolismo o conferendole una
sistemazione ch'essa, invece, disdegna; e da riuscire a rendere, altresì, i
contestatori del sistema i propri martiri, o - alla men peggio - «naturalisti
inesperti», o meri facitori di bei versi, di bei drammi e di belle musiche. E M.
stesso un nichilista, un mistico, un cristiano devoto, un ebreo autentico, un
filosofo mancato, soltanto uno scrittore, una promessa non mantenuta, un
teorico dell'arte, un teorizzatore del dominio, un filosofo del linguaggio, un
imperfetto pessimista, un filosofo col martello, un pensatore morale, un
precursore dell'esistenzialismo, un povero anonimo giovane goriziano suicida,
l'ultimo allievo di Socrate, uno spirito della vigilia; e l'elenco, credeteci,
potrebbe stendersi all'infinito, perché infiniti sono gli uomini ed, ergo,
infiniti sono i modi di porsi della rettorica. Il che vale a dire che il
"sistema" (ed è questo il suo raffinamento, come vedremo) è divenuto
capace di tollerare, al proprio interno, riassorbendole, anche le
contraddizioni e le contestazioni più sottili e acute, apparendo per molti
aspetti davvero come un Moloch o un Leviatano invincibile. 14 Cfr. Michelis
Angela, Carlo M.: il coraggio dell'impossibile, Roma, ed. Città Nuova, 1997,
pagg. 124-125 [la stessa autrice rimanda a M. Perniola, La conquista del
presente, in Mondo Operaio, n. 4, aprile 1987, pagg. 108-109]. Questa che ci
accingiamo a scrivere, tuttavia, non vuole essere una riflessione su M. e sulla
sua opera e il suo tempo, non pretende cioè di coltivare (soltanto) una critica
filologica e filosofica del suo pensiero. La sua pretesa è addirittura più
grande: ovvero, quella di individuare il nocciolo etico di quel suo stesso
pensiero, e di finalizzarlo ad una sana eudemonia (quella che il Goriziano
assimila alla vera «salute») a vantaggio del nostro tempo, cercando
d'intravedere - non potendone visualizzarne in modo corretto e
"coerente" la consistenza e la realtà - la possibilità di quel «porto
di pace», da lui stesso vagheggiato. Per quanto possa sembrare riduttivo,
soprattutto in confronto alle vertiginose elucubrazioni che si sono tessute
intorno all'opera del nostro giovane autore, siamo infatti convinti che il
tratto autentico del suo pensiero sia riposto in un'esigenza davvero semplice e
umana (esigenza che non è soltanto letteraria o speculativa, ma che nasce
soprattutto da un'amara esperienza di vita, così com'è esperita da un giovane
intelligente e molto, molto sensibile): la ricerca, ch'è insieme l'esigenza, di
una felicità possibile per l'uomo. «Gli uomini non sono infelici perché
muoiono; muoiono perché sono infelici», afferma Michelstaeater, e questa
antimetabole non vuol essere una frase ad effetto giocata sul capovolgimento di
un luogo comune, bensì in essa è compendiata la grande utopia etica (ma quanto
utopica, poi?) che il Nostro ci propone. M., redivivo Socrate, si assume un
difficile compito esistenziale prima che speculativo (condividendolo col suo
"maestro" e con tutta la temperie greca), e lo affronta con tutta
l'esuberanza e la fiducia della sua giovane età, esuberanza e fiducia temprate
tuttavia dal rigore della sua mente eletta: quel compito è insegnare agli
uomini ad essere veramente felici. Glissando per ora considerazioni che
approfondiremo durante tutto il nostro discorso, possiamo anticipare già qui,
dunque, la pregnanza socratica ed, insieme, evangelica (nonché, aggiungiamo
noi, kantiana) di suddetta utopia. Detto in parole molto semplici: se
l'infelicità è frutto di "ignoranza esistenziale" (come c'insegna
Socrate, appunto, e - in certo modo - tutta la schiera di Persuasi che M.
annovera nella prefazione alla sua tesi), ebbene bisogna fugare le tenebre di
questa ignoranza (ovvero, di questa rettorica), bisogna «uscir della tranquilla
e serena minore età» [PR 131]'°, ed indagarla secondo una prospettiva
"archeologica" - ovvero, "eziologica" - che la conduca
appunto allo scoperto. M. scoprirà (come già notava a suo tempo il Piovani’) le
radici di 15 Sono le parole con le quali, significativamente, si conclude la
tesi di laurea. Ma cfr. il seguito del nostro lavoro. 16 Piovani Pietro, M.:
filosofia e persuasione, un inedito di P. Piovani a cura di Fulvio Tessitore,
Nuova Anologia, fasc. 2141, vol. 548°, gennaio- marzo 1982, p. 214. Piovani,
innanzitutto, ci avverte che «(...) occorre molta prudenza critica
nell'avvicinarsi a M. con la piena fiducia che il suo discorso abbia una
tratteggiata autonomia di linee ricostruibili al di là del loro frammentarismo
sostanziale."; quindi, poco dopo, quasi a proporci un possibile approccio
metdologicamente corretto: "A tal fine giova, secondo noi, individuare
come determinante il tema della deficienza». quella Rettorica nella stessa
struttura - fisiologica, prima che ontologica - dell'uomo, penalizzato da quel
«deficere» ch'è l'alfa e l'omega di ogni sofferenza, di ogni
illusoria(«lusinghiera», «adulatrice») soddisfazione, e - insieme - di ogni
possibilità di riscattoautentico. Quella "deficienza" che la critica,
unanimemente, ascrive ad un retaggio schopenhaueriano del nostro autore, e che
noi, invece, preferiamo assimilare al concetto di privazione (steresis),
contenuto nella Fisica di Aristotele. Il che non vuol essere un cavillo
ermeneutico, ma vuol rendere chiara - da subito, senza indugi - quella ch'è la
nostra prospettiva di approccio a M.: siamo convinti, infatti, che l'aenigma
della Persuasione (e di tutte le ardue, tautologiche "definizioni"
che ad essa il Goriziano associa) si risolva in quella che potremo chiamare,
con una formula che diamo già qui per definitiva, entelechia etica, laddove per
entelechia intendiamo proprio ciò che intendeva lo Stagirita'”, ovvero l'atto
finale o perfetto, cioè la compiuta realizzazione di una potenza. Ebbene, a
nostro parere, il dilemma Persuasione-Rettorica si gioca appunto sul trinomio
privazione-potenza-atto (e ci sentiamo autorizzati a ciò da alcune
"tracce" che M. stesso lascia nei suoi scritti), tale che la
Persuasione si evincerà come la piena, perfetta attuazione, realizzazione
dell'uomo, secondo la sua (vera) natura. Si converrà che una tale impostazione
ribalta, in modo deciso, ogni evenienza critica - per quanto legittima, perché
giustificata, in un certo senso, da talune affermazioni "forti" dello
stesso Goriziano - circa l'impossibilità (per l'uomo) della Persuasione. In
effetti, proprio M., se non nell'opera maggiore, soprattutto nell'Epistolario e
nelle Poesie? sconfessa - e ci sentiamo di dire che lo fa con una certa gioia
che sa di liberazione - quella presunta impossibilità della Persuasione,
individuando nell'amico Mreule l'acme, cronologico ed etico, della Persuasione
realizzata: l'atto di coraggio del compagno Enrico dimostrò al giovane filosofo
(e dimostra a noi) che la Persuasione non ha soltanto una sua storia (né
tantomeno soltanto una sua storia letteraria e filosofica), ma anche una sua
attualità viva e concreta, che ci può essere accanto e ci può guidare '°, pur
nella consapevolezza che una cosa è conoscere la «via della Persuasione», altra
cosa è avere la forza e il coraggio di imboccarla. Volendo, il dramma del
suicidio del giovane goriziano si consuma tutto qui (ma lungi da noi ogni
riduzionismo e ogni retorica a tal proposito). 17 Cfr. almeno Metafisica, IX,
8, 1050a 23. 18 Nel confronto (soprattutto) con le ultime lettere e poesie
(intendiamo quelle del 1909-1910), ci azzardiamo a considerare la tesi di
laurea già "datata", per quanto concerne la dimensione persuasa
dell'uomo; o quantomeno, a considerare le suddette lettere e poesie l'
"urbanizzazione" più completa e più efficace del messaggio della
Persuasione stessa. Ragion per cui, ad esse va tutta la nostra predilezione. 19
Sul valore e sul senso di questa "guida" della Persuasione - che non
ne pregiudica l'assunto autonomo, cioè di esperienza che si realizza nello
spazio di autonoma sacralità di ogni uomo - si articola un difficile e
intricato equilibrio (tra autonomia ed eteronomia), sullo
"scioglimento" del quale s'impernia tutto il nostro lavoro. Già da
quanto detto finora, appare chiaro che M. si presenta subito come un autore
"difficile": questa sua difficoltà deriva non solo (com'è ovvio) dal
carattere decisamente e consapevolmente anti-sistematico, se non ermetico, del
suo linguaggio e del suo "messaggio"? - per quanto quello stesso
messaggio contenga una sua certa "banalità" (la "banalità del
bene", per alcuni sintomo di "pensiero adolescenziale" [sic])
paradossalmente non accolta, inascoltata™ o, peggio, mal interpretata; non
deriva soltanto dalla vastità (davvero impressionante, per un giovane) dei suoi
referenti culturali; né soltanto dalla "irritabilità" cui può indurre
chiunque ad esso si avvicini (un'irritabilità che egli condivide appieno con la
torpedine-Socrate); bensì essa deriva, forse soprattutto, dalla collocazione "liminare"
della vita stessa e dello stesso pensiero del Goriziano: storicamente sospeso
in un'età per definizione di transizione e di decadenza (quella tra Ottocento e
Novecento), con tutte le inquietudini "millennaristiche" annesse e
connesse, ampiamente testimoniate, del resto, dalla cultura coeva’;
geograficamente (e dunque culturalmente, linguisticamente...) oscillante tra
Austria e Italia (e non solo; non si approfondirà mai abbastanza l'impronta
mitteleuropea di questo autore”), situazione - questa - complicata, e di molto,
dall'appartenenza ebraica dell'autore stesso (altro nodo abissale); attratto e
disperso in una molteplicità passionale di ispirazioni (il teatro, la musica,
la letteratura, la poesia, la pittura), sia per quanto concerne le
"fonti", sia per quanto concerne le sue stesse realizzazioni; calato
in una Weltanschauung tragica - filosofica e religiosa - di amplissimo respiro
storico-geografico, di cui si propone originalmente e appassionatamente di
riannodare le fila; dibattuto tra un lacerante bisogno di indipendenza (non
solo "culturale" e affettiva, ma anche economica) e un altrettanto
forte bisogno di rifugio nell'alcova della sua Gorizia e della sua famiglia. 20
Riguardo a ciò, solo per la chiarezza con cui è svolta l'argomentazione, riportiamo
l'equilibrata valutazione di G. Cavallero, nella prefazione alla sua tesi di
laurea, valutazione praticamente condivisa da tutta la critica: «Alla filosofia
del M. (caso singolare nella storia dei pensiero) va riconosciuta subito una
dote rara: quella di non porsi mai come tale, almeno nel significato ormai
consacrato del termine. Di diritto essa rientra piuttosto nella storia della
cultura che, non propriamente, in quella della filosofia o della letteratura
occidentale. La sua peculiare forma espressiva è strutturata in un originale
amalgama linguistico, da cui affiorano, armonizzati su di un antico ritmo
greco, stilemi biblicoplatonici, modi di prosare "vociano" oltre,
naturalmente, ad una congerie varia di altri influssi - tra i più disparati - della
cultura contemporanea. Questo complesso problema linguistico, lasciato tuttora
irrisolto dai numerosi critici del M. ad oltre sessant'anni [la tesi di
Cavallero è del 1972] dalla morte, ha così indirettamente favorito le più
arbitrarie interpretazioni della Persuasione, nel tentativo di ricondurla, di
volta in volta, al denominatore delle più svariate ideologie del Novecento
europeo». [G. Cavallero, Itinerario di M., Tesi di laurea, Anno accademico
1971-1972, presso Biblioteca di Gorizia, Fondo Carlo M., Prefazione p. VI. ] 21
«Eppure quanto io dico è stato detto tante volte e con tale forza che pare
impossibile che il mondo abbia ancora continuato ogni volta dopo che erano
suonate quelle parole» [PR 3]. 22 Ma cfr., per quanto or ora diremo, il nostro profilo
biografico, più dettagliato, contenuto nel paragrafo 6 del Il capitolo (sulla
Rettorica): Il pretesto cronologico della proposta persuasa di M. 23 Lo studio
di L. Furlan, L'essere straniero di un intellettuale moderno, ed. Lint- lavoro
dettagliato, composito, anche se discutibile per certe sue conclusioni - si
propone di adempiere appieno a questo gravoso compito. Tutto questo risulta poi
complicato da una tempra caratteriale certamente particolare, diremmo per certi
aspetti umorale, tanto da rasentare a volte manifestazioni depressive- reattive
(in specie, ad esempio, nelle ultime lettere), altre volte lampi di
vitalistico, ottimistico entusiasmo. Delicato, suo malgrado, come un fiore di
serra (psicologicamente, beninteso non fisicamente), sarebbe forse più opportuno
dire che la severità, o meglio il forte rigore morale, che egli usò con se
stesso dovette applicarlo anche agli altri uomini, ricavandone sovente sonore
smentite: da ciò, negli ultimi anni della sua vita, una sorta di involuzione
caratteriale: un animo, col tempo, sempre più appartato e deluso, che tuttavia
non perde la sua essenziale forza, energia e consapevolezza. Alla luce di tutto
ciò, se volessimo compendiare, in una sorta di prosopopea, il dramma
esistenziale del nostro giovane autore (che è, in definitiva, quello di un
"aspirante alla Persuasione" che si trova invischiato giocoforza
nello strame rettorico), proporremmo - in alternativa alla chiave di lettura
legata alla ben nota "coscienza infelice" hegeliana, avanzata dal
Garin% - la figura di Qohélet, il saggio ebreo autore di quell'operetta biblica
(tanto cara al Goriziano) che vien chiamata Ecclesiaste. Nel corso della sua
esistenza, Qohélet ha vissuto sulla propria pelle - giungendo ad una
consapevolezza tanto profonda quanto disincantata - la sconcertante (per quanto
"banale") verità che «tutto è vanità», come recita l'inizio [1,2] e
la fine [12,8] del libro biblico, a confermare che tutta la riflessione in esso
contenuta non è altro che un dipanare la trama e l'ordito di quell'assunto unico,
dominante e paradossale. Orbene, Qohélet - per quanto saggio, di una saggezza
che lo discrimina rispetto all'umanità intera - è tuttavia e comunque, come
tradisce l'etimologia stessa del suo nome, "l'uomo che partecipa
all'assemblea (degli uomini)". Proprio come M.. Questo, insomma, il
complesso intrico di fattori che si trova costretto ad affrontare chiunque si
avvicini al filosofo. Lo stesso autore della Persuasione, quasi a pregustare
questa difficoltà, afferma che «ci sono degli uomini che sono dei mostri, che
si sono liberati del tutto dal loro tempo e dagli altri tempi e fanno la
disperazione degli storici» [O 810]. Difficoltà che, tuttavia, a 24 Ma, per
dirlo in parole molto semplici, se il dramma della "coscienza
infelice" è quello di non poter identificarsi con Coscienza Immutabile,
ch'è Dio e l'Assoluto, l'infelicità di M. ha un fondamento quantomeno opposto:
propri quello di essere costretto all'identificazione, con qualsivoglia
"struttura" o "identità". M. illustra questa inconciliabile
dicotomia, ascrivendola anzi ad una delle più pericolose e
"lusingatrici" illusioni dell'uomo, di ascendenza
platonico-hegeliana, in un passo sotto questo punto di vista memorabile: «Egli
[l'uomo] vive di ciò che gli è dato, di cui non ha in sé la ragione, ma nella
sua conoscenza assoluta egli ha la Ragione; se il fine delle sue affermazioni
vitali è in ogni punto paura della morte, ma nel suo Assoluto egli ha il Fine;
se egli è in balia delle cose e non ha niente, e se pur questo niente difende
come valevole con ingiustizia verso tutte le altre cose, ma nell'Assoluto egli
ha la Libertà, il Possesso, la Giustizia. Così egli porta intorno l'Assoluto
per le vie della città. Egli non è più uno ma sono due: c'è un corpo, o una
materia, o un fenomeno o non so cosa, e c'è un'anima, o una forma, o un'idea. E
mentre il corpo vive nel basso mondo della materia, nel tempo, nello spazio,
nella necessità: schiavo; l'anima vive libera nell'assoluto». [PR 54-55] o ov
ben vedere, ci tocca fino ad un certo punto, se è vero - come ribadiamo - che
la presente tesi non vuol essere tanto un lavoro di critica e storiografia
filosofica, né vuol essere una meditazione su M., bensì riflessione attraverso M.,
ovvero vuol rintracciare (vuol recuperare) in certo modo l'attualità della sua
ingiunzione morale, e non al fine di espungere «ciò che è morto» e di decantare
«ciò che è vivo» del nostro autore (operazione che, per noi, nasconde sempre
presunzione ed ingratitudine), bensì di riguadagnare una voce autentica - che
nasce da un'esperienza esistenziale altrettanto autentica - che possa aiutarci
nella difficoltà del tempo presente, diventando nostra ingiunzione, al di là di
ogni categoria storica e filosofica stabilita. Del resto, coerente alla sua
formazione eminentemente "letteraria", e non specificamente
filosofica (gli autori da lui citati, a rigore, sono più "profeti"
che filosofi, ed è indicativo: la verità non si esprime per sistemi, ma si
veicola nelle forme originali ed autentiche della creazione umana); e, soprattutto,
consapevole che la verità stessa è una «sorba amara e perfida», «povera e
nuda», che si vive e non si dice (com'egli afferma della Persuasione), lo
stesso M. non intende pagare «l'entrata in nessuna delle categorie stabilite»
né fare da «precedente a nessuna nuova categoria»; ma procede, a suo dire, nel
rilevare il testimone della verità, «né con dignità filosofica né con dignità
artistica»?°. Il nostro filosofo si pone, dunque, quale «povero pedone che
misura coi suoi passi il terreno»? e da subito fa professione di non-originalità””,
laddove però questa non-originalità non è pedissequa ripetizione scolastica di
istanze e di imperativi morali, non è il disdegno intellettuale (anch'esso
"borghese") di chi rifiuta per principio il mondo degli altri
(sentenziando «pereat mundus sed fiat iustitia») e gli contrappone una realtà
sua propria tanto edenica, quanto astratta e utopica: è, invece, il
rinnovellarsi e il ribadirsi di un appello all'esistenza vera ed originale,
vissuto veramente e profondamente sulla pelle di coloro che l'hanno professato:
Parmenide, Eraclito, Empedocle, Qohèlet, Cristo, Eschilo, Sofocle, Simonide,
Socrate, Petrarca su su fino a Leopardi, Ibsen e Beethoven. Il carattere
"viatorio" di queste espressioni ci rimanda a quella che ci pare
essere la chiave di volta della loro testimonianza: una testimonianza che
matura, si muove e soffre tra e con gli uomini, un'ingiunzione morale che
decade dal piedistallo del mal inteso imperativo categorico kantiano, divenendo
- in questa deformazione - astratto e universale (i due termini, da un punto di
vista esistenziale, si combinano), e rapprendendosi, In una lettera a Enrico,
in un contesto ironico, M. butta giù, en passant, un «si duo idem faciunt non
est idem» [E 423; ma il modo di dire ricorre anche altrove: cfr, ad es., PR
62]Questa notazione, evidentemente, meriterebbe molto di più che una semplice
nota. 25 Per quanto questo poi sia vero: si veda comunque come appaiano
scontate ed inopportune, alla luce di ciò, le accuse di coloro i quali tacciano
M. di scarso rigore filosofico: Gentile fra i primi. 26Per le espressioni
citate in questo contesto, rimando - ancora una volta - alla prefazione di C. M.,
La Persuasione..., op. cit. storicamente, nell' "uomo e nello Stato
hegeliano", avviluppato nella matassa del dovere, della responsabilità e
della sicurezza”; un'ingiunzione morale, infine, che si fa veramente
"urbana" e concreta, in una parola: etico-politica. Ovvero, M. cala -
incarna - lo sforzo etico-speculativo teso alla ricerca di soluzioni (scelte)
esistenziali, volte al vero vantaggio degli uomini? - o meglio, della sola
autentica scelta esistenziale, ch'è la Persuasione - nella magmatica,
pragmatica ed altrettanto paradossale quotidianità che ognuno vive. L'unica
valida alternativa - rispetto alla nostra decadenza - per una felicità
possibile per gli uomini, per una xya9wv gui (il corrispettivo speculare,
persuaso, della rettorica xowwwx xxxwv?9) veramente realizzabile. 27 Cfr. nota
21. 28 L'etica kantiana, nella sua interpretazione distorta, va a rappresentare
proprio la forma più moderna e palese e dinamica di "etica borghese della
sicurezza", ch'è il cavallo di battaglia della Rettorica. 29 Preferiamo
utilizzare sempre il plurale. 30 Per il senso di queste espressioni, rinviamo
al seguito del nostro lavoro. 2. Il demone Enrico. In un noto passo
dell'Apologia [31, D; ma cfr. anche Fedro 242 C, 551], il persuaso Socrate
afferma: «[...] questo che si manifesta in me fin da fanciullo è come una voce
che, allorché si manifesta, mi dissuade sempre dal fare quello che sono sul
punto di fare, e invece non mi incita mai a fare qualcosa»?! [corsivo nostro].
Poco prima, Socrate aveva definito quella voce «alcunché di divino». E' il
famoso, controverso, "demone" socratico”, una delle voci più antiche
ed autentiche della Persuasione, la cui caratteristica singolare è quella di
essere, piuttosto, una voce della dissuasione”. Compendia e glossa G.
Bastide®*, considerando tutti i passi in cui questa "figura" ritorna:
«nnanzitutto Socrate spiega il suo comportamento ricorrendo a un dio interiore,
ad un avvertimento intimo, ad una voce demoniaca che non l'abbandona mai. Poi,
tranne una o due eccezioni, questa voce interiore prende forma di divieto,
quando si tratta di distogliere Socrate da questo o quell'atto o da questo o
quel coinvolgimento preciso. Infine, il dio è una forza imperiosa che determina
in modo totale la vocazione spirituale di Socrate »”. In Teagete [129 E - 130
A], la potenza del demone socratico si "politicizza": «[...]la
potenza di questo demone è determinante, anche nei rapporti con coloro che mi
frequentano: a molti, infatti, è ostile ed essi non traggono profitto alcuno
dalla mia compagnia, tanto che anche a me non è possibile stare con loro; a
molti non impedisce di frequentarmi, ma, dalla mia vicinanza, non ricevono
vantaggio alcuno; quelli, invece, che la potenza del demone assiste, perché
godano della mia compagnia, sono coloro dei quali anche tu [Teagete36] ti sei
accorto; infatti ne ricevono un profitto immediato; ma anche tra questi, alcuni
godono di un 31 Le citazioni tratte dalle opere di Platone, qui e altrove, sono
riportate secondo la traduzione offerta in Platone, Tutti gli scritti, a cura
di G. Reale, Milano, Rusconi, 19912. 32 Cfr. la diapositiva C [Demone] nel
supporto iconografico. 33 Si tenga altresì presente ciò che Nietzsche afferma
nella Nascita della tragedia, sempre a proposito del demone socratico: «Una
chiave per comprendere la natura di Socrate ci viene offerta da quel
meraviglioso fenomeno che viene designato come "demone di Socrate".
In particolari situazioni in cui il suo portentoso intelletto vacillava, egli
ritrovava l'equilibrio in virtù di una voce divina, che si faceva udire in tali
momenti. Questa voce, quando viene, dissuade sempre. La saggezza istintiva si
mostra in questa natura interamente abnorme soltanto per contrastare qua e là,
ostacolandolo, il conoscere cosciente. Mentre in tutti gli uomini produttivi
l'istinto è proprio la forza creativo-affermativa, e la coscienza si rivela
critica e dissuadente, in Socrate l'istinto diventa critico, la coscienza si
trasforma in creatrice - una vera mostruosità per defectum!" [Nietzsche,
La Nascita della Tragedia; in Opere 1870/1881, Roma, Newton, 1993, pag. 153].
L'acrimonia con cui Nietzsche offende e offenderà Socrate è la stessa con cui M.
affronterà Aristotele; se il motivo propulsore di questa acrimonia è,
praticamente, identico (la critica alla pretesa del sapere, nella fattispecie
quello teoretico-scientifico-tecnico), i differenti bersagli critici sono - a
nostro parere - non solo mera testimonianza di una dissimile "inclinazione
di gusto" dei nostri due autori, ma tradiscono - e profondamente - anche
la diversità delle alternative possibili e plausibili ch'essi propongono alla
decadenza (l'oltre-uomo e il persuaso), come vedremo in seguito. 34 G, Bastide,
Le moment historique de Socrate, Parigi 1939, pag. 236; riferimento contenuto
in J . Brun, Socrate, Milano, Xenia 1995, pag. 71 35 Ma si tenga anche
presente, anzi soprattutto presente, l'istruttivo capitolo IX [La dimensione
del religioso in Socrate] del lavoro di G. Reale, Socrate. Alla scoperta della
sapienza umana, Milano, BUR 2001, pagg. 265-294, capitolo sottinteso al nostro
discorso. 36 E' ovviamente Socrate che parla. vantaggio sicuro e duraturo,
molti, al contrario, fin tanto che stanno con me, progrediscono in modo
soddisfacente, ma, una volta lontani, ridiventano come tutti gli altri»
[corsivi nostri]. Orbene, crediamo che, in questo passo esemplare, sia
contenuta una chiara parafrasi delle differenti e possibili modalità di
relazione che il Persuaso intrattiene con gli altri uomini: M.
"aggiorna" il topos affermando, in modo pregnante, che «ognuno deve
trovarsi la via da sé - e da sé batterla passo per passo - ché non ci sono né
carte né mezzi di trasporto; chi non sente di doverla, di saperla, di volerla
fare, non è buono a farla e invano spera l'aiuto altrui, invano altri vorrebbe
aiutarlo - la può batter colui che già è sano - e la salute è un dono di Dio.
-»° [D 93-94; corsivi nostri], che fa da eco a quella, più famosa, contenuta
nella tesi di laurea: «La via della persuasione non è corsa da
"omnibus", non ha segni, indicazioni che si possano comunicare,
studiare, ripetere. Ma ognuno ha in sé il bisogno di trovarla e nel proprio
dolore l'indice, ognuno deve nuovamente aprirsi da sé la via, poiché ognuno è
solo e non può sperar aiuto che da sé: la via della persuasione non ha che
questa indicazione: non adattarti alla sufficienza di ciò che t'è dato. | pochi
che l'hanno percorsa con onestà, si sono poi ritrovati allo stesso punto, e a
chi li intende appaiono per diverse vie sulla stessa via luminosa. La via della
salute non si vede che con gli occhi sani» [PR 62-63; corsivi nostri]. Ora,
ritornando al passo socratico del Teagete, approntiamone un'utile
schematizzazione. Socrate distingue: a) individui a cui il demone è ostile, e
che non traggono vantaggio dalla compagnia con Socrate; b) individui «che la
potenza del demone assiste» [parafrasi quasi M.: «a salute è un dono di Dio»],
e che traggono vantaggio dalla compagnia con Socrate: b,) quelli - e son
soltanto alcuni - che «godono di un vantaggio sicuro e duraturo»; bə) quelli -
e sono invece molti - che [PR 169]?°.
Nel penultimo passo, del resto, affiora (anche) la differente posizione, sempre
nella prospettiva persuasa, che M. ha consapevolezza di occupare rispetto
all'amico: mentre lo Mreule - agli occhi del Goriziano - ha raggiunto la
Persuasione e vi permane, egli invece è ancora sulla difficile e tormentata via
che porta alla Persuasione stessa. La «consistenza» di Enrico è indipendente,
in senso assoluto, come indipendente e assoluto è il monito persuasivo del suo
esempio; al contrario, M. avverte la necessità - per la propria consistenza -
che il suo amico «ancora lo pensi e si curi di lui». E' più del bisogno di una
tangibile comunione fraterna, è più del desiderio di essere nei pensieri
dell'amico; è l'esigenza, bensì, di fondare la propria consistenza di uomo, di
legittimare - attraverso quasi il giudizio del demone-Enrico - la propria
aspirazione alla permanenza?*: 40 In base al nostro schema, è il rapporto
delineato in bi. 41 E «il coraggio non vuol la prudenza ma l'atto» [PR 63]. 42
Ma riguardo la dialettica lontananza-vicinanza, cfr. la parte finale del
presente capitolo. 43 Ma - edè significativo - è lo stesso M. a condannare in
modo risoluto - in alcuni passaggi fondamentale della sua tesi e del Dialogo -
questo illusorio "meccanismo di reciproca compiacenza": «[...]
ognuno, se racconta la sua «Quella voce che viene dalla libera vita [quella
voce che Enrico aveva accolta e fatta sua], quella m'era necessaria per fare il
mio lavoro [la tesi] come io lo volevo; m'ero illuso di poterla avere [...]>
[E 441]. Mentre Enrico ha affrontato il mare e «s'è conquistato il suo posto di
lotta e di lavoro» [E 435], M. si trova ancora impelagato nelle pastoie della
Rettorica, sociale familiare culturale accademica. Il Nostro non nasconde una
punta di benevola invidia, e di dispetto per quegli oneri (alibi facilmente
smontabile, tuttavia) che lo costringono alla falsa permanenza, al soggiorno
"forzato" in Gorizia, al soggiorno forzato nella vita retorica: «La
lettera di Rico [...] mi mise il fuoco addosso per quanto penso a noi, che,
invidiandolo, siamo impediti nel volerlo raggiungere dalle cose stesse che
c'impedirono di partir con lui [... > [E 436; corsivo nostro]. E' altresì
interessante notare come, invece, dalla prospettiva stavolta di Enrico
(testimoniata da C. Magris, nella bella e suo malgrado dissacrante biografia
romanzata che gli dedica‘*), le posizioni risultino addirittura ribaltate: se
Enrico «tanto per cominciare, è andato via per non fare il militare» [Magris
15], di contro - per lui - è M. ad essere «un santo» [ib. 83]; insieme con
Buddha (vedremo successivamente il rilievo di questa affermazione), che lo è
per l'Oriente, Carlo per Enrico è il «grande risvegliato» [ib. 94]: solo Carlo
può essere sicuro [ib. 45]. Non si tratta soltanto, qui, di una reciproca
attestazione di stima profonda e sincera; è una testimonianza - questa - che
tradisce il fatto che la delineazione dell' "essere persuasi" era
ancora in fieri, chiara ed evidente, certo, nella intima consapevolezza dei
due, ma ancora insufficientemente attingibile nella concretezza della vita
reale o anche della pura elaborazione concettuale. Riteniamo opportuno, allora,
soffermarci sul gesto assoluto di Enrico Mreule. Così, il 28 novembre 1909 - in
gran segreto, la famiglia completamente ignara di tutto - questa sorta di Neal
Cassady carsico, giovane, bello, geniale, disperato, "maledetto"* -
s'imbarcava a Trieste per l'Argentina, sulla Columbia; accanto a motivi di
ordine eminentemente "pratico", a spingerlo era la decisione di dare
una possibilità di nuovo inizio alla propria vita, di rescindere ogni legame
con la passata, di fondare - non solo con le parole, ma con i fatti - un
proprio mondo autonomo e libero, una propria «consistenza indipendente ».
Perché (avrebbe detto non molti anni dopo un altro giovane
"maledetto", Paul Nizan‘9) «a libertà è un potere reale». Si trattava
di mettere in pratica, di esercitare vita sciagurata e i fatti dolorosi di cui
porta la colpa e le conseguenze, trova nella compiacenza dei compagni integra
almeno l'illusione della sua individualità. -», «[...] la dolce illusione
d'esser qualcuno»; in questo meccanismo, gli uomini retorici «considerano i
loro simili come specchi compiacenti, - che raddoppino la vita. Ma il nulla che
non si raddoppia...» [D 55-56] 44 C. Magris, Un altro mare, Garzanti, 1998. 45
Cfr. la diapositiva B [Ritratto di Enrico Mreule (2)] nel supporto iconografico.
46 Paul Nizan: Aden Arabia (con saggio-prefa zione di J.P. Sartre), Mondadori,
1996. Sarebbe suggestivo mettere a confronto gli esiti, nonché le motivazioni e
le "ideologie" sottese alla "compulsione del viaggio" che
spinse questi due questo potere. Dunque, un gesto improvviso, ma non
improvvisato, evidentemente; azzardato, se vogliamo, ma non gratuito; frutto
concreto di una decisa e persuasa visione del mondo e della propria esistenza;
risultato coerente, ancora, dei discorsi e degli "ammaestramenti",
riguardo le proprie convinzioni, che il giovane Mreule elargiva ai suoi
altrettanto giovani amici. Un gesto che acquista ancor più valore, e lo stesso M.
ne è consapevole, di fronte al puro astratto gesto di ribellione e di fuga (se
non "fisica", almeno intellettuale) che il Goriziano insieme persegue
e, sotto sotto, paventa. L'inquietudine (complicata dalla giovane età),
l'infelicità, derivante dall'intuizione amara dell'impasse retorica, è la
stessa; ma Enrico è riuscito a rimettere in gioco se stesso e la propria
esistenza, è riuscito a passare dalla mera rivendicazione verbale all'atto,
dalla potenza all'entelechia. In Enrico Mreule, la parola persuasa - come
risuonava nei discorsi (nei simposi) "in soffitta" dei tre giovani -
si è tradotta, senza tradirsi, in attualità pura, assoluta, permanente, eterna;
la parola si è fatta carne e sangue, si è esposta al rischio
dell'imprevedibilità, alla possibilità aperta e pericolosa che ogni scelta
autentica implica e prepara. Alla stregua di Cristo, Enrico è il Verbo (della
Persuasione) Incarnato. E' in lui, cioè, che la Persuasione scende dal
piedistallo dell'astrattezza, dell'utopia, dell'atopia, della letterarietà e
del passato, per farsi vivo, concreto, persuaso presente. Perché la «salute»
non è soltanto un'idea, la sua sede non è l'iperuranio separato dal mondo della
vita sublunare: la salute - ancora "sostanza seconda" nelle stesse
pagine che M. le dedica nel lavoro accademico - assurge a "sostanza
prima" - e quindi veramente reale - nel synolon dell'essere persuaso, che
è Enrico. Un esempio, quello dell'amico, infine, che disattende e confuta, come
detto, quelle affermazioni, frequenti ancora nella tesi, per le quali la
Persuasione era attestata come una possibilità... impossibile: lo Mreule è
l'esempio vivente, così, che la Persuasione non è un luogo ideale, inattuale ed
inattuabile; che non è una mera idea regolativa nella prospettiva non solo
etica, ma ontologica; che non è un "mito", (soltanto) una stella
polare che indichi e guidi il nostro cammino; che non appartiene, ancora,
soltanto ad eletti del mondo delle arti e del passato filosofico, letterario ed
artistico; che non è, infine, una condizione edenica, improponibile nel mondo
della Rettorica. Al contrario, nello Mreule, la Persuasione irrompe come l'eternità
nel tempo, squarcia la verbosità delle concettualizzazioni, lega il passato e
il futuro nella decisione (nella scelta) dell'eterno presente, si indica come
possibilità sempre aperta - per quanto latente - all'uomo, ad ogni uomo che
mostri il coraggio di accoglierla e di farla sua. giovani intellettuali -
Mreule e Nizan (divisi da poco più di un ventennio) - a cercare in un lontano
altrove scampo alla congerie rettorica. 47 La famosa soffitta del P aternolli,
di cui abbiamo anche un bozzetto autografato di M.. Scrive M. ad Enrico: «Col
tuo atto e con questo fatto già in parte avvenuto, quasi con argomenti
sopportando solo la mole degli argomenti teorici, coi quali tu nelle nostre
conversazioni ci aprivi la via alla giusta valutazione delle cose, hai compiuto
per noi l'unico beneficio che si possa fare da un amico agli amici» [E 421]; e
ancor più esplicitamente «[...] come le tue parole si son fatte azione! lo mi
nutro invece ancora di parole e mi faccio vergogna» [E 442; il corsivo è dello
stesso M., a sottolineare l'importanza dell'espressione]; fino a rendere
testimonianza e omaggio al vero persuaso Enrico, nella bellissima lettera
datata 29 giugno 1910: Ti vedo sempre cosi come t'ho visto l'ultima volta a
Trieste, determinato in tutte le tue possibilità, vivo così, che nessuna cosa
della vita, mi sembra, possa trovarti insufficiente, ma che anzi tutta
attraverso tutti i perigli debba volgersi a te spontaneamente. Perché tu non
chiedi niente. E come non t'accorgi del tempo perché nell'atto in ogni attimo
sei intero, così in ogni tua parola si ha l'imagine [sic] concreta della tua
vita [E 440; i corsivi sono nostri] In questo denso passo, affidato
significativamente ad una lettera (e dunque ad un testo privato), tuttavia la
Persuasione trova una delle sue espressioni più limpide e convincenti, in
assoluto. Visto il particolare andamento di questo capitolo, e alla luce di
quanto detto finora, riteniamo opportuno analizzare il succitato brano
abbastanza a fondo, allo scopo di rintracciare alcuni notevoli punti fermi che
ci consentano di anticipare, per maggiore chiarezza di visione, importanti
conclusioni riguardo l'idea che ci siam fatti dell' "essere
persuasi". Innanzitutto, ancora una volta ribadiamo questa considerazione:
Enrico Mreule è exemplum storico della salute: egli è «determinato in tutte le
[sue] possibilità». Soffermiamoci sull'attributo "determinato" e sul
sostantivo "possibilità", entrambi pregni di straordinarie
significanze etico-filosofiche. Qui, "possibilità" - a differenza di
quanto tanto "esistenzialismo negativo" ci ha insegnato (da
Kierkegaard, ad Heidegger a Jaspers a Sartre) - ha una forte valenza positiva:
se per i suddetti la possibilità esistenziale si risolve, in fondo (chi in più,
chi in meno), in impossibilità, nello scacco di quell'«essere che progetta di
essere Dio», nell'improponibilità della scelta esistenziale ed autentica, che
determina angoscia e disperazione; in M. sta ad indicare, invece, il
dispiegarsi delle energie vigorose e positive, originarie ed originali,
autentiche ed incorrotte dell'uomo stesso. Qui, piuttosto, il termine e il
comprensivo "possibilità" trova il suo affine nella "potenzialità",
nella già richiamata dynamis, in tutta la sua portata di «preformazione e
predeterminazione [rispetto all'atto]», «modo d'essere diminuito o preparatorio
all'atto »*°: la possibilità esistenziale autentica trova il suo telos
nell'entelechia etica. Le parole di Enrico si son fatte azione, la sua dynamis
appunto si è dispiegata e realizzata, giungendo alla sua "perfezione".
Non può non emergere la forte componente 48 Ovviamente utilizziamo come
sinonimi Persuasione e Salute, sentendoci autorizzati a tale uso dall'uso
stesso che ne fa M..dinamica che permea tale condizione esistenziale. Difatti,
l' "essere persuaso" non è un monòlito, per quanto il suo sia un
permanere nella Persuasione; ma il permanere - dice Michelstedter - non è uno
stare: «non c'è sosta per chi porta un peso su un'erta, ma quando lo deponga
dovrà andarlo a riprender sotto ove sarà ripiombato: ogni sosta è una perdita;
tanto sosti e tanta strada devi rifare» [PR 35; corsivo nostro]. E poco più
avanti, raccoglie e ripropone il monito contenuto nell'E/ettra di Sofocle
(monito che, a nostro parere, è l'elemento veramente drammatico della tragedia
sofoclea e della vita stessa del Goriziano): «non è più il caso di indugiare,
ma di agire» [ib.; in greco nel testo]. Ancora più avanti, le parole di M. in
proposito si fanno adamantine, raccogliendo le estreme conseguenze di quanto
finora affermato: «il diritto di vivere non si paga con un lavoro finito, ma
con un'infinita attività» [PR 41; corsivo nostro]. E' svelato, così, l'alone
misterioso che avvolge la premessa del giovane studioso: «Nell'eBroc BoA
potenza e l'atto sono la stessa cosa!, poiché l'Atto trascendente, "l'eternità
raccolta e intera", la persuasione, nega il tempo e la volontà in ogni
tempo deficiente» [PR 12]. Come per quest'altro capoverso, che è forse la
"definizione" più completa - presente nella tesi -dell'essere
persuaso, pur nella sua sinteticità: «Colui che è per sé stesso (ever) non ha
bisogno d'altra cosa che sia per lui (evot «vtov) nel futuro, ma possiede tutto
in sé» [PR 9]. La determinazione che il vir mostra nella gestione delle proprie
possibilità è - insieme, dunque - risolutezza e consapevolezza. Il vir è
"risoluto", sciolto (come c'insegna l'etimologia) dai lacci della
Rettorica, e in questo è veramente libero e assoluto; è altresì consapevole
delle sue potenzialità volte alla realizzazione della vita vera. Per gli
Stoici, la chiusura della mano nel pugno rappresentava la
"comprensione": immagine felice: il virha in pugno tutte le proprie
possibilità e comprende la possibilità di dispiegarle in modo pieno e compiuto.
Nel punto appena successivo del passo che stiamo esaminando («[...]nessuna cosa
della vita, mi sembra, possa trovarti insufficiente, ma che anzi tutta
attraverso tutti i perigli debba volgersi a te spontaneamente [... ]}»), M.
ritorna su uno dei fulcri inossidabili della sua posizione
teoretica-etica-ontologica, cui abbiamo già accennato: l'insufficienza; c'è da
rilevare, qui, il ribaltamento, anzi la vera e propria "rivoluzione
copernicana" che viene ad operarsi tra il 49 cfr. Aristotele, Metafisica,
X, 8, 1049 b4 50 Vita che non è vita. Tuttavia, come chiosa puntualmente
Campailla, «non nel senso in genere dispregiativo che è proprio dell'aggettivo
greco, ma in quello di "vita che è fuori della vita", "vita
impossibile": la vita, insomma, della Persuasione», 51 Qui, M. sembra
parafrasare proprio Aristotele. Troviamo, altresì, molto interessante notare
l'analogia, sotto questo punto di vista, tra il Persuaso e il dio (sparse nel
capitolo specifico sulla Persuasione, nel lavoro accademico), che nella
fattispecie - a nostro parere - corrisponde al dio aristotelico, così come
tratteggiato nei libri VIII e XII della Metafisica (un'opera che Carlo tenne
sicuramente presente, oggetto di studio e di riflessione continui): il dio di
Aristotele non ha in sé nulla in potenza, è Atto e Forma puri, è un essere
perfetto, il quale non manca di nulla, non ha nulla da realizzare (se possiamo
esprimerci così), e in esso tutto è pienamente attuato; da qui, la sua
"immobilità" e la sua eternità. Esso - proprio come il Persuaso - non
protende verso alcunché, avendo già in se stesso la sua completezza e la sua
perfezione. Questo dio è in pace con se stesso. vir e il mondo delle cose:
nessuna «cosa della vita» trova insufficiente il vir, perché egli «non chiede
niente », perché ha sciolto i lacci della dipendenza. L' "autarchia"
dell'essere persuaso è diretta espressione e conseguenza della sua
consapevolezza: egli non chiede niente perché è consapevole che la vita, che la
Rettorica niente può veramente dargli, e che ogni elargizione che dal mondo
retorico proviene è, parimenti, ottriata, falsa, illusoria, inadeguata. Questa
posizione, in tutta la sua profondità, è limpida nella coscienza di M.: «Ma chi
vuole la vita veramente, rifiuta di vivere in rapporto a quelle cose che fanno
la vana gioia e il vano dolore degli altri - e non accontentandosi d'alcun
possesso illusorio chiede il vero possesso, così che in lui prende forma e si
rivela il muto e oscuro dolorare di tutte le cose» [O 705]; «[...] se c'è via
che possa in qualche modo liberarci dalla nebbia, è quella che insegna a non
chiedere ciò che non può esser dato» [D 73]; «...]- non c'è niente da
aspettare, niente da temere - né dagli uomini né dalle cose. Questa è la via. -
» [D 81, ribadito pari pari in D 85; corsivo di M.] et similia. L'autarchia del
vir non è tuttavia l'egoistico ripiegamento su se stesso dell'Unico di
Stirner”, frutto della disperazione del nulla che si dispiega in violenta
autoaffermazione di dominio solipsitico; essa è piuttosto - se vogliamo - affine?
(ma con i dovuti distinguo) all'ideale del saggio stoico, affine quantomeno
nella matrice etica che presuppone e prepara quell'esito: ovvero,
l'accettazione del dolore e della morte e l'indifferenza rispetto ai più comuni
beni della vita (salute, ricchezza, bellezza...) e ai loro contrari”*. Secondo
gli Stoici, "vivere secondo natura" significa, da un lato, mantenersi
in accordo con gli eventi, accettandone il carattere di necessità-provvidenza;
dall'altro, favorire la propria natura realizzando e conservando il proprio
essere razionale. Orbene, detergendo tale prospettiva dalle connotazioni di
necessità, provvidenza e razionalità (o almeno non ritenendole esclusive), essa
viene a convergere proprio con la dimensione persuasa del vir. Di poi, il
"bastare a se stesso" non si risolve in una posizione ascetica (come
da 52 «il triste filosofo dell'anarchia», lo definisce M.. 53 Un'affinità cui
ci autorizza lo stesso M.; cfr. Dialogo tra Napoleone e Diogene, in D 101-110.
54 «Poiché in quanto virtus essa è disposizione a una cosa (possibilità), in
quanto tua virtus è bisogno di questa cosa (anche in rapplorto] alle virtutes
negative degli stoici che sono neglative] inrigluardo] ai bisogni ma positive
riguardo alla vita, cioè esser felici senza quei bisogni: gli stoici avevano
d'accorgersi che esistevano anche senza quei bisogni, essi esistevano e
cred[evano] d'essere solo in quanto negavano l'una cosa e l'altra e affermavano
così in rapporto a queste cose della vita la loro individualità. Dunque gli
Stoici hanno possibilità di vivere senza bisogni ma bisogno di viver come tali.
- Si ergo virtus se ipsa contenta est - homo virtuosus plane adnihilatus est...
in quanto tua virtus - è bisogno d'esplicarla, di viverla nel tempo, tutta. E
come l'esplicarla non è mai in un punto, così tu non puoi possederti in nessun
punto» [ib. 107; è Diogene che parla a Napoleone; i corsivi sono di M.].
Invitiamo a leggere questo passo anche alla luce di quanto detto sulla dinamica
potenza-atto nell'ottica persuasa. 55 La virtù stoica, ancora, così come la
Persuasione è tale da non ammettere gradi intermedi (essa è o non è), come
descrive efficacemente Cicerone: «Come infatti chi è sommerso nell'acqua,
sebbene poco distante dalla superficie, sì da poterne quasi emergere, non può
respirare affatto più che se fosse nella profondità [...] così chi si sia
avanzato alquanto verso l'abito della virtù non è affatto meno in miseria di
chi non vi si sia avanzato per nulla» [De finibus, III, 48]. L'ideale di saggio
stoico, quindi, anche qui si mostra come valido strumento euristico per
indagare il carattere peculiare della Persuasione: ma, come visto, le
differenze sono importanti almeno quanto le somiglianze. In effetti, il
tentativo chetaluni è stato rimproverato); tutt'altro: il vir non si allontana
sdegnosamente dal mondo, ma si fonda il mondo: l'entelechia etica è un atto di
fondazione, è la possibilità di un nuovo, autentico inizio, e in ciò consiste
la sua vera libertà. Libertà, dunque, che non è solo apatheia, non è solo
"libertà da", ma anche soprattutto "libertà di": libertà di
permanere nell'esistenza persuasa e di fondare il mondo della propria
autenticità: il vir «deve creare sé e il mondo, che prima di lui non esiste »
[PR 34]. Ci piace, allora, richiamare le parole del già citato Paul Nizan, che
descrive in modo prezioso e vibrante tale condizione: «La libertà è un potere
reale e una reale volontà di essere se stessi: è capacità di costruire,
inventare, agire, soddisfare tutte le possibilità umane il cui dispendio dà
gioia» [Nizan 82] (vedremo tra non molto questo peculiare legame tra attività e
gioia, che ritorna anche nel Goriziano). Poco più avanti, è lo stesso scrittore
francese che segna con nitidezza e con un certo sdegno i distinguo tra questa
reale libertà e saggezza da quella dei saggi "stoici"; la libertà che
egli auspica e pretende non è quella dei «...] saggi che paralizzano a una a
una le parti dell'umanità e chiamano saggezza questa mutilazione. E' certo il
tempo di non essere più stoici, non avrete più un cielo dove recuperare
iltempo» [ib. 83]. Nel concludere questo paragrafo, proponiamo un lungo brano,
tratto dal romanzo / cosacchi, di un (allora; siamo nel 1863-64) giovane autore
russo, Lev N. Tolstoj, un autore che il nostro M. amò a dismisura, traendone
profitto e sostanza morale. Questo romanzo è, indubbiamente, un'opera
giovanile, eppure - pur nell'acerbità a suo modo perfetta - già contiene in
nuce lo slancio etico-esistenziale appassionato, ed i motivi ad esso connessi,
che informeranno tutta l'opera del grande scrittore, e che confluiranno nella
speculazione del Goriziano, assorbiti in modo originale, ma fedele. Il brano
che proponiamo è cruciale sia nell'economia del romanzo, sia nella vita del suo
protagonista, il giovane nobile Olenin, il quale - pieno di entusiasmo e
spinto, da un'oscura sensazione di estraneità al mondo a cui appartiene per
nascita, alla ricerca della felicità [Olenin- M.-Mreule] - intraprende un lungo
viaggio che da Mosca lo porta in un lontano villaggio del Caucaso (inutile dire
che ogni tentativo di Olenin di adattarsi alla nuova realtà, soprattutto per
quanto riguarda i "rapporti umani", sarà destinato allo scacco).
Ebbene, questo brano contiene - in modo davvero disarmante, a nostro parere -
parecchi punti di contatto (non solo "ideologico", ma addirittura
espressivo) con talune pagine M.iane; esso, inoltre, riassume in maniera
opportuna tutto il discorso da noi fin qui tenuto e, in maniera altrettanto
opportuna, soprattutto nell'interrogativo che lo conclude, ci offre il destro
per proseguire questo nostro difficile cammino ermeneutico. stiamo facendo - e
in questo campo è giocoforza procedere per tentativi - è quello di setacciare
il concetto di Persuasione: circoscriverlo, per quanto possibile, per meglio
individuarne vigore e valore. «Egli [Olenin] si sentiva fresco e a suo agio;
non pensava a nulla, non desiderava nulla. E a un tratto fu assalito da un così
strano senso di felicità senza motivo e di amore per ogni cosa che, seguendo
una vecchia abitudine infantile, si mise a farsi il segno della croce e a
ringraziare non so chi. Gli venne a un tratto in mente con particolare chiarezza
che lui, Dmitri Olenin, un essere così diverso da tutti gli altri, se ne stava
ora disteso solo, Dio sa dove, in un luogo dove viveva un cervo, un vecchio
cervo e bello, che forse non aveva mai visto un uomo, e in un posto dove nessun
uomo mai s'era posto a sedere, né aveva avuto quel suo pensiero. "Sono
seduto, e attorno a me stanno degli alberi giovani e vecchi, uno di essi è
tutto avvolto dai tralci della vite selvatica; vicino a me brulicano i fagiani,
inseguendosi l'un l'altro, e fiutano forse i loro fratelli uccisi". Egli
tastò i suoi fagiani, li esaminò e asciugò la mano lorda di sangue ancor
tiepido nella sopravveste circassa. Forse li fiutano anche gli sciacalli e coi
musi scontenti vanno a cacciarsi altrove; vicino a me, volando tra le foglie,
che sembrano loro isole immense, stanno nell'aria e ronzano le zanzare: una,
due, tre, quattro, cento, mille, un milione di zanzare, e tutte ronzano attorno
a me per qualche ragione e dicono qualche cosa, e ciascuna di esse è un Dmitri
Olenin, distinto da tutti gli altri come sono io stesso". E s'immaginò
chiaramente quello che pensano e dicono ronzando le zanzare. "Qui, qui,
ragazzi! Ecco chi si può mangiare", dicono ronzando e lo ricoprono tutto.
E gli si fece evidente che egli non era punto un nobile russo, un membro della
società moscovita, amico e parente del tale e del tal altro, ma semplicemente
una zanzara, o un fagiano o un cervo, come quelli che ora vivevano attorno a
lui. "Come loro e come zio J eroska, vivrò e morirò. Egli dice la verità:
soltanto l'erba mi crescerà sopra". "Ma che importa se l'erba mi
crescerà sopra?", continuava a pensare, bisogna tuttavia vivere, bisogna
essere felici; perché io una cosa sola desidero: la felicità. Qualunque cosa io
sia: una bestia come tutte, sulla quale crescerà poi l'erba, e niente più, o
una cornice in cui si è inserita una particella dell'unica Divinità, è pur
tuttavia necessario vivere nel modo migliore. Ma come dunque bisogna vivere per
essere felice, e perché prima non ero felice?", E prese a ricordare la sua
vita passata; e gli venne schifo di se stesso. Apparve a se medesimo come un
esigente egoista, mentre, in realtà, per sé non aveva bisogno di nulla. E
continuava a guardare attorno a sé: la verzura trasparente, il sole che
declinava e il cielo sereno, e si sentiva felice come dianzi. "Perché sono
felice e a che scopo vivevo prima?", pensò. Quanto ero esigente, quante
cose escogitavo, e non mi son procurato altro che vergogna e dolore! Ed ecco
che non ho bisogno di nulla per essere felice!" E a un tratto gli parve
che gli si fosse dischiuso un nuovo mondo. "La felicità, ecco quello che
è", disse a se stesso: la felicità consiste nel vivere per gli altri. E
questo è chiaro. Nell'uomo è stato posto il bisogno della felicità; esso quindi
è legittimo. Appagandolo in modo egoistico, cioè cercando per sé la ricchezza,
la gloria, le comodità della vita, l'amore, può accadere che le circostanze si
combinino in modo che appagare questi desideri sia impossibile. Di conseguenza,
questi desideri sono illegittimi, ma non è illegittimo il bisogno di felicità.
Quali desideri però possono essere sempre appagati indipendentemente dalle
circostanze esteriori? Quali? L'amore, l'abnegazione!". E tanto fu
contento e tanto si agitò, scoprendo questa verità, che a lui pareva nuova, che
balzò in piedi e si mise con impazienza a cercare per chi potesse al più presto
sacrificarsi, a chi far del bene, chi amare. "A me infatti non occorre
nulla", seguitava a pensare, "perché dunque non viver per gli altri?
"»5°. 56 Tolstoj, | cosacchi (a cura di G. Faccioli), BUR, 1952, pagg.
98-99-100. 3. Il porto della pace. Essendo [Gesù] poi salito su una barca, i
suoi discepoli lo seguirono. Ed ecco scatenarsi nel mare una tempesta così
violenta che la barca era ricoperta dalle onde; ed egli dormiva. Allora,
accostatisi a lui, lo svegliarono dicendo: "Salvaci, Signore, siamo
perduti!". Ed egli disse loro: «Perché avete paura, uomini di poca fede?».
Quindi levatosi, sgridò i venti e il mare e si fece una grande bonaccia. |
presenti furono presi da stupore e dicevano: "Chi è mai costui al quale i
venti e il mare obbediscono? ". Questo passo è tratto dal Vangelo secondo
Matteo”, Vangelo - questo in particolare, tra i quattro - che dovette colpire
particolarmente M.®, per la forza e la nitidezza - e insomma per la
"fisicità"°° - etiche e storiche, con le quali viene delineata la
figura del 57 Si tratta di Mt. 8, 23-27; ma cfr. anche Mc 4, 35-41 e Lc 8,
22-25. 58 In una lettera del maggio 1909 alla sorella Paula: «Se sapessi
scriver note e se tu le comprendessi ti scriverei il tema dell'andante della IX
sinfonia; sarebbe più eloquente di me per dire quello che voglio dire; oppure -
non ridere! - leggi il Vangelo di S. Matteo», [E 383]. Del resto, pochi giorni
dopo, in una lettera allo Mreule, M. confessa che «in questo tempo, invece di
far la tesi ho imparato a conoscer Cristo e Beethoven - e le altre cose mi si
sono impallidite» [E 398; corsivo nostro]; nella lettura del Vangelo, egli «ci
trova con gioia la grandezza e la profondità che si aspettava - tanto superiore
alle filosofie e alla scienza moderne» [adattato da E 381] 59 Il Cristo di M.
possiede connotati straordinariamente umani: è questo, infatti, «un Cristo
monofisita che possiede soltanto la natura umana [...]. Un Cristo monofisita e
pelagiano, che non conosce pertanto il peccato originale e il mistero del
Riscatto e vive in un cosmo tragico senza possibilità finali di composizione»
[cfr. S. Campailla, Carlo M. tra esistenzialismo ateo e esistenzialismo
religioso, "Iniziativa Isontina", gennaio-aprile 1974, 60, Pag. 23].
E anche interessante notare come proprio il Cristo di S. Matteo abbia
influenzato (ma sarebbe meglio dire: inquietato) sensibilità che poco o nulla
hanno a che fare col cattolicesimo: ci riferiamo, tra gli altri, oltre che a M.,
a Tolstoj [per cui vd. oltre], (perché no?) a Nietzsche, nonché a Pasolini, che
proprio sulla falsariga del Vangelo di Matteo scrisse una delle sue
sceneggiature più belle ed importanti, da cui ricavò un film. Vale la pena
riportare uno stralcio di una giovanile poesia pasoliniana - La domenica uliva
- dove lo scrittore-regista, tormentato come sempre, liricizza questo suo
particolare rapporto col Cristo: «Piove un fuoco scuro nel mio petto: non è
sole e non è luce. Giorni dolci è chiari volano via, io sono di carne, carne di
fanciullo. Se piove un fuoco scuro nel mio petto, Cristo mi chiama, ma senza
luce» [lirica contenuta in Pasolini, II Vangelo secondo Matteo - Edipo Re -
Medea, a cura di M. Morandini, Garzanti 19982, pagg. 280-286]. Sempre per
meglio rifinire la suggestione cristologica in M., riteniamo opportuno
riportare anche questa critica, ma attenta, esatta valutazione di Dilthey, che
ben ci sembra enucleare la forza dirompente che scaturisce dalla figura etica del
Cristo di san Matteo: «Indubbiamente i logia contenuti nel vangelo di Matteo
sono quanto di più originario ci è pervenuto di Cristo, e contengono solo una
potente e illimitata profonda coscienza etica, in cui il mondo trascendente si
riflette, per così dire, come le stelle in un fiume. Il nucleo di questa
coscienza costituisce il vero e proprio legame del sentimento etico attivo
della vita, cioè della dottrina del regno di Dio, con il riconoscimento che
nella connessione di questa vita dolore, bassezza, sacrificio producono tanto
la perfezione quanto l'elevazione del Sé nello spiegamento della forza» [W.
Dilthey, Sistema di etica, a cura di G. Ciriello, Napoli, Guida editori, 1993,
pag. 126; corsivi nostri]. E' altrettanto interessante quanto il filosofo
tedesco aveva affermato poco prima, ascrivendo a Ibsen e Tolstoj (tra gli
altri) un tentativo «antiquato» [ib. pag. 122] di riferirsi al messaggio
cristiano, contribuendo - col loro «individualismo» [ib.], o anzi «animalismo»
[ib. pag. 121] - all' «inefficacia» [ib. pag. 122] contemporanea del
cristianesimo. Questo, in effetti, secondo Dilthey, «agisce su singole anime
semplici, che oppongono la loro esperienza interna alla tendenza della scienza
moderna. Non vi è ancora nessuno che abbia compreso la verità cristiana in
maniera così nuova e profonda, da permettere che essa possa determinare
seriamente l'epoca. Anche in questo campo vi sono soltanto tentativi e inizi»
[ib.; corsivi nostri]. Questo giudizio, equilibrato e corretto, per quanto
polemico, copre di riflesso anche M., se è vero che il Goriziano privilegiò
proprio Ibsen e Tolstoj come epifanie concrete di persuasione. Tuttavia, M. ci
sembra comprendere e approfondire (e cercheremo di dimostrarlo nel corso del
nostro lavoro) in «maniera nuova e profonda» il monito persuaso di Cristo e
arrovellarsi nel tentativo di valorizzarlo come un'euristica etica atta a
«determinare seriamente l'epoca» in cui visse. Certo, anche l'impresa M.iana
appartiene alla congerie dei «tentativi ed inizi», e la sua ricerca esistenziale
conobbe una cocente sconfitta. E' altrettanto vero, però, che Carlo Cristo, uno
dei Persuasi della storia dell'umanità, anzi - per il Goriziano - il Persuaso
per eccellenza. Ciò che ci colpisce del passo evangelico è innanzitutto
l'efficacissimo contrasto tra l'infuriare della tempesta e la serenità (la
"pace") del Cristo: mentre la barca è pericolosamente sballottata
dalle onde, rischiando di ribaltarsi, Gesù dorme. In mezzo alla tempesta,
Cristo è nel porto della pace, ha in sé (è) il porto della pace. Quella
serenità non Gli proviene dalla Verità di essere Figlio di Dio, per il qual
motivo niente di questo nostro mondo potrà toccarLo o nuocerGli; non Gli
proviene da un'indifferenza per le cose terrene (parlando del Cristo, sarebbe
davvero un controsenso); Gli proviene, bensì, dalla consapevolezza di avere un
destino da compiere (il sacrificio sulla Croce) e che nulla può impedire il
compiersi di questo destino. E' la pura consapevolezza dell'essere persuasi,
che permette di conquistare quel "porto", quella «permanenza in un
punto», anche nella furia del mare (il miracolo che ne succederà, l'aver
calmato le acque e i venti, appare davvero accessorio, rispetto a quel riposo).
L'infuriare della tempesta, di contro, si riflette nel baratro di paura che
infuria nell'intimo dei discepoli che L'hanno accompagnato, e il loro tormento
è un ulteriore, efficace scarto contraddittorio se paragonato al riposo di
Gesù. Gesù li aveva invitati a passare all'altra riva®, all' "oltre"
della riva, ad «imbarcarsi sul mare di questo mondo »5': l'invito era piaciuto,
ma tra l'invito e la meta c'era un tragitto; la folla lasciata sulla riva non
restò rassegnata a veder partire la brigata: si inoltrò nel mare, turbò le
onde, agitò una tempesta mortale, e Gesù - quello stesso nocchiero che,
rivolgendo loro l'invito aveva messo loro in cuore il desiderio di partire -
salito con essi sulla barca si addormenta, ed essi sembriamo davvero
abbandonati. Uno sconforto pesa sul cuore dei discepoli e forse il pentimento
di essersi incautamente affidati a uno che non li soccorrerà nel bisogno, ad
uno che non garantirà loro la sicurezza. Allora, quando tutte le risorse
dell'arte e tutte le speranze sembrano crollare di fronte alle minacce della
tempesta, quando l'uomo dispera di sé stesso, non fidando più delle sue forze
mortali, allora comincia a chiedere, sperando, l'aiuto del Figlio di Dio e in
virtù di tale speranza egli sveglia imperiosamente il Signore che dorme: «Come,
Tu dormi? non Ti importa niente che moriamo ?». Non c'è giaculatoria più
efficace M. caldeggiò una «posizione del tutto nuova dell'etica», un'etica che
doveva «agire sui grandi problemi della società [per lui, della Rettorica] a
partire prevalentemente dai suoi principi», qual è appunto l'auspicio di
Dilthey [ib. 122]. Concludiamo questa importante noi - importante innanzitutto
perché contiene in nuce la valenza della "strategia persuasa", così
com'essa ci appare - con un inciso: non abbiamo fatto riferimento alla Vita di
Gesù di Hegel, perché essa ci sembra più che altro forgiata sulla lezione
evangelica giovannea, con tutte le profondissime, e sottintese, differenze che
questa diversa prospettiva comporta. 60 Mt, 8, 18; ma anche Lc 8, 22 e 9, 57-60
61 Invitiamo, altresì, a confrontare quest'apologo evangelico con l'
"esempio storico" dell'aerostato di Platone [PR 66-73]: entrambi
tentativi di allontanarsi dalla solida terra (l'uno attraverso il mare, l'altro
attraverso il cielo), ma con motivazioni, prospettive, significati, ma
soprattutto esiti diversi. di questa per scuotere Dio dal suo letargo e
comandargli di venire in nostro soccorso: abbiamo lasciato tutto e Ti abbiamo
seguito, Tu sei nostro padre, nostro amico e Maestro, non Ti importa nulla che
noi moriamo? Perché ci hai messo in mare e posti nella barca se i nostri piedi
stavano più sicuri piantati sulla solida riva? L'ammonimento che il Cristo -
una volta ridestatosi - rivolge ai suoi discepoli («Perché avete paura, uomini
di poca fede?»)?° riecheggia, spogliato ovviamente della sua componente
"religiosa", in tutta l'opera di M., rivolto agli uomini rettorici:
potremmo anzi dire che quell'opera rappresenta - nella sua interezza - il
tentativo sofferto, ma a suo modo compiuto, di offrire una risposta etica a
quella lacerante domanda. Il timore vanifica la Croce. Il monito ad aver fede -
e a dipanare quel timore - si traduce, nell'autore della Persuasione, nel
monito che «[...] non fai niente, non sai niente, non dici niente, fosse anche
la via dove credi di trovarti la via del più saggio uomo sulla terra. Che se a
lui t'affidi e lo incarichi di ciò che pesa a te, resti invalido sempre.
[corsivi nostri] Le sue parole in cui ti fingi un valore assoluto sono perte un
arbitrio che tanto ne comprendi quanto ne puoi prendere. - Non c'è cosa fatta,
non c'è via preparata, non c'è modo o lavoro finito pel quale tu possa giungere
alla vita, non ci sono parole che ti possano dare la vita: perché la vita è
proprio nel crear tutto da sé, nel non adattarsi a nessuna via: la lingua non
c'è ma devi crearla, devi crear il modo, devi crear ogni cosa: per aver tua la
tua vita» [PR 61]. Quella fede a cui Cristo richiama non è, dunque, per il
giovane filosofo, un invito a "credere in Lui", bensì piuttosto -
detto con espressione semplice - un invito ad "aver fede in noi",
nelle nostre possibilità, nelle nostre proprie responsabilità sulla via della
Persuasione. M. infatti prosegue, proprio in riferimento al Cristo e ai suoi
credenti: «- | primi Cristiani facevano il segno del pesce e si credevano
salvi; avessero fatto più pesci e sarebbero stati salvi davvero, ché in ciò
avrebbero riconosciuto che Cristo ha salvato sé stesso poiché dalla sua vita
mortale ha saputo creare il dio: l'individuo; ma che nessuno è salvato da lui
che non segua la sua vita: ma seguire non è imitare, mettersi col 62 E' ancora
interessante, a questo proposito (anche al fine d'individuare
assonanze-dissonanze con la nostra lettura), riportare le considerazioni
"tropologiche" di S. Agostino (contenute nel suo Commento al Vangelo
di San Giovanni) su questo stesso episodio [cfr. omelia 49]: «Lo dice
l'Apostolo: Per mezzo della fede, Cristo abita nei vostri cuori (Ef 3, 17). La
presenza di Cristo nel tuo cuore è legata alla fede che tu hai in lui. Questo è
il significato del fatto che egli dormiva nella barca: essendo i discepoli in
pericolo, ormai sul punto di naufragare, gli si avvicinarono e lo svegliarono.
Cristo si levò, comandò ai venti e ai flutti, e si fece gran bonaccia (cf. Mt
8, 24-26). E' quello che avviene dentro di te: mentre navighi, mentre
attraversi il mare tempestoso e pericoloso di questa vita, i venti penetrano
dentro di te; soffiano i venti, si levano i flutti e agitano la barca. Quali
venti? Hai ricevuto un insulto e ti sei adirato; l'insulto è il vento, l'ira è
il flutto; sei in pericolo perché stai per reagire, stai per rendere ingiuria
per ingiuria e la barca sta per naufragare. Sveglia Cristo che dorme, E' per
questo che sei agitato e stai per ricambiare male per male, perché Cristo nella
barca dorme. Il sonno di Cristo nel tuo cuore vuol dire il torpore della fede.
Se svegli Cristo, se cioè la ua fede si riscuote, che ti dice Cristo che si è
svegliato nel tuo cuore? Ti dice: lo mi son sentito dire indemoniato (Gv 7,
20), e ho pregato per loro. Il Signore ascolta e tace; il servo ascolta e si
indigna? Ma, tu vuoi farti giustizia. E che, mi son forse fatto giustizia io?
Quando la fede ti parla così, è come se si impartissero comandi ai venti e ai
flutti: e viene la calma. Risvegliare Cristo che dorme nella barca è, dunque,
scuotere la fede; allo stesso modo Cristo frema nel cuore dell'uomo oppresso da
una grande mole e abitudine di peccato, nel cuore dell'uomo che trasgredisce
anche il santo Vangelo; Cristo frema, cioè l'uomo rimproveri se stesso. Ascolta
ancora: Cristo ha pianto, l'uomo pianga se stesso. Per qual motivo infatti
Cristo ha pianto se non perché l'uomo impari a piangere? Per qual motivo
fremette e da se medesimo si turbò se non perché la fede dell'uomo, giustamente
scontento di se stesso, impari a fremere condannando le proprie cattive azioni,
affinché la forza della penitenza vinca l'abitudine al peccato?». proprio
qualunque valore nei modi nelle parole della via della persuasione, colla
speranza d'aver in quello la verità. Si duo idem faciunt non estidem» [PR
61-62]. La condizione inautentica, eteronoma e dunque non libera (come spiega M.
in un capoverso che sembra parafrasare proprio il senso del brano evangelico
proposto), è propria di coloro ai quali «fragili imbarcazioni in mezzo
all'uragano, la grande nave» appare ingannevolmente «come un porto sicuro» [PR
42], mentre di converso «[...] ognuno è il primo e l'ultimo, e non trova niente
che sia fatto prima di lui, né gli giova confidar che sarà fatto dopo di lui,
egli deve prender su di sé la responsabilità della sua vita, come l'abbia a
vivere per giungere alla vita, che su altri non può ricadere [questi ultimi due
corsivi sono nostri]; deve aver egli stesso in sé la sicurezza della sua vita,
che altri non gli può dare; deve creare sé ed il mondo, che prima di lui non
esiste: deve esser padrone e non schiavo nella sua casa» [PR 36]. La grande
nave. Non può non venire in mente un passo del Fedone [85 C-D-E] - divenuto
cruciale per i più attenti studiosi di Platone - in cui Simmia, uno degli
interlocutori privilegiati di Socrate nel dialogo, esprimendo le sue
perplessità a proposito di talune "dimostrazioni" socratiche
sull'immortalità e la reincarnazione delle anime, ci suggerisce un aut-aut che
è allo stesso tempo metodologico ed esistenziale: «attraversare con una zattera
[quella del ragionamento umano], a proprio rischio, il mare della vita» o «fare
il tragitto più sicuramente e meno pericolosamente su più solida barca, cioè
affidandosi a una divina rivelazione [logos theios}»®. Il dilemma - di cui
conosciamo la risposta socratica e, indirettamente, quella agostiniana - si
risolve in M., come abbiamo anticipato, in una posizione netta di autonomia del
vir, e ci rende conto anche della collocazione (estremamente personale ed
originale) che il giovane studioso assume nei confronti di quelli che pur sono
i principali riferimenti speculativi ed etici della sua formazione: Cristo e
Socrate si richiamano fin quasi a confondersi, superando barriere storiche e
religiose, nell'individuazione di un 63 Le espressioni che utilizza M.
richiamano ancora, ma in via negativa e in modo davvero singolare, analoghe
considerazioni che riscontriamo di nuovo in Agostino, sempre nel suo Commento
al Vangelo di Giovanni [cfr. omelia 2]: «[i discepoli, i.e. gli uomini] non
vollero aggrapparsi all'umiltà di Cristo, cioè a quella nave che poteva
condurli sicuri al porto intravisto. La croce apparve ai loro occhi spregevole.
Devi attraversare il mare e disprezzi la nave? Superba sapienza! Irridi al
Cristo crocifisso, ed è lui che hai visto da lontano: In principio era il
Verbo, e il Verbo era presso Dio. Ma perché è stato crocifisso? Perché ti era
necessario il legno della sua umiltà. Infatti ti eri gonfiato di superbia, ed
eri stato cacciato lontano dalla patria; la via era stata interrotta dai flutti
di questo secolo, e non c'è altro modo di compiere la traversata e raggiungere
la patria che nel lasciarti portare dal legno. Ingrato! Irridi a colui che è
venuto per riportarti di là. Egli stesso si è fatto via, una via attraverso il
mare. E' per questo che ha voluto camminare sul mare (cf. Mt 14, 25), per
mostrarti che la via è attraverso il mare. Ma tu, che non puoi camminare sul
mare come lui, lasciati trasportare da questo vascello, lasciati portare dal
legno: credi nel Crocifisso e potrai arrivare». 64 Da notare, ancora, il
ricorso ad una terminologia peculiarmente evangelica. Ci si perdonerà, tra
l'altro, la riproposizione fedele di interi passi del Goriziano; ci sentiamo,
tuttavia, autorizzati a far ciò dall'importanza che essi assumono nell'economia
del nostro discorso e dal fatto che essi stessi rappresentano, a nostro
giudizio, passaggi fondamentali (anche per la loro chiarezza, che non necessita
scolii, caso quasi raro nella scrittura di M.) nella
determinazione/enucleazione di quell'esigenza di autonomia che leggiamo come
cifra essenziale della Persuasione, e che ci offrirà l'aggancio per rivisitarla
sotto la prospettiva dell'etica kantiana, per una sinergia feconda di sviluppi.
65 Cfr. la diapositiva D [Barca] nel supporto iconografico.comune assunto
morale: /a forza autentica degli uomini come unica bussola nel paradossale
viaggio. Sullo sfondo, il mare. Dunque, il mare come luogo privilegiato del
vir. Ma perché proprio il mare? Qual è il senso di questa complessa simbologia
o presunta mitologia? Ed è davvero e soltanto una simbologia/mitologia atta a
rendere la condizione persuasa? Anticipiamo la nostra risposta negativa. Certo,
il topos del mare ha anche un fascino ed una suggestione prettamente letteraria
e filosofica. Non dimentichiamoci che le immagini del mare e dei flutti
ricorrono nelle opere di alcuni filosofi del primo e del secondo Ottocento, per
esprimere, metaforicamente, la natura reale, libera e vitale del mondo: con
tale immagine, questi filosofi segnalavano la propria opposizione alla
dimensione necessaria, ordinata e razionale, puramente teoretica del mondo
("il mare dell'essere") descritto da Hegel e richiamavano la
riflessione filosofica alla realtà concreta, alla possibilità, alla libertà. Di
contro, l'immagine del mare è una significativa costante che lega, ad esempio,
direttamente o indirettamente, molte delle "eroine fuggitive" del
teatro ibseniano (altra componente di ispirazione prima per i nostri giovani
intellettuali della "soffitta del Paternolli", come sappiamo)
nell'aspirazione ad una svolta autentica della propria vita: la Dina dei
Pilastri della società, la Nora di Casa di bambola, la Bolette della Donna del
mare, la Asta del Piccolo Eyolf, la Frida di John Gabriel Borkman. Una
particolare suggestione, a tal proposito, emana proprio il dramma La donna del
mare, uno dei capolavori ibseniani più ermetici e, a suo modo, inquietanti,
dove l'ambientazione prevalentemente in luogo aperto e il «luminoso lirismo»
[M.P. Muscarello]?” che caratterizza molte scene e molti dialoghi stride con la
complessa simbologia sottesa a tutta l'opera: quel contrasto vive soprattutto
nella figura combattuta (tanto per usare un eufemismo) di Ellida,
nell'enigmatica presenza-assenza dello "straniero del mare",
nell'attrazione paritempo magica e terribile di cui è causa il mare stesso.
Ellida soffre fino in fondo l'ambiguità di questo torbido rapporto
d'attrazione: da una parte si reca spesso, durante le sue giornate, a
contemplare quel mare e si bagna nelle sue acque quasi per ritemprare la
proprie forze vitali; dall'altra, avverte tutta la potenza e la forza
misteriosa ed ammaliatrice del suo richiamo, che si incarna nello Straniero e
nella promessa matrimoniale che, un giorno, li legò. Quel legame ha ancora, per
Ellida, nella sua vita tutta borghese, un sapore e una speranza di autenticità
e di vita: eppure, ella avverte una sua propria incompiutezza, una condizione
d'insofferente eteronomia in quel legame, che allo 66 L.A. Feuerbach - solo per
citare uno tra i tanti - nei suoi Principi della filosofia dell'avvenire definisce
l'uomo «come un ente reale, vivente, che, in quanto tale, è calato nelle onde
vivificanti e refrigeranti del gran mare del mondo». 67 Utet, Dizionario dei
Capolavori, 1987, vol. I, pag. 485. stesso tempo ne falsa la portata vitale:
ella non aveva potuto scegliere liberamente, neanche allora, come confessa
all'esterrefatto marito Wangler. Ellida, dunque, si propone una condizione di
assoluta autonomia di scelta: dev'essere libera da ogni vincolo sociale ed
affettivo, da ogni istigazione o subordinazione emotiva, per poter valutare con
neutralità (e quindi con giustizia) le alternative’: divenire finalmente
«sirena del mare» o «acclimatarsi»®° alla vita di terra. La sorpresa -
ammettiamolo, che un po' ci delude - è che Ellida decide per la vita di terra:
Ellida fon una scherzosa espressione di gravità): «Vede, professore... Ricorda
l'oggetto della nostra conversazione di ieri? Una volta diventati creature
terrestri... non si riesce a riprendere la via del mare». Ballested: «Lo stesso
è successo alla mia sirena! Con una differenza però! La sirena può morire
mentre gli uomini sanno acclo... accla... acclimatarsi, signora Wangel!».
Ellida: «Possono farlo se sono liberi». [Ibsen 64] Il dramma di M. è che egli
non riesce ad "acclimatarsi" al mondo rettorico: nel suo anelare il
mare c'è come un respiro nostalgico, c'è quasi la volontà di un ritorno a casa:
noi siamo fondamentalmente esseri marini, e l'aver abitato la terra è un
tradimento della nostra condizione primigenia. E' ciò che afferma, tra il serio
e il faceto, proprio Ellida”° (che condivide col Nostro quella nostalgia), e lo
si evince ancor più chiaramente, e più a proposito, dall'epopea di Itti e
Senia, le due creature del mare che popolano l'ultima produzione poetica M.iana.
E' triste il destino di Itti e Senia, che nel doloroso risveglio si ritrovano a
vivere la morte dei mortali, provenienti - essi, invece - «dalla pace del mare
lontano», catapultati - ora, invece - nel mondo della «falsa permanenza», nel
gioco retorico della vita quotidiana, nelle sue espressioni più comuni, e anche
più apprezzate: il mondo della famiglia, le passioni, i sentimenti, il
linguaggio e, in ultimo, l'illusione in alto grado sublime, l'amore. 68 Ellida:
«Voglio essere libera quando gli sarò di fronte. Non voglio che pesi tra noi il
fatto che sono la moglie di un altro; non voglio trincerarmi dietro il pretesto
che non m'è possibile scegliere. Se così fosse, che valore avrebbe una mia
decisione?» [Ibsen, La donna del Mare, in Ibsen, Tutto il teatro, Newton, IV
vol. pag. 511. 69 E' la "battuta" ricorrente (ed emblematica) di un
altro personaggio, il sedicente pittore Ballested, alla quale vengono
consegnati il congedo e il compendio del dramma. 70 Bolette (con un sospiro):
«Noi dobbiamo contentarci della terra ferma». Amholm: «Dopo tutto, è la nostra
sede naturale». Ellida: «Non sono d'accordo. lo ritengo che se gli uomini si
fossero abituati a vivere sul mare, o addirittura nel mare, adesso saremmo più
perfetti di come siamo. Più buoni e più felici».Arnholm (scherzando): «Ora però
quel che è stato è stato. Abbiamo preso la decisione sbagliata e siamo animali
terrestri anziché felici creature marine, Mi sembra sia troppo tardi per poter
riparare quello sbaglio». Ellida: «Sta dicendo una crudele verità. lo penso che
tutta l'umanità lo intuisca e ne provi un segreto rammarico. Creda a me:
questo, proprio questo è il motivo più segreto della tristezza degli uomini».
Arnholm: «Per esser sinceri, cara signora, non m'era sembrato che gli uomini
fossero così tristi come dice lei. Direi, anzi, che prendono la vita sin troppo
alla leggera... a volte anche allegramente... ». Ellida: «Invece non è così,
purtroppo! La gioia di cui parla lei è la stessa che ci danno alcune serate
estive, quando si ha appena il presentimento della notte e del buio. E' questo
presentimento che appanna tutta la gioia dell'umanità, come una nuvola
passeggera che lascia la sua ombra in permanenza sul fiordo [...]» [Ibsen 36].
Ebbero padre ed ebbero madre e fratelli ed amici e parenti e conobbero i dolci
sentimenti la pietà e gli affetti e il pudore e conobbero le pa role che
conviene venerare Itti e Senia i figli del mare E credettero d'amare. [PP
79-80] M. - ebreo che rinnega la "terra promessa", filosofo che
rinnega il "regno dell'aria" (l'aerostato platonico è la vana
speculazione ebbra di sé, e altrettanto vuota) - elegge a dimora persuasa un
«terzo regno»”, quello appunto del mare: egli si sente un «perduto figlio del
mare» (è inevitabile sottolineare l'iterazione davvero ossessiva con cui il
significante "mare" ricorre nelle ultime liriche, con tutte le
implicazioni e le sfumature di senso ch'esso assume in un contesto simile);
eppure trova la forza di consolare la sua Senia, in un intreccio di poesia,
saggezza, speculazione, amore, che prova disperatamente a scongiurare il
pericolo (l'angoscia) della morte e della vita ed esprime, nel finale, la
speranza di «giungere al nostro mare», di giungere a quel porto, che non è il
porto della sicurezza degli uomini, ma paradossalmente proprio «la furia del
mare». Il ritorno al mare, col suo richiamo, è infatti vicino: il mare si
staglia in tutta la sua forza vitale, il frutto di una conquista sofferta che
alla fine conduce alla pace: si staglia, oltre le sponde che lo serrano, oltre
le «case ammucchiate/dalle trepide cure avare», oltre il «commercio degli
uomini» che il poeta-filosofo disprezza e combatte”: Altra voce dal profondo ho
sentito risonare altra luce e più giocondo ho veduto un altro mare. Vedo il mar
senza confini senza sponde faticate' vedo l'onde illuminate che carena non
varcò. Vedo il sole che non cala lento e stanco a sera in mare ma la luce
sfolgorare vedo sopra il vasto mar. Senia, il porto non è la terra dove a ogni
brivido del mare corre pavido a riparare la stanca vita il pescator. Senia, il
porto è la furia del mare, è la furia del nembo più forte, quando libera ride
la morte 71 cfr, S. Campailla: Il terzo regno, introduzione alle PP. 72
Ovviamente, M. non è un misantropo. Il "commercio" ch'egli combatte è
in modo esclusivo, quello rettorico. a chi libero la sfidò» [PP 81-82] Ma il
ritorno al mare non è il risultato conseguente e gratuito di una scoperta: esso
comporta una perdita di innocenza e un duro esercizio di persuasione: "No,
la morte non è abbandono" disse Itti con voce più forte ma è il coraggio
della morte onde la luce sorgerà. Il coraggio di sopportare tutto il peso del
dolore, il coraggio di navigare verso il nostro libero mare, il coraggio di non
sostare nella cura dell'avvenire, il coraggio di non languire per godere le cose
care. Nel tuo occhio sotto la pena arde ancora la fiamma selvaggia, abbandona
la triste spiaggia e nel mare sarai la sirena. Se t'affidi senza timore ben più
forte saprò navigare, se non copri la faccia al dolore giungeremo al nostro
mare. Senia, il porto è la furia del mare, è la furia del nembo più forte,
quando libera ride la morte a chi libero la sfidò» [PP 83-84] Questo stralcio
di lirica, non a caso emblematica per tutta la critica M.iana, è il luogo dove
la dimensione persuasa si definisce in tutta la sua possibile esattezza e si
scioglie definitivamente da ogni difficoltà o ambiguità interpretativa:
l'assunto, consegnato a quello ch'è un vero e proprio "pentalogo", è
davvero chiarissimo: la persuasione è coraggio, il coraggio di una vita libera
ed autonoma, in una parola assoluta. Una vita che non fugge la vita, il suo
dolore e le sue contraddizioni insensate (l'insensatezza per eccellenza: la
morte), ma che vi s'immerge con un agonismo feroce e mai domo, perché, insieme,
consapevole e senza compromessi o deroghe. La Persuasione, infatti, come avremo
modo di vedere meglio in seguito, ma come può già qui apparire abbastanza
chiaro, non è una categoria astratta e monolitica, che si oppone alla Rettorica
n una mitica gigantomachia, così come il Bene al Male nell'immaginario comune e
religioso, o la Verità alla Menzogna nella speculazione filosofica e morale: la
Persuasione si puntualizza, si concretizza, in una rete di "rapporti di
forza" agonistici disseminati in un vasto orizzonte che va dalla famiglia
alle istituzioni, dall'interiorità dell'uomo alla sua esteriorità,
dall'esistenza privata alla vita pubblica, dalla solitudine al contatto con gli
altri: in una sola espressione, è interamente calata nella congerie politica e
quotidiana. E' un «Venire a ferri corti» con un avversario così apparentemente
invincibile (Davide contro Golia) e così vicino, che è possibile avvertirne il
fiato sul collo, una continua incombente minaccia, la forza di una presa
terribile che non molla mai. Di fronte alle istanze di dominio dell'apparato
(del dispositivo) rettorico, che avvolge gli uomini nelle lusinghiere maglie
della eteronomia, il vir oppone un'identica, strenua, determinazione di
autonomia, al costo del sacrificio di sé stesso, che è un sacrificio libero, e
non vincolato o ingannato, come quello che ci chiede la Persuasione Inadeguata.
Non bisogna credere, dunque, che la Rettorica sia un universale che subirebbe,
nel tempo, una progressiva realizzazione o delle variazioni quantitative o
delle risultanze più o meno gravi, delle occultazioni più o meno rilevanti,
atte esse stesse al suo scopo di dominio. Essa, come sistema, non è un
universale che si specificherebbe nel tempo storico e nello spazio geografico:
non è insomma lo Spirito o l'idea hegeliana, bensì non è mai altro che un
rapporto attuale tra uomini, che si concreta in una tensione infinita, dinamica
e fisica di poteri, di «relazioni sufficienti». AI "campo" dei poteri
(laddove il campo è l'insieme di quelle dinamiche e di quelle forze) si
contrappone il campo delle possibilità: /a libertà è appunto lo spazio aperto
di tali possibilità, in cui l'esistenza si slancia nelle sue aspirazioni e
realizza i suoi progetti. La consapevolezza della Rettorica nel mondo, infatti,
non deve chiudere l'uomo nell'amarezza e nel disfattismo di una scepsi e di una
prassi nichilistiche, bensì deve richiamarlo alla sua responsabilità di
"potere" e di "essere", deve aprirgli e trasmettergli la
fiducia nelle proprie capacità umane, nella propria possibile apertura alla Persuasione.
E' questo il messaggio di M., che abbiamo fatto nostro. Ebbene, non c'è
immagine migliore che rappresentare poeticamente questa lotta e questa
conquista come la «furia del mare». A tal proposito, scrive efficacemente P.
Amato”: «Per rendere la persuasione un'alternativa vivibile non solo nella
scrittura, M. indica all'uomo persuaso il suo luogo: il mare. Nella catastrofe
- nel pericolo dell'attimo irripetibile - dobbiamo liberare l'a gire,
rifiutando l'angoscia senza scampo del deserto. Il mare è lo spazio del
persuaso. Il mare è l'ou-topia, il suo mai luogo privo di confini dove sempre
si è stranieri, presenti solo a se stessi, è il luogo dove sentirsi, ovunque -
come mai - nella propria casa. Il mare - prima delle due guerre mondiali - è la
terra senza leggi, dove padroni non sono gli stati, piuttosto i pirati, dove
ogni individuo può affermarsi e non cedere, non più osservato dalla violenza di
un'organizzazione che lo trascende. È il territorio del persuaso ormai libero
dal se stesso sofferente, unico amministratore della vita donatagli. Per lui
ogni azione è la risolutiva, l'ultima, ogni gesto può essere quello estremo.
[...] Il mare è il luogo della libertà che M. sogna per la sua vita dispensata
dall'agire soffocante che la società pretende ». 73 cfr. P. Amato, L'attimo
persuaso, filosofia e letteratura in Carlo M., in Studi Goriziani n. 89-90,
pag. 190. Appare dunque chiaro che, con M., ci troviamo di fronte - più che ad
una simbologia - ad una vera e propria "fenomenologia esistenziale"
del mare”. AI di là del riferimento evangelico, un qualcosa di simile, forse,
possiamo riscontrarlo soltanto nella dottrina buddista. Ora, nel proporre i
passi che seguono (quasi nella loro interezza, datane l'importanza), non
intendiamo certo forzare l'ispirazione o l'influenza che la lettura buddista ha
esercitato sulla formazione del pensiero M.iano, specificamente in riguardo al
pensiero dell' "ultimo" M.”°. Né vogliamo assumerlo come dato
acquisito. Del resto, in base alla documentazione in nostro possesso (e dai
pochissimi accenni che si riscontrano nelle opere del Nostro), non saremmo in
grado di sincerare se quella lettura (e quindi, quell'influenza) fu diretta
ovvero mutuata da fonti di seconda mano”. Resta il fatto, tuttavia, che molte
espressioni (e non solo nel loro senso meramente letterale, ci pare)
riscontrabili nei testi seguenti (e in special modo, quelle che abbiamo
evidenziato in corsivo), possono rinvenirsi - ovviamente riadattate
all'atmosfera della speculazione M.iana - quasi pari pari in passaggi
fondamentali dell'autore goriziano: invitiamo, anzi, ad un suggestivo
raffronto. Troviamo altresì significativa la continua serie di rimandi che
l'autore intreccia tra la "dottrina della Persuasione" e il mare
appunto, parallelismo ch'è lo stesso adottato dai due saggi buddisti. Dunque,
in un passo del Milindapahna”, il Reverendo Nagasena afferma che il Nirvana «ha
alcune qualità in comune con cose a noi note»: quattro ne ha in comune proprio
con il mare: «Come il mare si libera dai cadaveri, œsì il Nirvana si libera
dalle cose cattive. Come il mare è vasto, immenso, non colmato dai fiumi: così
il Nirvàna è vasto, immenso, non colmato dagli esseri. Come il mare è la sede
di esseri grandi e portentosi; così il Nirvana è la sede di esseri grandi e
portentosi, quali sono i santi, che hanno raggiunto l'estinzione. Come il mare
è, per così dire, tutto fiorito con i fiori delle sue onde, varie, possenti,
innumerevoli: cosi il Nirvana è tutto fiorito con i fiori della purità, della
conoscenza, della redenzione, varii, possenti, innumerevoli» [corsivo nostro].
Ma forse ancora più interessante quest'altro riferimento, tratto stavolta da
Anguttara”, e che s'intitola - manco a dirlo - La dottrina è come il mare: 74
Una riprova di ciò può fornirci la testimonianza della aspirazione ultima del
Goriziano - che può far anche sorridere, ma che è evidentemente frutto di una
forte esigenza personale e "filosofica" insieme - di fare il
marinaio, una volta terminata la tesi cui stava lavorando. 75 Cfr. la
diapositiva F [Autoritratto del 1908] nel supporto iconografico. 76 Sappiamo,
ad esempio, che M. si avvicinò al Buddismo per intercessione di Enrico Mreule.
Ma cfr. il profilo biografico nel par. 6 del nostro capitolo sulla Rettorica.
77 Parabole Buddhiste, a cura di Burlingame, Roma-Bari, Laterza, 1995, pag.
158. 78 Ib, pagg. 137-138. Così come il mare si abbassa gradatamente, s'inclina
gradatamente, si affonda gradatamente: così appunto la Dottrina si apprende
gradatamente, si comprende gradatamente, si pratica gradatamente. Questa è la
prima mirabile proprietà, che la Dottrina ha comune col mare. Cosi come il mare
è chiuso nel suo bacino, senza sorpassare i limiti: così appunto i seguaci
della Dottrina sono fermati dalle sue regole, senza trasgredirne i limiti.
Questa è la seconda proprietà. Cosi come il mare non soffre un cadavere, ma lo
respinge sulla spiaggia, sulla terra, cosi l'Ordine della Dottrina non soffre
un monaco, che venga meno ai suoi voti, e lo respinge via da sé. Questa è la
terza proprietà. Così come i grandi fiumi, la Ganga, la Yamuna, I 'Aciravati,
la Mahi, raggiungendo il mare, perdono il nome e la forma e si fondono in esso:
così appunto le quattro caste, i guerrieri, i sacerdoti, i borghesi, i servi,
quando rinunziano alla casa per la mendicità, ed entrano nella Dottrina e
nell'Ordine del Compiuto, perdono i loro nomi e le loro distinzioni e diventano
figli dell'asceta Sakya. Questa è la quarta proprietà. Cosi come tutti | fiumi
della terra fluiscono nel mare e le acque dell'aria cadono in esso, senza che
il mare aumenti o diminuisca: così appunto molti asceti raggiungono nella
Dottrina il Nirvana, senza che questo aumenti o diminuisca. Questa è la quinta
proprietà. Cosi come il mare ha un solo sapore, il sapore del sale: così
appunto la Dottrina ha un solo sapore, il sapore della redenzione. Questa è la
sesta proprietà. Così come il mare contiene molte gemme: cosi appunto la
Dottrina contiene molte gemme, quali le quattro contemplazioni, le quattro
esercitazioni, le quattro potenze, i cinque poteri, i sette risvegli, il santo
ottuplice sentiero. Questa è la settima proprietà. Cosi come il mare è la sede
di grandi esseri: cosi appunto la Dottrina è la sede di grandi esseri, quali
colui che è entrato nella corrente, colui che raggiunge il frutto della
conversione, colui che rinasce solo una volta ancora e il santo che ha
raggiunto la santità. Questa è l'ottava proprietà. Queste sono le otto mirabili
proprietà, che la Dottrina ha comuni col mare. [tutti i corsivi sono nostri] La
bellezza di quest'ultimo passo è coinvolgente, e le stesse affermazioni di M.
ci sembrano acquistarne nuova luce, soprattutto se spogliamo la metafora e le
conferiamo concretezza umana: ci sembra, anche, che aiuti a discriminare la
proposta M.iana da quelle varianti titanisiche e vitalisiche che pericolosamente le si
avvicinano, tradendone lo spirito originario. Verrebbe la tentazione, ad
esempio, di assimilare il tuffo di Itti in A Senia ad un più celebre tuffo,
quello di Esterina, in Falsetto”, di Montale, poeta di cui certa critica, forse
non a torto, si affanna a trovare consonanze col Nostro. Esterina, minacciata
dalla «grigiorosea nube» dei suoi vent'anni e dalla «dubbia dimane», pur appare
impavida, addirittura sorridente: con «un crollar di spalle» liquida ogni
minaccia, del tempo e della vita (abbattendo addirittura i «fortilizi» del
destino), e si tuffa nel mare, il suo «divino amico» che l'accoglie come una
sirena: Esterina è il simbolo della vita che si realizza, della giovinezza che
prorompe e tutto travolge, scrigno di una forza tanto esuberante quanto
spontanea e naturale, a cui naturalmente sorridono quella vita e quella
felicità tanto agognata da chi appartiene alla «razza/ di chi rimane a
terra»5°. Tornando alla felice battuta di Ballested, Montale si sente
consapevolmente, e colpevolmente, acclimatato: per lui, l'alternativa alla
Rettorica, al «male di vivere», sono la «statua», la 79 Montale, Falsetto, in
Ossi di seppia, raccolta contenuta nell'ed. Mondadori Grandi Classici (Milano,
1990) Tutte le poesie (a cura di G. Zampa), pagg. 14-15. 80 «Esterina è
creatura che attinge una divina, pagana felicità nell'immedesimazione stessa
con la natura, nell'adesione totale e irriflessa alla vita e alla realtà»
[Guglielmino]. «nuvola» o il «falco»8', simboli di uno stanco, inappagabile
stoicismo, come appare nella sua lirica più famosa”. In Falsetto, invece, si
affaccia questa Esterina, alter-ego desiderato e perduto, non attingibile nella
sua freschezza, nella sua scorciatoia verso la felicità, attraverso quella
«maglia rotta nella rete» dell'esistenza ch'ella ha trovato, ha anzi
indovinato, e attraversato con una ingenuità spensierata, vigorosa e
disarmante. Ma quanto Esterina è diversa da tti! Rimanendo nella metafora
poetica, se ella con una scrollata di spalle si lascia tutto indietro, il mondo
e la vita, Itti - novello Atlante - si carica sulle spalle quel mondo e quella
vita. Non c'è traccia di spensieratezza in Itti, verrebbe da dire che quasi non
c'è traccia di giovinezza, tanto è consumata la sua adesione all'esistenza,
tanto è profonda la disperata consapevolezza che lo caratterizza: egli si tuffa
(anzi, si rituffa «con più forte lena») nel mare a dare or la patria all' esule
sirena, la patria a me stesso e all'uomo abbattuto svelare la via del suo regno
perduto,ché ogni uom manifeste le tenebre arcane conosca e vicine le cose
lontane. [PP 85] Di una siffatta dolorosa conoscenza («quel che già vidi nel
fondo del mare/ i baratri oscuri, le luci lontane e grovigli d'alghe e creature
strane»), Itti vuol far dono esclusivo alla sua sirena («Senia, a te sola lo
voglio narrare»). La gioia e la naturalezza di Esterina appaiono un miraggio:
eppure Itti rassicura: [...]se freddo e ruvido io ti sembri, ma tu lo sai: è
per vieppiù andare, è per nutrir più vivida la fiamma, perché un giorno
risplenda nella notte, perché possiamo un giorno fiammeggiar liberi e uniti al
porto della pace. [PP 86] 81 Facciamo notare che la figura del falco ritorna in
M. (ma con tutta un'altra simbologia e significato) e, come osserva giustamente
Campailla, sempre più frequente: il critico chiama a testimone una lettera di
Carlo a Mreule (quella del 14 aprile 1909) e, ancor più, un esplicito passo
della tesi di laurea, dove il Goriziano asserisce che il vir, come appunto il
falco e a differenza delle cornacchie, «mantiene in ogni punto l'equilibrio
della sua persona». Per Campailla, l'immagine michelstedteriana del falco sta a
significare «la libera affermazione della volontà». [cfr. S. Campailla,
Pensiero e poesia di Carlo M., Patron, 1973, pagg. 68-69] 82 Alludiamo appunto
al Male di vivere [in Ossi di Seppia, cit., pag. 35]. Commentano giustamente
Barberi Squarotti - J acomuzzi: «AI male, alla sofferenza senza ragione, cieca,
presente sempre nella natura, alla condizione negativa delle cose e
dell'esistenza che si rivela nei fenomeni più usuali, non si può opporre, per
Montale, che una posizione stoica, di indifferenza, di insensibilità, di
rifiuto a lasciarsi coinvolgere nel lamento, nella pena, nella partecipazione
sentimentale: essere statua, pietra, roccia di fronte al dolore o nuvola o
falco alti nell'aria, del tutto staccati dalla terra e dal suo male». [cfr.
Barberi Squarotti - J acomuzzi, La poesia italiana contemporanea, D'Anna,
Messina-Firenze, 1963, pag. 257] 83 Cfr. la diapositiva L [Carlo da vecchio]
nel supporto iconografico. La senilità è scongiurata: ritorna la gioia e il
sogno propri della florida giovinezza, ritorna quella naturalezza, ancor più
vigorosa e sublime, perché non ingenuo e impavido punto di partenza, ma
coraggioso, consapevole, sofferto punto di approdo. La naturalezza è
recuperata, ma come termine di un faticoso lavoro di ricerca esistenziale, che
non disdegna di "sporcarsi" col mondo: giunti al «porto della pace»,
la persuasione proseguirà ultro, e altrettanto spontaneamente le cose si
volgeranno al vir®*. Il porto della pace, ch'è la furia stessa del mare, è il
frutto dell'esperienza del dolore e della consapevolezza, di una consapevolezza
che si conquista attraverso - direbbe l'autore della Bhagavadgita - lo «Yoga
dell'azione»: «attraverso l'attività verso la pace», è appunto il motto del
Goriziano: la Persuasione conduce al riposo, il riposo di Gesù sulla barca nel
mare in tempesta. E proprio ritornando, ad anello, all'episodio evangelico che
ha introdotto questo capitolo, vogliamo trarre le provvisorie conclusioni di
quest'ulteriore tappa del nostro lavoro, altro tassello di quell'intricato
mosaico ch'è M.. Ci avvaloriamo, così, della notazione dell'ottimo Campailla,
il quale ci avverte che il riferimento al brano evangelico su riportato si
complica di un doppio registro di rimandi, non solo testuali: «l'ideale M.iano
del "persuaso" espresso nella conclusione di "Onda per
onda" con un'immagine giovannea ("di sé stessa in un punto faccia
fiamma") conferma nel lavoro poetico il suo spessore religioso nelle due
figure di Itti, il Pesce ( ’IySuc) e Senia (eva): il rinnovato simbolo
cristiano del "Salvatore di se stesso" in un'epoca di diffuso
quovadismo, e la "Straniera"»®®. Di queste considerazioni,
condividiamo tutto: suggeriamo, tuttavia, di non lasciarsi fuorviare dallo
«spessore religioso» che il Campailla finisce con l'attribuire al senso delle
parole di M.; come lo stesso critico chiarisce altrove, e come si evincerà nel
seguito del nostro lavoro, questa non è un'attribuzione o un'illazione ad
un'eteronomia che 84 Abbiamo già trovato l'avverbio ultro in una lettera
scritta allo Mreule a proposito del "nuovo comportamento" del
Paternolli; l'avverbio ritorna altrove, nella sua dizione latina e nella sua
traduzione, con una cadenza se non frequente, però significativa: cfr. D 90
«[...] ma la via è nel nulla chiedere giusto per sé e tutto dare ultro [... J»;
in un'altra lettera, anch'essa già riportata, M. scrive, riguardo sempre
Enrico, che «[...] nessuna cosa della vita, mi sembra, possa trovarti
insufficiente, ma che anzi tutta attraverso tutti i perigli debba volgersi a te
spontaneamente [... J». Sarà un caso, ma il termine ricorre ossessivamente anche
nella Donna del mare ibseniana: Wangel [allo Straniero che è giunto alla loro
casa per riscuotere il pegno d'amore di Ellida]: «E allora che vuole? Pensa di
portarmela via con la forza? Contro la sua volontà?» Lo Straniero: «No, questo
no. Non servirebbe a niente. Se vorrà venire con me, deve farlo
spontaneamente». Ellida (trasalendo): «Spontaneamente... » [sl Ellida (fra sé):
«Spontaneamente...» [[Ibsen, La donna del Mare, cit. pag. 39 e, per es., anche
pag. 40 e oltre] E questa eco accompagna la protagonista, in pratica, fino alla
fine del dramma. 85 cfr. S. Campailla: Il terzo regno, cit., pag. 22. 86
Campailla, aggiunge, in una nota istruttiva, che «per la situazione figurativa
si pensi ai meravigliosi mosaici della basilica paleocristiana di Aquileia, sicuramente
non ignota a M., dove in vaste allegorie Cristo è rappresentato come il mare, e
i cristiani come i figli del mare» [ib.]. pregiudicherebbe, anzi pregiudica in
toto, la "purezza" dell'atto e dell'essere persuaso, così come lo
stiamo portando a definizione. Cristo è esempio di salvezza, ma non è la
salvezza: la salvezza è in noi, noi siamo la salvezza a noi stessi. noi,
attraverso la lotta, verso la pace, verso il riposo. Riposo che non è un
abbandonarsi al «riposo in Dio», come invece affiora, in modo estasiato ed
esasperato, in questa pur bella pagina di Edith Stein, che assumiamo ad
emblematica - in questo contesto - più come termine di opposizione, che di
confronto, con l'assunto del Goriziano, e che riportiamo in larga parte,
convinti che, alla luce di quanto detto, una lettura franca e critica del passo
possa valere più di qualsiasi commento: Esiste uno stato di riposo in Dio, di
totale sospensione di ogni attività della mente, nel quale non si possono più
tracciare piani, né prendere decisioni, e nemmeno far nulla, ma in cui,
consegnato tutto il proprio avvenire alla volontà divina, ci si abbandona al
proprio destino. Questo stato un poco io l'ho provato, in seguito a
un'esperienza che, oltrepassando le mie forze, consumò totalmente le mie energie
spirituali e mi tolse ogni possibilità di azione. Paragonato all'arresto di
attività per mancanza di slancio vitale, il riposo in Dio è qualcosa di
completamente nuovo e irriducibile. Prima, era il silenzio della morte. Al suo
posto subentra un senso di intima sicurezza, di liberazione da tutto ciò che è
preoccupazione, obbligo, responsabilità riguardo all'agire. E mentre mi
abbandono a questo sentimento, a poco a poco una vita nuova comincia a colmarmi
e - senza alcuna tensione della mia volontà - a spingermi verso nuove
realizzazioni. Questo afflusso vitale sembra sgorgare da un'attività e da una
forza che non è la mia e che, senza fare alla mia alcuna violenza, diventa
attiva in me. Il solo presupposto necessario a una tale rinascita spirituale sembra
essere quella capacità passiva di accoglienza che si trova al fondo della
struttura della persona [tutti i corsivi sono nostri”. 87 Come ci scrive Fr.
Egidio Ridolfo s.j. (curatore della rivista Il Gesù Nuovo di Napoli), con cui
siamo entrati in contatto e che ci ha fatto conoscere ilbrano di cui sopra,
esso «fa parte del saggio Causalità psichica, che è stato pubblicato negli
Annali di Edmund Husserl nel 1922, ma che è anteriore alla conversione [della
Stein]. Non abbiamo questo testo, quindi non posso specificare la citazione
delle pagine». 4. La Persuasione more geometrico demonstrata. 4a) La felicità
difficile. 4b) La differente prospettiva: la premessa maggiore del sillogisma M.iano.
4c) L'uomo bandito da Dio e il filo d'Arianna della Persuasione come Armonia:
la lezione di Empedocle. 4d) La Persuasione "al bivio": l'incontro di
Parmenide e Cristo. 4a) La felicità difficile. "La morte non mi avrà
vivo", diceva. E rideva, lo scemo del paese, battendosi i pugni in viso.
Giorgio Caproni Nell'approccio che abbiamo tentato finora, la Persuasione ci si
è rivelata in tutta la sua portata reale: non tanto come una dottrina, un
ammaestramento, quanto piuttosto come un'esistenza, una testimonianza, che si
conquista strenuamente il suo diritto di parola e di realizzazione nel mondo
degli uomini: persuasi lo si è soltanto nel concreto esercizio della
Persuasione, esercizio che ci costituisce a sua volta come persuasi, in una
tautologia non del pensiero, ma della vita, e dunque non vana o eristica, ma
veritiera e concreta. La «consistenza» dell'essere persuasi, dunque, la sua
"autarchia", si è dispiegata come forte esigenza di autonomia, che
non è ripiegamento autosufficiente, non è esplosione (vitalistica, più che
vitale) di forze "anarchiche", violente - ovvero, spinte al dominio -
e sedicenti superiori, ovvero volte alla conquista di un non meglio precisato
oltre dell'uomo (chi si dichiara al di sopra degli uomini spesso vi si ritrova
al di sotto...). La consistenza, dunque, anche e soprattutto come coesistenza,
come rivela l'etimologia identica dei due termini. E il suo dispiegarsi
(abbiamo accennato) dà gioia, una gioia difficile da comprendersi secondo i
comuni parametri del buon senso, che confonde la felicità con l'appagamento del
bisogno, la realizzazione con la conquista di una dignitosa posizione sociale.
Anche Kant provò a destreggiarsi con questo concetto difficile di felicità (o
concetto di felicità difficile), nel tentativo di espungerne ogni pericolosa
concessione all'istanza eteronoma, ogni elemento spurio che ne contraddicesse o
pregiudicasse l'autenticità. Questo riferimento all'autore delle Critiche non è
un rilievo marginale, ma si incastona perfettamente - diremmo in modo
conseguente - nel nostro tentativo di un'esatta definizione del concetto felicità
e di autonomia, all'interno dell'ottica persuasa. Infatti, forse senza neanche
che l'autore se ne rendesse ben conto fino in fondo8*, quel concetto
rappresenta - a nostro giudizio - il movente segreto e il perno intorno al
quale 88 In effetti, Kant sembra affrontare malvolentieri, almeno nella
suddetta critica (ma questa è evidentemente solo una nostra impressione), un
discorso sulla felicità, condizione ch'egli ritiene sempre in certo modo
"sospetta" di eteronomia e che, di conseguenza, "subordina",
se possiamo dir così, al dovere, al rispetto, in una parola alla virtù
(troviamo significativo, altresì, che Kant consegni tale discorso praticamente
soltanto alle pagine che aprono il capitolo Il Della ruota tutta la sua Critica
della Ragion Pratica. Il filosofo tedesco parla, più precisamente, di
«contentezza di sé» [Selbstzufriedenheit], la quale «nel suo significato
proprio, denota sempre soltanto un compiacimento negativo della propria
esistenza, per cui si è coscienti di non aver bisogno di nulla»®®. Questa
contentezza di sé è il "brivido" dell'intelletto di fronte al mistero
della libertà; prosegue, infatti, Kant: «a libertà, e la coscienza di essa come
di una capacità di seguire con intenzione preponderante la legge morale, è
indipendenza dalle inclinazioni, per lo meno in quanto motivi determinanti
(anche se non in quanto influenti) del nostro appetito; e, avendone io
coscienza nell'osservare le mie massime morali, essa è l'unica fonte di una
contentezza immutabile, ad essa necessariamente connessa, la quale non riposa
su alcun sentimento particolare. Tale contentezza si può chiamare intellettuale
». Poco più avanti, la prospettiva kantiana si fa scoperta e definitiva: «...]
un compiacimento negativo per il proprio stato [...]è contentezza della propria
persona. In questa guisa (e cioè indirettamente) la libertà stessa diviene
capace di un godimento che non si può chiamare felicità, perché non dipende
dalla positiva presenza di un sentimento e neppure, parlando esattamente,
beatitudine Beligkeit], perché non implica una indipendenza completa da
inclinazioni e bisogni; ma che, tuttavia, è simile a quest'ultima, in quanto,
cioè, per lo meno la determinazione della propria volontà può mantenersi libera
dal loro influsso, e quindi, almeno per la sua origine, è analoga
all'autosufficienza che si può attribuire soltanto all'Essere supremo». La vera
felicità, dunque, sembra essere appannaggio esclusivo di Dio, o comunque di una
volontà santa: quella, per intenderci, in cui si realizza la «perfetta
adeguatezza [vollige Angemessenheit] dell'intenzione alla legge morale».
Nell'individuo santo, questa perfetta adeguatezza avviene per una sorta di
«nclinazione spontanea» (e si ricordi il valore che abbiamo accordato al
concetto di spontaneità in M.) alla «totale purezza delle intenzioni del
volere»; di contro, «il gradino morale su cui si trova l'uomo» è quello di una
virtù ch'è piuttosto (bellissima espressione) «un'intenzione morale in lotta»
[moralische Gesinnung im Kampfe]. Appare ovvio, dunque, che, per definizione,
la santità è una condizione irrealizzabile nell'uomo: essa si profila piuttosto
come concetto-limite, o idea regolativa, e comunque esula dal mondo fenomenico,
dal mondo «dei costumi». dialettica della ragion pura nella determinazione del
concetto di sommo bene, dedicate in particolare alla posizione ed alla
risoluzione dell'antinomia della ragione pratica, vertente sul sommo bene). Se,
infatti, la virtù è «il meritar di essere felici», tuttavia essa virtù «come
condizione, è sempre il bene supremo, non avendo altre condizioni al di sopra
di sé», mentre«la felicità è sempre qualcosa che, a chi lo possiede, riesce
gradito, però non è buono per sé solo assolutamente e sotto tutti i rispetti,
ma presuppone sempre, come condizione [una condizione che Kant si ostina a
sottolineare in modo continuo e vigoroso in tutto il corso della trattazione],
il comportamento morale conforme alla legge». Poco più avanti, si spinge a
dire, nella foga polemica contro l'eudemonia classica (nelle forme
dell'edonismo o dell'atarassia, soprattutto), che quelli di virtù e felicità
sono due concetti «radicalmente eterogenei». E' ovvio che bisognerebbe, a
questo punto, procedere con metodo analitico, e individuare e correggere tutte
le ambigue oscillazioni di senso che, nel discorso kantiano, assume il termine
felicità [Gluckseligkeit]. Per le presenti citazioni, e per le altre contenute
nel corpo del paragrafo, in riferimento a Kant e non "annotate",
rimandiamo a Kant, Critica della ragione pratica, (a cura di V. Mathieu), Rusconi,
1993, pagg. 228-245, passim, ovvero - dell'opera - il corrispondente a Parte |,
Libro Il, Capitolo Il, Pargg. ill: Della dialettica della ragion pura nella
determinazione del concetto di sommo bene).E' lo stesso destino di esilio cui
sembra condannata la Persuasione, che ci si mostra anch'essa come una
condizione innanzitutto inafferrabile, quindi irrealizzabile, per l'uomo. E
quella stessa gioia, tratto distintivo della condizione non-rettorica, appare
sempre più come una chimera azzardata, come un complicato esercizio della
ragione, nella sua aspirazione di libertà. Non può non colpire, di fatto (ed è
questa la più ferrata, nonché la più scontata smentita), come la Persuasione
sia sempre destinata allo scacco, quasi fosse perseguitata dalla malasorte. La
schiera di Persuasi, che M. elegge; questa schiera di individui
«eroico-cosmici» (per dirla con Hegel), questa genealogia della Persuasione
(per dirla con la Bibbia), questa «ghirlanda di reincarnazioni», quasi, in cui
si realizza BA Persuasione (per dirla infine con Arya Sura, l'autore degli
vataka), sembra portare con sé, insita nei propri atti, il segno di una colpa
che la condanna ad una sconfitta (la sua voce non viene accolta o compresa), o
peggio a una pulsione di morte, per giunta autoinferta, col sacrificio o col
suicidio. Questi individui hanno in sé il demone, eppure sembrano lontani dalla
felicità: il loro sembra non essere un "demone propizio". Socrate
accettò il verdetto di morte, in coerenza col suo dettato; Cristo accettò la
Croce, nel suo sacrificio di redenzione; Enrico Mreule non riuscirà a
sopportare l'enorme ingiunzione morale che gli assegnò l'amico, e la sua vita
si risolse infine in un fallimento”; M. stesso si uccise... Del resto, «gli
uomini si stancano su questa via [la via che conduce alla Persuasione], si
sentono mancare nella solitudine: la voce del dolore è troppo forte » [PR 53].
La piena attualità della propria autentica natura, che abbiamo designato come
entelechia etica, a conti fatti o conduce all'annichilimento, oppure è esposta
al forfait. è in gioco la "sostenibilità" della Persuasione.
Possibile che gli uomini si stanchino della vera felicità e si accontentino
della falsa felicità che la Rettorica propina loro, come falsa sicurezza e
falso appagamento? 90 Si tenga presente l'etimologia di felicità,
nell'accezione greca di "eudemonia", ovvero - appunto -
"eu" (bene) e "dàimon - onos" ("demone, sorte"),
ovvero "che ha un demone propizio", quindi "felice,
fortunato". Per la questione del dèmone, nella fattispecie in Socrate ed
in Enrico Mreule, si ricordi quanto detto supra. 91 Claudio Magris,
intervistato sul Corriere del Ticino, riguardo la stesura e il significato del
suo romanzo Un altro mare, così riassume - in modo davvero efficace - la
dialettica Carlo-Enrico sulla via della persuasione: Intervistatore: «La
personalità di M. "bruciata" dal suicidio rappresenta in un certo
qual modo il fallimento esistenziale di Enrico?», Magris: «Il suicidio di M. è
un problema fondamentale. Certo, sul suicidio in sé non si può dire nulla mai,
perché, per capire veramente cosa è successo nel cuore e nella mente di uno che
si uccide, bisognerebbe averlo accompagnato fino al passo estremo. Si può dire
che i due amici, senza volerlo, si giocano uno scherzo terribile. Da una parte
Carlo mostra a Enrico un assoluto, senza il quale Enrico non potrà vivere ma
che non riuscirà a raggiungere. Così, in un certo modo, Carlo arricchisce ma
anche distrugge la vita di Enrico. Inoltre, forse, il suicidio di Carlo lo
lascia solo, toglie a Enrico il sole della sua esistenza. Dall'altra parte,
Carlo forse aveva capito che la persuasione che egli insegue, ossia il possesso
vero e presente della vita, non può essere teorizzata o predicata (come non si
può teorizzare la felicità), ma può essere solo vissuta, e per questo aveva
visto in qualche modo in Enrico il suo vero erede, una specie di san Giovanni,
colui che doveva realizzare nella vita la persuasione. Ed Enrico, col suo
struggente fallimento, dà un colpo mortale a tutto questo». [Sul Corriere del
Ticino del 5 maggio 1998, pag. 49]. Questa impossibilità della persuasione è da
noi fortemente contestata. Kant aveva escluso la realizzazione di una volontà
santa tra gli uomini: M., di contro, individua i protagonisti di questa volontà
santa, che da "statica", noumenica, diviene storica e politica:
Socrate, Cristo e via dicendo sono la realizzazione terrena di quella volontà,
di quella Persuasione; essi rappresentano l'eccezione che smentisce la regola:
quel postulato che, appunto, sancirebbe il carattere esclusivamente divino
della santità. Eppure, la Persuasione, quand'anche realizzata, sembra tingersi
di toni lugubri, di una gioia "masochista", di una condotta
schizofrenica che la divide tra una gioia che è dolore e un dolore che è gioia:
scrive M., in un noto passo del Dialogo della salute che «finché la morte
togliendoci da questo gioco crudele, non so cosa ci tolga - se nulla abbiamo. -
Per noi la morte è come un ladro che spogli un uomo ignudo-» [D 39]. Eppure,
sotto lo sguardo della Rettorica, il vir sembra davvero passare come do scemo
del paese» del frammento di Caproni: lo scemo che - ridendo e «battendosi i
pugni in viso» - gridava: «a morte non mi avrà vivo». 4b) La differente
prospettiva: la premessa maggiore. I... J foschia d'oro, l'occidente illumina la
finestra. L'assiduo manoscritto aspetta già carico di infinito. Qualcuno
costruisce Dio nella penombra. Un uomo genera Dio. E'un ebreo dai tristi occhi
e dalla pelle citrina; lo porta il tempo come porta il fiume una foglia
nell'acqua che declina. Non importa. Il mago insiste e scolpisce Dio con
geometria delicata; dalla sua malattia dal suo nulla, continua ad erigere Dio
con la parola. Il più prodigo amore gli fu concesso, l'amore che non aspetta di
essere amato. [Borges, B.Spinoza Dalla raccolta La moneta de Hierro, 1976.)
Eppure, a dispetto della sua complessità, M. sembra liquidare il discorso sul
concetto di Persuasione in quel breve capitolo, fatto davvero di pochissime
pagine”, che inaugura, dopo la prefazione, il suo lavoro e che si intitola,
appunto, in modo perentorio La persuasione. Una sorta di epitome, dove ogni
parola - in uno sforzo di sintesi che rasenta l'esoterico - assume un peso ed
una portata grandiosi. Tutto ciò che segue - l'affastellarsi di analisi
"scientifiche", "ontologiche" o personali sulla Rettorica,
l'annoverare gli equivoci ed i pericoli di una falsa Persuasione [«Persuasione
Inadeguata »], la critica al sistema in se stesso come «comunella di malvagi»
sempre e comunque... - sembra essere, di quel denso capitolo, uno scolio complesso.
E' un procedimento, e una capacità di (ardua) sintesi, che - forse, non a caso
- possiamo riscontrare in un altro ebreo eretico, che si cimentò in una
"geometria" dell'etica: Spinoza. 92 Nella citata edizione maior
adelphiana della tesi sono quattro: da pag. 7 a pag. 10, incluse. Avvisiamo che
sono queste le pagine da cui traiamo i "virgolettati" relativi alle
espressioni autoctone di M.. Ci dispensiamo, così, dal riferirli ogni volta.
L'autore dell'Ethica esordisce, parlando di Dio: «Per causa di sé intendo ciò
la cui essenza implica l'esistenza, ossia ciò la cui natura non può essere
concepita se non come esistente»°°. Dio non ha bisogno di null'altro, che non
di sé stesso, per esistere: a suo modo, questa è un'ammissione - permettendoci
di renderla con termini M.iani - di una condizione persuasa di Dio. E M., nella
sua definizione di persuasione (la "premessa maggiore" ch'egli ci
fornisce) - definizione che spicca, sottolineata dalla citazione petrarchesca -
sembra rispondere con una eco: «Colui che è per sé stesso (pever) non ha
bisogno d'altra cosa che sia per lui (evo vtov) nel futuro, ma possiede tutto
in sé». Dunque, il vira suo modo è egli stesso causa suit Nel presupposto,
entrambi i pensatori, come dire, si muovono nell'ambito dell'ortodossia: negli
esiti, cadono entrambi in una comune eresia fondamentalmente antiebraica: per
Spinoza, si tratterà di sconfessarne la Trascendenza: la causalità di Dio si
dispiegherà in causalità immanente al mondo, realizzandosi in quel noto
"panteismo" che il pensatore di Amsterdam svolgerà con grande rigore
(anche "geometrico") e consapevolezza durante tutta la sua vita; per M.
si tratterà di sconfessarne non solo la trascendenza (l'uomo, come persuaso, è
il dio), ma soprattutto il monoteismo: sosterrà quello che potremmo chiamare un
"politeismo della Persuasione", essendo ogni vir dio a se stesso,
causa sui, singola (e singolare) natura naturata della Persuasione. Il
confronto tra i due pensatori potrebbe trovare sbocchi inauditi (ci siamo
limitati alle frasi iniziali delle loro opere); tuttavia ci troviamo costretti
a troncare di netto una simile tangenziale al nostro discorso, innanzitutto
perché potrebbe essere (data la vastità del raffronto) argomento di un'altra
tesi, e poi per non compromettere la fluidità del nostro ragionamento. Che
verte, ricordiamolo, sul concetto di Persuasione, così come affrontato da M.
nel breve, fondamentale capitolo cui abbiamo accennato. Il concetto di
Persuasione: ben detto. Mai come qui, infatti, l'uso del termine
"concetto" non si presenta inadeguato. | viri sono scomparsi
dall'orizzonte, nella loro pluralità: la Persuasione perde la sua composizione
politica, si staglia come un' "entità" perfetta, come la
perfettissima sfera di Parmenide, come una monade che abbia chiuso porte e finestre,
come l'aleph del noto racconto di Borges. Il Persuaso si disincarna: diviene
simbolo senza antropologia o antropomorfismo, segno di una condizione che
accomuna l'uomo ad ogni altro essere del mondo sublunare: non a caso, quasi un
terzo dell'intero capitolo è occupato da un esempio tratto dall'osservazione
fisica: il peso, ch'è tale perché la forza di gravità lo spinge verso una
ricerca inappagata 93cf, Spinoza, Etica (a cura di E. Giancotti), Editori
Riuniti, 1993, pag. 87. 9% Ci si permetta un rilievo passeggero: questo
"bastare a sé stesso" è una connotazione che, in modo singolare,
attraversa - come presupposto di estrema qualificazione - gli esiti più alti
della speculazione filosofica e religiosa umana di tutti i tempi e di tutti i
popoli: il dio degli Ebrei, il Buddha, il dio di Aristotele, il dio di Tommaso,
la monade di Leibniz, il dio di Spinoza, la volontà santa di Kante via dicendo
sono tutte "entità" che "bastano a se stesse". del suo
"luogo naturale" («la fame del più basso»), la cui vita corrisponde
proprio in quella discesa, perché - una volta raggiunto il punto della sua
soddisfazione - in quel punto la sua vita «cesserebbe d'esser vita», perché «
in quel punto esso non sarebbe più quello che è: un peso». Dunque: «Il peso non
può mai esser persuaso»®9. La Rettorica si rivela quale condizione condivisa da
ogni ente terreno, costretto dalla forza di gravità che lo lega necessariamente
alla terra; di contro, la Persuasione non è una aspirazione o prerogativa
esclusivamente umana: anche il peso vuol conquistarla. La forza di gravità si
delinea come la più patente espressione fisica della Rettorica, e ci testimonia
come la Rettorica stessa non sia soltanto una "costruzione" umana, ma
al contrario appartenga alla matrice bio-fisica o bio-fisiologica, prima che
ontologica, dell'intero universo. Nel capitolo che stiamo esaminando, dunque,
si può avvertire quel cambio di prospettiva che annunciammo nell'esordio della
nostra analisi: a differenza che nelle lettere e nelle poesie, dove si respira
il pullulare della vita persuasa, nel lavoro accademico il Goriziano è più
attento a quella che potremmo definire (con qualche concessione agli
heideggeriani) un' "ermeneutica esistenziale della Persuasione". O,
più esattamente, si propone di ricavare quell'apriori della Persuasione, che ne
fondi /a possibilità e i limiti di realizzazione nel mondo fenomenico. E' una
prospettiva più povera dal punto di vista esistenziale, rispetto a quella delle
lettere e delle poesie, perché più astratta, e dunque più aliena dai nostri
interessi, e da quelli dello stesso M., evidentemente. Eppure, una prospettiva
più imponente dal punto di vista speculativo, che s'impone nella sua necessità
di analisi, se è vero che ogni Weltanschauung, come visione o
"intuizione" del mondo, presuppone di necessità un fondamento ontologico,
un'immagine concettuale, in cui si rapprenda visivamente il senso di quel
mondo. Sotto questo rispetto, M. appartiene ancora al declino di quella
"storia dell'essere" denunciato dal filosofo di Baden. In M., nella
sua tesi, l'Essere si pone come Persuasione, ed è a partire da questa posizione
che si sviluppa, nel corso del suo studio, l'analitica esistenziale, ovvero la
diagnostica e la prognostica, apparentemente aliena qui da ogni considerazione
95 Ma cfr. anche la nostra integrazione sul "peso che dipende" e la
diapositiva G ĮI peso al gancio] nel supporto iconografico. % Questo stralcio
heideggeriano può sancire ed illuminare il senso di questi nostri ultimi
passaggi: «La comprensione dell'essere, definita così, in pochi tratti, si
mantiene sul piano senza scosse e senza pericoli della più pura evidenza. E
tuttavia, se la comprensione dell'essere non avesse luogo, l'uomo non sarebbe
mai in grado di essere l'ente che è, anche qualora fosse dotato delle più
straordinarie facoltà. L'uomo è un ente che si trova in mezzo all'ente, e vi si
trova in modo tale, per cui l'ente che egli non è e l'ente che egli stesso è
gli sono sempre già manifestati. A questo modo d'essere dell'uomo diamo il nome
di esistenza. L'esistenza è possibile solo sul fondamento della comprensione
dell'essere. Nel rapportarsi all'ente che egli non è, l'uomo si trova già
davanti l'ente come ciò che lo sostiene, ciò cui si trova assegnato, ciò che,
con tutta la sua cultura e la sua tecnica, egli non potrà mai, in fondo,
signoreggiare. Assegnato all'ente diverso da lui, l'uomo non è in fondo,
padrone nemmeno dell'ente che egli stesso è» [M. Heidegger, Kant e il problema
della metafisica, introduzione di V. Verra, Laterza, Bar-Roma, 1989, pagg. 195-196].
morale, della società umana, nei suoi singoli e nel suo complesso, come
condizione depotenziata di quello stato edenico annunciato come proprio di
«colui che è per sé stesso». Così, dell'energia autentica del vir, in queste
pagine, sopravvive solo un opaco barlume, nel tentativo di concettualizzazione,
nel titanico sforzo del pensiero, che si districa nel novero di citazioni di
cui il breve capitolo in esame è infarcito: citazioni che - almeno
nell'intenzione - non appesantiscono, ma che si dispongono quali ausiliari
"puntelli di persuasione", nello sforzo di delucidare il senso del
peve”. Essi tracciano un confine intorno alla Persuasione stessa: ci muoviamo
in un mondo i cui due poli sono rappresentati, rispettivamente, dalla grecità (dalla
Grecia di Empedocle e di Platone, e chi fra essi) e la dimensione biblica
(l'Ecclesiaste, S. Luca, S. Matteo): è dalla sinergia di questi due poli che,
evidentemente, si forgerà e si dovrà evincere il concetto di Persuasione. 4c)
L'uomo bandito da Dio e il filo d'Arianna della Persuasione come Armonia: la
lezione di Empedocle. Anch'io sono uno di questi, esule dal dio e vagante per
aver dato fiducia alla furente Contesa. Empedocle, fr. 31 B 115, 13-1498 Ahimé,
o infelice stirpe dei mortali, o sventurata, da quali contese e gemiti
nasceste. Empedocle, fr. B 124 Piansi e mi lamentai, vedendo un luogo a cui non
ero abituato. Empedocle, fr. B 118 Un'epigrafe informa e precisa il senso e la
direzione di tutta un'opera, riassume e anticipa il pensiero dell'autore, dà limprimatur.
La Persuasione e la Rettorica si apre®° con una citazione di Empedocle, una
citazione da rivalutare, anche in riferimento alla sua amenità: M. chiama
subito in causa un personaggio la cui vita e il cui pensiero sono avvolti da
un'aura rarefatta di leggenda, un filosofo che si muove in una dimensione di
inappartenenza a categorie ben definite (addirittura, più che gli stessi altri
presocratici), in un'apparente contraddizione tra il fisico e lo scienziato e
il medico, e il sacerdote e il poeta 97 Campailla fa notare che «M. ricorre al
greco per sviluppare la contrapposizione tra la forma transitiva di pever
(aspettare qualcuno o qualcosa) e quella intransitiva (stare, permanere,
consistere)» [nota 7 alla Persuasione, PR 309] 98 La presente citazione, e le
altre che seguono nel paragrafo e nel prosieguo della nostra tesi, relative ad
Empedocle ed agli altri presocratici, sono adottate secondo la traduzione
presente in | Presocratici. Testimonianze e frammenti (a cura di G.
Giannantoni), 2 voll., ed. Laterza (4a), 1990. 99 La famosa Prefazione,
presente nelle stesura A della tesi (ovvero, quella primitiva, completamente
autografa), risulta poi omessa in quella che Campailla chiama redazione C,
quella destinata alla lettura del relatore e della commissione dei professori,
e che, dunque, «rappresenterebbe la volontà ultima dell'autore». [cfr. nota
introduttiva alla Persuasione, PR 304; in particolare, si rimanda proprio alle
pagg. 303-304 per un opportuno approfondimento della questione], e il profeta
taumaturgo e il dio. Evidentemente, il filosofo goriziano, con questa
personalità ibrida, ravvisa una certa affinità di atmosfere e di metodologia
non proprio ortodosse. Dunque, inoltriamoci nel sottobosco empedocleo che si
dirama in queste e altre pagine del nostro autore. Innanzitutto, una premessa
scontata, ma opportuna: M. anche con Empedocle, come con tutti gli autori
ch'egli utilizza per supportare le proprie analisi, affila le armi di una
propria, personalissima filologia, di un'interpretazione che "pecca"
di estrema originalità °: ci troviamo al di fuori di una certa canonica, e
sbrigativa, storiografia filosofica (inaugurata da Aristotele, che definì
Empedocle, tra gli altri, un «naturalista inesperto »'°'), storiografia che
comodamente classifica l'agrigentino in posizione intermedia e mediatrice tra
l'essere parmenideo e il divenire eracliteo (al contrario, come sappiamo, M.
assegna a pari merito, sia ad Empedocle che a Parmenide ed Eraclito, la
conquista della "palma" della Persuasione). Ma analizziamo il
frammento empedocleo: L'impeto dell'etere invero li spinge nel mare il mare li
rigetta sul suolo terrestre, la terra nei raggi del sole infaticabile!92, che a
sua volta li getta nei vortici dell'etere: ogni elemento li accoglie da un
altro, ma tutti li odiano. | versi sono attestati da Plutarco!, Il quale
commenta: «Empedocle dice che le anime pagano la pena dei loro errori e dei
loro peccati [segue il frammento], finché così punite e purificate non
raggiungono nuovamente il loro posto e il loro ordine naturale»..'°4 Ci preme
innanzitutto far notare (quand'anche fosse solo una nostra impressione: la
critica non ne fa parola) la sfumatura che avvertiamo nella scelta fatta da M.
di questo frammento: nella "diaspora" delle anime, che espiano una
terribile hybris alla ricerca inesausta del «loro posto e del loro ordine
naturale», ci sembra adombrarsi quell'ulissismo giudaico (che possiamo
integrare a proposito delle nostre analisi sul mare), ci sembra affiorare
quell'inquietudine ancestrale di colpa-espiazione, che appartiene alla 100
Emanuele Severino, ad es., che allo studio di Parmenide ha dedicato tutta la
sua vita, bolla l'interpretazione michelstedteriana del filosofo eleate come un
"colossale equivoco EQUIVOCO GRICE": ma ravvisa proprio in
quell'equivoco uno dei picchi di feconda originalità del Nostro. Ci trova
d'accordo. 101 Cfr. la già cit. Prefazione. Per il giudizio di Aristotele, cfr.
Fisica, 191a - 25: «[...] quelli che primamente filosofarono, indagando sulla
verità e sulla natura degli enti, furono tratti, per così dire, verso una via
sbagliata, spinti dalla loro inesperienza» [tad. A. Russo, in Aristotele,
Fisica, 3° vol. delle Opere, a cura di G. Giannantoni, Laterza, 2001 (VI ed.),
pag. 21]. 102 Sono i vv. 9-12 del frammento B 115 [i versi della nostra
epigrafe sono immediatamente successivi]. Come nota anche il Campailla,
nell'edizione del Diels si legge waedovtoc (splendente), anziché axauavtoc
(infaticabile). Abbiamo utilizzato la traduzione contenuta in | P resocratici,
cit., pag. 411 [cfr. la nostra nota 9], sostituendo però opportunamente i due
termini, 103 De Iside, 361 c matrice profondamente ebraica di M., per quanto
egli stesso cercasse con forza di separarsene'. Il popolo ebreo, nella sua
tormentata storia, questo condivide con le anime di Empedocle: «ogni elemento
li accoglie da un altro, ma tutti li odiano». Ma ovviamente, questa condizione
di esilio eterno, così specifico per l' "ebreo errante", si amplifica
subito a cifra dell'intera condizione umana: lo nota a suo tempo già Plutarco,
il quale in un'altra sua opera afferma: «Empedocle [...] mostra che non
soltanto egli stesso ma tutti noi siamo qui come emigrati, stranieri ed
esuli... Va in esilio [scil. l'anima] ed è errabonda spinta dal volere e dalle
leggi degli dei».'°9 Eppure, queste anime espiano un delitto di cui non hanno
in fondo colpa, essendo vittime addirittura innocenti di un polemos che le
trascende: quello, universale e perenne, tra l'Amicizia [Phila] e la Contesa
[Neikos], le due forze divine che, a questo punto, data la curvatura della
nostra interpretazione, ci arrischiamo d'assimilare alla Persuasione e alla
Rettorica, così come delineate - nella loro impersonalità e quasi-trascendenza
- nella tesi 104 contenuto in | Presocratici, cit., pag. 440 105 In più passi
di lettere, M. mostra insofferenza nei confronti della coeva gioventù ebraica,
che pullulava a Gorizia (città da tempo immemorabile, data la sua vocazione
commerciale, sede di una nutrita comunità ebrea [ma, per ciò, cfr., tra gli
altri, A. Arbo, Carlo M., ed. EST, pagg. 4-5 e oltre): anzi, i coetanei ebrei
diventano bersaglio di feroce ironia, quella medesima ironia che il giovane
filosofo ostenta nei confronti dello stesso apparato religioso ebraico,
soprattutto nelle sue forme più esteriori, retrive e "teopompe". Si
prenda ad es. la lettera del 29 febbraio 1908 alla famiglia: «Molto piacere mi
fece il furto delle corone - era un principio di dissolvimento quale si doveva
alla memoria di zio Samuel [probabilmente, Samuele Luzzato]. Rabbia mi fa la
reazione degli altri che fanno subito la sottoscrizione - porci - neocattolici!
- faranno di nuovo Hanukà [la "festa dei Tabernacoli", nella
religione ebraica, appunto] per purificar i tempio? E se la prendono con te
questi imbecilli perché non dai il sacro obolo; ma che cosa pretendono? -». [E
295; le esplicazioni in parentesi quadre, riportate all'interno del brano,
anche del seguente, appartengono al Campailla, leggermente ritoccate da noi] AI
contrario, il Goriziano si mostra interessato al misticismo cabalistico (si
legga con attenzione il passo che riportiamo, dato che, tra i tanti
importantissimi rilievi, in esso si scorgerà anche l'embrione della filogenesi
speculativa del Nostro): «A proposito di misticismo ho in mente una cosa
graziosa. Tu sai [M. si sta rivolgendo a "Gaetanino" Chiavacci] che
la ragione dell'antisemitismo filosofico (Schopenhauer e Nietzsche) è il
razionalismo della religione ebraica (pensa al Pentateuco e a Spinoza!!!) e la
mancanza dell'elemento mistico nelle menti ebraiche (Nietzsche dice ‘elemento
dionisiaco'; quello che è distrutto da Socrate; osserva le parallele: da
Socrate attraverso Platone al misticismo neo-platonico - da l'ebraismo a
Cristo). - Ora io sono convinto [...] che l'appunto è giusto [...]; tanto più
mi meraviglia l'esistenza di un'intera letteratura cabbalistica [sic, anche
oltre], e una diadoché di taumaturghi che finisce [...] col mio bisnonno, il
rabbino Reggio, detto il Santo [è Isacco Samuele Reggio, uno dei fondatori del
Collegio Rabbinico Italiano; nota di Campailla]. lo voglio sapere qualcosa di
più preciso su quella letteratura cabbalistica, specialmente sulle sue origini,
poi voglio farmi consegnare dall'archivio i resoconti protocollati di tutte le
sedute in cui quel mio bisnonno compì atti solenni di purificazione con mezzi
cabbalistici [... ]; peccato siano scritti in ebraico, ci dovrò faticare per
capirli bene [... |» [lettera al Chiavacci, del 22 dicembre 1907, E 267-268; le
parentesi tonde e i corsivi all'interno del brano sono di M.]. Notiamo, en
passant, che Michelstedter (parafrasando Canetti) dell'ebraismo non ha
"salvato" la lingua («... peccato siano scritti in ebraico...»); che
l'accusa di "razionalismo" ch'egli rivolge al Pentateuco e a Spinoza
noi l'abbiam fatta ricadere anche su lui medesimo; e infine il significativo
accenno all' «elemento dionisiaco» nicciano, su cui avremo modo di tornare
largamente nelle integrazioni sulle varianti deboli della Persuasione. Per
tutto questo, ci rammarica aver relegato in una nota un aspetto così importante
e complesso della formazione M.iana, spinti da una certa selezione
argomentativa (se si volessero approfondire tutti gli aspetti di quella
formazione si stilerebbe una tesi mastodontica). Un'ultima cosa: per la
cronaca, la famiglia di Carlo apparteneva al ceppo occidentale prevalente nella
comunità goriziana, quello ashkenazita [cfr. A. Arbo, Carlo M., cit. pag. 5].
106 Plutarch. de exil. 17 pag. 607, come recita l'edizione | P resocratici,
cit., pag. 410, in cui è contenuto il riferimento. accademica del Goriziano
[cfr. supra]. E, sotto questo rispetto, le analogie sono davvero sorprendenti
ed istruttive. Vediamole. | due princìpi empedoclei si contendono il mondo, in
una lotta infinita che si realizza in una successione alterna di fasi diverse,
col ritorno periodico di ciascuna: quando predomina la Philìa, tutte le cose
(anzi, le loro radici: il fuoco, la terra, l'aria e l'acqua; in se stesse
immutabili, l'una inconfondibile con l'altra, irriducibile all'altra) sono
ricondotte all'unità, allo Sfero, l'universo omogeneo, il dio [cfr. fr. B 31]:
«d'ogni parte» uguale a se stesso. [fr. B 29; da notare l'affinità di
linguaggio col Goriziano] [... ]nei compatti recessi di Armonia sta saldo lo
Sfero circolare, che gode della solitudine che tutto l'avvolge. [fr. B 27]
Quando invece predomina l'Odio, si ha la disgregazione assoluta, la disarmonia
e il conflitto, il «vortice». «Nell'Odio [tutte le cose, le loro radici] sono
tutte diverse di forma e separate» [B 21, v.7]: all'inizio del prevalere della
Contesa sull'Armonia, «alla terra spuntarono molte tempie senza collo, e prive
di braccia erravano braccia nude, e occhi solitari vagavano senza fronte».
Questa "anarchia" delle membra, che suscitò parecchie ilarità anche
tra i contemporanei di Empedocle, vien quasi riprodotta da M., in forma
aneddotica, nel bizzarro dialogo tra l'io e il piede [PR 160-163]. Ma altre
simili situazioni si riscontrano in pagine, altrettanto importanti, del lavoro
accademico [almeno PR 16] e del Dialogo della salute. In particolare in
quest'ultimo: Rico: Ora la bocca non lavora più per il corpo ma lavora per sé,
l'occhio non considera più le cose vicine e distanti a difesa del corpo ma si
dà alla pazza gioia per il proprio gusto, così l'orecchio, così il tatto, le
membra a lor volta rifiutano la fatica, e ognuna per quanto sa e può ricerca e
moltiplica quelle cose che le facevano piacere prima nel servizio del corpo -
ora che hanno fatto sciopero - e ognuna le ricerca per sé. - [D 49]. Nella
situazione contemporanea, caratterizzata dal predominio assoluto della
Rettorica/Contesa, «la mala cupidine della vita [...] ha fatto perdere ogni
consistenza» a quel «nucleo di disposizioni organizzate» ch'è il nostro corpo:
«il corpo se consiste per la coesione delle molecole, perduta la solidità si
versa liquido sulla superficie del suolo e fitra in ogni fessura [...]. Noi
diciamo del gaudente che è un uomo senza solidità; i nostri padri dicevano che
liquescit voluptate » [D 50-51; corsivi di M.]. In questa condizione, «la fame
insaziata perdura pur sempre: e la sua legge è il godimento: e ancora le
singole parti si disgregano nei loro elementi chimici più piccoli più piccoli
[sic]: che ognuno vuol vivere per sé. L'individualità si dissolve infinitamente:
e infinitamente fugge il piacere. -» [ib.]. «Ma avviene uno strano fatto:
quella dolcezza che c'era prima non c'è più poiché apparteneva al corpo e alla
sua continuazione: ognuna delle parti prova delle amare delusioni che
minacciano di guastarle la festa » [ib.]; e «chi ha perduto il sapore delle
cose è malato » [D 46]. Eppure, in questa confusione disordinata, il «dio
pudico» del piacere assicura una certa consistenza: Rico: lo credo che egli [il
dio] abbia a mano ogni disposizione del corpo e tutta la varietà delle cose. E
benevolo al corpo, egli metta nelle cose che gli sono utili una luce, e la
faccia brillare fin quando la cosa è utile - e poi la spenga così che la cosa
resti oscura all'animale che ne è sazio. [D 42-43] Questo «dio sapiente spegne
la luce quando l'abuso toglierebbe l'uso», assicura una sorta di omeostasi
all'organismo, ne scongiura la dispersione, lo fa continuare a vivere come
individualità: da questo principio di equilibrio (accenno di Armonia), che ci
assicura una consistenza per quanto falsa ed illusoria, si spiega il filo
d'Arianna che può condurci alla vera consistenza, quella della Persuasione,
Armonia eccellente. Il meccanismo sarà, almeno nelle modalità, il medesimo:
«togliere l'uso» delle cose attraverso il piacere, vanificare la forza
rettorica del desiderio, perché «più il vano chiede e più bisognoso si rende»
[D 58]. AI contrario, il vero piacere giungerà al Persuaso «dalla sicurezza
interna della pace» [D 66], quando le cose più non «ci avranno» [cfr. D 38-39].
Questo filo di Arianna, che abbiamo ipotizzato nel Dialogo, si fa decisamente
manifesto nelle parole di M. nel suo piccolo ma densissimo saggio sul
Prediletto punto d'appoggio della dialettica socratica del 1910, anno della sua
morte, e dunque espressione ultima del suo pensiero.” Riportiamo per intero il
passo, data la sua estrema importanza, a questo punto: L'unica via di chi
permane è la sua forza. La sua forza di non esser schiavo nel futuro, di tener
raccolta nel presente la propria vita. Socrate non può che appellarsi a quello
che ognuno può aver sperimentato della propria forza, o che almeno conosce
indubitatamente necessario, della quale a ognuno son noti gli effetti, e della
cui mancanza a ognuno noti i danni. Ed è quella che in rapporto al giro finito
dei bisogni elementari, concreti e vicini al nostro corpo, si manifesta
cminarli e tenerli nascosti, ognuno col criterio della salute del tutto. La
forza colla quale uno insegna alla sua bocca a starsi contenta a quello che è
conveniente al bisogno del corpo, e a non correre nel tempo sempre nuove cose
mangiando, perciò che la gola ribelle le finga l'ultima felicità sempre via nel
prossimo boccone. Per questa forza che la maggioranza degli uomini ha, il loro
corpo è un corpo. E quello e questo vicini a ognuno!®, «'Enucleando' il senso e
i modi di questa vita elementare, Socrate ha modo di portar vicina la vita
lontana [...}>: «egli dà valore alla salute dei bisogni elementari solo come
analogia del bisogno della persuasione »'°9 [significativo corsivo di M.]. Alla
luce di quanto detto, troviamo incredibile come anche la critica più attenta -
alludiamo soprattutto al Campailla e alla Raschini - non abbia sviluppato a
sufficienza questa "dritta" che il filosofo goriziano ci consegna in
questo importante scritto; noi siamo invece d'altro107 La redazione cui si fa
riferimento nella nostra analisi e nelle nostre citazioni è quella contenuta
nell'edizione curata da Gian Andrea Franchi, per i tipi dell'Agalev, 1988;
ovvero, le pagg. 95-100. 108 Ib. pag. 97, come quella appena successiva. 109
Ib, pagg. 97-98-99 passim. avviso, e cerchiamo di trarne coerente sviluppo,
approfondendo ancora il parallelismo con Empedocle. Dunque, c'è analogia tra il
bisogno elementare e il bisogno della Persuasione: è come se, in tempi magri,
un'immagine sbiadita della Persuasione sopravvivesse nella forza che sottende
all'equilibrio omeostatico (chimico-fisiologico) del nostro corpo. Ancora
Plutarco, che si sta rivelando anche agli esegeti moderni come uno dei più
validi interpreti di Empedocle, ammette che i due principi cosmici dell'Armonia
e della Contesa si riflettono in certo modo, secondo il filosofo agrigentino,
in ciascuno di noi: «ciascuno di noi, nascendo, è preso e guidato da due
destini e demoni [... ]10: cosicché, accogliendo la nostra nascita i semi di
ciascuna di queste affezioni e per ciò stesso avendo molteplici anomalie l'uomo
assennato si augura bensì le cose migliori, ma si aspetta le altre, e di
entrambe si serve evitando l'eccesso»!!!. Certo, evitando l'eccesso. Perché un
eccesso di Armonia è foriera di morte almeno quanto un eccesso di Contesa. Nota
Aristotele: «...] la Contesa è causa della corruzione non meno che della realtà
delle cose; similmente neppure l'Amicizia è la causa della realtà delle altre
cose, poiché le distrugge raccogliendole nell'uno»'!7. L'Armonia porta vita,
attraverso un processo prima di "distinzione", quindi di "ri-
compattazione" degli elementi dalla dispersione discorde; ma porta morte,
perché un suo eccesso fa ricadere a sua volta gli elementi in un'omogeneità
letale''° ch'è propria dello Sfero (proseguendo nel parallelismo, la
Persuasione conduce alla vera consistenza, alla vera vita; ma, a sua volta,
raggiunto il suo apogeo, il suo appagamento, coincide con la morte, perché - in
quel punto - la vita perde "il suo esser vita", che coincide proprio
col conatus, con la deficienza). Di contro, la Contesa conduce alla morte,
perché distrugge la consistenza assicurata dall'Armonia; ma porta anche vita,
dato che promuove la distinzione degli elementi (delle radici)
dall'indistinzione dello Sfero, del dio (la Rettorica, al suo apogeo, per M. fa
/iquefare il nostro corpo, nella dispersione puntuale del piacere; eppure essa
assicura la vita, che consiste nel retto conatus verso la Persuasione: come
detto, c'è analogia tra il bisogno elementare e il bisogno della Persuasione).
10 "{...]la dea Ctonia e la dea Solare dall'acuto sguardo a Discorde
sanguinosa e l'Armoniosa dal grave sguardo, a Bella, la Brutta, la Veloce e la
Lenta a Vera Amabile e l'Oscura dai neri capelli" [fr. 122] 11 Plutarch.
de trang. an. 15 pag. 474 B, come recita l'edizione | Presocratici, cit., pag.
413, in cui è contenuto il riferimento. 12 L'appunto è volto criticamente all'
"incoerenza" di Empedocle, ma non per questo motivo c'interessa.
Inoltre, perché a nostro parere più consona all'atmosfera del nostro discorso,
preferiamo questa traduzione di Metafisica B 4 1000b 10 sgg., contenuta in |
Presocratici, cit, pag. 344, alla corrispondente traduzione di G. Reale,
nell'edizione della Metafisica da lui curata per i tipi della Rusconi [1993,
pag. 113], che è pure l'edizione che teniamo presente nella nostra tesi. 113
Letale, perché compromette il principium individuationis. Quindi, sia per il
filosofo goriziano che per quello agrigentino Duplice è la genesi dei mortali,
duplice è la morte: l'una è generata e distrutta dalle unioni di tutte le cose,
l'altra, prodottasi, si dissipa quando di nuovo esse si separano. [fr. B 17,
vv. 3-5] Entrambi, quando parlano di vita e di morte, si rendono ben conto che
« è giusto chiamarle [così], ma anche io parlo secondo il costume» [fr. 9, v.
5]. Per entrambi si tratta di definire esattamente il senso opportuno delle
parole, e di adagiarsi solo per comodità sul loro senso comune. Per entrambi,
ancora, si tratta di tracciare un difficile equilibrio (l'equilibrio del falco)
tra le due facce bifronti dell'Armonia e della Contesa, della Persuasione e
della Rettorica: per entrambi, nel «retto discorso» [fr. 131, v. 4] sono
unificate e armonizzate nell'unità, ad opera dell'Amicizia, le cose divise
dalla Contesa." Il difficile equilibrio si gioca tra Phila e Neikos, ed in
questo equilibrio consiste il principium individuationis che concretizza la
sostanza informe nell'attualità dell'individuo, altrimenti irrealizzabile
nell'incongruenza discorde o nell'omogeneità armonica «avvolta dalla
solitudine». Empedocle, tuttavia, avverte per quest'ultima condizione una sorta
di nostalgia (e si rammenti la nostalgia di Itti per il mare): come visto,
l'uomo per lui è come un esule cacciato da un mondo perfettamente armonico ed
omogeneo (alla stregua di un'età dell'oro), e deve perciò rassegnarsi a vivere
nella realtà dei fenomeni che nascono e muoiono: similmente, nell'individuo
rettorico (anch'esso «bandito da dio») sopravvive una non ben definita
aspirazione per una condizione edenica di completezza, che non si rassegna, ma
che si svia in un desiderio inautentico di appagamento, sbiadito ricordo di
quella completezza, come l'amore è sbiadito ricordo della condizione androgina
nel noto dialogo platonico. Empedocle, inoltre, condivide con Eraclito e
Parmenide (e M. con tutt'e tre) la polemica contro il sapere comune e
superficiale, che disdegna la verità dello Sero, si accontenta delle multiformi
apparenze delle cose e non perviene ai fondamenti dell'Autentico: gli uomini
(che si mettono in «posizione conoscitiva», direbbe il Goriziano) sono come
bambini cui sfugge il significato ultimo delle cose. Ed una delle espressioni
più alte di questo Autentico è la consapevolezza, che dovrebbe essere una delle
fondamentali conquiste umane, di una consustanzialità che attraversa, senza
soluzione di continuità, tutti gli enti: proprio l'identità delle cause che
regolano le trasformazioni naturali fa dell'universo un'unica comunità dove tutti
gli enti, viventi e no, coesistono allo stesso titolo, e dove tutti gli enti
partecipano sia degli aspetti divini o eterni (le radici, Amicizia e Contesa)
sia degli aspetti (apparentemente) transeunti (i fenomeni): 114 Cfr. Ippolito,
ref. VII 31 pag. 261, come recita l'edizione | P resocratici, cit, pag. 415, in
cui è contenuto il riferimento. similmente, nella prospettiva che abbiamo
adottato, M. - nella sua tesi - allarga la sua dicotomia Persuasione-Rettorica
a tutto il mondo delle cose che esistono: il sasso, l'idrogeno e il cloro'',
etc., vivono in una condizione rettorica ed aspirano ad una condizione persuasa
non meno che l'uomo. Ora, avviandoci alla conclusione di questo complesso
confronto, assicuriamo che, ovviamente, non c'è in noi l'intenzione di adagiare
la prospettiva M.iana su una matrice di ingenuo "naturalismo
dinamico": tuttavia, ribadiamo che questa è altresì una sfaccettatura non
secondaria, per quanto interpolata, della sua Weltanschauung, almeno stando al
suo lavoro accademico (già meno nel Dialogo, praticamente assente nelle Poesie
e nelle lettere). E con Empedocle egli ha più che punti di contatto: ha punti
di incontro. Nei presupposti: il filosofo d'Agrigento, al pari del Goriziano, è
ben conscio che le cose che si appresta a dire «non sono vedute né udite dagli
uomini né abbracciate con la mente» [fr. 1, vv. 6-8; si tenga a mente l'esordio
della Persuasione]. E punti d'incontro non meno, anzi soprattutto,
nell'aspirazione finale: ch'è quella, in Empedocle, di uomini che tra gli immortali
abitando e mangiando delle angosce umane non [saranno] più partecipi, [bensì]
indistruttibili [fr. 147]; di uomini «digiuni di colpa » [fr. 144], che
aborriranno infine «l'intollerabile Ananke» [cfr. fr. 116] e che infine
abiteranno di nuovo un mondo in cui: [... ]erano tutti mansueti e benigni nei
confronti degli uomini fiere ed uccelli, e la benevolenza brillava [fr. 130]
Ovvero, tradotto in linguaggio M.iano, di uomini che abbiano raggiunto la vera
consistenza, assisi allo stesso banchetto al pari degli immortali [gli uomini
che si danno da sé la salvezza = gli dèi], in un mondo in cui il rapporto tra
gli enti sia quello di un reciproco donarsi, spontaneamente (e si ricordi il
valore dell'u/tro). Volendo davvero concludere, un appunto che giunge /ast but
not least è singolare come, a fronte di tutto questo, in Empedocle sia
individuata, già dai suoi contemporanei, la nascita, anche se non ufficiale,
della téchne retorica: suo allievo sarebbe stato addirittura uno dei sofisti
più ferrati e temuti, Gorgia. Allo stesso modo, nota già da subito M., la
lezione persuasa di Socrate produrrà cattivi discepoli: Platone e soprattutto
Aristotele. Ma la questione del "cattivo apostolato" - strano e
triste destino della Persuasione - sarà affrontata in modo più opportuno e
approfondito nel paragrafo dedicato all' «educazione corruttrice» nella nostra
analisi del sistema rettorico. 4d) La Persuasione "al bivio":
l'incontro di Parmenide e Cristo. La dottrina assomiglia a due strade. Una
attraversa un grande fuoco, l'altra attraversa un grande gelo. Come
comportarsi? Si scelga la via di mezzo se si vuole sopravvivere. Proverbio
cinese. La Persuasione, negli uomini''5, è una verità, una testimonianza
trasversale: attraversa la storia dell'umanità, rapprendendosi in individui non
incasellabili in specifiche categorie storiografiche, la cui discriminante non
è il tempo, la collocazione geografica o il credo religioso e filosofico e
politico. La Persuasione, pur nella sua saldezza e nell'espressione cristallina
e insieme inafferrabile del suo contenuto, pur nell'attimo ineffabile che la
"17 Il vir è sostanzia, percorre il tempo e il mondo degli uomini, ad esso
"si adatta Qohelet: vive, o sopravvive, nella comunità rettorica in un
drammatico (ma il dramma è l'agire, c'insegna l'etimologia greca) stato di
emulsione!', mentre aspira alla comunità vera, alla agathon philia.
Quest'ultima si realizza con la rottura dei labili, ovvero falsamente saldi e
sicuri, legami della Rettorica, nella costruzione di legami nuovi, più profondi
ed autentici: il vir è venuto infatti a «separare il figlio dal padre, la
figlia dalla madre, la nuora dalla suocera» [Matteo 10, 35]!!°. Il suo
"adattamento", dunque, non è compromesso: la Persuasione è
intransigente, severa, anche se talora più con se stessa, che con gli altri
uomini. Essa dice al suo vir (il vir dice a se stesso): «Chi non è con me è
contro di me, e chi non raccoglie con me disperde» [Matteo 12, 30]. Non ammette
repliche, non ammette cedimenti o dialettiche. Non concede appelli o ripensamenti.
Il Persuaso non tentenna: è forte come la roccia, risoluto come un dio. La sua
forza non è violenza, il suo coraggio non è temerarietà: il suo messaggio è di
amore, ma il suo amore non è rassegnazione o condiscendenza al male; il suo
amore conosce lo sdegno, è capace di ira, perché è sentimento dirompente, è un
sentimento che spezza: il 115 Cfr. PR 13-14; l'idrogeno e il cloro "si
suicidano" nell'acido cloridrico, scorgendo nella valenza l'immagine
(inautentica) della loro reciproca persuasione. 116 La specificazione, a questo
punto, è d'obbligo: infatti finora, nel capitolo, abbiamo inteso la Persuasione
(e la Rettorica) come matrice strutturale dell'intero universo: in questo
paragrafo, il discorso s'incentra nuovamente sugli uomini, ovvero, sul problema
dell'uomo, nella misura in cui l'uomo è (o quantomeno, dovrebbe essere)
quell'ente che - dato il suo orizzonte di consapevolezza e comprensione - si
"apre" già sempre (o meglio, dovrebbe guadagnarsi già sempre), per
una via privilegiata, l'accesso all' "essere persuaso". 17 Ma sul
senso di questo adattamento, che non consente malleabilità ma che invoca la
"durezza", cfr. la nostra integrazione sulla "variante
flessibile" (leopardiana) della Persuasione. 18 Un termine "tecnico",
mutuato dall'ambito chimico-fisico, ci aiuta a rendere più chiaro il concetto:
come è noto, ‘emulsione indica la mescolanza di due liquidi non solubili tra
loro, uno dei quali è disperso nell'altro sottoforma di minutissime gocce [definizione
del diz. Garzanti] 19 Nel'affrontare questo punto, assumiamo ad esempio
assoluto di Persuasione il Cristo, il vir per antonomasia, secondo le
conclusioni dello stesso M.. Per le citazioni che seguono, privilegiamo la
fonte del Vangelo di Matteo, data l'importanza che tale Vangelo assunse, come
visto, nell' "îÎmmaginario persuaso" del Goriziano. vir scaccia i
mercanti dal tempio, perché il tempio è divenuto una «spelonca di ladri»
[Matteo 21,13]. Egli dimostra zelo per il tempio, per la propria casa: quello
zelo lo divora [Giovanni 2,17]. «Ma egli parlava del tempio del suo corpo»
[Giovanni 2,21]. Il vir si mantiene puro per il sacrificio di se stesso, perché
il sacrificio acquisti più forza e significato. Fino a quel momento, la sua è
«un'intenzione morale in lotta». Infatti, il suo grido, seppur non di vendetta,
è tuttavia un appello alla lotta, a non cedere: «Non crediate che io sia venuto
a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare la pace, ma una spada»
[Matteo 10, 34], dice il vir. Il Cristo - il Persuaso'” - dunque, ci pone dinanzi
ad una perentoria dicotomia esistenziale: una ed una sola è la via della
Persuasione; tutto il resto appartiene alla Rettorica. Tertium non datur. La
soluzione che ci suggerisce il proverbio cinese di cui sopra (di «Scegliere la
via di mezzo se si vuole sopravvivere») non è messa in minimo conto: è valutata
come situazione di compromesso, di malafede. C'è una sorta di ostinata coerenza
che accompagna la Persuasione, dall'inizio alla fine della sua testimonianza.
Ora, è proprio su questa comune terra di confine che M. allestisce l'originale
incontro di Cristo con Parmenide: in modo significativo, il vertice (o uno dei
vertici) della genuina speculazione greca si sposa col vertice della più grande
testimonianza della Persuasione in assoluto, nella comune forza e perentorietà
del loro autaut'’’. E' solo il caso di accennare che, anche qui, come sempre,
siamo in presenza di una "lettura forzata" condotta dal Goriziano sul
filosofo di Elea: per la sua comprensione, noi siamo costretti a seguire questa
eterodossia. L'impressione che ne ricaviamo è che M. "corregga" (se
ci è lecito esprimerci così) l'assunto parmenideo in direzione cristiana, anzi
cristologica, ovvero etico-esistenziale; e che, viceversa, corrobori l'ipostasi
cristologica con apporti del "metodo" parmenideo, ovvero assicurando
a quell'ipostasi una "piattaforma" logico-ontologica. Il testo
parmenideo (dunque particolarmente caro a M., come testimoniano le citazioni
che ne trae, non solo numerose, ma anche cruciali) esordisce con la narrazione
di un viaggio compiuto attraverso la «via del dio»: ogni contorno fisico sfuma
però subito nell'allegoria: l'Eleate è scortato dalle figlie del Sole e
condotto al cospetto della dea Giustizia, l'Immutabile Legge del cosmo, la
verità che si svela. E' proprio la Giustizia che, «benevolmente », rivolge la
parola a Parmenide: O giovane, [...] 120 Cfr. la diapositiva E [Volto di Cristo
e Schizzi di alberi] nel supporto iconografico. 121 Per una sorta di
automatismo mentale, si tende ad associare l'aut-aut M.iano all'omologo conio
kierkegaardiano: ma è solo una questione, come dire, "sinonimica":
l'aut-aut del filosofo danese non è indicativo di una scelta (essendo la vera
scelta quella della fede), non è neanche, a ben vedere, un "o-o": a
rigore è un "né-né": né vita estetica, né vita etica. In Kierkegaard,
tertium datur. Il terzo termine è, appunto, la vita nella fede. salute a te!
Non è un potere maligno quello che ti ha condotto per questa via (perché in
verità è fuori del cammino degli uomini) ma un divino comando e la giustizia.
Bisogni che tu impari a conoscere ogni cosa sia l'animo inconcusso della ben
rotonda Verità [alethéie] sia le opinioni [dóxai] dei mortali, nelle quali non
risiede legittima credibilità. [B 1 v 24 e vv. 26-30]. Dunque, in modo
rigoroso, ci sono due e solo due "vie", ovvero possibilità, aperte
all'esistenza e al pensiero; il filosofo "venerando e terribile" le
presenta come rivelazione di una dea, da ritenersi quindi espressione
adamantina e necessaria della verità: l'una consistente nel pensare ciò «che è
[estin] e che non è possibile che non sia», l'altra consistente nel pensare ciò
«che non è [ouk estin] e che è necessario che non sia»; e appena dopo aggiunge,
sempre per bocca della dea, che la prima via è quella conforme a verità, della
quale dunque si deve essere persuasi [«è il sentiero della Persuasione»],
mentre la seconda è impercorribile, perché «il non essere» [to me eon] non può
essere né pensato né detto [cfr. frammento B 2 passim]. Quest'ultima è
«impensabile e inesprimibile (infatti non è la via vera)», «l'altra invece
esiste ed è la via reale» [cfr. frammento B 8 vv. 21-22]. Ora, quello che
c'interessa non è tanto indagare l'ontologia rigorosa che segue simili
affermazioni: ovvero, le caratteristiche del "ciò che è" (l'eternità,
la finitezza come perfezione, l'omogeneità, il vincolo cui è costretto dalla
Necessità...) sussunte nella nota immagine della Sfera; anche se sarebbe
istruttivo individuare - ma non è neanche molto difficile farlo - certune
ispirazioni che il filosofo goriziano mutua dall'essere parmenideo per la
definizione del suo "solido" peve’. Quel che ci interessa, piuttosto,
è vedere il legame che viene ad intrecciarsi tra Persuasione e Verità, nel
senso genuinamente greco del termine, tradito nella traduzione posteriore (ad
esempio, già in Cicerone). Heidegger (e forse prima di lui Ortega y Gasset
nelle Meditaciones del Quijote) ci ha insegnato che, in proposito, bisogna far
ricorso ancora una volta all'etimologia per giungere al cuore della questione:
infatti, il termine greco sembra derivare da /anthano che vuol dire
"coprire". Da /anthano proviene Lete, che è il fiume della
dimenticanza, il fiume che copre. Alètheia, con l'alpha privativo, è il
contrario di ciò che si copre: il "non-nascondimento", il
"dis-velamento"'8. Ma in cosa consiste quel "velamento",
che cos'è quell'oblio? Per M. - ed è qui il senso della lettura forzata ch'egli
fa di Parmenide - esso coincide col mondo della Rettorica. La seconda parte
della sua tesi di laurea - la pars destruens - è interamente dedicata appunto
alla "de-costruzione" dell'inganno rettorico, allo smascheramento del
suo dispositivo: la Persuasione si porrà, in quelle pagine, innanzitutto come
"dissuasione" 122 Da confrontare, ad esempio, le affinità tra espressioni
che connotano il dio-Persuaso di M. e i sémata dell'Essere di Parmenide nel
frammento B 7 vv. 7-10 soprattutto. 123 In questo senso, è anche possibile che,
ad un orecchio greco, oltre che al "nascondimento", la verità si
opponesse all' "oblio": così, si spiegherebbe il legame della Verità
con il carattere rivelativo della memoria Imnemosyne], tipico del pensiero
arcaico greco, faro principe d'illuminazione per il Nostro. (il valore
dell'alpha privativo), come verità negativa, o meglio, che si evince dalla
negazione dialettica e puntuale della Rettorica, negazione giocata nel concreto
della vita e del mondo‘. Eppure, l'interpretazione M.iana di Parmenide non è,
poi, del tutto gratuita o fuori luogo: a ben vedere, lo stesso Eleate autorizza
lo slittamento del discorso in prospettiva etica: in lui, l'opposizione tra
"essere" e "non essere" (ovvero tra ragione e sensibilità)
è così radicale che su di essa egli fonda la distinzione tra due tipi di uomini
- appunto, quelli che seguono la ragione e quelli che si fermano ai sensi: il
frammento B 6 ne è prova palese; gli uomini rettorici - ci dice M. -
assomigliano molto da vicino alla «gente dalla doppia testa» stigmatizzata da
Parmenide: uomini che [... ] vengono trascinati insieme sordi e ciechi,
istupiditi, gente che non sa decidersi, da cui l'essere e il non essere sono
ritenuti identici e non identici, per cui di tutte le cose reversibile è il
cammino. [B 6, vv. 7-10 J15. Lo slittamento di cui sopra viene sostanziato con
l'opportuno innesto della lezione evangelica: la dicotomia essere/non-essere si
svincola dalla strettoia ontologica per ampliarsi nell'apertura etica, secondo
la testimonianza del Cristo: le due vie annunciate da Parmenide divengono
esclusivamente, o prima di tutto, alternative esistenziali: l'accesso ad esse
si avrà attraverso le due porte indicate dal vir: 124 Questo aspetto è stato
colto solo in parte da buona parte della critica, e qualora lo sia stato, è
stato a nostro parere non esattamente interpretato: Maria Adelaide Raschini,
che rappresenta l'approccio della critica cattolica al Nostro, ne desume ad
esempio una sorta di «antropologia teologica negativa» (o addirittura «teologia
antropologica», per cui vd. oltre) bic, in M. A. M., La disperata devozione,
ed. Cappelli, 1988, pag. 138], facendo del Goriziano un redivivo
Pseudo-Dionigi. L'appunto, dicevamo, per noi non è corretto: M., come stiamo
tentando di dimostrare nella nostra analisi, non appronta una
"definizione" per viam negationis della Persuasione: tutt'altro, ed è
qui proprio la sua (e la nostra) difficoltà. E' altrettanto vero, comunque, che
la "monadologia persuasa" del filosofo goriziano acquista più senso e
più nitidezza nello scontro, nell'agonismo con la Rettorica, perché si cala dal
piano astratto a quello esistenziale. E' bene ribadire, anche se in nota,
questa nostra posizione, e proprio in contrasto con le conclusioni della
studiosa su citata: la Raschini, infatti, coerentemente alla sua impostazione,
compendia e sottolinea che «l'uomo della persuasione si afferma del tutto
negativamente, attraverso la pura negazione di tutto ciò che è finito.
Rifiutato il mondo, nessuna categoria mondana gli vale più, vuole per sé la
dimensione teologica; tuttavia, avendo respinto, di questa, il contenuto di
verità, la dimensione teologica si trasforma per lui nell'atto assoluto del
negare: teologia antropologica costruita per negazioni, nella quale l'esigenza
mistico-panteistica viene soddisfatta dal puro e assoluto atto del negare».
[ib. pag. 125; corsivi dell'autrice]. Come si può vedere, ci troviamo agli
antipodi: per noi, il momento della negazione in M. non è assoluto, ma
funzionale (ovvero, condizione mediatrice, e non conclusiva) all'affermazione
positiva dell'ipostasi persuasa; un'ipostasi che non nega, pregiudizialmente,
ogni "finito", ogni "categoria mondana" in toto, ma solo
quelle attinenti alla falsità ed al dominio rettorici: in questo non c'è alcuna
aspirazione teologica, ultramondana, o peggio anti-mondana, come sembra
trasparire dai giudizi della studiosa cattolica; tutt'altro: se il vir nega il
mondo rettorico (la precisazione è sempre d'obbligo), lo fa in funzione di
un'apocatastasi del mondo umano stesso in una società "globale"
(diremmo oggi) persuasa, di cui l'amore e l'armonia riusciranno ad essere le
sole leggi. E' questa la potenza, e l'utopia positiva e
"programmatica", del messaggio M.iano, come stiamo affermando -
sempre, e con insistenza - nel corso del nostro lavoro. 125 Versi importanti
che il Goriziano, non a caso, pone ad epigrafe del Il capitolo del suo lavoro
accademico: L'illusione della Persuasione [PR 11]. Chi cerca trova e a chi
bussa sarà aperto... Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e
spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che entrano
per essa; quanto stretta invece è la porta e angusta la via che conduce alla
vita, e quanto pochi sono quelli che la trovano [Gesù, nel Vangelo di Matteo
7,1-14]. L'inclusione degli uomini nella agathon philia, nella ekklesìa
persuasa, avverrà attraverso l'accesso non privilegiato della «porta stretta»,
il che vuol dire che comporterà una tempra ed un sacrificio
"sovraumani", cioè al limite delle possibilità dell'uomo: l'uomo
nuovo dovrà rinunciare alla sua condizione sicura, dovrà rimettere in
discussione ed esporre al rischio la propria "stabilità" quotidiana,
per aprirsi alla dimensione autentica, all' "attimo carismatico"
della Persuasione. Come vir, l'uomo nuovo vive la sua vita in profonda
relazione con la Persuasione, già immerso nell’eternità che trascende il tempo
nell'attimo della «vita che non si nega», eppure accetta contemporaneamente di
indugiare nel tempo del mondo, nella storia, nella carne, per condividere la
vita degli uomini, per soffrire e "risorgere" con loro, per essere
testimonianza. Nel momento in cui il Persuaso si emancipa dalla sua condizione
umana (rettorica), egli realizza la sua condizione umana autentica, la sua
entelechia come uomo: la Persuasione è, a dispetto di quanto si sia disposti a
credere, la condizione totale dell'uomo, la realizzazione completa e assoluta
delle sue possibilità in atto. «Non ti meravigliare se t'ho detto: dovete
nascere di nuovo. Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di
dove viene e dove va: così è di chiunque è nato dallo Spirito» [Gv 3,7-8]. Il
fatto paradossale è che per conquistare questa sua autenticità in atto,
espressione piena ed estrema delle proprie potenzialità, l'uomo deve
attraversare il golgota che conduce sulla, o che coincide nella, via della
Persuasione '?9. Già solo da questo punto di vista, dunque, già solo nel suo
accostamento a Parmenide, la proposta di M. dovrebbe essere costantemente
ammirata come esempio di un pensiero così rigoroso e coraggioso da non fermarsi
neanche di fronte alle affermazioni più "assurde" e contrarie
all'esperienza, neanche di fronte al confronto con i "grandi". In
effetti, l'apporto parmenideo, nella prospettiva del Nostro, non si fermerà
alla considerazione di una possibilità esistenziale vera, e non filistea, o
rettorica; le intuizioni del filosofo di Elea, svolte con lucida logica
deduttiva a partire dal paradosso dell'Essere che soltanto ha diritto di
essere, coinvolgeranno anche la componente linguistica e
"scientifica" che pregiudica un corretto accesso alla Verità: per
Parmenide il linguaggio e la scienza (entrambi strumenti della doxa) degli
uomini «dalla doppia testa» ne 126 L'eccessivo ricorso al dettato
neotestamentario e il tono "ispirato" di certe nostre espressioni
rischierebbero di denunciare un appiattimento della Persuasione sull'esperienza
cristiana: per scongiurare un simile equivoco EQUIVOCO GRICE, e per ristabilire
un certo equilibrio, riteniamo opportuno ricordare che per M. il vir mantiene
una sua forte, assoluta valenza autonoma, non riconducibile affatto alla
testimonianza del Cristo come figlio di Dio: certo, utilizzare la vita e la
parola di Gesù, ci aiuta - a mo' di scorciatoia e secondo indicazioni dello
stesso filosofo - a diradare la complessità della dimensione persuasa; ma si
tenga sempre a mente il ribaltamento di prospettiva (laica, o - azzardiamo - ebraica)
con cui egli si pone di fronte alla sua preferita prosopopea del vir: per dirla
in parole davvero semplici, il Cristo - quel Cristo "monofisita" che
ricordava Campailla - è soltanto uno della schiera dei Persuasi. E, non per
nulla, condivide la sua condizione con un Parmenide o un Empedocle, giusto per
accennare ai filosofi appena trattati.rappresentano la via artefatta e
deleteria, «il sentiero della notte», la scorciatoia che pretende di assegnare
valore alle cose e agli uomini con la vana sostanza dei nomi, delle
convenzionali parole poste dagli uomini stessi, immagini di concetti, e dunque
copia di copia. La scorciatoia che prende in prestito la genuina aspirazione
della Persuasione: quella di vedere le cose, benché lontane, [...] col pensiero
saldamente presenti [cfr. fr. B 4, v.1] e la vanifica, perché la risolve in un
presente che non è l'attimo del vir, ma l'hic et nunc della storia, dove le
cose - sottratte con la violenza al loro "luogo naturale", alla loro
condizione persuasa - sopravvivono nelle ipostasi rettoriche di ma falsa
consistenza, nelle maglie di relazioni logiche e linguistiche che garantiscono
solo una corrotta permanenza, un'illusione di permanenza e autonomia. Le cose,
e gli stessi uomini, divengono - direbbe Heidegger - semplice-presenza, oggetti
a portata di mano [vorhanden]. Una situazione di hybris, determinata da una
sacrilega immissione della temporalità e della alterità nella perfezione
sferica dell'Essere, hybris per la quale l'essere [è distaccato] dalla sua
connessione con l'essere [cfr. fr. B 4, v. 2] che per Parmenide è peggio di una
bestemmia. M. svilupperà con fedeltà e coerenza queste indicazioni dell'Eleate:
anche per lui il linguaggio e la scienza (col suo braccio armato, la tecnica)
rappresenteranno le estreme conseguenze del feticismo rettorico per la falsa
permanenza della "cosa" e del "fatto", in un'oggettività
che esercita violenza, perché strumentale e appunto "tecnica". La
loro [i.e. degli uomini rettorici] memoria è fatta di [...] cumuli di
disposizioni che aspettano le forme consuete per riconoscerle; ed essi
riferendovisi con parole non le comunicano, non le esprimono ma le significano
agli altri così da bastare agli usi della vita. Come uno muove una leva o preme
un bottone d'un meccanismo per aver date reazioni, che le conosce per le loro
manifestazioni, per ciò che d'indispensabile gli offrono, ma non sa come
procedono, ma non le sa creare - egli vi si riferisce soltanto con quel segno
convenuto. Così fa l'uomo nella società: il segno convenuto egli lo trova nella
tastiera preparata come una nota sul piano. E i segni convenuti si congiungono
in modi convenuti, in complessi fatti. Sul piano egli suona non la sua melodia
- ma le frasi prescritte dagli altri. - [PR 112; corsivi di M.] Ma la vera
funzione organica della società è l'officina dei valori assoluti, la fornitrice
dei 'luoghi speciali' e ‘comuni’: la scienza. Che con l' 'oggettività' che
implica la rinuncia totale dell'individualità, prende i valori dei sensi, o i
dati statistici dei bisogni materiali come ultimi valori, e fornisce alla
società col suggello della saggezza assoluta ciò che per la sua vita le è
utile: macchine, e teorie d'ogni genere e per ogni uso - d'acciaio, di carta,
di parole. [PR 125; corsivi di M.] Ma approfondiremo la questione a tempo
debito, nel capitolo dedicato alla Rettorica. Qui, quel che ci preme
evidenziare è che è proprio il suddetto nesso vicinanza-lontananza [quello del
frammento B 4] a contessere la trama e l'ordito del lavoro accademico del
Goriziano: quel nesso sembra davvero assurgere a pietra limite del corretto
rapporto delvir con se stesso e con il mondo e il filosofo individua in esso il
perno intorno al quale ruota tutta la sua visione persuasa. L'homo, infatti,
sfalsa la giusta prospettiva tra vicinanza e lontananza del/dal vero, alla
stregua di un binocolo rovesciato: ritiene di allontanare la morte, che sempre
gli è vicina; ritiene di avvicinare le cose, di averle a portata di mano, dando
loro una valenza, una strumentalità che invece è lontana dal loro giusto
valore. La prospettiva distorta dell'ilusoria persuasione ci crea un presente
che è un gigante coi piedi di argilla, dato che si frantuma sotto l'incessante,
sempre incombente premere della deficienza, la quale ci differisce puntualmente
il riposo della (falsa) persuasione, finta nell'appagamento del desiderio di
continuare la vita. Perché non possediamo mai la nostra vita, l'aspettiamo dal
futuro, la cerchiamo dalle cose che ci sono care perché ‘contengono per noi il
futuro', per essere anche in futuro vuoti in ogni presente e volgerci ancora
avidamente alle cose care per soddisfar la fame insaziabile e mancare sempre di
tutto. [D 39] L'uomo rettorico, così facendo, ovvero [...] mancando di sé
stesso nel presente egli si vuole nel futuro - questo egli non può che per la
via delle singole determinazioni organizzate a farlo continuar a voler così
anche nel futuro. Egli si gira per la via dei singoli bisogni e sfugge sempre a
sé stesso. Egli non può possedere sé stesso, aver la ragione di sé, quanto è
necessitato ad attribuir valore alla propria persona determinata nelle cose, e
alle cose delle quali abbisogna per continuare. Ché da queste è via via
distratto nel tempo. - Il suo avvenire alla vita mortale: il suo nascere è
nella altrui volontà; il pernio [sic]intorno cui si gira gli è dato, e date gli
sono le cose ch'ei dice sue. [PR 20] Questa condizione differita il dominus se
la fa scivolare addosso, mentre essa coglie drammaticamente di sorpresa l'homo.
La tecnica retorica preferita dal dominus è la preterizione, perché egli simula
una persuasione che non ha, una lontananza che non ha attinto: in questo, egli
dimostra di avere una «previsione più organizzata a una più vasta vita», ed è
in ciò la sua forza; la debolezza dell'homo è invece nella sua disperata,
vulnerabile, contingente "inesperienza" esistenziale. Ragion per cui,
l'homo si adatterà a strumento passivo di violenza, mentre il dominus si
arrogherà il ruolo di strumento attivo. L'homo, l'«uomo ammaestrato », «è
ridotto a non uscir dal punto colla sua realtà, il suo modo diretto è il segno
d'una data vicina relazione: simile all'uomo che sogna [...] s'avvicina alle
cose lontane per vedere» [PR 113]. Ma egli viene a trovarsi «come il tiratore
inesperto accanto al cacciatore [nella metafora, il dominus]»: [...] è il
debole che vuole affermarsi là dove il forte s'afferma. Ché questi ha la
vicinanza dell'animale lontano nella sua mano e nel suo occhio sicuro; quello
vede l'animale in una lontananza che come non è finita pel suo occhio è
xrtopocperla sua mano: egli ha negli occhi un'incertezza di punti, nella
mano... l'arma. Nella coscienza più vasta la stessa cosa è più reale, poiché
riflette quella vita più vasta. Questa lha di più poiché nella sua affermazione
ci sono i modi della previsione più organizzata a una più vasta vita,
sufficiente a eliminare maggior vastità di contingenze, che ha certa, finita,
vicina nell'attimo una maggior lontananza. [PR 20-21] La stessa filosofia, o
ideologia (nell'accezione davvero larga del termine), sembra offrire il destro
al dominus, escogitare il pretesto di dominio, lo autorizza sostanziandolo di
sapere. La filosofia è la versione umanistica della scienza, è la sua
giustificazione "ideale": questa ci avvicina (falsamente) le cose
attraverso l'esperimento, ci fornisce l'illusione di possederle entro i dettami
razionali della formula; quella ci avvicina (altrettanto falsamente) le cose
"sublimandone" il valore in concetto, il concetto in idea, l'idea in
parola. In questo senso, per M., Platone (il Platone oramai sganciato da
Socrate, il Platone del Fedro, della Repubblica e delle Leggi) è davvero il
padre di tutti i domini, per giunta scalzato da uno ancor più forte,
Aristotele. Quanto il Goriziano scrive a proposito ha una sua innegabile forza
di contestazione e di "smascheramento": Ma la necessità per gli
uomini è appunto il muoversi: non bianco, non nero [come suggerisce l'aut-aut
parmenideo della Persuasione], ma grigio: sono e non sono, conoscono e non
conoscono: il pensiero diviene [la temporalità e la differenza irrompono e
trasgrediscono l'omousia dell'essere]. | dati per sé non sono niente, dicono
gli uomini: noi dobbiamo ora prenderli, considerarli sub specie aeterni,
contemplarli, e pensando andare verso la conoscenza. Il valore, la realtà è la
via: la macchina che muove i concetti: l'attività filosofica [PR 60-61]. Nella
Appendici critiche, l'attacco diviene ad personam, ovvero condotto - volendo
continuare l'espressione del Goriziano - contro il deus ex machina
dell'attività filosofica: Ma Platone ha bisogno d'aver dagli altri il segno
della propria persona, vuol esser per loro il sapiente sufficiente a ogni cosa,
e, se non può dare vicine le cose lontane, ma le cose vicine dice e le chiama
lontane - perché esse pur siano accette alla corta vista del comune degli uomini,
e insieme conservino il nome di cose lontane: di sapienza assoluta. E perciò i
nomi che questa sapienza costituiscono, e che rifulsero di tutta la loro luce
nella bocca del vero Socrate e del vero Parmenide, devono ora per la loro
stessa bocca scendere nel fango a dar bella apparenza all'oscurità [PR 176].
1277 commesso da Platone. Sarà il vira Sarà il vir a riscattare il «parricidio»
di Parmenide ristabilire il giusto equilibrio con le cose, a
"riaggiustare" la prospettiva dialettica di vicinanza-lontananza, a
reintegrare l'omousia, operando quella che già definimmo la sua personalissima
"rivoluzione copernicana" nei rapporti con le «altrui vite» delle
cose e degli uomini. Le cose saranno davvero vicine al vir, vicina la stessa
morte, nella loro accezione autentica, nel loro valore in atto: il Persuaso
ridona valore al mondo, sospende la «relazione sufficiente» con le cose e le
sostituisce un rapporto di comunione in atto, che si realizzerà in un reciproco
donarsi ultro: le cose, potremmo dire, si "ammansiscono"; avendo
riconquistato il luogo naturale che loro compete, acquisteranno nuovo, vero
"sapore". Esse «non ci avranno» più, noi non c'illuderemo più di
averle, l'avere stesso sarà bandito, perché espressione di coartazione: gli uomini
e le cose coopereranno al senso persuaso del nuovo mondo, e la legge sarà
quella che gli uomini, anche oggi, chiamano 127 Cfr. Sofista, 241 d3. C.
Mazzarelli - curatore del dialogo in Platone, tutte le opere, cit. - fa notare
che «la ferita mortale al Parmenidismo è inferta dallo straniero di Elea, uno
dei figli spirituali di Parmenide». Notiamo noi che Platone si è riservato il
pudore di non metterla in bocca a se stesso o a Socrate. («illudendosi
d'averli») amore, o armonia. E così l'essere, per riprendere le espressioni di
Parmenide e di Empedocle, si «ricucirà» all'essere, «il simile col simile»,
«con legami d'amore connettendoli Afrodite » [Empedocle, fr. 87]'”. Scrive M.:
Ma (ancora una volta e mille volte!) soltanto se questa vastità di vita viva
tutta attualmente, saranno vicine le cose lontane. Soltanto se essa chieda nel
presente la persuasione, essa potrà reagire in ogni presente con una sapienza
così squisita, ed enunciando il sapore che le cose hanno per lei, costituire la
presenza d'un mondo che poi gli uomini dicano sapere o arte o sogno o profezia
o pazzia a piacer loro [PR 169]. Così, «l'uomo libero gode dell'altrui vita -
poiché tutte [le cose, le vite] egli vede e conosce e ama non per quanto gli
siano utili ma per loro stesse» [D 90]. Il Persuaso avrà «la gioia
dell'esistenza in mezzo a 128 Non a caso abbiamo indugiato sull'analisi di
Empedocle e Parmenide, secondo l'ottica del filosofo goriziano (ci dispenseremo
dall'accordare analoga attenzione ad Eraclito, dato che egli sostanzialmente
condivide con gli altri due, da questo punto di vista, il senso fondamentale
del suo messaggio, che M. fa proprio). Molta critica, infatti, si ostina a
semplificare l'assunto del giovane tesista su posizioni schopenhaueriane o
leopardiane: le pagine di M. si presenterebbero come una parafrasi, per quanto
originale, di motivi analoghi riscontrabili nell'autore del Mondo come volontà
e rappresentazione e del poeta-filosofo recanatese (soprattutto per quanto
riguarda i Pensieri e lo Zibaldone). Ora, non vogliamo certamente negare
l'evidente influenza di queste due ispirazioni (M. lesse di sicuro Schopenhauer
e rilesse e annotò più volte i Canti di Leopardi), come non vogliamo negare il
ripetersi dei motivi conduttori tra i tre autori: la deficienza con la Volontà
(a partire dall'esempio del peso che troverebbe un esempio "siamese"
nel Mondo); la polemica antirettorica con la polemica antilluministica e
antiborghese di Leopardi nelle Operette o nella Ginestra, tanto per far
citazioni ovvie; le medesime riflessioni sulla natura illusoria de piacere,
così tipicamente umana; la conseguente (analoga) concezione della vita come
«pendolo che oscilla tra dolore e noia»; una certa, affine, disperazione
esistenziale in concreto (soprattutto col giovane Leopardi); e via dicendo. E'
de tutto palese che M. provi "simpatia" per questi due filosofi;
altrettanto palesi ne sono i motivi. Tuttavia, per noi, la questione è più
complessa. Cerchiamo di spiegarci: l'orizzonte entro il quale si muove la
riflessione di M. è innanzitutto l'orizzonte greco: la sua riflessione nasce
dalla lettura e dalla intensa meditazione degli autori tragici e presocratici,
e anche di Platone e di Aristotele. M. non solo scrive, ma pensa grecamente. |
punto di partenza è la grecità: in Leopardi e Schopenhauer (nel loro
"pessimismo") egli avrebbe trovato piuttosto un confortante e
corroborante riscontro contemporaneo di una verità che appartiene agli albori
della civiltà tragica, verità consegnata già alle beffarde e ammutolenti parole
del Sileno: «Stirpe misera e caduca, figlia del caso e della pena, perché mi
costringi a dirti ciò che è per te il meno profittevole a udire? Ciò che è per
te la cosa migliore di tutte, ti è affatto irraggiungibile: non essere nato,
non essere, essere niente. Ma, dopo questa, la cosa migliore per te è morir
subito». Ora, il senso del nostro appunto è il seguente: M. non parte dalle
riflessioni di Schopenhauer e di Leopardi, ma arriva ad esse attraverso la sua
consapevolezza greca (ovvero, tragica), si riscopre in esse - si incontra con
esse - sul comune terreno della grecità. E la grecità, nel nostro autore, come
nel Nietzsche della Nascita della tragedia, non è un referente culturale e
storiografico, non è un passato lontano e irrecuperabile: è un modus vivendi
sempre attuale e sempre attingibile. Il Greco, come il Cristo, è l'Uomo par
eccellence, il vir; il popolo greco non è (soltanto) il progenitore, ma
l'auspicabile rendez-vous dell'umanità occidentale, dell'umanità tutta:
Nietzsche conclude il suo capolavoro giovanile con parole di straordinaria
bellezza: « Beato popolo degli Elleni! Come deve essere grande tra voi Dioniso,
se il Dio di Delo reputa necessari tali incantesimi per guarirvi dalla vostra
follia ditirambica!' [...] - Ma un vecchio ateniese, guardando col sublime
occhio di Eschilo colui che così parlasse, potrebbe ribattere: 'Aggiungi però
anche questo tu, singolare straniero: quanto dovette soffrire questo popolo per
diventar così bello! Ora però seguimi alla tragedia e sacrifica con me nel
tempio delle due divinità' » [Nietzsche, Nascita della Tragedia, in Opere,
cit., pag. 187]. L'occhio di Eschilo diviene lo sguardo di M.: attraverso
quello sguardo il Goriziano valutò il mondo, ed accolse chiunque lo
accompagnasse sulla via della Persuasione. Anche Leopardi e Schopenhauer. 129
Facciamo notare che, secondo M.r, il ristabilimento della corretta prospettiva
lontananza-vicinanza è a suo modo anticipata, ma solo in modo molto vago e
inguenuo (come dire: solo per analogia), nell'esperienza artistica: «Una
facoltà potente di sogno è quella dell'artista che vede le cose lontane come
levicine, e perciò le può dare così ch'esse tutte le cose. Gli sono care non
solo le cose vicine e come possano soddisfare un bisogno ma tutte - egli sa
godere della luce del sole» [D 89-90]. Se l'uomo rettorico è «malato », perché
«ha perduto il sapore d'ogni cosa» [D 46], la salus del vir - la sua salute, la
sua... salvezza - al contrario, consisterà nel riassaporare una nuova dolcezza.
Perché la Persuasione, come rivela la sua variante etimologica latina, la più
bella e forse la più vera, è uno stato di dolcezza. Tuttavia, quella dolcezza
appare (apparve a Cristo, apparve a M., appare ad ogni vir) un miraggio, essa
stessa una condizione differita. Oggi la Rettorica domina, e il suo dominio è
sempre più forte e serrato, è sempre più nascosto e plausibile. Siamo ancora in
un periodo di esodo. La "pasqua" della liberazione è rimandata. Il
mio tempo non è ancora venuto; il vostro tempo invece è sempre pronto. Il mondo
non può odiare voi, ma odia me perché io testimonio di lui, che le sue opere
sono malvagie. Salite voi a questa festa, io non vi salgo ancora, perché il mio
tempo non è ancora compiuto. [Giov. 7, 6-8] Nel capitolo sulla Rettorica,
analizzeremo le radici di questo odio e l'incompiutezza di questo nostro tempo,
così come apparvero allo "sguardo eschileo"'*' del Goriziano.
appaiono nella loro reciproca relazione di vicine e di lontane» [PR 113]. Ma,
appunto, quello artistico è un sogno non meno illusorio e fallace del
"sogno" rettorico. 130 Persuasione > per + suav(itattem: condurre
(attra)verso la dolcezza. Già Aristotele, però, intese quella dolcezza come
escamotage retorico, come dolcezza di parole, per attrarre a sé l'uditorio, per
lusingarlo, ed assicurare una posizione vincente all'oratore. Siamo nel cuore
della Retorica aristotelica, per l'analisi della quale rimandiamo al seguito
del nostro lavoro. 131 Cfr. quanto da noi detto supra, in nota 120. Intermezzo.
Notò che essi collegavano le questioni scientifiche con quelle che riguardavano
l'anima, e a momenti pareva che toccassero il punto essenziale, cioè quello che
a lui pareva tale, ma subito se ne allontanavano e s'immergevano nel campo
delle distinzioni sottili, delle riserve, delle allusioni, delle citazioni, dei
richiami alle autorità, e allora gli riusciva a stento di capire il senso del
loro discorso. Considerazioni di Levin, in Anna Karenina La Persuasione non
soggiace ad alcun atto apprensivo, sfugge ad ogni concettualizzazione: è alla
disperata ricerca di una propria, peculiare, semantica, di un «linguaggio
rappresentativo» [Piovani] che ne dipani il velo di Maia. Condividiamo con M.
questa difficoltà, e con M. siamo giocoforza spinti ad una serie di riferimenti
prismatici ed aleatori, che chiamano in causa autori e dottrine, espressioni
artistiche e risonanze filosofiche, anche "alternative", che corrono
il pericolo di franare in pastiche, o quantomeno di mostrarsi quali fili
sospesi ed equivoci, difficilmente riassettabili in un nodo stretto e sicuro.
La cosa sconcertante è che questa situazione di stallo ha insita una sua
ineluttabilità. Socrate medesimo, uno dei vertici assoluti della Persuasione,
in fondo, non trovava risposta al suo ti estì, sciogliendola in un'aporia
esistenziale che trovava esclusivamente nella sacra finitudine dell'uomo la
propria soluzione. Allo stesso modo che per Socrate, tentare d'evincere dalla
scrittura magmatica di M. la definizione "esatta" della valenza del
suo essere persuasi varrebbe press'a poco quanto chiedere ad un credente di
rendere ragione della propria fede. Montale avrebbe risposto: «Non chiederci la
parola che squadri da ogni lato / l'animo nostro informe, e a lettere di fuoco
/ lo dichiari e risplenda come un croco / perduto in mezzo a un polveroso prato
». Eppure, proprio il riferimento alla fede (riferimento da assumere però con
molta cautela, ché può dar adito a pericolosi equivoci) può contribuire a
sostenere, almeno un poco, e seppure in un chiaroscuro di affinità e
divergenze, lo scandaglio ermeneutico che stiamo tentando; sotto questo
rispetto, ci appelliamo alla testimonianza di uno dei cristiani veramente
onesti che siano mai vissuti, Soren Kierkegaard!'*?. In effetti, non sarebbe
difficile riscontrare suggestivi punti di contatto tra il «cavaliere della
fede» e il vir innanzitutto, i due filosofi condividono la polemica contro
l'«individuo sognato da 132 E' assodato che M. non conobbe l'opera di
Kierkegaard, anche in virtù della tardiva diffusione e fortuna che essa ebbe in
Italia (e non solo), data la difficoltà della lingua. Non è improbabile,
tuttavia, che il giovane studioso abbia assimilat elementi o atmosfere kierkegaardiane
attraverso la mediazione e il filtro dell'opera teatrale di Ibsen. [Ma cfr.
anche S. Campailla, Pensiero e poesia..., cit., pagg. 30-31] Inoltre, si
noterà, nel seguito della nostra trattazione, in particolare nel capitlo
riguardante la Rettorica come specifiche "categorie" kierkegaardiane
- l'angoscia, la disperazione, la scelta, il salto e via dicendo - risulteranno
efficaci strumenti euristici nell'affrontare il complesso discorso della
Rettorica connaturata all'uomo. 133. imbastita in un noto Hegel» - tanto per
intenderci, quello della gustosa scenetta a tavola passaggio della Persuasione
[PR 89-91]: borghese che (notiamo en passant), forte della sua logica ferrea
della sicurezza e dello stato («la botte di ferro», dice il Goriziano), riesce
a controbattere punto per punto, da consumato sofista, le obiezioni, che M. gli
propina cercando invano di farne vacillare la speciosa logica rettorica
(invincibile se affrontata sul suo stesso campo d'azione). Ora, è risaputo
l'astio del filosofo danese contro il sistema hegeliano, tanto che non è
opportuno neanche soffermarcisi; analogamente, M. diagnostica la «copertura
ideologico-teoretica»'°* della società rettorico-borghese proprio nella
hegeliana dottrina dello Stato etico, che trova il suo corrispondente nella
copertura ideologico-giuridica, rappresentata dal Codice austriaco'*. Contro la
pretesa razionale, necessaria e totalizzante di Hegel, che risolveva
l'individuo nei vari momenti dello spirito oggettivo (l'eticità, la vita
politica, lo Stato), Kierkegaard fa valere la dialettica (che non è dialettica)
del paradosso, del singolo, dell'autaut che sfocia nello scandalo della fede;
similmente, all'«individuo cacanico»'°, M. oppone le ragioni del vir, altrettanto
"scandalose", agli occhi della comune ragione. Entrambi - il
cavaliere della fede e il vir - cercano la gioia della propria realizzazione
esistenziale, gioia che, ancora entrambi, sperimentano come paradosso, perché
l'assurdo è che «a felicità eterna di un uomo sia commensurabile con una
decisione presa nel tempo», come scrive Kierkegaard in un bel passaggio del suo
Diario. Costui, analogamente a M.,ascrive la possibilità di attingere quella
gioia ad un atto di coraggio, anche se per lui - ed è qui il discrimine
essenziale - quel coraggio è piuttosto il «coraggio della fede»: «Occorre [...]
un coraggio umile e paradossale per poter ora affermare tutta la realtà
temporale in virtù dell'assurdo e questo è il coraggio della fede», come
asserisce in Timore e tremore. Frase sottoscrivibile da M., anche se l'accenno
pregnante alla fede si mutuerebbe, senza ombra di dubbio, nell'asserzione di
autonomia persuasa, creando un piano parallelo e inconciliabile di valutazione
dell'esistenza umana, seppur accomunato dalla forte esigenza
"realizzativa" del singolo o del vir che sia. 133 Cfr. la diapositiva
N [La botte di ferro] nel supporto iconografico. 134 Cfr. A. Negri, Il
lavoro..., cit, pag. 26 135 In pagine importanti della sua tesi di laurea,
nella sezione dedicata alla Rettorica nella vita, il giovane filosofo fa
esplicito riferimento, in nota, alla Philosophie der Geschichte di Hegel, di
cui - ci avvisa - non tradurrà le citazioni, poiché dispera «di poter
riprodurre in italiano il loro ineffabile callopismatismo » [PR 92-93]; poche
pagine più avanti [cfr. 99], un altro riferimento esplicito, stavolta al codice
austriaco, che sancisce/garantisce (ma il condizionale sarebbe d'obbligo) che
«ogni uomo ha per natura diritti già da sé stessi evidenti alla ragione». Il
riferimento è, ovviamente, polemico, di una polemica che si sostanzia anche e
soprattutto nel richiamo reciproco, e non nascosto, tra il codice e i passi
hegeliani appunto citati nelle pagine appena precedenti. [ma per un'analisi più
approfondita, cfr. il nostro capitolo sulla Rettorica] 136 Cfr. A. Negri, Il
lavoro..., cit., pag. 16. 68 Ancora, il cavaliere della fede (Abramo) soffre
l'incomprensione della massa, perché vive un rapporto speciale con l'Assoluto:
appare come un assassino, mentre invece - a suo dire - egli compie soltanto un
sacrificio che gli viene richiesto da Dio. Il suo è, dunque, un dramma di
incomunicabilità, che condivide - ma solo apparentemente - col vir: infatti,
per entrambi, l'istanza realizzativa si risolve in una ricerca solitaria, l'uno
di Dio, l'altro della condizione persuasa. Tuttavia: analogia di presupposti,
ma differenza totale di esiti: al dialogo "monogamico" che apre il
singolo a Dio (gli fa dare a Dio del "Tu") ma che gli preclude
l'orizzonte "politico" («il segreto della vita è che ciascuno deve
cucire la sua propria camicia», recita una massima kierkegaardiana),
l'individuo persuaso - all'apice del suo percorso difficile sulla via della
Persuasione, ch'è l'entelechia etica - preferisce la relazione plurale. Il che
è come dire che lorizzonte etico e politico, la cui liceità vien prima messa in
discussione e quindi definitivamente annichilita dall'atto di fede, è invece il
presupposto essenziale dell'agire persuaso: l'eteronomia dell'assurdo comando
divino di uccidere Isacco viene condannato dal vir sia in quanto eteronomo, sia
in quanto (e soprattutto) lesivo della dignità, prima che della persona,
dell'altro. Certo, quando Kierkegaard scrive "morale" vuol far
intendere l'universale (il Generale) hegeliano: eppure, il sacrificio
dell'altro non ha attenuanti, per quanto l'amore che ci lega a quell'altro
possa superare noi stessi, e quindi valorizzare in maniera estrema quel
sacrificio. Insomma, a fronte della visione "veterotestamentaria" che
ancora avvolge l'assunto kierkegaardiano, e che lega il credente ad un
Dio-che-mette-alla-prova e pretende assoluta dedizione (il sacrificio di
Isacco) in un rapporto di insostenibile disperazione, M. aggiorna la propria
prospettiva - rendendola ancora più personale - in direzione neotestamentaria,
di un (Dio)Cristo incarnato che non chiede l'altrui sacrificio, ma sacrifica se
stesso, in un progetto di redenzione e perdono. Lo stato di grazia divina
raggiunta da Abramo, allora, perde di senso a confronto dello stato di
"grazia umana" di cui il vir è scrigno e portavoce. O, quantomeno, si
pone su un altro livello di senso: di qui la cautela annunciata.
Incomunicabilità, dunque. E' questa vicendevole «impenetrabilità degli
spiriti», come la chiamava Croce, questa impossibilità di completa osmosi o
"simpatia" razionale ed emotiva che sembra compromettere ogni
possibile ricerca (in senso ampio) condivisa, ogni comunicazione autentica ed
integrale con gli altri a riguardo delle proprie esperienze fondanti:
un'impenetrabilità che potrebbe facilmente degenerare in un'anarchia pericolosa
del pensiero e delle verità, ma che allo stesso tempo ci protegge, non ci rende
completamente esposti all'altro, e dunque vulnerabili. Una comoda corazza
rettorica, così avvolgente, così sicura, così esclusivamente nostra. Il
Persuaso avverte il bisogno di svincolarsi da quell'ingannevole egida, di
tentare un punto di incontro, di recuperare un orizzonte condivisibile, di
senso e di esistenza, perchsolo nella comunione con gli altri si realizza la
vera felicità, e non nelle zone di franchigia della Rettorica. La posta in
gioco è immensa: la scommessa è la trasposizione "urbana" e umana
della scommessa di Pascal, e addirittura più avvincente, perché più pericolosa,
essendo in gioco non la felicità in un'altra vita, presunta o vera che sia,
bensì la felicità nel mondo che abitiamo e nell'esistenza che conduciamo, ché
solo essa, qui e ora, ci appartiene '?”. La schiera dei Persuasi è tale perché
ha attinto questa verità: la loro forza è nell'aver mosso il primo passo verso
quell'incontro con gli altri, fondando quel loro atto nel sacrificio di sé, che
è più un donarsi che un sacrificarsi, un atto gratuito - presupposto
ineludibile - che non pretende di essere contraccambiato, perché conosce e
perdona la debolezza e la miseria degli uomini, e pur accorda loro la fiducia,
la persuasione appunto: «l'attività che non chiede è il beneficio, che fa non
per avere, ma facendo dà» [PR 42]. Scrive bene Eugenio Garin", a questo
proposito: «Il consistere [ovvero, la Persuasione] è veramente il salto oltre
il mondo della violenza, dell'asservimento, verso la vita vissuta non contro,
ma con gli altri e con le cose». 137 Forse questa allusione, velatamente
critica, al pari non rende giustizia alla portata autentica del tentativo di P
ascal: che è proprio quello di conquistare profondità e felicità all'esistenza
umana, nel mondo, seppur fondandola nell' "azzardo" trascendente
(cfr. il famoso pensiero 377, su quell'essere "nobile" ch'è l'uomo,
"canna che pensa" [P ascal, Pensieri a cura di P. Serini, Mondadori],
e lo si integri appunto con l'argomento della "scelta di Dio" [cfr.
pensiero 164 "Infinito, nulla", ib. pagg. 123 - 129]). «170.
Obiezione. Coloro che sperano nella loro salvezza sono per quest'aspetto
felici, ma, in cambio, soffrono per la paura dell'inferno. Risposta. Chi ha
maggior motivo di temere l'inferno: chi ignora se ci sia un inferno e vive
nella certezza della dannazione, se c'è, oppure chi vive nella sicura
convinzione che c'è un inferno e, se questo esiste, nella speranza di salvarsi?
» [ib. pagg. 130-131] Diversamente, la Rettorica della fede (nelle posizioni e
nelle istituzioni che ha assunto) ha sempre e volentieri strumentalizzato
l'argomento della "scommessa" come alibi di una promessa o di una
dannazione eterna; alibi volto - in questo gioco angoscioso - a svalutare la
componente "terrena" ed autonoma del credente, e funzionale ad una
migliore "gestibilità" dello stesso, in coerenza con la propria
logica di dominio delle coscienze e soprattutto dei corpi. 138 E, Garin,
Intellettuali italiani del XX secolo, Roma, Ed. Riuniti, 1974, pag. 98. 139 Due
spettri si aggirano nella critica M.iana, e rispondono ai nomi di Giorgio
Brianese ed Emanue Severino; quest'ultimo elogia la tesi del primo come «lo
studio migliore oggi esistente in Italia sulla filosofia di Carl M.». Brianese,
in un passaggio tanto preliminare quanto fondamentale della sua tesi, scrive: «M.
pensa una sola cosa: l'autenticità dell'esistenza, che egli connota come
esistenza "persuasa"; oltre la quale è la "rettorica", la
valenza inautentica dell'esistere, la quale va smascherata come una situazione
che bisogna oltrepassare. Nell'oltrepassamento della rettorica va rintracciato
l'unico dovere al quale l'uomo è indubbiamente chiamato. E tuttavia M. resta,
suo malgrado, prigioniero di quella che egli crede sia l'inoltrepassabile
polarità di persuasione e rettorica. Prigionia che discende, primariamente, dal
permanere tanto della persuasione come della rettorica all'interno della logica
del dominio e della violenza. Con l'unica differenza che la rettorica è inesa
da M. come quella modalità depotenziata della volontà che non sa conseguire
quello che vuole (sì che il suo possesso è, dal punto di vista della
persuasione, una mera illusione di possesso), mentre la persuasione è
quell'atto della volontà che mette in opera il massimo del dominio concreto
(anche se va chiarito sin d'ora che, nell'atto stesso in cui tenta questa
realizzazione, la persuasione attua pure l'annientamento dell'esistenza). Anche
se, esplicitamente, la persuasione intende porsi come toglimento radicale della
rettorica, tuttavia l'atto decisivo del persuaso non esce dalla logica
volontaristica che caratterizza la rettorica (perché è l'atto con il quale il
persuaso vuole il dominio più vasto); e dunque anche la sopraffazione non può
che ripresentarsi come figura del dominio, della separazione, della violenza,
la sua differenza con la rettorica consistendo unicamente in questo: che essa
ottiene ciò che quella meramente si illude di o D La morte di Cristo e di
Socrate vale, così, più di mille risposte all'interrogativo "che
cos'è" il bene. Itti, l'ipostasi autobiografica di M.'‘°, che si rituffa
nel mare, è lo schiavo platonico che torna nella caverna, sapendo di rischiare
il linciaggio, eppure desideroso, più di ogni altra cosa, di comunicare la
verità ai suoi sfortunati compagni e condividere con loro la gioia di quella
conquista, foriera di liberazione. Il dramma, allora, della fiducia disattesa?
Nient'affatto: la sofferenza è nel cammino di rinuncia di sé che porta all'atto
del donarsi, non nell'atto stesso, o ad esso posteriore: il Persuaso, giunto
all'apogeo della sua consapevolezza, non si aspetta alcuna risposta dagli
uomini, non si attende adesioni, né apprezzamento: è una possibilità che non pone
neanche in conto. La sua gioia non è conseguente al sacrificio, è nel
sacrificio: una gioia paradossale e insensata ad uno spettatore retorico, pago
e cinico, e che invece, nell'ottica persuasa, rappresenta la discesa
dall'Iperuranio di quell'idea di bene, vero e bello che si fa carne e sangue,
consiste, permane in eterno presente, in un attimo che trascende il tempo,
nelle persone che la vivono fino in fondo. Gli dei, e le idee, finalmente,
scendono e vivono tra gli uomini. Attraverso l'attività verso la pace.
L'«acerbità» di M., dunque, non è la mancata refrattarietà filosofica che
lamenta il Piovani''; se proprio di acerbità della Persuasione si deve parlare
nel ottenere. Il persuaso, non meno del rettorico (ed anzi: molto di più di
lui) permane saldamente nell'ambito della volontà di potenza, proprio perché
"persuaso" è colui che si propone la messa in atto della maggior
violenza al fine di ottenere il massimo del dominio: il dominio della totalità.
Ed è tuttavia, il persuaso, un trionfatore che non si avvede dell'essenziale
incongruenza esistente tra ciò che ci si propone di ottenere (il dominio del
tutto) e i mezzi messi in opera per il conseguimento del voluto (il
raggiungimento di una unità-identità del tutto che blocca definitivamente la
pretesa stessa del dominio). Donde l'inevitabile dello scacco e il suicidio».
[G. Brianese, L'arco e il destino. Interpretazione di M.., Abano Terme,
Fravisci editore, 1985, pagg. 10-11; | corsivi sono dell'autore del brano, che
ce li ha assecondati] Il nostro dissenso, rispetto tali conclusioni, è totale:
il critico e il suo mentore, evidentemente, confondono il vir col superuomo
nicciano, e addirittura nell'accezione più becera, quella della vulgata
nazionalsocialista. Per una lettura opposta, e a questo punto salutare, del
messaggio M.iano consigliamo il bellissimo testo di Aldo Capitini, Elementi di
un'esperienza religiosa (ora disponibile nell'ed. Cappelli, 1990). Ma
consigliamo anche di cfr. il nostro appunto sulla "variante" nicciana
e le conclusioni alla nostra tesi. 140 cfr, S, Campailla, Pensiero e poesia...,
cit., pag. 85. 141 «Il fatto è che il ‘caso M.', nella dimensione in cui è
veramente tale, non riguarda tanto la cronaca di una vita interrotta o di una
fortuna critica mancata, quanto una storia da cui ogni storiografia rifugge: la
storia dell'acerbo come tale. Per ogni storia, l'acerbo è il momento germinale
di una maturazione che si annuncia e si attua. Di fronte a vite eccezionali,
che si realizzano nell'acerbità scegliendola o accettandola come unico spazio
temporale, bruciando nella brevità l'interezza vitale, la storia è
disorientata. Da un lato deve registrare una maturità precoce, dall'altro deve
costatare i limiti insuperabili, biologici, psicologici, intellettuali, di
quell'acerbità culturale e biografica. La filosofia di M. è stata poco
‘storicizzata' proprio per questo: la storia dell'acerbo è poco storicizzabile.
[...] Ma non bisogna farsi troppe illusioni: l'acerbità rimarrà un ostacolo
spesso invincibile alla coerente storicizzazione e continuerà ad invitare, con
seduzione tentatrice, a un'esegesi che trovi sistematica coerenza unitaria
anche dove essa non può esserci» [P. Piovani, M.: filosofia e persuasione,
cit., pp. 212-213]. L'autorevole giudizio del Piovani, condivisibile o meno
nella sua sostanza, ma che ammette concessioni anche a dispetto della matrice
filosofica che lo fonda, si riflette purtroppo (ovviamente volgarizzato) nella
cattiva "Storia della fortuna" M.iana. Volendo, solo a facile
riprova, dare una scorsa ai famigerati manuali scolastici, si potrebbe notare
come il giovane goriziano risulti malamente emarginato sia dalla storia
ufficiale della filosofia - evidentemente perché ritenuto "acerbo"
come filosofo, e come tale delegato ai colleghi di lettere - sia dalla storia
ufficiale della letteratura - Goriziano, essa consiste piuttosto nel fatto che
egli si lascia prendere dallo sconforto, da un'amara perplessità che lo
combatte e lo sfianca'*: il Persuaso, di contro, non si sconforta, anzi
conforta (il verbo da riflessivo si traduce in transitivo), oltre e dopo tutto,
sempre e comunque. Quell'equilibrio di falco [PR 68], che è una delle immagini
più belle e ardite del vir, M. lo presentì, lo intravvide, talora gli fu tanto
vicino da sfiorarlo, ma alla fine non seppe attingerlo, o almeno non seppe
assumerlo fino in fondo, in tutte le sue lancinanti e complicate conseguenze! .
Quell'equilibrio di falco, ancora, che è possibile rendere - anche noi un
escamotage matematico, come per il giovane tesista - con un'immagine tratta
dalla chimica fisica: quella di equilibrio dinamico, un equilibrio che si
realizza nel trapassare nascosto (non evidente all'occhio umano), ma reale, di
una sostanza entro i confini dell'altra, e viceversa. E' l'impercettibile, ma
costante, trapassare della vita nella morte e della morte nella vita, come
recita il celebre Canto delle crisalidi [PP 54-55], un'amena litania dai labili
contorni orfici'‘*, quasi a richiamare quell'identico equilibrio dinamico, e
perciò tragico nel suo evidentemente perché ritenuto "acerbo" come
scrittore, e come tale delegato ai colleghi di filosofia. Un rimbalzo di
competenze davvero esilarante. 142 Un esempio per tutti: M. immagina (auspica?)
un ritorno di Gesù tra gli uomini: eppure, si dimostra convinto che, al punto
in cui è giunta la Rettorica, «se Cristo tornasse oggi, non troverebbe la croce
ma il ben peggiore calvario d'un'indifferenza inerte e curiosa da parte della
folla ora tutta sufficiente e borghese e sapiente - e avrebbe la soddisfazione
di essere un bel caso pei frenologi e un gradito ospite dei manicomi -» [PR
126, in nota]. 143 Ci siamo già ripromessi di non esprimere, per una sorta di
rispetto e di affetto, e per una palese difficoltà oggettiva, alcuna
valutazione sul suicidio di M.. Campailla fa altrettanto; ma come lui, se
proprio dobbiamo cedere alla tentazione di esprimere un giudizio, al di là
delle interpretazioni psicoanalitiche o metafisiche che di quel suicidio si
sono date, e che ne impoveriscono sicuramente la portata, ci sentiamo di
condividere le conclusioni del Ranke, il quale ascriveva quell'atto «"non
ad un compimento, ma ad un cedimento" rispetto alla sua [di M.] posizione
teorica, ormai vittoriosa di quell'estrema "rettorica della morte"
riconosciuta nel suicidio» [cfr. S. Campailla, Pensiero e poesia..., cit, pagg.
136-137], Detto per inciso, «l'avvincene lettura dello studioso tedesco,
innestando con energia la meditazione di M. sul ceppo comune della filosofia
dell'esistenza [...], traeva forza singolare per procurare alla figura del
Goriziano quella cittadinanza internazionale il cui tributo tarda ancora e che
tuttavia sembra spettargli di diritto». [ib.; la lettura cui fa riferimento
Campailla è contenuta in J. Ranke, Il pensiero di Carlo M.. Un contributo allo
studio dell'esistenzialismo italiano, in Giornale critico della filosofia
italiana, XLI, 1962, IV, pagg. 518-519] 144 Piero Pieri appronta una bella e
dotta analisi di questo testo cruciale nel capitolo "Il canto delle
crisalidi: il ‘pensiero poetante' e le crucialità dell'ipertesto" [cfr. P.
Pieri La scienza del tragico. Saggio su Carlo M.. Cappelli, Bologna 1989].
L'approccio del critico, che condividiamo appieno, «intende sottolineare la
posizione tematica del testo, rispetto alle prove del pensiero maturo (La
Persuasione e il Dialogo della salute) e rispetto ad una lirica del 1910 (Risveglio)»:
nella lirica, «'la morte nella vita' e 'la vita nella morte' indicano uno
stadio binario dell'esserci dentro il quale l'uomo vive una preagonica
condizione, irrisolta e malinconicamente rassegnata; uno 'stadio binario' che
"mostra i segni di una condizione generale spossessata di una identità
sicura che non sia quella arida ed elementare della vita depressa dalla inerte
polarizzazione della morte che filtra nella vita, ma non l'affranca, e della
vita che si avvolge nel manto della morte senza che ciò porti al martirio o
alla illuminazione » [come invece, aggiungiamo, avverrà nelle opere e nella
vita dell' "ultimo" M.]. «Nel testo appare invece preponderante il
concetto indeterminato della vita il cui palpito di morte non produce tuttavia
istanze liberatorie», continua Pieri, tale che «[...] l'uomo-crisalide indica
lo stadio bilicato dell'esistenza non più larva, ma neppure farfalla di
persuasione ». E conclude richiamando l'immagine "speculare" dell'
"uomo-insetto" ontenuta in Risveglio [PP 69-70] e istituendo una
suggestiva comparazione con testi similari di D'Annunzio, Tennyson, Coleridge,
dai quali - presumibilmente - il sintagma "la morte nella vita" ha
avuto la genitura agonismo, che sussiste tra apollineo e dionisiaco nella
visione nicciana della Nascita della Tragedia. Ma la crisalide nicciana
eromperà in una metamorfosi dell' "uomo nuovo", l'oltreuomo, figlio
di una «superfetazione» del dionisiaco; tentativo di recuperare quel dionisiaco
inutilmente perseguito, perché oramai irrimediabilmente contaminato e dunque
privo della forza e della genuinità (della "bontà') originarie“. Di
contro, l'individuo persuaso romperà il bozzolo della Rettorica, in
un'effusione di vita autentica che, a quelle analoghe, ma deliranti, tessute
dal filosofo tedesco, assomiglia evidentemente (e neanche troppo) solo per la
terminologia. Se l'oltreuomo nicciano si brucia nella rottura di un equilibrio,
trtasbordando nel polo dionisiaco, il vir aspira - come sua completezza - al
restaurarsi di un nuovo equilibrio, tra sé e il mondo. Detto questo, si tratta
ora di contemperare una certa sregolatezza espositiva con una sana iniezione di
metodo, in un'amena oscillazione tra i due livelli che condividiamo volentieri
col nostro autore. Due conclusioni provvisorie: gli esiti possibili del
Persuaso autarchico e del vir politico. Il momento di passaggio tra le due
ipostasi. Cominciamo allora col tirare dei bilanci, anche se provvisori, e
cerchiamo d'approntare delle definizioni icastiche di Persuasione.
L'operazione, che può apparire azzardata e che in certo modo sconfessa quanto
pronunciato finora riguardo l'ineffabilità della Persuasione stessa, ci
permetterà di uscire dal vizioso e irritante diallele persuaso: e le
conclusioni stesse si prestano a nuove aperture. Abbiamo marcato stretto,
durante la nostra indagine, il vir, abbiamo preferito accostare la condizione
persuasa partendo dagli esiti ultimi della sua fenomenologia: nell'epistolario
e nelle poesie di M. abbiamo, dapprima, scoperto la Persuasione nella sua già
ri-stabilita armonia con il mondo, nella sua realizzazione "politica"
in Enrico Mreule; una realizzazione, come ci è parso, non del tutto pacifica,
non senza rischio, eppure compiuta: la monade persuasa che vive la relazione
con le "altrui vite" (degli uomini e delle cose), e viceversa - in un
reciproco, spontaneo, donarsi. Con un passo indietro, poi, abbiamo cercato
d'individuare l'apriori di tale condizione: considerando le prime pagine de La
Persuasione e la Rettorica, abbiamo concentrato la nostra attenzione piuttosto
sulla Persuasione prima della sua Incarnazione, more ispiratrice. Ci piace
soprattutto il riferimento a La ballata del vecchio marinaio di Coleridge,
laddove l'ossimoro morte-vita si innesta sul motivo del mare. 145 Rivolgiamo,
contro Nietzsche, ribaltandola, l'accusa ch'egli stesso rivolge a Socrate, l'
«individuo specificamente non mistico, in cui la natura logica, per una
superfetazione, è sviluppata così eccessivamente quanto lo è la sapienza
istintiva del mistico» [cfr. Nietzsche, La nascita della tragedia, in Opere
Complete, vol. I, ed. Newton, a cura di F. J esi, pag. 153]. Per un
approfondimento della questione, rimandiamo - ancora una volta -
all'integrazione sulla variante nicciana della Persuasione. geometrico
demonstrata. Ovvero, potremmo dire che abbiamo tracciato dapprima un
"nuovo testamento" della Persuasione (il vir come Cristo) e quindi un
"vecchio testamento": il Persuaso come nel tetragramma YHVH, «lo Sono
colui che E'» - nella ‘consistenza’ - o meglio «lo Sono Colui che fa essere»,
«lo Sarò colui che Sarò»!#9. Abbiamo visto, altresì, che alla scandalosa
domanda della Rettorica - «Che cos'è la Persuasione?» - la Persuasione risponde
come Dio alla domanda di Mosè: «Eiè asher Eiè». L'Identità, la tautologia della
Persuasione. Il Nome della Persuasione. Il Nome, l'Identità: il nome è
identità: nell'ebraismo il nome identifica tutte le caratteristiche di un
individuo o di un oggetto: la storia dell'uomo nella Bibbia comincia con Adamo
che dà i nomi a tutte le cose che lo circondano. Ma l'identità deve uscire
dalla sua solitudine, deve calarsi nell'esistenza degli uomini: deve legarsi,
in un certo modo, alla libertà. Il vir nuovo Adamo, darà nuovi nomi alle cose,
ovvero reciderà i legami della «valenza» (il falso valore che le cose e gli
uomini detengono nel falso, reciproco legame dell'eteronomia) e riscoprirà -
per sé e per esse - un nuovo "valore", una nuova dolcezza: le
valuterà per ciò che esse stesse veramente sono, le rispetterà ricollocandole
nel loro luogo naturale: un'armonia di rispetto e comunione si ristabilisce nel
mondo, durante e per mezzo di questo rinominare le cose. L'esodo può condurre
ad una festa. Non a caso, ci sembra a questo punto, il libro della Torah, che
si occupa della "identità" legata alla libertà, non si chiama Esodo,
ma appunto Shemot, Nomi. a) Il Persuaso come «id, in quo plenitudo inhabitat
corporaliter» (risvolto autarchico: la Persuasione acerba). Chi vede J ehovah,
muore! Agnes, nel Brand, citando le Scritture Scrive M. che la Persuasione non
può essere vissuta: essa è «impossibile», è l'Impossibile (c'è chi direbbe il
Mistico), di un'impossibilità che l'uomo condivide con «la vita inorganica
delle cose». Solo il dio è persuaso («ev ouvveyeg il persuaso: il dio»). E, di
contro, «se non è il dio, è il sasso», ovvero l'alternativa esclusiva alla
Persuasione è nient'altro che la Rettorica, e nella prospettiva
"inadeguata" c'è consustanzialità tra sasso e uomo, entrambi
«infinitesimale coscienza della relazione infinitesimale ». Già in questi
accenni fugaci, precedentemente riferiti, M. scolpisce un assunto che abbiamo
ritenuto assiomatico nell'economia della nostra linea interpretativa: il regno
della Rettorica coincide con tutto il regno del reale, del sublunare: esso
coincide col manifestarsi di ogni realtà, e pertiene ad ogni realtà, animata ed
inanimata, consapevole 146 | Maestri ci fanno notare che in ebraico non esiste
il presente del verbo 'essere' perché solo Dio è nel presente. Per M. il vero,
unico presente è quello della Persuasione: gli uomini rettorici vivono
sfilacciandosi nel futuro, o nel passato. ed inconsapevole, razionale ed
irrazionale (con la differenza - come vedremo - che nell'uomo la Rettorica si
complica e si rinvigorisce, diviene "sapida" col "sale della
ragione"). In modo identico, ogni ente sublunare aspira alla Persuasione.
La Persuasione, dal canto suo, è possesso presente e stabile e assoluto della
propria vita; ma «se si possedesse ora qui tutta e di niente mancasse, se
niente l'aspettasse nel futuro, non si continuerebbe: cesserebbe d'esser vita»:
«la vita sarebbe una, immobile, informe, se potesse consistere in un punto». La
vita stessa della Persuasione sarebbe, dunque, non-vita, «xfioc Biog», vita che
non è vita. Se la vita è mancanza («deficienza») e insieme volontà di
compensare tale mancanza; se questa volontà «è in ogni punto volontà di cose
determinate», e come tale si proietta nel tempo (nel futuro), poiché «la
soddisfazione della determinata deficienza dà modo al complesso delle
determinazioni di deficere ancora»; se la vita è tutto questo, appare chiaro
come la Persuasione («una, immobile, informe ») in questo senso non è vita.
Alla luce di tutto ciò, proponiamo di definire la Persuasione, o meglio il "Persuaso",
come «id, in quo plenitudo inhabitat corporaliter». Adottiamo questa
circonlocuzione latina, mutuandola, e opportunamente flettendola, da Rabano
Mauro a proposito del «caelum caeli»: «Caelum autem iuxta allegoriam aliquando
ipsum Dominum salvatorem significat, ut est illud Caelum caeli domino (Ps. 113,
16), quia Sanctus sanctorum et Deus deorum; ita et iam caelum caeli recte ipse
dicitur, in quo plenitudo divinitatis inhabitat»; e soprattutto, da Agostino:
«Videte, ne quis vos decipiat per philosophiam et inanum seductionem secundum
traditionem hominum, secundum elementa huius mundi et non secundum Christum,
quia in ipso inhabitat omnis plenitudo divinitatis corporaliter», [Confessioni
111, 4]; e Ambrogio e altri. Da notare che gli autori suddetti utilizzano tale
espressione per tentare una perifrasi di Cristo (e per M., per l'appunto,
Cristo è un Persuaso). Analizziamo il senso dell'espressione: - id, in quo:
preferiamo utilizzare il neutro, perché, secondo la nostra ipotesi di lavoro,
la Persuasione "non è maschile né femminile" [neu+uter, nessuno dei
due], ovvero non è prerogativa esclusiva dell'essere umano, ma appartiene ad
ogni ente sublunare; - plenitudo: il termine oscilla tra "pienezza" e
(nel senso della Vulgata) "perfezione" [temporis, potestatis vel
divinitatis: temporis atque potestatis, la "plenitudo" secondo le
coordinate del tempo e dello spazio, vel divinitatis]; - inhabitat. intensivo
di "habito", a sua volta frequentativo di "habeo": rende
bene, a nostro avviso, la "permanenza pregnante", l' "eterno
presente" che è nel (che è il) Persuaso, tutt'altro che il semplice
presente, ch'è l'attimo esistentivo del nunc. Ora, il risvolto politico (che
poi risvolto politico non è) del Persuaso autarchico ci sembra essere
costituito dall'ibseniano Brand, la traduzione drammaturgica del
"cavaliere della fede" kierkegaardiano (di cui sopra). Ibsen descrive
la vita del suo personaggio come un inferno, seppur la sua aspirazione è la
salvezza. In ciò ci appare chiara la posizione polemica dello scrittore
norvegese di fronte a questo esito estremo (alla turris eburnea) della
Persuasione "autarchica", anche se - in fondo - egli ricopre la sua
creatura di un'aura di sacro, perplesso rispetto (come non associargli, in
questo senso, un'altra figura emblematica, l'insigne sinologo Peter Kien,
dell'Auto da fè di Canetti?). Brand significa "incendio", e «far di
se stesso fiamma» è, per M., l'imperativo poetico dell'agire persuaso. Il fuoco
della predicazione, ma anche il senso di un destino (il nome e l'identità).
Brand è un pastore di anime, una persona che intende riformare l'umanità
attraverso un rigore religioso totale e una volontà inflessibile, che applica a
se stesso e agli altri; è un uomo di fede estrema, di una religiosità tutta
sua, in cui la compassione e il perdono cedono il passo per raggiungere una
meta prefissata: redimere il mondo alla luce del monito manicheo «o tutto o
nulla» (è il monito della Persuasione): «La vittoria suprema sta nel perdere
ogni cosa. La sconfitta, la perdita di tutto, è la vera grande vittoria. Solo
ciò che si perde, si possederà in etemo»'*; o ancora: «Quanto durerà la lotta,
volete sapere? Ebbene: tutta la vita! Fin quando avrete sacrificato tutto, fin
tanto che avrete rotto ogni compromesso... E quanto costa la lotta? Tutto:
tutti quanti i beni della festa, del dì di festa... E i vantaggi? Purezza di
spirito, fermezza di fede, un'anima sublime! Una corona di spine sulla vostra
fronte: questo è il vostro premio!» [B 76]. Brand è pronto a sacrificare allo
spietato Dio biblico che si è raffigurato tutto ciò che ha di più caro, anche i
sentimenti più semplici e più naturali: il suo unico figlio (quasi a ripetere
l'orrendo sacrificio di Isacco), la moglie, la madre. Il pastore sa a cosa va
incontro, ne è consapevole: ma è altresì convinto che mancare la propria
missione significherebbe una viltà o un atto di diserzione davanti al proprio,
irrinunciabile dovere. Per lui tutto, tutto il resto non è che feticismo ed
idolatria. Dopo la morte della moglie, Brand decide di innalzare un nuovo
tempio, più grande e più degno, a Dio. Ma quando infine la chiesa è stata
costruita e sta per essere consacrata, egli getta via la chiave, perché sente
che quella non è la vera casa di Dio e che lui stesso non può accettare il
compromesso di sottomettersi all'autorità della Chiesa di Stato. Alla guida di
tutto il popolo, il pastore allora si avvia verso la montagna e verso la Chiesa
di Ghiaccio situata tra le nevi eterne, promettendo, a chi vorrà seguirlo, di
condurlo sulla vera via del cielo. La folla dapprima lo segue, con entusiasmo
ed esaltazione; poi, spaventata dai disagi cui va incontro, lo abbandona e lo
lapida quale falso profeta. Egli rimane così, solo ed indomito, impassibile
anche di fronte alla visione celeste della moglie che lo invita a recedere
dalla sua durezza e ad accettare la più umana via del compromesso. Nell'ultima
scena, tuttavia, di ambigua interpretazione e piena di chiaroscuri, prima di
essere travolto da una valanga, il pastore si chiede, riuscendo finalmente a
piangere dopo tanta rigidezza, se non abbia sbagliato tutto. E una voce, che
sovrasta il fragore della valanga, inneggia al Deus Charitatis e denuncia il
fallimento della sua vita. Il fallimento della Persuasione autarchica. Ora, a
nostro parere, la Persuasione e la Rettorica deve moltissimo al Brand: del
resto, la sorella di M., Paula, insiste sull'enorme impressione che il dramma
fece sul nostro autore’. 147 Cfr. Ibsen, Brand, in Ibsen, Tutto il teatro,
cit., IV vol. pag 61. Le citazioni tratte dall'opera saranno segnalate, nel
corpo del testo, con la notazione B cui segue il numero di pagina relativa. 148
E' quanto ci rivela Paula M. Winteler in un passo importante dei suoi Appunti
per una biografia di Carlo M., contenuti in appendice al volume di Campailla
Pensiero e poesia..., cit, ovvero alle pagg. 147-164. Riteniamo opportuno
riportare per intero lo stralcio in questione [pagg. 161-162, corsivi
dell'autrice], anche per rendere un'idea di quanto "brandiano" stesse
rischiando di diventare lo stesso Goriziano: «Non leggeva più molto [la
Winteler sta parlando dell'ultima fase della vita del fratello]: rilesse in
quell'anno Ibsen che conosceva già e di cui era sempre più appassionato. Di
tutti i drammi quello che l'aveva fatto più pensare era Brand e nel suo volume
ci sono nel margine delle pagine molti commenti. A poco a poco, come
semplificava il suo genere di vita, il suo modo di sentire, [Carlo] si limitava
nei bisogni, nel nutrimento che era diventato sempre più sobrio, così si
liberava da tutta l'inverniciatura venuta dal di fuori, da tutta la scienza
infusa, da tutte le influenze ataviche, era come se si stesse riformando da sé
un'altra volta. Così pure andava man mano eliminando dal suo repertorio gli
autori riducendoli a pochi scelti. In una delle sue carte che si trovò sul suo
tavolo fra gli appunti della tesi c'era scritto a matita: Bibliografia oppure:
Dio ama gli analfabeti: 'Invece di leggere suonate o fatevi suonare della
musica di Beethoven, perché gli orecchi non vi potrebbero far altro miglior
servizio. - Gli occhi non sono fatti per legger libri. Ma se li volete ad ogni
costo abbassare a questo servizio, leggete: Parmenide, Eraclito, Empedocle,
Simonide, Socrate (nei primi dialoghi di Platone), Eschilo e Sofocle. -
L'Ecclesiaste, e i Vangeli di Matteo, Marco e Luca - Lucrezio - De rerum natura
-, i Trionfi del Petrarca e i Canti di Leopardi, Le avventure di Pinocchio del
Collodi - i drammi di Enrico Ibsen. E non leggete mai altro, soprattutto nessun
Tedesco, se avete cara la vostra salute, ché quelli sono contagiosi in vista
(come i giornali, le riviste, i libri di scienze)”. Questo passo è importante,
tra le altre cose, perché ci indica (insieme con la prefazione alla tesi) la
"bibliografia ideale" con cui è possibile tentare l'accosto a M.
(interessante il riferimento al Finocchio di Collodi). E perché ci testimonia,
in certo modo, il disfattismo che pare attanagliare l' "ultimo"
Michlestaedter, che pare far sue le parole del suo amato Brand: «Sono stanco:
si combatte, si combatte, e sempre senza speranza» [B 67]. A parte questo, M.
stesso esprime, più volte e a chiare lettere, il suo enorme debito di
riconoscenza nei confronti di Ibsen: in una lettera alla madre, dell'aprile
1908, ad esempio scrive: «[...] ho letto quasi tutto Ibsen. Quello è un uomo,
perdio! m'ha fatto pensare e mi fa pensare ancora. Certo dopo Sofocle, è
l'artista che più m'è penetrato e m'ha assorbito. E' un grand'uomo [... J»;
altrove scrive che il Norvegese lo «fa fremere e vibrare come una corda al
minimo soffio». Infine, in un importante articolo per Il corriere friulano
[contenuto in O pagg. 652-654 passim], scritto per celebrare l'ottantesimo
compleanno di Tolstoj, M. costruisce un intenso ed originale parallelo tra
Ibsen e lo scrittore russo: «Ibsen vuole dall'uomo che egli sappia rompere la
cerchia di menzogna che lo stringe, che sappia volere la sua verità,che sappia
farla trionfare; egli deve combattere la menzogna che è in lui ed educare la
volontà alla lotta. Il processo psicologico può isolversi così con pochi
individui rappresentativi o simbolici quali li vediamo negli ultimi drammi
ibseniani. Tolstoi non chiede all'uomo la lotta, ma la devozione; egli deve
saper resistere alle seduzioni della società che egli giudica basata sul falso
e sulla prepotenza; egli deve uscirne e abbandonarne del tutto il sistema di
vita; la sua maggiore attività egli non la deve spendere a preparare se stesso
a far trionfare sugli altri le proprie idee e a trasformare la macchina
sociale, ma deve devolverla a riparare i mali che la società produce sulle
classi povere facendo del bene, aiutando, consigliando. - E' quindi necessaria
la rappresentazione viva della società nel suo complesso». Questi due autori
«non s'accontentarono di esprimere le sensazioni superficiali della loro anima,
ma ne scrutarono le profondità per cavarne la nota più alta. - Entrambi presero
pel petto questa società soffocata dalle menzogne e le Infatti, le parole di
Brand risuonano con tutta la loro forza nelle parole di M.: pur non intendendo
istruire parallelismi "alla lettera", ci sembra opportuno, a tal
proposito, richiamare alla memoria talune affermazioni "forti" di
Brand: «Il mio canto festivo tace; bisogna scender dal cavallo alato; ma io
vedo una meta più alta, che non sia una giostra di cavalieri, - un duro lavoro
quotidiano, il dovere di una vita attiva, verrà nobilitata con un'opera santa»
[B 30]. Oppure: «Dove non c'è forza non c'è missione. [...] Se non puoi essere
ciò che devi, sii almeno ciò che puoi [...}» [B 24]; «se darai tutto, tranne la
vita, sappi che non avrai dato nulla» [B 23]. O ancora: «Quali sono i peggiori,
i più ribelli? Chi si svia più lontano dalla pace?.. Lo spirito leggero
incoronato di fronde che danza sull'orlo del precipizio... lo spirito fiacco
che segue la strana monotona perché così vuole l'usanza... lo spirito selvaggio
che possiede tanto vigore da far apparire bello ciò che ha tutte le apparenze
del male? Lottiamo, lottiamo senza tregua contro questi tre nemici tra loro
alleati. lo vedo con chiarezza la mia missione; brilla come un raggio di sole
attraverso uno spiraglio socchiuso» [B 17]; o infine: «No, sono sano e forte,
come il pino e il ginepro dei monti; ma è la razza malata di questi tempi che
ha bisogno di essere curata. Voi volete amoreggiare, scherzare, ridere, volete
credere un poco, ma non vedete... volete caricare tutto il peso del fardello su
di uno, che vi è detto sia venuto per prendere su di sé la grande espiazione.
Per voi prese la corona di spine, e perciò vi è permesso danzare... danzate...
ma dove la danza conduca è un'altra cosa, amico mio!»; «abbiamo perduto ogni
traccia del nostro sentiero»; «E' la ‘volontà' che conta! La volontà o redime o
uccide, la volontà, intera, disseminata dappertutto, nella vita facile e nella
vita dura» [B 13, 8, 30]. Già nel dramma di Ibsen, dunque, M. trovava tracciata
la linea discriminante tra il Persuaso e il Rettorico, e - soprattutto-
ritrovava la rigorosa e paradossale etica che segnava quella discriminante
(anche, ad esempio, nelle antitetiche figure del falco e dell'avvoltoio, che
presenziano già in Ibsen all'autentico e all'inautentico!'‘). Ma se anche Brand
parla di amore, di sacrificio, si tratta tuttavia di un amore e di un
sacrificio eteronomi, perché vincolati alla terribile ingiunzione di Dio,
destinati ad esiti altrettanto terribili: nell'attuare il suo personale piano
di redenzione, il pastore di anime sacrifica i suoi cari, attraverso la
parvenza del sacrificio di se stesso. Brand non rispetta la gridarono in
faccia: verità! verità!» [e, secondo M., ciò in modo diametralmente opposto di
quanto facessero invece i maestri del Decadentismo, Oscar Wilde e D'Annunzio,
sopra tutti]. 149 Cfr. ad esempio: Gerd: «[...] l'avvoltoio non entra là dentro
[scil. nella chiesa]; si posa sul Picco Nero e là sta, la brutta bestia, come
una banderuola... [... |» [B17]; vita delle persone che gli sono accanto. Le
sue intenzioni, invero, sono sincere, coerenti alla sua fede: egli lotta
sinceramente per la salvezza. Ma la sincerità e la coerenza si volgono in
distruzione e fallimento, perché il suo amore non è l'amore caritatevole, come
gli rivela la voce di Dio, nel finale: il suo amore è severo, esclude e
castiga. Il vero amore è perdono e conciliazione; vuole casomai il sacrificio
di se stessi, non mai dell'altro uomo. Il Persuaso deve aprirsi agli altri, non
può vivere nell'esclusività della sua Persuasione, tanto
"masochista", quanto "sadica". II suo consistere dev'essere
un coesistere. Nello stesso dramma ibseniano, in una delle scene più intense ed
enigmatiche (siamo nell'Atto II), l' "Uomo delle Apparizioni" si
rivolge a Brand con parole come di rimprovero, volte a richiamarlo alla
comunità: L'Uomo: «Mille parole non valgono la traccia dell'azione. Noi ti
cerchiamo in nome della comunità; lo vediamo, ci manca proprio un uomo». Brand
(agitato): «Cosa volete da me?» L'Uomo: «Sii il nostro prete» [B 23]. L'Uomo
delle Apparizioni è la persuasione matura che parla alla persuasione acerba, il
demone che chiama alla "conversione politica" e alla realizzazione
del Verbo nella comunione con le altrui vite, che è la vera Persuasione.
L'acerbità della persuasione permea il lavoro accademico di M.. Egli stesso ne
fu a suo modo consapevole, come visto. Chi ha ingoiato una sorba amara convien
che la risputi, scrive, sin dall'inizio. Il giovane filosofo non vide l'ora di
terminare la sua tesi (l'ultimo compito rettorico che gli era rimasto), per far
le sue parole azione, per donarsi definitivamente al mare. b) La Persuasione
come francescanesimo laico (risvolto politico: la Persuasione matura). Il loco
della Persuasione, «il qualunque punto dove uno è, purché vi permanga», diviene
alfine il luogo politico del mondo, rappresenta il risultato di una vera e
propria rivoluzione copernicana del rapporto dell'uomo con le altrui vite. Se
prima l'homo gravitava, necessariamente, intorno alle cose, laddove quella
necessità era dettata dalla (strutturale) deficienza, incompletezza fin già (se
non soprattutto) del suo stesso organismo; ora invece, sono le cose, è il mondo
a gravitare intorno al vir, al Persuaso, a donarsi a lui ultro, senza che
quello «nulla chieda secondo la voce del suo bisogno». Tutto questo l'abbiamo
già ripetuto più volte. Ora, il vir domina il mondo. Ma questo suo dominio non
implica in sé violenza, non vuol essere sopraffazione. E' il dominio, per renderlo
con un'immagine, dello Brand: «[...] Vedere, Iddio vuol trarvi dal fango; un
popolo che vive [...] attinge dalle avversità forza e potenza; l'occhio smorto
acquista vista di falco, e vede lontano e vede bene, la fiacca volontà si
riscuote e vede certa la vittoria dopo la lotta [...]» [B 19]. sguardo che
dalla vetta domina la vallata, e si compiace e gode dello spettacolo,
sentendosi esso stesso parte di quel miracolo, di quel tutto. E lo protegge ™.
Dopo la rottura delle catene del "peccato" rettorico, nel vir si
eventualizza il ristabilimento della condizione edenica, descritta nei primi
passi della Genesi: il mondo è creato per l'uomo e a lui offerto, come dono:
Adamo dà nome alle cose, ostentando la sua fraterna supremazia, ridonando alle
cose ed agli animali il loro giusto valore: e quelli a lui si sottomettono,
ultro, secondo il comando del Signore, secondo lo scopo per il quale essi
furono creati. Il vir si riappropria del mondo, scioglie i vincoli
dell'alienazione, riconferma il suo primato e il mandato "divino"
della Persuasione, scacciando per sempre il dio luciferino della puopuyix,
giungendo altresì al vero Piacere, ch'è la Pace. L'uomo finalmente libero - dal
bisogno, dalla deficienza, dalle cose; l'uomo che é riuscito nella dolorosa e faticosa
pratica - ch'è la via alla Persuasione - a ribaltare a proprio favore il
rapporto di dipendenza con il mondo; ebbene, quest'uomo - ricordando il già
citato passo del Dialogo della Salute - «ha la gioia dell'esistenza in mezzo a
tutte le cose. Gli sono care non solo le cose vicine e come possano soddisfare
un bisogno, ma tutte - egli sa godere della luce del sole». Anche la morte gli
è cara, il «[...]il coraggio della morte / onde la luce risorgerà».. Non può
non tornare in mente, a questo proposito, il meraviglioso Cantico delle
creature di San Francesco, il suo lodare il Signore per tutte le creature della
terra, e anche «per sora nostra morte corporale»'!. Per quanto la distanza tra
la posizione M.iana e quella francescana sia dettata dalla diversa prospettiva
esistenziale (quella di uno strano ebraismo laico, per l'uno; quella di una
prisca religiosità cristiana, per l'altro), il messaggio ci pare aprirsi un
senso d'identica, intima convinzione: la comunione col mondo, l'accettazione -
non rassegnata, ma coraggiosa, e in questo suo coraggio, serena - della nostra
condizione umana, nella sua perfezione assoluta, per l'uno intesa
nell'adeguamento (solitario, intimo, drammatico, ma alla fine gioioso) al
pentalogo della Persuasione, per l'altro intesa 150 Lo spunto per quanto or ora
affermato ci viene da una lettera ad Enrico Mreule dell'aprile 1909 [E
359-360]. M. sta raccontando all'amico di aver intrapreso la lettura della
Metafisica di Aristotele, con «la pazienza d'andargli a corpo, di seguirlo di
citazione in citazione » fin che non giunse «al capitolo I° e 2° del Ill libro,
dove assistetti al mirabile capitombolo della povera bestia». Rispetto ad
Aristotele, M. confessa di sentirsi come «[...] un falco che difendesse la
purezza dei sassi e dell'aria sulla cima del S. Valentin contro un volo di
cornacchie [aristoteliche, evidentemente)». 151 La suggestione
"francescana" dovette provenire a M. da Tolstoj, soprattutto a
riguardo - come vedremo - delle ultime opere dello scrittore russo, ovvero La
sonata a Kreutzer [che leggiamo nell'ed. BUR, 2000, a cura di E. Bazzarelli] e
Resurrezione [ed. Newton, 1995, a cura di E. Affinati]. Come si ricorderà,
ipotizzammo anche un'ispirazione da | cosacchi. Similmente a Tolstoj, M.
"riscrive" il Vangelo (sulla falsariga di quello di Matteo)
censurandovi tutti i dati sovrannaturali, sopprimendovi l'avvenimento
ontologico della redenzione, e specialmente eliminando la realtà della divinità
trascendente d Cristo e della sua resurrezione. Per il Goriziano, come detto,
Cristo è il vir. E proprio questa riscrittura permise al nostro giovane
filosofo d'individuare il nucleo etico-laico del messaggio evangelico: farsi
salvatori dinell'adeguamento (anche qui solitario, intimo, drammatico, ma alla
fine gioioso) alla volontà di Dio. E la dicotomia fra gli empi e i giusti (ai
quali «la morte secunda no'I farrà male»), che si delinea nella seconda parte
del Cantico, si ripropone pari nella laica dicotomia, altrettanto insanabile,
fra gli homines rettorici e i viri persuasi: per entrambi i casi, la
discriminante in fondo è la stessa, e coincide sostanzialmente - con la
trasgressione dell'ordine universale, di una cattiva prospettiva di
vicinanza-lontananza con le cose e con gli altri 5°. Francesco (come rivela
anche il suo nome: ancora: nome e identità), come il vir, è "franco",
libero, assoluto: si è liberato dai lacci mondani, si è sottomesso di buon
cuore al giogo della croce: tuttavia rimane per lui il vincolo più potente,
quello del Dominus divino, che si riflette nel «messor lo frate sole» e che
permea tutta la vita e la speranza del santo, in una fede forte, vincente,
quanto semplice (cfr. l'ultima parte del cantico, quella più drammatica e
"manichea"). In questo senso, la condizione di Francesco è
decisamente eteronoma, e solo per un'analogia topica (di condizioni, e non di
esiti estremi) può essere avvicinata a quella del vir. Eppure, la "vita
nuova", il senso di comunione fraterna col mondo, la presenza di una
dimensione esistenziale votata alla consapevolezza della verità, dell'armonia e
dell'amore - seppur nelle due diverse prospettive - ci suggeriscono, ci
costringono quasi, a pensare la dimensione persuasa quale quella di un /aico
francescanesimo. Il momento del passaggio: la forma retorica
dell'anti-Rettorica: tecnica persuasa della retorica, ovvero tattica persuasa.
L'atipicità della tesi di laurea di Carlo M. traspare già da una semplice
lettura del testo. Ma qual è il vero senso, la vera ragione di questa
atipicità? In cosa essa consiste? Soltanto nella "stravaganza"
filosofico-narrativa del suo autore? O forse nell'enorme ingiunzione morale
ch'egli affida ad un mero scritto accademico? La questione si presenta
complessa e feconda, soprattutto se analizziamo la dispositio e l'actio che il
Goriziano adotta nel prometeico tentativo di un'esaustiva esposizione del
proprio pensiero.se stessi, «eliminare la violenza alle radici», aprire il
mondo ad una rinnovata armonia. In questi senso, la linea ideale, che
tracceremo, è per l'appunto Tolsto-M.-Capitini. 152 E' indicativo quanto ci
tramandano gli apologhi popolari dei Fioretti: Francesco parlava alla natura,
riuscì ad ammansire e a convertire il ferocissimo lupo. Come spesso avviene,
l'ingenuità popolare anche qui coglie nel segno, disperando di sciogliere nella
semplicità del racconto la profondità della verità francescana: ovvero, la
comunione con quanto ci circonda e la possibilità di rivolgerci alle cose con
un linguaggio che non è più il tecnicismo retorico del dominio, bensì una
persuasione che conduce alla mansuetudine, all'armonia, alla dolcezza, che non
ha bisogno per esprimersi, a ben vedere, neanche più delle parole. «La parola
eloquente è il premio di chi cerca la persuasione, di chi ha il coraggio del
dolore per non averla - chi nella parola finge già finita la persuasione e del
cercar parole si fa una persona per chiedere i premi delle vie degli uomini -
obbedisce alla sua prAopuvyta: è un vile o un retore a piacere», scrive M.. Si
pone dunque la necessità di un'aerea digressione sugli aspetti
"formali" della sua opera: ciò non esula dalla sostanza morale del
nostroapproccio, poiché l'etica non si realizza soltanto nell'atto, ma anche
nel linguaggio, preparazione all'atto, esso stesso atto, atto linguistico.
L'indagine non è inappropriata, e il suo risultato ne varrà da riprova. Il
valore persuasivo della parola, dunque. La ricerca di Aristotele ci ha
insegnato che la scienza e la filosofia coincidono nella
"formalizzazione" del loro linguaggio, nella sua struttura
sillogistica, razionale. Il linguaggio riproduce, per lo Stagirita, la
razionalità dell'Essere: l'essere, l'è vero, si dice in molti modi, ma i suoi
modi sono sempre razionali. Che vuol dire, ciò? Che cos'è la razionalità per
Aristotele? Problema inaudito '®. La nostra ipotesi di lavoro, semplice e
funzionale, asseconda quella di Carlo M.: secondo il Goriziano, la razionalità
aristotelica coincideva con ciò che Aristotele vedeva, la sua theoria trovava
senso compiuto nella vista, anzi nella pura visione: Ma il punto teoretico è
l'atto del mio guardare, e può girare dove anche io voglia fra la varietà delle
cose: sempre sarà in lui l'entelecheia delle cose guardate, poiché il mio
guardare è attribuzione di fine: la stessa permanenza del movimento nel tempo,
poiché il mio guardare commosso con le cose è attribuzione di stabilità; altro
fine, altra natura, altra forma, altra ragione, e in altro riguardo supposta la
materia inconoscibile [PR 208]. Il retore si muove su punti controversi non per
tutti, ma per quelli ai quali parla. Il vero è detto per Aristotele secondo
l'attualità fenomenica [c.n.], e l'attualità fenomenica nel campo del retore
più vicina, così che il più delle volte è noto a tutti che il retore dimostra
contro questa stessa attualità. Ma non per questo egli è disprezzato e con
nuovo nome quasi a insulto chiamato, ma anzi tenuto in gran stima e col nome di
retore ad onore significato appunto in quanto egli lo sappia fare né per alcuno
scrupolo si trattenga dal farlo [PR 268]. La conclusione errata di un
sillogismo, dunque, sarebbe tale non per un principio logico, ma per un errore,
come dire, di prospettiva ottica; lo sguardo razionale è l'occhio dello
scienziato Aristotele o di Aristotele scienziato: lo sforzo del pensiero è di
riprodurre nella vista intellettuale, nella sua "intelligenza",
l'atto del vedere garantito dall'organo di senso (l'attualità visiva -
fenomenica - coincide con quella intellettiva - noumenica), purificandolo. Il
sogno del filosofo Aristotele (che coincideva con quello del suo maestro,
Platone) era poter scorgere l'Essere nella sua "nudità" ontologica
(l'idea come vista nuda, pura, dell'Essere). Il sogno dell'Aristotele
scienziato era quello di compilare l'enciclopedia delle 153 Quanto ci
apprestiamo a dire si propone, consapevolmente, su un livello di lettura e
d'interpretazione dell'opera aristotelica - nella fattispecie la Metafisica
[che abbiamo letta nell'ed. Rusconi, 1993, a cura di G. Reale], l'Etica
Nicomachea [Rusconi, 1993, a cura di C. Mazzarelli], la Retorica [Mondadori,
1996, a cura di M. Donati] e la Politica [Laterza, 1993, a cura di R, Laurenti)
- "viziato" dalla prospettiva M.iana. Tuttavia chiediamo di accettare
quanto segue almeno in vista della sua funzionalità all'analisi che stiamo
conducendo. Per tal motivo, non surroghiamo il nostro discorso con pedisseque
corrispondenze "alla lettera" degli
p 4v pe, > Commenta M., in calce alla sua figura: «Questo [qualcosa è
- qualcosa è per me - mi è possibile la speranza - sono sufficiente] è il
cerchio senza uscita? dell'individualità illusoria, che afferma una persona, un
fine, una ragione: la persuasione inadeguata, in ciò ch'è adeguata solo al
mondo ch'essa si finge» [PR 19]. Le parole del Goriziano, in apparenza
involute, trovano comunque ampia "dimostrazione" nel corso della sua
tesi. Anzi, non è difficile ricavare il filo di un argomentare lineare e
lucido, che palesa una logica ferrea di concatenazioni assiomatiche, che
possiamo definire decisamente spinoziana, senza timore di sbagliarci: se la
Persuasione, la Salute, è il «possesso presente della [propria] vita» [36]!9',
ossia (in forma negativa) se essa «non vive in chi non vive solo di sé stesso»
[9], l'uomo al contrario si rivela, già nella sua conformazione fisiologica,
come segnato dalla deficienza. Questa è senza dubbio il corrispettivo del Wille
schopenhaueriano: la vita è a tutti gli effetti volontà di vivere e la volontà
«è in ogni punto volontà di cose determinate» [12]: ne consegue che l'uomo è
«schiavo della contingenza di questa correlazione» [31]. In questo senso, la
correlazione tradisce una sua "puntualità", perché «noi isoliamo una
sola determinazione della volontà [per volta» [13] e ogni determinazione è
«attribuzione [puntuale] di valore: coscienza » [12]. 60 Aggiungiamo noi: anche
senza fine e senza inizio: Nietzsche, grecamente, avrebbe detto l'«eterno ritorno».
61 Nei periodi che seguiranno, accompagniamo M. nella sua dimostrazione:
preferiamo aderire molto al testo, per non pregiudicare l'amenità delle sue
espressioni, anche se ricomponiamo l'argomentare in una successione più, come
dire, didascalica, ricostruendo la logica che in apparenza smarrisce nell'enfasi
della scrittura. | numeri assoluti, in parentesi quadre, si riferiscono alle
pagine della Persuasione da cui sono tratte le citazioni. Il riferimento alle
altre opere seguirà l'espediente utilizzato nel resto del nostro lavoro.
Espediente che, mai come ora, rivelerà anche la sua importanza metodologica,
lasciando trasparire come l'opera del Goriziano si strutturi tutta secondo una
stretta logica di rimandi interni, fatta di ripetizioni e richiami di concetti,
che non è il mero saltabeccare della retorica della metabasi che punta
all'attenzione del lettore, ma risponde all'intima consapevolezza del fatto che
ciò che si sta comunicando è in fondo un unico, anche se articolato, pensiero.
E' altresì vero, tuttavia, che «...]la volontà non sopporta la noia, e da
questa attesa inerte della vicinanza si muove, allargandosi la coscienza dalla
determinazione puntuale attraverso l'infinita varietà delle forme: le
determinazioni si collegano così a complessi, da procurarsi previdenti ogni
volta la vicinanza per la quale via via ogni determinazione s'affermi e non
resti morta, ma per la forza del complesso si continui per poter altra volta
affermarsi. [...] [Così] la soddisfazione della determinata deficienza dà modo
al complesso delle determinazioni di deficere ancora [...]: nel complesso di
quella determinazione c'è come criterio la previsione delle altre: il complesso
delle determinazioni non è un caos ma un organismo» [16]. Detto in altre
parole, «Ia [...] volontà di essere è così volta a continuare, in ciò che
nell'affermarsi presente essa crea la prossima vicinanza per l'affermarsi
d'un'altra determinazione: in ognuna c'è la previsione delle altre». [17]. Da
una parte, dunque, l'organismo umano si profila come un «complesso delle
determinazioni» [16]; dall'altra, in modo speculare, «i valore [del] mondo
[appare come] il correlativo della sua valenza» [20] - ossia «la stessa cosa è
il mio vivere e il mondo che io vivo» [20], dato che «nessuna cosa è per sé, ma
in riguardo a una coscienza» [13]: e, amplificando questo dato, la stessa «vita
[si rivela quale] un'infinita correlatività di coscienze». Questa correlatività
- che abbiamo scoperto puntuale nella sua manifestazione più immediata,
complessa in quella mediata - si delinea «sempre ugualmente intera e infinita
nell'attualità che corre nel tempo; il passato e il futuro sono in lei,
l'avvenire e il non avvenire sono indifferenti» [14-15]. E' proprio in seno a
questa correlatività che si struttura, poi, la piopuyix, «amore alla vita,
viltà» [17], owero la Rettorica, la «determinazione» della vita, la
«persuasione inadeguata » [19]. Se infatti la persuasione è l' agathon
(postulato socratico-platonico), il bene, la Salute, e gli uomini ad essa
naturalmente tendono (anch'esso postulato socratico-platonico, formalizzato da
Aristotele'9) - è il nostro stesso deficere che aspira alla sua più completa
soddisfazione - è altrettanto vero che, dati i presupposti
"volontaristici", essa risulta inattingibile, poiché, qualora fosse
conquistata, la vita «cesserebbe d'esser vita» [8], cioè la volontà cesserebbe
d'esser volontà, il che è già una contraddizionein termini: infatti, la
persuasione implica il possesso presente, attuale, mentre la volontà è «volontà
di se stesso nel futuro» [20], è «distratta nel tempo » (e così l'uomo). La
vita nega, in modo paradossale, se stessa: l'uomo sembra, senza soluzione,
essere votato al dolore ed alla sofferenza e la sua condizione risulta
insostenibile: «il principio della deficienza [viene a costituirsi] come
principio sostanziale» [146]. E' proprio in questo punto, dunque, che
s'inserisce l'azione quotidiana, ostinata, del «dio pudico»'9° della popuyia,
che in modo nascosto (in ciò è la sua pudicizia), ma efficace (in 162 cfr.
Etica nicomachea |, 1, 1094, a3 163 È il piacere un dio pudico, fugge da chi
l'invocò; ai piaceri egli è nemico, fugge da chi lo cercò. ciò sta la sua
divinità), tesse la trama di una consistenza altrimenti compromessa. Il dio
della priopuyia è un lare (un «dio famigliare» [21]) che ci è accanto come un
malefico angelo luciferino («la luce è il piacere» [17]), che ci accompagna in
ogni nostra attività, la veicola, la custodisce. Il lare crea il "velo di
Maya" attraverso l'adulazione del «tu sei» [18]: presiede all'integrità
del nostro organismo (ovvero, scongiura l'anarchia delle membra, strutturando
ogni puntuale determinazione in una rete di correlazioni organiche, spegnendo
da luce quando l'abuso toglierebbe l'uso»'** [16]) e spaccia la mera continuità
dell'organismo stesso per la permanenza persuasa: «il saggio dio lo [l'uomo,
l'animale] conduce attraverso l'oscurità delle cose con la sua scia luminosa
perché egli possa continuare e non esser persuaso mai» [16-17]. L'uomo, in
questo abbaglio, in questo "stordimento", irretito nel gioco del dio
[21], si finge un mondo posticcio [19], credendo che le «sue cose che lo
attorniano e aspettano il suo futuro, sono l'unica realtà assoluta
indiscutibile» [18], ossia per lui «a realtà è [...] le cose che attendono il
suo futuro»; e, ciò facendo, scambia la Persuasione per l'«attualità della sua
affermazione» [18]. L'illusione raggiunge il suo ultimo scopo: «ciò che vive si
persuade esser vita la qualunque vita che vive» [19], «l'esser vivi si fa
un'abitudine » [28], l'uomo «si dice contento e sufficiente e soddisfatto di
sé» [24-25]: «d'uomo si gira sul pernio che dal dio gli è dato [...] e cura la
propria continuazione senza preoccuparsene, perché il piacere preoccupa il
futuro per lui» [18]. La voce del dolore - il «sordo continuo misurato dolore
che stilla sotto a tutte le cose» [23], la voce «che dice: tu non sei» [27] - è
apparentemente messa a tacere. L'uomo si bea della nuova, insperata sicurezza,
guidato dal piacere [17]: «nel sapore [della momentanea, puntuale affermazione si
risolve] la presenza di tutta la sua persona. Questo sapore accompagna ogni
atto della sua vita organica [e, come vedremo, sociale]» [18]. L'uomo insomma
«non vede [integriamo noi: non vuole vedere] l'opera che il dio ha fatto» [17].
Tuttavia l'illusione della permanenza - ch'è la Persuasione inadeguata - non
tarda a rivelarsi per quella che appunto è: illusione. "«[...] L'uomo, pur
mentre gioisce dell'affermazione, sente che questa persona non è sua, ch'egli
non la possiede» [21], sospetta che «la sua potenza nelle cose in ogni punto è
[sempre e comunque] limitata alla limitata previsione». «[...] AI disotto della
superficialità del suo sapere egli sente il fluire di ciò che è fuori della sua
potenza e che trascende la sua coscienza »: così, ilÈ il piacere l'Iddio pudico
ch'ama quello che non lo sa: se lo cerchi se' già mendico, t'ha già vinto
l'oscurità. - Sono la prima e l'ultima delle quattro quartine del famoso peana,
che M. intona al dio della grAdopuyia in D 43. 164 Cfr. il paragrafo 4c del |
capitolo. «suo piacere è contaminato» [21] irrimediabilmente e suo malgrado,
perché da sorda voce dell'oscuro dolore non però tace, e più volte essa domina
sola e terribile nel pavido cuore degli uomini» [22]. Nella prospettiva della
persuasione inadeguata, la voce del Tragico si rivela (si fa fenomenologia)
attraverso la paura della morte: difatti, se «il senso delle cose, il sapore
del mondo è solo pel continuare», se «esser nati non è che voler continuare »,
ciò allora vuol dire che «gli uomini vivono per vivere: per non morire. La loro
persuasione è la paura della morte, esser nati non è che temere la morte »
[32]. La voce del dolore, dunque, fa breccia nella trama dell'illusione:
«quando per ragioni che non stanno in loro, il lembo della trama si solleva, anche
gli uomini conoscono le spaventevoli soste» [23], ovvero «quando la trama
dell'illusione s'affina, si disorganizza, si squarcia, gli uomini, fatti
impotenti, si sentono in balìa di ciò che è fuori della loro potenza, di ciò
che non sanno [...]; si trovano a voler fuggire la morte senza aver più la via
consueta che finge cose finite da fuggire, cose finite cercando». [22] La
persuasione inadeguata ha un colpo di coda: se nei bambini il dolore
esistenziale è più forte - perché ancora incontaminati dalla finzione del dio
luciferino - e se in loro la rivelazione del Tragico prende la forma dei
piccoli terrori e delle piccole superstizioni da esorcizzare (la paura del
baubau, ad esempio) [22-23], negli uomini esso fa capolino nelle forme delle
nevrosi e dei grandi dispiaceri della quotidianità: il Tragico ha le sue
manifestazioni "esistentive" (existenziell, direbbe Heidegger) nel
rimorso, nella malinconia, nella noia, nell'ira, nel dolore, nella paura, nella
«gioia "troppo" forte» [25-26]: in questi sentimenti, l' [A.
Piromalli, in Sotto il segno di M., ed Periferia, Cosenza, 1994, pag. 22; ci
appoggiamo all'analisi e alle parole di Piromalli anche per quanto stiamo per
dire]. La retorica di Aristotele rappresenta, così, l'apice estremo della
degenerazione cui Platone conduce l'originaria, autentica, dialettica
socratica. Socrate si chiedeva, ad esempio, se la giustizia fosse un bene,
Platone che cosa fosse la giustizia. Entrambi (dunque, tutto sommato, anche
Platone) conservano una relazione col «valore individuale» dell'oggetto.
L'approccio di Aristotele diviene invece «una raccolta di fenomeni», «delle
questioni particolari giudiziarie o politiche e la ricerca dei trucchi
rettorici» conduce Aristotele a perdere di vista il vero ed a «teorizzare sui
discorsi che dimostrano» in modo che «lo scopo e la potenza di chi analizza e
teorizza i discorsi è sovrapposta allo scopo e la potenza dell'oratore».
«Questo - scrive ancora M. - è l'errore di ogni metodistica, che caratterizza
utta la filosofia aristotelica, o meglio ogni forma aristotelica della
filosofia sotto qualunque nome, in qualsiasi tempo o paese, ed è di fronte alla
Persuasione la Rettorica» [per le citazioni virgolettate di questo periodo cfr.
Appendici critiche, PR 151- 263-278-282]. Di conseguenza, arguisce M., la
Rettorica non è per Aristotele - proprio in quanto «metodica», «metodologismo
classificatorio» - solo una téchne specifica, ma una sorta di criterio che
informa tutte le scienze e tutta la conoscenza. Potremmo azzardare che essa,
come la virtù, diviene un habitus. —_ La valenza politica della retorica
aristotelica viene evidenziata molto bene da Roland Barthes: il quale - in un
volumetto esemplare sulla Retorica antica (trad. it. Bompiani, 1998) - trova
molto «allettante mettere in rapporto questa retorica di massa [quella appunto
aristotelica, di massa poiché verte su un "verisimile" che
nient'altro è, secondo lo studioso, se non «quel che il pubblico crede
possibile»] con la politica di Aristotele; era, com'è noto, una politica del giusto
mezzo, favorevole ad una democrazia equilibrata, incentrata sulle classi medie
e incaricata di ridurre gli antagonismi tra i ricchi ed i poveri, tra la
maggioranza e la minoranza; donde una retorica del buon senso, volontariamente
sottomessa alla 'psicologia' del pubblico» [pagg. 21-22; corsivo nostro], Tutto
questo non è in contraddizione con quanto abbiamo affermato nel corso del
nostro lavoro: è vero, la "costituzione della Rettorica" - almeno
nella sua accezione comune e quotidiana - ha un inizio storico, e ha un autore
storico; eppure Aristotele non ha "inventato" la Rettorica; le ha
dato soltanto una patente di legittimità, se vogliamo dirla così, ontologica e
(soprattutto) pratica. 184 Etica Nicomachea 1103b 1-5 passim. microcosmo umano:
come nell'anima la condizione ottima è quella d'un equilibrio tra la parte
appetitiva (epithymetikon), irascibile (thymoeidés) e razionale (/loghistikon),
nello Stato ideale (lo Stato giusto) - laddove i tre aspetti dell'anima si
incarnano nelle tre classi sociali dei "produttori", dei
"guardiani" e dei "governanti-filosofi" - il singolo svolge
la sua funzione nell'armonia del tutto, "temperando" il proprio
egoismo privato. La virtù civile per eccellenza sarà proprio la sophrosyne,
ovvero quella saggezza che permette di stare "entro i limiti", cioè
di lasciarsi guidare docilmente dai sapienti'®. Lo Stato - nato dalla necessità
che gli uomini hanno di soddisfare i propri bisogni vitali - diviene insomma la
condizione (insieme etica e logica) dell'individuo, «secondo una relazione di
reciprocità in cui individuo e Stato, virtù e legge, anima e classi sociali
vengono a coincidere» [Francesco Adorno]. Per quanto Platone allegorizzi il
destino di appartenenza dell'individuo ad una determinata "classe
sociale" attraverso il famoso mito di Er - secondo il quale quel destino è
in effetti frutto di una scelta libera e responsabile dell'anima prima
dell'incarnazione '°8; per quanto - almeno nei presupposti e negli intenti - la
superiorità di una classe rispetto alle altre non significhi supremazia ed
oppressione, ma risponde semplicemente alle esigenze di una suddivisione di
compiti e di funzioni necessaria in ogni vita organizzata (nella quale
gl'interessi dell'individuo debbono essere subordinati ai superiori interessi
della collettività); nonostante tutto ciò, Platone - in apparente
contraddizione, ma in effetti seguendo un'estrema logica di coerenza -
struttura la sua utopia politica secondo le linee di un rigoroso, oculato,
analitico progetto educativo '®. Dalla moltiplicazione dei bisogni nasce dunque
la differenziazione dei ruoli, secondo le attitudini di ciascuno: l'educazione
confermerà (nel senso del confirmare latino) quell'attitudine. Ma M., come suo
solito, adotta il suo drastico smascheramento e individua proprio nella
formazione dello Stato platonico il paradigma ontogenetico di qualsivoglia
sistema sociale rettorico: [... ] accettato come base della città della
giustizia il fatto della convenzione dei violenti che è a base d'ogni città -
[è nostro compito] fingere nuovamente con presunzione di giustizia tutte le
forme della vita che gli uomini chiedono a chi voglia far loro da maestro.
Accettata come vita libera quella che è fatta dei bisogni elementari, fondiamo
nella città la libertà d'esser schiavi; accettato come giusto il principio
della violenza che afferma la necessità del continuare, è giusta a ogni bisogno
la sua affermazione. E se troviamo [un qualche espediente]perché ogni bisogno
giunga alla sua 185 Cfr. il II libro della Repubblica e anche 441c-445e (IV
libro), dove la questione viene ricapitolata in modo sintetico e definitivo;
sono questi, più o meno, anche i passaggi del testo (e altri affini nella
sostanza) che tiene docchio M. nella sua analisi davvero spietata dello Stato
platonico, cui dedica l'intera, complessa, splendida Appendice II, quasi
un'opera a sé stante. 186 cfr. id. libro X 614a ss. . La divinità è fuori
causa: Aitia eloménou, theos anaîtios. 187 cfr. id. libro Ill 386a - 417b; IV
419a - 427b 105 giusta affermazione senza scapito della giusta affermazione
degli altrui bisogni, abbiamo fondato la città giusta. Che gli uomini siano
ognuno schiavo della propria miseria e per questa sottomesso ai modi a lui
oscuri della comune convenienza, ognuno inteso al proprio utile e per sua
natura nemico e ingiusto a ogni utile altrui, ognuno nell'oscurità del suo
travaglio ignaro di tutto nella vita fuorché del suo bisogno, non importa; egli
sarà saggio e giusto e libero, avrà la persona della libertà, della giustizia,
della saggezza, poiché egli sarà detto secondo la città libera e giusta e
saggia. - La città isola le singole necessità [... e] così costituisce la
produzione della vita elementare: l'agricoltura, le arti, i mestieri, il
trasporto; costituisce gli organi dello scambio: il piccoloegrandecommercio; costituisce
tutte le altre forme della vita; costituisce la necessità della guerra; e del
difender la giustizia di quelle necessità con la violenza finge persona
sufficiente ai puAxxec [sono appunto i "guardiani" platonici];
dell'affermare, sorvegliare, correggere la giusta affermazione di quelle
necessità finge persona sufficiente ai capi dello stato [PR 147] !88. Se
l'educazione di Socrate era dunque «creatrice di uomini» [PR 150], il suo
discepolo infedele si mostra piuttosto attento a formare cittadini: [...]
Platone non ha da fare uomini, egli ha da fare agricoltori, calzolai, fabbri,
mercanti, banchieri, guerrieri, politici, che compiano ognuno la sua funzione
necessaria ai singoli bisogni della città, perché questa pur si continui.
Platone ha bisogno che ognuno s'adatti alla sufficienza di quell'astrazione di
vita che egli a ognunoha macchinato [PR 151]. La "giustizia"
platonica si rivela, dunque, per quella che è: "Ma intanto la città è
costituita, e colla città sono costituite la giustizia, la saggezza, il
coraggio, la padronanza di sé. La città è saggia per la saggezza dei suoi
moderatori. La città è coraggiosa pel coraggio dei suoi puiarnec. E i guàxxes
sono coraggiosi se vestono la persona della legge così che, la salvezza di
quella come la loro essendo, da nessuna cosa possano esser trattenuti che non
la difendano fino alla morte. - [...] E se ognuno di loro si sappia costringere
a quel determinato ufficio e all'obbedienza alle leggi costituite, ognuno sarà
padrone (!!) di sé stesso, e la città anch'essa sarà padrona di sé, in cui
l'idea del bene, per consiglio dei saggi moderatori e per virtù dei difensori e
per l'ossequio del popolo, si imporrà alle necessità della vita così ch'esse
abbiano armoniosamente a cospirare alla continuazione del tutto [PR 156-157;
corsivi ed esclamativi di M.]. Nel far ciò, completa M., Platone - diversamente
da quanto ci tramandi la storiografia filosofica e da quanto Platone stesso
affermi - non si discosta molto dall'orizzonte di dominio e di violenza
perpetrato dai sofisti, anzi: «Altro che i sofisti! Se i sofisti erano
ladruncoli, ma Platone - absit iniuria verbo - è il ladro in guanti gialli, che
ha il suo sistema per rubare non più, come quelli facevano, questo o quello a
caso, dicendo a ognuno: 'io sono un ladro'; ma con metodo e seriamente, per
poter rubare tutto, e dicendo agli uomini: 'io son quello che ti salva per
sempre dai ladri. Infatti è il modo più sicuro. Infatti, legittimando i
compromessi dell'umana debolezza, egli toglie [...] all'uomo ogni possibilità
di sentirsi in quella insufficiente, ogni bisogno d'affrancarsi da quella -»
[PR 190; corsivi di M.]. 188 || periodo è preso della sezione II (Il
Macrocosmo) della Il Appendice critica, dedicata nello specifico a Platone, in
qualità di «note alla triste istoria» dell'aerostato; come appare chiaro, ci
stiamo appoggiando alle polemiche citazioni di M. (sottintendendole), tratte
appunto dalla Repubblica, per puntellare anche il nostro discorso. Queste
parole, che si impongono per lucidità e forza al lettore, bastano a se
stesse'®. Rimane solo da rilevare che la ri-proposizione di una simile istanza
totalitaria di dominio e di violenza (stavolta sublimata nella rete necessaria
e compiacente - «callopismatica» dice 189 In effetti, La critica di M. può, ad
orecchio, richiamare Popper. Il primo volume del capolavoro di quest'ultimo, La
società aperta e i suoi nemici [che noi leggiamo nella traduzione proposta
dall'ed. Armando, 1973], infatti, è in pratica interamente dedicato a una
critica acerrima contro il platonismo politico (il titolo la dice lunga:
Platone totalitario). Volendo davvero ridurre all'osso l'argomentazione
popperiana, possiamo dire che tutto il pensiero politico di Platone, secondo il
filosofo austriaco, può essere ricondotto a un progetto totalitario di
restaurazione della società chiusa (ovvero, della società tribale, che
interpreta se stessa come naturale, sacra e immutabile, ed è collettivista,
gerarchica, organica, fondata sulle relazioni faccia a faccia). A questo scopo,
Platone si varrebbe di strumenti euristici,concettuali e politici, che
s'innestano l'uno con l'altro e che riassumiamo così: essenzialismo
metodologico (la teoria delle idee); collettivismo (come visto, gli individui
hanno valore solo come parti della totalità più ampia ch'è lo stato); teoria
organica o biologica dello stato (cfr. quanto detto sopra); tecnocrazia (il
governo va affidato ai competenti); "storicismo" (sotto questo
termine Popper accomuna tutte le dottrine che s'illudono di enunciare le leggi
dello sviluppo storico nel suo insieme). [Com'è noto, a Platone Popper
contrappone la propria prospettiva - che definisce "umanitaria" - di
"società aperta", modellata/articolata secondo i criteri degli Stati
di diritto e delle democrazie dei paesi occidentali, le cui istituzioni
sarebbero (preferiamo utilizzare il condizionale) modificabili/riformabili
secondo il metodo della libera discussione]. Ma più che alle risapute
affermazioni di Popper, siamo interessati ad una pagina, lasciata nella forma
di intuizione, di Althusser; pagina evidentemente meno conosciuta, ma che si
avvicina più di Popper al discorso di M.. Althusser inserisce quest'appunto su
Platone in un discorso generale sull'ideologia e ovviamente legge la Repubblica
(e ne smonta il progetto educativo) alla luce del "sapere scientifico
liberatore" - ovvero "rivoluzionario" - marxista-leninista,
com'egli stesso confessa. E questo segna la sua profonda differenza col
Goriziano. Eppure, quanto scrive Althusser converge in modo indiscutibile e
impressionante con le valutazioni di M. (anche se, come detto, l'accostamento è
soltanto "topico"): entrambi individuano nell'educazione il
nocciolo/presupposto rettorico della struttura statale. Scrive il filosofo
francese, col suo caratteristico stile senza reticenze: «Questo [ovvero che
«gli individui concreti 'agiscono', e che è l'ideologia che li fa agire'»],
Platone lo sapeva già. Egli aveva previsto che occorrevano dei poliziotti (i
'Guardiani') per sorvegliare e reprimere gli schiavi e gli 'artigiani. Ma
sapeva che non si può mai mettere un 'poliz iotto' nella testa di ogni schiavo
o artigiano, e nemmeno mettere un poliziotto personale al culo di ogni
individuo (altrimenti occorrerebbe anche un secondo poliziotto per sorvegliare
il primo e così di seguito... e alla fine non ci sarebbero altri che poliziotti
nella società, senza nessun produttore, e di che cosa vivrebbero allora gli
stessi poliziotti?). Platone sapeva che occorreva insegnare al ‘popolo",
sin dall'infanzia, le 'belle menzogne' che lo ‘fanno agire' da solo, e insegnare
al ‘popolo' queste Belle Menzogne in maniera che esso ci creda, al fine di
‘agire’. [l'insistere di Althusser sulle 'belle menzogne! ordite
dall'educazione platonica è il punto di maggiore convergenza con le
riflessionidel Goriziano, ma cfr. la citazione in seguito]. Platone non era
certo un ‘rivoluzionario’, benché intellettuale... egli era un sacrosanto
reazionario. Ma aveva abbastanza esperienza politica per non raccontare storie
e credere che, in una società di classe, la semplice repressione può assicurare
da sola la riproduzione dei rapporti di produzione. Egli sapeva già (senza
averne il concetto) che sono le Belle Menzogne, cioè l'ideologia, che assicura
per eccellenza la riproduzione dei rapporti di produzione. | nostri moderni
‘dirigenti’ ‘anarchici rivoluzionari" non lo sanno. Essi farebbero bene a
leggere Platone, senza lasciarsi intimidire dall' ‘autorità del sapere' che vi
troveranno, poiché, benché puramente ideologici, possono trovarvi, diciamo,
'insegnamenti' di base sul funzionamento di una società di classe» [L.
Althusser, Lo stato e i suoi apparati, trad. it. Editori Riuniti, 1997, pag.
182], M., più di mezzo secolo prima, aveva scritto (e si tenga presente quanto
or ora citeremo, dato che proprio qui si trova il perno dell'argomentazione
critica-filosofica del Goriziano, non solo in riferimento a Platone, bensì a
tutto l'apparato rettorico): «[Nello Stato platonico] la violenza cacciata per
la porta è già rientrata per ogni fessura [..., infatti] perché ogni singolo a
uno di questi scopi bcil. gli scopi sufficienti alla vita, astrazioni dei
bisogni materiali] di indirizzar la sua vita e pei begli occhi della felicità e
della giustizia astratta accetti di tenervela sempre diritta - bisogna che
ognuno al suo posto sia colla violenza ammaestrato» [corsivo nostro].M. - dello
Spirito) il Goriziano la riscontrò, a distanza di millenni, nella Filosofia
dello Spirito di Hegel'°° [PR 92-93]. L'ou-topia platonica, trovava purtroppo -
attraverso Hegel - la sua reificazione concreta e storica nel codice
morale-penale austriaco [cfr. soprattutto PR 99-101]. Col filosofo tedesco
l'umanità realizzata (ovvero, l'umanità politica) consisteva - proprio come
insegnava Platone - nella spontanea consonanza fra quel che vuole l'individuo e
quel ch'è richiesto dalla famiglia, dalla società civile e dallo stato. Per
Hegel, questo è lo stato normale - fisiologico - della vita pratica, che può
riscontrarsi nei periodi di equilibrio e di "sanità" dei popoli
(Hegel credeva d'individuarlo, realizzato in tutta la sua pienezza e fulgore,
nella grecità classica: basterebbe, in questo senso, analizzare il diverso
rapporto del Tedesco e del Goriziano proprio nei confronti della grecità per
scorgere l'enorme divario che li allontana). Il «momento etico», nella
dialettica dello Spirito Oggettivo, supera l'astrattismo morale, che si
arrovellava nell'antagonismo fra intenzione individuale e legge. Lo spirito
oggettivo - in cui 190 In particolare, aggiungiamo noi, nei Lineamenti di
filosofia del diritto. In effetti, M. trae le sue citazioni dalla Enciclopedia
delle scienze filosofiche, dalle pagine in cui Hegel parla dello Spirito
Oggettivo, il moment della realizzazione della volontà dello spirito libero,
nella fattispecie il momento del concreto attuarsi della storicità sociale attraverso
la famiglia, la società civile e lo stato. Come si sa, Hegel approfondì e
delucidò tali presupposti nei Lineamenti; riteniamo allora opportuno
richiamarne almeno alcuni paragrafi (tra l'altro famosi) per integrare le
polemiche citazioni M.iane con i luoghi dove più evidente si mostra la
cosiddetta "statolatria" del filosofo di Stoccarda: $ 257. Lo stato è
la realtà dell'idea etica, - lo spirito etico, inteso come la volontà
sostanziale, manifesta, evidente a se stessa, che pensa e sa sé e porta a
compimento ciò che sa e in quanto lo sa. Nel costume lo stato ha la sua
esistenza immediata, e nell'autocoscienza dell'individuo, nel sapere e
nell'attività del medesimo, la sua esistenza mediata, casi come l'autocoscienza
attraverso la disposizione d'animo ha nello stato, come in sua essenza, in fine
e prodotto della sua attività, la sua libertà sostanziale. [...] § 258. Lo
stato inteso come la realtà della volontà sostanziale, realtà ch'esso ha
nell'autocoscienza particolare innalzata alla sua universalità, è il razionale
in sé e per sé.Questa unità sostanziale è assoluto immobile fine in se stesso,
nel quale la libertà perviene al suo supremo diritto, così come questo scopo
finale ha il supremo diritto di fronte agli individui, il cui supremo dovere è
d'esser membri dello stato. [...] $ 260. Lo stato è la realtà della libertà
concreta; ma la libertà concreta consiste nel fatto che l'individualità
personale e i di lei particolari interessi tanto hanno il loro completo
sviluppo e il riconoscimento del loro diritto per sé (nel sistema della
famiglia e della società civile), quanto che essi, o trapassano per se stessi
nell'interesse dell'universale, o con sapere e volontà riconoscono il medesimo
e anzi come loro proprio spirito sostanziale e sono attivi per il medesimo come
per loro scopo finale, così che né l'universale valga e venga portato a
compimento senza il particolare interesse, sapere e volere, né gli individui
vivano come persone private meramente per l'ultimo, e non in pari tempo
vogliano nell'universale e per l'universale e abbiano un'attività cosciente di
questo fine. Il principio degli stati moderni ha questa enorme forza e
profondità, di lasciare il principio della soggettività compiersi fino
all'estremo autonomo della particolarità personale, e in pari tempo di
ricondurre esso nell'unità sostanziale e così di mantener questa in esso
medesimo. $ 261. Di fronte alle sfere del diritto privato e del benessere
privato, della famiglia e della società civile, lo stato è da un lato una
necessità esteriore e la loro superiore potenza, alla cui natura le loro leggi,
così come i loro interessi sono subordinati e da cui sono dipendenti; ma
dall'altro lato esso è il loro fine immanente ed ha la sua forza nell'unità del
suo universale fine ultimo e del particolare interesse degli individui, nel
fatto ch'essi in tanto hanno doveri di fronte ad esso, in quanto hanno in pari
tempo diritti [...] § 265. Queste istituzioni costituiscono la costituzione,
cioè la razionalità sviluppata e realizzata, nell'ambito del particolare, e
sono perciò la base stabile dello stato, casi come della fiducia e della
disposizione d'animo degli individui per il medesimo, e i pilastri della
libertà pubblica, poiché in esse la libertà particolare è realizzata e
razionale, quindi in esse stesse sussiste in sé l'unione della libertà e della
necessità. [Siamo nella parte terza - L'eticità; Terza sezione - Lo stato; le
citazioni sono desunte dalla trad. it. dei Lineamenti peri tipi della Laterza,
2000, a cura di G. Marini, e corrispondono, rispettivamente, alle pagg. 195,
201 e 204; i corsivi sono di Hegel]. finalità individuale e finalità collettiva
coincidono - si realizza pienamente nello Stato, «a sostanza etica consapevole
di sé». La sua essenza è costituita da quello stesso amore che sta a fondamento
della famiglia, innalzato però a «universalità saputa», a consapevolezza cioè
del proprio valore universale. In questo senso, lo Stato non conosce altri
poteri al di sopra di sé. Ovvero, tradotto il tutto in termini M.iani, i
rapporti sufficienti che l'uomo intrattiene con la propria vita) e con le
altrui vite assurgono all'ordito - ovvero si camuffano - di rapporti razionali
e dunque razionalmente necessari, e la Rettorica sociale (statale) prende vita,
e acquista diritto e giustificazione del proprio esistere, nella forma pudica e
"benevola" dell'Astuzia della Ragione [List der Vernunft], la parca
che tesse nel segreto le ragioni e le finalità degli uomini. 4. La Rettorica
come tecnica della violenza e violenza della tecnica. Non c'è maggior potenza
di quella che si fa una forza della propria debolezza. Carlo M. La Rettorica,
dunque, è es-propriazione: in ciò consiste la sua violenza. L'unico modo per
sconfiggere la Rettorica sarebbe - afferma M., nelle ultime, sconcertanti
pagine della sua tesi - scongiurare appunto ogni educazione: questa, in
sintesi, la pretesa davvero rivoluzionaria (e quanto veramente rivoluzionaria
rispetto a tante altre sedicenti tali) del Goriziano: «togliere la violenza
dalle radici» è il suo motto, nella forma del conosci te stesso: Reagisci al
bisogno d'affermare l'individualità illusoria, abbi l'onestà di negare la tua
stessa violenza, il coraggio di vivere tutto il dolore della tua insufficienza
in ogni punto [PR 45-46]. Utopia, è vero. Perché la Rettorica si impone, è
onnipresente, è tutto ciò che accade: e lo è in modo irrimediabile. Perché,
oltre che una sua forza, ha una sua intelligenza (conosce paure e debolezze
degli uomini, degli esseri, e le sfrutta), una sua estrema capacità di adattamento.
La sua storia universale è anzi la storia del suo adattamento: il dispositivo
rettorico - quasi entità a sé stante, quasi entità pensante - ha inteso la
grande forza del "segreto", la strategia vincente della
"dissimulazione": ha inteso che «sarebbe povero nelle sue risorse,
economo nei suoi procedimenti, monotono nelle tattiche che usa, incapace
d'invenzione ed in un certo senso condannato a ripetersi sempre» * '°":
avendo nient'altro «che la potenza del 'no', del divieto, dell'ingiunzione,
della coartazione, esso «sarebbe essenzialmente anti-energia» *: «tutti i modi
di dominio, di sottomissione, di assoggettamento si ridurrebbero in fin dei
conti all'effetto di obbedienza » * «C'è una ragione generale e tattica che
sembra autoevidente: il potere [nella nostra prospettiva: il dispositivo
rettorico, ma nel taglio ermeneutico che stiamo dando è lo stesso] è
tollerabile a condizione di dissimulare una parte importante di sé. La sua
riuscita è proporzionale alla quantità di meccanismi che riesce a nascondere.
Il potere sarebbe accettato se fosse interamente cinico? Il segreto non è per
lui un abuso; è indispensabile al suo funzionamento » *. Il sistema della
violenza, alle proprie manifestazioni esterne, ai risultati di azioni cogenti
di istituzioni deputate al "sorvegliare e punire" (che tuttavia
sopravvivono, propaganda della ventilata sicurezza), al suo porsi come
"stato di diritto", preferisce le forme dell'interiorità (le forme
della morale farisaica che si oggettivano, nei codicilli del diritto morale-penale),
preferisce assumere le ammalianti sembianze di giustizia sociale e di
razionalità sociale: si è fatto carne e sangue forgiando i tipi del
"soggetto" in filosofia, dello "scienziato" nella
conoscenza e in ultimo - figura in cui le prime due si compendiano - del
"cittadino 191 Cfr. la nostra nota 167. modello" nella società
cosiddetta civile, come denuncia il Goriziano, in pagine davvero forti e
risentite. Sono queste le forme, insomma, in cui - secondo M. - la violenza
rettorica si è sublimata (nel senso davvero freudiano del termine), sono questi
i meccanismi attraverso i quali l'ideologia si è fatta idealità, e il Leviatano
si è fatto società ideale e addirittura vagheggiata. Ironia del dispositivo
rettorico: «ci fa credere che ne va della nostra liberazione » *. Ma seguiamo
più da vicino il dettato del nostro giovane filosofo, riprendendo
opportunamente la dimostrazione del "teorema-M." là dove l'abbiamo
interrotta nel paragrafo precedente, amplificandola qui proprio al contesto
sociale'””. Abbiamo lasciato l'uomo nella condizione sospesa tra l'illusione
della permanenza e la consapevolezza, che nella trama dell'illusione s'insinua,
della effettiva condizione tragica della propria esistenza: l'uomo «sente
d'esser già morto da tempo e pur vive e teme di morire» [24]: perché «chi teme
la morte è già morto» [33]. A questa condizione insostenibile, il dio
luciferino della yopoyw trova - o pretende di trovare - un più collaudato ed
efficace «schermo [o empiastro] al dolore» [34 e 58]: il dispositivo sociale,
appunto. L'uomo chiede «ad altri appoggio alla sua vita» [34], «dà e chiede,
entra nel giro delle relazioni» [43]. Se prima il compromesso della consistenza
si consumava, come dire, nella percezione "onanista" del proprio
corpo, ora gli uomini - con maggior insistenza - «chiedono di esser per
qualcuno e per qualcosa persona sufficiente con la loro qualunque attività,
perché la relazione si possa ripetere nel futuro; perché il correlato sia per
loro sicuro nel futuro» [53]: «egli [l'uomo] si vuol ‘costruire una persona'
con l'affermazione della persona assoluta che egli non ha: è l'inadeguata
affermazioned'individualità: la rettorica» [57]. Ma nel volgersi «a ricercare
quelle posizioni dove il senso attuale della sua persona lo aveva altra volta
adulato colla voce del piacere: ' tu sei' [ovvero, appunto, nella rettorica
sociale], [..., egli] già è fuori del giro sano della sua potenza» [64], in
modo definitivo e irrimediabile. Insomma, gli uomini decidono di «adattarsi
ragionevolmente» [89] l'uno all'altro: cosa davvero singolare, ammette M., la
contraddizione che si viene a creare: nella società «tutti hanno ragione»
quando invece «nessuno ha la ragione» [39, ma anche 54] della propria
esistenza. Difatti, e qui le parole del nostro filosofo sono chiarissime, nello
stipulare la «cambiale della società » [102] gli uomini si comportano «non
però, come ci aspetteremmo, vittime della loro debolezza - in balia del caso,
ma 'sufficienti' e sicuri come divinità » [95]. E' dunque il punto più alto
dell'illusione del dio del piacere, il punto in cui la sua "arte
tessile" assurge a livelli di "regale" maestria'”. 192 Cfr. nota
161. 193 Le nostre espressioni vengono ispirate da un passo del Politico di
Platone, che ci restituisce la valenza della sua rettorica politica in forma
pressoché conclusiva. La nostra citazione, dunque, si allinea a quelle (davvero
numerose) di Michelstadter, e inende compendiarle, condividendone il contesto
polemico:Nella stipulazione del "contratto sociale" gli uomini «si
son fatti una forza della loro debolezza, poiché in questa comune debolezza
speculando hanno creato una sicurezza fatta di reciproca convenzione» [95, ma
anche D 66]: essi, cioè, hanno trovato definitivamente «il modo di poter
continuare con sicurezza ad aver fame in tutto il futuro» [94]. Così, da una
parte, la società «largisce loro sine cura tutto quanto gli è necessario»
[adattato da 96]; dall'altra, essi fingono di ignorare che «a loro
degenerazione è detta educazione civile, la loro fame è attività di progresso,
la loro paura è la morale, la loro violenza, il loro odio egoistico - la spada
della giustizia» [95]. Questo perché, in effetti, la sicurezza - per quanto
graditi siano i suoi servigi e privilegi - si paga comunque con un grandissimo
scotto: essa «è facile ma è tanto più dura: la società ha modi ben determinati,
essa lega, limita, minaccia: la sua forza diffusa è concreta in quel capolavoro
di persuasione che è il codice penale. La cura di questa sicurezza asservisce
l'uomo in ogni atto » [100-101]. E dunque, l'uomo da un lato si trova costretto
ad accettare la propria «libertà d'esser schiavo » («cercando la sicurezza
nell'adattamento a un codice di diritti e doveri») [94], e così pratica
violenza contro se stesso; dall'altro, «impone al resto della materia [alle
cose] la stessa forma» [96] che a lui risulta utile («violenza sulla natura:
lavoro» [97]) e, cosa ancor più grave, «subordina il suo simile alla propria
sicurezza » [97] («violenza verso l'uomo: proprietà » [97]). Questo meccanismo,
leggermente complicato nell'esposizione ma semplice nel suo funzionamento, ha
la forza di un potentissimo abbrivo: date queste premesse, la Rettorica ha
facile gioco nel «coinvorticare» («come la corrente d'un fiume ingrossato »)
[59] tutta la congerie umana e tutti gli aspetti dell'esistenza del singolo
individuo, riuscendo a contaminare ogni sana e onesta persuasione in
"disonestà". Il procedimento si reduplica e si estende, possiamo
dire, per inerzia di moto e per sineddoche di comportamento (la Rettorica, come
la Fama virgiliana, eundo crescit), seguendo una parabola che M. spiega e
sintetizza, mirabilmente, nel suo Dialogo: [...] la preoccupazione della vita
spingerà pur sempre gli uomini a curare e a cercare le posizioni dove videro
vivere altrui, dove forse anche parve a loro stessi per qualche tempo vivere.
Nasce per questa preoccupazione, dalla vita sana del corpo, la degenerazione
sensuale e la rettorica dei piaceri; dalla diritta attività d'un uomo che ha
una sua missione da compiere, l'ambizione della potenza - e la rettorica
dell'autorità; dall'opera d'un uomo che aveva qualche cosa da dire - la posa
dei creatori e la rettorica artistica; dalle parole degli uomini che mostrarono
agli altri la retta via - la presunzione dei pensatori - e la rettorica
filosofica con la sua sorella minore: la rettorica scientifica [D 64]. La prima
cambiale per l'uomo è il suo corpo, poi viene la camicia con la quale è nato -
e la camicia è contesta di posizione, diritti acquisiti, affetti acquisiti come
i diritti, non solo, ma anche di ciò che il socialmente povero «Ecco tutta la
funzione regale di tessitura: non lasciare mai che entri in azione una
separazione fra il carattere temperato e il carattere energico, che devono
invece essere orditi insieme, in una comunità di intenti e di opinioni, in una
condivisione di onori e di gloria, e in una sorta di giuramento comune, per
farne un tessuto armonioso e, come si dice, ben serrato, e confidare a questi
due elementi le magistrature della città [...] Ecco pronta la buona stoffa
prodotta dall'ordito dell'azione politica, allorché, partendo dai caratteri
umani di energia e di temperanza, la scienza regale assembla e unisce le loro
due vie per mezzo della concordia e dell'amicizia, e realizzando così il più
magnifico e il più eccellente di tutti i tessuti, vi avvolge, in ciascuna
città, tutto il popolo, schiavi e uomini liberi, serrandoli insieme nella sua
trama e assicurando alla città, senza pericolo di insuccesso, tutta la
prosperità di cui può godere quando è ben governata» (Politico, 310e - 311c).trova
già nell'atmosfera: le vie, i modi, tutto il lavoro accumulato dai secoli e di
cui i posteri godono i frutti nella vicendevole sicurezza e nella sicurezza di
fronte alla natura [D 67-68]. Questa sicurezza dissimula e copre con un velo di
«prudente ipocrisia» [D 68] una reale situazione di conflitto, quella sociale,
dove in realtà l'homo è homini lupus, dato che «invidia ambiziosa, prepotenza e
timor degli uomini» («le virtù consacrate» della rettorica sociale) [D 68] la
fanno da padrona. Tuttavia, come nella singola individualità la voce del dolore
si fenomenologizza nelle nevrosi quotidiane o esplode nelle situazioni-limite
della perplessità esistenziale, nel contesto sociale essa prende fiato
attraverso la rabbia dei popoli: «la rabbia è il Leitmotiv della vita sociale»,
il «cigolio continuo della macchina sociale»; attraverso di essi, gli uomini
sfogano la loro «impazienza e l'insopportabile senso della dipendenza » [D 69,
ma anche PR 120-121]. Ma quali sono gli strumenti attraverso i quali la Rettorica
assicura la «sicurezza fatta di reciproca convenzione», ovvero, quali sono le
reificazioni del /avorio di (falsa) persuasione ch'è proprio della Rettorica?
Possiamo utilmente schematizzare le indicazioni del Goriziano (del resto, ne
abbiamo parlato a sufficienza nel paragrafo su Parmenide): a) il denaro,
«concentrato di lavoro»'*, destinato a diventare «del tutto nominale,
un'astrazione, quando le ruote saranno così ben congegnate che ognuna entrerà
nei denti dell'altra senza bisogno di trasmissione» [118]'®; 194 In questa
definizione del denaro si può scorgere, netta, l'influenza della lettura di
testi di Marx, a M. non alieni. Un importante appunto autografo, riportato dal
Cerruti [cfr. in appendice alla sua monografia cit. alle pagg. 167- 168],
mostra ad esempio che M. lesse, annotò e schematizzò, in brevi linee e
concetti-chiave, Il capitale. Questo non deve far pensare, secondo noi, a
velleità rivoluzionarie-proletarie (nel senso marxiano del termine) nel nostro
giovane filosofo - che comunque pur scrisse, in gioventù, un Discorso al popolo
-; o addirittura ad un inserimento della sua Persuasione
"contestatrice" all'interno di una temperie marxista, come da alcuni
pur è stato tentato. In realtà, M. ci si mostra lontano da ogni engagement
politico, e questa sua posizione la valutiamo più che come sintomo di un'
"ignoranza" o indifferenza politica, come conseguenza di una ben
ponderata presa di posizione. Evidentemente, il gioco politico (nella
fattispecie, quello dei partiti) dovette apparire al Goriziano come una delle
forme più lampanti e più "scanzonate" del compromesso rettorico:
all'interno della "comunella di malvagi" esiste solo un apparente
fronteggiarsi, su posizioni solo in apparenza contrarie, che mirano
esclusivamente al potere (oggi si chiamerebbe partitocrazia). La politica del
tempo gli si doveva rivelare come conferma di ciò; vale la pena, allora,
riportare l'unico appunto politico (nel senso gretto del termine) che abbiamo
ris contrato nella nostra lettura dei suoi testi, anche a testimonianza della
lucidità della sua analisi in proposito: «[...] Il socialismo [M. sta parlando
delle manipolazioni che la Rettorica ha prodotto a scapito dei
"sinceri" moniti della Persuasione] - mantenendo le forme, il nome,
gli schemi delle argomentazioni, tutto il frasario di Marx - ha ridotta la sua
negazione della società borghese a un elemento di riforma nella società
borghese, volto a scopi più o meno particolari e materiali: più o meno mite, a
seconda che più o meno i capi del partito avevano bisogno della società
borghese e, approfittando della forza che loro concedeva il partito, ambivano a
un posto in quella. Così che in Francia il socialismo è giunto al governo, in
Germania ha creato una classe benestante più borghese dei borghesi, in Itali...
dell'Italia è pietoso tacere. -» [PR 124-125 in nota; corsivi dell'autore],
Possiamo con comodità riassumere la questione, e segnare i distinguo, dicendo
che, a differenza di Marx, M. non approntò una critica/analisi della Rettorica
a partire da strutture economiche, bensì a partire da strutture ontologiche (la
deficienza). b) il linguaggio, che «arriverà al limite della persuasività »
[118], tale che «gli uomini si suoneranno vicendevolmente come tastiera» [119]
"°° e il linguaggio giungerà alla sua «cristallizzazione» [112]
definitiva”; niente paura, tuttavia: seppure un giorno «gli uomini non
riusciranno ad intendersi certo giungeranno [comunque...] ad intendersela »
[88]/®8; c) la scienza, esasperazione della pretesa conoscitiva, «officina dei
valori assoluti» [125], il baluardo dell'oggettività, che ri-formula a suo
arbitrio la consistenza dell'esistere ricavando «dalla contemporaneità o dal
susseguirsi d'una data serie di relazioni una presunzione di causalità» [84;
corsivo nostro]; in questo rivelandosi lo strumento preferito della yiaopuyia
[84]. 95 Si pensi alle transazioni "virtuali" che oggi avvengono
mediante bancomat e carte di credito, o anche attraverso internet. %6 Si pensi
alle... tastiere dei nostri PC che permettono di chattare (come si dice in
gergo) attraverso internet. 97 «[...] Date parole sulle quali gli uomini senza
conoscerle s'appoggiano per gli usi della vita e senza conoscerle come ricevute
le danno» [87, corsivi di M.]. 98 Come visto più volte, per M. lo strumento del
linguaggio nasce innanzitutto da un bisogno di "consistenza"; vale a
dire che la "solidità" della parola, e soprattutto dei luoghi comuni
e dei "te cnicismi", serve da una parte a creare sostanza (illusoria)
alla propria deficienza attraverso il rapporto con gli altri (nel circuito
linguistico) [La utilità, quella originaria], dall'altra ad economizzare la
transazione rettorica, se possiamo esprimerci così [2a utilità, quella
definitivamente artefatta]. Questa situazione di "stordimento" (in
riferimento soprattutto alla prima utilità), il vano tentativo di stornare la
voce del dolore/deficere attraverso il frinire "innaturale" del
linguaggio, denunciata più volte da M., e con insistenza, viene allegorizzata
in questa breve, bellissima favola di Rilke, che ci piace riportare, convinti
che se il Goriziano l'avesse letta l'avrebbe di sicuro, a sua volta, citata (si
leggano con attenzione soprattutto gli ultimi capoversi):«C'erano due creature,
un uomo e una donna, che si amavano. Amarsi vuol dire non accettare nulla, da
nessuna parte, dimenticare tutto e volere ricevere tutto da una sola persona,
quello che già si possedeva ed il resto: e questo è quanto desideravano
reciprocamente le due creature. Ma nel tempo, nei giorni, nel flusso di tutto
quello che va e viene, spesso, prima ancora di avere stabilito un rapporto, un
simile modo di amare non può essere mandato ad effetto: gli avvenimenti
incalzano da ogni lato ed il caso apre loro ogni porta. Per questo i due
risolsero di passare dal tempo alla solitudine lontano dal suono delle ore e
dai rumori della città. Si costruirono dunque una casa dentro un giardino; e la
casa aveva due porte, una sul lato destro e una sul lato sinistro. La porta di
destra era la porta dell'uomo, e di qui doveva entrare tutto quanto era
dell'uomo. Ma quella di sinistra era la porta della donna; e sotto questo arco
doveva passare tutto quello che apparteneva alla donna. Così avvenne. Chi primo
si destava il mattino scendeva ad aprire la sua porta, e fino a tarda ora della
notte entravano molte cose, anche se la casa non era posta lungo una strada.
Per chi sappia come riceverli, arrivano fino in casa paesaggio luce e una
brezza dalle spalle cariche di odore e molte altre cose ancora. Ma anche giorni
trascorsi, figure, destini, entravano per quelle due porte, e a tutti era
riservata la stessa accoglienza, tanto semplice che ognuno credeva di avere
sempre abitato in quella casa solitaria. Così procedettero le cose per un lungo
periodo di tempo, e le due creature erano molto felici. La porta di sinistra
veniva aperta un poco più spesso, ma per quella di destra entravano ospiti più
vari. Dinanzi a questa, un mattino era ad attendere la Morte. L'uomo, non
appena la ebbe veduta, chiuse in fretta la porta e la tenne ben serrata per
tutto il giorno. Poco dopo la Morte apparve dinanzi all'ingresso di sinistra.
La donna chiuse tremando la porta elasbarrò con un robusto chiavis tello. Essi
non si dissero nulla dell'accaduto; ma aprirono più di rado le due porte e
cercarono di accomodarsi con quanto avevano in casa. La loro vita divenne così
molto più povera di prima. Le loro riserve si fecero scarse, sorsero le prime
preoccupazioni. Cominciarono a dormire male; e durante una di quelle lunghe
notti insonni, entrambi udirono improvvisamente uno strano rumore, quasi uno
scalpicciare e un picchiare insieme. Veniva di là dal muro di casa, a eguale
distanza dalle due porte, ed era come se qualcuno cominciasse a scalzare pietre
per aprire una nuova porta al centro di quel muro. Nel terrore improvviso che
li colse, i due si comportarono come se non udissero nulla di strano;
cominciarono a parlare, a ridere in modo innaturale; e quando si furono
stancati, il rumore alla parete era cessato. Da quella notte in avanti le due
porte rimangono definitivamente chiuse. | due vivono come prigionieri; sono
malati, soffrono di strane fantasie. Il rumore si ripete di tempo in tempo.
Allora essi ridono con le labbra, ma i loro cuori sono sul punto di mancare
dallo spavento. Ed entrambi sanno che il rumore diventa sempre più forte e
distinto, e debbono parlare e ridere sempre più forte con le loro voci sempre
più fioche». [cfr. R. M. Rilke, Le storie del buon Dio, trad. it., Milano,
Rizzoli, 1978, pp. 119-122].La società, soprattutto attraverso la scienza, non
soltanto assicura "oggettività esistenziale" ma scongiura agli uomini
ogni «tovog - ogni pericolo che esiga tutta la fatica intelligente e tenace per
esser superato » [105] (ma, in effetti, i due "pregi"
s'identificano). Nel far questo, essa si autopromuove, come si dice oggi, a
"scienza con fini operativi", ovvero a tecnica. La vita si
tecnicizza, il che wol dire, secondo M. (il quale non fa differenza fra tecnica
e tecnologia), che la vita si de-potenzia'’. La tecnica, cioè, viene a 199 La
critica di ispirazione heideggeriana può, a buon ragione, individuare
soprattutto in questo punto uno dei più espliciti "precorrimenti" di M.
rispetto al filosofo tedesco. Tuttavia, a prescindere da una certa, effettiva
consonanza di diagnosi che pare accomunarli, ribadiamo quello che, a nostro
parere, è l'irriducibile "cavillo" che li contraddistingue e che
rende vana, per noi, ogni operazione di accostamento: per Heidegger, l'oblio
dell'Essere e il richiamo all'esistenza autentica (come riappropriazione
dell'orizzonte ontologico del Dasein) si giocano sul piano appunto
dell'ontologia; per M. la Rettorica ha una natalità fisiologica, se possiamo
esprimerci così, e il richiamo all'esistenza autentica si consuma sul piano del
socratismo, ovvero di una forte istanza etica (etica che, come si sa,Heidegger
ci tenne ad escludere dalla sua "analitica esistenziale"). E'
comunque indicativo come, seppur partendo da differenti presupposti, i due
filosofi si fanno interpreti di una comune "perplessità" del pensiero
di fronte ai risvolti "violenti", neanche tanto nascosti, che la
tecnica porta con sé. Evidentemente, la traduzione politica del dominio tecnico
veniva presentita come pericolo in un'età incerta per eccellenza, che - volendo
- M. apre e Heidegger chiuderà, con gli esiti contraddittorii che tutti
conosciamo. E' altrettanto ovvio che M. non fu il primo ad individuare, e a
denunciare, l'essenza tecnica, diciamo il "tecnocratismo", del suo
tempo: a partire dalla rivoluzione industriale, almeno, la polemica -
moralistica e/o scientifica (intendiamo, per quest'ultimo punto, marxista) -
contro la riduzione dell'uomo a ingranaggio era addirittura un fatto alla moda.
E prima di M., già un Carlyle, ad esempio, ci dava un ottimo resoconto di
prospettiva: «Se ci si chiedesse di caratterizzare questa età, che è la nostra,
con qualche epiteto unico, saremmo tentati di chiamarla non Età Eroica,
Religiosa, Filosofica o Morale, ma l'Età Meccanica, sopra ogni altra. E' l'Età
del Macchinismo in tutti i significati della parola, esterno e interno; l'Età
che con tutto il suo potere indiviso, fa progredire, insegna e pratica la
grande arte di adattare i mezzi allo scopo. Nulla si fa ora direttamente, o a
mano; tutto colla regola e colla combinazione calcolata. [...] Da ogni parte
l'artigiano vivente è cacciato dalla sua officina per lasciare il posto ad un
altro più rapido ed inanimato. La spola sfugge alle dita del tessitore e cade
in dita di ferro che la maneggiano con maggiore velocità. [...] Per tutti gli
scopi terrestri e per alcuni scopi non terrestri ci sono macchine e aiuti meccanici;
per tritare i nostri cavoli, per immergerci in un sonno magnetico. [...] Che
meravigliosi incrementi furono cosi portati e sono ancora apportati alla
potenza fisica dell'umanità; quanto meglio nutriti, vestiti, alloggiati, e
sotto i rapporti esteriori, quanto meglio accomodati sono ora, o potrebbero
essere, gli uomini con una certa misura di fatica; ecco una riflessione
piacevole che si impone ad ognuno. Quali cambiamenti, inoltre stia apportando
nel sistema sociale questo accrescimento di potenza; come sia sempre più
cresciuta la ricchezza e nello stesso tempo si sia sempre più accumulata in
masse, alterando stranamente le vecchie relazioni e aumentando la distanza fra
il ricco e il povero, sarà un problema per gli economisti politici. [...] Ma
lasciando per ora queste materie, osserviamo come il genio meccanico del nostro
empo si sia esteso in campi affatto estranei. Non è soltanto l'esteriore e il
fisico che sono retti dal meccanismo, ma anche l'interiore e lo spirituale.
Anche qui nulla segue il suo corso spontaneo, nulla è lasciato in balia degli
antichi metodi naturali [...}». A tal proposito, troviamo interessante
riscontrare anche un'indiscutibile analogia descrittiva all'interno della
comune polemica (di Carlyle e di M.) contro l'età del Macchinismo: entrambi
fanno riferimento a esempi concreti, minimi, 'tecnici"; entrambi
denunciano una meccanizzazione non solo dell'aspetto "esteriore e
fisico", ma anche dell' "interiore e spirituale". E'anche
interessante valutare l'alternativa che Carlyle propone all'età della tecnica;
poco dopo il passo citato, egli scrive:«Il Filosofo di quest'epoca non è un
Socrate, un Platone, [...] che inculca agli uomini la necessità e il valore
infinito della bontà morale, e questa grande verità, che la nostra felicità
dipende dallo spirito che è in noi e non dalle circostanze che sono fuori di
noi; ma uno Smith, [...] un Bentham, che inculcano precisamente il contrario, -
cioè che la nostra felicità dipende intieramente dalle circostanze esteriori; e
che anche la forza e la dignità dello spirito che è in noi sono esse pure la
creazione e la conseguenza di quelle circostanze. Se le leggi e il governo
fossero bene ordinati, tutto andrebbe bene per noi; il resto si accomoderebbe a
suo piacere!», Un resoconto che M. avrebbe controfirmato (a meno che da esso
non sia stab anche ispirato, ma sinceramente non ce la sentiamo di avanzare
l'ipotesi). Quest'ultima citazione da Carlyle non vuole certo appiattire
l'originalità della proposta persuasa di M., né il suo riferimento alla lezione
genuina del socratismo come sostanza etica della Persuasione (ci mancherebbe
altro); vuol soltanto far intendere come la ricerca esistenziale dicoincidere
con la razionalizzazione estrema della relazione sufficiente poiché essa, in
sostanza, s'impegna - potremmo dire, in base al nostro assunto interpretativo -
a sufficere homines [cfr. supra], meccanizzandone quella che la Arendt
chiamava, in senso pregnante, vita activa. In base a questa diagnosi, che M.
snocciola non tanto a livello teoretico 200, il Goriziano conclude che «ogni
quanto piuttosto indugiando su esempi di vita concreta progresso della tecnica
istupidice per quella parte [ch'essa intende sufficere] il corpo dell'uomo»
[104]: «le vesti, la casa, la produzione artificiale del calore rendono inutile
la facoltà di reazione dell'organismo», tale che «l'individuo per sé non è più
una forza pericolosa in mezzo agli animali». Siamo convinti che queste
affermazioni di M., che corrono il rischio di esser lette come un grossolano
parossismo anti-tecnologico, trovino il motivo della loro esagerazione
soprattutto in una velata polemica "ideologica" individuabile tra le
righe: esse, cioè, ci appaiono non solo come ammissioni, ma anche come
contestazioni, se si tien conto (e invitiamo a farlo) delle contemporanee
tecno-apologie del futurismo, altrettanto parossistiche?°'. Inoltre, le
conclusioni del Goriziano confortano anche la nostra linea interpretativa, che
legge "foucaultianamente" la Rettorica, nella sua espressione più
pura, come tecnica politica del corpo: difatti, proprio attraverso la tecnica,
secondo M. essa sollecita un processo (diremmo, danwiniano) di atrofia
progressiva delle potenzialità organiche dell'individuo, condizione sufficiente
all'asservimento totale (e in questo contesto, invitiamo anche a tener conto
delle "ragioni" della servitù secondo Aristotele, nelle prime pagine
della Politica). M., oltre che essere frutto di un impegno, di una esigenza e
di una sofferenza personali, evidentemente s'inseriva anche all'interno di una
temperie culturale - che accomunava le voci più alte non solo del socialismo e
del radicalismo, ma anche del liberalismo, dell'anarchismo e addirittura del
fronte reazionario - che auspicava all'unisono un ritorno dell'uomo alle
autentiche radici della sua umanità. [Per le citazioni dei passi di T. Carlyle,
cfr. dell'autore: Segni dei tempi, contenuto in Ideologie nella rivoluzione
industriale,a cura di F. Papi, Zanichelli, 1976, pagg. 121-124 passim] 200 O
meglio, lascia al lettore la facoltà di evincere il livello teoretico dai
riferimenti "empirici". Per gli esempi polemici adottati da M. cfr.
ib. pagg. 106-107. Ma cfr. anche la nostra nota precedente. 201 Anzi, la
posizione di M. (tecnologia come atrofia dell'organo per delega della funzione,
se possiamo dir così) pare offrirsi come il ribaltamento speculare di quella
futurista (tecnologia come potenziamento dell'organo per ausilio nella
funzione). E, in questo senso, c'è forse anche un intento ironico nel
sottolineare l'effetto d' "evirazione" che la tecnica produce.
L'esaltazione del meccanismo e della velocità, già esplicita nel Manifesto del
1909 (l'anno in cui M. cominciò a scrivere la sua tesi), diviene in Marinetti
addirittura utopia di un nuovo uomo meccanico e "moltiplicato": «Il
giorno in cui sarà possibile all'uomo di esteriorizzare la sua volontà in modo
che essa si prolunghi fuori di lui come un immenso braccio invisibile il Sogno
e il Desiderio, che oggi sono vane parole, regneranno sovrani sullo Spazio e
sul tempo domati. Il tipo non umano e meccanico, costruito per una velocità
onnipresente, sarà naturalmente crudele, onnisciente e combattivo. Sarà dotato
di organi inaspettati: organi adattati alle esigenze di un ambiente fattodiurti
continui. Possiamo prevedere fin d'ora uno sviluppo a guisa di prua della
sporgenza esterna dello sterno, che sarà tanto più considerevole, inquantoché
l'uomo futuro diventerà un sempre migliore aviatore».La tecnica dunque è il
punto più alto e più subdolo della violenza verso l'uomo e verso la natura
[97-98], poiché l'organizzazione tecnica della vita - ossia l'orizzonte tecnico
di dominio - presuppone e valuta tutti gli enti del mondo sublunare alla
stregua di risorse- corpi a disposizione, momenti-corpi di un ingranaggio,
materiali-corpi impiegati/impiegabili secondo piani prestabiliti?°?, Il danaro,
il linguaggio, la scienza, e la sua escrescenza tecnica, rappresentano così la
cementazione dell'intreccio delle relazioni sufficienti, e - garantendosi
fondamenta così salde - la Rettorica ha facile gioco nell'edificare il suo
sistema sociale, la sua geniale architettura di dominio. «Questa camicia di
forza o camicia rettorica - scrive M. - è contesta di tutte le cose nate dalla
vita sociale: 1°, i mestieri; 2°, il commercio; 3°, il diritto; 4°, la morale;
5°, la convenienza; 6°, la scienza; 7°, la storia» [120]. Ed ha per giunta una
sua deontologia, un suo pentalogo”° a uso e consumo della sua violenza: 1 non
impegnarti con tutta la tua persona 2 distingui tra teoria e pratica 3 prendi
la persona della sufficienza che t'è data 4 misura i doveri coi diritti 5
informati a ciò che è convenuto [108] In definitiva, la genialità della
Rettorica è nel far calzare ai propri "sudditi", coi modi della
lusinga, una convenienza che più che un abito sociale è divenuta una vera e
propria nuova pelle [156; vedremo più avanti come ci riesca]; tal che essi,
beati per l'azione dell'oppiaceo rettorico, «galleggiano alla superficie della
società come un ago asciutto alla superficie dell'acqua per l'equilibrio delle
forze delle forze molecolari» [120; corsivo di M.], senza sforzo e,
soprattutto, cosa più grave, senza responsabilità [108]. Gli uomini si adattano
volentieri ad essere partes materiales dell'organismo sociale [148, ma anche
114], scambiano la Salute per la felicità e | benessere, che la Rettorica propina
loro nelle sembianze dell'«armoniosa soddisfazione delle singole necessità»
[154] e dell'«ottimismo sociale» [117]. La Rettorica sociale è il paese dei
balocchi” e l'uomo, come Pinocchio, «non è un E così via. E' altresì
interessante notare che Marinetti, pochi capoversi prima, aveva dileggiato i
Lavoratori del Mare di Victor Hugo come opera emblema di «un leitmotiv
dominante tedioso e sciupato [quello della «divina Bellezza- Donna»]», opera
invece adorata da M.. [per le citazioni da Marinetti, cfr. dell'autore L'uomo
moltiplicato e il Regno della Macchina, contenuto in Filippo Tommaso Marinetti
e il Futurismo, Oscar Mondadori, 2000, a cura di Luciano de Maria, pagg.
38-42]. 202 Per Heidegger, l'essenza della tecnica - il punto estremo dell'
"oblio dell'Essere" - si rivela come Gestell, "impianto",
ossia unione di tutti i modi dell'impiegare. Gli heideggeriani, giocando
sull'etimologia, fanno notare che Gestell vuol dire anche "scaffale",
dove il Ge (che traduce il cum latino), sta per il modo della raccolta. E che
il Ge lo ritroviamo nel Gefahr, nel "pericolo" della tecnica come
orizzonte planetario in cui il "pensiero calcolante" oblitera
definitivamente l'essenza dell'Essere. 203 Si confronti col già citato
Pentalogo della persuasione; per cui cfr. anche oltre, in relazione ad un altro
pentalogo, quello tolstoiano. Mittwisser, ovverdwc, conscius, ma complice in
buona fede» [108] del lucignolo dio della popoya, nel disporre e nel gioire del
suo "svago" e delle sue comodità. 204 Leggiamo in questo senso la
simpatia di M. per l'opera di Collodi (come ricordato in precedenza, secondo la
testimonianza della sorella Paula) e abbiamo inserito apposta qui il
riferimento, anche per esigenze di variatio. 118 5. L'insoluto scontro
universale di Rettorica e Persuasione. Le proposte di M. per un definitivo
affermarsi della Persuasione. Lo scontro coni fatti. Di fronte alla Rettorica,
in un assetto dunque non monolitico, ma dinamico, plurale, sta la forza della
Persuasione, la forza della resistenza, l'autonomia "politica" (autonomia,
ma politica) del vir: quest'ultimo, come dicemmo, vive in uno stato di
emulsione. «Questi punti di resistenza sono presenti dappertutto nella trama
del potere. Non c'è [...] rispetto al potere un luogo del grande Rifiuto - anima
della rivolta, focolaio di tutte le ribellioni, legge pura del rivoluzionario.
Ma delle resistenze che sono degli esempi di specie: possibili, necessarie,
improbabili, spontanee, selvagge, solitarie, concertate, striscianti, violente,
irriducibili, pronte al compromesso, interessate o sacrificali»* “°°. La forza
del vir sta nel distinguersi in questo coacervo di opposizioni più o meno
consapevoli, più o meno sincere, più o meno innervate nella (o esposte alla)
malafede: l'opposizione alla Rettorica rischia a sua volta di farsi rettorica,
talora è lo stesso dispositivo che maschera se stesso nelle forme della sua
opposizione”. 205 Cfr. nostra nota 167. 206 Troviamo interessante, a tal
proposito, il tentativo già di Quintiliano di confutare questo carattere
ancipite della retorica: ovviamente, lo scrittore latino fa riferimento alla
retorica intesa nella sua fenomenologia più povera, ovvero come "arte del
dire"; eppure, già qui, Quintiliano si mostra consapevole della potenza
del dispositivo, tale da riuscire a rovesciare una posizione nel suo contrario;
si mostra altresì persuaso che una retorica che rinnega se stessa è piuttosto
un'eristica; e che, di converso, il vero retore segue una morale (quella del
credibile, del verosimile) che non può essere confutata, perché mira al bene
della comunità. C'è una lunga tradizione latina dietro alle parole del
pedagogista, che risale almeno a Catone: l'oratore è il vir bonus dicendi
peritus. Tuttavia, l'autore del brano, verso la fine, quasi sconfessa se
stesso: la retorica si scopre come mero strumento di dominio (seppure volto al
bene della comunità), strumento eminentemente politico che, in un certo
momento, si dissocia volentieri da quella stessa moralità che dovrebbe invece
permearla e che lo scrittore appassionatamente pur le ascrive. E' altresì
interessante, secondo noi, valutare le arti "gemelle" che Quintiliano
associa alla retorica nel corso della sua confutazione: la scherma, il
pilotaggio, la strategia condividono - con la stessa "arte del dire"
- il medesimo sfondo polemico, la medesima finalità di sconfiggere
l'avversario. Ovvero, il meccanismo retorico ad un certo punto si astrae dal
suo luogo di origine e diviene elemento strutturale e caratterizzante di tutto
l'agire umano. Dunque, anche la confutazione di Quintiliano finisce col
ritorcersi contro se stessa. [Del testo, abbiamo evidenziato in corsivo i
passaggi che riteniamo cruciali]. «Assai spesso si fa quest'altra cavillosa
accusa alla retorica, che la discussione abbia luogo da una parte e dall'altra;
ne segue che, mentre nessun'arte è opposta a sé stessa, per la retorica avviene
il contrario; mentre nessun'arte distrugge quello che ha fatto, ciò tocca alla
retorica; parimenti, essa insegna o quanto è da dire o quanto non è da dire,
quindi essa non è arte o in quanto insegna quel che non si deve dire o in
quanto, dopo aver insegnato quel che si deve dire, insegna pure il contrario.
Evidentemente queste considerazioni riguardano solo quella retorica che è
aliena dalla moralità dell'oratore e dal concetto stesso di virtù: del resto,
dove la causa è ingiusta, ivi non ha luogo la retorica, per cui è quasi
inverosimile che sia un buon oratore, cioè un uomo onesto, a difendere l'una e
l'altra parte in causa. Tuttavia, essendo nell'ordine naturale delle cose che
due giuste cause dividano in campi opposti due saggi, dal momento che essi
pensano di dover venire a scontrarsi tra loro, se la ragione cosi comanderà,
risponderò a tali argomenti e certamente in modo da dimostrare che tali idee
sono state vanamente escogitate anche contro quanti concedono il titolo di
oratore pure alle persone dai cattivi costumi. Intanto la retorica non è in
contrasto con se stessa: perché si mette a confronto una causa con un'altra
causa, non la retorica con sestessa. E se tra loro contendono due oratori che
hanno imparato la stessa cosa, sarà sempre arte quella che è stata insegnata
sia all'uno che all'altro; d'altro canto, ciò si verifica nella scherma, perché
sovente gladiatori allenati dallo stesso maestro vengono messi l'uno di fronte
all'altro; nel pilotaggio, perché nelle battaglie navali un pilota fronteggia
l'altro; nella strategia, perché un generale combatte contro l'altro. Allo
stesso modo la retorica non sovverte quel che ha creato. Infatti, l'oratore non
distrugge le argomentazioni da lui proposte e neppure fa questo la retorica,
perché tra quanti pongono come finalità di quest'arte il persuadere o tra due
galantuomini che, come ho detto, qualche caso abbia posto di fronte, oggetto
della ricerca è ciò che più si avvicina alla verità: e se una cosa è più
attendibile di un'altra, essa non sarà opposta a quella che pure apparve
attendibile. In sostanza, come non c'è Di contro, la Persuasione deve trovare
una sua coerenza, una sua consapevolezza, una sua "bontà gratuita",
che la distolga dalla tentazione di invischiarsi anch'essa nella trama di
potere, o di essere inglobata (e dunque di divenire inoffensiva) in una delle
tante "sacche di tolleranza" che la Rettorica ha a sua disposizione.
La voce della Persuasione (soprattutto attraverso l'insegnamento socratico, che
ne rappresenta la trasposizione umana più fedele) [... ]risveglia nell'uomo la
richiesta del bene attuale e lo affranca dal pericolo di dar valori a nomi così
da esser per questi tratto a adattarsi all'irrazionalità di una qualsiasi vita
sufficiente; lo libera dalla vana attesa d'un futuro che porti ciò di cui nel
presente non abbia in sé la potenza, lo libera dalla soggezione dell'ambiente
in ciò che gli nega il possesso di quanto dalle cose e dagli uomini gli possa esser
dato diverso da lui, additandogli come unico possesso da seguire la propria
anima [PR 150]. Ecco perché, a nostro parere, la forza rivoluzionaria di M. non
può essere assimilata alla contestazione, filosofica e politica, della scuola
di Francoforte (strascico dell'istanza marxista), come pure qualche
critico" ha proposto. Certo, vien quasi naturale conchiudere l'analisi M.iana
sul dispositivo rettorico nelle parole programmatiche che un Marcuse appone al
suo capolavoro: «Una confortevole, levigata, ragionevole, democratica
non-libertà prevale nella civiltà industriale avanzata »°°8, Altrettanto
spontaneo nascerebbe l'accostamento tra gli uomini rettorici e i «salauds» di
Sartre (o i «fieri benpensanti», ma per il Francese è lo stesso), «quelli che
passeggiano in riva al mare nei loro abiti primaverili», credendo (o fingendo
di credere) a quell'edificio ordinato di valori, diritti, abitudini che si sono
costruiti per dare un ruolo, un senso a sé e alle cose, occultando l'abisso
della gratuità e assurdità del mondo e dell'esistenza?°’. opposizione tra ciò
che è bianco e ciò che è più bianco, tra ciò che è dolce e ciò che è più dolce,
così opposizione non c'è tra quanto è credibile e quanto è più credibile. La
retorica non insegna mai quello che non dev'essere detto, né il contrario di
quello che dev'essere detto, ma quel che in ciascun processo dev'essere detto.
E non sempre, anche se molto spesso, la verità va difesa a tutti i costi,
perché in certi casi l'interesse generale impone la difesa di ciò che è falso»
[Quintiliano, Institutio oratoria, II, 17, 30-36, trad. P. Pecchiura]. 207 Ad
esempio, il Cerruti: ma l'opinione è divenuta oramai quasi un luogo comune. Il
critico, comunque, fa un rilievo che possiamo accettare, e preporre anche alla
nostra analisi: M. quando attacca il "sistema rettorico" - o la
Rettorica fatta sistema, com'egli dice - rivolge invero le sue critiche ad un
paradigma assoluto di "comunella di malvagi" (ogni comunella è,
sempre e dovunque, malvagia); tuttavia la sua spietata disanima ha buon gioco
nel prender di mira l'epifania storica di quella comunella a lui contemporanea,
cioè la società borghese di fine ottocento - inizio novecento, come risultante
ultima, almeno in ordine di tempo, della degenerazione "politica"
dell'uomo (e ciò, nota il Cerruti, si esplicita soprattutto nel Discorso al
popolo; ma cfr. la sua monografia su Carlo M., Mursia - Civiltà Letteraria del
Novecento, 1987 2ed, pag. 48] 208 Cfr. Marcuse, L'uomo a una dimensione,
Einaudi, 1999, pag. 15. 209 Cfr. J .P.Sartre, La Nausea, Einaudi, 1989 nella
fattispecie le pagg. 165-178. L'ipocrita rettorica dei salauds trova il proprio
corrispettivo, amabile e ingenuo, nell'ostinazione di Anny nel creare «momenti
perftti», sforzi tanto minuziosi quanto vani per ricomporre il mondo intorno a
lei. Per Sartre, l'esistenza che si svela (la vera esistenza) è appunto la
Nausea, una pozza tiepida di terribile consapevolezza del putridume che intride
l'aria, la luce, i gesti della gente. Se M. avesse potuto leggere Sartre,
avrebbe chiamato certamente anch'egli Nausea la disgustosa "condizione
onirica" che attanaglia l'uomo nelle situazioni limite della propria
esistenza [per cui cfr. supra]. Ma nondimeno l'avrebbe combattuta. Eppure, la
distanza tra le due posizioni - quella di M. e quella francofortese- sartriana
- non è solo di prospettiva storica, ma innanzitutto di prospettiva etica’: un
Adorno, un Marcuse, un Horkheimer, un Sartre (il loro stesso progenitore: Marx)
si muovono ancora nella rete dei poteri, traggono ancora ispirazione dalla
spirale di violenza: la trasformazione ch'essi prospettano, la contestazione di
cui essi si fanno portavoci mira, l'è vero, ad essere destabilizzante, a minare
dalle fondamenta le forme costituite della Rettorica (ovvero, com'essi la
chiamano, dell'amministrazione”'') ; eppure la loro contestazione alla violenza
avviene attraverso la violenza per l'instaurazione di una nuova violenza, ch'è
la stessa Rettorica con nome solo mutato: i giacobini della rivoluzione si
affannano a riscrivere una nuova "enciclopedia" della mappa del
potere, contraddittoria ma non contraria a quella che già esiste. Se proprio
vogliamo trovare un riferimento, più o meno attuale, alla soluzione M.iana,
potremmo casomai chiamare in causa l'utopia di un Bloch. Ma anche qui il
paragone non tiene. Perché M. si pone su un piano decisamente
"altro": la sua Persuasione non consiste in una riorganizzazione del
potere, neanche nelle parvenze di una sua "castrazione". La
Persuasione del Goriziano mira piuttosto a scardinare ogni sufficiente
relazione, ovvero - lo ripetiamo ancora una volta - a svellere la violenza
dalle sue radici, in maniera definitiva. L'atto di accusa contro le
"scuse" della Rettorica è in lui totale, esasperato, e in questo
potrebbe dirsi utopico: eppure contiene una sincerità che non ci sentiamo di
attribuire ai teorici della violenza contro la violenza. Il nostro giovane
filosofo avviò una disperata ricerca di "punti di appoggio" a questa
sua proposta di Persuasione, e - come visto - la individuò in un /eitmotiv che
legava esperienze storiche e culturali eterogenee, da Sofocle, Socrate, Cristo,
Buddha, a Ibsen a Beethoven e Leopardi: voci - quasi confuse (intendiamo:
eccentriche, molto diverse tra loro) - che il tesista riassettò, compilando una
propria, personalissima storia dell'umanità persuasa decisamente alternativa ad
ogni ufficiale, pacifica, compassata storia della razionalità occidentale (che
è poi la storia del potere occidentale). Quei punti di appoggio dovevano
corroborare una sua intima persuasione, ovvero dovevano garantirle (anche) una
dignitosa piattaforma speculativa, che ne scongiurasse il pericolo di essere
mal intesa (come ancor oggi purtroppo avviene) quale mera, epidermica, gratuita
pulsione eversiva e contestatrice rispetto a quanto la circondava. 210 Come
giustamente lamenta il Campailla. Scrive molto bene lo studioso: «[da un simile
accostamento] vien fuori un travisamento del pensiero di M.; il quale ha
lottato non per avviare una rivoluzione sociale, ma per ricostruire il valore
etico dell'esistere sul non senso dell'essere» [cfr. Campailla, Pensiero e
Poesia..., cit, pagg. 142-143; corsivi nostri]. 211 Facciamo notare che M. vede
negli «impiegati [... ] le anime 'implicate' per eccellenza» [PR 110],Una
storia della Persuasione, infine, che sembra scandirsi, anzi che effettivamente
s'identifica, con una storia del Tragico. La Persuasione, dallo scontro «a
ferri corti con la vita», esce perdente. Certo, è così, ribadisce M.: è un
fatto innegabile, un esito che "le accade" comunque, suo malgrado.
Come è ‘anche vero che la Rettorica ha assorbito, metabolizzato le
testimonianze persuase e le ha fatte diventare le proprie testimonianze,
esplicito ribaltamento effettuato con malafede: la Rettorica «mangia e beve e
prolifica in nome di Buddha, in nome di Cristo» [adattato da PR 123];
ripetiamo: «Ironia del dispositivo: ci fa credere che ne va della nostra
liberazione». Eppure la voce della Persuasione, seppur agonizzante, resiste con
tenacia, sorvola anche ogni sua strumentalizzazione, s'insinua nelle falle del
"divertimento" rettorico, approfitta dei suoi cedimenti (ogni
pletorica ha i suoi punti deboli, per quanto minimi): la sua voce di
disincanto, per taluni irritabile, "sgomita" insomma per arrivare
fino a noi, ad inquietarci. E a volte ci riesce, neanche questo si può negare.
E' la "profezia" di Socrate, l'anatema del Persuaso rivolto contro i
suoi accusatori ed assassini: [... ]lo dico, o cittadini che mi avete ucciso,
che una vendetta ricadrà su di voi, subito dopo la mia morte, assai più grave
di quella onde vi siete vendicati di me uccidendomi. Oggi voi avete fatto
questo nella speranza che vi sareste pur liberati dal dover rendere conto della
vostra vita; e invece vi succederà tutto il contrario: io ve lo predìco. Non
più io solo, ma molti saranno a domandarvene conto: tutti coloro che fino ad
oggi trattenevo io, e voi non ve ne accorgevate. E saranno tanto più ostinati quanto
più sono giovani; e tanto più voi ve ne sdegnerete. Ché se pensate, uccidendo
uomini, di impedire a qualcuno che vi faccia onta del vostro vivere non retto,
voi non pensate bene. No, non è questo il modo di liberarsi da costoro; e non è
affatto possibile né bello; bensì c'è un altro modo bellissimo e facilissimo,
non togliere altrui la parola, ma piuttosto adoperarsi per essere sempre più
virtuosi e migliori?!?.6 Il pretesto cronologico della proposta persuasa di M..
La violenza a lui contemporanea. Se tento di trovare una formula comoda per
definire quel tempo che precedette la prima guerra mondiale, il tempo in cui
son cresciuto, credo di essere il più conciso possibile dicendo: fu l'età d'oro
della sicurezza. Nella nostra monarchia austriaca quasi millenaria tutto pareva
duraturo e lo Stato medesimo appariva il garante supremo di tale continuità. |
diritti da lui concessi ai cittadini erano garantiti dal parlamento, dalla
rappresentanza del popolo liberamente eletta, e ogni dovere aveva i suoi precisi
limiti. La nostra moneta, la corona austriaca, circolava in pezzi d'oro e
garantiva così la sua stabilità. Ognuno sapeva quanto possedeva o quanto gli
era dovuto, quel che era permesso e quel che era proibito: tutto aveva una sua
norma, un peso e una misura precisi. Chi possedeva un capitale era in grado di
calcolare con esattezza il reddito annuo corrispondente; il funzionario,
l'ufficiale potevano con certezza cercare nel calendario l'anno
dell'avanzamento o quello della pensione. Ogni famiglia aveva un bilancio
preciso, sapeva quanto potesse spendere per l'affitto e il vitto, per le
vacanze o per gli obblighi sociali, e vi era anche sempre una piccola riserva
per gli imprevisti, per le malattie e il medico. Chi possedeva una casa la
considerava asilo sicuro dei figli e dei nipoti; fattorie e aziende passavano
per eredità di generazione in generazione; appena un neonato era in culla, si
metteva nel salvadanaio o si deponeva alla cassa di risparmio il primo obolo
per il suo avvenire, una piccola riserva per il suo cammino. Tutto nel vasto
impero appariva saldo e inamovibile e al posto più alto stava il sovrano
vegliardo, ma in caso di sua morte si sapeva (o si credeva di sapere) che un
altro gli sarebbe succeduto senza che nulla si mutasse nell'ordine prestabilito.
Nessuno credeva a guerre, a rivoluzioni e sconvolgimenti. Ogni atto radicale,
ogni violenza apparivano ormai impossibili nell'età della ragione. Questo senso
di sicurezza era il possesso più ambito, l'ideale comune di milioni e milioni.
La vita pareva degna di esser vissuta soltanto con tale sicurezza e si faceva
sempre più ampia la cerchia dei desiderosi di partecipare a quel bene prezioso.
Dapprima furon solo i possidenti a compiacersi del privilegio, ma a poco a poco
accorsero le masse; il secolo della sicurezza divenne anche l'età d'oro per
tutte le forme di assicurazione. Si assicurava la casa contro l'incendio e il
furto, la campagna contro la grandine e i temporali, il proprio corpo contro
gli infortuni e le malattie, si acquistavano pensioni per la vecchiaia e si
offriva alle neonate una polizza per la dote futura. Alla fine si organizzarono
anche gli operai, conquistandosi paghe regolate e le casse malattia, mentre i
domestici si preparavano coi risparmi un'assicurazione sulla vecchiaia e pagavano
in anticipo un obolo per i propri funerali. Solo chi poteva guardare l'avvenire
senza preoccupazioni, godeva il presente in tutta tranquillità. In questa
commovente fiducia, di poter chiudere anche l'ultima falla all'irrompere della
sorte, c'era, malgrado l'apparente austerità e modestia nel concepire la vita,
una presunzione pericolosa. L'Ottocento, col suo idealismo liberale, era
convinto di trovarsi sulla via diritta ed infallibile verso 'il migliore dei
mondi possibili' Guardava con dispregio le epoche anteriori con le loro guerre,
carestie, rivoluzioni, come fossero state tempi in cui l'umanità era ancora
minorenne e insufficientemente illuminata. Ora invece non era più che un
problema di decenni, poi le ultime violenze del male sarebbero state del tutto
superate. Tale fede in un 'progresso' ininterrotto ed incoercibile ebbe per
quell'età la forza di una religione; si credeva in quel progresso già più che
nella Bibbia ed il suo vangelo sembrava inoppugnabilmente dimostrato dai sempre
nuovi miracoli della scienza e della tecnica. In realtà, sulla fine di questo
secolo di pace l'ascesa generale si fece sempre più rapida e molteplice. Nelle
strade splendevano di notte al posto delle tremolanti lanterne le lampade
elettriche, i negozi portavano dalle vie centrali sino alla periferia il loro
splendore seducente; già in grazia del telefono si poteva comunicare da
lontano, già si poteva correre nei carri senza cavalli con velocità impensate,
già l'uomo si lanciava nell'aria attuando il sogno di Icaro. Le comodità della
vita passarono dalle dimore signorili a quelle borghesi; non si dovette più
attingere l'acqua dal pozzo o dal ballatoio, non più accendere con pena il
fornello. Si diffondeva l'igiene, spariva la sporcizia. Gli uomini diventavano
più belli, più sani, più forti da quando lo sport ne irrobustiva il corpo e
sempre più raramente si vedevano deformi, gozzuti, mutilati: tutti questi
miracoli erano stati compiuti dalla scienza, arcangelo del progresso. Anche nel
campo sociale si andava avanti; di anno in anno venivano concessi nuovi diritti
all'individuo, la giustizia veniva amministrata con maggiore senso umanitario e
persino il problema dei problemi, la povertà delle masse, non appariva più
insuperabile. Il diritto di voto venne concesso ad una cerchia sempre più vasta
e con ciò anche la possibilità di difendere legalmente i propri interessi;
sociologi e professori andavano a gara nello sforzo di rendere più sana e
persino più felice l'esistenza del proletariato... Come stupirsi che il secolo
si compiacesse dell'opera propria e vedesse in ogni nuovo decennio solo un
gradino verso un decennio migliore? Non si 212 Apologia 39 c-d [qui nella bella
traduzione di G. Reale].temevano ricadute barbariche come le guerre tra popoli
europei, così come non si credeva più alle streghe e ai fantasmi; i nostri
padri erano tenacemente compenetrati dalla fede nella irresistibile forza
conciliatrice della tolleranza. Lealmente credevano che i confini e le
divergenze esistenti fra le nazioni o le confessioni religiose avrebbero finito
per sciogliersi in un comune senso di umanità, concedendo così a tutti la pace
e la sicurezza, i beni supremi. [...]?!3. Abbiamo trascritto per intero le
pagine con cui Stephan Zweig apre la sua splendida autobiografia (ma il termine
le va stretto), perché sono un ritratto fedele e commosso - una riconoscente
biografia - dell'Austria Felix che rappresentò l'humus vitale, politico,
culturale, sociale in cui visse il celebre scrittore ebreo, e in cui visse
anche il nostro Goriziano. Gorizia, infatti, al tempo di M., era ancora
austriaca (passò all'Italia, come si sa, solo alla fine del primo conflitto
mondiale): rappresentava, del mastodontico impero, una delle estreme propaggini
(la sua provincia) e di quello stesso impero, come per ogni provincia avviene,
riproduceva - nel suo piccolo benessere?'* - lo splendore, ma anche le
contraddizioni, complicate dalla sua collocazione liminare. "Città
giardino", "Nizza d'Austria", luogo privilegiato per le vacanze
della nobiltà asburgica, attratta dal clima mite (l'Adriatico dista non molti
chilometri), dalla dolce vita cittadina, dagli ottimi vini già allora rinomati,
da un'architettonica aristocratica e gradevole che ancora oggi la caratterizza.
Questa sua geografia di confine inevitabilmente si rifletteva (e ancor oggi si
riflette) in una multiforme, in sempre fermento, geografia culturale: un
ibridismo, eclettico e non meramente sincretico, che si giovava delle
fecondanti suggestioni d'incontro tra la cultura italiana, slava e germanica, e
che da esse ricavava una sua pur autonoma, originale risultante. A buon
diritto, Gorizia acquisiva dignitosa posizione tra le compagini di quel
multiforme mondo per cui è stato coniato il termine Mitteleuropa, termine che
da geografico è giocoforza slittato ad indicare una particolare connotazione,
appartenenza culturale, anzi addirittura una categoria esistenziale. I M. erano
una delle famiglie più stimate della piccolo-media borghesia benestante della
città: e un ulteriore elemento esasperava la loro posizione sociale: erano
ebrei. Alberto M., il padre di Carlo, era in effetti il ritratto vivente
dell'ebreo assimilato: cercava quasi di velare quella sua discendenza, dandosi
da fare alacremente per ottenere il consenso e il decoro sociale. Era un
instancabile lavoratore: aveva messo su un negozio di cambiavalute, che si era
da subito rivelato redditizio; nei ritagli di tempo, si dedicava alla
letteratura: «Fu un autodidatta - ricorda la figlia Paula, nei già citati
Appuntf "° - Era quasi un bibliomane. Comperava libri, soprattutto
d'occasione, e presto si formò una grande biblioteca di 213 S, Zweig, Il mondo
di ieri, Oscar Mondadori, 1994, pagg. 9-11 214 | volti soddisfatti di una
borghesia in ascesa ci sono tramandati dai ritratti del pittore autoctono
Giuseppe Tominz. opere eterogenee che a noi bambini quasi incuteva rispetto.
[...] La nostra casa fu il centro di riunioni intellettuali e anche di allegri
convegni famigliari». Di animo buono e pronto allo spirito, tuttavia «era
conservativo per le usanze tradizionali ebraiche, ma non era osservante dei
riti né possedeva uno spirito religioso. Anzi era il tipico rappresentante
della mentalità materialistica dell'Ottocento». Politicamente è un liberale,
attivo sostenitore della causa irredentista. Raggiunta una certa sicurezza
economica, Alberto può "permettersi" anche un quarto figlio: il
nostro Carlo Raimondo M. (il doppio nome è già un compromesso di italianità ed
ebraicità, così tipico del padre) nasce il 3 giugno 1887. Abbiamo indugiato sul
ritratto della figura paterna del filosofo goriziano non per incoraggiare una
lettura psicoanalitica, ma perché - semplicemente - Alberto M., com'era di sua
natura, insistette sempre nel veicolare la formazione del figlio (forse più che
per gli altri tre, nell'ordine Gino, Elda e Paola: Carlo era quartogenito): una
presenza costante, schiva ma opprimente, che alla dimostrazione diretta
dell'affetto e del consiglio preferiva la stesura di veri e propri sermoni
scritti: il più famoso tra essi è quello che appunto si ricorda come Sermone
paterno, consegnato a Carlo all'atto della sua partenza per Firenze”'°. Alberto
riponeva nell'ultimo figlio quella speranza disattesa dal primo, Gino, partito
a cercar fortuna in America (dove invece troverà la morte), non in grado di
soddisfare le paterne velleità culturali. Il nostro Carlo, da parte sua, vide
il padre sempre come una figura, seppur lontana nel senso "fisico"
dell'affetto, comunque degna di ogni rispetto, elogio, e soprattutto
riconoscenza: una figura enigmatica (in un bozzetto lo 215 Sono gli Appunti per
una biografia di Carlo M., contenuti in appendice al volume di Campailla
Pensiero e poesia..., cit, alle pagine 147-164. Gli stralci che riprendiamo
dalla biografia, nel corso del nostro discorso, s'intendano passim. 216 Vale la
pena riportare alcuni passaggi nodali del Sermone, per render conto della
pressione cui la "rettorica familiare" sottoponeva il nostro giovane
e per fornire testimonianza indiretta della patina moralistica (impregnata di
"senso del dovere") che doveva aver informato tutta la sua educazione
in famiglia. Invitiamo anche il lettore ad un raffronto col Sentir e meditar
(presente nel Carme in morte di Carlo Imbonati, vv. 207-215) di manzoniana
memoria, che a nostro parere presenta considerevoli punti di contatto con
quanto segue. «Mio caro Carlo questo ritratto non ti dà l'imagine del papà
"bello" e scherzoso, è il papà serio, | 'hai detto tu; del resto il
papà è serio anche quando scherza ed è poi giusto che oggi io mi ti presenti
con fisonomia pensosa, perché vengo a farti gli ammonimenti della vigilia della
partenza. [...] Hai fatto qui i tuoi studi con onore ed ora vai in un ambiente
gajo ed artistico a nutrirti la mente di discipline piacevoli e utili. Ma spero
che la tua coscienza t'avvertirà sempre che non vai a godere soltanto, che hai
doveri da compiere. - La coscienza deve aver sempre la parola e dev'essere
sempre ascoltata in ogni nostro passo - ogni nostra azione dev'essere retta dal
criterio che prima d'ogni altra cosa dobbiamo compiere il nostro dovere. - Il dovere
è il faro [...] Guardati Carlo da ogni eccesso, ricordati che nella misura sta
il segreto d'ogni benessere, d'ogni buona riuscita.- Misura nei godimenti e
nello studio, negli attaccamenti e nelle predilezione oggettive e soggettive.-
Il senso della misura rende tutto efficace, spreme da tutto il giusto diletto e
l'utilità, l'eccesso sforma e guasta tutto, ritorce a male le cose migliori.-
Pensa sempre, Carlo, specialmente nei momenti di perplessità nella tua condotta
al papà e alla mamma: Cosa mi direbbero essi? interrogati e tu conosci il
nostro cuore e i nostri principi troverai il giusto responso. [...] Pensa
sempre che una tua mancanza all'onore anche inorpellata da sociali mitiganti,
sarebbe la condanna di morte di tuo padre che non ammette scuse per quelle
prevaricazioni, che ha fatto base della propria esistenza l'onore, sua legge
suprema l'onesto lavoro, sua religione il dovere». [il testo del Sermone
paterno è contenuto nei Dialoghi intorno a M., Gorizia, Biblioteca Statale
Isontina, 1988, pagg. 10-13; le nostre citazioni sono passim], raffigura alla
stregua di una Sfinge!), cui voler bene, perché - M. ne era consapevole -
anch'egli evidentemente nascondeva una sua certa, sincera Persuasione che non
riusciva però a palesare. Col tempo, il sermone paterno dovette apparire al
giovane filosofo una delle espressioni più eclatanti della Rettorica familiare,
ma egli non ne fece mai parola al padre, per non ferirlo: per lo stesso motivo,
lodava le mediocri prove letterarie di quello con affettuosa, filiale
ipocrisia. Ma, tutto sommato, l'infanzia del nostro filosofo trascorre in
maniera più che serena: l'armonia e il benessere che regna in famiglia è il
riflesso fedele dell'«elogio della sicurezza felice» di Zweig. Carlo - ci
rivela ancora Paula M. - «nei primi anni [tra i quattro figli] era il più mite,
dolce, ubbidiente. Si ribellava [...] soltanto ad una sola cosa: a chieder
scusa di una disubbidienza o di un fallo commesso, anche se sapeva di aver
avuto torto [...}». Da piccolo, piuttosto pauroso e introverso e
"speculativo" (a tre anni, a commento di un fatto luttuoso, dice alla
sorella «Ma sai, anche tu, anche io, tutti un giorno dovremo morire»), riuscì
col tempo a superare quegl' "inceppi": fonda, allora, con la sorella
un Periculum club, la sua esuberanza Ad esse ben presto si associa la sua
passione assoluta: i ballo. Divenuto davvero estroverso, è l'idolo di coetanei
e colleghi: considera tutti i suoi amici con lo stesso affetto e
considerazione, non privilegia nessuno: si perdonano volentieri a vicenda ogni
tipo di monellerie, le più e le meno gravi. Pieno anche di sana autoironia,
porta ovunque vada una fresca ventata di gioia e giovinezza (ad una festa si
traveste da donna, facendo furore): gli piace corteggiare le ragazze, ma non è
importuno o maleducato, anzi le tratta tutte con grande rispetto. Gli piace
vestir bene, ma non è oltremisura vezzoso, o affettato. Comincia altresì a
disegnare (anzi, si scopre un vero genio nella ritrattistica caricaturale?'*) e
ad interessarsi di musica. Il suo si rivela un carattere buono, comprensivo,
portato alla pietà: è celebre l'episodio con un cane randagio (episodio che
Carlo avrebbe in seguito raccontato in greco e lo Mreule tradotto in latino),
sfamato e curato dal giovane: alle lamentele dei genitori, per quell'estranea
presenza in casa, M. risponde con una notte "randagia" passata
all'addiaccio. A scuola, e la cosa può un po' stupirci, tutto procede senza
infamia e senza lode: studia volentieri, ma non con esagerata diligenza (le sue
materie preferite sono, manco a dirlo, disegno, italiano e matematica) e si
segnala piuttosto per motivi disciplinari (dannazione dei professori le
schermaglie col compagno di banco Ruggero Bressan)"®; quindi, 217 Cfr. la
diapositiva | [Ritratto del padre-sfinge] nel supporto iconografico. 218 Cfr. M.
caricaturista, nelle nostre Integrazioni. 219 E' d'uopo, a questo punto, a
compendio di quanto finora detto, riportare la testimonianza di un collega
ginnasiale più giovane, nientepopodimeno che il futuro poeta Biagio Marin.
L'episodio ricordato dal Marin [che noi leggiamo riprodotto in Cerruti, Carlo M.,
cit., pagg. 7-8] è piuttosto famoso nella cerchia degli estimatori del
Goriziano e ci testimonia di come già allora un ancor giovanissimo Carlo
apparisse ai suoi colleghi, come dire, circonfuso di un alone di soprattutto
per assecondare le aspirazioni paterne, si mostra propenso ad iscriversi alla
severa università di Vienna. Effettivamente vi si iscrisse, alla facoltà di
matematica e fisica, «ma poi spinto dal suo amore per l'arte [e per l'ambiente
italiano e la lingua] pregò il babbo di lasciarlo andare almeno un anno a
Firenze, che non conosceva, ma poi vi rimase per tutto il corso degli studi».
Come si immaginerà, per Alberto M. fu una mezza delusione, che non mancherà di
far pesare al figlio. Ma che cosa era successo, nel frattempo? Come mai, forse
la prima volta (eccezion fatta per poche, irrilevanti schermaglie), il giovane
goriziano si assunse, tutt'ad un tratto, il rischio di una scelta così
decisiva, definitiva, così... autonoma? L'inflessibile mente del padre non
poteva comprenderla fino in fondo (seppur comunque la rispettasse): più
disponibile e comprensiva et madre Emma, come sempre. Che cosa era successo,
quindi? In effetti, M. già da tempo conduceva - in parallelo alla canonica
educazione scolastica - una propria Bildung culturale e umana: ad esempio,
«s'interessò moltissimo per la letteratura ussa e lesse quasi sempre in
traduzioni tedesche Tolstoi, Puskin, DostojJewsky, ecc...». Ma soprattutto un
evento doveva aver scosso il giovane, un incontro evidentemente non
occasionale, ma fatale - diremmo "congiunturale" - nella storia della
Persuasione: l'incontro appunto con Enrico Mreule, con il dèmone Enrico. «Si
avvicinarono, mi pare - scrive ancora Paula M. - nell'ultimo anno di scuola.
Mreule era una natura chiusa, aveva avuto un'infanzia triste, si trovava male
in famiglia, s'era isolato e aveva già da giovinetto tendenze filosofiche
precoci. Fu lui a far conoscere a Carlo Schopenhauer e a iniziarlo alla ricerca
dei valori della vita. Con Mreule e con un altro compagno, Nino Paternolli, si
trovava spesso in una grande soffitta in casa di quest'ultimo, dovepassavano
delle lunghe sere a discutere problemi seri». L'incontro cruciale con Enrico,
dunque, rivela a M. un'impressione che già lui stesso, per profondità e
riflessione innate, fiutava nell'aria («sotto la cenere ardeva il fuoco», sana
Persuasione, E' quasi superfluo dire che dalle parole del poeta (non poteva
essere diversamente) ci viene consegnato uno dei più bei ritratti del giovane M..
«Ero in quarta ginnasiale quando lui era in ottava. Tutti lo conoscevano. Come
avviene sempre, noi più giovani guardavamo a quelli degli ultimi corsi con
rispetto. Non parliamo poi di quelli dell'ottava. Tra essi il più notato, per
la sua bellezza, per la sua eleganza, e soprattutto per un cappello grigio che
portava tondo alla spagnola, a tese pari, era Carlo M.. Era uno dei
"bravi" un "erninentista" come si diceva allora. Accanto a
lui, i suoi amici Rico Mreule e Nino Paternolli, e uno, che poi non ho più
visto, bello alto, che credo si chiamasse Simsig. Un giorno, deve essere stato
di maggio, perché faceva già caldo, ero alla fontana nel cortile di tramontana,
durante la pausa delle dieci. Ed ecco, sopravviene il gruppo degli splendidi
amici. lo, che avevo appena accostata la bocca alla cannella, mi ritirai per
far posto ai signori dell' "ottava". E Carlo, che era il primo,
vedendo nei miei occhi e nel mio gesto quel rispetto che mi aveva fatto
dimenticare la mia sete, mi sorrise con quel suo sorriso bianchissimo tra le
belle labbra violacee, e mi disse: "bevi". Ma io non volli bere sotto
i suoi occhi così vivi e neri, quasi fossi preso da pudore, e, "bevi prima
tu", gli dissi. Allora si tolse il cappello grigio orlato, che era il
tocco in lui più originale e me lo porse dicendomi: "allora tienmi per
favore il cappello". E si mise sotto la cannella con la bocca ridente e i
capelli, che aveva lunghi e neri e riccioluti, gli fecero nimbo intorno
pallido, nobilissimo. Vedendomi, come aveva smesso di bere, allocchito, mi
diede un buffetto e mi disse: "ora tocca a te, bevi"»ammonisce
Paula): l'età della sicurezza celava, al di sotto della sua patina dorata,
un'oscura, sottile malattia: una decadenza. Questa lancinante consapevolezza,
questa verità presentita ma fin allora "rimossa", squarcia in modo
così violento al giovane l'alcova che premurosamente la famiglia gli aveva
costruito intorno, che a un certo punto M. comincia addirittura a somatizzare
il morbo del suo tempo. Il suo corpo si rivela più debole e cedevole di quanto
mai avesse sospettato: soffre continui mal di stomaco, ogni volta che cerca di
ripetere le sfuriate della prima giovinezza, incappa in una slogatura, in una
frattura, in una rovinosa caduta. Il celebre passo di una lettera, scritta alla
sorella in un momento diparticolare sconforto, può darci conto dell'angoscia
del nostro filosofo: [... ] soffro perché mi sento vile, debole, perché vedo
che non so dominar le cose e le persone come non so dominar le idee che
m'attraversano il capo vaghe indistinte, come non so dominar le mie passioni;
che mi manca l'equilibrio morale, e non ho quindi quell'impulso poderoso che fa
andar qualcuno sicuro a testa alta attraverso la vita, che mi manca
l'equilibrio intellettuale, per cui il pensiero va diritto al suo scopo; perché
m'accorgo di vivere quasi n un sogno dove tutto è incompleto ed oscuro, e
quando voglio rendermi conto, fissare ciò che mi aleggia intorno, tutto sfugge
dalle mani, e provo la pena come quando nei sogni si prova il senso
dell'impotenza di tutti gli organi, e mi sembra che ci sia sempre un fitto velo
fra me e la realtà; e mi convinco sempre più che non sono che un degenerato. Lo
so che tu griderai all'esagerazione, forse anche m'accuserai d'affettazione, e
di posa e che so io. Ma t'assicuro, non poso e sono con tutti sempre allegro, e
nemmeno ciò per partito preso ma perché naturalmente al contatto con gli altri
quella superficie di infantilità che ho sempre avuto e che avrò sempre si
vivifica, e assorbe, o sembra assorbire tutto il resto. E non esagero,
purtroppo. Un po' è individuale, un po' è la malattia dell'epoca per quanto
riguarda l'equilibrio morale, perché ci troviamo appunto in un'epoca di
transazione della società. Quando tutti i legami sembrano sciogliersi, e l'ingranaggio
degli interessi si disperde, e le vie dell'esistenza non sono più nettamente
tracciate in ogni ambiente verso un punto culminante, ma tutte si confondono, e
scompaiono, e sta all'iniziativa individuale crearsi fra il chaos universale la
via luminosa [...][E 158; corsivi nostri]. | sudditi sereni e sicuri
dell'Austria Felix, gli uomini "cacanici", si rivelavano, alla men
peggio, «uomini senza qualità», come avrebbe scritto Musil di lì a poco: la
stessa paternalistica egida dell'impero presentava una doppia faccia da Sileno
rovesciato, nascondendo la più potente, ma anche la più decrepita (allora),
macchina della Rettorica statale. Ovviamente, si trattava del male di tutto
un'epoca, che s'illudeva di vivere un periodo di pace, che anzi si imponeva un'estemporanea
garanzia di pace bellica tessendo un accomodante ordito di sicurezza,
legittimata dalle "rassicurazioni" dell'idealismo hegeliano. Gli
spiriti più attenti erano all'erta. Gli scrittori russi, con leggero anticipo,
avevano già vissuto e denunciato una situazione molto simile: la Rettorica
zarista era da tempo sull'orlo del baratro, e stava cedendo il passo ad una
nuova, non ancora precisata, Rettorica. In questo manifesto (apparente) vuoto
di potere, l'inquietudine segnava profonde ferite. Dostoevskij, col
caratteristico cipiglio polemico, parlava dal suo personalissimo
"sottosuolo", descriveva le più alte aspirazioni umane come
"umiliate e offese" fino all' "idiozia",
esasperava/semplificava la strategia del potere nella dialettica
"delitto-castigo"; Tolstoi conduceva (soprattutto) la sua soggettiva
polemica contro la menzogna e il sopruso che si maschera da ipocrisia, e
cercava risposte positive in unnuovo "umanesimo evangelico"; Goncarov
tacciava lo spirito russo di "oblomovismo", senza riuscire del tutto
ad evitarne il fascino; Saltykov-Scedrin accompagnava la nobiltà russa al più
basso livello di cupo, allucinante disfacimento, economico ma soprattutto
morale-esistenziale, come l'antesignano Gogol. Checov si adoperava nell'elevare
i motivi contingenti del ristagno spirituale a emblemi universali. Ma anche
nella "nostra" Europa, già si erano preannunciati i sintomi della
malattia post- hegeliana: Stirner già da tempo aveva ripudiato tutto e tutti;
Schopenhauer aveva trovato rifugio nel suo narcotico Nirvana; il
"folle" Nietzsche profetizzava la palingenesi universale e indicava
la sua Germania come la possibilità di una nuova Grecia, di un nuovo inizio,
drammaticamente esaudito. Il "veggente" Rimbaud, e con lui la schiera
dei "maledetti", sanciva nei suoi versi disturbanti e conturbanti
tutto il proprio livore per l'Europa. Freud proponeva interpretazioni oniriche
al disagio della civiltà, che dispiegava nella dicotomia cosmico-umana di Amore
e Morte, e invitava la malattia a confessarsi. Confessioni tormentate di Gide,
che accusava se stesso della malattia di tutta un'età. Oscar Wilde, da parte
sua, pareva avvoltolarsi compiaciuto tra le lenzuola della decadenza,
causticamente stigmatizzata - ma anche qui, non senza una certa compiacenza -
da Huysmans. D'Annunzio si faceva araldo di una rivolta tanto magniloquente
quanto effimera e povera di contenuti, tradendo senza pudore l'insegnamento
giacobino del suo mentore, Carduccf?°, divenuto anch'egli, nel frattempo,
accomodante. Pascoli (tanto per restare in Italia) trovava conforto nel suo ego
e auspicava l'avvento di un socialismo altrettanto "fanciullesco".
Una voce considerata purtroppo minore, Federigo Tozzi, suggeriva di chiudere
gli occhi. Gl' "idealisti" Croce e Gentile, ognuno a suo modo, invitavano
al contrario a tenerli ben aperti, ma a correggerne la miopia e la presbiopia
attraverso la lente (astigmatica) dello Spirito. Ma ci vorrebbero pagine e
pagine ad elencare tutti, e non è il caso: ci siamo limitati a libere
associazioni che si sono generate nella nostra mente. Fatto sta, che la voce
della denuncia e casomai della rivolta (il disincanto) non riesce a coagularsi,
suo malgrado non riesce neanche a chiarificarsi, disperdendosi nei mille rivoli
delle avanguardie e delle sperimentazioni (letterarie, ma anche pittoriche e
musicali: già, non dimentichiamoci almeno della pittura cruda e filosofica di
Klimt, Kokoschka, Schiele”: e della musica rivoluzionaria di Schoenberg) o
nelle voci isolate delle riviste (soprattutto in Italia)”. 220 Ammiratissimo da
M.. 221 Ma si tenga conto anche dei riferimenti fatti dal Monai,
nell'integrazione su M. caricaturista. 222 Vien da chiedersi come si ponesse M.
di fronte a tale fermento, tenendo conto a maggior ragione dei suoi studi
proprio a Firenze, ch'era, allora, davvero la capitale culturale d'Italia. In
linea generale, la critica letteraria tende ad inserire il Goriziano
all'interno dell'area (a dir la verità, molto sfumata) del frammentismo
vociano. Ma in effetti - come puntualizza Pierandrea Amato, nel suo bel saggio
che già abbiamo avuto modo di citare - «M. è 'spontaneamente' escluso da
Firenze; [...] la [sua] solitudine [...] è incondizionata"; ciò a differenza
di In modo speculare, rispetto a quanto detto sopra, la filosofia
filo-hegeliana e la scienza positivistica-darwiniana "pompavano" -
anche se su opposti versanti - continue, quotidiane iniezioni di fiducia ad una
borghesia che cavalcava il miracolo economico dell'industria al suo massimo
rigoglio: una borghesia che si dilettava tanto in dettagliate analisi
economiche quanto nella lettura dei romanzi di Verne; tanto in cervellotiche
soluzioni politiche di compromesso (l' "Italietta" giolittiana ne è
il più fulgido esempio) quanto nei salotti a lodare il cuore di De Amicis, a
biasmare l'impertinenza di Mann coi suoi Buddenbrook o a commentare lo strano
suicidio di un giovane maledetto, tale Otto Weininger; tanto in spericolati
investimenti quanto in oculati dietrofront assicurativi (ironia della sorte:
l'epoca della sicurezza vede il pullulare delle Assicurazioni Generali, quasi
inconsapevole presentimento dell'imminente catastrofe). Una borghesia, ancora
(stavolta generalmente medio-piccola), che si dava da fare nell'arginare certe
velleità socialiste- comuniste, collaborando alla creazione dei preziosi
alleati sindacali, oppure - laddove non riusciva - sfrenando la propria
piccineria in violenze gratuite e pseudo-intellettualistiche (leggi: futurismo,
ad esempio). Una cordata borghese-imprenditoriale, infine, che trovava nei
governi avallo, protezione, incitamento. quanto avviene per "altri giovani
intellettuali (Ara e Magris parlano di una vera e propria ‘pattuglia triestina'
che nei primi anni del secolo studia a Firenze: Slataper, Carlo e Giani
Stuparich, Spaini, Devescovi, Marin e altri) [che] trovano a Firenze e nelle
sue 'imprese' una seconda patria». Il critico sottolinea anche l'estraneità di M.
nei confronti dei coevi, roboanti e battaglieri, programmi delle Riviste (nella
fattispecie, fa riferimento al Leonardo) e azzarda che «tutta l'opera M.iana
potrebbe essere letta [...] anche come il rifiuto dell'impegno violento» che
promettevano appunto quelle riviste. Il critico riporta infine l'episodio
(apparentemente periferico) di un'estemporanea relazione epistolare tra il
Goriziano e Benedetto Croce, che allora già era nel pieno della sua carismatica
egemonia culturale. L'episodio - testimonianza lampante dell' «inserimento
frustrato di M. nella cultura italiana» - si riferisce alla proposta
(«irriverente, probabilmente solo ingenua») del nostro giovane filosofo di
attendere alla traduzione del capolavoro di Schopenhauer per i tipi della
Laterza, la cui sezione di filosofia moderna era diretta proprio da Croce.
Quest'ultimo «mi rispose subito - scrive M. alla famiglia - che Schop[enhauer]
pel momento non rientrava nei suoi progetti- ma che prendeva nota del mio nome
e ‘avrebbe occasione di scrivermi in seguito per traduzioni dal tedesco'»
[l'episodio infatti viene ricordato in E 262-263; le citazioni da Pierandrea
Amato fanno riferimento alle pagg. 168-169-170 passim del suo Attimo persuaso,
cit.]. L'ingenuità di M. stava proprio nel porgere una simile proposta di
collaborazione all'araldo dell'hegelismo italiano. Col tempo, dovette rendersi
conto che le parole in apparenza "attendiste" del Croce nascondevano
in realtà un netto rifiuto. Anche in seguito a questa presa di coscienza,
nonché evidentemente in seguito ad una lettura più attenta e critica dell'opera
crociana, M., in un appunto famoso, riversò tutto il suo sarcastico livore e
segnò in maniera netta tutta la sua sdegnosa distanza dal modo di "far
filosofia" del pensatore italiano. Riteniamo utile riportare il breve
appunto nella sua interezza, anche perché, indirettamente, ci rende
testimonianza della consapevole "asistematicità" del nostro filosofo
goriziano e, insieme, del suo porsi polemico nei confront della filosofia
"ufficiale" del suo tempo: «A B. C. [Benedetto Croce, e così anche
per il seguito] non per insultarlo e non per combatterlo, ma per dirgli la mia
ammirazione. Ammirazione per ogni onesta fatica. 'Ho un'ammirazione per questo
giovane - diceva un vecchio commerciante, di un giovane poeta - ho un ‘ammirazione
per lui: ché se io fossi come lui cretino e ignorante non saprei né leggere né
scrivere, e lui fa tragedie'. Così io che sono un vecchio uomo incallito nel
lavoro ho un'ammirazione per Benedetto Croce, ché se io avessi come lui una
mente acuta e astratta, di filosofia non me ne sarei mai curato e avrei fatto
il giureconsulto - lui fa sistemi [corsivi nostri]. Ma i sistemi non si fanno,
e B. C. dopo aver assorbito tutti i libri di filosofia si spreme e dice: Vedete
quest'acqua di indicibile colore è il prodotto di tutte le altre acque, se ne
mancasse una non potrebbe essere quale è; di qui di mio c'è soltanto l'aggiunta
del mio proprio umore, e la mia angoscia è la sete degli umori che mancano e
che ci verranno soltanto dagli stracci del futuro. Così io mi spremo
disperatamente perché è dovere di ogni straccio di filosofo di spremersi fino
all 'ultima goccia dell'acqua propria e altrui, perché altri poi assorba e
risprema con l'aggiunta del suo umore, e altri ancora assorba e sprema, e
riassorbendone rispremendo vivrà l'umanità E' questo, grosso modo, il quadro -
storico, politico, culturale, morale - in cui viene ad inserirsi la singolare,
a suo modo astorica, "intempestiva", valutazione e proposta di M.. AI
Goriziano bastò guardarsi intorno con occhi nuovi per valutare sempre più e più
a fondo lo scheletro rettorico che sosteneva la polpa dell'«esistenza
soddisfatta di sé», e per intuire che la ventilata sicurezza non era altro che
una «gaia apocalisse», per dirla con Broch: ovviamente, a cadere per prime -
sotto gli strali del disincanto - furono le costruzioni rettoriche ch'egli
toccava con mano, quelle nelle quali era immediatamente inserito, le strutture
che lui stesso viveva: la famiglia, la vita cittadina (e solo per riflesso
quella nazionale), l'istituzione accademica. Nelle letture che nel frattempo
conduceva trovava casomai un riscontro di quanto già avvertisse "a
pelle". Scrive la preziosa Paula: «Presto [... ] l'ambiente di cui si era
fatto tante illusioni lo deluse, specialmente quello universitario. Meno alcuni
professori ai quali era affezionato, fra cui Villari e Vitelli, gli altri lo
urtavano per la loro rettorica e la loro vanità [testimonianze esplicite, al
limite del blasfemo, fioccano in molte lettere di quegli anni]. Gli davano ai
nervi quelle aule zeppe di uditori del bel mondo di Firenze che assistevano
alle lezioni per posa, per darsi delle arie». Parziale conforto a queste amare
disillusioni sono le nuove amicizie che stringe tuttavia in quell'ambiente: il
Chiavacci (che poi curerà la sua opera postuma), Arangio-Ruiz e Giannotto
Bastianelli, musicista "wagneriano" (anch'egli tormentato e destinato
al suicidio), che M. riuscirà a convertire a Beethoven, in serate per lui
indimenticabili di "musica persuasa". Ma totale conferma delle stesse
amare disillusioni M. doveva trovare (appunto) non solo nella lettura
rivelatrice di Ibsen, ma anche in quella "compulsiva" di Tolstoj.
Molti si sono meravigliati del fatto che il Goriziano di costui ammirasse
soprattutto La sonata a Kreutzer o Resurrezione, macchinosi e quasi pedanti
rispetto ai più appassionati, e appassionanti, Anna Karenina o Guerra e pace.
La ragione, per noi, invece è semplice e istruttiva: M. dovette apprezzare la
"geometria" che la polarità Persuasione-Rettorica acquistava nei due
ultimi capolavori dello scrittore russo: lì l'ingiunzione e la critica di
Tolstoj alla Rettorica si faceva scoperta, analitica, "scientifica",
e in uno stile risentito, scarno e didascalico (così lontano da quello
avvolgente del più giovane Tolstoj) che sacrificava del tutto l'intreccio
romanzato, lo rendeva addirittura pretestuoso: anche Tolstoj pervenne, a suo
modo, ad una chiarezza di Persuasione more geometrico demonstrata. Basterebbe
dare una rapida scorsa alle parole di quel folle, ma lucido, uxoricida che è
Pozdnysev: parole che, dietro la parvenza della più meschina misoginia,
palesano una nei secoli all'infinito, il prodotto non sarà mai quello, ma sarà
sempre perfetto e non risciacquatura come dicono i maligni ma quasi - spirito
assoluto» [O 661-662]. valutazione attenta e perspicace della Rettorica
dell'amore. O basterebbe fermarsi già alla prima pagina di Resurrezione:
Allegri erano tutti: piante, e uccelli, e insetti, e bambini. Ma gli uomini -
gli uomini grandi, gli uomini adulti °° non smettevano d'ingannare e di tormentare
se stessi e gli altri. Credevano, gli uomini, che la cosa più sacra e più
importante non fosse quella mattinata di primavera, non fosse quella bellezza
del mondo, concessa per il bene di tutte le creature, giacché era una bellezza
che disponeva alla pace, all'accordo e all'amore: ma fosse, la cosa più sacra e
più importante, ciò che essi stessi avevano escogitato per poter dominare gli
uni sugli altri per poter leggere in pratica la seconda parte della tesi di
laurea del Goriziano anche (saremmo tentati di dire: soprattutto) come uno
scolio (complesso, filosofico) a questa profonda, sincera intuizione
"francescana" del mondo. O infine, basterebbe accompagnare il
principe Nechljudov attraverso i contorti meandri della Rettorica della giustizia,
fino al ribaltamento (persuaso) di essa in vera e propria pratica della
violenza e dell'ingiustizia; ovvero, accompagnarlo nella ri-scoperta della
genuina lezione evangelica (Nechljudov-Tolstoj, alla fine del romanzo, ri-legge
e ri- compone - alla luce della propria esperienza - la morale persuasa di S.
Matteo); basterebbe ciò, dicevamo, per capire l'enorme portata
dell'anti-dispositivo che M. riceveva dalle mani dello scrittore russo”. 223
Questa sottolineatura tolstojana della differenza tra l'individuo bambino e
l'individuo adulto non è una semplice sfumatura, come può apparire ad una
lettura superficiale: ci sembra che M. colga in pieno l'allusione: nel corso
della sua tesi di laurea (volendo limitarci a questa) egli dimostra a chiare
lettere la sua preferenza per l'animo femminile e per i bambini. Da una parte,
«le donne sono senza rettorica», afferma, tendendo in evidente conto non solo
le figure femminili che si stagliano nei drammi di Sofocle e Ibsen o di Tolstoj
appunto, ma soprattutto le donne ch'ebbe modo di conoscere durante la sua vita:
in primis la madre Emma e la sorella Paula, quindi la sfortunata Nadia Baraden
- donna russa che riceveva da Carlo lezioni di italiano e che si uccise prima
che quel "rapporto professionale" sbocciasse in amore; la scrittrice
Iolanda de Blasi - che visse un intenso, quanto effimero, rapporto d'amore col
Nostro, ostacolato, manco a dirlo, dalla famiglia; e Argia Cassini, l'ultima,
avvolgente fiamma di Michlestaedter: Argia, traslitterato in greco, era per Carlo
l'incarnazione fisica del vagheggiato «porto della pace»). Dall'altra parte, il
Goriziano si schiera a difesa della fanciullezza: i bambini, «quasi vite in
provvisorio», come lui li chiama. Anzi, le ultimissime pagine della tesi M.iana
- e il loro progetto educativo [ma vd. quanto diremo oltre] - sono dedicate
proprio ai bambini, ovvero al tentativo di scongiurarne l'entrata nella
congerie rettorica, che ne mina - in modo definitivo e irrimediabile -
l'innocenza e ne frustra, altrettanto, il dono di ingenua, sincera persuasione,
ch'essi hanno per loro stessa natura. 224 In Tolstoj, M. doveva trovare
comprovata anche la Rettorica sociale della morte, ad esempio nella Morte di
Ivan Il'ic, una delle opere più allucinanti e "cattive" dello
scrittore russo. Di quelle pagine, pur nella sincera espressione del profondo
dolore per la scomparsa (suicidio?) del fratello Gino, molto vediamo trapelare
in una lettera che il Goriziano scrive all'amico Chiavacci, in cui annuncia la
luttuosa notizia e dà una amara e dettagliata descrizione della condizione
"esposta", indifesa della propria famiglia agli attacchi della
ipocrita retorica sociale della "condoglianza": «Noi non ricordiamo
di lui [Gino] né un gesto ingeneroso né una sola malattia. Era fatto per la
vita e la viveva con gioia. Mai il sarcasmo della vita non mi s'è fatto sentire
materialmente, in un caso concreto, con maggior forza. - Tiriamo innanzi. Qui
intanto siamo soffocati dalla marea della condoglianza volgare delle infinite
persone che conosciamo, e che in iscritto e a voce si credono in dovere di
debitarci le stesse convenzionalità. In casa una corrente continua di visite, e
il gridio ininterrotto delle stesse frasi. - E i miei ogni giorno come cavalli
stanchi riprendono il cammino, e parlano e si ripetono e si commuovono. lo
soffro anche per questo. Sento l'umiliazione della nostra famiglia mutilata
come d'una piaga aperta - e penso che mentre le piaghe si fa sciano, il 'lutto'
non serve che a étaler il dolore a tutto il mondo. Penso alla nostra casa
chiusa per solito agli indifferenti, raccolta, gelosa della sua intimità - e
invasa ora da tutta la volgarità perché una forza indipendente da noi ha aperto
la porta. E tutti i corvi vengono all'odore della morte; tutti si precipitano
Come Tolstoj, attraverso Tolstoj, M. preferì da subito il Vangelo
"monofisita" di Matteo, come uno dei più autentici luoghi di
Persuasione. Come Resurrezione, anche La Persuasione e la Rettorica termina con
un progetto educativo. E il "pentalogo" stilato (rielaborato) da
Nechljudov-Tolstoj trova infine esatta corrispondenza in quello della
Persuasione M.iana?°°. perché siamo colpiti, indeboliti; il nostro dolore, la
parte più intima di noi esposta in strada, profanata dagli occhi curiosi e
dalla simpatia della sensiblerie dei deboli. - Ed io non posso addolorare di
più i miei, non posso voler liberarmi - e di tante altre cose non posso
liberarmi ora meno che mai [... J» [E 353]. Questo stralcio di lettera ha una
sua importanza non soltanto contingente. Essa ci testimonia, innanzitutto, del
rovinoso velocizzarsi della sfortuna che perseguita il nostro autore: gli
eventi precipitano: alle disillusioni che emergono per l'estrema sensibilità
del suo animo, ai dispiaceri che hanno puntualmente costellato la sua vita (non
ultima la partenza di Enrico, per quanto salutata con orgoglio), si associa
l'evento ferale, per lui più drammatico di quanto M. stesso non voglia
manifestare, e il definitivo crollo dell'alcova familiare, già da tempo
vacillante. Il «sarcasmo della vita» è davvero spietato, e coglie all'improvviso
i suoi elementi più validi e più forti, inspiegabilmente. Questa constatazione
fa nascere nel giovane filosofo collera e indignazione, che riversa acidamente,
ancora una volta, sull'istituto retorico. Qui viene enunciato, in forma
"ufficiosa", anche l'anatema definitivo rivolto contro la macchina
sociale, la cui doppia faccia viene smascherata anche nelle sue manifestazioni
di compassione e di solidarietà al dolore, e dunque, in apparenza, più fraterne
e "umane". Qui si avverte il punto di crisi di quella "paranoia
rettorica" che, secondo noi, attanagliò M. già dal momento della
"scoperta persuasa" e che si esacerbò soprattutto nei suoi ultimi
mesi di vita. Una Rettorica qui definita forza oramai «indipendente», cioè
totalmente svincolata dallo stesso controllo umano, e vestita di abiti corvini
che sfoggia (ironia della sorte) soprattutto in occasioni di dolore. Una
Rettorica sanguisuga, famelica, dotata di occhi che profanano, che approfitta
dei punti deboli dell'uomo, allettata dall'odore della morte, che è il suo
stesso odore, simile col simile. M., per ora, non «può volersi liberare» e deve
accettare il gioco del dolore e del dovere (la stesura della tesi) per non
aggravare l'atmosfera pesante ed affranta della famiglia. Accetta quest'ultima
retorica per amore. Ma non vi leggiamo (non vogliamo leggervi) rassegnazione.
Certo, c'è la consapevolezza di un doppio dolore, di una infelicità reduplicata
dalla stessa consapevolezza della Persuasione: «Noi viviamo oscuri, mal
delineati, confusi, doppiamente infelici; gli altri vivono una vita luminosa
anche nel dolore, e non hanno mai il senso ch'essi personalmente sono nel mondo
cosi sportivamente, o lo hanno soltanto quando anche tutto il mondo è ormai per
loro una cosa sportiva» scrive Carlo al Chiavacci, in una delle lettere
successive [E 401], e non può non leggersi l'aspirazione stanca ad una felicità
che, per un triste destino, sfugge sempre di mano: la Persuasione pare quasi
una maledizione che si tira addosso solo malanni: dov'è quella gioia che essa
prometteva? Non sono più felici coloro che vivono «sportivamente» la propria
vita, luminosi anche nel dolore? Ma è solo il nero che riflette, e alla vita
che nasconde la morte bisogna opporre un'esistenza che tende alla vera vita. E
allora, ad un anno esatto dalla morte del fratello, M. gli rende l'ultimo
omaggio disegnando di sua mano la pietra tombale e realizzando «con le mie mani
quello che gli altri dicevano di non saper fare»: «Per tre giorni lavorai da un
fabbro per scolpire due maniglie di ferro, che fuse in ghisa sarebbero state
deboli. E allora mentre il lavoro procedeva bene, e mi gettavo stanco alla sera
sul mio letto, mi pareva d'esser ricco di non so che ricchezza, mi pareva di
fare qualcosa, di lavorare per mio fratello come se dovessi vincer la morte».
«Vincer la morte» diviene l'imperativo esistenziale che traduce l'aspirazione
di «togliere la violenza dalle radici»: bisogna fare [il corsivo sopra è dello
stesso Goriziano] qualcosa, re-agire; M. riscopre il piacere del contatto con
le cose, come Serafino Gubbio nel noto romanzo di Pirandello; il piacere della
fatica, dell'impegno, della poiesi bistrattata sin dai tempi di Platone e
Aristotele. Fare è anche poesia, e la Persuasione è anche fare. Pur se non è
possibile eliminare l'atroce dubbio che, sempre e comunque, ci si trova ad aver
«lavorato per la morte», sensazione di sconforto che riduce ad uno stato di
«vuoto, miseria e impotenza». [per queste ultime citazioni, da noi adattate,
cfr. la lettera di M. ad Enrico Mreule, 14 febbraio 1910, E 432] 225 La
perfetta consonanza (addirittura numerica!) dei "comandamenti"
tolstojani e M.iani è un rilievo che è sfuggito purtroppo alla critica (o
almeno, nei contributi critici che abbiamo visionato non se ne fa parola). La
lettura di Tolstoj è, a nostro parere, un inestimabile supporto ermeneutico per
tentare di "capire" M., e ci teniamo a sponsorizzarla. Ora, per dar
sostanza al nostro discorso, iportiamo di seguito il pentalogo di Tolstoj e
riproponiamo quello della Persuasione per poter apprezzare, in modo sinottico,
quanto della lezione di Tolstoj fosse trapelato nel dettato ultimo del filosofo
goriziano e trasposto sul piano "filosofico" (questo senza voler
porre in minimo dubbio l'originalità del Nostro). Ancora, la prospettiva tolstojana
(come si ricaverà dalla lettura), il suo insistere sugli uomini, conferma in
modo definitivo, seppure ce ne fosse a questo punto bisogno, la correttezza
della nostra valutazione "politica" della proposta persuasa. «Con la
speranza di trovare lì nel Vangelo una conferma a questo suo pensiero,
Nechljudov si mise a leggerlo dal principio. Leggendo il discorso della
montagna, che sempre lo aveva commosso, adesso per la prima volta vi scorse non
già dei be semplici, chiari precetti ben eseguibili ne lissimi pensieri
astratti, che in massima parte esprimessero esigenze eccessive e impossibili da
eseguire, ma a pratica, precetti che, se fossero stati eseguiti, come era
pienamente possibile, avrebbero dato una sistemazione assolutamente nuova alla
società umana, tale che in questa non solo si sarebbe d istrutta da sé tutta
quella violenza che aveva tanto indignato Nechljudov, bene accessibile
all'uomo: il regno di Dio sulla terra [corsivi nostri]. Tali precetti erano
cinque. primo precetto (Matteo, v, 21-26) l'uomo non solo non deve uccidere, ma
non adirarsi contro il fratello, non a, un raca, e, se viene a lite con
qualcuno, deve rappacificarsi con lui prima Secondo i deve cons di fare l'off
Secondo i piacere de Secondo i Secondo i colpiscono iderare nessuno un essere
da nu erta all'altare, cioè prima di pregare. secondo precetto (Matteo, v,
27-32), l'uomo non solo non deve cedere al nessuno rifiutare ciò che si possa
volere da lui. Secondo i amare, aiu quinto precetto (Matteo, v, 43-48), l'uomo
non solo non deve odiare i suo tare, servire. ma si sarebbe raggiunto il più
alto a sensualità, ma deve rifuggire dal la bellezza della donna, e deve - una
volta che s'è unito con una donna - non tradirla mai. terzo precetto (Matteo,
v, 33-37), l'uomo non deve promettere nulla con giuramento. quarto precetto
(Matteo, v, 38-42), l'uomo non solo non deve vendicarsi su una guancia, deve
presentare l'altra, deve perdonare le offese e sopportarle con rassegnazione, e
a occhio per occhio, ma quando lo i nemici, né combatterli, ma li deve
Nechljudov aveva fissato lo sguardo sulla luce della lampada, e così rimaneva
assorto. A contrasto di tutto il mostruoso disordine della nostra vita, che
aveva ben presente, si prospettò con chiarezza che cosa questa vita avrebbe
potuto essere, se gli uomini fossero stati educati secondo quei principi
[corsivi nostri]: e un'esultanza come da gran tempo non provava gl ‘invase
l'anima». M. fa da contrappunto e munisce i precetti tolstojani di una salda
connessione filosofico-esistenziale: "No, la mo rte non è abbandono"
disse Itti con voce più forte [1] ma è il coraggio della morte onde la luce
sorgerà. [2] Il corag gio di sopportare tutto il peso del dolore, [3] il corag
gio di navigare verso il nostro libero mare, [4] il corag nella cura [5] il
corag gio di non sostare dell'avvenire, gio di non languireper godere le cose
care. La persuasione poetica si cesella, puntualmente, nelle
"definizioni" assolute che troviamo nella tesi di laurea: [1] Il
dolore parla. [PR 46] [2] Il dolore è gioia [49] [3] Dare non è per aver dato
ma per dare (Souvax !) Non può fare chi non è, non può dare chi non ha, non può
beneficare chi non sa il bene Dare è fare l'impossibile: dare è avere. [43] 7.
Come la violenza perpetua se stessa (I). Dall'atomo alla molecola sociale.
Regalasi gattini in cerca di padrone. Annuncio esposto nella bacheca degli
studenti della facoltà di filosofia, Università Federico II, Napoli Come
abbiamo visto in abbondanza, l'organismo "atomico", il «complesso
delle determinazioni», si esprime e si realizza anzitutto come appetito
(volontà determinata, o conatus, se vogliamo utilizzare il termine spinoziano),
cioè nel desiderio di possedere la natura, ovvero di fare del mondo un polo di
sfruttamento esistentivo: il mondo è insomma il ricettacolo in cui l'organismo
atomico reperisce gli elementi atti alla soddisfazione dei propri bisogni,
elementari e/o complessi (questa, in soldoni, la «violenza contro la natura»).
L'appetito segna una diversificazione tra i vari organismi appetenti: tra gli
individui, alcuni si conquistano una posizione di dominio, altri accettano
giocoforza la subordinazione, in un meccanismo in cui ciascuno comunque
pretende di essere riconosciuto dall'altro come a lui superiore, come unico,
assoluto usufruttuario del mondo. Nell'impossibilità dell'assolutezza, gli uni
e gli altri depongono volentieri le armi e si adagiano su una comoda
convivenza. Questo rapporto (chiamiamolo per ora "dialettico", ma
cfr. oltre), che lega le "coscienze empiriche" nel conflitto per la
supremazia, presenta indiscutibili affinità con la «otta per il
riconoscimento», così come viene postulata/descritta nella Fenomenologia dello
Spirito di Hegel (la famosa dialettica servo-padrone). Questo rilievo, avanzato
con intelligenza dal Garin, è stato applaudito da tutta la critica. Ora, noi
non vogliamo certo metterlo in discussione, come non vogliamo mettere in dubbio
le letture hegeliane che M. fece. Tuttavia, ci sia concesso almeno d non
esserne del tutto convinti: siamo invece convinti che le analisi di M. partano
piuttosto, ancora una volta, dalle pagine di Aristotele, in particolare dalle
prime pagine della Politica. Lo Stagirita scrive: [per la formazione della
società o dello Stato] è necessario in primo luogo che si uniscano gli esseri
che non sono in grado di esistere separati l'uno dall'altro, per es. la femmina
e il maschio in vista della riproduzione [..]e chi per natura comanda e chi è
comandato al fine della conservazione. In realtà, l'essere che può prevedere
con l'intelligenza è capo per natura, mentre quello che può col corpo faticare,
è soggetto e quindi per natura schiavo: perciò padrone e schiavo hanno gli
stessi interessi.226 Proprio come per Aristotele, per M. colui che, in tale
lotta, non teme di perdere la propria vita, si impone su colui che, invece, ha
paura della morte”: di conseguenza il primo diviene dominus e il secondo servo
(homo, secondo il nostro [i corsivi sono dello stesso M.: abbiamo altresì
ribaltato consapevolmente la disposizione dei precetti del Goriziano, che
nell'ordine appaiono 3-4-5-1-2, per dar più filo al nostro discorso] 226
Aristotele, Politica, 1252a 25-30 [che noi leggiamo nella trad. it. dell'ed.
Laterza, 2000]; i corsivi sono nostri, funzionali a quanto ci apprestiamo a
dire. 227 Ma cfr. quanto noi detto nella parte finale del paragrafo 4d del
nostro | capitolo, paragrafo che s'intitola La Persuasione al bivio. pediente
ermeneutico). La temerarietà del padrone non è il coraggio esistenziale del
Persuaso, non è fine consapevole ed adeguato, che sfocia nell'autentica epoché
della morte, frutto della consapevolezza della malattia mortale: il dominus ha
una superiorità che potremmo a buon ragione cefinire, anche qui, darwiniana: a
comandare sono gli individui più adatti, ovvero più forti e più risoluti e più
intelligenti, come dice Aristotele gli «esseri che possono prevedere con
l'intelligenza» o - come parafrasa M. - gli esseri che possiedono una
«previsione più organizzata a una più vasta vita » [PR 29]7”. Il padrone non
lavora la terra, non è artifex, ma costringe il servo a lavorare in sua vece e
per il suo guadagno: «Il padrone si serve dello schiavo attraverso la di lui
forma: attraverso la potenza di lavoro», scrive il Goriziano. Di contro, lo
schiavo accetta le «catene dure ma sicure» del padrone. Il padrone ha delegato
allo schiavo il «violentamento della natura», tenendo per sé - anzi utilizzando
per sé - il «violentamento dell'uomo». Di per sé, così, la condizione servile
dello schiavo «non è assoluta, ma relativa al suo bisogno di vivere». Tra servo
e padrone, dunque, s'instaura un vero e proprio, benché primitivo (atomico),
patto sociale, fondato - e non si perda di vista questo fondamento - su un
principio biologico simbiotico e "compensativo" (lo chiamiamo
principio di economia sociale): entrambi violenti, entrambi "carenti",
entrambi ansiosi di «conquistarsi il futuro» (ovvero, entrambi rettorici), essi
pongono una convenienza simbiotica che - in definitiva, come in una perfetta
equazione matematica - annulla (semplifica) le relative "potenze" e
"debolezze", tende a superare la primitiva diseguaglianza
fisiologica, pervenendo ad uno status quo per il quale «uniti: sono entrambi
sicuri - staccati: muoiono entrambi». Suddetta simbiosi si fonda, in
definitiva, e si struttura, sulla malafede e sul ricatto, perpetrati da entrambi,
ma da entrambi edulcorati nella reciproca convenienza: se tu non lavori - dice
il padrone - non ti do «il mezzo di vivere»: così morirai; se non mi assicuri
«I mezzo di vivere» - replica lo schiavo - io non lavoro, e non ricaverò per te
«la sicurezza di fronte alla natura»: così morirai. In tutto questo, ci sembra
che M. parafrasi ancora Aristotele, che a sua volta scrive: Il padrone non è
tale in quanto acquista gli schiavi, ma in quanto si serve degli schiavi. Tale
conoscenza non ha niente di grande né di straordinario: quel che lo schiavo
deve [per natura] saper fare, lui [sempre per natura]deve saperlo comandare.
[...] Agli uni giova l'esser schiavi, agli altri l'esser padroni e gli uni
devono obbedire, gli altri esercitare quella forma di autorità a cui da natura
sono stati disposti e quindi essere effettivamente padroni.[... ] Per ciò
esiste un interesse, un'amicizia reciproca tra schiavo e padrone nel caso che
hanno meritato di essere tali da natura ?°° 228 Le citazioni che seguono nel
nostro discorso, tratte dal Goriziano, sono ricavate dalle pagine della sua
tesi che appunto indugiano sulla dialettica servo-padrone, ovvero le pagg.
96-105 soprattutto; ragion per cui, in nostri richiami s'intendano proprio da
lì ricavati passim, salvo diverse indicazioni. 229 Aristotele, Politica, cit,
1255b passim; i corsivi sono nostri; abbiamo altresì invertito taluni passaggi
per render più didascalica l'esposizione. Tuttavia questa dialettica, negativa
ancorché conciliata (ma che non è la conciliazione hegeliana nello Spirito),
del servo e del padrone "supera" il suo fondamento negativo nella
stipulazione del patto sociale molecolare?°°: l'entalpia”', che tale dialettica
assicura, e che 230 Le analisi di M. sulle motivazioni che inducono gli uomini
a fondare la società nascono in un contesto politico che potremmo, a questo
punto, senza sbagliarci, definire "contrattualistico" (ma trovano
importanti agganci - come stiamo or ora dimostrando - anche nella Politica
aristotelica): a differenza dei teorici del contrattualismo, tuttavia -
decisamente più "pragmatici" - il filosofo goriziano adduce, come
visto, una causa "ontologica" al fatto che gli uomini stringano il
"patto sociale" (o, come lui la definisce, la «cambiale sociale»): il
deficere troverebbe cioè una sua compensazione nella creazione di relazioni
sufficienti tra gli uomini, in un principio di realizzazione/permanenza sociale
che surrogherebbe l'innata impermanenza dell'individuo. L'individuo sociale
insomma, nello stringere il patto, si vede garantite quella sicurezza e quel
benessere - quella stabilità - che l'individuo "naturale" non
possiede. Ovviamente, M. - se del contrattualismo mostra indirettamente di
accettare le analisi di filogenesi sociale (il meccanismo praticamente è lo
stesso: compensare il deficere) - tuttavia non aderisce alle sue conclusioni,
soprattutto nella sua curvatura liberale (Locke o Stuart Mill, ad esempio): il
Goriziano, come dire, per principio valuta l'organismo sociale - qualunque
forma esso assuma, e per qualunque motivazione esso la assuma - come regno
dell'eteronomia e della violenza. Anzi, leggendo tra le righe, mostra di
attaccare con maggior virulenza proprio le società sedicenti liberali o
liberal-democratiche, perché esse (a differenza di un regime dispotico
conclamato) occultano la matrice profondamente antilibertaria che le connota,
aggiungendo al danno la beffa dell'ipocrisia e del paternalismo. Pur
consapevoli dell'eterogeneità delle proposte contrattualistiche (sia nelle
prospettive di analisi che nelle individuazioni o giustificazioni degli esiti,
a seconda dei periodi storici o delle appartenenze geografiche e politiche che
le hanno fomentate), tuttavia riportiamo alcune righe di due
"classici", per renderci conto - mediante un raffronto anche veloce -
di dove la critica di M. effettivamente attecchisca. Con questo, ovviamente,
non vogliamo dire che il filosofo goriziano avesse costruito la sua critica
sociale a partire dalla meditazione dei testi che proponiamo, anche se mostra
di aver letto il Saggio sulla libertà di Stuart Mill [PR 93]; la critica di M.
nasce infatti essenzialmente da una diagnosi dello status quo - valutato
attraverso lo "spettro" della Persuasione - status quo che però era
anche, appunto, la risultante della lunga tradizione liberale, che assume nei
brani che seguono la forma più esplicita e, in pratica, conclusiva. «Se l'uomo
nello stato di natura è [...] libero [...]- scrive Locke - se è padrone
assoluto della propria persona e dei propri beni, pari al più grande fra tutti
e a nessuno soggetto, perché mai rinuncia alla sua libertà? Perché cede il suo
imperio e si assoggetta al dominio e al controllo d'un altro potere? La
risposta ovvia è che, per quanto nello stato di natura egli possieda il diritto
connesso con quello stato, la fruizione di esso è assai incerta e continuamente
esposta alle altrui interferenze. Infatti, tutti essendo re alla stessa stregua
di lui, tutti essendo suoi pari, ed essendo per lo più poco rispettosi
dell'equità e della giustizia, il godimento della proprietà in questo stato è
per lui assai incerto, molto insicuro. Ciò lo induce a desiderare di
abbandonare una condizione che, per quanto libera, è piena di rischi e di
continui pericoli: e non è senza ragione ch'egli desidera e ambisce unirsi a
una società che già altri abbiano costituito o abbiano in mente di costituire
per la reciproca salvaguardia della loro vita, libertà e beni, cioè con quello
che definisco con il termine generale di proprietà. [...] Al primo potere -
quello cioè di fare tutto ciò che ritiene opportuno per la conservazione di sé
e di tutto il resto dell'umanità - egli abdica lasciando che sia regolato da
leggi fatte dalla società, secondo che lo richieda la conservazione sua e degli
altri membri di quella società: leggi dellasocietà che in molte cose limitano
la libertà ch'egli possiede per legge di natura. Inoltre egli abdica
completamente al potere punitivo [il secondo potere, per Locke] e consacra la
sua forza naturale (che in precedenza poteva usare nell'esecuzione della legge
di natura, per autorità propria, come gli sembrava opportuno) al potere
esecutivo della società, a seconda che lo esiga la legge di questa. Trovandosi
ora in un nuovo stato, in cui gode di molti vantaggi provenienti dal lavoro,
dall'assistenza e dalla società degli altri membri della comunità, oltre che
della protezione che gli deriva dalla forza complessiva della comunità stessa,
egli deve rinunciare anche alla propria naturale libertà di provvedere a se
stesso, nella misura in cui lo richiedono il bene, la prosperità e la sicurezza
della società. E questo non è solo necessario, ma anche giusto, perché gli
altri membri della società fanno altrettanto.[corsivo nostro] Entrando in
società gli uomini rinunciano all'eguaglianza, alla libertà e al potere
esecutivo di cui godevano nello stato di natura, affidandolo alla società
perché il legislativo ne disponga come richiede il bene della società stessa.
Ma poiché ciascuno fa questo con l'intenzione di meglio salvaguardare la
propria libertà e proprietà (ché non è mai pensabile che una creatura razionale
muti condizione nell'intento di star peggio), è lecito aspettarsi che il potere
della società, o il legislativo costituito, non oltrepassi mai i limiti del
bene comune, ma sia tenuto ad assicurare la proprietà di ciascuno prendendo
misure contro i tre difetti sopra menzionati, che avevano reso lo stato di
natura tanto incerto e difficile. [... ] E è la condizione necessaria e
sufficiente per la sicurezza reciproca, si istituzionalizza nel fenomeno
sociale (lo chiamiamo principio di entalpia sociale). Tale
istituzionalizzazione è un escamotage funzionale: è il banale, ma evidentemente
valido, motivo che recita un adagio: l'unione rende forti. Dice M.: «La piccola
volontà non può difendere quello che ha preso colla sua violenza - e ne affida
la difesa alla violenza sociale». Ora, la piccola volontà [potremmo anche dire:
l'io empirico] è sia quella del padrone che quella del servo. Entrambi
accettano «la cambiale dela società», sopportando anche una
spersonalizzazione/atrofia del proprio potere («egli è sotto tutela - non ha
voce») e un (apparente) livellamento "democratico", nel nome della
«sicurezza comune». Per raggiungere altresì questo obbiettivo, è necessario che
la violenza contro la natura e contro l'uomo sublimi nella "violenza
sociale". Dunque, la cifra esistenziale della Rettorica rimane sempre e
comunque la violenza. In questo senso, ci sentiamo di dire che l'appunto del
Garin - il suo riferimento alla famosa figura hegeliana - più che illuminante
rischia di rivelarsi addirittura fuorviante. Hegel parladi autocoscienze”””, M.
- più modestamente - di organismi. tutto ciò non dev'essere ispirato ad altro
fine che la pace, la sicurezza e il pubblico bene del popolo» [J ohn Locke, Due
trattati sul governo, Torino, Utet, 1948 (volume II, $8123-131 passim)]. «Il
diritto di una persona - scrive invece Mill - è la tutela che questa può
pretendere dalla società o in forza della legge, o in forza dell'educazione e
dell'opinione [corsivi nostri]. Se essa possiede ciò che consideriamo una
ragione sufficiente per avere, per un qualsiasi motivo, una garanzia da parte
della società, vi ha diritto: se vogliamo dimostrare che qualcosa non le
appartiene per diritto, pensiamo che ciò sia fatto non appena si ammette che la
società dovrebbe abbandonarla alla sua sorte o ai suoi soli sforzi, senza
prendere alcuna misura per proteggerla. [...] Avere un diritto significa,
allora, avere qualcosa il cui possesso va difeso dalla società. Se mi
chiedessero, poi, perché la società dovrebbe difendere questo interesse, non
potrei addurre nessun altro motivo se non quello della utilità generale. Se
questa espressione non sembra convogliare un sentimento adeguato della forza
dell'obbligazione né spiegare la peculiare energia di tale sentimento, è perché
nella composizione del sentimento entra non solo un elemento razionale, ma
anche uno animale, la sete della vendetta; la quale deriva la sua intensità,
come pure la sua giustificazione morale, da quel tipo di utilità
straordinariamente importante e incisiva che è in gioco. L'interesse coinvolto
è quello della sicurezza che è, per ogni individuo, di vitale importanza. Tutti
gli altri benefici terreni possono essere necessari a una persona e non a
un'altra. A molti di essi, si può allegramente rinunciare o sostituirli con qualcos'altro.
Ma della sicurezza nessun essere umano può fare a meno; da essa dipende la
nostra immunità dal male e l'intero valore di ogni bene, al di là delle
contingenze. [corsivi nostri] [...] Questa necessità [...] non può essere
soddisfatta a meno che lo strumento per provvedervi non sia mantenuto in
continuo esercizio» [J ohn Stuart Mill, Utilitarismo, Cappelli, 1981, capitolo
V passim]. Leggendo questi passi e mettendoli a confronto con quanto abbiamo
riferito riguardo la critica sociale approntata da M., si potrà evincere senza
difficoltà il carattere decisamente antiliberale che quella critica viene ad
assumere, volendo valutarla secondo "normali" parametri politici di
riferimento. 231 L'entalpia è una funzione di stato di un sistema ed esprime la
quantità di energia che esso può scambiare con l'ambiente. Ad esempio, in una
reazione chimica, l'entalpia scambiata dal sistema consiste nel calore
assorbito o rilasciato nel corso della reazione. Nella nostra metafora, servo e
padrone si scambiano, a vicenda, "energia" esistenziale. 232 Nota M.
che «quasi per ironia l'impulso a questo movimento del principio della
debolezza [tal che esso assurge alla cambiale sociale] è dato dai più forti;
[...] l'iniziativa è sempre del più forte: e la "lega dei deboli' s'è fatta
proprio a spese dei più forti: che per sola volontà di sominio o per amore
ebbero sempre per campo naturale alla loro sovrabbondanza di vita, per
dominarli o per amarli [nota l'accostamento, fatto con apparente sufficienza,
di dominio e amore], i loro simili» [PR 122]. Per il filosofo goriziano non c'è
alcun sviluppo dello Spirito da giustificare e la diversificazione dominus-homo
ha piuttosto una connotazione, come afferma Aristotele, già stabilita per
natura [cfr. supra]; inoltre, tra le due "posizioni" non si verifica
alcun vero conflitto, ma l'una e l'altra preferiscono vivere (sopravvivere)
nella consapevolezza della propria condizione di reciproca dipendenza (usata
come tacito ricatto), cercando di trarne la condizione più vantaggiosa possibile
in un'oculata e compiacente simbiosi. Infine, il superamento (se di superamento
si può parlare) dell'empirica condizione signorile-servile - quando quel
ricatto comincia a vacillare - non avviene per processo dialettico, ma come
dire, per processo "sinottico", cioè attraverso una mera
amplificazione a livello sociale (molecolare) del rapporto puntuale (atomico)
di dipendenza. La costruzione sociale è anch'essa, dunque, non frutto di un
conflitto, ma risultato di un compromesso nel quale le due figure immediatamente
si rifugiano, quando la loro condizione da stabile rischia di divenire
precaria; e questo superamento non segna un progresso nella storia della
coscienza di entrambi: tutt'altro: segna anzi un vero e proprio regresso, nel
senso che nello stipulare la cambiale sociale la deficienza non si svelle, ma
si innesta in una profondità ancor più radicata e più ignorata, ch'è appunto la
Rettorica sociale. A questo punto, per M., la società diviene davvero il
Leviatano: essa padrona, gli uomini (quelli che prima eran servi e padroni)
novelli servi («gli uomini hanno trovato nella società un padrone migliore dei
singoli padroni»): e tra i due nuovi poli si instaura una dialettica
altrettanto nuova e altrettanto irrisolta, che mantiene tutte le deviate
caratteristiche della prima, la sua malafede e la sua convenienza simbiotica:
se tu rispetti le mie leggi - 233 Come sappiamo, la storia di queste
autocoscienze, così come scandita da Hegel nella Fenomenologia, non è un
processo pacifico e lineare, ma affronta una sofferta e faticosa maieutica
pratica che trova nel conflitto tra il sé e l'altro- da-sé la molla dialettica
che, passaggio dopo passaggio, assurge alla pienezza onnicomprensiva @llo
Spirito. L'autocoscienza sorge nell'avvertimento del limite e si manifesta e
sviluppa anzitutto nel desiderio soggettivo di superare l'ostacolo che le si
pone incontro. Ma quest'ostacolo non è soltanto il mondo delle cose: è
soprattutto l'altra autocoscienza, che limita e minaccia e lotta a sua volta
per la propria sopravvivenza. E' qui che s'inserisce la dialettica
servo-signore Herr und Knecht), come momento "storico" di esordio del
conflitto delle autocoscienze diverse e indipendenti: conflitto che si delinea
come mortale, ma che si risolve col subordinarsi dell'una autocoscienza
all'altra: infatti, chi riesce a sopraffare l'altro, ostentando di non temere
la morte, lo rende schiavo e lo piega al proprio progetto di affermazione. Ma,
a sua volta, nel lavorare per l'altro, per il dominus, il servo vive un
rapporto più autentico con la realtà, acquistando progressiva consapevolezza
del proprio potere condizionante e quindi (arguirebbe Marx) una capacità
maggiore di emancipazione. Così, il rapporto finisce col capovolgersi (la
libertà e la potenza del signore si scopre mediata dall'operare del servo, che
a sua volta scopre la potenza "immediata" del proprio lavoro) e
attraverso questa lotta tra l'autonomia e la dipendenza s'ottiene un risultato
concreto nello sviluppo dello S pirito: il sorgere cioè del sentimento della
libertà nell'autoriconoscersi (l'autocoscienza nasce infatti proprio quando il
soggetto riconosce - erkennt - qualcosa di sé nell'oggetto, o comunque
nell'altro-da-sé). «[Il servo è] per il signore l'oggetto costituente la verità
della certezza di se stesso. E chiaro però che tale oggetto non corrisponde al
suo concetto; è anzi chiaro che proprio là dove il signore ha trovato il suo
compimento, gli è divenuta tutt'altra cosa che una coscienza indipendente; non
una tale coscienza è per lui, ma piuttosto una coscienza dipendente; egli non è
dunque certo dell'esser per sé come verità, anzi, la sua verità è piuttosto la
coscienza inessenziale e l'inessenziale operare di essa medesima. La verità
della coscienza indipendente è di conseguenza la coscienza servile. Questa
dapprima appare bensì fuori di sé e non come la verità dell'autocoscienza. Ma
come la signoria mostrava che la propria essenza è l'inverso di ciò che la
signoria stessa vuol essere, così la servitù nel proprio compimento diventerà
piuttosto il contrario di ciò che essa è immediatamente; essa andrà in se
stessa come coscienza riconcentrata in sé e si poggerà nell'indipendenza vera»
[Hegel, Fenomenologia dello Spirito, La Nuova Italia, 1967, vol. I, pag. 161].
ingiunge il Leviatano - io ti assicuro la vita: altrimenti morirai; se non ci
assicuri la vita - replicano i servi - noi non rispetteremo le tue leggi: e tu
morirai. La società come necessità e "banalità" della sicurezza: ma
se «a sicurezza è facile», essa - lo abbiamo visto - «è tanto più dura». E
allora, nella violenza istituzionalizzata, «nella società organizzata ognuno
violenta l'altro attraverso l'onnipotenza dell'organizzazione, ognuno è materia
e forma, schiavo e padrone ad un tempo per ciò che la comune convenienza a
tutti comuni diritti conceda ed imponga comuni doveri» [tutti i corsivi sono
nostri]. Insomma, padroni e schiavi finiscono con l'essere entrambi vittime di
un dominio che si congegna in sistema o in "amministrazione"
tacitamente, doverosamente accettati; strutture che - seppur fabbricate dalle
mani stesse dell'uomo - ora lo superano e si svincolano dal suo controllo: anzi
- di converso - sono le dette costruzioni ad esercitare stavolta il controllo
diretto. Ciò vuol dire che ciascuno (padrone o servo, non conta), all'interno
del sistema stesso, si trova preconfezionato il proprio ruolo, il proprio
destino: a lui non resta che la scelta del modo di viverlo; ma questa stessa
scelta - individuale o sociale - obbedisce a sua volta alla logica del potere e
del dominio e quindi, in definitiva, alla logica della violenza. 8 Come la
violenza perpetua se stessa (II). L'educazione corruttrice secondo M.. Il
ribaltamento operato dalla Persuasione. Ora: quali sono gli strumenti
attraverso i quali la Rettorica indottrina gli uomini all' "accettazione
felice" della scelta fasulla ed inadeguata?°*? Quali meccanismi
mefistofelici essa pone in atto? In che modo riesce ad inculcare il senso del
dovere, garanzia necessaria e sufficiente alla sopravvivenza della società
rettorica ed ipocritamente "giusta"? In che modo, insomma, essa
riesce a farsi (come si dice oggi) egemonia? O, infine, volendo usare le stesse
parole del Nostro, «per qual via la natura ha tessuto e tesse contro a sé tale
trama? E come si tiene questa e si riafferma sempre via in ogni figlio
dell'uomo che, forte o debole nasca e di quella difesa bisognoso, pur sempre
nasce ignaro del suo artifizio?» [121]; ovvero, ancor più chiaramente: in che
modo si costituisce [122] e si diffonde [127] l'«adulazione» (xoXaxew) sociale?
Come sostiene giustamente il Campailla, nell'introduzione all'edizione minor?
della Persuasione e la Rettorica, «il mito della Persuasione [e noi
aggiungiamo: il problema della Rettorica], coerentemente, culmina in un
problema pedagogico». E proprio qui si apre la sezione più interessante ed
"inattuale" della tesi del Goriziano . La risposta al complesso di
interrogativi appena posti è a questo punto semplice e consequenziale: è
l'«educazione corruttrice» (Svoradaywyia) [127] lo strumento raffinato
attraverso il quale la società, la comunella dei malvagi, si arroga e si
assicura la sopravvivenza”. Ma in realtà, alla luce di quanto detto, e leggendo
attentamente le 234 Qui viene presa in esame la sezione conclusiva della tesi
di laurea di M. - corrispondente alle pagg. 121- 131 incluse, in particolare da
pag. 127 in poi - che s'intitola Gli organi assimilatori: per un accenno
introduttivo alla questione, cfr. anche il nostro paragrafo Il momento del passaggio,
contenuto nell'Intermezzo. 235 || concetto - fa notare Campailla - è platonico,
e invita a cfr. Gorgia, 463 b, c e passim. 236 Edizione curata nella Piccola
Biblioteca Adelphi, 1994 6a. Il riferimento che riportiamo è a pag. 25; il
corsivo è nostro. 237 Possiamo dire che, dal punto di vista ideologico, l'asse
Platone-Hegel è il riferimento più immediato della polemica pedagogica M.iana.
Come abbiamo visto, le analisi di M. sul problema educativo avevano luogo
d'origine nella riflessione sulla pedagogia platonica, funzionale alla
"statolatria" della Repubblica. Ancora una volta, la prospettiva
platonica si "aggiornava" in Hegel, il quale scriveva ad esempio
nelle sue Lezioni sulla filosofia della storia (e la citazione vuol essere
riassuntiva della posizione hegeliana): «[...] Solo nello Stato l'uomo ha
esistenza razionale. Ogni educazione tende a che l'individuo non rimanga
qualcosa di soggettivo, ma divent oggettivo a se stesso nello Stato. [...]
Tutto ciò che l'uomo è egli lo deve allo Stato: solo in esso egli ha la sua
essenza». [Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, trad. it, La Nuova
Italia, Firenze, 1975, vol. I, pag. 105] In coerenza con le linee guida del suo
panlogismo dialettico e storicistico, Hegel dunque vedeva nella formazione
[Bildung] dell'uomo il "movimento consapevole, il divenire del suo essere per
sé», e, cioè, «l'estraneazione del proprio immediato se stesso» istintivo e
irrazionale mediante il quale il singolo - ripercorrendo le tappe dello
sviluppo storico dell'umanità - si libera da ciò che ha in sé di individuale
per oggettivarsi, com'è noto, nelle istituzioni etiche della famiglia, pagine
che M. dedica alla questione”, appare chiaro come l'espressione «educazione
corruttrice» sia, per lui, a tutti gli effetti, tautol/ogica. Ogni modalità e
pretesa educativa, infatti, in ogni luogo e in ogni tempo, presenta la stessa
"radice" viziata e corrotta: come abbiamo visto, l'ex-ducere, per il
Goriziano, esprime sempre un atto di forzatura, anzi propriamente di violenza:
un "trarre fuori" delegato ad un agente esterno (i maestri, i
pedagoghi...°°°), un trarre fuori che è soprattutto un sottrarre l'uomo a sé
stesso al fine di uno scopo supposto ultimo e massimamente utile, qual è quello
della conformazione al cosiddetto benessere sociale (quella che il Nostro
chiama «eciproca convenienza » sociale). Nel far ciò, arriva a scrivere il
giovane filosofo, la società rende alle sue giovani "promesse" un
servizio ch'è analogo a quello che «l'uomo fa ai vitelli, agli agnelli, ai
polli, ai puledri, per farsene più buone macchine da lavoro o più buoni
produttori di came» [128, in nota; corsivo nostro]. E i risultati di tale
operazione sono, sempre e comunque, quelli di produrre «un degno braccio
irresponsabile della società» [130; corsivo nostro]: un giudice, un maestro o,
addirittura, un boia [130; il significativo accostamento M.iano delle tre
figure sociali, senza soluzione di continuità, è violentemente polemico]. In
questo senso, l'educazione si manifesta come la traduzione più coerente e più funzionale
della tecnica [per cui cfr. supra], lo strumento più opportuno ed efficace per
oliare gl'ingranaggi del meccanismo/dispositivo rettorico. In ultima analisi,
leggiamo tra le righe, la diagnosi critica di M. non prende di mira solo o
esclusivamente il sistema educativo borghese a lui coevo (e, nello specifico,
la scuola borghese, deputata principe a quell'educazione): quello stesso
sistema educativo e quella stessa scuola non sono altro che le forme e le formule
perfette e ultime (ma solo nell'ordine del tempo) in cui l'organizzazione
"conformatrice" della Rettorica stessa si è strutturata, in vista e a
garanzia del suo perpetuarsi. Il problema non è neanche di puntare il dito
verso un tipo di educazione o di organizzazione scolastica errata o quantomeno
della società e appunto dello Stato; anzi lo stesso Stato «non esiste per i
cittadini: si potrebbe dire che esso è il fine e quelli sono i suoi strumenti»
[ibidem], Sostanzialmente, la posizione hegeliana avrebbe trovato un originale
sviluppo in Gentile [cfr. almeno il suo Sommario di pedagogia (1913-14)], che
tra l'altro fu ministro fascista dell'educazione e autore della riforma
scolastica del 1923. Facciamo quest'appunto, perché Gentile - come scrive
Campailla - "nel gioco delle parti, rappresentava idealmente il
megapresidente di quella commissioni di professori" che doveva esaminare
la tesi di laurea del Nostro; e proprio a Gentile toccò, nel 1922, "sulla
‘Critica’, il compito di formulare il giudizio ufficiale di una cultura"
riguardo M. [cfr. l'introduzione di Campailla alla Persuasione..., cit., pag.
XI]. 238 Pagine in cui la sua critica si fa davvero profonda, serrata e piena
di feroce e amara ironia; ben poche pagine, verrebbe da notare, rispetto
all'importanza ed alla complessità del problema, che investe le radici stesse
del perpetuarsi della Rettorica, come sua prerogativa necessaria e sufficiente;
ma, d'altronde, lo stesso M. avvisa che ciò che "fa l'educazione disonesta
della società coi giovani uomini, è vicino, credo, e manifesto ad ogni
occhio" [128-129, in nota]; tal che, il nocciolo è sempre lo stesso: è
l'occhio che si rifiuta di vedere... 239 | più importanti rappresentanti-chiave
(i latini direbbero i principes) del consorzio umano. perfezionabile: vogliamo
dire che non è questione se l'educazione sia affidata ad un cattivo o ad un
buon maestro, ad una cattiva o ad una buona scuola, ad un cattivo o ad un buon
metodo: si rammentino gli "insuccessi" di Socrate e di Cristo, a tal
proposito, se li si vogliano intendere come meri precursori di una scuola o di
un'istituzione. Non è questione, dunque, di proporre un modello educativo
alternativo e più pertinente. Questo perché la Persuasione non può avere
maestri, scuole e proseliti: qualora li avesse, essa stessa giocoforza si
mutuerebbe in Rettorica. Attraverso la Svoreidaywyta, l'individuo vien
de-responsabilizzato””” e condotto, motu proprio, ad abdicare alla propria
umanità autentica. L'educazione ha il fine di preparare il singolo alle
esigenze della vita sociale, in modo che egli sappia inserirsi e vivere nel
meccanismo rettorico, senza traumi e senza velleità di contestazione: formare
coscienze, consapevoli di tutte le idealità familiari e sociali, capaci di
perpetuare lo svolgimento e di garantire la sicurezza stabile del dispositivo,
la sua cultura e le sue tradizioni, seppur talora sotto le mentite spoglie del
progressismo. Con un'espressione riassuntiva, potremmo dire che la società
rettorica garantisce e protegge sé stessa attraverso le forme e le formule
della Rettorica sociale. Appare chiaro, sotto questa prospettiva, che è errata
in assoluto ogni pretesa vicinanza o anche una semplice analogia topica (vista
la distanza temporale e geografica) tra le riflessioni di M. e gli assunti di
quella che vien detta "pedagogia del dissenso", " 241, Nella
"della liberazione", o le posizioni dei movimenti cosiddetti di
"descolarizzazione pratica, l'è vero, le linee dell'analisi e delle
critiche sembrano convergere, sotto certi rispetti (inerenti, comunque,
soltanto alla pars destruens del discorso): entrambi le posizioni (quella M.iana
e quella rivoluzionaria) ritengono che scopo dell'educazione - come comunemente
s'intende - non sia quello di far evolvere un individuo verso la propria
realizzazione al fine di renderlo felice, ma purtroppo far sì che l'individuo
si adatti a quel tanto di infelicità che gli è imposto da un sistema dato e
considerato immutabile (0, come dice Marcuse, l'educazione tenderebbe a fare in
modo che l’uomo viva liberamente la propria mancanza di libertà). Tuttavia, le
posizioni di fondo sono divergenti, anzi si pongono su due piani decisamente
diversi. 240 Si ricordi che, per M., la condizione "naturale"
dell'individuo sociale è quella in cui l'individuo risulta privato del suo
«senso di responsabilità» [108, corsivo del Goriziano; ma cfr. anche quanto
detto a tal proposito nel nostro paragrafo sulla Rettorica come tecnica della
violenza e violenza della tecnica]. 241 Intendiamo quella pedagogia
"rivoluzionaria" o "radicale" rappresentata negli USA da
Ivan Illich e da Paulo Freire (mentre in Italia è stata rappresentata da
Marcello Bernardi), che elegge a suoi padri putativi Godwin (in Inghilterra),
Francisco Ferrer (in Spagna) e, guarda caso, il nostro Tolstoj e che prende le
mosse, o comunque viene allo scoperto, durante i movimenti sessantottini di
protesta studentesca. «Descolarizzare la società» è il celeberrimo motto di
Illich. Quelle "nuove" pedagogie, si muovono, infatti, comunque
nell'ambito della necessità di un'educazione, prendendo di mira soltanto le
modalità, i modelli ed i metodi di quell'educazione. Il loro problema reale è:
l'educando deve adattarsi e conformarsi all'identità sociale, rappresentata ad
esempio dal maestro, o invece, come persona viva deve essere educato ad
adoperare, un giorno, la sua originale vitalità per migliorare la società (ci
immaginiamo come avrebbe reagito M.)? Quelle nuove pedagogie, insomma,
appuntano la loro critica solo su di un dato, effettivo, sistema educativo
(quello borghese e sedicente "liberale"), perché lo ritengono
"statico" e quindi nocivo alla società stessa, cui l'educazione
rimane sempre e comunque "funzionale". Per questo, si affaticano
nell'approntare un metodo educativo che elimini ogni costrizione o dipendenza
apparente (prescrizioni, regolamenti, orari), che ridefinisca quell'insieme di
atteggiamenti e di comportamenti che aiutano un individuo ad essere se stesso,
a realizzare pienamente la propria personalità, a 'progredire secondo le
proprie linee evolutive", come si suol dire. Per dirla in breve, quelle
pedagogie non eliminano l'eteronomia, ovvero non obliterano la figura
dell'educatore (ritenuta sempre necessaria), ma si limitano ad evidenziare la
difficoltà e la delicatezza del rapporto interpersonale educatore-educando, lo
riformulano e lo re-inquadrano assimilandolo sostanzialmente all'amore della
famiglia e/o della città; rischiando, così, di pervenire, e in effetti
pervenendo - nell'ottica del Goriziano, non esplicita in questo senso, ma
consequenziale, a questo punto - ad un'operazione ancora più subdola e pericolosa:
propinare e formare il "culto della comunità" attraverso la maschera
del paternalismo più becero. Questa autorità (quella del genitore, quella del
maestro, quella della Rettorica) rimane sempre tale, anzi si rinforza, perché
si mimetizza sotto le mentite spoglie dell'amore e della cura dell'altro («il
verxog avrà preso l'apparenza della puua» [118]): essa non s'impone più
dall'esterno o dall'alto, ma conduce il discepolo (anzi, meglio, il bambino, o
il giovane) ad attuare se stesso secondo (presunta) verità; comanda come se
consigliasse o supplicasse; influisce e penetra nelle anime senza
apparentemente lederne l'autonomia... Come si vede, nell'ottica del disincanto
che la lettura di M. ci suggerisce, la violenza permane tal qual è, anzi
addirittura si amplifica e diviene più efficace, perché si fa subliminale e si
edulcora, e in questo suo edulcorarsi riesce a rendersi perfino ben accetta.
Alla luce di tutto ciò, appare allora cristallino quanto il Goriziano scrive (e
vale davvero la pena trascriverlo): La peggior violenza si esercita così sui
bambini sotto la maschera dell'affetto e dell'educazione civile. Poiché con la
promessa di premi e la minaccia di castighi che speculano sulla loro debolezza,
e con le carezze e i timori che alla loro debolezza danno vita, lontani dalla
libera vita del corpo, si stringono alle forme necessarie in una famiglia
civile: le quali come nemiche alla loro natura si devono appunto imporre con la
violenza e con la corruzione. Più ancora, la stessa fede, la stessa volontà del
bene è sfruttata per l'utile della società. La grande aspettazione d'un valore
è via via adulata con la finzione d'un valore nella persona sociale, che gli si
tien sempre davanti agli occhi come quella che egli debba, imitando, in se
stesso educare. Tu sarai un bravo ragazzo, come quelli che vedi là andare alla
scuola, sarai come un grande'. Gli si forma il mito di questo raro scolaro
grande, e ogni cosa appartenente allo studio, alla scuola acquista un dolce
sapore: l'andare a scuola, la borsa per i libri ecc. E si forma la gerarchia
dei valori in rapporto alla superiorità della classe: 'Se sarai bravo, il
prossimo anno, non scriverai più sulla lavagna, ma su un quaderno! e con
l'inchiostro". Tutti approfittano di quest'anima in provvisorio che sogna
'il tempo quando sarà grande', per violentarla, 'incamiciarla', ammanettarla,
metterla in via assieme agli altri a occupare quel dato posto e respirar quella
data aria sulla gran via polverosa della civiltà. [129] E in modo ancor più
esplicito e sarcastico: Fin dai primi doveri che gli si impongono, tutto lo
sforzo tende a renderlo indifferente a quello che fa, perché pur lo faccia
secondo le regole, con tutta oggettività. 'Da una parte il dovere, dall'altra
il piacere'. 'Se studierai bene, poi ti darò un dolce; altrimenti non ti
permetterò di giuocare' .E il bambino è costretto a mettersi in capo quei dati
segni della scrittura, quelle date notizie della storia, per poi avere il
premio dolce al suo corpo. - 'Hai studiato: adesso puoi giuocare!". E il
bambino s'abitua a considerar lo studio come un lavoro necessario per viver
contenti, se anche in sé sia del tutto indifferente alla sua vita: ai dolci, al
giuoco ecc. Così gli si impongono le determinate parole, i determinati luoghi
comuni, i determinati giudizi, tutti i kallwpismata della convenienza e della
scienza, che per lui saranno sempre privi di significato in sé ed avranno
sempre soltanto tutti quel costante senso: è necessario per poter avere il
dolce, per poter giuocare in pace: la sufficienza e il calcolo. Quando al dolce
e al gioco si sostituisca il guadagno, "la possibilità di vivere" -
"la carriera", "la via fatta", "le professioni" -
lo studio o la qualsiasi occupazione conserveranno il senso che il primo dovere
aveva: indifferente, oscuro, ma necessario per poter giocare poi, cioè per
poter vivere ai miei gusti, per mangiare, bere e dormire e prolificare [130; in
queste ultime righe, tutto il corsivo è nostro]. Tutto l'apparato rettorico
viene spazzato via con un colpo di spugna, viene anzi ridicolizzato
(s'immiserisce in caricatura) da queste considerazioni sprezzanti che non
concedono alcun appello. La demolizione dell'illusoria permanenza, da semplice
breccia che era, assume dimensioni a dir poco apocalittiche, coinvolgendo tutti
gli aspetti della nostra gratuita, artefatta esistenza, dalle espressioni più
banali e quotidiane a quelle più meschine e smaliziate. Lo smascheramento si è
mutato in condanna esplicita, perentoria, battagliera, irriverente, colpendo
nel cuore il dio della prAopuyix, braccandolo negli anfratti più reconditi,
smitizzandone l'ostentata onnipotenza. Ad un orecchio distratto, le parole di M.
potrebbero suonare come l'ennesima, stancante riproposizione di un impertinente
nichilismo. Tutt'altro, ci pare. Il nichilismo è il travestimento
carnascialesco della Rettorica, il tiro mancino più azzeccato e beffardo e più
a la page. La forza di M. non è soltanto nel disincanto: il disincanto è un
momento di passaggio, obbligato, ma di passaggio; la forza della Persuasione
risiede soprattutto nella speranza di un nuovo inizio: lo spegnersi
dell'illusione luciferina del piacere non ci immerge nelle tenebre ma ci apre
lo spiraglio di una nuova luce, di una recuperabile Salute. Per quanto tutto
ciò che ci attornia sembri comprovare una resa incondizionata, forse non è
ancora tutto compromesso, ci suggerisce il nostro filosofo. Abbiamo ancora una
possibilità di riscatto, un perno autentico intorno al quale tentare di
ricostruire ciò che abbiamo perduto. E' dall'insegnamento socratico che bisogna
ricominciare, è il nosce te ipsum - secondo il Goriziano - il punto di
riferimento di ogni corretta ri-valutazione dell'umano, il «prediletto punto di
appoggio», il veicolo autentico e genuino della Persuasione, la garanzia
pertinace dell'autonomia del vir : Questa educazione (ed è l'unica) [la
precisazione parentetica ha valore risolutorio] dà all'uomo le gambe per
camminare, e gli occhi per vedere: non gli dà vie fatte, non gli fa veder date
cose. - questa fa l'uomo sicuro e indipendente da qualunque offrirsi di cose e
non può temere che l'una o l'altra vita sufficiente lo vinca [PR 150; corsivi
di M.]. Solo attraverso la voce di Socrate” si formerà il vero uomo, il vir
persuaso, l'eroe tragico, l'uomo d'azione, che ha fatto del dolore il punto di
partenza della propria gioia, e che ha aperto quella gioia al mondo, creando i
presupposti di un nuovo rispetto tra gli enti e di un nuovo principio di
responsabilità e di amore. Le parole di M. sono, ancora una volta, devastanti
nella loro bellezza, definitive pur nella loro programmaticità (le sottolineamo
tutte in corsivo, visto che esse compendiano e confermano il senso della nostra
interpretazione): L'uomo d'azione, l'eroe è come uno zampillo d'acque che
erompe dalla terra, s'innalza verso il cielo, riscende a ristorare il suolo.
(...) L'eroe è uno slancio della volontà verso l'essere, la libertà, 'dio"
nelle cose, con le cose, per le cose; nella vita e non fuori della vita;
bisogna esser nella vita per uscirne - e l'unica via è l'universalizzazione
della vita, lo slancio verso il principio della vita in un amore eguale per
tutte le cose viventi: libertà e amore: quanto più l'uomo è libero tanto più
sente sé identico all'universo: nell'amore verso l'intima ragione accomuna sé e
l'universo; sente sé (nel proprio divenire verso l'essenza) la ragione
dell'universo, ama sé in tutte le cose e tutte le cose in sé; in quanto ama e
cerca quell'unica universale essenza. L'eroe vive in questa ultima fede e
afferma se stesso trascinando il mondo verso la vera vita: il regno dei cieli è
in te. (...) L'eroe presuppone negli uomini la medesima essenza, la stessa
volontà che è in lui, rispetta sé negli altri. Cioè suppone negli altri la
‘direzione verso l'assoluto, verso dio": nega e afferma per sé e per gli
altri in nome di questa smisurata speranza. Respinge la vita terrestre, ma
vive, nel pensiero de 'la vita'24, Sta dunque a noi - che, seppur
"storditi", avvertiamo comunque il riflusso della voce socratica -
farne «attività infinita» o destinarla al bivacco dell'utopia, ostinandoci a
bazzicare nelle rilassate menzogne della nostra «tranquilla e serena minore
età» °, perché - direbbe Kant - in fondo «è così comodo essere minorenni!» °°,
242 L'eristica potrebbe obiettare che l'eteronomia, cacciata dalla porta, è
rientrata per la finestra: in fin dei conti, anche M. elegge un suo educatore,
in Socrate. Ma l'appunto è inesatto. L'educazione socratica, infatti, ha il suo
valore proprio nel negare... il proprio valore (ilsapere di non sapere, tanto
per usare un comodo luogo comune), ovvero nell'indicare all'individuo la strada
della propria autonomia, disattendendo ad ogni sua stessa pretesa educativa (e
qui è il fulcro del paradossale "messaggio" di Socrate, che si
riflette nella paradossalità della Persuasione). In questo senso, nel
richiamare l'individuo alla "reminiscenza" dell'autentico
"demoniaco", più che un'educazione, quella socratica è una
provocazione. 243 La figura dell'eroe tragico, come qui è tratteggiata, appare
negli Scritti vari, cit, n. 110, pagg. 798-799. 244 Sono le parole con cui si
conclude la versione "ufficiale" (prescindendo dalle Appendici
critiche) de La persuasione e la rettorica. Confessiamo che sono state proprio
queste parole, che suggellano il messaggio di persuasione M.iano, ad
incoraggiare il nostro approccio ermeneutico attraverso la prospettiva
dell'etica kantiana, casomai non esplicita, ma sempre presente durante la
stesura del nostro lavoro. Perché «uscire dalla minore età» è l'augurio e il
monito programmatico (a tutto il suo pensiero) che Kant pone a principio di uno
dei saggi che riteniamo tra i più belli e sardonici: Risposta alla domanda: che
cos'è l'iluminismo? [cfr. anche nota successiva]. E la coincidenza non c'è
sembrata solo una contingente questione d'assonanza. 245 Cfr. Kant, : Risposta
alla domanda: che cos'è l'illuminismo?, contenuto in Scritti politici e
filosofia della storia e del diritto, UTET, 1965, pag. 141. Capitolo
integrativo. A - Le varianti deboli della Persuasione. A1- La variante
nichilistica di Schopenhauer. A2- La variante Nietzsche, il "terzo
Dioniso". A3 - Leopardi: la variante "flessibile" alla
Persuasione. A4 - Kierkegaard: la variante "relazionale" della
Persuasione. B - Variazioni sul tema M.iano del "peso che di-pende".
C - La critica alla Rettorica come caricatura della Rettorica. A - Le varianti
deboli della Persuasione. Intendiamo quali "varianti deboli" della
Persuasione taluni esiti filosofici che hanno conosciuto, rispetto alla
proposta M.iana, maggior fortuna nella storia del pensiero occidentale, pur
condividendo, con quella proposta, presupposti e finalità, ovvero - per dirla
con estrema sintesi - la mechané tragica per sopravvivere al Tragico (in questo
senso le diciamo varianti). Esiti (l'egoismo di Stirner, il titanismo di
Foscolo e Leopardi, il dionisismo di Nietzsche, il volontarismo di
Schopenhauer, il "cristianesimo" di Kierkegaard e via dicendo) cui
molto spesso la critica si è appoggiata nel tentativo di risolvere la
complicata sciarada della Persuasione, incasellandola nel rapporto a soluzioni
già note e definite, ma in questo modo giocoforza equivocando e/o svalutando la
pregnanza e l'originalità profonde della sua portata. Soluzioni, ancora, che M.
effettivamente tenne in conto, e che anzi costituirono (quale più quale meno)
l'humus fertile della sua formazione culturale e soprattutto umana: ma esiti,
infine, che M. stesso ad un certo punto superò (nell'accezione, ci vien da
dire, hegeliana), ritenendoli parziali o comunque non sufficientemente
"persuasi" (e in questo senso le varianti le diciamo debolì). Non
sufficientemente persuasi significa, come oramai si capirà, non garanti di
quella autonomia e di quell'orizzonte politico che invece costituiscono per noi
i tratti distintivi e forti della Persuasione M.iana. Focalizzeremo la nostra
analisi soprattutto sulle varianti schopenhaueriana, nicciana, leopardiana e
kierkegaardiana, dato che - vista la loro portata - esse si impongono su altre
satellitari, nel senso che ad esse possono comodamente riferirsi. In realtà,
riguardo Kierkegaard, la questione è già stata ampiamente trattata nel corso
del nostro lavoro, anche se per via indiretta, soprattutto nell'accostamento al
Brand, trasposizione drammaturgica (come dicemmo) del cavaliere della fede;
riguardo Leopardi, uno dei Persuasi per eccellenza secondo M., ci soffermeremo
soltanto sulla lieve (ma in ordine di quantità e non di qualità)
"sfumatura" che a nostro parere li distingue nelle soluzioni della
mechané; per quanto concerne Schopenhauer, invece, ci limiteremo a sottolineare
le affinità-differenze del Wille con la deficienza e il valore della
Persuasione anche come decisa risposta alternativa al Nirvana, o comunque
all'ideale ascetico; infine, la nostra analisi indugerà piuttosto su Nietzsche,
dato che l'ermeneutica filonicciana rappresenta, secondo il nostro giudizio,
l'equivoco GRICE EQUIVOCO più problematico e pericoloso della Persuasione,
anche se, purtroppo, il più accreditato. Nel tracciare la sinossi di questi
autori con M., ovviamente si procederà con andamento sintetico piuttosto che
analitico, ovvero sorvolando elementi critici oramai 149 assodati e casomai
soffermandoci su spunti che, in apparenza tangenziali o cavillosi, possono
rivelarsi cruciali nell'economia del nostro discorso. Questa nostra metodologia
"antagonista", infine, vuol far emergere, nel raffronto
chiaroscurale, una evidenza della Persuasione chiara e distinta, chiara perché
appunto distinta. E vuol ribadire il fatto che la riflessione di M., seppur
originalissima, fermentò comunque nella sinergia di riflessioni affini alla sua°*°:
il Goriziano, cioè, cercò continue conferme alla sua ipotesi di Persuasione (e
di riflesso, alla sua analisi sulla Rettorica), spaziando tra le esperienze più
complesse e "alternative", volte a garantirle anche un saldo
impiantito speculativo. Apparirà chiaro, dunque, come tra M. e i quattro
pensatori di cui sopra si venga a stabilire un vincolo che può apparire di
filiazione, ma che in effetti è di "assonanza" (si respira, come
dire, aria di famiglia): ossia apparirà sintomatico come la "consapevolezza
del disincanto" acquisti, a certi livelli, una quasi perfetta
corrispettività di intenti e di diagnosi e di espressioni talora anche
(addirittura) terminologica. Laddove, però, le differenze si rivelano
importanti almeno quanto le somiglianze. Questo, a nostro parere, getta luce
definitiva sul rapporto che il giovane filosofo instaura con i "suoi"
autori: è come se da essi - volendo usare una perifrasi aritmetica - traesse il
"minimo comune multiplo" o il "massimo comun divisore", e
lo rielaborasse nel saldo tessuto connettivo della sua Persuasione. Persuasione
che, in un balzo, oltrepassa anche gli esiti dei suoi riferimenti privilegiati,
e ciò davvero senza la pur minima ossequiosità; Persuasione che, infine, e non
solo per l'ameno che la contraddistingue, può a buon diritto figurare accanto a
quelli nel firmamento della storia della filosofia persuasa di tutti i tempi,
seppur figlia "soltanto" dell'ibrida provincia italo-austriaca. 246
Sullo sfondo, non dimentichiamolo, l'orizzonte greco, presupposto di tale
sinergia, già ampiamente trattato.A1- La variante nichilistica di Schopenhauer.
Come accennato più volte, alla lettura di Schopenhauer - all'unanimità
riconosciuto come uno dei vertici speculativi di ispirazione per M. - il nostro
giovane filosofo fu introdotto dall'amico Enrico Mreule”", e
presumibilmente attraverso Schopenhauer (si pensi alle suggestioni nirvaniche
di intere pagine del Mondo) si avvicinò anche alla riflessione, se non proprio
alla pratica, del Buddismo”. Eppure, il "filosofo della volontà" è il
grande assente dagli scritti michelstedteriani: gli accenni che lo riguardano
in modo diretto sono davvero scarsi, ammontano a quattro o cinque - egualmente
distribuiti tra la tesi, l'epistolario e due saggi raccolti nelle Opere complete
- e, nella maggior parte dei casi, ci sentiamo di dire, davvero di poco conto,
accessorii?”. 247 Cfr. almeno il nostro capitolo II, nella fattispecie il
paragrafo sul Pretesto cronologico della proposta persuasa di M.. 248 Cfr. il
nostro capitolo |, nella fattispecie il paragrafo sul Porto della pace. 249
Schopenhauer aveva individuato nella Volontà [Wille] il nome proprio del
noumeno kantiano, vale a dire la radice strutturale di ogni realtà: un impulso
cieco, inarrestabile, irrazionale, che non ha altro fine se non perpetuare sé
stesso e che, in questo autoprodursi, informa il mondo (si
"oggettiva" nel mondo) segnandolo di dolore e male. Essa è «la
sostanza intima, il nocciolo di ogni cosa particolare e del tutto» (cfr. almeno
Mondo I, $ 21). «Il fenomeno, l'oggettità dell'unica volontà di vivere è il
mondo, in tutta la molteplicità delle sue parti e figure. L'essere, e il modo
dell'essere, nel tutto come in ciascuna parte, è costituito solo dalla Volontà.
Essa è libera, essa è onnipotente. In ogni cosa appare la Volontà, quale essa
medesima in sé e fuori del tempo si determina. Il mondo non è che lo specchio
di questo volere; ed ogni limitazione, ogni male, ogni tormento, che il mondo
contiene, appartengono all'espressione di ciò che la volontà vuole: sono quali
sono, perché essa così vuole» [ib. § 631. Secondo il "filosofo del
pessimismo", la Volontà stessa trova nell'uomo un insperato, inconsapevole
alleato: essa, sempre più chiaramente oggettivandosi, agisce, prima come forza
meramente impulsiva, poi come forza istintiva, infine, proprio nell'uomo, come
conoscenza. Nell'uomo, nella conoscenza, la Volontà diviene forma organizzata,
assume la falsa consistenza del "quadruplice principio di ragione sufficiente"
(necessità logica, fisica, matematica, morale). Ora, ad avviso di Schopenhauer,
ci si può liberare dal dolore e dalla noia e sottrarsi alla catena infinita dei
bisogni - tutte manifestazioni in cui appunto la Volontà si oggettiva nell'uomo
- attraverso l'arte e l'ascesi. Un grado "intermedio" di liberazione
è la compassione, che nasce quando l'uomo ha saputo superare ogni distinzione
fra la propria e l'altrui persona, considerando il destino dell'altro uomo come
uguale al proprio e sentendo come proprio l'altrui dolore. La morale ha come
virtù la giustizia (che è un freno all'egoismo e quindi è una virtù negativa:
"non fare il male") e la carità (virtù positiva: "allevia il
male"). Tuttavia, se con la pietà si vince l'egoismo, comunque non ci si
libera totalmente della vita e dunque della volontà. Difatti, per Schopenhauer
il comportamento che nega in modo assoluto l'individualità e la volontà
dell'uomo è piuttosto quello ascetico. Nell'ascesi la Volontà cancella ogni
affermazione di sé negando tutte le forme "positive" di vita e
trasformandosi in quella che il filosofo chiama appunto la nolontà (ossia il
riflesso speculare - ma opposto, negativo - della Volontà). L'ascesi si profila
come un insieme di pratiche che mortificano la volontà, che fanno capire come essa
sia causa reale di sofferenza e sia essenza stessa del mondo: la noluntas è la
perfetta castità, la povertà volontaria, la rassegnazione ed il sacrificio
[cfr. almeno $$ 70-71]. Quello ascetico si configura come lo stato di chi ha
annullato in se medesimo ogni pulsione vitale, di chi si è distaccato
dall'ordine degli eventi mondani e dai piaceri della vita e accetta serenamente
la morte come liberazione dai lacci della volontà e delle sue illusioni. La
completa soppressione dell'impulso vitale produce, per Schopenhauer,
l'annullamento totale del mondo: pervenuto alla perfezione della noluntas,
l'uomo scopre che il traguardo della propria autonegazione gli dona la
contemplazione del nulla (cfr. almeno ib. $ 71, ma vd. anche nel prosieguo del
confronto). Ma è proprio nella formazione di questo "nulla
mortificante" artefatto che, secondo noi, M. costruisce la propria critica
e segna il suo distacco da Schopenhauer. [le citazioni qui riportate da Il
mondo come volontà e rappresentazione, e quelle che si riscontreranno nel corso
del confronto, sono tratte dalla trad. it. proposta dall'ed. Laterza, 1968, a
cura di C. Vasoli. Delle citazioni ci siamo limitati a riportare i paragrafi da
cui esse son prese]. 250 Alle citazioni che incontreremo nel corpo del
confronto, si aggiungano queste altre tre, e il quadro è completo:
Schopenhauer, del resto, non rientra nell'eletta schiera dei persuasi: non è
inserito neanche nell'elenco dei «perfetti pessimisti» (che coincide in pratica
con quello dei persuasi), nel noto frammento contenuto negli Scritti Vari.
Questo silenzio e queste assenze sono a dir poco imbarazzanti, e molta critica
tende a sua volta a sottacerli, dato che, diversamente, crediamo noi, verrebbe
a cadere uno dei più importanti pretesti per incasellare M. all'interno di una
tradizione di riferimenti già stabilita. E' altrettanto vero, comunque, che da
molte pagine della tesi di laurea e del Dialogo trapela netta la voce del
Wille, soprattutto quando il Goriziano svolge la sua analisi sul deficere
fisiologico-ontologico che struttura il mondo sublunare”; com'è vero che, «con
buona probabilità, [ritrae il volto di] Schopenhauer un disegno di M.
pubblicato da VI. Arangio-Ruiz252, [al di sotto del quale disegno] è
significativamente riportata la formula 'AT ENEPIEIAX® EX APTIAN'
[dall'attività verso la pace] in cui il Goriziano ha più volte sintetizzato i
compiti della [sua] ricerca filosofica»“°°. E, ancora, è forse proprio lo
stesso ritratto che s'intravvede sullo sfondo, tra i libri sulle scaffalature,
nel famoso autografo Disegno della soffitta di casa Paternolli (il «ritratto
della mia vita», com'egli lo chiama allegandolo ad una lettera al Chiavacci),
la soffitta dove M. letteralmente si segregò per ultimare la tesi, trascorrendo
(come scrive) una «vita che non è vita», ma con la consapevolezza, comunque,
che lì nasceva «una grande opera». Quasi che l'immagine del filosofo tedesco,
come l'icona di un santo, vegliasse e "supervisionasse" il lavoro del
Goriziano, dunque. Del resto, Schopenhauer suggerisce a M. anche il luogo
privilegiato attraverso il quale, come filo d'Arianna, individuare la
possibilità di un'armonia persuasa da estendere alla totalità delle cose
viventi: il filosofo tedesco aveva visto, cioè, proprio nel corpo - che pur ad
una considerazione superficiale si dà come mera rappresentazione tra le
rappresentazioni - l'espressione più adamantina e perfetta dell'oggettivazione
del Wille, e quindi la condizione della conoscenza della Volontà stessa, lo
strumento euristico che permette di oltrepassare il "velo di Maia"
interposto tra noi e la vera essenza del «E' scritto in qualche parte (credo in
Schopenhauer) che chi potesse guardare internamente in un vaso di terra non vi
vedrebbe che un oscuro tendere al basso e un'oscura forza di coesione» [PR
162]; «Tu sai che la ragione dell'antisemitismo filosofico (Schopenhauer e
Nietzsche) è il razionalismo della religione e della letteratura ebraica (pensa
al Pentateuco e a Spinoza!) e la mancanza dell'elemento mistico nelle menti
ebraiche [...]» (la già citata lettera al Chiavacci, del 22 dicembre 1907, E
267, che richiameremo anche in riferimento a Nietzsche); «Schopenhauer dice che
ogni dialettica è in fondo un'eristica. Quella dialettica non è un'eristica
dove l'uomo si comporta verso l'altro come verso di sé - dov'è presupposta in
tutti e due un'eguale realtà, sicché tutti e due arrivano a purgare singoli
concetti dalla relatività, giungendo ad affermare così l'assolutezza della loro
comune fede» [O 711-712]. 251 Ma riguardo a ciò, ovvero alla re-interpretazione
del Wille, cfr. quanto diremo oltre. 252 In Convegno, luglio 1922, pag. 357.
253 Sono le parole di S. C ampailla, in Pensiero e poesia..., cit., pag. 25, in
nota. 254 La lettera cui il disegno e le parole citate fanno riferimento è
quella del 25 aprile 1910. mondo. Similmente, M. individua un'analogia tra il
bisogno elementare del nostro corpo e il bisogno della Persuasione: come
ricorderete, dicemmo che «è come se [...] un'immagine sbiadita della
Persuasione sopravvivesse nella forza che sottende all'equilibrio omeostatico
(chimico e soprattutto fisiologico) del nostro corpo» °°. Ciò nonostante, il
silenzio del Goriziano riguardo Schopenhauer è, secondo noi, non privo
d'importanza, è anzi indicativo della curvatura autonoma che ben presto prese
la sua ricerca esistenziale. A tal proposito, ci sembra utile riportare l'unico
passaggio che abbiamo designato come significativo: (Schopenhauer, in fin dei
conti] non si occupa di far vedere la necessità dell'errore stesso implicito
nel principio generale della vita che fece vivere chi aveva negato ogni ragione
di vivere. Infatti così accadde proprio a lui che visse tutta una lunga vita a
fare professione di pessimismo. Tanto che poi le sue negazioni gli divennero
sistema e che morì accarezzando anche lui [s'intende, tra le righe,
(soprattutto) come Hegel] una certa forma di 'assoluto' [O 839-840]. Come
appare chiaro, M. denuncia che nella pratica della vita il filosofo tedesco
arrivò a sconfessare se stesso, o che comunque fece assurgere il suo pessimismo
a sistema, la qual cosa è una contraddizione in termini. Appare altrettanto
chiaro che, in questo senso, Schopenhauer diviene addirittura l'avversario
privilegiato, seppur indiretto, di molte pagine M.iane incentrate sulla critica
dell'«imperfetto pessimismo», cioè di quel pessimismo che viene infine a
coincidere con «un punto alto dell'ottimismo vitale»"99. Il meccanismo,
che in effetti ricorre in più passaggi della sua opera, viene descritto con
limpidezza in un capoverso del Dialogo: Il suo non è pessimismo, cioè
conoscenza del non-valore, e conseguente indifferenza, ma ottimismo. Cioè fede
in un valore (la felicità nella morte) sconosciuto, per solo stimolo del suo
bisogno presente [D 78]. Qui, in verità, M. sta fustigando coloro i quali,
"forti" del loro pessimismo, credono di realizzarne con coerenza i
presupposti nichilisti uccidendosi. Mentre invece Schopenhauer, come sappiamo,
considerò il suicidio come «un atto di forte affermazione della volontà stessa»
in quanto il suicida «vuole la vita ed è solo malcontento delle condizioni che
gli sono toccate» (Mondo, $ 69), per cui anziché negare veramente la volontà
egli nega piuttosto la vita; e in questo M. lo segue fedelmente (ed è
importante, e deve far riflettere, una simile presa di posizione da parte di un
suicida?”). 255 Cfr. ci sia concessa questa autocitazione dal paragrafo su
Empedocle, nel nostro Capitolo V, per rendere più scorrevole il discorso. 256
in Scritti Vari, cit., pag. 825. 251 Cfr. le analisi contenute ad esempio in D
75-78. Tuttavia, pur se non morte, cos'altro è la noluntas se non una forma di
"mortificazione", di consapevole eutanasia? La pace del Nirvana? si
propone come esperienza del nulla, un nulla relativo al mondo, cioè, in
definitiva, una negazione del mondo. Certo, anche la Persuasione presuppone una
spoliazione progressiva delle "valenze inadeguate" che il vir
intrattiene col mondo: ma il risultato non è un divorzio del Persuaso da ciò
che lo circonda, non è una sua mortificazione, bensì - e lo abbiamo più volte
ripetuto - un recupero del mondo nell'apprezzamento di una rinnovata dolcezza.
Per semplificare la questione, possiamo ammettere che talune affermazioni del
Goriziano tradiscono, in effetti, già nell'argomentazione, una discendenza
molto chiara dal dettato schopenhaueriano (ad es., passaggi importanti come il
seguente: «Vita è volontà di vita, volontà è deficienza, deficienza è dolore,
ogni vita è dolore»°°°): e proprio seguendo la falsariga del Tedesco (e con
profonde affinità anche con Leopardi) per M. la vita - e non solo quella
rettorica - oscilla decisamente tra dolore, piacere effimero e noia.
L'argomentazione è addirittura sillogistica, come sappiamo: ogni essere
vivente, oggettivazione puntuale/empirica del Wille/deficere, è afflitto dal
bisogno e dal desiderio, da una brama che pone in lotta le forme viventi tra
loro. Unica alternativa, dopo i brevi e occasionali istanti dell'appagamento
(natura negativa del piacere), è la noia. 258 «Davanti a noi - scrive
Schopenhauer - non resta invero che il nulla. Ma quel che si ribella contro
codesto dissolvimento nel nulla, la nostra natura, è anch'essa nient'altro che
la volontà di vivere. Volontà di vivere siamo noi stessi, volontà di vivere è
il nostro mondo. L'aver noi tanto orrore del nulla, non è se non un'altra
manifestazione del come avidamente vogliamo la vita, e niente siamo se non
questa volontà, e niente conosciamo se non lei. Ma rivolgiamo lo sguardo dalla
nostra personale miseria e dal chiuso orizzonte verso coloro, che superarono il
mondo; coloro, in cui la volontà, giunta alla piena conoscenza di sé, se
medesima ritrovò in tutte le cose e quindi liberamente si rinnegò; coloro, che
attendono di vedere svanire ancor solamente l'ultima traccia della volontà col
corpo, cui ella dà vita. Allora, in luogo dell'ncessante, agitato impulso; in
luogo del perenne passar dal desiderio al timore e dalla gioia al dolore; in
luogo della speranza mai appagata e mai spenta, ond'è formato il sogno di vita
d'ogni uomo ancor volente: ci appare quella pace che sta più in alto di tutta
la ragione, quell'assoluta quiete dell'animo pari alla calma del mare, quel
profondo riposo, incrollabile fiducia e letizia [...] La conoscenza sola è
rimasta, la volontà è svanita. E noi guardiamo con profonda e dolorosa
nostalgia a quello stato, vicino al quale apparisce in piena luce, per
contrasto, la miseria e la perdizione del nostro. Eppur quella vista è la sola,
che ci possa durevolmente consolare, quando noi da un lato abbiam riconosciuto
essere insanabile dolore ed infinito affanno inerenti al fenomeno della
volontà, al mondo; e dall'altro vediamo con la soppressione della volontà
dissolversi il mondo, e soltanto il vacuo nulla rimanere innanzi a noi. In tal
guisa adunque, considerando la vita e la condotta dei santi [...] dobbiamo
discacciare la sinistra impressione di quel nulla, che ondeggia come ultimo
termine in fondo a ogni virtù santità e di cui noi abbiamo paura, come della
tenebra i bambini. Discacciarla, quell'impressione, invece d'ammantare il
nulla, come fanno gl'Indiani, in miti e in parole prive di senso, come
sarebbero l'assorbimento in Brahma o il Nirvana dei Buddhisti. Noi vogliamo
piuttosto liberamente dichiarare: quel che rimane dopo la soppressione completa
della volontà è invero, per tutti coloro che della volontà ancora son pieni, il
nulla. Ma viceversa per gli altri, in cui la volontà si è rivolta da se stessa
e rinnegata, questo nostro universo tanto reale, con tutti i suoi soli e le sue
vie lattee, è il nulla » [Mondo $ 71 passim]. 259 In Scritti Vari, cit, pag.
705. 260 «Qualsiasi soddisfacimento - scrive Schopenhaurer - o ciò che in
genere suol chiamarsi felicità, è propriamente e sostanzialmente sempre
negativo, e mai positivo. Non è una sensazione di gioia spontanea, e di per sé
entrata in noi, ma sempre bisogna che sia l'appagamento d'un desiderio.
Imperocché desiderio, ossia mancanza, è la condizione preliminare d'ogni
piacere. Ma con l'appagamento cessa il desiderio, e quindi anche il piacere.
Quindi l'appagamento o la gioia non può essere altro se non la liberazione da
un dolore, da un bisogno: e con ciò s'intende non solo ogni vero, Dolore,
piacere e noia sono le passioni, potremmo dire con Cartesio, «semplici e
primitive», da cui si diramano passioni più particolari; di queste, il
Goriziano fornisce una vera e propria casistica eziologica ed ontologica, che
può ricordare altre simili presenti, ad esempio, nell'Ethica di Spinoza:
l'impotenza, il rimorso, la malinconia, la paura, l'ira, la «gioia 'troppo'
forte»™®' . Ontologica perché esse tutte, primitive e derivate, in effetti poggiano
sulla passione fondamentale, quella esistenziale per eccellenza, quella insomma
che gli esistenzialisti (ma già Kierkegaard) chiameranno Angoscia [Angs{
ovvero, secondo il giovane tesista, la condizione per la quale l'uomo «sente
d'esser già morto da tempo e pur vive e teme di morire»”®?: l'angoscia
testimonia «dappertutto lo stesso dolore della vita che non si sazia e crede di
saziarsi, reso perspicuo per la qualunque contingenza dell'una coscienza col
fluire delle altre coscienze». E' l'angoscia, la malattia mortale, la passione
"motrice" che, nella pratica, induce gli uomini a stringere la
"cambiale" della società, per una sorta dicompensazione/conservazione
del proprio impulso vitale, altrimenti annichilito. Tuttavia, se tale analisi
ha una radice palesemente schopenhaueriana, il nostro filosofo già da subito
reinterpreta/sussume il Wille all'interno di un'originalissima «ontologia della
privazione che concepisce la vita secondo i termini di una deficienza
originaria »?9°, ovvero «la volontà per M. non è un oscuro impulso fondato in
se stesso [come appunto in Schopenhauer], ma una ‘deficienza’, una mancanza, la
maniera d'essere dell'esistenza finita, della falsamente infinita ‘vita» 9. E i
nostri approfondimenti in proposito dovrebbero rendere questa differenza oramai
scontata. La Persuasione, di contro, non sarà un riparo egoistico nella turris
eburnea dell'autosufficienza nichilista (così come appare nella noluntas), ma
una consapevolezza viva e politica del Tragico, volta a creare una nuova
solidarietà tra tutti gli enti del mondo sublunare, al di là di ogni
pregiudiziale cesura metafisica?®. Il Persuaso, infine, è il vero pessimista
perché sa farsi ragione della «brutalità della vita», e ciò facendo - scrive M.
- «vive con la chiara coscienza dei valori e delle possibilità: non spera dalle
cose più di quanto possano dare, non teme più di quanto sia da temere». Ancora
una volta, il pessimismo persuaso coincide con la consapevolezza del Persuaso,
ovvero con la consapevolezza aperto soffrire, ma anche ogni desiderio, la cui
importunità disturbi la nostra calma, e perfino la mortale noia, che a noi
rende un peso l'esistenza». [cfr. Mondo, § 58] 261 Per l'analisi delle quali,
cfr. - del nostro Il capitolo - il paragrafo sul Cerchio della violenza. 262 Per
queste considerazioni, e quelle che seguono immediatamente, cfr. ibidem. 263
Cfr. G. Pulina, L'imperfetto pessimista - Saggio sul pensiero di Carlo M., ed.
Lalli, pag. 61. 264 Cfr. A. Michelis, Carlo M., cit., pag. 71. 265 P er i
riferimenti e le citazioni che seguono immediatamente, cfr. almeno, del nostro
capitolo II, il paragrafo sulle Radici della violenza. In effetti, che tra
l'uomo e gli altri enti non ci fosse alcuna cesura metafisica è un lascito
anch'esso schopenhaueriano (tutto è Volontà). dell'impermanenza esistenziale”,
e quindi con la gioia che da questa consapevolezza scaturisce. Ne vien fuori
una figura di eroe tragico che nulla ha a che vedere con l'asceta
schopenhaeuriano, o col superuomo nicciano (che più che tragico, apparirà
grottesco?9”). Un eroe tragico che, come abbiamo concluso”, è uomo d'azione,
uno zampillo d'acqueche erompe dalla terra, s'innalza verso il cielo, ma
riscende a ristorare il suolo: vive in uno slancio che è nella vita e non fuori
della vita: lo slancio verso il principio della vita in un amore eguale per
tutte le cose viventi. L'eroe vive in questa ultima fede e afferma se stesso
trascinando il mondo verso la vera vita; e poiché presuppone negli uomini la
medesima essenza, la stessa volontà che è in lui, rispetta sé negli altri,
creando un vincolo di libertà e di amore??? 266 Come la chiamerebbero anche i
maestri orientali; e la coincidenza terminologica che non può essere soltanto
un caso. 267 Ma cfr. quanto diremo fa poco in proposito della variante
Nietzsche, 268 || riferimento è alla parte conclusiva del nostro capitolo Il.
Di quelle conclusioni riprendiamo, in parafrasi, nelle parole che appena
seguono, i punti salienti della descrizione dell'eroe tragico così come
tratteggiata dal Goriziano, come detto, negli Scritti vari, cit, n. 110, pagg.
798-799. 269 In questo modo, M. recupera e rivaluta anche l'orizzonte
importante della compassione, che Schopenhauer aveva inteso soltanto come uno
dei momenti - inadeguato e transitorio - per assurgere alla contemplazione
nullificante del Nirvana [per cui cfr. supra]. A2- La variante Nietzsche, il
"terzo Dioniso". C'è un pessimismo della forza? Nietzsche, Tentativo
di autocritica Confessiamo che affrontare la variante nicciana della
Persuasione ci mette un po' a disagio. Nietzsche è un autore che attrae
inevitabilmente nel vortice del suo pensiero e della sua "follia"
ogni tentativo di accostamento; anche il nostro, per quanto contingente e
irrisorio, cioè votato a tracciare esclusivamente eventuali affinità o meno col
dettato M.iano. Proprio il fatto che quest'accostamento nostro malgrado
"ci si imponga" pur parlando di M. (che è per noi, negli esiti, un
altro mondo rispetto al filosofo tedesco) testimonia, nel suo piccolo, di come
la potenza e il fascino "ambiguo" di Nietzsche faccia valere tutta la
sua autorità; ossia di come si sia iniettato a livello genetico nell'orizzonte
pensante della sua posterità al punto che, a tutt'oggi, ogni nuova ricerca
filosofica, ogni nuova proposta etica, insomma ogni "progresso" della
speculazione deve fare innanzitutto i conti col suo nichilismo, eletto
all'unanimità a spartiacque, e deve innanzitutto difendersi dall'accusa
terribile di essere un valore, la più immediata che le viene rivolta contro, al
pari di un'offesa. Ribaltando la prospettiva (ma il senso permane identico),
ogni affermazione di forza genuina, ogni progetto di nuova umanità, ogni
rinnovato accenno "persuasivo" viene inteso come partorito, per
germinazione più o meno consapevole, in seno alla transvalutazione, come se
nella debacle di cui siamo gli omertosi testimoni Nietzsche fosse l'unico
garante di sincerità, l'unico punto di riferimento, l'unico abbrivo di pensiero
che prometta onestà. Così, anche la Persuasione M.iana è passata al vaglio del
"pensiero danzante", e a tal proposito il travaglio ermeneutico dei
suoi esegeti filonicciani è stato alacre: si è visto, cioè, nel vir un
figlioccio o un fratellastro minore dell'Ubermensch, nella sua aspirazione "autarchica"
(ovvero, autonoma) una volontà di potenza più ingenua ma non meno violenta: una
sorta di carbonio impoverito. M. sarebbe la traduzione provinciale del
nichilismo cosmico-europeo: egli starebbe a Nietzsche come il grimaldello al
martello. Ci viene voglia di liquidare il discorso con due battute: [1] la
Persuasione è effettivamente e fieramente un valore; [2] definire nicciano M.
sarebbe come chiamare nicciano Socrate (è Socrate, infatti, il riferimento
dichiarato del Goriziano), il che paleserebbe la vanità e la risibilità
dell'accostamento. Tuttavia, per non prestare il fianco ad inevitabili
contrappelli, preferiamo - come sempre - parlare di M. (e qui della sua
presunta filiazione da Nietzsche) attraverso le sue stesse parole.
Innanzitutto, è da dire che chi cercasse riferimenti espliciti al filosofo
tedesco nelle opere del Goriziano, come nel caso di Schopenhauer, rimarrebbe
deluso. Si contano a stento sulle dita di una mano, e Nietzsche risulta
praticamente ignorato ne La persuasione e lrettorica. Difatti, M. menziona
Nietzsche cinque o sei volte - in maniera incidentale e mai in un contesto
"pacifico" - solo nelle lettere e in qualche appunto
"minore" contenuto nelle Opere complete a cura del Chiavacci. Ma
procediamo con ordine, partendo da un elemento in apparenza occasionale. Una
sera del gennaio 1907, M. va a teatro (una delle sue attività preferite) ad
assistere ad una pièce allora in voga: Più che l'amore, di Gabriele D'Annunzio.
Il Goriziano, com'era solito fare, in una lettera alla famiglia descrive
puntualmente le impressioni che ne ricavò [E 167-168]: Questa sera andai a
sentire Più che l'Amore. - Il concetto è prettamente Dannunziano, o meglio
Nietzschiano: L'uomo superiore nel suo immediato congiungimento d'amore,
d'entusiasmo con la natura, con le forze vive della vita, al di fuori della
società, al di fuori quindi da tutti i suoi concetti morali, ha diritto di
schiacciare senza riguardo a questi concetti, tutte le barriere che la società
gli mette fra il suo amore e il conseguimento del suo ideale. - A me pare che
non solo si esplichi ciò (come i giornali dissero sempre) nell'uccisione del
baro ma anche e più, nel calpestare che Corrado Brando [il protagonista del
dramma] fa e dell'amore di Maria e dell'amicizia di Virginio. Anzi unicamente
in questo consiste l'azione, nell'altro soltanto l'antefatto e il mezzo per
poter esprimere tutti i concetti che l'autore magnificamente fa esporre
continuamente a Corrado, e ci spiegano l'azione la quale azione invece è di
fatto soltanto, non di parole. Più che l'amore agita Corrado la passione per la
natura africana, in nome di questa egli spezza il cuore di Virginio e di Maria.
Non èvero dunque che il lavoro manchi d'azione. Anzi è azione psicologica
serrata continua. La forza individuale di Corrado non cozza meschinamente
contro l'impossibilità di aver 3000 o 4000 lire ma contro i legami sociali,
contro i legami della coscienza, sopratutto contro i legami del cuore che dalla
società nascono, quei legami che sono i più forti di tutti. Quindi la
situazione è corrispondente esattamente a quelle del D'Annunzio stesso di fronte
alla sua famiglia nelle Laudi quando prende quasi commiato da lei,
corrispondente a tutta l'Attività sua poetica e pratica, corrispondente alla
situazione attuale della società (come si diceva quella sera). - Ma perché
questa azione spicchi è necessario drammaticamente l'ambiente sociale con tutte
le sue leggi, i suoi affetti, i suoi pregiudizi, o un suo rappresentante
convinto inesorabile, che non possa nemmeno intendere altre idee, oppure infine
un resto di questo mondo nell'animo dell'eroe, a produrre la lotta, la crisi,
la catastrofe. Invece l'autore piega tutti i presenti sotto il fascino di
Corrado: Virginio malintende e tentenna, Maria lo segue con entusiasmo, il
servo negro si farebbe in pezzi per lui. Quindi l'azione resta avviluppata,
affidata quasi all'immaginazione del pubblico, che, se sente, deve intendere lo
schianto dell'animo dei due altri, deve capire come la società calerà la sua
mano pesante sul capo di Corrado: il fato. E l'autore per aiutar
l'immaginazione appoggia tutta l'azione al fatto dell'uccisione che produce la
catastrofe dell'intervento della polizia. - In conclusione credo che abbia
tutti gli elementi ma che non sia affatto un dramma. E però un gioiello, una
cosa splendida per concetto ed immagini. - Questo stralcio, che può leggersi
anche come un piccolo e acuto saggio di critica teatrale, c'introduce proprio
nel cuore della nostra questione. Cerchiamo di de-costruirlo. E' nota la
deformazione dannunziana del mito del superuomo, reinterpretato in chiave
estetizzante e decadente: l'intuizione nicciana si volgarizzava, in tutti i
sensi, nell'ambigua figura di Andrea Sperelli, il protagonista del Piacere,
alter ego dello stesso D'Annunzio, personaggio insieme raffinato e gelido,
aristocratico e spregiatore di quel «grigio diluvio democratico moderno che
tante belle cose e rare sommerge miseramente» (l'ispirazione nicciana doveva
intensificarsi nei cosiddetti romanzi del giglio, fiore simbolo appunto del
superuomo, della passione che si purifica). Fu soprattutto attraverso questa
distorta prospettiva (sin dai primi anni novanta dell'Ottocento, quindi) che il
pensiero di Nietzsche 158 fece il suo ingresso e la sua fortuna in Italia,
andando ad affascinare una gioventù ancora scapigliata e destando voluttuoso, e
dunque ipocrita, scandalonella borghesia giolittiana. L'intelligente M.,
tuttavia, mostra di non leggere Nietzsche attraverso D'Annunzio (qual era
l'abbaglio del suo tempo e a quanto presumono i critici M.iani di oggi), bensì
D'Annunzio attraverso Nietzsche: «il concetto è prettamente Dannunziano, o
meglio Nietzschiano», dice, e confessa indirettamente, in questo rilievo
correttivo, di aver avuto tra le mani le opere del filosofo tedesco e di poter
valutare criticamente i distinguo. Distinguo che, in questa sede, non
interessano: interessa piuttosto individuare in cosa consistesse quel «concetto
prettamente nietzschiano» che M. menziona. Ovvero, qual era l'impressione
ch'egli aveva desunto dalla lettura di Nietzsche? Le parole del Goriziano sono
chiare: «L'uomo superiore nel suo Immediato congiungimento d'amore,
d'entusiasmo con la natura, con le forze vive della vita [la «fedeltà alla
terra», il «SÌ alla vita», dice Zarathustra], al di fuori della società, al di
fuori quindi da tutti i suoi concetti morali, ha diritto di schiacciare senza
riguardo a questi concetti, tutte le barriere che la società gli mette fra il
suo amore e il conseguimento del suo ideale». L'impressione si metallizza in
una serie di nette opposizioni: individuo (uomo superiore) - società;
aspirazione alla realizzazione/autenticità (forze vive della vita) - sua
castrazione/inautenticità (concetti morali, barriere); dinamismo (forze vive
della vita) - stabilità sociale. In effetti, sembra già enuclearsi la dicotomia
Persuasione-Rettorica?”°. Ma prestiamo attenzione a un punto essenziale: in che
modo si realizzano le aspirazioni dell'uomo superiore, ossia in che modo esso
reagisce all'impasse sociale e riesce a «conseguire il suo ideale»? Il suo
aderire alla natura, alle forze della vita è «immediato», «entusiastico»: c'è
una sorta di processo di accumulazione energetica in questa immediatezza,
un'integrazione di "vitamine esistenziali": si galvanizzano forze
pericolose per il labile equilibrio salutare (l'armonia vitale). Questa
continua tensione, scrive Nietzsche, «sarebbe fatale per nature troppo delicate
[ma] fa parte degli stimolanti della grande salute». In un appunto tralasciato,
relativo alla Volontà di potenza, il 270 Come s'evince dall'indiretta accusa di
estetismo "psicologizzante" che M. rivolge a D'Annunzio. L'appunt è
anche qui in apparenza estemporaneo, cioè si offre come un mero rilievo di
critica teatrale (la vera "azione", il ver "dramma" della
pièce), mentre a ben vedere M. mostra già di presentire quelle che sarebbero
state le ragio motrici dello scontro Persuasione-Rettorica nella sua visione
matura. Perché l'azione drammatica decolli, dice Goriziano, «è necessario
drammaticamentel'ambientesocialecon tutte le sue leggi, i suoi affetti, i suoi
pregiudizi, o u suo rappresentante convinto inesorabile, che non possa nemmeno
intendere altre idee, oppure infine un resto di quest mondo nell'animo
dell'eroe, a produrre la lotta, la crisi, la catastrofe». Spostando, per
analogia, il rillevo nel "teatro del vita", il gioco è fatto. Di
contro, D'Annunzio «piega tutti i presenti sotto il fascino di Corrado»: questo
sposta, ed elude, consapevolezza dello scontro effettivo e del suo effetto
tragico, che dovrebbe corrispondere allo smacco sociale. E' una critica
embrionale, qui ancora inconsapevole, anche ai presumibili risvolti sociali e
politici di un'operazione simile: chiunque indugi a effondere il carisma
dell'uomo superiore falsa la portata tragica del conflitto
impersonale-universale, rischiando di risolverlo (e dunque di ridimensionarlo)
a livello esclusivamente personale-individuale. Giocando col riferimento di M.
a Corrado, possiamo dire che Nietzsche, in questo senso, «piega tutti i
presenti sotto il fascino di Zarathustra», ossia di se stesso. o 5-29 6 DD
15filosofo affina il suo concetto: «Salute e malattia: si vada cauti nel
giudicare! Pietra di paragone resta l'efflorescenza del corpo, l'elasticità, il
coraggio e la giocondità dello spirito; ma, naturalmente, anche quanto di
malato esso può prendere su di sé e superare - rendere sano» [il corsivo è di Nietzsche].
La grande salute è, possiamo dire, una questione di "entropia"?! del
superuomo. Come si sa, l'aspetto forse più importante dell'entropia è quello
per cui noi, studiando appunto le variazioni entropiche di un dato sistema (nel
nostro caso, del superuomo), possiamo "predirne il futuro", siamo in
grado cioè di capire quali sono gli stati verso cui il sistema può evolvere e
quali sono invece quelli che gli sono preclusi. La fisica, infatti, ci insegna
che l'energia si conserva, è costante, ma altresì che essa evolve, assumendo
forme non tutte ugualmente pregiate: l'energia può infatti dissiparsi (e la
trasformazione è irreversibile) oppure essere opportunamente imbrigliata, e
realizzarsi in lavoro (energia utile, trasformazione almeno parzialmente reversibile).
Come evolve allora l'energia del superuomo, qui incarnato in Corrado Brando? Il
superuomo - scrive M. - «ha diritto di schiacciare senza riguardo». La sua
energia, cioè, esplode in violenza. Sottolinea il Goriziano: «A me pare che non
solo si esplichi ciò [...] nell'uccisione del baro ma anche e più, nel
calpestare che Corrado Brando fa e dell'amore di Maria e dell'amicizia di
Virginio». E' questo un tratto tipicamente M.iano: la violenza (del superuomo)
non si esplica solo nel "fatto" brutale (qui, dell'omicidio), ma
ancor più nel rescindere, nel tradire, nel calpestare i sentimenti umani più
veri e più belli: l'amore e l'amicizia; ovvero, la violenza non è soltanto
sopraffazione: è anche - soprattutto - contraffazione, mancanza di rispetto per
la dignità dell'uomo che ci è accanto, preclusione dell'orizzonte politico del
confronto e della relazione umana nell'imposizione rutilante della propria
"egoità", attraverso un progressivo, disonesto avvelenamento
(Rettorica, appunto, avrebbe detto pochissimi anni dopo M.). La Rettorica nasce
dunque da una dissipazione di energia esistenziale, e si profila,
conseguentemente, come un processo irreversibile. Lasciamo per ora in sospeso
questo punto; teniamolo tuttavia bene a mente. E così, M. lesse Nietzsche. Il
Cerruti, convinto di una parabola evolutiva del pensiero M.iano, appronta una
schematizzazione utile, per quanto giocoforza farraginosa, fotografando i
«momenti dell'esperienza ideologico-esistenziale» del nostro giovane filosofo:
in essa, portando a testimonianza soprattutto la primissima parte
dell'Epistolario (laddove effettivamente il tono espressivo e la sensibilità
emotiva rasentano posizioni dannunziane e nicciane), il critico dimostra che M.,
almeno nella sua prima giovinezza, aderì al culto del superuomo e alla sua
"morale eroica". Nel suo schema, questo periodo di eroico furore
corrisponderebbe agli anni immediatamente precedenti il 1906 (dunque, 1905
incluso), anni in cui «oltre i diversi stimoli di una cultura eclettica e
ancora in certa misura scolastica, [il Goriziano si collocherebbe appunto]
entro una temperie logico-sentimentale di ascendenza nietzschiana, o meglio
[...] nietzsche-dannunziana». L'analisi del Cerruti, puntuale ed argomentata,
alla fine riesce anche convincente: evidentemente, pensiamo noi, M. dovette
ritrovare in quei due autori, a quel tempo, gli unici o almeno i massimi punti
di riferimento per una germinale polemica anti-rettorica che già agitava la sua
intelligenza e la sua sensibilità.””? Questa sinergia si può arricchire,
secondo noi, di un ulteriore innesto””?: se si tiene a mente l'analisi
demolitrice dell'apparato rettorico fornita da M., si può scoprire che, almeno
nelle linee essenziali, essa deve in realtà molto al giovane Nietzsche, che
scriveva, non molti anni prima del Nostro, cose altrettanto
"inaudite" nel libello Su verità e menzogna in senso extramorale’”.
In esso, il filosofo tedesco indagava col medesimo cipiglio le costruzioni del
filisteismo intellettuale e sociale e, soprattutto, traeva conclusioni analoghe
di disincanto: rispetto al male, al dionisiaco, all'assurdo della vita (non
solo umana, ma universale) l'intelletto - «strumento ausiliario alle più
infelici, alle più fragili, alle più transitorie delle creature» - «come mezzo
per la conservazione dell'individuo, sviluppa le sue forze più importanti nella
simulazione». La "patetica" (nel senso del pathos in Nietzsche)
verità dell'uomo non è, piuttosto, nient'altro che «un esercito mobile di
metafore, metonimie, antropomorfismi, in breve una somma di relazioni umane,
che sono state sublimate, tradotte, abbellite poeticamente e retoricamente, e
che per lunga consuetudine sembrano a un popolo salde, canoniche e vincolanti:
le verità sono illusioni, delle quali si è dimenticato che appunto non sono che
illusioni, metafore, che si sono consumate e hanno perduto di forza ». 271
L'entropia, in fisica, è la misura del grado di casualità e di disordine di un
sistema, ovvero della sua energia. 2712 Riferimenti che M. abbandonerà
altrettanto presto, come visto. Lo stesso Cerruti, nella sua schematizzazione,
alle convinzioni del 1905 fa subentrare due anni di «ricerca e crisi» (il
1906-1907), anni che non a caso preluderanno alla scoperta di Ibsen e Tolstoj
da parte del Nostro (nel 1908). In questo periodo di travaglio intellettuale, Michelstedter
si presenta «secondo una prospettiva interiore se non contraddittoria, certo
complessa. Nietzsche-dannunziano per un verso, inteso a superare inquietudini e
dubbi in un incontro profondo e rigenerante con le forze vive della natura; ma
preoccupato al tempo stesso di risolvere quei dubbi e quelle inquietudini sulla
base di un rigoroso esercizio intellettuale, di un'analisi disincantata e
penetrante della propria condizione; tutt'altro che chiuso infine sia pure
ancora entro certi limiti, nei riguardi del mondo contemporaneo, anzi già
consapevole di talune obiettive difficoltà di quest'ultimo». Nel 1908, infine,
«l'incontro con Ibsen e Tolstoi» segnerà «il superamento della morale eroica».
[Per queste analisi del Cerruti, che abbiamo riassunte, rimandiamo alle pagg.
7-56 della sua monografia Carl M., Mursia (Civiltà Letteraria del Novecento),
1987 2ed.; in particolare, le nostre citazioni sono tratte dal pagg. 12-24-33]
273 Innesto ch'è una nostra supposizione, non avvalorata, ma neanche smentita,
da effettivi riscontri testuali. Tuttavia, data la profonda affinità che
dimostreremo, crediamo che l'innesto sia semplicemente sottaciuto. (©) 274 Sia
detto per inciso, è questo uno scritto che noi consideriamo già cruciale
(ovvero, frutto di un pensiero già compiuto) e rispetto al quale, a nostro
parere, tutta la riflessione successiva del Tedesco si pone come complessa e
sofferta postilla, da quella più immediata e "ponderata" della
Nascita della tragedia e della Filosofia nell'età tragica dei greci su su fino
alle forme più esasperate dello Zarathustra e della Volontà di potenza.
Leggiamo lo scritto nicciano nella traduzione dell'ed. Newton, Nietzsche,
Opere, cit., pagg. 93-101 (a cura di S. Givone). Le nostre citazioni si
intendano passim. Ma perché gli uomini si ostinano «attraverso questa
incoscienza»? "semplicemente" perché - spiega Nietzsche - «l'uomo
vuole anche esistere, sia per bisogno sia per noia, socialmente e come in
gregge», e per far ciò «stipula un patto di pace e si adopera per cancellare
dal suo mondo almeno il più brutale bellum omnium contra omnes. Questo patto di
pace porta qualcosa con sé, che è come il primo passo verso il raggiungimento
di quell'enigmatico impulso alla verità. A questo punto cioè viene fissato ciò
che da allora in poi dovrà essere la 'verità', il che significa che si è
trovata una connotazione vincolante e uniformemente valida delle cose e che la
norma linguistica istituisce anche le prime regole della verità ». L'assoluta
aderenza - ci sentiamo di dire - delle parole nicciane col dettato
"maturo" M.iano è a dir poco imbarazzante: anche per M. la ratio
umana è relatio, e si risolve in una «costruzione di ragnatele, così leggera da
lasciarsi trasportare dalle onde e così salda da non essere soffiata via dal
vento» [corsivo nostro], come scrive Nietzsche (l'immagine della ragnatela
ritorna significativamente anche in Schopenhauer e Leopardi). Anzi, M. è
addirittura più drastico: come detto, la relatio per lui non è soltanto
conoscitiva, ma strutturale, coinvolge cioè tutti i rapporti di interazione con
le altrui vitespressione di violenza, perché termine ultimo di quel "moto
violento" cui l'uomo sottopone il mondo [cfr quanto affermato sul luogo
naturale e sul moto violento nel nostro cap. I]. Ancora, similmente che in
Nietzsche, la relatio trova la sua espressione più palese e nello stesso tempo
la sua giustificazione e realizzazione più completa nella comunità sociale:
alibi "politico" della menzogna comune per l'uno, comunella di
malvagi per l'altro; per entrambi, sovrastruttura di un bisogno di tutela, di
sicurezza reciproca, che si concreta in un patto di pace come dice ironicamente
Nietzsche o - in modo più forte M. - nella stipulazione di una cambiale
(assicurativa) sociale. Per entrambi, inoltre, la (presunta) "verità"
si costruisce un saldo impiantito (sottile come una ragnatela, l'è vero, ma
«resistente al vento», tant'è intricata e ben tessuta) nel linguaggio, nella
scienza-tecnica e nella filosofia: a tal proposito, come visto, le analisi del
filosofo goriziano arrivano ad eguagliare, per acrimonia e per forza di
"smascheramento", quelle del filosofo tedesco. Per entrambi, infine -
ma era presentimento anche di Schopenhauer e di Leopardi -, la Rettorica si
manifesta, soprattutto negli uomini, così come inganno, ma come inganno a ben
vedere indifferente, e in certo senso addirittura involontario, vale a dire
necessitato dalla stessa matrice bio-fisiologia, prima che ontologica, della
Rettorica stessa: l'insensato procedere della natura (non più madre, ma neanche
matrigna, direbbe Leopardi), del Wille, del dionisiaco, della Rettorica,
appunto perché insensato, nella sua forma più nuda e cruda, è... «extramorale».
Ma torniamo alle conclusioni della critica professionale. Campailla dà in
pratica per assodato che M. lesse, tra le altre opere (di sicuro almeno lo
Zarathustra””°) anche La nascita della tragedia”: la cosa a questo punto non ci
stupisce, anzi ci appare ovvio che il capolavoro di un allora giovane geniale
originale filologo quale fu Nietzsche capitasse tra le mani di un altrettanto
geniale ed eterodosso ermeneuta della grecità, qual era M.?”. Anzi, se c'è
davvero un importante punto d'incontro tra i due pensatori, noi presumiamo che
esso si consumi soprattutto qui, nel loro amore per il mondo greco, nella
riscoperta di un equilibrio, di un'armonia che si realizzò nella tragedia
classica, breve ma intenso bagliore di autenticità agli albori della nostra
storia occidentale, che poi andò incontro al declino che tutti conosciamo.
Corollario di quell'incontro (ma non secondo per importanza) la
considerazionedellafigura di Cristo: per M. Cristo è il vir per Nietzsche
l'unico vero, onesto cristiano morì sulla croce: voleva dire, secondo noi,
l'unico vero uomo?”?. Come dicemmo”?, i due pensatori aspirarono a riprodurre,
ognuno a suo modo, quell'armonia, ritenendola foriera di autenticità: per il
giovane Nietzsche era l'equilibrio dinamico di Apollo e Dioniso, l'elemento
"letargico" che "gioca" con l' "impulso 275 Campailla
fa notare che, a chiosa di un passo centrale della Hedda Gabler di Ibsen, M.
scrisse queste parole: «Stirb zur rechten Zeit», una chiosa che altro non è che
una citazione testuale dal paragrafo Della libera morte dello Zarathustra. Il
critico utilizza il rilievo a prova del sostrato nicciano che sottende alla
lirica | figli del mare (che abbiamo già analizzato), il cui refrain a suo
parere riproduce l'esaltazione della morte fatta da Zarathustra nel succitato
paragrafo, e addirittura chiama quel riferimento a testimoniare «la componente
nietzschiana della prima formazione culturale di M., sulla cui concretezza
storica critici di valore hanno espresso la loro perplessità » [l'analisi e il
giudizio dello studioso, che abbiamo semplicemente parafrasati, si trovano a
pag. 23 dell'Introduzione alle PP], 276 Cfr. Campailla, Due lettere inedite di
VI. Arangio-Ruiz a M., in Giornale critico della filosofia italiana, anno LIV,
gennaio-marzo 1975. 277 Un punto a favore del Goriziano è il fatto che
praticasse correntemente, tra le altre, la lingua tedesca, potendo così rezzare
in immediato il testo, senza alcun filtro di traslitterazione. 218 Cfr.
Nietzsche, L'Anticristo (in Opere complete, cit.), 39, pag. 795. Per Nietzsche,
Gesù fu un «santo anarchico», un «lieto messaggero», che decise, in prima
persona, di «contraddire l'ordine dominante». Tutto questo «lo portò sulla
croce»: Egli dunque «morì per colpa sua» e non «per colpa altrui»: Cristo [e si
noti l'affinità con la posizione M.iana] «morì come visse, come aveva insegnato
- non per 'redimere gli uomini', ma per indicare come si deve vivere. La
pratica della vita è ciò che egli ha lasciato in eredità agli uomini: il suo
contegno dinanzi ai giudici, agli sgherri, agli accusatori e a ogni specie di
calunnia e di scherno - il suo contegno sulla croce». «Le parole rivolte al
ladrone sulla croce» racchiudono il senso dell'intero Vangelo (che è per
Nietzsche «non difendersi, non andare in collera, non attribuire
responsabilità», amare perfino il malvagio) [ib., 27 e soprattutto 35, pagg.
792-793 passim; tutti i corsivi sono del filosofo]. Ora, il riscontro di
affinità (come ad esempio queste appena accennate, e quelle che seguiranno) tra
i due nostri filosofi non contraddice il nostro assunto di fondo di una totale
disparità di esiti: ripetiamo: non vogliamo mettere in dubbio influenze e
suggestioni che certamente M. trasse dalla lettura delle opere del pensatore
tedesco (soprattutto in relazione allo smascheramento rettorico); quel che ci
preme piuttosto sottolineare è come non si debba concepire la Persuasione sulla
falsariga della "nuova umanità" nicciana, rispetto alla quale M.
stesso prende posizioni anche dirette di distacco [ma cfr. oltre]. E' bene
dunque ribadire che la matrice profonda e unica della Persuasione non è il
superomismo, bensì il socratismo. 279 Cfr. il nostro Intermezzo. 163 n280
primaverile e che si realizzava nelle forme perfette dell'arte e nelle compite
costumanze dell'umanità greca; per M. il trasfondersi di vita e morte nella
crisalide umana”. Entrambi i pensatori attraversarono il Tragico, e tradussero
la loro sincera, sofferta testimonianza nella formulazione di un progetto
etico. Abbiamo altresì già segnato gli esiti di tali progetti: in Nietzsche,
dicemmo, l'equilibrio era destinato a
bruciarsi nell'esasperazione, nella "superfetazione" della
volontà dionisiaca (si dovrebbe citare a questo punto tutto lo Zarathustra e
tutta la Volontà di potenza, almeno); nel pensatore 280 Ricordiamo che nella
già citata lettera al Chiavacci del 22 dicembre 1907, M. fa riferimento
esplicito all'«elementodionisiaco» [sic], assimilandolo all'«elemento mistico»
che - per il Goriziano - mancherebbe nella «razionalistica» religione ebraica:
proprio questa assenza, dice M., spiegherebbe «la ragione dell'antisemitismo
filosofico» (Schopenhauer e Nietzsche, annota in parentesi). E' forse l'unico
caso in cui M. cita il Tedesco per nome, e per ben due volte nel giro di poche
righe, in un contesto - e questo è indicativo - aspramente polemico. In
effetti, la datazione della lettera la fa cadere proprio nel mezzo degli anni di
«ricerca e crisi», come li chiama il Cerruti [riguardo a ciò, cfr. supra]. 281
Com'è noto, la dialettica apollineo-dionisiaco intesse tutta La nascita della
tragedia, in modo ampio e poetico; tuttavia, ha il suo luogo natale in uno
scritto giovanile, La visione dionisiaca del mondo, uno di quei saggi che poi
andranno a confluire nel capolavoro. Privilegiamo, in questa sede, proprio quel
saggio, perché in esso - anche in virtù della sua brevità - la suddetta
dialettica ci appare più focalizzata e meno ridondante [lo leggiamo nella
traduzione contenuta in Nietzsche, Opere, cit., pagg. 60-73; segnaliamo con
numeri in parentesi quadre eventuali riferimenti delle citazioni]. La visione
dionisiaca del mondo contiene l'intuizione che accompagnerà il filosofo in
tutta la sua speculazione: Nietzsche, cioè, scopre nel principio di equilibrio
dinamico tra Apollo e Dioniso la cifra che spiegherebbe la "possibile
vita" dei Greci, altrimenti compromessa dalla dolorosa consapevolezza del
Tragico, l'inquietante verità del Sileno. «Qui - dice Nietzsche - si tocca il
limite più pericoloso che la volontà ellenica con il suo principio fondamentale
apollineo- ottimistico abbia concesso di toccare. Qui essa operò con la sua
naturale forza guaritrice, per piegare nuovamente quella disposizione negativa:
suo strumento è l'opera d'arte tragica e la concezione tragica. La sua
intenzione non poteva in alcun modo essere quella di temperare o di reprimere
lo stato dionisiaco: soggiogarlo direttamente era impossibile, e anche se non lo
fosse stato, restava pur sempre una cosa pericolosa, dal momento che se
quell'elemento fosse stato trattenuto nella sua espansione si sarebbe aperto
altrove una via e sarebbe penetrato in tutti i vasi sanguigni della vita. Per
prima cosa si trattava di trasformare quei pensieri di disgusto sull'assurdo e
l'orrore dell'esistenza in rappresentazioni con le quali convivere: esse sono
il sublime in quanto imprigionamento artistico dell'orrore e il comico in
quanto liberazione artistica dalla nausea dell'assurdo. Questi due elementi
intrecciati insieme si riuniscono in un'opera d'arte che imita l'ebbrezza e
gioca con essa» [67, i corsivi sono nostri]. Dunque, Nietzsche individua nel
gioco l'unica ipotesi euristica plausibile per esprimere la relazione tra le
due divinità: entrambi potenti - potenze contrarie che si equivalgono e si
annullano - preferiscono alla insidia reciproca (che mai porterebbe frutto e
vittoria definitiva) una “ludica convivenza" che spinge addirittura
all'identificazione, laddove Dioniso viene a porsi come il lato oscuro,
terribile e segreto di Apollo, ed Apollo (per usare un tecnicismo informatico)
come l'interfaccia di Dioniso. Per dirla con le stesse parole di Nietzsche, fra
le due divinità viene a crearsi un "vincolo di fratellanza"
(realizzato concretamente nella tragedia), tale he «Dioniso parla la lingua di
Apollo, ma infine Apollo parla la lingua di Dioniso» [cfr. La nascita della
tragedia, in Opere, cit., pag. 178; corsivo nostro]. M., da parte sua,
riproduce un simile equilibrio nel già citato Canto delle crisalidi, attraverso
la tensione esistenziale di vita e morte che intride l'essere dell'uomo: un
oscuro peana che siamo tentati di decifrare proprio ricorrendo alle
"categorie" nicciane di apollineo e dionisiaco, con tutti i più
profondi significati ch'esse coprono. Ma, a parte questo, è l'elemento del
gioco che ci interessa, perché in Nietzsche si rivelerà fondante: la componente
ludica è forse il tratto più caratteristico del suo pensiero, ed anche il più
terribile: perché l'equilibrio del gioco (per quanto questo sia
"nobile" e "difficile") è per definizione precario, e
perché il gioco non è solo capacità della coscienza dell'homo ludens di darsi
delle regole e vivere in esse (nel suo "spazio sacro"), il che
sarebbe la situazione ottimale, ma più volentieri - e l'accezione comune del
termine lo conferma - è un'attività in cui "non ci si prende sul
serio". Apollo e Dioniso giocano nell'orizzonte tragico greco, segnando
appunto lo spazio del sacro; nell'orizzonte tragico nicciano, invece, Dioniso
rinuncerà al suo "compagno di giochi", le sue regole diventeranno di
esclusione, e pretenderà di poter giocare da solo, ossia, fuor di metafora, di
poter sostenere da solo il peso dell'assurdo. E' questo ciò che noi intendiamo
per "superfetazione" del dionisiaco [ma cfr. quanto diremo tra poco].
tedesco l'equilibrio collassa e si esaspera nell'opposizione senza continuità:
al male estremo della Rettorica (superfetazione dell'elemento apollineo, il
"socratismo", la menzogna, il "cristianesimo", l'Europa, si
oppone l'estremo rimedio del pensiero negatore, del dionisiaco travolgente e
beffeggiante, che assume su di sé anche il passato e dice: non così fu, ma così
volli che fosse, anzi «così voglio! così vorrò». Ma c'è un'infinita tristezza
che cova sotto l'ilarità paradossale del profeta del nulla, una coscienza
infelice che caldeggia la scissione, il superamento, il ribaltamento ma che
soffre, al tempo stesso, la frattura, il distacco che quella negazione
comporta; e che si lenisce la ferita ripetendosi che tutto, dall'avvicendarsi
dei mondi e degli universi ai singoli gesti dei singoli uomini, non è altro che
il gioco di un fanciullo eracliteo che è dis-umano e sconveniente fingere di
ignorare™®. Su opposto versante, M. avrebbe trovato l'espediente per preservare
l'equilibrio del vir col mondo e con le altrui vite nel tornio della
Persuasione: un equilibrio difficile, ma saldo, faticato ma gioioso, perché
riscopre il mondo nella sua bellezza, l'umanità nella sua dolcezza persuasa,
l'esistenza non come un "gioco innocente" che necessita (amor fati) e
che quindi de-responsabilizza”*, ma come un'attività infinita e impegnata, che
si realizza con e tra gli uomini. Da un lato, Nietzsche stringe il mondo in un
abbraccio troppo forte: è come un amante goffo e patologicamente premuroso che
finisce per soffocare la sua compagna per un eccesso di amore, e ne viene
lasciato; l'amore intenso, allora, nell'abbandono, ci vuol poco a mutarsi in
gelosa e passionale violenza, come la fede intensa in fanatismo. L' "ultimo"
Nietzsche stilla il suo odio e il suo disprezzo, anche se parla di amore,
proprio 282 Dice Zarathustra: «In verità, amici miei, io vado tra gli uomini
come tra frammenti e membra di uomini! Questo è spaventoso per il mio occhio:
trovare gli uomini spezzettati e sparsi come su un campo di battaglia o in un
macello. E se il mio occhio fugge dall'oggi a un tempo trova sempre lo stesso:
frammenti e membra e atroci casi, ma niente uomini!». [cfr. il capitolo Della
redenzione di Così parlò Zarathustra (in Opere complete, cit.), pag. 305. Si
ricordi, a questo proposito, come M. abbia descritto la Rettorica, nella sua
accezione estrema, come un' "anarchia delle membra", anche su
suggerimento di Empedocle [cfr. il nostro paragrafo corrispondente, nel |
capitolo]. L'Armonia empedoclea, la Persuasione M.iana, la volontà affermatrice
(la "felicità del circolo") di Nietzsche si offrono come tre proposte
diverse, anche se in certo modo affini, per far fronte alla dis-integrazione
dell'umano: affermazioni di vita che si realizzano nello strenuo tentativo di
conferire senso a tutto ciò che altrimenti si presenterebbe come frammentario
ed enigmatico. 283 Cfr. ancora il capitolo Della redenzione di Così parlò
Zarathustra, stavolta soprattutto pag. 306. 284 «[... ] l'Uomo non può essere
considerato responsabile per nulla, né per il suo essere né per i suoi motivi
né per le sue azioni né per i suoi effetti. Si è con ciò arrivati a riconoscere
che la storia dei sentimenti morali è la storia di un errore, dell'errore della
responsabilità - che, come tale, poggia su quello della libertà del volere.
[...] Giudicare equivale ad essere ingiusti». [Nietzsche, Umano, troppo umano
(in Opere complete, cit.), II, 39, pag. 541] «Che nessuno sia reso più
responsabile, che non sia consentito ricondurre a una causa prima la natura
dell'essere, che il mondo non sia un'unità né come sensorium né come 'spirito':
solo questa è la grande liberazione - solo così si ripristina l'innocenza del
divenire» [Nietzsche, Crepuscolo degli idoli (in Opere complete, cit.), |
quattro grandi errori, 8, pag. 727; i corsivi sono del filosofo].
Sull'intuizione dell'eterno ritorno, propinata all'uomo da un dèmone beffardo,
cfr. il famoso aforisma 341 della Gaia scienza. come farebbe un amante
rifiutato: io sono un uomo-fanciullo ed è il Mondo degli uomini a non
apprezzare la mia bellezza: per ciò, merita il mio disprezzo, o anche solo il
mio disinteresse, e la mia gioia è nella mia autarchia e nella mia creazione di
nuova bellezza?®®. L'Ubermensch, una volta privato della memoria di sé e della
permanenza dell'essere, appare come l'eterno fanciullo che cerca l'ebbrezza
adolescente dell'Io sono nella propria autoaffermazione, dentro l'istante che
gli restituirebbe l'eterno del destino, e dunque (direbbe M.) la permanenza:
l'uomo nuovo è tale perché vive (o crede di vivere) senza risentimento, bensì
sospeso tragicamente all'assenza di significato del tutto ed imprigionato in
una libertà che, in fondo, gli permetterebbe soltanto di accettare il proprio
destino di nulla; egli dunque dovrebbe essere un eroe tragico, la cui unica
"dignità" risiederebbe nell'accettazione del flusso degli eventi,
misurati da un atto di disperata fedeltà alla terra?89, Un destino che egli,
con un testa-coda, pur si ostina a non subire e ad intendere piuttosto come
istituzione di nuovi valori: e allora se l'uomo è colui che misura, dice
Nietzsche con Protagora, egli è tale perché è innanzitutto un creatore, e in
questo agisce come volontà di potenza. Nel far ciò, direbbe ancora M.?®, egli
si finge una persuasione che non ha, tesse relazioni sufficienti, in cui
irretisce le altrui vite in un atto di creazione, ch'è poi un atto di
ri-organizzazione intorno al perno della propria falsa consistenza; ovvero,
integriamo noi, dà libero sfogo al suo urgente bisogno di liturgie
rassicuranti, ma anche escludenti (secondo la nostra interpretazione, una
comunità di "eterni fanciulli" sarebbe un sistema energetico di punti
di forza, laddove "cariche dello stesso segno" si porrebbero alla massima
distanza possibile). Il Dioniso dell'armonia panica si muta in un «terzo
Dioniso» la cui parola d'ordine (o di disordine) è il dominio?88, 285 Cfr. il
pensiero Per l'anno nuovo [276] nel IV libro della Gaia scienza (in Opere
complete, cit.), pag. 145. «[...] Oggi chiunque si permette di esprimere il suo
desiderio e il suo pensiero più caro: orbene, anch'io voglio dire ciò che oggi
desidero da me stesso e qual è stato il primo pensiero che, quest'anno, mi ha
sfiorato il cuore; quale pensiero sarà motivo, pegno e dolcezza della mia vita
a venire! Voglio imparare sempre più a vedere la bellezza nella necessità delle
cose: così diverrò uno di coloro che rendono belle le cose. Amor fati: questo
sia, d'ora innanzi, il mio amore! Non voglio condurre nessuna guerra contro il
brutto. Non voglio accusare, non voglio accusare neppure gli accusatori. La mia
unica negazione sia distogliere lo sguardo! E, complessivamente e
grossolanamente: voglio arrivare ad essere uno che dice soltanto di sì! »
[corsivi di Nietzsche]. 286 Tale posizione della volontà di potenza si
sostituisce nelle intenzioni di Nietzsche - alla figura della perfezione,
incarnata nel saggio filosofo o nel santo cristiano. 287 Stiamo utilizzando la
terminologia M.iana per "smontare" il superuomo, espediente per far
apparire al lettore questo "smontaggio" (operazione che ovviamente M.
non fece) alla luce della posizione persuasa. 288 L'espressione ci viene
ispirata da quanto Nietzsche stesso asserisce nella Nascita della tragedia, uno
dei suoi scritti che preferiamo. Richiamare quei passaggi del testo non solo
significherà rendere dovuto omaggio al "primo" Nietzsche, lì vero
poeta e vero filosofo, ma ci aiuterà anche a discernere la parabola involutiva
cui, a nosto giudizio, il pensatore andò incontro. Nel Dioniso dei cori
bacchici greci, Nietzsche vide l'incarnazione del «vangelo dell'universale
armonia» [espressione di Nietzsche, ma corsivo nostro; cfr. quanto detto sopra
in considerazione della "nuova armonia" vagheggiata dal filosofo Di
contro, come abbiamo più volte visto, il Goriziano ristabilisce la misura
dell'amore tra gli esseri nella gratuità del reciproco donarsi: l'equilibrio
dell'armonia che la Persuasione forgia e protegge non è i compromesso della
"compravendita" morale (do ut des, do ut facias, facio ut des, facio
ut facias), ma non è neanche la sdegnosa, "egregia" solitudine
zarathustriana, pur mascherata da amore panico per la "terrestrità":
l'equilibrio persuaso è piuttosto un rapporto di fiducia e gratitudine senza
pretesa di risposta, che fonda la comunità autentica, la philia (do quia do,
scilicet relinquo: ci viene in mente la parola evangelica: «Pacem relinquo
vobis, pacem meam do vobis: non quomodo mundus dat ego do vobis. Non turbetur
cor vestrum neque formidet» [Giovanni 14, 27, nella Vulgata]). tedesco], dove
«ognuno si sente non solo riunito, riconciliato, fuso con il suo prossimo, ma
una sola cosa con esso, come se il velo di Maia fosse stato strappato e
soltanto brandelli sventolassero ancora di fronte alla misteriosa unità
originaria». Infatti, «con l'incanto del dionisiaco non solo si rinsalda il
legame fra uomo e uomo: anche la natura estraniata, nemica o soggiogata,
celebra nuovamente la sua festa di conciliazione con il proprio figlio perduto,
l'uomo. Liberamente offre la terra i suoi doni e pacificamente si avvicinano i
feroci animali delle rocce e dei deserti. Con fiori e ghirlande è coperto il
carro di Dioniso: sotto il suo giogo avanzano la pantera e la tigre. Si
trasformi l'inno alla ‘gioia' di Beethoven [il preferito anche da M.] in un
quadro e non ci si attardi nell'immaginazione quando a milioni si
prosterneranno rabbrividendo nella polvere: così ci si potrà avvicinare al
dionisiaco. Ora lo schiavo è libero, ora si infrangono tutte le rigide, maligne
delimitazioni che la necessità, l'arbitrio o la ‘moda sfacciata' hanno posto
fra gli uomini. [...] Cantando e danzando, l'uomo si mostra come membro di una
superiore comunità: ha disimparato il camminare e il parlare ed è sulla via di
volarsene in cielo danzando. Nei suoi gesti parla l'incantesimo. Come ora gli
animali parlano e la terra dà latte e miele, così anche in lui risuona qualcosa
di soprannaturale: egli si sente come dio e cammina così estasiato e sollevato,
come insogno vide camminare gli dèi. L'uomo non è più un artista, è divenuto opera
d'arte: la potenza artistica dell'intera natura, con il massimo appagamento
estatico dell'unità originaria, si rivela qui fra i brividi dell'ebbrezza».
Nietzsche parla di armonia, di riconciliazione, di liberazione, di incantesimo
vitale che lega l'uomo alla terra, a tutti gli esseri che la vivono, in una
nuova solidarietà, e rende l'uomo simile a un dio. E' questo il grande dono di
Dioniso. Poche pagine dopo, tuttavia, Nietzsche smaschera l'ebbrezza di Dioniso
(operazione, del resto, ampiamente preparata) e scopre, con perplessità ma
anche con profondità tragica, che quell'ebbrezza "equilibrava" una
persuasione di morte, e nel far ciò - ovvero nel garantire la propria stessa
sopravvivenza - abbisognava dell' "apporto" di Apollo, del principium
individuationis: «l'unico Dioniso veramente reale - scrive il filosofo - appare
in una molteplicità di figure, nella maschera di un eroe che lotta, preso, per
così dire, nella rete della volontà individuale. Così ora il dio che appare nel
parlare ed agire assomiglia ad un individuo che erra, lotta e soffre: e che
egli appaia in generale con questa epica determinatezza e chiarezza è effetto
dell'interprete di sogni Apollo[...]». Ma se l'individuazione "salva"
Dioniso, tuttavia gli è fonte di dolore, perché ne tarpa l'impulso vitale: «In
verità però quell'eroe è il Dioniso sofferente dei misteri, quel dio che prova
su di sé i dolori dell'individuazione, e di cui meravigliosi miti narrano come
da fanciullo fosse fatto a pezzi dai Titani e come poi, in questo stato, fosse
venerato come Zagreus: con ciò è significato che questo smembramento, la vera e
propria sofferenza dionisiaca, sia come una trasformazione in aria, acqua,
terra e fuoco, e che dunque dobbiamo considerare lo stato d'individuazione come
la fonte e la causa prima di ogni soffrire, come qualcosa in sé riprovevole».
Dioniso appare dunque come una divinità smembrata, scissa in due: «Dal sorriso
di questo Dioniso sono nati gli dèi olimpici, dalle sue lacrime gli uomini. In
quell'esistenza, come dio smembrato, Dioniso ha la doppia natura di un demone
crudele e selvaggio e di un dominatore mite e clemente. La speranza degli
epopti andava però ad un una rinascita di Dioniso, che ora noi pieni di
presentimento dobbiamo intendere come la fine dell'individuazione: per la
venuta di questo terzo Dioniso risuonava l'ardente canto di giubilo degli
epopti». Queste considerazioni autografe sono per noi di capitale importanza
non solo nell'economia di una corretta valutazione della Nascita della
tragedia, ma anche dell'intero pensiero nicciano: sono parole inconfutabilmente
programmatiche: Nietzsche assume su di sé il compito di preparare «la venuta di
questo terzo Dioniso», che nell'intenzione doveva risanare lo
"smembramento": ma l'epopta diviene egli stesso il dio. Un nuovo dio,
un terzo dio, che ricorda le trasformazioni dei personaggi di Tolkien quando
calzano il famoso anello: pèrdono, cioè, per rimanere alle parole del filosofo
tedesco, la "mitezza" e la "clemenza", per rendersi solo ed
esclusivamente "dominatori". L'involuzione di Nietzsche consiste, per
noi, proprio in questo: aver prefigurato l'avvento di un nuovo Dioniso che sta
al suo progenitore (e alla sua intenzione) come un'escrescenza tumorale sta ad
un sano tessuto epidermico. Viene da chiedersi quali fossero i motivi di questa
"metastasi", ma una simile analisi non può essere svolta in questa
sede. [per le citazioni, che si intendano passim, cfr. Nietzsche, Nascita della
tragedia (in Opere complete, cit.), vol. |, soprattutto pagg. 121 e 143]. La
critica agiografica si affatica a scagionare Nietzsche da ogni responsabilità
storica, asserendo che «Quanto all'idea del superuomo, inteso come il giusto
trionfatore di una massa di deboli o schiavi, va senza dubbio corretta:
Nietzsche non fu l'estensore d'un vangelo della violenza, ma intese porre le
condizioni di sviluppo d'una civiltà e di un'idea dell'uomo radicalmente
rinnovate!» Del resto, chi si azzardasse a giudicare (detto in senso
spregiativo) il pensiero del Tedesco, incapperebbe facilmente nella sua
trappola dei valori un pensiero che si autoproclama «al di là del bene e del
male» si sottrae consapevolmente e sdegnosamente (e con astuzia) ad ogni
valutazione. Ma ci sarà pure un motivo per il quale la «grande salute » si sia
tradotta in "sanità razziale", oppure (e ci si perdoni
l'accostamento) per il quale l'est- etica del disincanto abbia trovato la sua
trasposizione più consequenziale in una pièce teatrale dannunziana in cui si
respira solo aria di morte. L'esperienza c'insegna che il retaggio di un
pensiero (di uno qualsiasi, non solo de/ Pensiero) non è consegnato soltanto
alle parole che lo sottendono, ma anche alla storia della sua fortuna (o
sfortuna), per quanto ci si industri in edizioni critiche o si contestino
palesi deformazioni”. Le ipotesi allora sono due: o, come si dice volgarmente,
in quel pensiero c'è "nascosto del marcio", oppure la malafede dei
fruitori è così radicata da riuscire a rovesciare e render funzionali al
proprio usufrutto anche le proposte migliori e più sincere. M., del resto, ci
ha rivelato questa eccezionale capacità di "assorbimento" della
Rettorica: in tal senso, il Nietzsche nazionalsocialista condividerebbe la
"sfortuna" di Cristo e di Socrate e, volendo, dello stesso M.. Ancora
due ipotesi, allora, ma in pratica equivalenti alle prime: o la voce della
Persuasione è viziata da una sua intrinseca impossibilità fondativa di
"fedele" realizzazione (è troppo complessa per essere compresa,
l'equilibrio dell'autonomia si svolge sul filo di un rasoio et cetera) o è
altrettanto viziata da un'ambiguità che non riesce a scrollarsi di dosso, tal
che la sua ingiunzione perentoria di autenticità finisce con l'esprimersi
soltanto attraverso l'imposizione e l'equivoco EQUIVOCO GRICE della forza. E
qui l'interrogativo, data la sua natura complessa, è destinato a rimanere tale.
Ma barattare le accuse è un'attività futile: ciò che conta ed inquieta è il
dominio presente della Rettorica, e in quest'ottica si deve meditare non solo
sul perché del suo dominio, ma anche, se non soprattutto, sul poiché dei suoi
effetti. Dunque, pur non volendo inficiare la sincerità nicciana con
l'ingratitudine del sospetto, ciò nondimeno non possiamo tacere che, proprio in
Nietzsche, quell'ambiguità s'evince più solida che in altri: la danza di
Zarathustra, che voleva farsi simbolo di un'armonia alternativa al caos
mascherato del filisteismo, si scopriva "tarantolata" già nel suo
stesso autore, precursore di un nuovo caos, i cui sbiaditi epigoni (per fortuna
sbiaditi) scorrazzano tuttora nelle aule dove si pensa, forti della
"debolezza" del loro pensiero. A tal proposito, c'è da ammettere che
l'estrema sensibilità e intelligenza fecero davvero di M. uno straordinario
sismografo di ciò che era già in fermento e che sarebbe maturato, in un futuro
a lui non lontanissimo, sulla scena ideologica e politica europea; ossia, lo
resero acuto e (purtroppo) facile profeta?’ quando scrisse di «n germanico
Zarathustra, che fu anche bestialmente fulvo», fautore di un pensiero «mistico
filosoficamente e disonesto artisticamente», padre putativo di tutte quelle
«bestie più o meno fulve che da allora cominciarono a infestare il mondo» [O
665]. Ma, come si sa, la voce della Persuasione condivide la maledizione di
Cassandra. 289 La spietata eristica potrebbe ribaltarci contro, e forse non a torto,
questa nostra obiezione: anche la Persuasione M.iana è andata ad
"incrementare"... la purità di Evola. 290 Acuto profeta anche
Nietzsche, la cui lungimiranza a questo punto ci si rivela però in tutta la sua
portata beffarda: «L'aspetto dell'attuale Europeo mi dà molte speranze: va
formandosi un'audace razza dominatrice [...] Le stesse condizioni che
favoriscono l'animale gregario provocano anche la formazione
dell'animale-capo». A3 - Leopardi: la variante "flessibile" alla
Persuasione. Portare a radura il sottobosco leopardiano in M. sarebbe tentativo
improbo anche per uno scoliaste armato di tutta la perizia e la pazienza
possibili” . Il Leopardi poeta, e soprattutto il Leopardi pensatore (il
pensatore attraverso il poeta), è, per il Goriziano, come una seconda pelle.
Compulsarne le opere alla ricerca di rimandi al Recanatese sarebbe un po' come
riscrivere la Persuasione e i Pensieri, ad esempio. E a differenza che per
altri riferimenti (Nietzsche, lo stesso Schopenhauer), non si può individuare
un momento in cui M. fu "leopardiano" stricto sensu: la voce del
poeta attraversò sempre l'esistenza del nostro giovane filosofo, e i Canti,
come mostra l'edizione ritrovata tra i libri posseduti dal Goriziano, erano una
delle sue ri-letture più frequenti e più gradite. E più annotate e meditate. In
effetti, si andrebbe incontro a molte sorprese, ne siamo convinti, se si
leggessero La Persuasione e la Rettorica, le Poesie, o il Dialogo della Salute
alla luce delle meditazioni del Recanatese: si potrebbe scoprire, ad esempio,
come la tesi di laurea fosse anche un vero e proprio commento
"aggiornato" della Ginestra (così almeno essa ci appare), o come
l'aspirazione alla condizione persuasa dovesse molto alla "vaghezza"
dell'Infinito, o di come l'ispirazione poetica (al di là della forma) fosse
fedelmente leopardiana nel farsi veicolo di "vaga" meditazione,
casomai in M. solo un po' più trasparente. Ci vien da dire che, in Leopardi, M.
trovava innanzitutto la variante parallela, poetica (ma altrettanto rigorosa)
della certezza "cartesiana" del dolore e dell'inganno, che aveva
assimilato in forma di salda filosofia dai Greci e Schopenhauer; ma riconosceva
anche un coetaneo che, come lui, s'era arrovellato nello sviscerare l'assurdo
della vita e nello scarnificare se stesso, alla ricerca di un'alternativa
possibile al Tragico: l'affinità di una giovinezza eroica e titanica che
vorrebbe «comunicar la ribellione / all'universo» [PP 35], senza alcun
compiacimento estetizzante. Dunque, non ci trova per nulla d'accordo certa
critica che, puntando su un'acribia spropositata, conclude che, nei fatti, il
gesto persuaso si affermi negando «sostanzialmente» il gesto poetico
leopardiano”°?. Tutt'altro. Bisognerebbe innanzitutto ridiscutere il valore di
poesia, e non soltanto nei nostri due autori (ma comunque, non ne è questa la
sede); o più semplicemente saper leggere oltre le parole. Del resto, sbirciando
le poesie di M., non è raro che si aprano squarci leopardiani: 291 Operazione,
tuttavia, egregiamente tentata da S. Campailla, in Postille leopardiane in M.,
contenute in Scrittori Giuliani, Pàtron Editore, Bologna 1980. Lettura, questa,
obbligata, nel nostro contesto, e non solo perché riporta con precisione la
presenza dei prelievi leopardiani nel nostro filosofo. 292 Cfr. ad es. Davide
Rondoni, "Neutralizzare" Leopardi. Intorno ai rapporti tra M. e il
poeta del Canto notturno, in Testo, rivista di "studi di teoria e storia
della letteratura e della critica", XIII, 23 (gennaio-giugno 1992).
"mi parve dolce cosa naufragare nel seno ondoso che col ciel confina, né
temuta ho la morte... "293 solo per fare un riferimento ovvio. Di contro,
se si leggesse, ad esempio, questo pensiero che si trova nello Zibaldone: Tutto
è male. Cioè tutto quello che è, è male; che ciascuna cosa esista è male;
ciascuna cosa esiste per fin di male; l'esistenza è un male e ordinata al male;
il fine dell'universo è il male; l'ordine e lo stato, le leggi, l'andamento
naturale dell'universo non sono altro che male, né diretti ad altro che al
male. Non v'è altro bene che il non essere... non gli uomini solamente, ma il
genere umano fu e sarà sempre infelice di necessità. Non il genere umano
solamente ma tutti gli animali. Non gli animali soltanto ma tutti gli altri
esseri al loro modo. Non gl'individui, ma le specie, i generi, i regni, i
globi, i sistemi, i mondi [nn. 4174-4177]. e si provasse, alla stregua di un
semplice gioco enigmistico, a sostituire il termine "male"
dell'appunto col termine "Rettorica", già si scoprirebbe la punta
dell'iceberg. Lo stesso Dialogo della salute, prima di essere un'etica
peripatetica, è - con tutta evidenza - un'operetta morale. Con una citazione
tratta dalla Palinodia al marchese Gino Capponi si apre poi l'ultima parte
della Persuasione (La Rettorica nella vita), ch'è la più spietata e definitiva
nel bacchettare una Rettorica altrettanto «superba e scocca» quale quella presa
di mira a suo tempo dal Leopardi. «Tutti i progressi della civiltà sono regressi
dell'individuo», vi asserisce - tra l'altro - M., e questa «è una frase che
potrebbe essere del Leopardi»?* (eppoi, non si dimentichi che quest'ultimo
occupa un posto di tutto rispetto nella schiera dei Persuasi). Eppure...
eppure, a nostro giudizio, l'accordo comune su una considerazione del mondo come
dominato dalla Rettorica (o dal male, ch'è lo stesso) non è il vero - o il solo
- punto di contatto tra i due poeti-filosofi. Sarebbe piuttosto semplicistico
ridurne la portata a questo rilievo. Del resto, il pessimismo ha parole e
pensiero comuni in tutti i pessimisti di tutti i tempi, dai più ai meno
raffinati. Tralasciamo, allora, eventuali "omografie", e partiamo,
piuttosto, da una giusta osservazione del Campailla, che fa autorevole resoconto
della questione, e dà il "la" al nostro escamotage interpretativo.
Scrive lo studioso: "[L'influenza del Leopardi] va considerata come la più
ricca di sollecitazioni nella produzione poetica del Nostro. Infatti, è
difficile scoprire reminiscenze dai Canti leopardiani, si deve subito
riconoscere che esse non hanno un valore di per sé, sono disciolte in
un'atmosfera sentimentale diversa, divengono le voci di un dramma irriducibile
ad altri che a se stesso. C'è da dire, se mai, che il Leopardi assimilato da M.
non è il poeta idillico che riesce a trasformare il dolore in bellezza nella
contemplazione del mistero dell'universo o nell'operazione magica del ricordo
delle proprie deluse speranze; è invece il giovane che si affaccia alla vita
imperioso e reclama un rendiconto. E, per energia sentimentale, per costruzione
sintattica, 293 Versi di A Senia, in C. M., Poesie, cit. pag. 89. 2945,
Campailla, Pensiero e poesia..., cit., pag. 143; per ritmo della frase, il
Leopardi eroico e agonistico dell'ultimo periodo. Ma di là da ogni possibile
richiamo testuale, l'eredità che M. ha raccolto dal Leopardi va considerata in
un senso più alto: nel drammatico intendimento della poesia come sfogo e
liberazione delle proprie pene interiori, presa di coscienza dello stato
esistenziale, determinazione sovrumana a non barare con le cose. Il M. ha
sentito nel Leopardi una lezione di vita, un impegno con la vita. Nella nostra
tradizione letteraria che così spesso si è rifatta e si rifà al Leopardi per
ricavarne un magistero formale, quello di M. si rivela uno dei tentativi più
incondizionati di riprendere e di svolgere la parola del grande Recanatese
nello spirito in cui essa è stata pronunciata. Ma nella tensione ad essere se
stesso M. si è trovato naturalmente oltre Leopardi: si avverte in lui una
eccedenza di volontà, una originaria disposizione tragica che è la zona più
inaccessibile della sua poesia [e non solo della sua poesia, aggiungiamo noi}.
Permettendoci d'integrare b correttissima valutazione del critico, diremmo che
più che «un'eccedenza di volontà» noi riscontriamo, in M., un'eccedenza di
determinazione (anche se difficile da mantenere). Sciogliamo la complessità di
ciò che vogliamo dire in un semplice riscontro testuale (è questo il senso del
nostro escamotage interpretativo), risparmiandoci una riscrittura di cosa sia
la Persuasione in M. e di cosa essa sia in Leopardi e lasciando implicite le
conseguenze. Così Leopardi conclude la sua Ginestra [vv. 297-317]: E tu, lenta
ginestra, che di selve odorate queste campagne dispogliate adorni, anche tu
presto alla crudel possanza soccomberai del sotteraneo foco, che ritornando al
loco già noto, stenderà l'avaro lembo su tue molli foreste. E piegherai sotto
il fascio mortal non renitente il tuo capo innocente: ma non piegato insino
allora indarno codardamente supplicando innanzi al futuro oppressor; ma non
eretto con forsennato orgoglio inver le stelle, nè sul deserto, dove e la sede
e i natali non per voler ma per fortuna avesti; ma più saggia, ma tanto meno
inferma dell'uom, quanto le frali tue stirpi non credesti o dal fato o da te
fatte immortali. Da parte sua, nella lettera datata 25 aprile 1910, M. così
scrive a Gaetano Chiavacci, rassicurandolo: Di che ti preoccupi? di che temi?
Nessuno ci potrà mai togliere niente. La vita non vale che noi ce ne
affliggiamo. Ma andiamo sempre avanti, e cerchiamo noi d'esser sufficienti a
tutto; non c'è cosa che sia troppo grave, non c'è posizione che sia
insostenibile. Dove gli altri gemono, e transigono, noi godremo e resteremo
duri e sempre uguali così da poterci sempre stringer la mano come io ora te la
stringo [E 438. Il significativo corsivo è di M.]. 295 S, Campailla, Pensiero e
poesia..., cit., pagg. 53-54-55 [corsivi nostri]. La consapevolezza
dell'ineluttabilità è ovviamente comune a entrambi: la necessità cieca, il
non-senso dell'esistenza, l'innocenza tragica degli uomini... cose note. Ma
Leopardi, in quello che vien considerato da tutti il suo "testamento
poetico ed esistenziale", addita alfine nella ginestra un ideale di "stoicismo"
che non è rassegnazione né presunzione, ma comunque una
"flessibilità" al Tragico, seppur eroica. La Ginestra è /enta, si
piega - come si dice - ma non si spezza. M., invece, invoca la durezza: il
Persuaso è duro, preferisce spezzarsi piuttosto che anche solo piegarsi. Il
fiore del deserto accoglie la morte, china sotto il fascio mortale il suo capo
innocente e non renitente, si copre di eroica umiltà, «al cielo / di dolcissimo
odor [mandando] un profumo / che il deserto consola» [vv. 35-37]. Il Persuaso,
libero, sfida la morte nella «furia del nembo più forte / quando libera ride la
morte / a chi libero la sfidò» [Sono i versi conclusivi (ma in realtà è un
refrain) de | figli del mare, PP 84]. La ribellione alla vita, o meglio la
ribellione della vita, per M. è ancora possibile. A4 - Kierkegaard: la variante
"relazionale" della Persuasione. AI pensatore danese abbiamo
largamente accennato, e sottinteso, nel corso del nostro lavoro. Abbiamo cioè
detto che, per ragioni fossero solo puramente storiografiche, M. non ebbe la
possibilità di avere sottomano i testi kierkegaardiani, inaccessibili per la
lingua (il che rese tardiva una loro traduzione e diffusione in italiano o in
tedesco), oltreché ostacolati dall'ancora imperante hegelismo. Ma sottolineammo
che, seppur per via indiretta, M. respirò comunque la temperie kierkegaardiana
desumendola dalla lettura dei capolavori di Ibsen (la nostra analisi si
concentrò soprattutto sul Brand, un'opera tra le preferite dal Goriziano): del
resto, proprio attraverso Ibsen, si consumò virtualmente anche l'incontro - mai
storicamente avvenuto (cosa strana, visto che studiarono entrambi a Firenze e
che entrambi provenivano dalle regioni carsiche) - con Scipio Slataper, il cui
/bsen è certamente l'opera più bella e profonda dopo quella autobiografica’.
Alludemmo, infine, al crescente "brandismo" di M., che trascorse i
suoi ultimi giorni in un ritiro praticamente ascetico, o comunque di intenso e
raccolto lavoro interiore; brandismo, nei fatti, che contraddirebbe la nostra
interpretazione politica del vir persuaso: ma altresì sappiamo di quanto M.
fosse in attesa di "prendere il largo" (tanto per riesumare
l'allegoria marina) nell'infinita vita, e allora leggiamo quel ritiro non tanto
come una condizione definitiva e rassegnata, quanto come un momento necessario
per raccogliere le forze, temprarle e padroneggiarle, in vista del progetto di
persuasione. Sul versante più prettamente speculativo, invece, abbiamo
individuato nel cavaliere della fede la "figura" ultima e preferita
in cui l'autore di Timore e Tremore compendiò il suo pensiero e la sua sincera
persuasione religiosa. E abbiamo visto come quest'ultima fosse la pietra di
paragone più opportuna per rendere, nell'immaginario comune, una dimensione
così "astrusa" quale quella di Persuasione. Abbiamo allora suggerito
come l'utilizzo di "categorie" e terminologie di ascendenza
kierkegaardiana (alto, scacco, singolo, paradosso, malattia mortale, angoscia e
così via) ritornassero utili - anche alla luce del loro recupero esistenzialista
- per cercare di rapprendere concettualmente taluni aspetti in apparenza
frammentari della Persuasione. Abbiamo, infine, creato un parallelo tra il
cavaliere della fede e il vir persuaso, focalizzando elementi di tangenza (la
"dialettica" del paradosso, svolta nella fattispecie in senso
antihegeliano; il coraggio dell'atto esistenziale; la solitudine a cui
quell'atto sembra destinarli e il sacrificio che imponeva ad entrambi), ma
anche marcando differenze altrettanto sostanziali (e allora il paradosso del vir
ci è parso funzionale alla sua liberazione persuasa, mentre quello del
cavaliere ci si è rivelato come la condizione 296 Detto per inciso, l'affinità
tra M. e Slataper, che qui assurge a cifra del "mitteleuropeismo" del
Goriziano, si può leggere anche attraverso l'affinità di approccio ch'essi
usarono nei confronti del drammaturgo norvegese. 174 definitiva del rapporto
con Dio; coerentemente, abbiamo rilevato il recupero della dimensione politica
della persuasione, assente nella pratica esistenziale della fede, che si
risolve in un rapporto "monogamico" con l'Eterno; infine, abbiamo
considerato il vir nel sacrificio di se stesso in senso immediato e il
sacrificio di Abramo come sacrificio di se stesso attraverso l'altro, e dunque
mediato). Sintetizzammo il tutto ammettendo che la persuasione kierkegaardiana
si muoveva ancora in un orizzonte veterotestamentario, mentre quella M.iana
riviveva la suggestione neotestamentaria(correggendola in senso
"monofisita") eleggendo il Cristo di S. Matteo ad emblema assoluto
della "virilità" persuasa. Infine, alla luce di tutto questo, già
lasciammo trapelare - e proprio nell'analisi del Brand - le nostre conclusioni,
individuando l'elemento che, a nostro giudizio, scongiurava in assoluto ogni
plausibile accostamento, pur nella fugace affinità: in una parola, cioè, l'uomo
di fede ci apparve come implicato, in modo irreparabile, in un rapporto di
dipendenza, in un'eteronomia, che non è certo quella della dimensione mondana,
ma che comunque - modo fiero e consapevole, tra l'altro - è una relazione
sufficiente, e dunque l'esatto contrario dell'aspirazione persuasa. Insistiamo
su questo punto, e ci limitiamo ad integrarlo servendoci delle stesse parole di
Kierkegaard, il quale - spogliatosi dei suoi pseudonimi romanzati per calzare
quello rigoroso ed edificante dell'Anti-Climacus, e abbandonata la veste
poetica cui affidava la sua riflessione - così lo affronta e lo delucida nel
suo breve scritto La malattia mortale?”, in periodi di densissima risonanza
concettuale: La disperazione è una malattia nello spirito, nell'io, e così può
essere triplice: disperatamente non essere consapevole di avere un io
(disperazione in senso improprio); disperatamente non voler essere se stesso;
disperatamente voler essere se stesso. - l - L'uomo è spirito. Ma che cos'è lo
spirito? Lo spirito è l'io. Ma che cos'è l'io? E un rapporto che si mette in
rapporto con se stesso oppure è, nel rapporto, il fatto che il rapporto si
metta in rapporto con se stesso; l'io non è il rapporto, ma il fatto che il rapporto
si mette in rapporto con se stesso. L'uomo è una sintesi dell'infinito e del
finito, del temporale e dell'eterno, di possibilità e necessità, insomma, una
sintesi. Una sintesi è un rapporto fra due elementi. Visto così l'uomo non è
ancora un io. Nel rapporto fra due elementi, il rapporto è il terzo come unità
negativa; cioè i due si mettono in rapporto col rapporto; e nel rapporto sono
loro che si mettono in rapporto col rapporto; un rapporto, in questo senso, è,
sotto la determinazione dell'anima, il rapporto fra anima e corpo. Se invece il
rapporto si mette in rapporto con se stesso, allora questo rapporto è il terzo
positivo, e questo è l'io. Un tale rapporto che si mette in rapporto con se
stesso, un io, o deve esser posto da sé o dev'esser stato posto da un altro. Se
il rapporto che si mette in rapporto con se stesso è stato posto da un altro,
il rapporto è certamente il terzo, ma questo rapporto, il terzo, è poi a sua
volta un rapporto che si mette in rapporto con ciò che ha posto il rapporto
intero. Un tale rapporto derivato, posto, è l'io dell'uomo, rapporto che si
mette in rapporto con se stesso e, mettendosi in rapporto con se stesso, si
mette in rapporto con un altro. Da ciò risulta che possono nascere due forme di
disperazione in senso proprio. Se l'io dell'uomo si fosse posto da sé, si
potrebbe parlare soltanto di una forma, quella di non voler essere se stesso,
di volersi liberare da se stesso, ma non si potrebbe parlare 297 La nostra
citazione fa riferimento alla trad. it. dello scritto proposta dall'ed. Newton,
1995, a cura di Remo Cantoni, pagg. 20-21; abbiamo sottolineato in corsivo i
passaggi per noi più significativi. della disperazione di voler essere se
stesso. Questa formula è infatti l'espressione del fatto che l'io, da sé, non
può giungere all'equilibrio e alla quiete, né rimanere in tale stato, ma
soltanto se, mettendosi in rapporto con se stesso, si mette in rapporto con ciò
che ha posto il rapporto intero [questa impossibilità sancita da Kierkegaard
viene invece sconfessata da M.: il vir, da sé, può giungere all'equilibrio e
alla quiete senza porre il proprio rapporto con se stesso nel rapporto con
l'altro: l'autonomia]. Anzi, quella seconda forma di disperazione
(disperatamente voler essere se stesso) non significa affatto soltanto un
genere speciale di disperazione, ma al contrario, ogni forma di disperazione
può, in ultima analisi, risolversi in essa o esserne derivata. Se un uomo in
disperazione osserva come egli pensa la sua disperazione, senza parlarne
insensatamente come di qualcosa che gli capita [...] e ora a tutta forza cerca
di togliere di mezzo la disperazione da se stesso e soltanto a se stesso:
allora è ancora dentro alla disperazione, e con tutti i suoi sforzi presunti
non riesce che ad inoltrarsi di più in una disperazione più profonda. Il
rapporto falso della disperazione non è un semplice rapporto falso, ma un
rapporto falso in un rapporto che si mette in rapporto con se stesso, essendo
stato posto da un altro; quindi il rapporto falso in quel rapporto che è per se
stesso, si riflette nello stesso tempo infinitamente nel rapporto con la
potenza che l'ha posto. Infatti, la formula che descrive lo stato dell'io
quando la disperazione è completamente estirpata è questa: mettendosi in
rapporto con se stesso, volendo essere se stesso, l'io si fonda, trasparente,
nella potenza che l'ha posto [ed è questa, appunto, la Persuasione di
Kierkegaard]. AI di là dell'ostentata cavillosità del dettato kierkegaardiano,
il concetto è semplice: la disperazione - la malattia mortale - nasce quando
l'individuo sfasa la prospettiva del rapporto, obliterando la radice che lo
autentica («la potenza che lo ha posto», ovvero Dio) e pretendendo di
autofondarlo nel circuito della propria esistenza (la hybris): ovvero, l'uomo
sostanzia di se stesso la carenza relazionale - il Goriziano la direbbe
deficienza - che lo fonda in Dio. La disperazione è una malattia mortale perché
provoca la morte spirituale dell'uomo e la malattia mortale è disperazione
perché l'uomo non potrà mai sperare di liberarsi da essa, vista l'eternità del
suo essere spirituale. Rispetto a M., ci troviamo in una posizione antagonista
che possiamo così risolvere: per costui, rapportarsi ad una "potenza
altra" significa tradire l'autonomia della Persuasione; per Kierkegaard,
pretendere di fondare in se stessi un'autonomia che non possediamo significa
tradire l'autenticità del rapporto esistenziale che ci vincola a Dio. Come si
vede, le due posizioni - da un punto di vista puramente razionale - si pongono
come inattaccabili, e solo la persuasione del singolo può dar credito, e
verità, all'una o all'altra. In questo senso, entrambe le persuasioni si danno
come possibilità esistenziali: il fatto che questa possibilità esista non è per
il filosofo danese espressione di libertà, bensì di arbitrio, ed espone l'uomo
alla tragica evenienza del peccato, sempre presente, il che è appunto la
malattia mortale. L'unica libertà (e si noti il paradosso) è quella che ci /ega
a Dio. Per M., invece, ogni relazione sufficiente, per quanto alti siano i suoi
"agganci", è comunque una violazione del uevet, nel quale, al
contrario, «consiste» la vera libertà. B - Variazioni sul tema M.iano del
"peso che di-pende". La gravità va essenzialmente distinta
dall'attrazione. L'attrazione è, in generale, soltanto la rimozione
dell'esteriorità reciproca e dà luogo a mera continuità. La gravità, per
contro, è la riduzione della particolarità, tanto scomposta quanto continua,
all'unità come relazione a sé negativa, cioè alla singolarità, a un'unica
soggettività (soggettività, tuttavia, ancora del tutto astratta). Hegel,
Enciclopedia. Lui è il pittore stesso, che volteggia nell'aria; in una torsione
impossibile, volge le labbra alla sua donna, per baciarla e ringraziarla del
dono dei fiori che lei sta per fargli, perché è il suo compleanno; la donna
accetta il bacio con uno sguardo mezzo sorpreso (l'occhio leggermente
sbarrato), ma le labbra accennano ad un sorriso, o stanno semplicemente per
aderire a quelle dello sposo. Anche la donna sembra esser lì lì per spiccare il
volo; il suo piede destro (o il sinistro?) appare puntato a terra, come per
darsi la spinta di uno slancio, mentre l'altro è già leggermente sollevato,
come fotografato nell'atto di una piccola corsa. Il pittore, nell'assenza di
gravità, sembra a sua agio: il suo corpo è agile, allungato: la colonna
vertebrale deve essere particolarmente elastica, vista la torsione: il suo
corpo si è felicemente adattato alla nuova condizione: le braccia aderiscono
con forza ai fianchi, vi si confondono, anzi forse sono addirittura assenti. Il
lembo del bavero pare una piccola ala che spunta, potremmo giurarci. L'artista
deve sentirsi libero, nella sua fluttuazione, non deve avere impacci.
Tutt'intorno una prospettiva piatta, senza volume, destrutturata, schiacciata
dalla gravità alle pareti ed al pavimento, riscattata soltanto dalla
gradevolezza riposante dei colori: l'unico volume è dato dalla torsione del
bacio. La visione è particolarmente estatica. Stiamo parlando del quadro II
compleanno di Chagall, del 1919°°: Chagall, un artista ossessionato dalla legge
di gravità, che ci vincola alla terra; al suo tentativo di liberazione, in
questo quadro e in molti altri, egli sacrifica volentieri tutti i dati
dell'anatomia e i principi della logica quotidiana: nelle sue tele la testa di
un personaggio si stacca dalle spalle, e fluttua libera finalmente del corpo;
un passante, che si staglia sullo sfondo di un paesaggio, occupa più posto
degli alberi e delle case d'intorno; un asino suona il violino; se necessario,
questo strumento e la pendola saranno provvisti di ali; si cammina sui tetti...
Chagall, un ebreo che ha sfidato la legge di gravità, un ebreo che si è
ribellato ai vincoli della Terra Promessa. Un eretico. La critica rettorica ha
inglobato il dissenso ed ha etichettato il tentativo di Chagall come
"leggerezza surrealista" (che condivide con Masson, Mirò, Picasso e
Calder), come per Ibsen aveva parlato di "simbolismo". Più o meno
dieci anni prima, un altro ebreo eterodosso, proprio il nostro M., così
descrive la condizione "sospesa", "aporetica", del suo
amato Socrate: 298 Cfr. la diapositiva P nel supporto iconografico. Nel suo
amore per la libertà, Socrate si sdegnava d'esser soggetto alla legge della
gravità. E pensava che il bene stesse nell'indipendenza dalla gravità. Poiché è
questa - pensava - che ci impedisce dal sollevarci fino al sole. - Essere
indipendenti dalla gravità vuol dire non aver peso: e Socrate non si concedette
riposo finché non ebbe eliminato da sé ogni peso. - Ma consunta insieme la
speranza della libertà e la schiavitù - lo spirito indipendente e la gravità -
la necessità della terra e la volontà del sole - né volò al sole - né restò
sulla terra; - E né schiavo; né felice né misero; - ma di lui con le mie parole
non ho più che dire [PR Socrate sdegna la gravità: il suo discepolo più
diretto, agli occhi del filosofo goriziano, tenta invano di far suo quello
sdegno, di conservarne la lezione genuina, costruendo una macchina volante” che
gli permetterà di sganciarsi dal suolo. Ma Platone scimmiotta Socrate. «La
'leggerezza'» prese a dire Platone contemplando il mirabile spettacolo delle
cose, che al suo sguardo più forte erano chiare come se fossero state vicine
«la 'leggerezza' contiene tutte le cose; non come sono col loro peso nel mondo
basso, ma senza peso; e come il peso appartiene al corpo, alla leggerezza
appartiene, ‘lincorporeo'; e se al corpo appartiene l'estensione, la forma, il
colore, tutto ciò in cui gli uomini in terra sono implicati, alla leggerezza
appartiene l'inestenso [sic], l'informe, l'incolore, lo spirituale. Colla sola
contemplazione della leggerezza, noi che abbiamo la leggerezza, vediamo e
possediamo tutte le cose non come appariscono [sic] in terra ma come sono nel
regno del sole» [PR 68]. Una macchina per sfidare la gravità: l'uomo perde
fiducia nelle proprie forze di Persuasione, e si affida alla scienza,
ammantandola di filosofia. Giusto cinquant'anni dopo le pagine del nostro
scrittore-filosofo, e più di duemila anni dopo il finto esempio storico, Hannah
Arendt apre uno dei suoi capolavori - Vita Activa (è del 1959) - commentando un
fatto astronomico stavolta realmente accaduto: «nel 1957 un oggetto fabbricato
dall'uomo fu lanciato nell'universo, e per qualche settimana girò intorno alla
terra seguendo le stesse leggi di gravitazione che determinano il movimento dei
corpi celesti - del sole, della luna e delle stelle»? La posizione della Arendt
- non davanti all'evento in sé (salutato, volendo, anche con orgoglio, perché
ulteriore conquista dell'intelligenza umana), bensì davanti alle reazioni
dell'opinione pubblica - trasuda perplessità: Questo avvenimento, che non era
inferiore per importanza a nessun altro, nemmeno alla scissione dell'atomo,
sarebbe stato salutato con assoluta gioia se non si fosse verificato in
circostanze militari e politiche particolarmente spiacevoli. Ma, per un
fenomeno piuttosto curioso, la gioia non fu il sentimento dominante, né fu
l'orgoglio o la consapevolezza della tremenda dimensione della potenza e della
sovranità umana a colmare il cuore degli uomini che ormai, sollevando lo
sguardo dalla terra verso i cieli, potevano scorgervi una loro creatura. La
reazione immediata, espressa sotto l'impulso del momento, fu di sollievo per
'il primo passo verso la liberazione degli uomini dalla prigione terrestre'. E
questa strana affermazione, lungi dall'essere la trovata accidentale di qualche
reporter americano, involontariamente riecheggiava la 299 È l'incipit del
famoso "esempio storico" M.iano. 300 Si tratta, ovviamente, di un
apologo inventato da M., com'egli stesso del resto giustifica nelle Note alla
triste storia, contenute nella seconda delle Appendici critiche [PR 143 sgg.].
301 cfr. il Prologo di Vita Activa, La condizione umana, Tascabili Bompiani,
2000 (VIII ed), pagg. 1-6; questo, e gli altri riferimenti della Arendt, sono
tratti tutti dal prologo, e dunque s'intendano passim. straordinaria epigrafe
che, più di vent'anni prima, era stata scolpita sul monumento funebre di un
grande scienziato russo: "l'umanità non rimarrà per sempre legata alla
terra". La Arendt commenta: La banalità dell'affermazione [quella
riportata dai giornali; cfr. supra] non dovrebbe farci trascurare il suo
carattere straordinario; infatti benché i cristiani abbiano parlato della terra
come di una valle di lacrime e i filosofi abbiano considerato il corpo come
prigione della mente o dell'anima, nessuno nella storia dell'umanità ha mai
concepito la terra come una prigione per i corpi degli uomini, o manifestato
realmente la brama di andare letteralmente fin sulla luna. Sarebbe questo l'esito
dell'emancipazione e della secolarizzazione dell'età moderna, iniziate con
l'abbandono, non necessariamente di Dio, ma di un dio che era il Padre celeste:
il ripudio sempre più fatidico di una Terra che era la Madre di tutte le
creature viventi sotto il cielo? La risposta, per banalizzare, è: spero di no,
ma credo purtroppo di sì. Ora, se la Arendt avesse potuto leggere M., e
Socrate-Platone (e anche Ibsen) attraverso gli occhi di M., se avesse tenuto
conto delle "estasi" di Chagall, avrebbe certamente corretto la prima
parte del suo intervento («[... nessuno nella storia dell'umanità ha mai
concepito la terra come una prigione per i corpi degli uomini [...}»). Eppure,
siamo convinti, la sua posizione di fondo non sarebbe per nulla mutata. Il
fatto è che, rispetto alle posizioni forti e polemiche di M. e di Chagall,
l'autrice di Vita Activa occupa una posizione, come dire, "ingenua"
(ma può darsi benissimo il contrario): anch'ella ebrea, mostra piuttosto
fedeltà alla terra, «a vera quintessenza della condizione umana»: «la natura
terrestre, per quanto ne sappiamo, è l'unica nell'universo che possa provvedere
gli esseri umani di un habitat in cui muoversi e respirare senza sforzo e senza
artificio». Questa gratitudine nei confronti della Terra (la Terra "naturale",
beninteso, e non quella "artificiale" della scienza e della tecnica)
è anzi il presupposto della sua grande ipotesi d'apocatastasi politica, che
conosciamo. Per la Arendt, il mondo della Rettorica (della "cattiva"
politica, del male) avviene solo nella comunità degli uomini: per M. (e per
Chagall), invece, la Rettorica innerva la struttura stessa del reale fisico,
prima che politico, e l'attrazione gravitazionale ne è la forma più lampante.
L'assunto del nostro giovane filosofo è drastico: la forza di gravità è il
segno esplicito di una dipendenza (il peso che "di-pende"), e ogni
di-pendenza, nella sua ottica, viene associata automaticamente a violazione
della libertà (per lui assoluta), a violenza. L'autarchia del Persuaso non può
tollerare che la prima, e più forte, dipendenza (e dunque la più evidente
violazione della propria libertà) sia insita addirittura, e in modo
ineluttabile, nel suo stesso organismo: il Persuaso deve liberarsi di tutto,
anche della gravità: il liberarsi, per lui, è innanzitutto un /ibrarsi La
predilezione, come sappiamo, è per il terzo regno, quello del mare, dove ogni
gravità pare assente, dove la forza delle onde può essere anche sconfitta dalla
potenza delle proprie braccia: mentre neanche il salto del più ardito pensiero
può superare il "gancio" della gravità terrena. La Arendt, al
contrario, ha superato questa "pregiudiziale naturalistica" presente
nell'autore della Persuasione: a suo modo, anche M. supererà se stesso (il se
stesso della tesi) nella sua opera ultima, laddove - anche per lui - la
Persuasione e la Rettorica se la giocheranno ad armi pari sul terreno della
politica, nel senso che già abbiamo più volte ripetuto. Tutto sommato, dunque,
nonostante questa diversità, le proposte di M. e della Arendt si muovono
entrambe sul terreno della Persuasione. Bisognerebbe valutare la
"sostenibilità" di entrambe, ma non è questo che ora ci interessa:
l'esistenza è un impegno quotidiano che solo fino a un certo punto ha bisogno
di un appiglio o di un'ispirazione eteronoma, per quanto
"persuasivamente" fondata (è questa, ricordiamolo, l'opinione dello
stesso M.). Ora, anche nel rispetto dell'economia del nostro discorso,
c'interessa piuttosto valutare la barricata rettorica di fronte a simili
proposte, di fronte alla pericolosa insorgenza umana di liberarsi dalle maglie
della gravità. Lo faremo in modo "stravagante", ma pilotato. Partiamo
da un annuncio pubblicitario: Il è il metodo creato dalla dr. X per migliorare
l'allineamento del corpo umano nello spazio e in relazione alla forza di
gravità. Si attua in un ciclo di 10 sedute di manipolazione del tessuto
connettivo e di educazione a un movimento fluido e corretto. Questo efficace
lavoro permette di sentirsi più elastici, sciolti e leggeri in breve tempo. Gli
effetti sono durevoli. Chiunque vuole "sentire" di più il proprio
corpo, viverne meglio le emozioni, o ritardarne i processi di invecchiamento
[... ] può trarre grande giovamento da questa tecnica. L'ideatore del metodo
*** si propone di migliorare l'allineamento del corpo umano nello spazio e in
relazione alla forza di gravità: Ballested saluterebbe volentieri questo invito
ad un felice e comodo "acclimatarsi"°°, Il metodo per giunta promette
effetti durevoli. Ora, al di là della facezia, invitiamo a concentrare tutta la
serietà e l'attenzione su almeno due passaggi-chiave del messaggio
promozionale: la cura «si attua in un ciclo di 10 sedute di manipolazione del
tessuto connettivo e di educazione a un movimento fluido e corretto. Questo
efficace lavoro permette di sentirsi più elastici, sciolti e leggeri in breve
tempo». Entra in gioco la Rettorica allo stato puro, secondo la curvatura
foucaultiana che le stiamo conferendo: il dominio del corpo, nella sua
"fisicità", attraverso la "manipolazione" (termine davvero
infelice, anche per uno spot) e l' "educazione al movimento"; dunque,
una considerazione sportiva del corpo®°, volta al suo miglioramento: la
Rettorica abbisogna di corpi sani; la sua salus non è Salute ovvero Salvezza
(come l'intende il vir), ma valetudo, benessere". Una congerie di corpi
robusti e sani, per giunta controllati, è infatti il presupposto sufficiente di
una sana e forte comunità rettorica. Secondo punto: subentra il cavallo di
battaglia della Rettorica: la paura della morte, ovvero, qui, della sua fase
immediatamente precedente: l'invecchiamento. Il pubblicitario 302 Ballested è
il già citab personaggio della Donna del mare di Ibsen; cfr. il nostro
paragrafo Il porto della pace., nel capitolo |. 303 «Lo sport è la rettorica
della vita fisica», scrive M. in una nota, PR 107. 304 Sull'oscillazione
ambigua del termine nella traduzione s'impernia tutto il Dialogo della salute.
adesca il consumatore giocando sulla promessa speciosa che la cura è in grado
di ritardare i processi di invecchiamento. M., nella sua tesi, e non solo,
scrisse pagine e pagine per spiegarci che l' "equivoco" EQUIVOCO
GRICE sulla morte è la ragione decisiva che spinge gli homines, ma anche i
domini, a sottomettersi vicendevolmente al Dominus per eccellenza, il Leviatano
sociale. L'analisi del filosofo goriziano è tutta volta a scongiurare
quell'equivoco EQUIVOCO GRICE, a tratteggiare il concetto di una morte che può
essere sfidata dal vire addirittura accettata, come accadimento che non
annichila, bensì potenzia, in prospettiva, la nostra dynamis. Quello che
abbiamo or ora fornito è un esempio molto particolare, esasperato, di
«Rettorica applicata alla vita», come la chiamava il Nostro. Ad esso ne
aggiungiamo un altro, tratto stavolta da un articolo scientifico?°° dei nostri
giorni, che tratta - manco a dirlo - di un'ipotetica vita in un ipotetico mondo
a gravità zero (= assenza di gravità), ad esempio un altro pianeta. L'autore
dell'articolo argomenta che, in simili condizioni, la specie umana, potrebbe
orientarsi, attraverso graduali aggiustamenti «secondo le leggi naturali
dell'evoluzione verso un nuovo tipo di uomo, l'Uomo Cosmico». Tutte variazioni
ipotizzabili, naturalmente: dalla statura (maggiore del comune, perché in
assenza di gravità la colonna vertebrale perde le sue curvature fisiologiche
diventando rettilinea), al torace (più corto, poiché il diaframma si solleverà
in seguito all'alleggerimento dei visceri addominali), dal cuore (più piccolo
per ipotrofia muscolare) agli arti inferiori (più sottili, proprio per la
dislocazione dei liquidi verso le parti superiori del corpo) e al cervello che,
fortunatamente, secondo le ipotetiche previsioni, «verosimilmente continuerà ad
aumentare di volume, come è avvenuto nell'evoluzione del genere umano,
stimolato dalla necessità di un'informazione mentale sempre più copiosa e
intelligente e da una maggiore irrorazione, e quindi nutrizione, in assenza di
gravità». Ora, al di là della vaghezza mondana che l'articolo si ripromette, e
al di là del sempre esplicito riferimento alla corporeità, vi si potrebbe
riscontrare un altro noto (e qui ben nascosto) dispositivo retorico, quello che
i sofisti chiamavano anfibologia. L'articolo, dietro il pretesto di suscitare
curiosità, ci fornisce un quadro del nuovo "Uomo Cosmico" che finisce
con lo scoraggiare il lettore: la vita in gravità zero sarebbe possibile, ma
solo a condizione che la nostra struttura umana, la nostra bellezza umana,
venisse "storpiata": sarebbe un luogo popolato da mostri (e si
confronti, invece, questo ipotetico storpiamento scientifico con l'armonia
raggiunta da Chagall nelle sue "figure fluttuanti"). E' quella che M.
chiama la «falsa adulazione», qui rovesciata: l'articolo, cioè, invita
indirettamente i lettori a mantenere le loro belle sembianze umane, garantite e
protette dalla legge di gravità. La Rettorica richiama gli uomini al vincolo
della gravità, necessaria alla perpetuazione del dominio (l'Uomo Cosmico
rischierebbe di essere pericolosamente 305 Purtroppo ne abbiamo perso la fonte,
ma il nostro appunto, a suo tempo, fu abbastanza fedele. forte, e la sua vita
oltremodo allungata: rischi che la Rettorica non può permettersi di correre:
forza e longevità sì, ma sempre "manipolabile"). Ora, abbiamo
volutamente presentato esempi al limite della "fantascieza", e volutamente
abbiamo condotto un'analisi altamente prevenuta, ostentando un metodo
d'approccio viziato oltremisura dal "sospetto": una sorta di eccesso
di zelo dell'ottica persuasa, che rischia di degenerare in una vera e propria
mania di vittimismo di una persecuzione, sempre operante, perpetrata dalla
Rettorica. Ora, siamo convinti che una simile "paranoia rettorica"
dovette aggredire M. nei suoi ultimi giorni di vita, attecchendo per giunta su
un fisico stremato dai dolori personali e stressato dal lavoro di compilazione
della tesi. Con questo, non vogliamo alludere a nulla, riguardo al suicidio del
giovane goriziano (benché lo stesso Campailla sembra sbilanciarsi, ma solo
appena, in proposito). Lo assumiamo semplicemente come un fatto. Concludiamo
questo paragrafo richiamando alla memoria, come all'inizio, un altro quadro
celebre: nei suoi Orologi mollf°®, Salvator Dalì sembra denunciare (o
sublimare?), in modo bizzarro ma efficace, il risultato vincente della
Rettorica, come forza di gravità? (l'opera è del 1931; anni bui): gli orologi,
attratti da una vigorosa forza centripeta, cedono mollemente verso il suolo:
una mosca (retorica?) insozza quello in primo piano; una comunità (persuasa?)
di formiche sembra preservare/proteggere quello in primissimo piano. Il
messaggio appare chiaro: anche il tempo si curva dinanzi alla forza di gravità,
vi si sottomette e vi si allea, a meno che.... Sembra un'amenità. Eppure era
ciò che, grosso modo, il genio ebraico di Einstein aveva postulato, pochi anni
prima, nella sua ipotesi di curvatura dello spazio-tempo. 306 Ovvero, La
persistenza della memoria, detto anche Il tempo che si scioglie. Cfr. la
diapositiva Q nel supporto iconografico. 307 La nostra interpretazione è del
tutto funzionale al discorso e, del resto, le opere di Dalì si prestano agli
azzardi più innominabili. Anche se, per la cronaca, il pittore, proprio
riguardo a questo quadro, fu estremamente chiaro: il soggetto gli proveniva
dall'ossessione per tutto ciò che è molle.C - La critica alla Rettorica come caricatura
della Rettorica. A partire da un'intuizione che ha avuto già a suo tempo il
Campailla, e che noi condividiamo in pieno (ovvero che non si può leggere
l'opera di M. scrittore- filosofo separatamente da quella di M.
"ritrattista"), la critica specializzata nel settore si è adoperata
per trovare punti di riferimento "europei" all'opera del Goriziano.
Il bilancio di tale lavoro (volto comunque a reclamare anche una decisa
originalità M.iana rispetto alla contemporaneità o alla più prossima posterità)
è stato egregiamente redatto da Fulvio Monai (a nostro parere, il non plus
ultra in questo contesto), di cui riportiamo alcune valutazioni essenziali,
cercando anche noi - in questo modo - di caldeggiare un simile approccio.
Nell'ambito figurativo i pittori dell'angoscia come Munch, Van Gogh, Ensor,
Gauguin avevano creato le premesse per la nascita dell'Espressionismo che a una
prima realizzazione formale giunse tuttavia soltanto con il gruppo della Brücke
(Il Ponte), fondato nel 1905 a Dresda da Kirchner, Heckel e SchmidtRottluff, e
avviato, sulla spinta di un programma di spontaneismo e di immediatezza
espressiva, a estrinsecare per immagini, al di là di ogni schema preordinato,
le inquietudini interiori. Ebbene, in quel momento, M., che dall'angolo visuale
fiorentino non aveva potuto nemmeno supporre i prodromi della nuova esperienza
artistica, anche se nutrito di cultura tedesca, aveva già fissato sulla carta i
segni di un'umanità demitizzata, i cui connotati volevano corrispondere a una
realtà interna più che alle apparenze sensibili. [...] Quando M. schizzava a
lapis la Processione d'ombre nel 1903, a sedici anni (anticipando largamente i
disegni di Klee eseguiti nel 1911), nulla poteva sapere dei fermenti che
avrebbero portato alla figurazione espressionista. Non poteva nemmeno aver
conosciuto, quando l'informazione sull'arte a Gorizia era ancora precaria se
non assente, né la tipologia umana di Tolouse Lautrec, né la visione
precorritrice degli artisti che avevano fatto tesoro della lezione di Cezanne e
Van Gogh. Non ci sono comunque prove [...] che possano documentare un qualsiasi
contatto, del resto cronologicamente insostenibile, con il mondo figurativo che
si agitava nell'Europa centrale osteggiato dalla cultura officiale [...]
Indubbiamente Processione di ombre è una testimonianza stupefacente di un
espressionismo ante-litteram: una sfilata di personaggi tratte ggiati
sommariamente, figure emblematiche la cui deformità impietosa riflette le
ipocrisie e le storture della società conformista. La matita che delinea
realisticamente il profilo del Castello di Gorizia, simbolo del potere, non
indugia sui dettagli delle figure umane ma, guidata da un'intuizione
psicologica sorprendente per un sedicenne, si limita a suggerirne le forme
controluce. Processione d'ombre resta dunque opera di un giovanissimo che, per
virtù di un'acuta intelligenza, stava respirando un'aria comune a tutti gli
ingegni più vivi senza ancora rendersene conto, con le percezioni discendenti
da una sofferta coscienza del male del tempo, in inconsapevole sintonia con
artisti che egli non aveva mai conosciuto. Dopo questa prova [... ], altri
disegni confermeranno negli anni successivi la sua ricerca dell'uomo, il suo
bisogno di agire direttamente sulla persona, interpretandone le contraddizioni,
le debolezze, il ridicolo, con segno che non è caricaturale nel senso corrente
della parola, inteso cioè a cogliere gli aspetti più scoperti del soggetto per
metterne a nudo l'immagine apparente o i sentimenti più manifesti. La sua
matita scava e blocca il volto nell'attimo in cui la mente ne fissa i connotati
che meglio corrispondono alla realtà più intima e tramuta la figura in maschera
che sollecita pena e amarezza più che ilarità. Solitario come filosofo e come
pittore, M. avrebbe comunque continuato ad alimentare la segreta vocazione fino
a quando, con il disegno di una lampada dalle fiammelle ormai spente, avrebbe
riassunto sul primo foglio della Persuasione e la rettorica il senso della
propria parabola terrena. [Si può altresì rilevare] la sua estraneità a
qualsiasi movimento intellettuale e filosofico. Si può affermare analogamente
che non appartenne consapevolmente ad alcun movimento artistico del suo
tempol... ] Come pittore M. rientra dunque nella sfera dell'espressionismo, di
cui preavverte le tensioni. Ed espressionista rimane fino in fondo, anche
dipingendo, prima di morire, l'olio dedicato alla madre e intitolato nel retro
E sotto avverso ciel luce più chiara. In questo senso è stata concordemente
valutata nefgli] ultim[i] decenni] l'opera grafica e pittorica di M., e si è
convenuto che essa non può essere ignorata, costituendo uno degli aspetti
fondamentali per capire la genesi della Persuasione e la rettorica, e l'autore
stesso, come uomo, nella sua totalità.
[Dunque], un rapporto molto stretto lega la ricerca grafica di M. alla
sua filosofia... Lo schizzo, il disegno immediato, l'aforisma figurativo si può
considerare una traduzione visiva della via alla persuasione... La linea,
secondo una grammatica preespressionista, si spezza in segmenti, si anima in
curve ed evoluzioni, si condensa con insistenze e ripetizioni in alcuni
passaggi per poi sfumarsi e annullarsi in altri. Esiste una concordanza di
giudizi sul fatto che soltanto un'esigenza interiore indusse M. a farsi
testimone di situazioni umane con l'immediatezza di chi ha in animo non di
edulcorare la realtà o di darne una versione umoristica ma di penetrame i
significati, uscendo dalla sfera della rappresentazione per entrare in quella
cruda e disincantata dell'osservazione dei fatti, al di là di qualsiasi calcolo
e senza il desiderio, comune ai protagonisti dell'arte, di farsi portatore di
nuovi linguaggi. Insistere nella ricerca di modelli, di influenze precise per
giustificare formalmente il mondo grafico e pittorico di M. equivarrebbe a
sminuire - pur considerando i rarefatti indici di un'attività non dominante -
la portata del suo messaggio, la sua originalità. Più giusto è constatare che
quanto possediamo è sufficiente a dichiarare le sue innate doti di disegnatore
estraneo alla cultura figurativa imperante nei primi anni del Novecento in
Italia, e a rivelare nello stesso tempo con incisiva evidenza le spinte che,
sempre più incalzanti, determinarono la sua ricerca esistenziale®°8, A tutto
ciò, aggiungiamo soltanto due nostre vaghe considerazioni: innanzitutto, in M.
ci sembra davvero riproporsi quella che Nietzsche connotava come capacità
«pentatletica» dell'artista "persuaso" (che lo rendeva davvero «omo
integrale»), nella fattispecie con riferimento agli autori tragici della
classicità (ma anche al loro "pubblico"), come il filosofo tedesco
aveva scritto in un passaggio fondamentale della sua prima conferenza pubblica
sulla tragedia [quella sul dramma musicale greco]: Nietzsche auspicava (e
credeva di intravvederne i prodromi nell'opera wagneriana) una ri- proposizione
di tale "integrità" nella nuova gioventù tedesca’. Anche sotto questo
rispetto, dunque, M. ci sembra pare fedele all'orizzonte greco che struttura
lasua speculazione e, perché no?, anche tutta la sua vita. Seconda considerazione
(che approfondisce quanto già profilato dal Monai): è significativo, per noi,
che M. s'impegnasse soprattutto nell'affinmare la sua pratica di
"caricaturista": com'è noto, il pregio della caricatura è quello di
scarnificare il soggetto che ad essa si presta, esagerandone (e distorcendone)
i tratti caratteristici: l'effetto che si vuol provocare è di natura comica o
grottesca. Il pittore-filosofo goriziano, evidentemente, intuì la profonda
valenza dissacrante che un simile strumento gli metteva a disposizione: poter
meglio individuare o evidenziare i "difetti" della Rettorica e
utilizzare il pretesto umoristico per porli, in modo impietoso, all'attenzione
di tutti: riconosco qualcosa come "caratteristico" e lo "carico"
distinguendolo dal resto (che rimane meno percepibile). 308 Estratto dal saggio
M. anticipatore in arte dell'espressionismo, di Fulvio Monai (pubblicato in
Dialoghi intorno a M., a cura di Sergio Campailla, Gorizia, Biblioteca Statale
Isontina, 1987), che qui riportiamo per gentile autorizzazione concessaci dalla
redazione di www.M..it e del Comune di Gorizia. 309 Cfr. almeno le sue Cinque
prefazioni per cinque libri non scritti, in particolare le Riflessioni sul
futuro delle nostre scuole. 310 In questo senso, la caricatura, sotto la forma
soprattutto della satira (letteraria) politica e sociale, ha una lunga
tradizione nell' "aceto italico", almeno a partire da Lucilio. A
parallele, analoghe e praticamente contemporanee conclusioni - il suo saggio
sull'Umorismo è del 1908 - era giunto anche Pirandello: nel saggio, lo
scrittore agrigentino segnalava nella pratica umoristica uno degli strumenti
privilegiati che consentivano di introdurre nell'arte, e dunque attraverso
l'arte, la problematica dell'esistenza e la critica sociale: l'umorismo si
serve del comico - avvertimento del contrario - per assurgere a riflessione, al
sentimento del contrario, ovvero, associando le immagini in contrasto*'',
sottolinea espressionisticamente gli aspetti disarmonici, deformanti e
paradossali dell'esistenza, come lo scrittore effettivamente fece nei romanzi e
(soprattutto) nelle novelle8"?, Per fortuna, l'interesse per l'opera
grafico-pittorica di M. è venuta crescendo col tempo (anche se fatica ad
oltrepassare l'orizzonte della provincia goriziana e triestina), come
testimoniano le sempre più numerose esposizioni del suo catalogo. 311 cfr. L.
Pirandello, Saggi, Poesie e scritti varii, Mondadori, pag. 127 soprattutto 312
Non a caso, alcuni critici (il Salinari e il Piromalli, sopra tutti) hanno
letto l'opera di M. anche attraverso il confronto con la produzione e la
"filosofia" di Pirandello, entrambi massimi rappresentanti della
crisi spirituale apertasi all'inizio del secolo scorso. Auctoritas, non veritas
facit legem. Thomas Hobbes Parte migliore è quella che cerca il meglio; cercare
con persuasione il meglio è l'unico primato; e quando si vorrebbe ostacolare
ciò, si fa, sotto tanti aspetti, del materialismo, e, prima o poi, si è
sconfitti dalla forza dell'anima. Capitini «Mi manca una concezione salda e
universale della vita [...] Oggi io non vedo alcuna possibilità di trovare un
nuovo principio, né di rispettare i vecchi principi. Cerco dunque questa idea,
da cui dipende tutto il resto, senza poterla trovare», scriveva Flaubert
all'amico George Sand, poco più di un secolo e mezzo fa. Questa urgenza di
verità e di valori la facciamo nostra, in un'epoca in cui - e lo affermiamo al
di là di ogni moralismo enfatico ed infame da parvenu - il rapporto degli
uomini col mondo e con i propri simili ci appare quanto mai irrisolto e
problematico, e sembrano venir meno l'orientamento, i motivi, le ragioni stesse
delle scelte etiche. La nostra tesi, benché sia strano, è nata ed è stata
scritta in tempo di guerra, e ciò non ha potuto non influire sulla veemenza e
sulla perentorietà di certe nostre affermazioni, convinzioni, presupposti. Il
fascino che il pensiero M.iano, misconosciuto, ha esercitato su di noi si
spiega, allora, soprattutto nella sua premura etica, nel suo "massimalismo
etico": solo un'etica forte come quella di M. - per quanto, per i più,
"ingenua" - può misurarsi oggi con la potenza devastatrice del male.
La straordinaria energia che ogni uomo nasconde conosce le espressioni più
sublimi e divine, ma anche le degenerazioni più abiette e nefaste: si tratta di
convogliare quell'energia a vantaggio dell'uomo, ovvero sulla via della
Persuasione. Questa è l'epitome del monito persuaso. La voce della Persuasione
è la voce socratica, la voce che coinvolge, la voce per eccellenza. La voce che
invita alla «infinita vita», che chiama all'autonomia ed all'autenticità del
nostro essere uomini, che non si presta alla risonanza disinteressata o
scolastica o intellettuale, ma che ingiunge un impegno militante ad ogni animo
sensibile. Qui, ovviamente, entra in gioco e in crisi il significato stesso di
filosofia, e quindi di esistenza, e il coinvolgimento personale e responsabile
di ogni posizione. La "lezione" di M. è, infatti, un invito alla
responsabilità pura, e dev'essere accolto come tale in un'epoca in cui il
totalitarismo non è esplicito, ma sornione, non punisce, ma sorveglia, 313 Nel
contesto di queste Conclusioni, utilizzeremo una specifica bibliografia minima:
1 - Aldo Capitini, Elementi di un'esperienza religiosa, con prefazione di
Norberto Bobbio, Biblioteca Cappelli (ristampa anastatica della seconda
edizione, pubblicata nel 1947 dall'E ditore Laterza, Bari), 1990; 2 - Martin
Buber, La regalità di Dio, Marietti, 1989; 3 - E. Lévinas, L'aldilà del
versetto, a cura di G. Lissa, Saggi Guida, 1986; 4 - Antimo Negri. Il lavoro e
la città. Un saggio su Carlo M.. Roma, Lavoro, 1996. (I grandi piccoli 11). Le
citazioni dal testo di Capitini saranno segnalate da una C con numero di pagina
cui si riferiscono [C ...]; quelle da Buber da una B [B ...]; quelle da Lévinas
da una L [L ...]; quelle da Negri da una N [N ...], non opera soltanto
attraverso l'aperta coartazione, ma s'innesta a presupposto tacito comune,
servendosi di una sopraffina ikebana di prevenzione, volta a scongiurare quello
che gli agenti assicurativi chiamano, come per un gioco di ironia, moral
hazard?. In un'epoca in cui il totalitarismo, a volte, addirittura soffre il
proprio mascheramento, ed esplode (stricto sensu) nelle tensioni belliche del
"nuovo ordine mondiale". La sua violenza, oggi, è un "mal
sottile" che avvelena. La Rettorica è un processo di avvelenamento, scrive
M., il che vuol dire non soltanto che è un veleno, ma che è una continua
somministrazione di veleno. Il pensiero di Carlo M., con tutta la sua giovanile
esuberanza, si pone allora come antagonista, come disinfestazione: si arroga un
effetto depurante, si autopromuove ad antidoto al veleno, e (forse) in questo
pecca di presunzione e corre il rischio, anch'esso, di prestarsi a traduzioni
violente ed autoritarie. Ma ci si mostra come faro quando addita nell'autonomia
e nella politica (termini solo in apparenza contraddittori, termini da assumere
piuttosto nella loro straordinaria bellezza) l'unica istanza regolatrice di
ogni persuasione concreta, «a ferri corti con la vita», l'unica alternativa all'acclimatamento
rettorico, al compromesso eteronomo, all'abulia o alla disperata (per alcuni,
vile) risoluzione del suicidio. Di una persuasione, infine, che non si pone
come compito quello di passare «dalla teoria alla pratica» (uno dei più
ostentati imperativi sociali), ma di far le proprie parole azione, di
sollecitare la propria dynamis umana all'entelechia che, in modo autentico, la
realizza. Come scrisse Aldo Capitini, «dobbiamo essere musica e non statua.
Questo sembra un sogno, un qualche cosa di poetico; e credo invece che sia
prova di realismo. Vi sono forze potenti da fronteggiare, e solo un'opposizione
dal profondo e appassionata può vincerle»3'° [C 31]. 314 Lett. "rischio
morale". Maggior rischio che un evento assicurato si verifichi per effetto
della minore attenzione posta nel prevenirlo da parte di chi ha stipulato
l'assicurazione [def. dizionario Garzanti. Chi ha letto quanto da noi
argomentato in precedenza, apprezzerà la puntualità di questa definizione. 315
Come scrive Norberto Bobbio, compagno e grande estimatore di Capitini,
«chiunque abbia una certa familiarità con gli scritti di Capitini sa che uno
dei termini-chiave del suo linguaggio personalissimo è "persuasione",
che sta per "credenza" o per "fede" (il bel capitolo
autobiografico con cui ha inizio il libro Religione aperta è intitolato La mia
persuasione religiosa), onde "persuaso", parola da lui usatissima
equivale a "credente". Egli stesso ne riconosce la derivazione da M.:
«... del quale mettevo in rilievo, anche in una conferenza che tenni a Firenze,
la "persuasione" (un termine che ho assunto, preferendo
"persuaso" a "credente", persuaso nel senso di
"autopersuaso", quasi di "pervaso"), l'antiretorica, quel
tipo di esistenzialismo, che poteva divenire supremo impegno pratico: insomma
mi pareva esatto considerarlo come la premessa di una tensione
etico-religiosa». [Bobbio trae questa citazione dall'opera di Capitini
Antifascismo tra | giovani; la testimonianza di Bobbio su Capitini la si trova
in N. Bobbio, Maestri e compagni, Firenze, Passigli, 1984, nel capitolo a lui
dedicato], Dunque, lo sfondo di Capitini è religioso, la sua è una credenza e
una fede; tuttavia la sua religiosità, "antiistituzionale", ci pare
non identificarsi esclusivamente con la dimensione divina, ma coincidere
piuttosto con la sacra umanità (il sacro dell'umanità) che ogni individuo porta
dentro di sé: dunque, se «la religione è consapevolezza della liberazione
spirituale, del superamento della finitezza mediante la vita spirituale» [C
110], anche noi ci sentiamo di condividere questa religiosità. M. ripropone la
visione antica del mondo nel momento di più intensa crisi della sua visione
moderna, e chiama in causa soprattutto due testimonianze inattuali di
Persuasione, nella Persuasione "confondendole": Socrate e Cristo. Il
Socrate di M. - ma oramai è chiaro - non ha alcuna paternità del /ogos, se per
logos s'intende una facoltà, ch'è pretesa, di ordinare il nostro rapporto
"scientifico" con la realtà e di promuoverne un'arbitraria fondazione
di valori. In un'espressione, un atteggiamento di dominio che non riesca a
pensare il mondo se non come rapporto di forze e come fruizione senza mistero.
In senso analogo, la verità cristiana viene apprezzata non come pura verità
filosofica o settaria, ma rivissuta quale verità di esistenza e di salvezza
assolute. Nella dimensione persuasa, cui queste due rinnovate prospettive
collaborano, il vero, il giusto e il bello condividono un rapporto sponsale
(l'agathon di socratica e platonica memoria), al cui interno è un non senso
l'imposizione. Un assunto, questo, che M. tende disperatamente a dissuggellare
dall'ambito della propria coscienza individuale, cercando di puntare su di esso
non solo per un impegno morale singolo, ma per una "rivoluzione"
sociale ch'è innanzitutto una rivoluzione etica collettiva. Il vir è
completamente titolare dell’azione etica, e in questo è scrigno d'infinito,
perché infinite sono le possibilità di realizzare il bene: la sua esistenza è
un "grande miracolo", che riflette in sé tutta l'ineffabile portata
della Persuasione, una dignità e una libertà di sapore, diremmo,
rinascimentale. L'Europa (il mondo) deve guardare alla Bibbia ed alla grecità,
dunque. Una persuasione di Lévinas, che anche M. avrebbe sottoscritto. Anzi,
come visto, la speculazione del Goriziano oscilla proprio, ed in maniera
consapevole e in certo modo sistematica, tra questi due poli. Tuttavia, nella
riconsiderazione ch'egli fece del pensiero biblico, si segna, secondo noi, una
nuova possibilità del pensiero ebraico, che mantiene dell'ebraismo la valenza
etica, la tenacia e la determinazione che quello ha mostrato nella sua storia
millennaria, ma altresì le rinnova, senza cadere, a nostro giudizio,
nell'apostasia dei conversos o dei marranos. Da una parte, infatti, l'identità
ebraica di M. - per quanto inconsapevole, sottaciuta o addirittura rimossa
dallo stesso - è fuori discussione: l'appartenenza ebraica è una questione
cromosomica, volendo parafrasare Martin Buber. Dall'altra, M., ebreo,
dell'Antico Testamento predilesse soprattutto l'Ecclesiaste, e pur vide in
Cristo l'eccellenza del vir persuaso, ritagliandone una figura terrena e
sofferta che nulla ha a che vedere col Cristo figlio di Dio: M., ebreo, pure
accettò il messaggio di In effetti, Capitini appare quale uno dei
nichelstaedteriani più "coerenti", e il fatto che il suo capolavoro,
gli Elementi, fosse uno dei luoghi di spiritualità intorno al quale si condensò
molto antifascismo, è una delle prove più evidenti e più belle di una
Persuasione che passa dalla parola all'atto, che si fa storia ed opposizione
anti-rettorica. liberazione terrena del Cristo, «la circoncisione del cuore, in
ispirito, non in lettera» [S. Paolo, Rom. 2,29], il «battesimo del fuoco» [Lc.
3,16] nella Persuasione?"9. Il pensiero M.iano, insomma, è anche un
pensiero ebraico, semplicemente perché M. fu un ebreo. E, per quanto detto, fu
un pensiero ebraico sui generis, rivoluzionario, inaudito, e purtroppo
dimenticato. Il pensiero ebraico si pone, per principio, come inattuale, come
Talmud, interpretazione incessante ed appassionata della Torah, della Legge, la
«salvaguardia più sicura e la memoria più fedele dell'etica di Israele» [L 77].
L'ermeneutica della Torah si assume il compito di individuare e proteggere
l'<«energia misteriosa che scaturisce da [gesti] antiquati» [L 77], e
d'imbrigliarla in direzione etica. Questa etica è accoglienza di una
«incitazione divina» [L 102]: «anche Dio incita, anche Dio seduce, come se
anche Dio avesse la sua retorica». L'ascolto, dunque, la pedagogia dell'ascolto
come essenza dell'ebraismo: vi si forgia un'etica che scaturisce da
un'interazione responsabile di uomini: una redenzione, un «faccia-a-faccia
degli uomini [...] che mostrano il loro volto e cercano il volto del loro
prossimo» [L 93], in una «tensione del santo verso il più santo» [L 91], in una
«permanenza dell'umano [...] assicurata dalla solidarietà che si costituisce
intorno a un'opera comune; dallo stesso compito svolto senza che i
collaboratori si conoscano o si incontrino» [L 93], perché «Ia totalità del
vero è realizzata dall'apporto di molteplici persone» [L 218]. Un'etica,
inoltre, che non teme, e anzi accoglie, il confronto con le culture altre,
perché «Malgrado tutte le critiche rivolte contro l'assimilazione, noi
usufruiamo dei lumi che essa ci ha apportato, affascinati dai vasti orizzonti
che questi ci hanno aperto » [L 288]. Tuttavia, «a dialettica del regno che
educò il popolo di Israele» - scrive Buber - coincide con la «storia del
dialogo fra la divinità che domanda e l'umanità che nega la risposta ma che
tenta anche di rispondere, il dialogo che ha per oggetto un eschaton». [B 56].
La risposta dell'essere umano, a questo domandare che s'impone più che altro
come un comandare, non può essere se non l'obbedienza. Buber non lo nasconde,
anzi fonda proprio su questa impari dialettica la radice dell'istanza etica e
ogni possibile dignità dell'uomo, «costituita dalla originaria possibilità di
questo comandamento e dall' 'obbedienza' intesa come risposta umana ad esso:
una risposta balbettante, riluttante, risorgente, ma pur sempre la risposta del
fragile essere umano» [B 136]. «Nel 'monoteismo' - scrive ancora Buber -
l'unicità non è [...] quella di un 'esemplare’, bensì quella del Tu nella
relazione io- 316 Ancora una volta, è importante - in questo contesto -
ricordare l'interesse esclusivo di M. per il vangelo di Matteo. Questo vangelo
è il «più completo, ordinato e dottrinale dei primi tre e rispecchia più e
meglio degli altri la primitiva catechesi apostolica, motivo per cui fu il più
utilizzato nei primi tempi della Chiesa, per l'istruzione sia dei catecumeni
che degli adulti. Esso fu scritto per gli Ebrei, per provare ad essi che Gesù
Cristo è il Messia promesso. Infatti fin - dal principio, con la genealogia,
così importante per gli Ebrei, Mt intende dare non soltanto la realtà ebraica e
davidica di Gesù, ma inserire lui, la sua storia e la sua opera nel complesso
della storia della salvezza, che forma l'ossatura di tutto l'AT. Così, nel
discorso posto come a base del nuovo Regno fondato da Gesù, egli è proposto
come il nuovo Mosè che sul monte promulga la nuova legge; e in tutto il corso
del Vangelo è dato il massimo valore all'AT, considerato come profetico e
pedagogo al nuovo Regno» [F. Pasquero, Introduzione al vangelo di S. Matteo,
ed. Paoline, Milano, 1987]. tu, che non conosca sospensioni nell'ambito della
vita vissuta» [B 123]. Il Tu divino è una continua presenza nel rapporto io-tu,
sia nel rapporto stesso che nella singolarità dei contraenti: «la fede in Dio
di Israele è contraddistinta in definitiva dal fatto che il rapporto di fede esige
per essenza di valere per tutta la vita e di agire in tutta la vita» [ma cfr.
l'intero capitolo JHWH il melekh, pagg. 106- 120]. E' qui che M. segna il suo
distacco e il suo superamento: egli, ebreo, combatte in assoluto ogni
adescamento eteronomo, e intuisce che l'etica è Persuasione, ovvero - e in modo
esclusivo - autonomia responsabile e responsabilità autonoma, conquista che
avviene nell'immediato dell'uomo senza alcun tramite, se non la considerazione
dell'altro come specchio di sofferenza, come omousia del Tragico, e non come
riflesso del volto di Dio o comunque di entità superiori e costituite. M.
conclude la prima Appendice critica alla sua tesi di laurea con un enfatico
«Evviva l'imperativo» [PR 142]. Quest'appendice, apparentemente svolta su questioni
di linguistica logico-formale (i modi verbali), s'impernia su un assunto
etico-filosofico che compendia le convinzioni M.iane su un linguaggio, quello
degli uomini, ch'è la traduzione più concreta ed esaustiva dei «modi di
relazione sufficiente» [PR 135]: infatti, «ogni parola detta è la voce della
sufficienza - quando uno parla, afferma la propria individualità illusoria come
assoluta», ovvero «ogni cosa detta ha un Soggetto che si finge assoluto» [id.,
corsivo di M.; in base alle analisi approntate nel corso del nostro lavoro, il
significato di queste affermazioni dovrebb'essere oramai pacifico]. Alla luce
di questo assioma, M. de-struttura i modi del linguaggio: quello diretto,
quello congiunto e infine quello correlativo. Fino a che giunge al modo
imperativo, «che non è modo» [PR 141]. Perché quello imperativo non è un modo?
E perché il giovane filosofo lo predilige? Perché esso non sottende una
"relazione sufficiente", «non è realtà intesa, ma vita; è
l'intenzione che vive essa stessa attualmente, e non finge attualità in ogni
modo finita e sufficiente» [PR 141, c. Mich.]: insomma, il Soggetto «non fa
parole, ma vive» [PR 142, c. Mich.]. Ma in che modo il Persuaso vive?
Innanzitutto, si parta da questa importante sfumatura: per M., l'imperativo non
è il modo dell'ingiunzione, del comando, della coercizione, non è neanche
«imperativo di Dio» [B 58]°'”, ma quello della libertà, della realizzazione
concreta della libertà, ovvero è un atto di liberazione. Il Soggetto,
innanzitutto, si libera da se stesso, dalla falsa consistenza che lo intride.
Ma l'imperativo non è neanche un modo impersonale: esso è piuttosto un modo che
coinvolge, che chiama in causa una relazione, una responsabilità, che evidenzia
la sostanza di un tu cui esso si rivolge. Delucidando il senso e l'abisso di
tale responsabilità, si giunge nel cuore dell'essenza persuasa. E' la
Persuasione che mette in gioco la responsabilità, e non viceversa. Non è Dio
che ci destina in un orizzonte responsabile, non è YHWH che c'ingiunge o ci
dona il senso di responsabilità, che ci forma alla responsabilità. Per Lévinas,
ad esempio, la responsabilità umana è «una responsabilità che precede la
libertà, una responsabilità che precede l'intenzionalità» [L 210]: poche righe
dopo, il filosofo ebreo- francese esplicita il senso delle sue parole: «si deve
comprendere piuttosto questa anteriorità della responsabilità rispetto alla
libertà come l'autorità stessa dell'Assoluto [c. n.], ‘troppo grande' per la
misura o la finitezza della presenza, della manifestazione, dell'ordine e
dell'essere» [L 210]; «l'uomo esercita la sua padronanza e la sua
responsabilità come mediatore tra Elohim e i mondi, assicurando la presenza o
l'assenza di Elohim dal concatenamento degli esseri» [L 246-247].
Nell'orizzonte della Persuasione, al contrario, la responsabilità non è la
premessa teologica al rapporto io-tu, non è il vincolo condizionante preparato
da qualsivoglia Torah, Assoluto o «ileità» [L 211], ma la messa-in-atto di
questo rapporto nel momento in cui esso avviene, sul terreno dell'autonomia
senza presupposti, nella condizione di una consistenza che trova 318. Ovvero
nel fondamento esclusivamente nella propria finitezza, nella propria solitudine
momento in cui la consapevolezza del Tragico assurge alla sua espressione massima,
e si converte da consapevolezza in attualità poietica. La stessa
«responsabilità della responsabilità» [L 158-159] non è una delega etica che un
essere superiore affida agli uomini, lasciandoli liberi o meno di rispondere
(la presenza o l'assenza di Elohim), ma un atto di autofondazione di libertà,
in cui libertà e responsabilità vengono a coincidere; non riflesso di una
Legge, ma essa stessa legge di se stessa. Il vir attraversa la morte, convive
con la malattia mortale ed estende la mortalità a termine di confronto con le
altrui vite: ristabilendo un corretto rapporto con l'essere-per-la-morte
dell'uomo, correggendo la prospettiva lontananza-vicinanza dalla morte, la
Persuasione rende manifesto l'essere-nella-morte dell'homo (la vita che vuole
se stessa e crede d'esser vita, l'horror vacui che diviene propellente del
conatus essendi, il deficere preso a pretesto del proprio sufficere) e nobilita
l'essere-con-la-morte del Persuaso. Di fronte al Tragico, e non di fronte a
YHWH, si fonda la solidarietà e la democrazia di un destino, per il quale tutti
sono miei pari nella morte. Vedendo nell'altro se stesso come mortale, il vir
elegge l'altro in un orizzonte di compassione, e quindi di rispetto: in questo
specchiarsi nell'innocenza tragica dell'altro, il Persuaso abdica alla propria
consistenza, avvertendo già la sua stessa affermazione individuale come
violenza "attuale" agìta ai danni dell'altro. 317 «[...] né la storia
biblica ha altro senso se non quello per cui l'imperativo della natura può
cedere all'imperativo di Dio e così elevarsi, la pura passione alla santità
pura, la creazione al regno» [B 58]. 318 Nella dimensione persuasa, dunque,
espressioni quali «dipendenza senza eteronomia» [L 162], «trascendenza che si
fa etica» [L 208], «decisione umana che interviene in un dominio che oltrepassa
l'uomo» [L 181], o ancora «timore libero: riconoscenza sotto forma
d'obbedienza, ma obbedienza senza servitù etc. etc.» [L 173], o infine la summa
- «idea di un potere senza abuso di potere» [L 266], non hanno alcun senso.La
persuasione, dunque, si pone come eccesso d'amore, come olocausto d'amore, che
sacrifica l'io attuale al tu, e fa del tu non soltanto il termine privilegiato
del rapporto, ma il luogo in cui «brucia come fiamma» il rapporto stesso. Il
sacrificio è l'annullamento del sé per la salvaguardia del tu: l'agire del
Persuaso (Sovva!) è l'accollarsi di un surplus di responsabilità verso il tu.
Per recuperare l'umanità del tu c'è bisogno di un'eccedenza d'umanità nel
Persuaso, tal che il Persuaso - alla stregua dell'Essere plotiniano - trabocchi
di essere e doni, sacrifichi la sua eccedenza in vista della Persuasione del
tu, ch'egli non prepara o sollecita, ma salvaguarda e protegge. In questo atto
di amore puro e assoluto della Persuasione, l'unico rimprovero che le si può
muovere contro è l'essersi arrogata una pretesa di salvazione che nessuno le ha
chiesto. Ma cosa è l'amore, il donare, se non dare anche quando nessuno
chiede? Uno, tra i motivi occasionali
che ci hanno spinto a scrivere una tesi su Carlo M., è stato la lettura di un
libello (in senso proprio e lato), che porta la firma di Antimo Negri, dal
titolo accattivante: // lavoro e la città. Il piccolo studio si propone come
«un saggio su Carlo Michelstaedter» (così recita il sottotitolo) e, in effetti,
la prima metà di esso sorvola l'opera del Goriziano, fissandone punti
fondamentali e azzeccando spunti intelligenti. Ad un certo punto, però - e
siamo al capitolo E' veramente ‘vita che non è vita', quella civile? -
l'analisi del critico prende una svolta inaspettata di sferzante polemica.
Partendo dalla convinzione (del resto per noi condivisibile e sensata) che
«nella società, è giocoforza responsabilizzarsi come uomini civili e lavoratori
divisi» [N 74], per il Negri prospettare ai lavoratori "distinti" e
agli uomini "civili" una vita altra da quella ch'essi conducono è
soltanto grossolana retorica, una presa in giro, una «promessa del diavolo» [N
75], pericolosa e assolutizzante, metafisica e irriguardosa. L'avversario da
ardere al rogo, nel contesto del saggio, è proprio Michelstaedter: [...] se gli
'autori' hanno veramente detto ciò che egli 'ripete' [il riferimento è alla
prefazione della tesi di laurea], Michelstaedter non fa altro che accomunarli
nel destino del fallimento del loro messaggio ‘persuasivo'. La ragione di
questo fallimento? Sta nel fatto che gli uomini, la maggioranza degli uomini,
nonostante ogni 'riduzione' della loro individualità, nonostante il loro
risolversi in persone sociali", nel mondo della sicurezza' borghese, nel
mondo del lavoro diviso o nel 'regno della rettorica', finiscono col credere
più a Platone che a Socrate, più a Hegel che a Schopenhauer, eccetera. Solo
perché disponibili a farsi 'giusti' per naturale desiderio di sicurezza? Solo
perché hanno paura della morte? Forse, anche perché hanno il coraggio di
vivere, lungo le 'sanguinate vie della storia', la ‘piccola vita' delle
‘individualità ridotte', in obbedienza alle ragioni della civiltà del lavoro e
della tecnica. Anche il pescatore stanco de | figli del mare ha questo
coraggio; e gli si deve rispetto, perché è anche un uomo ‘temprato
all'oggettività' nel senso hegeliano, un uomo 'giusto' nel senso platonico.
Rispetto non gli porta di fatto, Michelstaedter. In realtà, la lettura del
filosofo del lavoro è altamente prevenuta, e questo gli obnubila il senso della
Persuasione michelstaedteriana. Ne è prova quanto scrive in seguito,
indirizzando le sue frecciate a «quanti filosofeggiando si atteggiano a flebili
‘pastori dell'essere» [N 192 61], ossia «agli scopritori e ai riscopritori più
o meno nichilisteggianti di Michelstaedter» [N 71] (e anche qui ci trova
concordi). Ma per lui, già in partenza, quello di Michelstaedter è «il
desiderio di un libero volo oltre il mondo in cui vivono le 'anime implicate»
[N 70], e, in quanto tale, «è desiderio di morte»: «Michelstaedter tende a
'persuadere' ad un 'in-curia' o ‘non-curanza' della stessa società» [adattato
da N 81], ed egli, in questo, si rivelerebbe davvero «maestro di Svoradayoyia»
[N 81], ma un maestro così malefico, sottile e coerente da giungere persino ad
uccidersi per far valere tutta la cattiveria delle sue proposte; tal che il suo
suicidio fa] è un «gesto necessario della sua ‘pedagogia', che preferisce l'
‘essere’ al 'vivere', la ‘vita autentica' alla ‘vita inautentica' [[]» e visto
che [b] «c'è pure un egoismo nel darsi volontariamente la morte [!], senza
curarsi di quanto si può fare per gli altri anche o soprattutto come
‘individualità ridotte*». Ciò di cui il Negri priva i suoi lavoratori distinti
e i suoi soggetti civili è quello che Ernst Bloch chiamava principio speranza:
il che sarebbe anche la cosa meno grave. Infatti, egli dimentica altresì che
dietro tali figure sociali, inserite negli ingranaggi della città giusta, ci
sono degli uomini, e che le conquiste - e la dignità che ne deriva - sono
innanzitutto conquiste di consapevolezza umana, prima che acquisizioni
prettamente sociali o giuridiche o politiche. Egli scrive: Il nostro posto è
nella città, nel mondo del lavoro. Non c'è ideologia 'antilavoristica' che
tenga: il nostro compito resta quello di fare più giusta la città, più umano il
mondo del lavoro, non di uscirne fuori, di abbandonarlo [N 81-82]. Parole che
rivelano un grande, e giustificato, "pragmatismo", e ciò detto senza
alcuna allusione spregiativa. Il fatto è che Michelstaedter, scrivendo della
Persuasione, si pone su uno scalino indietro (o avanti, dipende dai punti di
vista) quando appunta il suo interesse piuttosto sulla dimensione dell'umano
che precede la sovrastruttura della giustizia cittadina e della socialità del
lavoro. Sinceramente, non vediamo in ciò alcuna «ideologia antilavoristica», né
una presa di posizione, come dire, gratuita e tignosa contro la "vita
empirica" degli uomini. Il merito di Michelstaedter è stato quello d'aver
individuato, al di là o al di sotto dell'alacrità sociale, un peccato umano tra
i più puniti anche da Dante: l'accidia spirituale. Di contro, il più grande
demerito dell'invincibile illusione sociale della rettorica - propinata
attraverso lo strumento ipnagogico della Svoradaywyix - è quello di obliterare
l'umanità degli uomini e d'incoraggiarne appunto l'accidia: tal che quando
Michelstaedter parla di «possesso presente della propria vita» non intende un
allontanarsi dalla congerie sociale, o semplicemente un disdegnarla (il che
sarebbe, oltre tutto, impossibile, vista la politicità che contraddistingue gli
uomini), ma un vivere la nostra esistenza, anche sociale, alla luce di una
nuova consapevolezza, di tipo socratico, che precede la stessa "coscienza
civile": ovvero, nella consapevolezza che in ogni uomo c'è un fondo di
Persuasione - un «centro religioso», direbbe Capitini - che dev'essere
recuperato e 193 salvaguardato, una plenitudo ed un'aeternitas che non è
astorica o ultramondana o antimondana, ma che rivela una dignità che
chiameremmo ontologica, se non avessimo timore di equivocare adottando un
termine abusato. La vita degli uomini, prima di essere vita di relazione in cui
ognuno dà e ognuno chiede (il cosiddetto mutualismo), è una interminabili vitae
tota simul et perfecta possessio?”9, tanto per prendere in prestito le parole
di S. Tommaso, e in questo l'uomo è assimilabile addirittura a Dio. In suddetta
convinzione michelstaedteriana - che è una bestemmia in bocca ad un ebreo, e
che forse segna il traguardo di presunzione di un pensiero che, al di là della
religiosità che lo sottende, si pone, per via di principio, come pensiero
"laico" - si palesa tutto l'amore e il rispetto di cui il Goriziano
investe gli uomini, il mondo e la vita stessa. Il Persuaso non vuol essere un
"persuasor di morte", un apolide o un paria, e se lo è, è l'ingiusta
conseguenza cui l'emarginazione rettorica lo destina; ed anche allora, il vir
non è un asceta che si rinchiude, beato, nella sua sdegnosa autosufficienza, o
un moralista che, da uno scranno, discetta sull'inettitudine o sulla
"senilità" degli uomini che, ignari del loro non- essere, si
affaccendano nel mondo. Il vir è Qohelet, partecipa comunque all'assemblea
degli uomini, «àncora la [sua] vita nella concreta molteplicità del prossimo»
[C 66]. La sua «anima ignuda» [PR 10] non è un abito di santità ch'egli indossa
per distinguere la propria nobiltà di spirito, ma il risultato di una
spoliazione dei travestimenti rettorici entro cui siamo «incamiciati», un
raggiungere la nudità del nostro essere sfrondando gli orpelli del sufficere, e
non un'angelolatria; e, ancora, l'«isola dei beati» [PR 10] non è un mondo
marziano o iperuranico, ma la città veramente giusta, la Gerusalemme dei
liberati, la agathon philia: «Paradiso non è l'assenza della finitezza, ma il
vincerla, con impeto di spirito sereno» [C 64]. Infine, l'esperienza della
Persuasione non è un'esperienza elitaria od escludente, visto che non ci sono
libri, ricettari o raccomandazioni che ci facilitano sulla via della
Persuasione: essa, per principio, si pone come democratica, e l'unica
condizione ch'essa ingiunge (se si può dir così) è che sta ad ogni singolo
individuo assumersi la responsabilità di imboccarla, prendere su di sé il
compito della propria realizzazione, avere il coraggio di costruire la propria
dignità di uomo: e quale migliore artifex di colui il quale è l'artefice unico
della propria umanità? «La persuasione religiosa suscita un sentimento e
un'iniziativa assoluta, e un fermento da rinnovare perennemente, e proprio
movendo da sé stessi, anche se soli» [C 113]: «libertà deve essere
continuamente liberazione » [C 108]. La consapevolezza del Tragico, in cui
"consiste" la Persuasione e la sua libertà, dunque, non mortifica
l'attività degli uomini, ma le conferisce un senso e una dignità addirittura
sovraumane, perché non accetta la vita così com'è, o come ci è data, ma
testimonia la "caparbietà" degli uomini, la loro eccedenza di vita,
anche nella consapevolezza di esseri- 319 Tommaso, Summae Theologiae, prima
pars quaestio X, De Dei aeternitate in sex articulos divisa, articulus |.
per-la-morte: e la stessa relazione dare-chiedere ne viene promossa a donare,
in un orizzonte di rispetto e di amore che coinvolge tutti gli enti mondani,
senza alcuna cesura metafisica o etica. E allora, non si incorra nell'equivoco EQUIVOCO
GRICE di scambiare la Persuasione per semplice determinazione, per mera
disposizione di volontà, per arbitrio di proprie convinzioni imposte alla
comunità degli uomini, per malevola, pertinace coerenza d'intenzioni
eccentriche o malsane: diversamente, si potrebbero a buon ragione dire persuasi
un Hitler o un Callicle. La dimensione persuasa non è una dimensione anarchica,
dove ognuno dice o fa ciò che vuole, convinto di realizzare una propria,
singolare, gretta persuasione: essa ha l'unico suo limite e l'unica sua legge
(che non è sintomo di eteronomia, perché autonoma assunzione di responsabilità)
nel confine segnato dalla libertà e dal diritto dell'altra persona: la
Persuasione «è stretta sulla base della non menzogna che è il riconoscimento in
altri della stessa volontà operante vicino alla mia finitezza, superamento
della separazione, atto di fede che attua la vicinanza, la trasparenza» [C
111]. La Persuasione è trasparenza etica. Che un simile "programma"
di umanità sia destinato al fallimento - o sia guardato con ironia, o sia
tacciato di melliflua retorica, che condisce una "adolescenziale"
illusione - non è una prova schiacciante da ribaltare sardonicamente contro il
suo autore, ma un ulteriore elemento di meditazione sulle dilaganti
potenzialità oniriche e violente - ovvero di una violenza occulta o scoperta, a
seconda dei casi - del dispositivo e dell'armamentario rettorico, che da sempre
ci affligge. Carlo Raimondo Michelstaedter. Carlo Michelstaedter.
Michelstaedter. Keywords: l’implicatura di Platone. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Michelstaedter: retorica
e persuasione," per il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library,
Villa Grice, Liguria, Italia. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Michelstaedter” –
The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Mieli: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’uccello del
paradiso; ovvero, la lingua perduta del desiderio – la Paradisaeidae di Swinton
– la scuola di Milano -- filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Milano). Filosofo italiano. Milano,
Lombardia. Grice: “Speranza has studied this; he calls it ‘Dorothea
Oxoniensis,’ and indeed it is a joint endeavour with C. R. Stevenson – who
*knows*!” -- «Spero che la lettura di questo libro favorisca la liberazione del
desiderio gay presso coloro che lo reprimono e aiuti quegli omosessuali
manifesti, che sono ancora schiavi del sentimento di colpevolezza indotto dalla
persecuzione sociale, a liberarsi della falsa colpa» (Elementi di critica
omosessuale. M Attivista e scrittore italiano, teorico degli studi di genere. È
considerato uno dei fondatori del movimento omosessuale italiano, nonché uno
tra i massimi teorici del pensiero nell'attivismo omosessuale italiano. Legato
al marxismo rivoluzionario, è noto soprattutto come eponimo del Circolo di
cultura omosessuale M. e per il suo saggio Elementi di critica omosessuale
pubblicato nella sua prima edizione da Einaudi nel 1977. M. penultimo dei
sette figli di Walter Mieli e di Liderica Salina. Il padre, ebreo e originario
di Alessandria d'Egitto, vive a Milano dalla metà degli anni venti e aveva
fondato con successo un'azienda di filati, divenuta in seguito una delle più
importanti nella torcitura e nella lavorazione della seta. La madre, milanese,
era insegnante di lingue. Sposati, durante la seconda guerra mondiale i
coniugi M. erano sfollati a Lora, frazione di Como. Mario crebbe in questa
cittadina, pur mantenendo forti legami con Milano dove il padre continuava a
lavorare e a risiedere. Il giovane Mario si stabilì definitivamente nel
capoluogo lombardo quando si iscrisse al liceo classico Giuseppe Parini, raggiunto
due anni dopo dalla sorella minore Paola, alla quale fu sempre molto legato.
Già in questi anni diede dimostrazione della sua viva intelligenza e dichiarò
la propria omosessualità. Secondo quanto testimoniato dal compagno Milo De
Angelis, nfondò un circolo di poesia che divenne anche un luogo di incontro per
omosessuali. Fu pienamente coinvolto nella contestazione ed evocò questo
periodo nel suo romanzo autobiografico Il risveglio dei faraoni. A causa
della sua miopia fu esonerato dal servizio militare alla fine del liceo, si
trasferì a Londra per perfezionare l'inglese, come già avevano fatto altri suoi
familiari. Qui frequentò il "Gay Liberation Front" venendo a contatto
con l'attivismo omosessuale nella sua fase più intensa, subito dopo i moti di
Stonewall. Tornato in Italia, fu, insieme ad Angelo Pezzana, tra i soci
fondatori del celebre Fuori! a Torino, prima associazione italiana del
movimento di liberazione omosessuale italiano. Convinto assertore di una
rivoluzione gay in chiave marxista, si allontanò dal Fuori! insieme a tutta la
cellula milanese dell'associazione quando questa si legò al Partito
Radicale. Nello stesso anno fondò a Milano i Collettivi Omosessuali
Milanesi e i Collettivi parteciparono al Festival del proletariato giovanile di
Parco Lambro, dove Mieli lanciò dal palco lo slogan Lotta dura, Contronatura!.
Si laureò in filosofia morale con una tesi, poi pubblicata con modifiche, da
Einaudi con il titolo di Elementi di critica omosessuale e che divenne un
fondamento delle teorie di genere in Italia e, in misura minore, all'estero,
venendo tradotto e pubblicato in inglese nel 1980 con il titolo Homosexuality
and liberation: elements of a gay critique ed in spagnolo con il titolo
Elementos de crítica homosexual dall'editrice Anagrama. Elementi fu uno dei
testi base dei collettivi autonomi gay. M. fu uno dei primi a contestare
apertamente le categorie di genere vestendosi quasi sempre con abiti femminili.
Nel frattempo si dedicava al teatro, destando scandalo nella mentalità dell'epoca
con opere come lo spettacolo La Traviata Norma. Ovvero: Vaffanculo... ebbene
sì! Dava volutamente scandalo anche per il modo in cui si presentava, utilizzò
anche immagini e ruoli per portare avanti la propria battaglia dei diritti
individuali inalienabili. Nel corso della sua esistenza, cercò di superare i
limiti, fece uso di droghe e si dette a pratiche sempre più estreme, inclusa la
coprofagia. Durante un viaggio a Londra, Mieli, vicino già
all'antipsichiatria, iniziò a interessarsi di psicoanalisi; fu nuovamente
arrestato, quando, semi-nudo e in preda a una crisi psichica, fu fermato
nell'aeroporto di Heathrow, in cerca di un poliziotto con cui avere un rapporto
sessuale. Prima venne incarcerato, poi messo nella sezione psichiatrica del
Marlborough Day hospital, assistito dai familiari venuti dall'Italia in attesa
del processo. Venne ricondotto a Milano, dopo la condanna a pagare una
multa, e ricoverato in una clinica psichiatrica per un mese. Una volta dimesso,
su consiglio del suo psicoanalista Zapparoli, i genitori gli diedero un
appartamento autonomo. L'anno seguente viaggiò ad Amsterdam e di nuovo a Londra
e si laurea con lode in filosofia. Poco dopo lasciò l'appartamento che gli
avevano trovato e interruppe la terapia psichiatrica. Al V congresso del
Fuori!, che sancì la sua rottura col movimento e con Pezzana, M. prese la
parola, si dichiarò transessuale e parlò della sua esperienza di malattia
mentale («sono stato definito uno schizofrenico paranoide, sono stato in
ospedale, in manicomio per questo motivo») e di omosessualità. Dopo questo
periodo si dedicò alla stesura degli Elementi di critica omosessuale.
Negli ultimi anni di vita si dedicò all'esoterismo e all'alchimia, abbastanza
isolato dal resto del movimento omosessuale, e lavorando al romanzo Il
risveglio dei faraoni. Morì suicida infilando la testa nel forno della sua
abitazione di Milano dopo un lungo periodo di depressione. Tra i motivi del suo
gesto estremo fu l'ostruzionismo che il padre, influente industriale milanese,
aveva fatto per impedire la pubblicazione della sua ultima opera, Il risveglio
dei faraoni, ritenendolo troppo autobiografico e lesivo dell'onore famigliare.
A lui è intitolato il Circolo di cultura omosessuale M. sorto a Roma nello
stesso anno della morte. Il pensiero Il transessualismo universale Il
pensiero di M. consiste nel ritenere che ogni persona è potenzialmente
transessuale se non fosse condizionata, fin dall'infanzia, da un certo tipo di
società che, attraverso quella che Mieli chiamava "educastrazione",
costringe a considerare l'eterosessualità come normalità e tutto il resto come
perversione. Per transessualità, non intende quello che si intende oggi nella
comune accezione del termine, ma l'innata tendenza polimorfa e
"perversa" dell'uomo, caratterizzata da una pluralità delle tendenze
dell'Eros e da l'ermafroditismo originario e profondo di ogni individuo.
La liberazione omosessuale in chiave marxista fu tra i primi studiosi ed
attivisti del Movimento di Liberazione Omosessuale Italiano, accanto a Castellano,Consoli,
Modugno e Pezzana. Tutti partivano dalla
certezza che la liberazione dall'ancestrale omofobia dovesse fondarsi sulla
consapevolezza della propria identità, censurata fin dalla nascita dalla
cultura dominante, da loro ritenuta antropologicamente sessuofoba e
pervicacemente omofoba. Da queste basi partivano per abbattere la
discriminazione pluri-secolare nei confronti di chi non si identificava nella
sessualità assiomaticamente definita come naturale e normale. Abbracciò
immediatamente il marxismo, cercando di rimodularlo sulle istanze della lotta
di liberazione ed emancipazione omosessuale e ritenendo la società capitalista
intrinsecamente omofoba. Rilettura della psicanalisi Negli Elementi di
critica omosessuale, volle rielaborare alcuni degli spunti teorici della teoria
della sessualità di Freud, attraverso la lettura che, tra gli anni Cinquanta e
Sessanta, ne aveva fatto Marcuse.
Marcuse, infatti, in opere come “Eros e civiltà e L'uomo a una dimensione aveva
voluto fondere marxismo e psicanalisi. Fu proprio Freud, infatti, a sostenere
che l'orientamento sessuale poteva prendere qualsiasi "direzione",
riconducendo eterosessualità e "omosessualità a semplici varianti della
sessualità umana in senso lato. Una non escluderebbe l'altra, e anzi, in
potenza, tutti saremmo pluri-sessuali, "polimorfi" o, più
semplicemente, bi-sessuali. In base a questa riflessione, riteneva che si
dovesse denunciare come assurda e inconsistente l'opposizione ideologica
"eterosessuale" vs "omosessuale", essendo viziato il
principio stesso di "mono-sessualità". A questa prospettiva
unilaterale, che riteneva incapace di cogliere la natura ambivalente e dinamica
della dimensione sessuale, M. ha preferito opporre un principio di eros libero,
molteplice e polimorfo. Per Mieli era tragicamente ridicola «la stragrande
maggioranza delle persone, nelle loro divise mostruose da maschio o da
"donna.” Se il travestito appare ridicolo a chi lo incontra, tristemente
ridicolissima è per il travestito la nudità di chi gli rida in
faccia». Dean, psicoanalista dell'Buffalo, che redasse l'appendice
dell'edizione Feltrinelli di Elementi di critica omosessuale, afferma: «Nel
processo politico di ristrutturazione della società, M. non esita a includere
nel suo elenco di esperienze redentive la pedofilia, la necrofilia e la
coprofagia» e «ridefinisce drasticamente il comunismo descrivendolo come
riscoperta dei corpi. In questa comunicazione alla Bataille di forme materiali,
la corporeità umana entra liberamente in relazioni egualitarie multiple con
tutti gli esseri della terra, inclusi "i bambini e i nuovi arrivati di
ogni tipo, corpi defunti, animali, piante, cose" annullando
"democraticamente" ogni differenza non solo tra gli esseri umani ma
anche tra le specie». A questa rivoluzione sociale sono di ostacolo
determinati elementi, ritenuti da Mieli come «pregiudizi di certa canaglia
reazionaria» che, trasmessi con l'educazione, hanno la colpa di «trasformare
troppo precocemente il bambino in adulto eterosessuale». Il tema della
pedofilia Da provocatore dei "benpensanti", quale è stato tutta la
breve vita, facendo esplicitamente riferimento a Freud, M. affrontò a modo suo
anche il tema della sessualità infantile, per questo andando incontro a forti
critiche. I bambini, secondo il pensiero di Mieli, potevano
"liberarsi" dai pregiudizi sociali e trovare la realizzazione della
loro "perversità poliforme" grazie ad adulti consapevoli di quanto
sopra asserito: «Noi checche rivoluzionarie sappiamo vedere nel bambino non
tanto l'Edipo, o il futuro Edipo, bensì l'essere umano potenzialmente libero.
Noi, sì, possiamo amare i bambini. Possiamo desiderarli eroticamente
rispondendo alla loro voglia di Eros, possiamo cogliere a viso e a braccia
aperte la sensualità inebriante che profondono, possiamo fare l'amore con loro.
Per questo la pederastia è tanto duramente condannata. Essa rivolge messaggi
amorosi al bambino che la società invece, tramite la famiglia, traumatizza,
educastra, nega, calando sul suo erotismo la griglia edipica. La società
repressiva eterosessuale costringe il bambino al periodo di latenza; ma il
periodo di latenza non è che l’introduzione mortifera all’ergastolo di una
«vita» latente. La pederastia, invece, «è una freccia di libidine scagliata
verso il feto» (Francesco Ascoli)» (Elementi di critica omosessuale).
Nella nota 88 si legge: «Per pederastia intendo il desiderio erotico
degli adulti per i bambini (di entrambi i sessi) e i rapporti sessuali tra
adulti e bambini. Pederastia (in senso proprio) e pedofilia vengono comunemente
usati come sinonimi» (Elementi di critica omosessuale). Il tema
dell'alterazione psichica, della follia Mieli faceva uso di sostanze
stupefacenti, attraverso le quali mirava a superare lo stato di normalità in
cui riteneva le persone intrappolate. Riteneva che nevrosi, follia, paranoia,
delirio e, soprattutto, la schizofrenia, al pari dell'omosessualità fossero
caratteristiche latenti in tutti gli esseri umani e, con riferimento a Jung,
che tali condizioni permettessero «la (ri)scoperta di quella parte di noi che
Jung definirebbe “Anima” oppure “Animus”». In riferimento all'omosessualità,
considerava che potesse essere una porta verso il lato inesplorato della
personalità, in analogia con la follia: “La paura dell’omosessualità che
distingue l’homo normalis è anche terrore della “follia” (terrore di se stesso,
del proprio profondo). Così, la liberazione omosessuale si pone davvero come
ponte verso una dimensione decisamente altra: i francesi, che chiamano folles
le checche, non esagerano». Opere: “Comune futura,” “Elementi di critica
omosessuale, Einaudi, Torino, Elementi di critica omosessuale, Barilli e M.,
Feltrinelli, Milano, Elementi di critica
omosessuale, G. Barilli e Paola Mieli, Feltrinelli, Milano, “Il risveglio dei
faraoni,” preservato da Marc de' Pasquali e Umberto Pasti, Cooperativa Colibri,
Milano, “Il risveglio dei faraoni,” Alfonso Sarrio Solidago, dR, Milano, “Oro, eros e armonia,” G. Silvestri e A.Veneziani,
Edizioni Croce, Oro, eros e armonia, Gianpaolo Silvestri e Antonio Veneziani,
Edizioni Croce, “E adesso,” S. Laude,
Clichy, Teatro La Traviata Norma.
Ovvero: Vaffanculo... ebbene sì!, Film “Gli anni amari, regia di A. Adriatico..
T. Giartosio, Perché non possiamo non
dirci: letteratura, omosessualità, mondo, Feltrinelli, Barilli, Il movimento gay in Italia,
Feltrinelli, L. Schettini, M. in Dizionario biografico degli italiani, Roma,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Ideologia. Progetto omosessuale
rivoluzionario, in Elementi di critica omosessuale, Dizionario Biografico degli
Italiani, in Treccani, Trascrizione del suo intervento in congresso nazionale
del “Fuori!”, in Fuori! rancobuffoni/ files/pdf/gp_leonardi_mieli.pdf M., artista contro la violenza, in La
Stampa, Elementi di critica omosessuale,
Einaudi, M. Elementi di critica omosessuale. Milano, Einaudi, Estremo e
dimenticato. Storia di un intellettuale provocatore., in Treccani Il tascabile,
M., Mieli, Paola. e Rossi Barilli, Gianni., Elementi di critica omosessuale Il
risveglio dei Faraoni, in A. Solidago, PRIDE, Milano, dR Edizioni, Silvestri,
L'ultimo M.: Oro Eros Armonia: contributi di Ivan Cattaneo e A. Veneziani, 2
ed. riveduta e corretta, Libreria Croce, De Laude, Silvia,, Mario Mieli: e
adesso, A. Pezzana. La politica del
corpo. Roma, Savelli, E. Modugno. La mistificazione eterosessuale. Milano,
Kaos. S. Casi. L'omosessualità e il suo doppio: il teatro di M. Rivista di
sessuologia (numero speciale L'omosessualità fra identità e desiderio,Francesco
Gnerre. L'eroe negato. Milano, Baldini e Castoldi, M. Philopat, Lumi di punk:
la scena italiana raccontata dai protagonisti, Milano, Agenzia, Concetta
D'Angeli, Teatro Talento Tenacia... Mario Mi"Atti&Sipari" Circolo
di cultura omosessuale Mario Mieli Fuori! Marc de' Pasquali Movimento di
liberazione omosessuale Omosessualità Queer Storia dell'omosessualità in Italia
Studi di genere Teoria queer Transessualismo. Biografia, in italiano, su
culturagay. Chi era M. (articolo sul
gay.tv), su gay.tv Circolo di cultura omosessuale "Mario
Mieli", su mariomieli.org. Mario Mieli. Mieli. Keywords: l’uccello del
paradiso; overo, la lingua perduta del desiderio. Refs. Luigi Speranza, “Grice
e Mieli” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!;
ossia, Grice e Miglio: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale -- implicatura ligure – la LIGVRIA e la PADANIA – la scuola di
Como – filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Como). Filosofo Lombardo.
Filosofo italiano. Como, Lombardia. Grice:
“Berlin, who thought was a philosopher, ended up lecturing on the history of
ideas, i..e. ideology – M. defines ideology so simply that would put Berlin to
shame: an ideology is what politicians propagate to reach or buy consensus!”
-- essential Italian philosopher. Sostenitore della trasformazione dello Stato italiano
in senso federale o, addirittura, confederale, fra gli anni ottanta e i
novanta è considerato l'ideologo della Lega Lombarda, in rappresentanza della
quale fu anche senatore, prima di "rompere" con Umberto Bossi dando
vita alla breve stagione del Partito Federalista. Polo scolastico
"M." ad Adro. Costituzionalista e scienziato della politica, fu
senatore della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura. Ha
insegnato presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, ove fu
preside della Facoltà di Scienze politiche. È stato allievo d’Entrèves e
Pallieri, sotto la cui docenza si è formato sui classici del pensiero giuridico
e politologico. Colpito da ictusnon si riprese e morì ottantatreenne
nella sua stessa città natale, Como, circa un anno dopo. Il funerale si tenne a
Domaso, sul Lago di Como, comune d'origine del padre e sede di una villa nella
quale il professore si rifugiava spesso; in seguito M. è stato tumulato nel
locale cimitero, a fianco dei membri della sua famiglia. Laureatosi in
Giurisprudenza all'Università Cattolica con la tesi, “Origini e i primi
sviluppi delle dottrine giuridiche internazionali pubbliche nell'età moderna”, evitò
l'arruolamento per la Seconda guerra mondiale a causa di un difetto uditivo
congenito, e poté divenire assistente volontario alla cattedra di Storia delle
dottrine politiche, che d'Entreves tenne sino alla fine degli anni quaranta
nella medesima università. Libero docente, si dedicò negli anni cinquanta
allo studio delle opere di storici e giuristi, soprattutto tedeschi: dai
quattro volumi del Deutsche Genossenschaftsrecht di Gierke, ai saggi di storia
amministrativa di Otto Hintze, alcuni dei quali, negli anni seguenti, vennero
tradotti in italiano dal suo allievo e ferrato germanista Schiera (O. Hintze, Stato e società,
Zanichelli). Fu di quegli anni l'incontro di M. con l'immensa produzione
scientifica di Weber: il professore comasco fu uno dei primi ad aver studiato a
fondo “Economia e Società”, l'opera più importante del sociologo tedesco che
era stata completamente trascurata in Italia. Sviluppo del lavoro
scientifico Miglio storico dell'amministrazione Alla fine degli anni cinquanta,
M. fonda con il giurista Benvenuti l'ISAP Milano (Istituto per la Scienza
dell'Amministrazione Pubblica), ente pubblico partecipato da Comune e Provincia
di Milano, di cui ricopri per alcuni anni la carica di vicedirettore. In un
saggio memorabile intitolato Le origini della scienza dell'amministrazione, il
professore comasco descriveva con elegante chiarezza le radici storiche della
disciplina. L'interesse per il campo dell'amministrazione era dovuto in quegli
anni alle politiche pianificatrici che gli stati andavano conducendo per
l'incremento della crescita economica. La Fondazione italiana per la
storia amministrativa Ben presto M. sente tuttavia l'esigenza di studiare in
modo più sistematico la storia dei poteri pubblici europei e, negli anni
sessanta, costituì la Fondazione italiana per la storia amministrativa: un
istituto le cui ricerche vennero condotte con rigoroso metodo scientifico. A
tal proposito, il professore aveva appositamente preparato per i collaboratori
della fondazione uno schema di istruzioni divenuto famoso per chiarezza e
organicità. In realtà, fondando la F.I.S.A. M. si era posto l'ambizioso
obiettivo di scrivere una storia costituzionale che prendesse in esame le
amministrazioni pubbliche esistite in luoghi e tempi diversi: in tal modo egli
sarebbe riuscito a tracciare una vera e propria tipologia delle istituzioni dal
medioevo all'età contemporanea, al cui interno sarebbero stati indicati i
tratti distintivi o, viceversa, gli elementi comuni di ogni potere pubblico. Ma
v'era un'altra ragione che aveva indotto M. a studiare i poteri pubblici in
un'ottica, come scriveva lui stesso, analogico-comparativa. Servendosi di
un metodo scientifico che Hintze aveva parzialmente seguito nella prima metà
del Novecento, il professore comasco intendeva definire l'evoluzione storica
dello stato moderno, storicizzando in tal modo le stesse istituzioni contemporanee.
La fondazione pubblica tre collezioni: gli Acta italica, l'Archivio (diviso in
due collane: la prima riguardante ricerche e opere strumentali, la seconda
dedicata alle opere dei maggiori storici dell'amministrazione) e gli Annali.
Tra i più autorevoli lavori storici pubblicati nell'Archivio, si ricordano il
volume sui comuni italiani di Goetz e il famoso saggio di Vaccari sulla
territorialità del contado medievale. Nella prima serie alcuni giovani studiosi
poterono invece pubblicare le loro ricerche di storia delle istituzioni:
Rossetti, allieva dello storico Violante, vi diede alle stampe un approfondito
studio sulla società e sulle istituzioni nella Cologno Monzese dell'Alto
Medioevo; Petracchi pubblicò la prima parte di un'interessante ricerca sullo
sviluppo storico dell'istituto dell'intendente nella Francia dell'ancien
régime; occorre inoltre ricordare il poderoso volume di Pierangelo Schiera sul
cameralismo tedesco e sull'assolutismo nei maggiori stati germanici. Su tutt'altro
piano si poneva invece la collezione della F.I.S.A. denominata Acta italica: al
suo interno dovevano essere pubblicati i documenti relativi all'amministrazione
pubblica degli stati italiani preunitari: è probabile che l'ispirazione per
quest'ultima serie fosse venuta a M. dallo studio delle opere di Hintze:
lo storico tedesco aveva infatti scritto alcuni saggi sull'amministrazione
prussiana pubblicandoli negli Acta borussica, un'autorevole collana che
raccoglieva le fonti storiche dello stato degli Hohenzollern. L'edizione
dei lavori della commissione Giulini Tra i volumi degli Acta italica, occorre
ricordare l'edizione dei lavori della Commissione Giulini curata da Raponi uno
studio cui M. tenne molto e di cui si servì, molti anni dopo, per la stesura
del celebre saggio su “Vocazione e destino dei lombardi” (in La Lombardia moderna, Electa, ripubblicato in
Miglio, Io, Bossi e la Lega, Mondadori). La commissionei cui lavori avevano
avuto luogo a Torino sotto la presidenza del nobile milanese Cesare Giulini
della Portaaveva il compito di elaborare progetti di legge che sarebbero
entrati in vigore in Lombardia nel periodo immediatamente successivo alla
guerra. Cavour, che in quegli anni ricopriva la carica di primo ministro,
voleva che il governo, nel sancire l'annessione dei nuovi territori al Piemonte
di Vittorio Emanuele, mantenesse separati gli ordinamenti amministrativi delle
due regioni, lasciando che in Lombardia continuassero a sussistere una parte
delle istituzioni austriache esistenti. Il saggio Le contraddizioni dello
stato unitario Nel saggio magistrale Le contraddizioni dello stato unitario scritto
in occasione del convegno per il centenario delle leggi di unificazione, M.
prese in esame gli effetti devastanti che l'accentramento amministrativo aveva
provocato nel sistema politico italiano. La classe politica italiana non fu
capace di elaborare un ordinamento amministrativo che consentisse allo stato di
governare adeguatamente un territorio esteso dalle Alpi alla Sicilia.
Ricorrendo a una felice similitudine, il professore scrisse che la scelta di
estendere le norme piemontesi a tutta Italia fu come "far indossare a un
gigante il vestito di un nano". Secondo M., i nostri "padri della
patria", spaventati dalle annessioni a cascata e dalle circostanze
fortunose in cui era avvenuta l'unificazione, preferirono conservare
ottusamente gli istituti piemontesi, costringendo la stragrande maggioranza
degli italiani ad essere governati da istituzioni che, oltre ad essere
percepite come "straniere", si rivelarono palesemente
inefficienti. Nel saggio, M. ha però messo in luce un altro dato
fondamentale; il professore scrisse che il paese, quantunque fosse stato
formalmente unito dalle norme piemontesi, continuò nei fatti a restare diviso
ancora per molti anni: le leggi, che il Parlamento emanava dalle Alpi alla
Sicilia, venivano infatti interpretate in cento modi diversi nelle regioni
storiche in cui il Paese continuava, nonostante tutto, ad essere naturalmente
articolato. Era il federalismo che, negato alla radice dalla classe politica
liberal-nazionale in nome dell'unità, si prendeva ora la rivincita traducendosi
in forme evidenti di "criptofederalismo".[senza fonte] Sono
inoltre fondamentali, nella sua formazione i saggi di Brunner. Di Brunner fa
tradurre svariati saggi, Per una nuova storia costituzionale e sociale (Vita e
Pensiero), ma promosse anche la pubblicazione dell'opera monumentale Land und
Herrschaft: in questo lavorouscito per la prima volta Brunner aveva preso in
esame la costituzione materiale degli ordinamenti medievali, ponendo in
evidenza i numerosi elementi di diversità tra la civiltà dell'età di mezzo e
quella moderna, soprattutto nel modo di concepire il diritto. La
traduzione di Land und Herrschaft, affidata inizialmente alle cure di Emilio
Bussi, sarebbe dovuta comparire nell'elegante collana della F.I.S.A. già negli
anni sessanta. Interrotto negli anni seguenti, il lavoro venne invece portato a
compimento solo nei primi anni ottanta dagli allievi Schiera e Nobili.
Pubblicato da Giuffré con il titolo di "Terra e potere", il capolavoro
di Brunner apparve negli Arcana imperii, la collana di scienza della politica
di cui M. era divenuto direttore. Il professore comasco si occupò inoltre dei
contributi recati alla scienza dell'amministrazione da parte di altri due
storici e giuristi tedeschi: Stein e Gneist. La chiusura della FISA Negli
anni Settanta la F.I.S.A. dovette chiudere i battenti per mancanza di
fondi. Il professor M., ricordando a distanza di tempo la fine di
quell'autorevole collana di storia delle istituzioni, ne espose le ragioni con
un breve commento: "Malgrado la sua efficienza, la F.I.S.A. ebbe vita
breve: gli enti che provvedevano al suo finanziamento, non scorgendo l'utilità
politica immediata della sua attività, strinsero i cordoni della borsa. M.
scienziato della politica e costituzionalista Negli anni ottanta, il
degenerarsi del clima politico in Italia indusse il professor M. ad occuparsi
di riforme istituzionali; egli intendeva contribuire in tal modo alla
modernizzazione del paese. Fu così che, raggruppando un gruppo di esperti di
diritto costituzionale e amministrativo stese un organico progetto di riforma
limitato alla seconda parte della costituzione. Ne uscirono due volumi che,
pubblicati nella collana Arcana imperii, vennero completamente trascurati dalla
classe politica democristiana e socialista. Tra le proposte più interessanti
avanzate dal "Gruppo di Milano"così venne definito il pool di
professori coordinati da M. v'era il rafforzamento del governo guidato da un
primo ministro dotato di maggiori poteri, la fine del bicameralismo perfetto
con l'istituzione di un senato delle regioni sul modello del Bundesrat tedesco,
ed infine l'elezione diretta del primo ministro da tenersi contemporaneamente a
quella per la camera dei deputati. Secondo il gruppo di Milano, queste e
numerose altre riforme avrebbero garantito all'Italia una maggiore stabilità
politica, cancellando lo strapotere dei partiti e salvaguardando la separazione
dei poteri propria di uno stato di diritto. Diversamente dalla F.I.S.A., la
collana Arcana imperii era incentrata esclusivamente sullo studio scientifico
dei comportamenti politici. Il citato volume di Brunner costituì pertanto
un'eccezione perché, come si è avuto modo di accennare, esso doveva essere
pubblicato negli eleganti volumi della F.I.S.A. All'interno della collana
Arcana imperii vennero invece inseriti saggi e contributi di psicologia
politica, di etologia, di teoria politica, di economia, di sociologia e di
storia. Intende costituire un vero e proprio laboratorio dove lo
scienziato della politica, servendosi dei risultati portati alla disciplina
dalle diverse scienze sperimentali, e in grado di conseguire una formazione che
si ponesse all'avanguardia. Vi vennero pubblicati più di trenta saggi. Si
ricordano, tra gli altri: il saggio di Ornaghi sulla dottrina della
corporazione nel ventennio fascista, l'edizione degli scritti schmittiani su Hobbes,
la pubblicazione interrotta di alcune opere di Stein, il trattato di diritto
costituzionale di Smend. Degni di nota anche i saggi di Mises e Hayek. I saggi
di squisita fattura, non poterono tuttavia eguagliare l'elegante veste
tipografica di quelli pubblicati dalla F.I.S.A., ed un identico destino parve
accomunare le due collane: anche in questo caso, e infatti costretto a
sospendere le pubblicazioni. Alla sua formazione contribuirono i saggi di
Stein e Schmitt sulle categorie del politico. In ogni comunità sono presenti
due realtà irriducibili: lo “stato” e la “società”. La società è il terreno
della libera iniziativa, ove gli uomini forti vincono sui deboli e tentano di
stabilizzare le loro posizioni attraverso l'ordinamento giuridico. Lo stato è
invece il luogo ove regna il principio di uguaglianza. Lo stato italiano o non
può che identificarsi con la monarchia. Il re d’Italia è infatti l'unica
autorità in grado di intervenire a sostegno dei più deboli. Un monarca, attraverso
il potere di ordinanza, e in grado di modificare la costituzioni giuridiche
cetuali all'interno del suo territorio, una politica che il re d’Italia puo condurre
in porto non senza grosse difficoltà, a vantaggio del BENE COMUNE. Questo e
accaduto nel granducato di Toscana e in Lombardia. Quando si sostene che il
ruolo dello stato italiano dove contro-bilanciare quello della società, si ha in
mente il riformismo illuminato. Ma la sua filosofia si pone all'interno di uno
“stato liberale” e parte dal presupposto che la monarchia, lungi dall'essere un
potere assoluto, dove comunque fare i conti con il potere della “società”
attestato nel parlamento. La omunità prospera solo quando stato e società sono
in equilibrio, ugualmente vitali ed operanti. Una comunità e dominata da due
realtà irriducibili. Lo stato italiano è una realtà storica inserita nel tempo
e, come tutte le creature e specie viventi, destinata a decadere, a scomparire
ed essere sostituita da altre forme di aggregazione politica. La società non e
solo economico-giuridica. E senza dubbio decisivo l'incontro con Schmitt, i cui
saggi sono trascurate dagli intellettuali italiani. L'aiuto che Schmitt presta
al regime hitleriano, in particolare nel sostenere la legalità delle leggi
razziali in un sistema di diritto internazionale, sono più che sufficienti per
oscurare in Italia la sua imponente produzione. I rapporti di Schmitt con il
nazismo sono di breve durata. Prende definitivamente le distanze da Hitler. Di
Schmitt apprezza i saggi di scienza politica e di diritto internazionale. Cura
assieme a Schiera l'edizione italiana di alcuni saggi pubblicati dal Mulino con
il titolo Le categorie del politico. Nella prefazione, si sofferma sui decisivi
contributi portati da Schmitt alla scienza politologica. L'antologia desta
scalpore nel mondo accademico. Bobbio sostenne che destabilizza la sinistra
italiana. È dall'incontro con la produzione di Schmitt che riusce quindi a fabbricarsi
gli strumenti per costruire una parte importante del suo modello sociologico.
L’essenza del politico è fondata sul conflitto tra amico e nemico. E uno
scontro all'ultimo sangue perché la guerra politica porta normalmente
all'eliminazione fisica dell'avversario. L’esempio più emblematico di scontro
politico fosse la guerra civile nella storia dell aroma antica -- tra fazioni
partigiane. Qui il tasso di conflittualità tra amico (Catone) e nemico (Giulio
Cesare) è sempre stato altissimo. Chi ha lo stesso amico non può che avere lo
stessi nemico del proprio compagno di lotta. Si crea la solidarietà tra due
membri (un gruppo) che è decisivo nella guerra contro l’altro gruppo di nemici.
Il rapporto politico è sempre esclusivo. Marca l'identità del gruppo in
opposizione a quella degli altri. L’avvento dello stato italiano portato a
due risultati di eccezionale portata storica. Primo: la fine della guerre
civile all'interno del territorio (le faide e le guerre confessionali) con
l'annientamento del ruolo politico detenuto sino a quel momento dalle fazioni
in lotta (dai partiti confessionali ai ceti). Da quel momento il sovrano e il
supremo garante dell'ordine all'interno dello stato, territorio sempre più
esteso ch'esso governa servendosi di un apparato amministrativo regolato dal
diritto. Il secondo grande risultato e per certi versi una conseguenza del
primo: l'avvento dello stato porta all'erezione di un sistema di diritto
pubblico europeo (ius publicum europeum) assolutamente vincolante per i paesi
che vi aderirono. Anche in questo caso, il tasso di politicità (cioè
l'aggressività delle parti in lotta, gli stati) venne fortemente limitato. La
guerra legittima, intraprese solo dagli stati, vennero condotte da quel momento
in base alle regole dello ius publicum europaeum. Si tratta quindi di un
conflitto a basso tasso di politicità, non foss'altro perché la vittoria di una
delle parti in lotta non puo portare in alcun modo all'annientamento
dell'avversario, il cui diritto di esistenza era tutelato dal diritto e
accettato da tutti gli stati. La crisi dello ius publicum europaeum,
divenuta palese alla fine della Grande Guerrae acuitasi ulteriormente con lo
scoppio delle guerre partigiane nei decenni successivi, resero palese a lui la
fine della regle de droit su cui si e fondato l'universo giuridico occidentale
nei rapporti internazionali tra stati sovrani. La guerra civile e, in modo
particolare, l'estrema politicizzazione avvenuta durante le guerre mondiali con
la criminalizzazione degli avversari lo persuasero che la fine dello ius
publicum europaeum era ormai compiuta. In questo, vide soprattutto il
fallimento della civiltà giuridica occidentale nel suo supremo tentativo di
fondare i rapporti umani unicamente sulle basi del diritto. Prende atto
della fine dello ius publicum europaeum ma non crede che tale processo segna la
fine del diritto e la vittoria definitiva delle leggi aggressive della
politica. Fondando il suo originale modello sociologico, sostenne che la
comunità e sempre rette su due tipi di rapporti: l'obbligazione politica e il
contratto-scambio. Lo stato e un autentico capolavoro perché, apportando un
contributo decisivo alla sua costituzione, il giurista e riuscioi a regolare la
politica inserendola in una norma fondata sulla RAZIONALITA del diritto, sull'IM-PERSONALINTA
del comando e sui concetti di CON-TRATTO e rappresentanza -- elementi
appartenenti alla sfera del contratto/scambio. Il crollo dello ius
publicum europeum ha però messo in crisi la stessa impalcatura su cui si regge
lo stato, che ora dimostra tutta la sua storicità. Non rimane legato all'idea
dell'organizzazione statale. La civiltà occidentale, stesse attraversando una
fase di transizione al termine della quale lo stato e probabilmente sostituito
da altre forme di comunità ove obbligazione politica e contratto/scambio si
reggeranno in un nuovo equilibrio. Lo stato e e giunto al capolinea. Il
progresso tecnologico e, in modo particolare, il più alto livello di ricchezza
cui erano giunti i paesi occidentali lo convinsero che negli anni successivi
sono avvenuti cambiamenti di portata radicale, tali da coinvolgere anche la
costituzione degli ordinamenti politici. Lo stato ha difficoltà nel garantire
servizi efficienti alla popolazione. Ciascun cittadino, vedendo
accresciuto il proprio tenore di vita in forza dell'economia di mercato,
sarà infatti portato ad avere sempre meno fiducia nei lenti meccanismi della
burocrazia pubblica, ch'egli riterrà inadeguata a soddisfare i suoi standard di
vita. L'elevata produttività dei paesi avanzati e la vittoria definitiva
dell'economia di mercato su quella pubblica porterà in altri termini a nuove
forme di aggregazione politica al cui interno i cittadini saranno desti contare
in misura molto maggiore rispetto a quanto non lo siano oggi nei vasti stati in
cui si trovano inseriti. Secondo il professore gli stati democratici, ancora
fondati su istituti rappresentativi risalenti all'Ottocento, non riusciranno
più a provvedere agli interessi della civiltà tecnologica. Con il crollo del
muro di Berlino e la fine della guerra fredda, si creano in altri termini le
premesse perché la politica cessi di ricoprire un ruolo primario nelle comunità
umane e venga invece subordinata agli interessi concreti dei cittadini, legati
alla logica di mercato. La fine degli stati moderni porterà secondo
Miglio alla costituzione di comunità neofederali dominate non più dal rapporto
politico di comando-obbedienza, bensì da quello mercantile del contratto e
della mediazione continua tra centri di potere diversi: sono i nuovi gruppi in
cui sarà articolato il mondo di domani, corporazioni dotate di potere politico
ed economico al cui interno saranno inseriti gruppi di cittadini accomunati
dagli stessi interessi. Secondo il professore, il mondo sarà costituito da una
società pluricentrica, ove le associazioni territoriali e categoriali vedranno
riconosciuto giuridicamente il loro peso politico non diversamente da quanto
avveniva nel medioevo. Di qui l'appello a riscoprire i sistemi politici
anteriori allo stato, a riscoprire quel variegato mosaico medievale costituito
dai diritti dei ceti, delle corporazioni e, in particolar modo, delle libere
città germaniche. Il professore studiò a fondo gli antichi sistemi
federali esistiti tra il medioevo e l'età moderna: le repubbliche urbane dell'Europa
germanica, gli ordinamenti elvetici d'antico regime, la Repubblica delle
Province Unite e, da ultimo, gli Stati Uniti. Ai suoi occhi, il punto di forza
risiedeva precisamente nel ruolo che quei poteri pubblici avevano saputo
riconoscere alla società nelle sue articolazioni corporative e territoriali. M.
si dedica allo studio approfondito di questi temi, progettando di scrivere un
volume intitolato l'Europa degli Stati contro l'Europa delle città. Il libro è
rimasto incompiuto per la morte del professore. L'impegno politico
diretto e il federalism. S iscrisse alla neonata Democrazia Cristiana, che
lascia quando divenne preside della Facoltà di Scienze politiche
dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. M. rimase comunque legato culturalmente alla DC
fnell'immediato domani della Liberazione, fu tra i fondatori, a Como, del
movimento federalista Il Cisalpino, con altri docenti dell'Università Cattolica
di Milano. Ispirato alle idee di Cattaneo, il programma del “Cisalpino”
prevedeva la suddivisione del territorio italiano su base cantonale, secondo il
modello svizzero, con la costituzione di tre grandi macro-regioni (“nord”, “sud”
e “centro”). Il suo nome e proposto per il conferimento del titolo di
Commendatore dell'Ordine al Merito della Repubblica Italiana, ma una volta
informato del fatto rifiuta di accettare l'onorificenza, che venne annullata
con un successivo decreto presidenziale. Si avvicina alla Lega Nord. Eletto al
Senato della Repubblica come indipendente nelle liste della “lega nord” “lega lombarda”
(da allora a lui fu attribuito l'appellativo lombardo di Profesùr) lavora per
il partito con l'intento di farne un'autentica forza di cambiamento. Elabora
un progetto di riforma federale fondato sul ruolo costituzionale assegnato
all'autorità federale e a quella delle tre macro-regioni o cantoni (del Nord o,
“Padania”, del Centro o Etruria, del Sud o Mediterranea, oltre alle cinque
regioni a statuto speciale). Questa architettura costituzionale prevedeva
l'elezione di un governo direttoriale composto dai governatori delle tre
macroregioni, da un rappresentante delle cinque regioni a statuto speciale e
dal presidente federale. Quest'ultimo, eletto da tutti i cittadini in due
tornate elettorali, avrebbe rappresentato l'unità del paese. I puntisalienti
del progetto, esposti nel decalogo di Assago vennero fatti propri dalla Lega
Nord solo marginalmente: il segretario federale, Bossi, preferì infatti
seguire una politica di contrattazione con lo stato centrale che mirasse
al rafforzamento delle autonomie regionali. Il dissenso di Miglio, iniziato al
congresso leghista di Assago, si acuì dopo le elezioni politiche, dove fu
rieletto al Senato, quando il professore si disse non d'accordo sia ad allearsi
con Forza Italia, sia a entrare nel primo governo Berlusconi. Soprattutto M.
non gradì che per il ruolo di ministro delle Riforme istituzionali fosse stato
scelto Francesco Speroni al suo posto. Bossi reagì spiegando: «Capisco
che Miglio sia rimasto un po' irritato perché non è diventato ministro, ma non
si può dire che non abbiamo difeso la sua candidatura. Il punto è che era molto
difficile sostenerla, perché c'era la pregiudiziale di Berlusconi e di Fini
contro di lui. Di fatto, il ministero per le Riforme istituzionali a lui non lo
davano. (Se M. vorrà lasciare la strada della Lega, libero di farlo. Ma vorrei
ricordargli che è arrivato alla Lega e che, a quell'epoca, il movimento aveva
già raggranellato un sacco di consiglieri regionali». In conclusione per Bossi,
M. «pare che ponga solo un problema di poltrone e la difesa del federalismo non
è questione di poltrone. In aperto dissidio con Bossi, lascia la Lega Nord
dicendo di Bossi. Spero proprio di non rivederlo più. Per Bossi il federalismo
è stato strumentale alla conquista e al mantenimento del potere. L'ultimo suo
exploit è stato di essere riuscito a strappare a Berlusconi cinque ministri.
Tornerò solo nel giorno in cui Bossi non sarà più segretario. Nonostante
ciò, moltissimi militanti e sostenitori leghisti continuarono a provare grande
simpatia e ammirazione per il professore e per le sue teorie. Alcuni dirigenti
della Lega tennero comunque vivo il dialogo con Miglio, in particolar modo
Pagliarini, Francesco Speroni e il presidente della Libera compagnia padana
Oneto, al quale il professore era particolarmente legato. In particolare M. fu
in stretti rapporti con l'ex deputato leghista Negri, col quale fonda il Partito
Federalista. Eletto ancora una volta al Senato, nel collegio di Como per il
Polo per le Libertà, iscrivendosi al gruppo misto. Negli anni in cui la
Lega si spostò su posizioni indipendentiste, il professore si riavvicinò alla
linea del partito, sostenendo a più riprese la piena legittimità del diritto di
secessione della Padania dall'Italia come sottospecie del più antico diritto di
resistenza medievale. Nella sua originale riflessione sul contrasto tra i
regimi giuridici freddi e caldi M. sostenne la necessità di sviluppare,
all'interno delle diverse società e culture, ordini giuridici in grado di
rispondere alle specifiche esigenze. In maniera provocatoria, egli giunse a
dichiararsi favorevole al «mantenimento anche della mafia e della 'ndrangheta.
Il Sud deve darsi uno statuto poggiante sulla personalità del comando. Che
cos'è la mafia? Potere personale, spinto fino al delitto. Io non voglio ridurre
il Meridione al modello europeo, sarebbe un'assurdità. C'è anche un
clientelismo buono che determina crescita economica. Insomma, bisogna partire
dal concetto che alcune manifestazioni tipiche del Sud hanno bisogno di essere
costituzionalizzate». La sua riflessione puntava a cogliere quali fossero le
ragioni profonde alla base di mafia, camorra e 'ndrangheta (insieme a ciò che
genera il consenso attorno a queste organizzazioni criminali), perché solo
istituzioni che sono in sintonia con la comunitànel caso specifico, che non
dimentichino la centralità del rapporto personale piuttosto che impersonale
nella società meridionalepossono creare una vera alternativa al
presente. Altre saggi: “La controversia sui limiti del commercio neutrale:
ricerche sulla genesi dell'indirizzo positivo nella scienza del diritto delle
genti,” Milano, Ispi, La crisi dell'universalismo politico medioevale e la
formazione ideologica del particolarismo statuale moderno, Pubbl. Fac.
giurispr. Univ. Padova, La struttura ideologica della monarchia greca arcaica
ed il concetto patrimoniale dello stato nell'eta antica, Jus. Rivista di
scienze giuridiche, Le origini della scienza dell'amministrazione, Milano,
Giuffrè, L'unità fondamentale di
svolgimento dell'esperienza politica occidentale, in: "Rivista
internazionale di scienze sociali", “I cattolici di fronte all'unità
d'Italia, Vita e pensiero, “L'amministrazione nella dinamica storica, in:
Istituto per la Scienza dell'Amministrazione Pubblica, Storia Amministrazione
Costituzione, Bologna, Mulino, Le trasformazioni dell'attuale regime politico,
in: "Jus. Rivista di scienze giuridiche", “ Il ruolo del partito
nella trasformazione del tipo di ordinamento politico vigente. Il punto di
vista della scienza della politica, Milano, La nuova Europa editrice,
L'unificazione amministrativa e i suoi protagonisti, Vicenza, Neri Pozza, La
trasformazione delle università e l'iniziativa privata, in: Atti del I Convegno
su: Università: problemi e proposte, promosso dal Rotary Club di Milano, Centro
Una Costituzione in corto circuito, Prospettive nel mondo", Ricominciare
dalla montagna. Tre rapporti sul governo dell'area alpina nell'avanzata eta
industriale, Milano, Giuffrè, La
Valtellina. Un modello possibile di integrazione economica e sociale, Sondrio,
Banca Piccolo Credito Valtellinese, Utopia e realtà della Costituzione, in
"Prospettive del mondo", Posizione del problema. Ciclo storico e
innovazione scientifico-tecnologica. Il caso della tarda antichità, in
Tecnologia, economia e società nel mondo romano. Atti del Convegno di Como,
Como, Genesi e trasformazioni del termine-concetto Stato, in Stato e senso
dello Stato oggi in Italia. Atti del Corso di aggiornamento culturale
dell'Università cattolica, Pescara, Milano, Vita e pensiero, Guerra, pace,
diritto. Una ipotesi generale sulle regolarità del ciclo politico, in Curi,
Della guerra, Venezia, Arsenale, Una repubblica migliore per gli italiani.
Verso una nuova costituzione, Milano, Giuffrè, Le contraddizioni interne del
sistema parlamentare integrale, Rivista italiana di Scienza Politica,
Considerazioni sulle responsabilità, Synesis, periodico dell'Associazione
italiana centri culturali", Le regolarità della politica. Scritti scelti
raccolti e pubblicati dagli allievi, Milano, Giuffrè, Il nerbo e le briglie del potere. Scritti
brevi di critica politica, Milano, Edizioni del Sole 24 ore, Una Costituzione
per i prossimi trent'anni. Intervista sulla terza Repubblica, Roma-Bari,
Laterza, Per un'Italia federale, Milano, Il Sole 24 ore, Come cambiare. Le mie
riforme, Milano, Mondadori, Italia. Così è andata a finire, con "Il Gruppo
del lunedì", Collezione Frecce, Milano, Mondadori, ed. Oscar Saggi,
Disobbedienza civile, Milano, Mondadori,
Io, Bossi e la Lega. Diario segreto dei miei IV anni sul Carroccio, Milano,
Mondadori, Come cambiare. Le mie riforme per la nuova Italia, Milano,
Mondadori, Modello di Costituzione Federale per gli italiani, Milano,
Fondazione per un'Italia Federale, Federalismi falsi e degenerati, Milano,
Sperling e Kupfer, Federalismo e secessione. Un dialogo, con Barbera, Milano,
Mondadori, Padania, Italia. Lo stato nazionale è soltanto in crisi o non è mai
esistito?, con M. Veneziani, Firenze, Le Lettere, Le barche a remi del Lario.
Da trasporto, da guerra, da pesca, e da diporto, con Gozzi e Zanoletti, Milano,
Leonardo arte, L'Asino di Buridano. Gli
italiani alle prese con l'ultima occasione di cambiare il loro destino,
Vicenza, Pozza, L'Asino di Buridano. Gli italiani alle prese con l'ultima
occasione di cambiare il loro destino. Nuova edizione, pref. Di Formigoni,
postf. di Romano, Varese, Lativa, M.: un uomo libero, coll. Quaderni Padani, La
Libera Compagnia Padana, Novara, Un M. alla libertà, audiolibro, coll. Laissez
Parler, Treviglio, La Libera Compagnia Padana Facco Editore); li articoli, coll.
Quaderni Padani, La Libera Compagnia Padana, Novara, Gianfranco le interviste,
coll. Quaderni Padani, La Libera Compagnia Padana, Novara, L'Asino di Buridano. Gli italiani alle prese
con l'ultima occasione di cambiare il loro destino, pref. di Formigoni, coll. I
libri di Libero M., Firenze, Libero); “Padania, Italia. Lo stato nazionale è
soltanto in crisi o non è mai esistito? Firenze, Libero; Federalismo e
secessione. Un dialogo, con Barbera, coll. I libri di Libero M. Firenze,
Editoriale Libero, Disobbedienza civile, coll. I libri di Libero; Firenze,
Libero, La controversia sui limiti del commercio neutrale fra Lampredi e
Ferdinando Galiani, pref. di Ornaghi, Torino, Aragno, M.: scritti brevi,
interviste, coll. Quaderni Padani, La Libera Compagnia Padana, Novara, Lezioni
di politica. Storia delle dottrine politiche. Scienza della politica Bologna,
Il Mulino; Bianchi e Vitale, Bologna, Mulino,Discorsi parlamentari, con un
saggio di Bonvecchio, Senato della Repubblica, Archivio storico, Bologna,
Mulino, L'Asino di Buridano. Gli
italiani alle prese con l'ultima occasione di cambiare il loro destino -- Opere
scelte” (Milano, Guerini); Considerazioni retrospettive e altri scritti, coll.
Opere scelte, Milano, Guerini e Associati,
Lo scienziato della politica, coll. Opere scelte di M., a cura di Galli,
Milano, Guerini, Guerra, pace, diritto, La Nuova Guerra, S.l. Milano, La
Scuola, 1 Scritti politici, Bassani, coll. I libri del Federalismo, Roma,
Pagine, Modello di Costituzione Federale per gli italiani Torino, Giappichelli;
“La Padania e le grandi regioni, L'unità economico-sociale della Padania Fano,
Associazione Oneto); “Il Cerchio, Schmitt. Saggi, Palano, Brescia, Scholé Morcelliana); “Le origini e i primi sviluppi
delle dottrine giuridiche internazionali pubbliche Torino, Aragno; “Vocazione e
destino dei Lombardi” (S.l.Milano); “Regione Lombardia, Prefazioni Oneto,
Bandiere di libertà: Simboli e vessilli dei Popoli dell'Italia settentrionale.
In appendice le bandiere dei popoli europei in lotta per l'autonomia,
Effedieffe, Milano, Morra, Breve storia del pensiero federalista Milano,
Mondadori; Governo della Padania, Manuale di resistenza fiscale” (Gallarate,
Oneto, “Croci draghi aquile e leoni. Simboli e bandiere dei popoli
padano-alpini; Roberto Chiaramonte EditoreLa Libera Compagnia Padana, Collegno;
Sensini, Prima o seconda Repubblica? A colloquio con Bozzi e M., Napoli, Edizioni
scientifiche italiane, Ornaghi e Vitale, Multiformità e unità della politica.
Atti del Convegno tenuto in occasione del compleanno, Milano, Giuffrè, Ferrari,
“Storia di un giacobino nordista Milano, Liber internazionale); Bevilacqua,
Insidia mito e follia nel razzismo; Il rinnovamento, Campi, “Figure e temi del
realismo politico europeo, Firenze, Akropolis La Roccia di Erec, Capua, Scienziato
impolitico Soveria Mannelli Catanzaro Rubbettino, Vitale, La costituzione e il
cambiamento internazionale. Il mito della costituente, l'obsolescenza della
costituzione e la lezione dimenticata, Torino, CIDAS, Luca Romano, Il pensiero federalista
una lezione da ricordare. Atti del Convegno di studi, Venezia, Sala del Piovego
di Palazzo Ducale, Venezia, Consiglio regionale del Veneto-Caselle di
Sommacampagna, Cierre, Lanchester, M. costituzionalista, Rivista di politica:
trimestrale di studi, analisi e commenti, Soveria Mannelli Catanzaro, Rubbettino. Damiano
Palano, Il cristallo dell'obbligazione politica in ID., Geometrie del potere.
Materiali per la storia della scienza politica italiana, Milano, Vita e
Pensiero. Maroni: voglio riprendere l'eredità di M. M. Verde, su miglio verde. eu.
Bossi a sorpresa al convegno su M. a Domaso:"Un grande"Ciao Como, su
Ciao Como, la Repubblica/politica: È morto su repubblica. Ticino COMO: Lunedì a
Domaso i funerali. Riletture. Arianna. il ricordo. Terre di Lombardia, su
terredilombardia. Alessandro, Cristianesimo e cultura politica: l'eredità di
otto illustri testimoni, Paoline, Morra, La vita e le opere, La Voce di Romagna
Il silenzio di M. fa paura alla Lega
Bossi: Pensa solo alla poltrona. "Con Bossi è un amore
finito" Miglio torna nell'arena: è
l'occasione buona M., Una repubblica
mediterranea?, in Un'altra Repubblica?
Perché, come, quando, Laterza, Roma-Bari, U. Rosso, M. l'antropologo. 'Diverso
l'uomo del Sud', in la Repubblica, Non mi fecero ministro perché avrei
distrutto la Repubblica Treccani Istituto dell'Enciclopedia. Dizionario di
storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Dizionario biografico degl’italiani,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. su senato, Senato della Repubblica.
Associazione Openpolis. Istituto per la
scienza dell'amministrazione pubblica, su isapistituto. Interviste Intervista
sulla Secessione della Padania, su prov-varese. Lega nord. Commemorazione
di M. nell’anniversario della scomparsa di Campi, su giovani padani. lega nord.
Non mi fecero ministro perché avrei distrutto la Repubblica, Il Giornale, su
new rassegna.camera. Interviste a M. sui "Quaderni della Libera Compagnia
Padana" su la libera compagnia. Documenti politici Sezione di approfondimento
sul pensiero di M., dal sito ufficiale della Lega Nord. Gianfranco Miglio.
Miglio. Keywords: implicatura ligure. Refs.:
Luigi Speranza, "Grice e Miglio,” per il Club Anglo-Italiano, The
Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. Speranza “Saturdays and
Mondays” – The Swimming-Pool Library.
Luigi
Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Millia: la ragione conversazionale della
setta dell’ottimati a Crotone -- Roma – filosofia calabrese -- filosofia italiana
– Luigi Speranza
(Crotone). Filosofo
italiano. Pythagorean according to Giamblico. He is said to have been one of a
group of Pythagoreans who were ambushed but found their escape route blocked by
a field of beans. Being prohibited by Pythagoreans precepts from even touching
beans, he preferred death to betraying his principles. Millia.
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice e Milone: la ragione conversazionale e la setta d’ottimati
di Crotone – Roma – filosofia calabrese
-- filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotone). Filosofo italiano. According to Giamblico, a
Pythagorean. He studied with Pythagoras himself. He died when an
anti-Pythagorean mob burnt his house down when he was inside it.
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice e Minicio: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale d’Adriano nel diritto romano e Plinio minore-- Roma – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Roma).
Filosofo italiano. Rescritto di Adriano a Gaio M. Fundano. L'imperatore
Adriano, autore del rescritto a Gaio M. Fundano. Il rescritto di Adriano a Gaio
Minucio Fundano è un rescritto imperiale inviato dall'imperatore romano Adriano
a Gaio Minucio Fundano, proconsole d'Asia. Il documento giuridico, scritto
originariamente in latino, fu tradotto e tràdito in greco ellenistico da
Eusebio di Cesarea che si rifaceva a Giustino. Il testo è noto agli
storici e agli studiosi di Storia del Cristianesimo per essere uno dei più
antichi scritti pagani sul cristianesimo. Il documento di Adriano, pur
indirizzato a Minucio Fundano, rispondeva in realtà a un'istanza sollecitata da
Quinto Licinio Silvano Graniano, predecessore del destinatario: Graniano aveva
chiesto lumi sul comportamento da tenere nei confronti dei cristiani e delle
accuse che venivano loro rivolte. Adriano rispose al proconsole di
procedere nei loro confronti solo in presenza di eventi circostanziati,
emergenti da un procedimento giudiziario e non sulla base di accuse generiche,
petizioni o calunnie: veniva stabilito così il principio dell'onere della prova
a carico dei promotori delle accuse. Eventuali azioni promosse a scopo di
calunnia dovevano, al contrario, essere duramente perseguite e punite, affinché
non fosse permesso ai calunniatori di procurare del male. Il rescritto, che è
una delle prime fonti pagane sul cristianesimo, è anche di somma importanza per
la comprensione della politica tenuta da Adriano e dal suo predecessore Traiano
nei confronti dei cristiani: Adriano, infatti, si mosse su un piano analogo, e
anche più garantista, rispetto a quello del suo predecessore che si era
espresso sull'argomento in un precedente rescritto sollecitato da una specifica
richiesta di Plinio il Giovane che era a quel tempo legatus Augusti pro
praetore in Bitinia e Ponto. Giustino sostenne l'interpretazione più
favorevole del rescritto, accettata da una parte della storiografia moderna.
Dubbi esegetici Il significato esatto del rescritto adrianeo, pur confrontato
con quello di Traiano, rimane per alcuni studiosi controverso. Se è assodata,
infatti, l'affermazione del principio dell'onere della prova da cui, in
definitiva, far dipendere la perseguibilità dei cristiani che avessero agito
«contro la legge», non è per tutti chiaro, invece, fino a qual punto dovesse
spingersi l'assolvimento di quell'onere, se fosse cioè sufficiente provare la
sola fattispecie della professione di fede (quello che Plinio, nella sua
epistola a Traiano, chiama il nomen ipsum) o si rendesse invece necessario
circostanziare anche la contemporanea presenza di reati ascrivibili all'essere
cristiani (flagitia cohaerentia nomini), la distinta fattispecie che Plinio già
individuava e intendeva suggerire all'imperatore nell'indirizzargli la sua
richiesta. Tesi di Marta Sordi Marta Sordi, storica dell'antichità
greco-romana e del cristianesimo delle origini, propendeva per
l'interpretazione più favorevole ai cristiani, una posizione esegetica a cui
peraltro già aderiva l'apologetica cristiana, da Giustino in poi. Secondo la
Sordi, Adriano, in linea con la politica del suo predecessore Traiano, avrebbe
non solo confermato il divieto di perseguibilità d'ufficio[8] ma vi avrebbe
anche aggiunto, di suo, due nuovi elementi: Il primo di essi la Sordi lo
individua in quel passo in cui Adriano afferma la necessità di dover giudicare
«secondo la gravità della colpa» (sempre nel caso - beninteso - di una denuncia
sorretta da prove). Il riferimento a una graduabilità della colpa escluderebbe,
secondo Marta Sordi, che quest'ultima potesse ridursi al solo 'essere
cristiani', una fattispecie che poteva rivelarsi vera o falsa, ma che non
poteva ammettere graduazioni: seguendo questa interpretazione, bisogna quindi
ritenere necessaria l'associazione a un diverso reato, ascrivibile allo status
religioso ma non coincidente semplicemente con questo. Questa interpretazione,
inoltre, sempre secondo la studiosa, sarebbe in sintonia con il tono generale
della prosa dell'imperatore, da cui trapela, infine, persino insofferenza nei
confronti di possibili derive intolleranti. L'espressione di questa
insofferenza, sottolineata anche da un'interiezione, è contenuta nella frase
«ma, per Ercole, se qualcuno accampa pretesti per calunniare, tu, stabilitane
la gravità, devi senza indugio punirlo». E proprio in questa frase si rinviene,
secondo Sordi, il secondo elemento di novità rispetto all'atteggiamento del
predecessore: la necessità che le conseguenze di azioni prive di prova, e
pertanto temerarie e calunniose, dovessero ritorcersi contro gli stessi
proponenti. Gianluigi Bastia, Lettera di Adriano, Eusebio di Cesarea, Storia Ecclesiastica,
Giustino Martire, Apologia Il testo
greco, in Giustino, è riportato in calce (v. Apologia. Rescritto di Adriano a
Caio M. Fundano, proconsole d'Asia (o su
Giustino, Apologia Plinio il Giovane, Epistulae Plinio il Giovane, Epistulae.
CIL Sordi, I Cristiani e l'impero romano, Jaca Book, Milano. Sordi, I Cristiani
e l'impero romano, Jaca, Milano, Bastia, Lettera di Adriano. Eusebio di
Cesarea, Storia Ecclesiastica, Giustino
Martire, Apologi, Plinio il Giovane, Epistulae, CIL, M. Fundano, Gaio, in
Treccani Enciclopedie on line, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Voci
correlate Rescritto di Traiano a Plinio il Giovane Fonti storiche non cristiane
sul cristianesimo Gesù storico Storiografia su Gesù Ricerca del Gesù storico
Storicità di Gesù Onere della prova Ius puniendi Portale Antica
Roma Portale Cristianesimo Portale Diritto Portale Gesù
Categorie: Fonti del diritto romanoStoria antica del cristianesimo Adriano [altre]
Military diploma (CIL) attesting his consulship suffect consul. In office Nationality: Roman;
Occupation: politician. A Roman senator who holds several offices in the
Emperor's service, and is an acquaintance of PLINIO MINORE. He is suffect
consul with Tito Vettenio Severo as his colleague. He is best known as being
the recipient of an edict from ADRIANO (si veda) about conducting trials of
Christians in his province. This is known from an inscription recovered at Baloie
in Bosnia. The first office listed is military tribune with Legio XII Fulminata.
Next is quaestor, and, upon completion of this traditional Republican
magistracy, he would be enrolled in the Senate. Two more of the traditional
Republican magistracies follow: plebeian tribune and praetor. The last
appointment, before the inscription breaks off, is his commission as legatus
legionis or commander of Legio XV Apollinaris. Other sources attest that he was
governor of Achaea. The terminus post quem his governorship is when Gaio
Caristanio Giuliano is known to have governed. The terminus ante quem he leaves
his post is the year of his consulate, although the letters he receives from PLINIO
MINORE (si veda) indicate he is no longer in Achaea. The inscription from
Baloie mentions he has been admitted to the Septem-viri epulonum, one of the
four most prestigious ancient Roman priesthoods. Because this inscription does
not mention his consulate, it can be assumed his entrance precedes that
office. Most, if not all, of the letters
PLINIO MINORE (si veda) writes to M. fall before is suffect consul. In the
first letter of his collection, PLINIO declares that living on his rural estate
is preferable to living in Rome, where he is subject to constant pleas for
assistance. The second letter petitions him to appoint the son of Plinio’s
friend ASINIO RUFO as M’s quaestor for M.’s upcoming consulate; The last letter
is another petition to M., canvassing him on behalf of GIULIO NASONE, who is
running for an unnamed office. While all of these letters demonstrate M. And
PLINIO MINORE are acquainted, they fail to show the warmth of a
friendship. Following his consulate,
during the reign of TRAIANO, M. is governor of Dalmatia. It is through a rescript the historian EUSEBIO
preserves at length in his Ecclesiae Historia that we know M. is proconsul of
Asia. M.' predecessor, QUINTO LICINIO SILAVNO GRANIANO, asks ADRIANO how to
handle legal cases where some inhabitants are accusing their neighbours of not
following the Roman cult through informers or mere clamour. ADRIANO’s reply is to
state that any such accusations had to be through a law court, where the matter
may be properly investigated, and if they are guilty of any illegality, thou M.,
must pronounce sentence according to the seriousness of the offence. This
rescript is important as an independent witness to the existence of one or more
non-Roman sects in this part of Anatolia. The only other contemporaneous
evidence we have for these communities is the list of the VII churches of Asia
in the book of Revelation. M.’s wife is
the daughter of a MARCO STATORIO. We know her name from a funerary inscription,
which suggests that she died before M.’s consulship. The name of their
daughter, Minicia Marcella, comes from two independent sources. Minicia dies young.
Her funerary vase has been identified, which states her age at death as XII
years, XI months, and VII days. PLINIO MINORE also attests to her existence,
revealing information about the girl that shows that he and M. are better
friends than the surviving letters he writes to M. suggest. In the letter,
addressed to one EFULANO MARCELLINO, Pliny notes that, although she was not yet
XIV years old, she was betrothed. Pliny describes the preparations for her
wedding, with which M. was busy; and he asks Marcellinus to send M. a letter
consoling him for his loss. It is not known if M. has any other children. Smallwood, Principates of Nerva, Trajan and
Hadrian, Cambridge, CIL, ILJug., Talbert, The Senate of Imperial Rome, Princeton;
Wheeler, "Legio XV Apollinaris: From Carnuntum to Satala—and beyond",
in Bohec and Wolff, eds. Les Légions de Rome sous le Haut-Empire, Paris; Eck,
"Jahres- und Provinzialfasten der senatorischen Statthalter”, Chiron; Pliny,
Epistulae, I.9 Syme, Tacitus, Clarendon;
Eusebius, Ecclesiae Historia; Williamson, Eusebius: The History of the Church, Harmondsworth:
Penguin; Political offices Preceded by Acilius Rufus, and Quintus Sosius
Senecio II Consul of the Roman Empire with Titus Vettennius Severus Succeeded
by Gaius Julius Longinus, and Gaius Valerius Paullinus Categories: Roman
governors of AchaiaSuffect consuls of Imperial RomeRoman governors of
DalmatiaRoman governors of Asia Epulones of the Roman Empire Minicii. Keywords: Roman law, Adriano a Minicio -- Gaio
Minicio Fundano. Minicio.
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice e Minnomaco: la ragione conversazionale della diaspora di
Crotone -- Roma – filosofia pugliese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano. Taranto, Puglia. A Pythagorean
according to Giamblico. Grice: “Cicerone argues: Minnomaco speaks Greek;
therefore he is no Roman!” Minnomaco.
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice e Minucio: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale dell’eulogio ad Ottavio da Frontone -- Roma – filosofia lazia
-- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. He writes “Ottavio” – draws on a
speech by Frontone. La gente: Minucia
Marco Minucio Felice Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Marco M. Felice
(in latino; Marcus M. Felix; Cirta, filosofo, scrittore e avvocato romano. Non è noto
con certezza quando visse. Il suo Octavius è simile all'Apologeticum di Quinto
Settimio Fiorente Tertulliano, e la datazione della vita di Felice dipende dal
rapporto tra la sua opera e quella dello scrittore africano morto nel 230.
Nelle citazioni degli autori antichi (Seneca, VARRONE, CICERONE) è considerato
più preciso di Tertulliano e questo concorderebbe col suo essere anteriore ad
esso, come afferma anche Lattanzio;[1] Girolamo lo vuole, invece, posteriore a
Tertulliano, sebbene si contraddica dicendolo posteriore a Tascio Cecilio
Cipriano in una lettera e anteriore in un'opera Per quanto riguarda gli estremi
della sua esistenza, Felice menziona Marco Cornelio Frontone; il trattato Quod
idola dii non sint è basato sull'Octavius; dunque se quello è di Cipriano, M.
Felice non fu attivo oltre il 260, altrimenti il termine ante quem è Lattanzio.
Anche la zona d'origine di M. è sconosciuta. Lo si ritiene talvolta di origine
africana, sia per la sua dipendenza da Tertulliano, sia per i riferimenti alla
realtà africana: la prima ragione, però, non è indicativa, in quanto dovuta al
fatto che all'epoca i principali autori di lingua latina erano africani, e
dunque il loro era lo stile cui ispirarsi; la seconda, inoltre, potrebbe
dipendere esclusivamente dal fatto che il personaggio pagano dell'Octavius,
Cecilio Natale, era africano, come attestato da alcune iscrizioni.
Cionondimeno, è significativo che entrambi i personaggi dell'Octavius abbiano
nomi citati in iscrizioni africane, e che lo stesso valga per il nome M.
Felice.Octavius L'Octavius è un dialogo che ha per protagonisti lo stesso
scrittore, Cecilio e Ottavio e che si svolge sulla spiaggia di Ostia. L'opera
si è conservata per errore dopo i sette libri dell'Adversus nationes di Arnobio
come (liber) octavus. Mentre i tre passeggiano sul litorale, Cecilio, di
origine pagana, compie un atto di omaggio nei confronti della statua di
Serapide. Da ciò nasce una discussione in cui Cecilio attacca la religione
cristiana ed esalta la funzione civile della religione tradizionale, mentre
Ottavio, cristiano, attacca i culti idolatrici pagani ed esalta la tendenza dei
cristiani alla carità e all'amore per il prossimo. Alla fine del dialogo
Cecilio si dichiara vinto e si converte al Cristianesimo, mentre Minucio, che
funge da arbitro, assegna ovviamente la vittoria ad Ottavio. Il Cristianesimo
di M. è lo stesso dei ceti dirigenti, che non vogliono che il cambiamento di
religione sia accompagnato da sommovimenti sociali e sono convinti che debbano,
comunque, sopravvivere la finezza e l'equilibrio costruiti da secoli di civiltà
greco-latina. Del resto, di questo ceto sono i personaggi dell'Octavius, tutti
e tre avvocatiː il pagano, Cecilio Natale, era nativo di Cirta (dove l'omonimo
registrato dalle iscrizioni aveva ricoperto cariche sacerdotali) e viveva a
Roma, come Minucio, di cui seguiva l'attività forense; Ottavio, invece, è
appena arrivato nella capitale all'epoca in cui è ambientata l'opera, e ha
lasciato la propria famiglia nella provincia d'origine. Girolamo gli
attribuisce una seconda opera, De fato, di cui però non vi sono tracce. Divinae
Institutiones, De viris illustribus, Ottavio Ianuario a Saldae, CIL, e Cecilio
a Cirta. A Tébessa e Cartagine. Bracci, Il linguaggio di M. Felice. Fra dialogo
filosofico e disputa religiosa, in Controversie: dispute letterarie, storiche,
religiose dall'Antichità al Rinascimento, a cura di G. Larini, Padova,
Libreriauniversitaria Vecchiotti, La filosofia politica di M. Felice. Un altro
colpo di sonda nella storia del cristianesimo primitivo, Urbino, Università
degli Studi, De viris illustribus L'Ottavio di Marco M. Felice in italiano:
play. google. com/ books/ reader?id=xj GOJAAAAEAJ& pg=GBS.PA0 Paul Lejay,
«Minucius Felix», in Catholic EncyclopediaBracci, Il linguaggio di Minucio
Felice. Fra dialogo filosofico e disputa religiosa, in Controversie: dispute
letterarie, storiche, religiose dall'Antichità al Rinascimento, a cura di G.
Larini, Padova, Libreriauniversitaria.it, M. Enciclopedia Britannica,
Encyclopædia Britannica, Inc. Marco M. Felice, su Internet Encyclopedia of Philosophy. Marco M.
Felice, Cyclopædia of Biblical, Theological, and Ecclesiastical Literature,
Harper. Opere di Marco M. Felice, su MLOL,
Horizons Unlimited. Modifica su Wikidata (EN) Audiolibri di Marco M. Felice
Marco M. Felice (altra versione), su LibriVox. Marco M. Felice, Catholic Encyclopedia, Robert
Appleton, Higgins, Felix, M., Encyclopedia of Philosophy. Opera Omnia dal Migne, Patrologia Latina, con indici
analitici, su documenta catholica omnia. eu.. V D M Padri e dottori della
Chiesa cattolica Portale Antica Roma Portale Biografie Portale Cristianesimo
Portale Letteratura Categorie: Scrittori romaniAvvocati romaniScrittori
Scrittori Romani Romani Nati a Cirta Apologeti Padri della Chiesa Scrittori
africani di lingua latina Scrittori cristiani antichi [altre] M. – Roma –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. CONGRESSO DI
SCIENZE STORICHE, Roma. Sezione Storia della Filosofìa Storia delle Religioni.
L’APOLOGETICO DI TERTULLIANO E L’OTTAVIO DI M. COMUNICAZIONE di RAMORINO ROMA
LINCEI SALVIUCCI. Ancora non è stata risolta in modo definitivo la questione
dei rapporti che intercedono tra il discorso di Tertulliano in difesa de’
Cristiani e il dialogo di M. Felice, dove alle accuse formolate in un discorso
d' ispirazione pagana messo in bocca a Cecilio Natale, op- ponesi una eloquente
difesa del Cristianesimo per bocca di Ottavio dal quale il dialogo prende nome.
Ancora non sono state date sufficienti ragioni per stabilire se Tertulliano
abbia avuto sott’ occhio M., o se invece questi abbia tratto da quello come da
sua fonte, e quindi quale dei due abbia da considerarsi come cronologicamente
anteriore. La questione ha un vero interesse per la storia del Cristianesimo in
Occidente perchè trattasi delle prime scritture latine d' ispirazione
cristiana, e dipende di qui il sapere chi primo abbia divulgato fra le genti di
parlata latina le ragioni addotte dagli Apostoli del Cristianesimo, già da più
decenni diffuse tra i Greci. Tale questione sorge dal fatto che tra le due
opere corrono tali e tante analogie di pensiero e di frase, da dover senz’altro
ritenere che l’un dei due abbia avuto sott’occhio l’altro. Si può ben
congetturare anche, e s’ è in fatto congetturato, abbiano entrambi attinto a
una fonte comune, che per noi sarebbe perduta. Primo propose quest’ ipotesi l’
Hartel, poi cercò sostenerla in apposita monografia il Wilhelm. Più tardi De
Lagarde pensa a dirittura a un’apologià scritta da papa Vittore I da cui
Tertulliano e M. avrebbero copiato a man salva; infine l’Agahd in una sua
ricerca di cose Varroniane, voi. supp. dei Jahrbiicher di Fleckeisen,
ammettendo anche egli un’apologià cristiana latina anteriore a Tertulliano e
M., ne investigò le fonti in VARRONE e in qualche altro libro dell’età
alessandrina. Ma noi vedremo che i riscontri verbali tra l’Apologetico e
l’Ottavio sono tanti e tali da escludere l’ipotesi d'una terza fonte co- mune,
se non forse per uno speciale punto di dottrina derivato dalla scuola di
Euemero. Tra quelli che rinunziando all’ipotesi di una terza fonte comune,
riducono la questione ai soli Tertulliano e M., gli uni credono anteriore M.,
gli altri Tertulliano, e le due schiere sono egual- mente notevoli per numero e
autorità di aderenti. I fautori della prio- rità di M., come si fan forti di
una espressione di Lattanzio, così vantano l’adesione di uomini quali Eber,
Baehrens, Norden, ecc. Gli altri si rifanno dall’attestazione di Gerolamo, e
hanno compagni uomini di incontestato valore come Schultze, Neumann, Harnack,
nome che vai da solo per molti. Ultimamente si schierò da questa parte anche il
francese Monceaux che con tanto studio e dottrina s’ è occupato della
letteratura affricana. Non è qui il luogo di ripetere le ragioni addotte da
tutti questi studiosi, nè di discuterle. Intendo qui di istituire un confronto,
il più completo possibile, di luoghi Minuciani e Tertullianei, presentandoli in
modo che ne riesca chiaro il contenuto e sia facile ai lettori di trarne le
debite conclusioni. Prendo per base il discorso di Tertulliano, seguendone
l’argomento come filo conduttore, e additando via via i luoghi paralleli di M.
Nei primi tre capitoli del suo Apologetico, mira Tertulliano a far vedere, come
fosse iniquo l’odio che si aveva contro i Cristiani. Vol- gendo nell’esordio la
parola ai reggitori del Romano Impero, dice che, se non era loro lecito fare
una pubblica inchiesta intorno alla causa dei Cristiani, se a questo solo
fattispecie o temevano o arrossivano di volgere l’attenzione pubblicamente, e
se le troppe condanne private avevano compromesso la difesa della setta
cristiana, doveva pur essere lecito a lui cercar di giungere alle loro orecchie
per la via letteraria; la verità cristiana ben sapere di essere peregrina sulla
terra e di trovar facilmente nemici tra gli estranei, ma non voler essere
condannata senza essere conosciuta. Condannarla inascoltata essere una
iniquità, e far nascere il sospetto che i governanti non vogliano ascoltare ciò
che non potrebbero più condannare conoscendolo. La scusa dell’ignoranza non
essere che apparente, anzi aggravare il carico dell’iniquità; perchè qual più
trista cosa che l’odiare quel che si ignora, anche se la cosa meriti
effettivamente odio? Se poi si viene a sapere che la cosa non meritava odio,
chi era solo colpevole d’ignoranza, cessata questa, cessa anche di odiare; come
fanno appunto i convertiti al Cristianesimo, i quali cominciano a odiare quel
che erano e a professare quel che prima odiavano. Invece, dice Tertulliano, gli
avversari nostri segnalano bensì il fatto delle molte conversioni, ma, anziché
arguire che ci sia sotto qualche gran bene, seguitano a ignorare e a odiare. Si
dirà che le molte conversioni non vogliono dir nulla, perchè ci si volge anche
al male. Ma il male, avvertasi, per natura o si teme o se ne ha vergogna; ed è
perciò che i malvagi voglion rimanere nascosti; sorpresi trepidano, accusati
negano, anche tormentati non sempre confessano, e condannati poi n’han dolore.
I Cristiani non si vergognano, non si pentono; si gloriano d’ esser notati ;
accusati non si difendono ; interrogati confessano ; anzi confessano
spontaneamente, e condannati ringraziano. Non è dunque questo un male se non ha
le circostanze connaturate al male, il timore, il rossore! il pentimento, il
rimpianto. Anche la procedura che si segue con noi Cristiani, continua
Tertulliano, è iniqua. Non ci si concede libertà di difesa, e si vuol da noi
soltanto la con- fessione del nome, senza poi esaminare il crimine. E mentre
per un omicida, per un incestuoso, per un nemico pubblico si indagano le cir-
costanze dei fatti, il numero, il luogo, il tempo, i complici dei delitti, per
noi non si procede così ; anzi un famoso editto di Traiano ha proi- bito che si
inizino processi contro noi, mentre poi ha disposto che data una denunzia, ci
si deva punire ; disposizione contradittoria ed ingiusta. Si viene così ad
applicare per noi un’assurda procedura, quella di torturarci, non per farci
confessare come gli altri, sì perchè neghiamo, mentre se si trattasse di male,
noi staremmo sulla negativa, e la tor- tura ci si applicherebbe per farci
confessare. È evidente che non un delitto è in causa nel caso nostro, ma solo
il nome. Si arriva al punto di biasimare uno che si riconosce come un
galantuomo, solo perchè è cristiano; si cacciano via dalle case, anche contro
ogni interesse, le mogli pudiche e i buoni servi, solo perchè cristiani; è
tutto in odio al nome. Ma che cos’ ha di male questo nome che significa « unti
» o, se si piglia la forma « Crestiani » usata talvolta per errore, ha a
connettersi con « buono » ? Odiasi forse ia setta per il nome del suo autore ?
Ma anche le sette dei filosofi sono denominate dai loro autori, e niuno se
n’offende. Prima di odiare il nome, conveniva indagare e riconoscere dalle
qualità della setta l’autore o da quelle dell’autore la setta ; invece non si è
fatto e non si fa nulla di questo, e si seguita a far ingiusta guerra al nome.
Fin qui l’ introduzione dell’Apologetico Tertullianeo. Con le idee qui espresse
si ha qualche riscontro nell’Ottavio, a metà circa del discorso in difesa della
nuova dottrina. Accenna Ottavio all’opera dei cattivi spiriti che insinuano
l’odio contro i Cristiani anche prima che siano conosciuti. Il capitolo
seguente tocca la procedura usata coi Cristiani, e Ottavio ricorda che anche
egli prima, credendo alle solite calunnie, usava le stesse arti diaboliche
contro i Cristiani. I demonii appunto ispirano quelle dicerie sciocche le
quali, se mai, hanno un fondo di verità per i pagani non per i Cristiani. La
confu- tazione di tali calunnie si estende. Si chiude con l’ affermazione delle
virtù cri- stiane, la pudicizia, la temperanza, la serietà. L’aumentare del
nostro numero, dice, non è accusa di errore, ma testimonio di lode, e non è
meraviglia se noi ci riconosciamo al segno dell’ innocenza e della modestia, e
se ci amiamo a vicenda chiamandoci fratelli. Ecco alcuni riscontri verbali:
Min.: nec in angulis garruli sumus si audire nos publice aut erubesciti s aut
timetis » (intendi: non è vero che noi facciamo pettego- lezzi di nascosto, se
invece siete voi che pubblicamente rifiutate di darci ascolto o perchè
arrossite o perchè temete di farlo. : ic occupant animos (im- puri spiritus)
... ut ante nos incipiant homines odisse quam nosse, ne cognitos, aut imitari
possint, aut damnare non possint. Anche noi, prima della conversione, credevamo
alle calunniose voci sparse contro i Cristiani, e non ci accorgevamo che eran
tutte dicerie sen- za fondamento ; « malum autem adeo non esse, ut Cliristianus
reus nec eru- besceret nec timeret, et unum solum- modo quod non ante fuerit
paeniteret. Tertull. Apolog. I princ.: .si ad hanc solam speciem auctoritas
vestra de iustitiae diligentia in publico aut timet aut erubescit inquirere
inauditam si damnent, praeter invidiam iniquitatis etiam suspicionem merebuntur
alicuius conscientiae, noleutes audire quod auditum dan- nare non possint. Quod vere malum est, ne ipsi
quidem quos rapit defendere prò bono audent. Omne malum aut timore aut pudore
natura perfudit. Denique malefici gestiunt latere, devitant appa- rere,
trepidant deprehensi, negant accu- sati, ne torti quidem facile aut semper continentur,
certe damnati maerent. Dinumerant in semetipsos mentis malae impetus, vel fato
vel astris imputant, nolunt enim suum esse quia malum agnoscunt. Christianus
vero quid simile? Neminem pudet, neminem paenitet nisi
piane retro non fuisse. Si denotata gloriata, si accusata non defendit,
interrogatns vel ultro confi- tetur, damnatus gratias agit. Quid hoc mali est
quod naturalia mali non habet, fimorem, pudorem, tergiversationem, paenitentiam,
deplorationem? Quid? hoc malum est
cuius reus gaudet? cuius .accusatio votum est et poena felicitas ? Qui si osservi come a un cenno fuggevole di Minucio
rispetto al non essere un male il cristianesimo, corrisponde in Tertulliano
tutta una spiegazione psicologica della natura del male e del contegno dei
malvagi col quale si confronta quello dei Cristiani. Apolog. c. IL Si critica
la procedura usata coi Cristiani. Tra l’altro, si dice. Ceteris negantibus
tormenta udhibetis ad confitendum, solis Chri- stianis ad negandum. Quo
perversine cum praesumatis de sceleribus no stris ex nominis confessione,
cogitis tormentis de confessione decedere, ut negantes nomen pariter utique
negemus et scelera... Sed, opinor non vultis noe perire, quos pessimos
creditis. Si non ita agitis circa nos nocentes ergo nos innocentissimos
iudicatis cum quasi innocentissimos non vultis in ea confessione perseverare,
quam necessitate non iustitia damnandam sciatis. Vociferata homo: Christianus
sum. Quod est dicit; tu vis audire quod non est. Veritatis extorquendae
praesides de nobis solis mendacinm elaboratis audire. Oct.: Noi prima della
conversione, mentre assumevamo la difesa di sacrilegi e incestuosi e anche di
parricidi, hos i Cristiani nec audiendos in toto putabamus, nonnunquam etiam
miserantes eorum crudelius saeviebamus, ut torqueremus confitentes ad negandum,
videlicet ne perir ent, exercentes in his, perversam quaesti onem nòn quae
verum erueret sed quae mendacium cogeret . Et si qui infìrmior malo pressus et victus
Christianum se negasset, favebamus ei quasi, eierato nomine, iam omnia facta
sua illa negatione pur- gata ». Dopo avere nell’Apologetico confutato il
pregiudizio che il Cristianesimo non fosse permesso dalle leggi romane, facendo
vedere come le leggi potessero essere benissimo pattate, e mu- tate furono
tante volte attraverso ai secoli, Tertulliano passa a confutare le calunnie
lanciate contro i Cristiani, d’ infanticidio e di cene incestuose. Queste cose
si dicono sempre, ma nessuno mai si cura d’ indagare so sono vere. La verità è
odiata, e ha nemici da tutte le parti. Chi ha mai visto a spargere sangue di
bambini, e abbandonarsi, dopa il pranzo e dopo fatti spegnere i lumi da cani
lenone s tenebrarum, a orgie incestuose? Se i nostri ritrovi son segreti, chi
può rivelare quel che vi si fa? non gli iniziati che hanno interesse a non si
tradire; non gli estranei, appunto perchè non penetrarono mai. È dunque tutto
opera' della fama. E qui Tertulliano ha una bella pagina sulla natura della
fama o si dice. È antico il motto : fama malum quo non aliud velocius ullum
Virgilio. Perchè è un male la fama? perchè veloce? o non anzi perchè essa è per
lo più menzognera? anche quando ha del vero, non è mai senza bugia, togliendo,
aggiungendo, mutande dal vero. Ed è di tal natura che non persiste a essere se
non in quanto mentisce, e vive solo fin quando non si arriva alla prova dei
fatto vero. Quando si ha il fatto, cessa ogni « si dice », e rimane la notizia
del fatto. La fama, nomen incerti > non ha più luogo dov’ è la certezza. Ora
alla fama uom savio non deve credere. Si sa come na- scono le dicerie. Hanno
principio da qualcuno che è mosso o da ge- losia o da dispetto o da mania di
dir bugie; e poi passate di bocca in orecchio, e via ripetute, nascondono
sempre più la verità. Meno male, che il tempo poi rivela ogni cosa, per felice
disposizione della natura- per cui il vero si fa strada. Le accuse sono nient’
altro che dicerie, ma non hanno fondamento di verità. Si soggiunge che noi
promettiamo la vita eterna a chi uccide bambini e commette incesti. Ma anche se
tu credi a questo, dice Tertulliano, io chiedo se tu stimeresti tanto questa
eternità da arrivarci con simili infamie. Tu nè vorresti farle queste cose, nè
potresti ; dunque perchè crederai che vogliano e possano farle i Cristiani, che
sono uomini come te ? Si dirà che sono iniziati a tali cerimonie quando non ne
sanno ancor nulla; ma in tal caso, una volta conosciute tali infamie, non
continuerebbero a parteciparvi, per la stessa avversione che avrebbe impedito
loro d’ iniziarsi nel caso che ne fossero informati. Tale il contenuto
dell’Apologetico. Vi corrispondono il M., ove con le accuse d’ infanticidio e
di cene incestuose si confutano anche quelle di adorazione d’una testa d’asino,
o dei genitali di sacerdoti, o di un uomo crocifisso, o della croce stessa. E
siccome di queste accuse si parla anche dove Cecilio Natale le espone facendo
eco alla voce comune, così è da tener conto anche di questo capo per taluni
riscontri verbali: Apolog.: quod eversofes luminum canes, lenones scilicet
tenebrarum, libidinum impiarum inverecundiam procurent candelabra et lucernae
et canes aliqui et offulae quae illos ad eversionem luminum extendant. Veni,
demerge ferruin in infantem, nullius inimicum, nullius reum, omnium filium, vel
tu modo adsiste morienti komini antequam vixit... excipe rudem sanguinem, eo
panerai tnum satia, vescere libenter Nego te velie ; etiamsi volueris, nego te
posse. Cur ergo alii
possint si vos non potestis?... qui ista credis de homine potes et tacere. Quis
talia facinora cum invenisset celavit?... Si semper latemus quando proditum est
quod admittimus? immo a quibus prodi potuit? Natura famae omnibus nota est (v.
il riassunto precedente)... quae ne tunc quidem cum aliquid veri offerti sine
mendacii vitio est Tam- diu vivit quam diu non probat, siquidem ubi probavit
cessat esse et quasi officio nunciandi functa rem tradit et exinde res tenetur,
res nominatur. Nec quisquam dicit verbi gratia: 'hoc Romae aiunt factum 1 aut :
‘ fama est illuni provinciam sortitum sed: sortitus est ille provinciam ’, et :
hoc fa- ctum est Romae \ Fama, nomen incerti, locum non habet ubi certum est.
Min. Oct.: canis qui cande- labro nexus est, iactu offulae ultra spatium lineae
qua vinctus est, ad impetum et saltum provocatur. Sic everso et exstincto
conscio lumine impuden- tibus tenebris etc. Illuni velim convenire, qui
initiari nos dicit aut credit de caede infantis et sanguine. Putas posse fieri,
ut tam molle corpus, tam parvulum corpus fata vulnerum capiat? ut quis- quam
illum rudem sanguinem novelli et vixdum hominis caedat f fundat, exhauriat?
nemo hoc potest credere nisi qui possit audere nec tanto tempore aliquem
existere qui proderet nec tamen mirum, cum omnium (quoniam, Vahlen) fama quae
semper insparsis mendaciis alitur, ostensa ventate consumitur. Anche qui si noti che il modo di esprimersi di
Minucio intorno alla fama non solo è conciso, ma chi legge quell’ostessa
ventate consu- mitur non lo intende se non quando lo confronta con la pagina di
Ter- tulliano, la quale può servire assai bene di commento. I Cristiani non si
contentavano di scagionarsi dalle accuse calun- niose mosse loro, ma le
ritorcevano contro gli avversari, facendo ve- dere come essi, all’ombra della
religione, molti infanticidi e incesti davvero commettevano. Di ciò tratta l’Apologetico,
da confrontarsi con alcuni passi dell’Ottavio. Ricordano entrambi i sacrifizi
di bambini fatti in Africa in onor di Saturno, divoratore dei propri figli:
Apolog.: cum propriis filiis Saturnus non pepercit, extran eis utique non
parcendo perseverabat, quos quidem ipsi parentes sui offerebant et libenter
respondebant, et infantibus blan - diebantur, ne lacrimante s immolarenturi.
Oct.: Saturnus fìlios suos non exposuit sed voravit ; merito ei in nonnullis
Africae partibus a parentibus infantes immolabantur y blanditile et osculo
comprimente vagitum, ne flebilis hostia immolar etur. Ma Tertulliano ha
maggiori informazioni su questi sacrifizi d’infanti in Affrica, durati
ufficialmente fino al proconsolato di TIBERIO, poi vietati ma seguitati a
praticare occultamente: et nunc in occulto per - severotur hoc sacrum facinuSj
perchè nessuna costumanza delittuosa si può sradicare per sempre, nè gli Dei
mutano costume. Oltre questo poi altri sacrifizi umani vanno imputati alla
religione antica. Entrambi i nostri scrittori ricordano i sacrifizi umani fatti
in Gallia in onor di Mercurio, e nella Taurica (M. aggiunge anche, da CICERONE.
Rep., e da LIVIO (si veda), il ricordo di Busiride Egi- ziano e di antichi riti
romani), e l’uso ancor vigente di sacrificare con- dannati a morte nelle feste
di Giove Laziale. E all* infuori della religione, rinfacciano entrambi agli
avversari l’abitudine di esporre i bambini ap- pena nati o ucciderli, o quello
più tristo di spegnere la vita appena iniziata nell’utero materno. b) Apolog .
IX: « conceptum utero dum adhuc s angui s in hominem deli- batur, dissolvere
non licet. Homicidii festinatio est prohibere nasci ; nec refert ratam quis
erìpiat animam an nascentem disturbet. Quanto poi al bevere uman sangue,
Tertulliano ricorda da Erodoto (est apud Herodotum, opinor) alleanze strettesi
fra alcuni popoli col ferirsi a sangue le braccia e bevere gli uni il sangue
degli altri; (ISO) Oct.: u snnt quae in ipsis vi- sceribus medicaminibus epotis
originem futuri hominis extinguant et parricidium faciant antequam pariant
ricorda poi Catilina, e alcune genti Scitiche divoratrici dei proprii morti, e
il rito dei sacerdoti di Bellona consistente nel ferirsi la coscia, rac-
cogliere il sangue nel cavo della mano e darlo a bere. M., più conciso, non
menziona che la congiura di CATILINA e Bellona con brevi cenni. L’uno e V altro
poi fanno menzione dell’uso di dare a bere sangue umano agli epilettici, ma
Tertulliano solo adduce il particolare, che ai raccoglieva a tal fine il sangue
scorrente dalle ferite dei delinquenti .sgozzati nell’arena. In tutto ciò è
strano il modo come Minucio mette questi ricordi in relazione con la menzione
fatta avanti delle cerimonie in onor di Giove Laziale: ipsum credo docuisse san
- guinis foedere coniurare Catilinam et Bellonam sacrum suum J ecc.; quasi che
proprio Giove Laziale abbia insegnato a Catilina e ai Bellonari i lor
sanguinosi usi ; il che è del tutto fuor di proposito. Infine, sempre intorno
alle bibite di sangue, entrambi gli apologeti ricordano l’avidità con che
solevano alcuni acquistare, per cibarsene, la carne delle bestie uccise
nell’arena, dopo che quéste s’ erano empite le viscere di membra umane. Ma
Tertulliano è più ricco di particolari, come è più immaginoso ed energico
nell’espressione. Confrontisi: Tertull.: Item illi qui de harena Min. : non
dissimiles ei qui de haferinis obsoniis cenant, qui de apro qui rena feras
devorant inlitas et infectas se est quandoque memoriara dissipari, et simili
error impegerit, exinde iam tradux proficiet incesti serpente genere cum
scelere. Tunc deinde quocumque in loco, domi, peregre, trans freta Comes et
libido, cuius ubique sal- tus facile possunt alicubi ignaris filios pangere vel
ex aliqua seminis portione, ut ita sparsum genus per commercia humana concurrat
in memorias suas, neque eas caecus incesti sauguinis agnoscat. Min.: etiam
nescientes, miseri, potestis in inlicita proruere, dum Venerem promisce
spargitis, dum passim liber os seritis, dum etiam dorai natos alienae
misericordiae frequenter exponitis, necesse est in vestros recurrere t in
filios inerrare. Nella diversa disposizione dei pensieri, pur si riconosce
l’affinità dei due scrittori, dei quali Tertulliano è più ricco e compiuto,
aggiun- gendo qui tra le ragioni di figliuoli dispersi anche l’adozione. Alla
corruttela pagana poi opponesi la continenza cristiana la quale o si contenta
di legittimo matrimonio, o aspira anche alla verginità. Tertull.: quidam multo
secu- Min : plerique inviolati corporia riores totam vim huius erroris virgine
virginitate perpetua fruuntur potiua continentia depellunt, senes pueri. quam
gloriantur. Dove non isfugga l’esagerazione del plerique minuciano di fronte
all’espressione tertullianea più conforme al vero. Gli Dei pagani erano in
origine uomini. Nell’ Apologetico, passa Tertulliano a ragionare di un’altra
recriminazione fatta ai Cristiani, quella che non venerassero gli Dei e non
sacrificassero per gli imperatori ; onde erano fatti rei di sacrilegio e di
lesa maestà. Ora egli dice che i Cristiani cessarono dal prestar culto agli Dei
pagani dacché conobbero che tali Dei non esistevano; e non esser giusto il
punirli se non quando tale esistenza fosse dimostrata. E questa convinzione
soggiunge che i Cristiani ricavavano dalle stesse testimonianze pagane,
concordi nel lasciar chiaramente vedere che i pretesi Dei non erano altro che
uomini di- vinizzati. Infatti se ne adducevano i luoghi di nascita, le regioni
ove avevano vissuto e lasciato tracce dell’opera loro, e si mostravano anche i
loro sepolcri. Serva d’esempio per tutti Saturno, cui gli scrittori come
Diodoro e Tallo fra i Greci, Cassio e Nepote fra i Latini attestarono essere
stato uomo. La qual cosa è comprovata anche da prove di fatto, verificatesi
sopratutto in Italia, ove egli fu accolto da Giano, ove il monte che abitò fu
chiamato Saturnio, la città che fondò ebbe pari- mente nome Saturnia, e anzi
tutta l’Italia dopo il nome di Enotria ricevette quello di Saturnia. Da lui
l’origine delle legali scritture e del conio monetario, onde la sua presidenza
dell’erario. Dunque era uomo, è nato da uomini, non dal cielo e dalla terra.
Ignorandosene la pa- rentela, fu detto esser figlio di quelli onde tutti
possiamo esser figli, chiamandosi per venerazione il Cielo e la Terra padre e
madre, e figli della terrà denominando il volgo quelli la cui parentela è
incerta. Sa- turno dunque era uomo; e lo stesso si può dir di Giove e di tutto
l’altro sciame di divinità pagane. Si dice che furono tutti divinizzati dopo
morte. Da chi? Bisogna vi fosse un altro Dio più sublime, ca- pace di regalare
la divinità, giacché da sé questi uomini non si po- tevan certo crear Dei. Ma
perchè il Dio Magno avrebbe donato la divinità ad altri esseri? Forse per
esserne aiutato nel grande còmpito di dirigere l’universo? Ma che bisogno vi
poteva essere di ciò, se il mondo o era ab aeterno, come volle Pitagora, o
venne fatto da un essere ragionevole, come disse Platone? Del resto questi
uomini si lo- dano per aver trovato le cose utili alla vita, ma non le hanno
create, perchè già c’erano. Si dirà egli che la divinizzazione fu un premio
alle loro virtù? Ma, a dir vero, anziché virtuosi, erano costoro pieni di vizi
e piuttosto da cacciar giù nel Tartaro che accogliere nel Cielo. Ma mettiamo
anche fossero buoni, o perchè allora non s’ è dato lo stesso premio a uomini
lodatissimi come Socrate, Aristide, Temistocle, ecc.P Di tutta questa
dimostrazione ragionata a fil di logica, Minucio non ha nell’Ottavio che un
punto solo, l’affermazione che i pretesi Dei erano uomini. E questa si contiene
nel cap. 21 del dialogo, il quale fa seguito alla parte fisolofica del discorso
di Ottavio e alla sentenza che le favole mitologiche erano tutte finzioni
poetiche, da spiegarsi seconde la teoria di Evemero, della quale cita altri
rappresentanti antichi come Prodico, Perseo, lo stesso Alessandro il Macedone.
Connettesi con tale ordine di idee il ricordo di Saturno già uomo. E qui
diversi riscontri: Tertull. Apol.: Saturnum ita- que, si quantum litterae
docent, neque Diodorus Graecus aut Thallus neque Cassius Severus aut Comelius Nepos
neque ullus commentator eiusmodi anti - quitatem aliud quam hominem promul-
gaverunt. Min. Oct.: Saturnum enim omnes scriptores vetustatis Graeci Ro-
manique hominem prodiderunt. Scit hoc Nepos et Cassius in historia ; et Thallus
et Diodorus hoc loquuntur. È questo il passo che all’Ebert e a’ suoi seguaci
parve e pare dimostrativo della priorità di Minucio, per la ragione che il
Cassius Severus di Tertulliano in luogo del semplice Cassius (ossia Hemina) è
un errore, e per la presunzione che chi sbaglia copii. Se tale indu- zione sia
giusta, vedremo in seguito. Per ora notiamo solo che Ter- tulliano aveva fatto
lo stesso sbaglio in Ad Nationes: Legimus apud Cassium Severum, apud Cornelios
Nepolem et Ta- citurna ecc. Tertull. ibid.: in qua Italia Saturnus post multas
expeditiones postque Attica hospitia consedit, exceptus a Iano vel lane ut
Salii volunt. Mons quem incoluerat Saturnius dictus, civitas quam depalaverat
Saturnia usque nunc est, tota denique Italia post Oe- notriam Saturnia
cognominabatur. Ab ipso primum
tabulae et imagine signa- tus nummus et inde aerarlo praesidet. Si homo
Saturnus utique ex homine, et quia ab homine, non utique de caelo et terra. Sed
cuius parentes ignoti erant facile erat eorum fìlium dici quorum et omnes
possumus videri. Quis enim non caelum ac terrai matrem ac Min.: Saturnus Creta
profugus Italiana metu filii saevientis accesserat et Iani susceptus hospitio
rudes illos homines et agrestes multa docuit ut Graeculus et politus, litteras
imprimere, nummos signare, instrumenta conficere. Itaque latebram suam, quod
tuto latuisset, vocari maluit Latium, et ur.bem Saturniam idem de suo nomine ut
laniculum Ianus ad memoriam uterque posteritatis reliquerunt. Homo igitur
utique qui fugit, homo utique qui latuit, et pater ho- minis et natus ex
homine. Terrae enim vel caeli filius (se. est dictus) quod apud Italos esset
ignotis parentibus proditus, ut in hodiernum inopinato visos patrem
venerationis et honoris grati a appellet? vel ex consuetudine humana, qua
ignoti vel ex inopinato adparentes de caelo supervenisse dicuntur. Proinde
Saturno repentino utique caelitem contigit dici; nam et terrae filios vulgus
vocat quorum genus incertum est. Etiam Iovera ostendemus tam hominem quam ex
homine, et deinceps totum generis examen tam mortale quam seminis sui par. Nunc
ego per singulosdecurram? Otiosum est etiam titulos persequi totum generis
examen caelo missos, ignobiles et ignotos terrae filios nominamus. Eius fìlius
Iuppiter Cretae excluso parente regnavit, illic obiit, illic filios habuit;
adhuc antrum Iovis visitur et sepulcrum eius ostenditur et ipsis sa- cris suis
humanitatis arguitur. Otiosum est ire per singulos. Saturnum principem huius
generis et examinis. Per la
divinizzazione dopo morte, M. ha considerazioni diverse dai ragionamenti di
Tertulliano. Ricorda Romolo fatto Dio per lo spergiuro di Procolo, e il re
Giuba per il consenso dei Mauri ; furono consacrati Dei come si consacrano gli
altri re, non per attestare la divinità loro, ma per onorare la potestà che
hanno esercitato in terra. Queste stesse persone che si divinizzano, dice, non
ne vorrebbero sapere, e sebbene già vecchi declinano quell’onore. Rileva poi
l’assurdo di far Dei esseri già morti o nati destinati a morire. E perchè non
nascono ora più Dei? Porse s’ è fatto vecchio Giove o s’ è esaurita Giunone? 0
non è da dire anzi che è cessata questa generazione perchè nessuno ci crede più
? E del resto se si creassero nuovi Dei, i quali di poi non potreb- bero
morire, s’avrebbero più Dei che uomini, da non poter essere più contenuti nè in
cielo, nè nell’aria, nè sulla terra. Tutte queste riflessioni di Minucio sono
differenti da quelle che fa Tertulliano ; sicché in questo punto non vi possono
essere riscontri. Però confronta: Ad Nationes: qui deum Caesarem dicitis et
deridetis dicendo quod non est, et maledicitis quia non vult esse quod dicitis.
Mavult enim vivere quam deus fieri. Min.: Invitis his hoc nom.en adscribitur:
optant in homine perseverare, fieri se deos metuunt, etsi iam senes nolunt.
Tertulliano passa a considerare che cosa sieno effettivamente i supposti Dei
pagani. E prima parla dei loro simulacri, i quali son fatti di materia identica
a quella dei vasi e strumenti comuni, o forse dai vasi medesimi artisticamente
elaborati. Son dunque Dei foggiati per mezzo di battiture, di raschiature, di
arroventature; proprio il trattamento che si fa ai Cristiani, di che questi
possono avere qualche conforto. Se non che questi Dei non sentono i maltrat-
tamenti della loro fabbricazione, come non sentono gli ossequi dei loro fedeli.
Tali statue di morti, cui intendono solo gli uccelli e i topi e i ragni, non è
egli giusto non adorare? Come sembrerà che offendiamo tali esseri, mentre siam
certi che non esistono affatto? Riflessioni analoghe fa M.. Detto delle favole
mitologiche irriverenti e corrompitrici, nota che le immagini di tali Dei adora
il volgo, più abbagliato dal fulgore dell’oro e dell’argento che ispirato da
fede vera; e richiama l’attenzione sul fatto che tali simulacri sono formati
dalla mano d’un artista, e se di legno, forse reliquia di un rogo o di una
forca; sono sospesi e lavo- rati con l’accetta e la pialla, se d’oro o
d’argento, magari tolto da vaso immondo, sono pesti, liquefatti, contusi tra il
martello e l’ incudine, ecc. Ecco riscontri: Tertull. Apoi.: reprehendo...
materias sorores esse vasculorum instrumentorumque communium vel ex isdem
vasculis et instrumentis quasi fatum consecratione mutantes. Min.: deus aereus
vel argenteus de immundo vasculo, ut accicipimus factum Aegyptio regi (Amasi,
Erodoto) conflatur, tunditur malleis et incudibus figuratur nisi forte nondum
deus saxum est vel lignum vel argentum. Quando igitur hic nascitur? ecce
funditur, fa- bricatur, sculpitur, nondum deus est; ecce plumbatur construitur,
erigitur, nec adhuc deus est; ecce ornatur consecratur oratur, tunc postremo
deus est, cum homo illum voluit et dedicavit. Piane non sentiunt has iniurias
nec sentit lapideus deus suae et contumelias fabricationis suae dei nativitatis
iniuriam ita ut nec postea, vestri sicut nec obsequia ». de vestra veneratione
culturam. Statuas milvi et mures et Quam acute de diis vestris attinane ae
intellegunt. malia muta naturali ter iudicant ! mures, hirurrdines, milvi non
sentire eos sci uni; rodunt inculcant insident, ae, nisi abigatis, in ipso dei
vestii ore nidificant; araneae vero faciem eius intexunt et de ipso capite sua
fila suspendunt. Vos tergetis
mundatis eraditis et illos qoos facitis, protegitis et timetis. Si noti qui la maggior quantità di particolari in M.,
il che come deva spiegarsi diremo in seguito. Tertulliano invece è poi solo nel
notare che i pagani stessi prendono a gioco illudunt e offendono le loro
divività, non riconoscendo tutti le stesse, e trat- tando alcuni Dei come i
Lari domestici con compre- vendite, pignora- menti, incanti, tal quale s’usa
per le case cui sono annessi, altre volte tsasformando, poniamo, un Saturno in
una pentola e una Minerva in un mestolo. Di nuovo entrambi ricordano, di passata,
le strane cerimonie del culto pagano (Tertull. in., Min. e rilevano le
invereconde leggende dai poeti ripetute intorno agli Dei, auspice Omero, e
l’aver gli Dei combattuto o pei Greci o pei Troiani, e Venere ferita, e Marte
incarcerato, e Giove liberato per opera di Briareo, ecc., ecc. Tertull.: Quanta
inverno ludi- Min.: hic enim Homerus bria! deos inter se propter Troianos et
praécipuus bello Troico deos vestros, Achivos ut gladiatorum paria congres -
etsi ludos facit, tamen in hominum resos depugnasse, Venererà humana sa- bus et
actibus miscuit, hic eorum pagitta sauciatam, quod filium suum Ae- ria
composuit, sauciavit Venererà, Mar - nean paene interfectum ab eodem Dio- . tem
vinooit vulneravit fugavit. Iovem mede rapere vellet, Martem tredecim narrat
Briareo liberatum, ne a diis cemensiìms in vinculis paene consumptum, teris
ligaretur, et Sarpedonem filium, Iovem ne eandem vim a ceteris caeli- quoniam
morti non poterat eripere, tibus experiretur, opera cuiusdam moncruentis
imbribus flevisse, et loro Ver stri liberatum, et nunc flentem Sarpe - neris
inlectum flagrantius quam in aduldonis casum, nunc foede subantem in teras
soleat cum Iunone uxore consororem sub commemoratione non ita cumbere.
dilectarum iampridem amicarum. L’esempio d’Omero indusse altri poeti a
irriverenti invenzioni: Quis non poeta ex auctoritate Alibi Hercules stercora
egerit, principis sui dedecorator invenitur Dee- et Apollo Admeto pecus pascit.
Laorum ? Hic Apollinem Admeto regi pa- medonti vero muros Neptunus instituit scendis
pecoribus addicit, ille Neptuni (forse: construit) nec mercedem operis
structorias operas Laomedonti locat. Est infelix structor accipit. Illic
(Vulcanus, et ille de lyricis (Pindarum dico) qui aggiunge TUrsinus) Iovis
fulmen cum Aesculapium canit avaritiae merito, quia Aeneae armis in ineude
fabricatur, cum avaritiam nocenter exercebat, fulmine caelum et fulmina et
fulgura longe ante iudicatum. Malus Iuppiter si fulmen il- fuerint quam
Iuppiter in Creta nasce- lius est, impius in nepotem, invidus in retur
artifìcem. Dal contesto di Tertulliano apparirebbe ch’egli attribuisse le
leggende di Apollo pastore presso Admeto e di Posidone operaio al soldo di
Laomedonte ad altri poeti che ad Omero, mentre è noto che già in Omero vi è un
cenno di queste leggende. Ma forse Tertulliano aveva in mente ulteriori
elaborazioni di dette leggende forse in drammi (ad es., per Apollo pastore,
l’Alcestide d’ Euripide), come dopo fa espressa menzione di Pindaro. In Minucio
invece tutte le ri- cordate leggende par si attribuiscano ancora ad Omero, il
che viene a essere inesatto per il racconto di Ercole che scopa le stalle
d’Augia, in Omero non menzionato, e per il ricordo delle armi di ENEA opera di
Vulcano, tolto da VIRGILIO (si veda) non da Omero. In connessione col precedente
argomento, Tertulliano ricorda an- cora le irriverenze contro gli Dei scritte
dai filosofi, specie dai cinici (tra cui pone Varrone, che chiama il Cinico
Romano e a cui rimprovera l’aver introdotto ter centos foves sive Jupitros sine
capitibus), e quelle peggiori contenute nei mimi e nella letteratura
istrionica, aggravati dalla circostanza che gli istrioni spesso rappresentano
essi stessi la divinità, e, dice: vidimus aliquando castratura Attin, Mura Deum
ex Pessinunte, et qui vivus ardebat Eerculem in - dueraL Di tutto ciò nulla in
M.. Invece di nuovo vanno di con- serva nel rinfacciare al paganesimo i
sacerdoti corrotti e corruttori. Apoi.: in templis adul - Oct.: dopo ricordati
i molti teria componi, inter aras lenocinia incesti delle Vestali, continua:
«ubi tractari, in ipsis plerumque aedituo- autem magis a sacerdotibus quam
inter rum et sacerdotum tabernaculis sub aras et delubra condicuntur stupra,
isdem vittis et apicibus et purpuris tractantur lenocinia, adulterio medithure
flagrante libidinem expungi. tantur? frequentius denique in aedituorum cellulis
quam in ipsis lupana- ribus flagrans libido defungitur. Si avverta nel latino
di Minucio il meditantur usato passivamente con una ripetizione inutile di
concetto dopo il condicuntur stupra ; si noti [Salvo se V alibi di M. voglia
interpretarsi: «presso altri autori. Ma tale interpretazione ripugna al
contesto, perchè poco di poi, ricordato ancora Tadulterio di Marte e Venere, e
i rapporti di Giove e Ganimede, soggiunge : quae omnia in hoc (scil. Homero)
prodita ut vitiis hominum quaedam auctoritas pararetur. pure l’esagerazione del
frequentius quam inipsìs lupanaribus che guasta il concetto espresso dal
plerumque di Tertulliano ; in terzo luogo si avverta l’epiteto flagrans
attribuito alla libido, in luogo del thure fla- grante così significativo di
Tertulliano. Infine quel defmgitur, usato assolutamente, e con soggetto di cosa
in senso di « si sfoga » o in quello passivo di viene saziata è tanto poco
giustificato da altri esempi di scrittori latini (*), che fa pensare a un
errore del testo. Forse in luogo di defmgitur, va letto: expungitur .
Tertulliano dopo le cose dette, si dispone a venire alla parte po- sitiva della
sua Apologia, ma prima confuta ancora le dicerie sparse sul conto de’ Cristiani,
che essi adorassero una testa d’asino e avessero in venerazione la Croce.
Quanto alla prima, ne attribuisce l’origine a Tacito, che avendo narrato nel
quinto delle Storie l’esodo degli Ebrei dall’Egitto, e la sete patita nel
deserto, e il fatto che una fontana era stata indicata da alcuni asini
selvatici, aveva soggiunto che gli Ebrei grati a queste bestie del beneficio
ricevuto avevano preso a venerarle. Di poi la stessa cosa sarebbe stata
attribuita ai Cristiani come setta affine ai Giudei. Eppure, dice Tertulliano,
lo stesso Tacito narra bene che quando Pompeo presa Gerusalemme entrò nel
tempio, non vi trovò alcun simulacro. Piuttosto ai pagani possono i Cristiani
rinfacciare che i giumenti e gli asini intieri venerano insieme colla dea
Epona. Quest’ultimo punto, e solo questo, trovasi anche in Minucio onde può
riscontrarsi: Tertull. Apoi.:Tostameli Min.: vos et totos asinos non negabitis
et iumenta omnia et totos in stabulis curri vestra \jveT} Epona concantherios
curri sua Epona coli a vobis secratis, et eosdem asinos cum Iside (cfr. ad
Nationes: sane vos totos religiose decoratis. asinos colitis et cum sua Epona
et omnia iumenta et pecora et bestias quae perinde cum suis praesepibus
consecratis. Impersonalmente trovasi usato defungor in Tee. Adelph.: utinam hic
sit modo defunctum, purché la finisca qui » ; e con soggetto di cosa pub
ricordarsi il barbiton defunctum bello di Orazio, la lira ha finito le sue
battaglie d’amore ». Abbastanza frequente è il defungor usato assolutamente ma
con soggetto personale come in Ter. Phorm.: cupio misera in hac re iam de-
funger e in Ovid. Am.: me quoque qui toties merui sub amore puellae, defunctum
placide vivere tempus erat . Sempre defungi ha senso di « finire la parte sua,
esaurire il proprio mandato. Il ricordo degli asini nel culto d’ Iside è solo
minuciano, e si aggiuuge ancora menzione di altri culti strani, come quello del
bue Api e di altre bestie venerate dagli Egiziani (forse dal De Nat. Deor. di
CICERONE. Quanto al culto della Croce, osserva Tertulliano che anche i pa- gani
adorano i loro idoli di legno ; sarà dunque question di linee, ma la materia è
la stessa, sarà question di forma, ma è sempre il corpo del creduto Dio. Del
resto, dice, le immagini in forma di semplice palo della Pallade Attica e della
Cerere Paria, che gran differenza hanno dal legno della croce? poiché ogni palo
piantato verticalmente è una parte della croce. Poi gli statuari, quando
fabbricano un Dio, si ser- vono d’uno scheletro ligneo a croce, tale in fondo
essendo la figura del corpo umano ; e un sopporto di legno della stessa foggia
usasi pure nei trofei e nelle insegne militari. M. parla di ciò. Ecco alcuni
riscontri: Tertull.: Qui crucis nos reli- giosos putat, consecraneus
(correligionario) erit noster. Cum lignum aliquod propitiatur, viderit habitus
dura materiae qualitas cadera sit, viderit for- ma dum id ipsum Dei corpus sit.
Diximus originem deorum vestrorum a plastis de cruce induci » (allusione a Ad
Nationes dove la fabbricazione degli idoli con uno scheletro ligneo a forma di
croce è ampiamente descritta. Sed et Victorias adoratis cum in tropaeis cruces
intestina sint tropaeorum. Religio Romanorum tota castrensis signa veneratur...
Omnes illi imaginum suggestus in signis monilia crucum sunt; sipbara illa
vexillorum et cantabrorum stolae crucum sunt. Laudo dili- gentiam. Noluistis
incultas et nudas cruces consecrare. Ad Nationes: Si statueris hominem manibus
expansis, imaginem crucis feceris. Tertulliano poi parla ancora della
venerazione del Sole attribuita da alcuni ai Cristiani per l’uso loro di
pregare rivolti ad Oriente Ma anche questo, dice, non è rimprovero che si possa
fare ai Cristiani, Min.: Cruces... nec colimus nec optamus. Yos sane qui
ligneos deos consecratis cruces ligneas ut deorum vestrorum partes forsitan
adorates. Nani et signa et cantabra et ve - xilla castrorum quid aliunt quam
inauratae cruces sunt et ornatae? tropaea vestra victricia non tantum simplicis
crucis faciem verum et adfixi hominis imitantur. Signum sane crucis naturaliter
visimus in navi cum velis tumentibus vehitur, cum expansis palmulis labitur;
et, cum erigitur iugum, crucis signum est,* et cum homo porrectis manibus deum
pura mente veneratur. praticando anche i pagani la preghiera al levar del sole.
E se i Cri- stiani fanno festa il giorno del sole (la domenica), fanno ciò per
ben altra causa che la religione del sole : pure i pagani nel dì di Saturno (il
sabato) si davano all’ozio e al mangiare, scimiottando, a sproposito, i Giudei.
Di ciò nulla in M.. Infine nell’Apologetico ricordasi la pittura da un
miserabile mu- lattiere messa in pubblico, a Roma, rappresentante una figura
umana con orecchie d’asino, e l’un dei due piedi ungulato, vestito di toga e
con un libro in mano, appostavi la iscrizione: Deus Christianorum òvoxoirjtrjQ.
Era un Giudeo l’autore di questo indecente scherzo (ad Nat.); e la gente ci
credette e per tutta la città scorreva sulle bocche quell’ Onocoetes. Ma di
tali mostri, soggiunge, veneransi più fra i pagani che tra cristiani; chè essi
hanno accolto tra i loro Dei esseri con testa di cane e di leone, e corna di
capri e d’ariete, e coda di serpenti, alati le spalle o i piedi. Un fuggevole
ricordo di tali mostri è anche in M., che del resto si tace: d) Tertull. : «
Illi debebant adorare statim biforme numen, quia et canino et leonino capite
commixtos, et de ca- pro et de ariete cornutos, et a lumbis hircos et a
cruribus serpentes et pianta vel tergo alites deos receperunt. Solo è invece M.
a scagionare i Cristiani dell’accusa di adorare sacerdoti virilia; alla quale
occasione ritorce contro gli avversari la taccia di impudicizia, ricordando le
licenze sessuali onde quei cinedi si disonoravano. Min.: item bonra capita et
capita vervecum et immolatis et colitis, de capro etiam et de homine mixtos
Deos et leonum et canum vultn deos dedicatis. Ma venendo ornai alla parte positiva della dottrina,
Tertulliano celebra il Dio unico, creatore del cosmo, invisibile sebben si
veda, incomprensibile sebbene in via di grazia divenga presente, inestimabile
sebbene coll’umano sentimento si stimi. E in quanto si vede, si comprende, si
stima, Egli è minore dei nostri occhi, delle nostre mani, dei nostri sensi; ma
in quanto immenso, a sè solo è noto. Così la sua stessa grandezza lo rende noto
e ignoto insieme a noi. Ecco appunto il gran delitto, consistente nel non voler
riconoscere Dio, mentre non si può ignorare. Non lo attestano le sue opere? non
lo attesta la stessa anima? la quale sebbene incarcerata nel corpo, svigorita
dalla concupiscenza, fatta ancella di falsi Dei, pure quando rientra in sè e
sente la sua sanità naturale, esce fuori in esclamazioni, quali: Dio buono e
grande!, e: ci sia propizio Iddio!, e : Dio vede, e : a Dio ti raccomando e
simili; e queste cose, esclama, non rivolta al Campidoglio, ma al Cielo, sede
naturale del Dio vivo. In Minucio la parte positiva del discorso, per quel che
riguarda la filosofia o teologia razionale, precede la parte polemica o
negativa. Del Dio unico parla Ottavio in principio del suo discorso, e trovansi
diversi luoghi paralleli a passi di Tertulliano. Eccoli: Tertull.: deus ...
totam molem istam verbo quo iussit, ratione qua disposuit, virtute qua potuit
de nihilo expressit. Per il dispensare in confronto col disponere, vedi
CICERONE. Orai.: inventa non solum ordine sed edam momento quodam atque iudicio
dispensare atque disponere . Invisibilis est incomprehensibilis... inaestimabilis.
quod immensum est, soli sibi notus est. Anima cum sanitatem suam patitur, deum
nominat. Deus bonus et magnus et quod Deus dederit 1 omnium vox est. Iudicem
quoque contestato illum ‘ Deus videt ’ et Deo commendo, et Deus mihi reddet \ 0
testimonium animae naturaliter Christianae! Denique pronuntians haec non ad Capitolium sed ad
caelum respicit». Su questo tema dell’anima naturalmente cristiana è noto che
Tertulliano scrisse più tardi un opuscoletto a parte intitolato appunto De
testimonio animae, dove le stesse idee sono esposte con maggiore ampiezza ed
efficacia. Min.: Qui Deus universa quaecumque sunt verbo iubet, ratione
dispensai, virtute consummat hic non videri potest... nec comprendi potest nec
aestimari. Immensus et soli
sibi tantus quan- tus est notus ». « Audio vulgus; cum ad caelum ma* nus
tendunt, nihil aliud quam * o Deus ’ dicunt et ‘Deus magnus est’ et * Deus
verus est’ et ‘ si Deus dederit’. Yulgi
iste natoalis sermo est an Christiani confidente oratio ? L’Apologetico e
importante per le indicazioni delle fonti letterarie della dottrina cristiana.
Ricordati i primi storici ispirati dall’Ebraismo e i profeti e i libri ebraici
tradotti in greco dai Settandue per suggerimento di Demetrio Falereo al tempo
<ìi Tolomeo Filadelfo, ricordata l’antichità dei primi scrittori ebraici
molto maggiore di qualsiasi memoria greca, e fatto anche un cenno di altre
fonti storiche greche, egiziane, caldee, fenicie fino a Giuseppe Ebreo, notata
la concordia e completezza delle profezie che pronunziarono gli avvenimenti
secondo verità, e hanno acquistata autorità sicura anche per le cose ancora da
venire, Tertulliano espone la dottrina di Cristo uomo e Dio. La teoria della
Trinità divina in unità di sostanza è qui già chiara- mente formolata, e
confermasi l’idea del Àóyog, o parola o ragion divina artefice dell’universo,
con testimonianze di antichi filosofi. Poi si riassume la storia di Gesù e
ricordasi la divulgazione della dottrina di lui fatta dagli Apostoli, fino alla
persecuzione neroniana. Ecco dunque, conchiude, qual’ è la nostra fede, che noi
sosteniamo anche fra i tormenti : Deum colimus per Christum . Cristo è uomo ma
in lui e per lui Dio vuol essere riconosciuto e adorato. Di questa, che è la
sostanza del Cristianesimo, Minucio tace affatto; non nomina neppur Cristo, pur
parlando a ogni piè sospinto de’ Cristiani. È questo il lato debole dell’
Ottavio. Solo in un punto uvvi una non chiara allusione alle dottrine
dell’uomo-Dio, uve per iscagionare i correligionari dall’accusa di venerare un
delin- quente dice : « molto siete lungi dal vero, se ritenete si creda da noi
deum aut meridie ìioxium aut potuisse terrenum, che un Dio o si rendesse
colpevole da meritar supplizio o potesse come cosa terrena subirlo; parole non
abbastanza chiare nel testo latino, e che diedero luogo a ben disparate
interpretazioni. Minucio in questo luogo è rimasto inferiore a sè stesso, nè
s’avvide come questa dottrina fondamentale meritava più ampio svolgimento in
una difesa del resto eloquente e sentita della nuova religione. Continuando
Tertulliano la esposizione sua, parla dell’esistenza di sostanze spirituali,
esistenza ammessa già dai filosofi e poeti antichi come dal volgo; e, ricordata
la caduta di alcuni angeli e l’origine dei demoni, parla dell’opera di costoro
tutta rivolta a dannar l’uomo; son essi che eccitano le più strane passioni u
pazzi capricci e corruttele dell’anima; son essi che ingenerano la fede negli
Dei falsi e bugiardi, e, colla loro rapidità di movimenti e parziale notizia
del vero anche futuro, ispirano oracoli e vati, e in tutto contribuiscono a
ingenerare inganni e deviar la mente dal vero Dio. I miracoli dei maghi son da
loro ; da loro spesso i sogni e ogni specie di divinazione. La più bella prova
di ciò, dice Tertulliano, è questa che se uno invaso da un demone si trovi in
faccia a un Cristiano, e questi dia ordine al demone di parlare, quegli
senz’altro si confesserà, quel che è ; e così pure quelli che son creduti
invasi da un Dio, in presenza d’un cristiano confessano di essere nient’ altro
che demoni. Il nome di Cristo basta ad atterrire questi esseri ; una prova di
più cho il nostro è l’unico Dio e vero, e che non esistono gli Dei pagani.
Sicché si vede quanto poca regga l’accusa di lesa religione romana, mentre di
vera irreligiosità si macchiano gli avversari coll’ adorare i falsi Dei, e
diversi nelle diverse regioni, e altresì coll’ impedire a noi il culto del vero
Dio. Tali pensieri trovansi su per giù anche in M.. Ottavio discorre degli
spiriti mali, degradati dalla loro primiera innocenza e tutti intenti a perdere
anche gli altri. Tale discorso continua r offrendo vari luoghi paralleli a
Tertulliano. Tertull. Apolog,:Sciunt daeraones philosophi, Socrate ipso ad
daemonii arbitrium exspectante. Quidni? cum et ipsi daemonium a pueritia
adhaesisse dicatur, dehortatorium piane a bono. Omnes sciunt poetaen. Min.: eos
spiritus daemones- esse poetae sciunt, philosophi disserunt, Socrates novit,
qui ad nutum et arbitrium adsidentis sibi daemonis vel deeli nabat negotia vel
petebat. Il demonio socratico è da Tertulliano giustamente detto debortatorium
a borio; meno esattamente Minucio gli attribuisce efficacia e positiva e
negativa contro la nota verità storica. Quid ergo de ceteris ingeniis vel etiam
viribus fallaciae spiritalis edisseram? phantasmata Castorum, et aquam cribro
gestatara, et navem cingalo promotam f et barbam tactu inrufatam, ut numina
lapides crederentur et deus verus non quaereretur ? Min.: de ipsis daemonibus
etiam illa quae paullo ante tibi dieta sunt, ut Iuppiter ludos repeteret ex
somnio, ut cum equis Castores viderentur, ut cingulum matronae navicula
sequeretur. Tali esempi di miracoli erano conosciuti volgarmente dai libri
relativi all’arte divinatoria, e in riassunti dottrinali non fa meraviglia di
veder citati or gli uni or gli altri. Tertull.: « Iussus aquolibet chrifitiano
loqui spiritus ille tam se daerannem confitebitur de vero quam alibi dominum de
falso. Aeque producatur aliquis ex his qui de deo pati existiraantur Ista ipsa
Virgo caelestis pluviarum pollicitatrix, ipse iste Aesculapius medicina- Tum
demonstrator nisi se daemones confessi fuerint Christiano mentiri non audentes
etc. vobis praesentibus erubescentes. Credite illis, cura verum de se lo-
quuntur, qui mentientibus creditis. Nemo ad suum dedecus mentitur, quin potius
ad honorem de corporibus nostro imperio «xcedunt inviti et dolentes sciunt
pleraque pars vestrum ipsos daemonas de se met ipsis confiteri, quotiens a
nobis tormentis verborura et oratìonis incendiis de corporibus exiguntur. Ipse
Saturnus et Serapis et Iuppiter... vieti dolore quod sunt eloquuntur. nec
utique in turpitudinem sui, nonnullis praesertim vestrum adsisten- tibus
mentiuntur . Ipsis testibiis esse eos daemonas credite fassis adiurati per deum
verum et solum inviti miseri corporibus inhorre- scunt et... exsiliunt. Un
altro riscontro ancora notasi volgendo rocchio a Tertulliano ove si riprende il
discorso degli angeli e dei demoni. Licet subiecta sit nobis tota vis daemonum
et eiusmodi spirituum, ut nequam tamen servi metu nonnunquam contumaciam
miscent, et laedere gestiunt quos alias verentur. Odium enim etiam timor
spirat. Inserti mentibus imperitorum odium nostri serunt occulte per timorem ;
naturale enim est et odisse quem timeas et quem oderis infestare si possis. In
Tertulliano sono i demoni che temendo i Cristiani, appunto per ciò qercano di
offenderli, perchè il timore partorisce odio. In Minucio si fa che i demoni
insinuino nei pagani Todio contro i Cristiani per mezzo del timore. Ma ciò, si
noti, è meno naturale, perchè i pagani non avevano nessuna ragione di temere i
Cristiani. Li odiavano invece senza conoscere la loro dottrina ; ma ciò non ha
a che fare col timore. Non a proposito dunque Minucio fece sua
quest’osservazione psicologica dell’odio figlio del timore. Infine a riguardo
della varietà politeistica, Tertulliano ricorda le bestie venerate in Egitto ;
e qui è da fare un raffronto con M. Tertull.: Aegyptiis permissa est tam vanae
superstitionis po- testas avibus et bestiis consecrandis et capite damnandis
qui aliquem huiusmodi deum occiderint. Min.: nec eorum (Aegyptiorum) sacra
damnatis instituta serpentibus, crocodilis, belluis ceteris et avibus et
piscibus, quorum aliquem deum si quis occiderit etiam capite punitur. Una delle
ragioni che i pagani opponevano più frequentemente alle censure dei loro Dei
fatte dai seguaci del Cristo, era questa che a buon conto Roma doveva la sua
grandezza alla religiosità tradizio* naie e al rispetto degli Dei e delle
cerimonie istituite in loro onore. Di questa idea appunto si fa interprete
Cecilio Natale presso M. nel suo discorso in difesa del paganesimo. I Cristiani
dovettero ribattere queste ragioni, mostrando che Roma se era grande non doveva
nulla ai falsi Dei. Tertulliano svolge questo punto nell’Apologetico. Con
ironia comincia a chiedere se Dei quali Stercolo e Mutuno e Larentina hanno
potuto promuovere l’imperio ; poiché, dice, non è da supporre che Dei
forestieri, come la Gran Madre, favorissero Roma, a detrimento dei loro fedeli
indigeni. Del resto, soggiunge, molti Dei romani furono prima re ; da chi
ebbero la podestà regia? Forse da qualche Stercolo. E il potere di Roma già
era, molto prima che si costituisse il culto ufficiale, e che di idoli greci ed
etruschi fosse inondata la città. Ma poi tutta la storia romana è prova di
irreligiosità piuttostochè di religiosità. Guerre e conquiste di città come si
fanno senza ingiuria agli Dei, senza distruzione di templi e stragi di
cittadini e di sacerdoti, e rapine di ricchezze sacre e profane? E come può
essere che gli Dei delle città vinte tollerino poi d’essere adorati dai
conquistatori ? Non possono dunque essersi fatti grandi per merito della
religione quelli che crebbero coll’offenderla o crescendo l’offesero. Anche
Ottavio in M., svolge questi pensieri, ricordando le scelleratezze compiute da
Romolo in poi, e mostrando la improbabilità che i Romani siano stati aiutati
dai loro Dei vernacoli come Quirino, Pico, Tiberino, Conso, Pilunno, Volunno,
Cloacina, il Pavor e il Pallor, la Febbre, Acca Laurenzia e Flora; tanto meno
li aiuta- rono gli Dei forestieri come Marte Tracio, Giove Cretese, Giunone o
Argiva o Samia o Punica che dir si voglia, Diana Taurica, la madre Idea, o le
non divinità ma mostruosità egiziane, (ricordi attinti a CICERONE e Seneca, v.
ediz. Waltzing. Ecco qualche riscontra con Tertulliano: Tertull.: Tot igitur
sacrilegia Min.: totiens ergo Romania Romanorum quot tropaea, tot de deis
impiatum est quotiens triumphatum, quot de gentibus triumphi, tot manu- tot de
diis spolia quot de gentibus et biae quot manent adhuc simulacra capti-
tropaea. vorum Deorum. Omne regntim vel imperium bellis quaeritur et victoriis propagata. Porro
bella et victoriae captis et eversis plurimum urbibus Constant. Id negotium
sine deorum ini uria non est. Eadem strages moenium et templorum pares caedes
civium et sacerdotum, nec dissimiles rapinae sacrarum divitiarum et profanarum.
Tertull.: Videte igitur ne ille regna dispenset cuius est et orbis qui regnata
et homo ipse qui regnat... Regnaverunt et Babylonii ante ponti - fices et Medi
ante XVriros et Aegyptii ante Salios et Assyrii ante Lupercus, et Amazones ante
Virgines V est ale s. civitates proximas evertere cum templis et altaribus
disciplina com- raunis est Ita quicquid Romani tenent colunt possident,
audaciae praeda est: tempia omnia de manubiis, i. e. de ruinis urbium, de spoliis
deorum, de caedibus sacerdotum. Hoc insultare et inludere est.... adorare quae
manu ceperis, sacrilegium est consecrare non numina. Min.: ante Romanos deo
dispensante diu regna tenuerunt Assyrii, Medi, Persae, Graeci etiam et
Aegyptii, cum pontifices et arvales et salios et vestales et augures non
haberent nec pullos caveas reclusos quorum cibo vel fastidio reip. summa
regeretur. Per non volere i Cristiani sacrificare
agli idoli, erano tacciati sì di irreligiosità, ma non potevano essere
processati per questo, essendo ciascuno libero di avere, come gli piaccia,
favorevoli o sfavorevoli gli Dei. Formale accusa invece si moveva loro per non
volere sacrificare in onore dell’ imperatore divinizzato, e chiamavan questo
lesa maestà. Di ciò parla Tertulliano. La cosa si capisce, die egli ; voi avete
più paura e usate furbescamente più riguardi a Cesare che a Giove stesso in
Cielo. In fondo avete ragione; perchè un vivo vai più dun morto. Ma commettete
voi in questo colpa d’irreligiosità, dando la preferenza a una dominazione
umana; e più presto si sper- giura da voi per tutti gli Dei che per il solo
genio di Cesare. A questo punto è a notare una lieve somiglianza col discorso
di Ottavio presso Minucio, là dove rimprovera i pagani del prestar culto divino
ad un uomo, e dell’ invocare un nume che non c’ è ; pure, dice, è per loro più
sicuro spergiurare per il genio di Giove che per quello del re. Tertull.:
citius de- Min.: et est eis tutine per nique apud vos per omnes Deos quam Ioyìs
genium peierare quam regis. per unum genium Caesaris peieratur. Segue in
Tertulliano un gruppo di capitoli bellissimi in cui con calorosa eloquenza si
fa vedere quanto più onesti ed efficaci voti facessero i Cristiani pregando per
la salute dell’imperatore il Dio uno e vero, e a cbi solo può dare chiedendo
per lui lunga vita, securo imperio, casa tranquilla, forte esercito, senato
fedele, popolo probo, mondo quieto; e ciò non con apparati di culto esterno, ma
con sincerità d’anima e innocenza di vita. I Cristiani, dice, hanno imparato
dal loro Maestro a pregare anche per i nemici e i persecutori; e nel far voti
per la diutur- nità dell' impero, sanno di ritardare quel cataclisma che
minaccia all’orbe universo la fine. Ma non possono chiamare Dio l’ imperatore
senza derisione di lui e ingiuria al vero Dio. Perchè dunque saranno
qualificati come nemici pubblici? Forse perchè si astengono dalle licenziose
feste pubbliche celebrate a solennizzare qualche lieto avvenimento della casa
imperiale? A buon conto, non dai Cristiani, ma dal novero dei Komani escono e i
Cassii e i Nigri e gli Albini, cioè i ribelli all’autorità imperiale; i quali
pure avevan preso manifesta parte alla feste pubbliche e ai pubblici voti per
la salvezza dell’ imperatore. La vera sudditanza e fede dovuta all’autorità sta
nei buoni costumi e nei rapporti d’onestà quali noi Cristiani serbiamo con
tutti. Amando noi i nostri nemici, chi possiamo ancora odiare? Inibita a noi la
vendetta, chi possiamo offendere? Quando mai i Cristiani pensarono a vendi-
carsi neppure del volgo che li malmenava, non rispettando nemmeno i morti?
Eppur quanto facimente avrebber potuto preparare le loro vendette in segreto, o
anche dichiarare aperta guerra, tanto numerosi essi già sono in tutte le città,
nelle isole, nei municipi, nei campi militari, nel senato stesso e a corte !
Potevano anche senz’armi pugnare, ritirandosi in qualche angolo remoto del
mondo e lasciando dietro sè una spaventosa solitudine. Eppure ci avete chiamati
nemici del genere umano, anziché « dell’errore umano. Che ragion vi era di non
considerare la nostra setta come una factio licita, dal momento che non
facciamo nulla che turbi la società, e produca divisioni, attriti, violenze?
Una repubblica sola noi riconosciamo, il mondo. Ai vostri spettacoli
rinunziamo, perchè ne conosciamo l’origine dalla falsa religione. In che
v’offendiamo, se abbiamo altri gusti e piaceri? L’unità della fede e della
speranza ci unisce e ci affratella. Ci aduniamo a pregare e a leggere i libri
santi; ivi ci esortiamo a far bene, e ci rimproreriamo se manchiamo ai nostri
doveri. Si contribuisce un tanto al mese per alimentare i poveri e so- stenere
le spese delle sepolture e dei derelitti. Il nostro mutuo amore 4, dà noia agli
avversari, perchè essi si odiano, noi siamo pronti a morire l’un per l’altro,
quelli ad uccidersi l’un l’altro. Ci riconosciamo fratelli, perchè abbiamo lo
stesso padre Iddio,, e come si mescolano le nostre anime, così mettiamo in
comune le sostanze. Tutto è da noi accomunato, salvo le mogli. Le nostre cene
sono parche e denominate con parola significante amore, e lì si prega prima di
mangiare come dopo, e si canta, chi sa farlo, in onor di Dio. Che male c’ è, o
a chi torna di danno tutto ciò, da parlare di factìo illicita? A questo punto,
il dialogo di M. offre qualche possibilità di riscontro con l’Apologetico.
Giacché, dopo confutata l’accusa di cene incestuose, Ottavio nel suo discorso
prende subito a celebrare l’ innocenza dei costumi cristiani, e qua e là il suo
pensiero corre parallelo a quel di Tertulliano. Tertull., fin.: haec Min.: nec
factiosi (così coitio Christianorum merito damnanda THerald; il cod. ha:
‘fastidiosi 1 ) su- I si quis de ea queritur eo titillo quo de mus, si omnes
unum bonura sapimus factionibus querela est. In cuius perni- eadem congregati
quiete qua singuli. ciem aliquando convenimus? Hoc su- mus congregati quod et
dispersi, hoc universi quod et singuli, neminem lae- dentes, neminem contristantes.
Sed eiusmodi vel maxime dile- sic mutuo, quod doletis amore ctionis operatio
notam nobis inurit pediligimus, quoniam odisse non novimus, nes quosdam. Vide,
inquiunt, ut in vicem sic nos, quod invidetis, frati es vocamus, se diligant;
ipsi enim invicem oderunt; ut unius dei parentis homines, ut con- et ut prò
alterutro mori sint parati; sortes fidei, ut spei coheredes. Yos enim ipsi enim
ad occidendum alterutrum pa- nec invicem adgnoscitis, et in mutua ratiores
erunt. Sed et quod fratres nos odia saevitis, nèc fratres vos nisi sane
vocamus, non alias opinor, insaniunt ad parricidium recognoscitis. quam quod
apud ipsos omne sanguinis nomen de affectione simulatum est. Fra- y tres autem
etiam vestri sumus at quanto dignius fratres et dicuntur et habentur qui unum
patrem Deum agnoverunt, qui unum spiritum biberunt sanctitatis, qui de uno
utero ignorantiae eiusdem ad unam lucem exspiraverunt Veritatis. Tertull.: Deo
offero opimam et maiorem hostiam... orationem de carne pudica, de anima
innocenti, de spiritu sancto profectam. Tertull.: Aeque spectaculis vestris in
tantum renuntiamus in quantum originibus eorum, quas scimus de superstitione
conceptas, cupi et ipsis rebus de quibus transiguntur praetersumus. Nihil est
nobis dictu, visu, auditu cum insania circi, cum impudicitia theatri, cum
atrocitate arenae, cum xysti vanitate. Min.: qui innocentiam colit Deo
supplicat, qui iustitiam Deo libat... qui hominem periculo subripit, opimam (il
cod. ha optimam) vidimavi caedit: a nos. . merito malis voluptatibus et pompis
et spedaculis ve- stris abstinemus, quorum et de sacris originem novimus, et
noxia blandimenta damnamus. Nam in ludis circensibus (così leggo io, il cod.
ha: currulibus) quis non horreat populi in se rixantis insaniam ? in
gladiatoriis homicidii di- sciplinami? in scenicis etiam non minor furor et
turpitudo prolixior ; nunc enira mimus yel exponit adulteria vel monstrat, nunc
enervis histrio amorem dum fingit infigit I capitoli XL e XLI dell’Apologetico
contengono la confutazione dell’accusa che delle pubbliche calamità fossero
causa i Cristiani, come 8’ andava già fin d’allora vociferando, e si seguitò a
dire per molte ge- nerazioni. Tertulliano ricorda molti cataclismi, isole
scomparse, terre- moti e maremoti, e il diluvio, e l’ incendio di Sodoma e
Gomorra, di- sastri avvenuti tutti avanti al Cristianesimo. E col distruggersi
delle città, dice, si distruggevano anche i templi degli Dei; prova che non
veniva da loro ciò che anche a loro accadeva. Bensì il Dio unico e vero non
poteva essere propizio a chi ne disconosceva i favori. Del resto, i mali ora
sono minori di prima, e ciò è dovuto alle preghiere dei Cristiani che disarmano
l’ira divina. Che se il nostro Dio per- mette i disastri anche a danno de' suoi
cultori, ciò non ci stupisce nè sgomenta, aspirando noi a vita più alta e
migliore. Di tutto questo in Minucio non v’ è parola. Altro titolo d’ ingiurie
contro i Cristiani era il ritenerli alieni dagli affari e disutili al commercio
locale. Tertulliano dedica a questo argomento i capitoli XLII e XL1II, dove fa
vedere l' insussistenza di questo rimprovero. Vivevano bene i Cristiani come
gli altri, serven- dosi e dei mercati e delle botteghe e delle officine e dei
bagni pubblici. Che se si astenevano da certi usi, se non si coronavano di
fiori la testa, se non intervenivano agli spettacoli, se non sovvenivano i
templi pagani coi loro contributi, avevano bene ragione di farlo. E del pari
certo quattrini non ricevevano da loro nè i lenoni, nè.i sicari, nè i magi, nè
gli aruspici, nè altri tali ; ma in compenso i Cristiani eran tutte persone
innocue da non dar ombra a nessuno. Qui, rispetto alluso di portar corone di
fiori in capo, si può con- frontare : Tertull.: non amo capiti coronam. Quid tua interest, em- ptÌ8
nihilominus floribus quomodo utar ? Puto gratius esse liberis et solutis et
undique vagis. Sed etsi in coronam coactis, nos coronam nariòus novimus,
viderint qui per capillum odorantur. Min. c. 38, 2 : « quis autem ille qui dubitat
vernis indulgere nos floribus, cum capiamus et rosam veris et lilium et
quicquid aliud in floribus blandi co- loris et odoris est? his enim et sparsis
utimur, mollibus ac solutis, et sertis colla complectimur. Sane quod caput non coronamus, ignoscite; auram bo-
nam floris nariòus ducere non occipitio capillisve solemus haurire. 1 due
capitoli che seguono in Tertulliano, il XLIV e il XLY, sono rivolti a segnalare
l’ innocenza dei Cristiani, proveniente dal se- guire essi una legge non umana
ma divina, e dal considerarsi come in presenza di Dio sempre, di Dio
scrutatore, giudice e vindice. Terlull. Tot a vobis nocentes variis criminum
elogiis recen- sentur; quis illic sicarius, quis manti- cularius, quis sacrilegus
aut corruptor aut lavantium praedo, quis ex illis etiam Christianus
adscribitur? aut cum Chri- stiani suo titulo offeruntur, quis ex illis etiam
talis qttales tot nocentes? De vestris semper aestuat career, de vestris semper
metalla suspirant, de vestris semper bestiae saginantur, de vestris semper
munerarii noxiorum greges pascunt. Nemo illic Christianus nisi piane tantum
Christianus, aut si et aliud iam non Christianus. : quid perfectius, prò-
hibere adulterium, an etiam ab oculorum solitaria concupiscentia arcere ? : u
Christianus uxori suae soli masculus nascitur. Min.: de vestro numero career
exaestuat, Christianus ibi nullus nisi aut reus suae religionis aut'profugus:
vos enim adulteria pròhibetis et facitis, nos uxoribus nostris solummodo viri
nascimur. Pur vinti da tanta copia di fatti e bontà di ragioni, non si
arrendevano gli avversari de’ Cristiani, e, a corto d’altri argomenti, finivano
con dire che in sostanza le massime cristiane non erano cosa nuova, ma erano
già state professate e praticate dai filosofi. Di ciò Tertulliano nel capitolo
XLYI, dove istituisce un eloquente confronto tra le massime e la vita pagana da
una parte e i precetti e costumi cristiani dall’ altra, per dimostrare la
superiorità dei secondi. Qui un riscontro con M.: Tertull. c. XLVI: a ... licet
Plato Min. c. 19, 14: u Platoni... in Ti- adfirmet factitatorem universitatis
ne- maeo deus est ipso suo nomine mundi que inveniri facile et inventum enar-
parens, artifex animae, caelestium ter- rari in omnes difficile. Cfr. Plat. Tim.
renorumque fabricator, quem et inve-: « Tòv fxhv noirjrijy xai nire difficile
praenimia et incredibili naréga tovóe tot) navròg eògeìv re eg- potestate (cfr.
Plato qui inve- lo!', xai etigóvia elg ndvrag àóvvarov nire Deum negotium
credidit, et Xéyeivn. cum inveneris in publicum praedicere impossibile
praefatur. Non può negarsi, riconosce Tertulliano, che i filosofi antichi hanno
espresso molte cose vere, ma queste son derivate dalla fonte dei nostri
profeti. E queste stesse verità sono involute e com- mescolate a ipotesi e
opinioni disparatissime, sicché poi questi filosofi sono in completo disaccordo
gli uni cogli altri. Tale varietà d’opinioni pur troppo venne anche introdotta
nella setta cristiana, sicché bisognò prescrivere ai nostri adulteri, quella
essere regola di verità la quale venga a noi trasmessa da Cristo per mezzo de’
suoi compagni. Per queste adulterazioni della verità, insinuate dagli spiriti
dell’errore, certi prin- cipii già si trovano tra i pagani, come il giudizio
finale delle anime, le pene dell’inferno e il soggiorno delizioso degli Elisi,
ma tali prin- cipii in quanto hanno del vero, sono di origine nostra. Tertull.:
quis poetarum, quis Min.: animadvertis philososophistarum,qui non omnino de
prò- pbos eadem disputare quae dicimus, pbetarum fonte potaverit? non quod nos
simus eorum vestigia u Unde baec ... nonnisi de nostris sasubsecuti, sed quod
illi de divinis praecramentis? Si de nostris sacramentis, dictionibus
profetarum umbram inter- ut de prioribus, ergo fideliora sunt no- polatae
veritatis imitati sint ». stra magisque credenda, quorum imagines quoque fìdem
inveniunt. Una delle credenze cristiane più combattute e derise dagli
avversarli, era quella della resurrezione finale dei corpi e del ritorno delle
anime in que’ corpi che già avvivarono. A questo dogma dedica Ter- tulliano il
cap. XLYIII, adducendo la ragione della divina onnipo- tenza, che come ha dal
nulla creato il mondo, così può far risuscitare i corpi morti. Non è
quotidianamente sotto gli occhi nostri il segno della resurrezione
nell’alternativa della luce e delle tenebre, nel tramontare e rinascere delle
stelle, nel rifarsi delle stagioni e dei prodotti della natura? Se a Dio fosse
piaciuta altresì l’alternativa della morte e della resurrezione, chi l’avrebbe
impedito? Volle invece che alla condizione presente di vita passeggera, si
contrapponesse un’altra vita eterna, e a questa passassero tutti risorgendo coi
corpi, per vivere un’eternità di premio o di pena secondo i meriti di ciascuno.
E il fuoco eterno che aspetta i dannati, è di natura ben diversa dal nostro;
come altro è il fuoco che serve agli usi umani, altro quello che apparisce nei
fulmini del cielo o nelle eruzioni dei vulcani, perchè questo non consuma
quello che brucia, e mentre disfa, ripara. Tali principii se sono professati da
filosofi e da poeti, si tollerano e si lodano; perchè noi Cristiani dobbiamo
esserne derisi e anche puniti? Infine queste credenze sono utili, perchè
allontanano dal mal fare colla paura dei divini castighi, e, alla peggio, non
fan male a nessuno. Anche M. mette in bocca al suo Ottavio alcune considera-
zioni sulla fine del mondo e la risurrezione dei morti, dedicandovi tutto il
capo 34 e parte del 35. Sulla fine del mondo ricorda le opinioni degli Stoici e
degli Epicurei e anche di Platone circa la conflagrazione finale dell’universo,
e giustifica così la credenza cristiana. Per la risurrezione pure cita Pitagora
e Platone, ma solo per dimostrare che i saggi pagani in questo vanno in qualche
modo d'accordo coi Cristiani. Ricorre anch’egli all’argomento dell’onnipotenza
divina e alla possibi- lità che rinasca dal nulla quello che dal nulla ebbe
origine, come accenna pure ai segni di risurrezione dati dalla natura, e alle
condizioni del fuoco eterno. Qui alcuni riscontri: Tertull.: sed quomodo,
inquis, dissoluta materia exhiberi potest? Considera temetipsum, o homo, et
fidem rei invenies. Kecogita quid fueris antequam esses. Utique nihil; Min.:
quis tam stultus aut brutus est, ut audeat repugnare, hominem a Deo ut primum
potuisse fingi, ita posse denuo reformari? Sicut de nihilo nasci licuit, ita de
nihilo limeminisses enim si quid fuisses. Qui cere reparari? porro difficilius
est id ergo nihil fueras priusquam esses, idem quod non sit incipere, quam id
quod nihil factus cum esse desieris, cur non fuerit iterare. Tu perire et Deo credis possis
rursus esse de nihilo eiusdem si quid oculis nostris hebetibus subipsius
auctoris voluntate qui te voluit trahitur ? » esse de nihilo ? Quid novi tibi
eveniet ? Qui non eras factus es; cum iterum non eris fies. Et tamen facilius
utique fies quod fuisti aliquando, quia aeque non difficile factus es quod
nunquam fuisti aliquando. Lux
coti die interfecta Min. ib. 11: «in solacium nostri resplendet et tenebrae
pari vice dece- resurrectionem futuram natura omnis dendo succedunt, sidera
defuncta vive- meditatur. Sol demergit et nascitur, scunt, tempora ubi
finiuntur incipiunt, astra labuntur et redeunt, flores occi- fructus
consummantur et redeunt, certe dunt et revirescunt, post senium ar- semina non
nisi corrupta et dissoluta busta frondescunt, semina nonnisi cor fecundius
surgunt, omnia pereundo ser- rupta revirescunt». vantar omnia de interitu
reformantur. Tertull. ibid.: «
Noverunt et phi- : Illic sapiens ignis losophi diversitatem arcani et publici
membra urit et reficit, carpit et nutrit. ignis. Ita longe alius est qui usui
hu- Sicut ignes fulminum corpora tangunt mano, alius qui iudicio Dei apparet,
nec absumunt, sicut ignes Aetnaei monsive de caelo fulmina stringens, sive de
tis et Vesuvi montis et ardentium ubi- terra per vertices montium eructans: que
terranno flagrant nec erogantur, non enim absumit quod exurit, sed dum ita
poenale illud incendium non damnis erogat reparat. Adeo manent montes sem-
ardentium pascitur, sed inexesa corpo- per ardentes, et qui de caelo tangitur,
rum laceratione uutritur. salvus est, ut nullo iam igni decinerescat. Et hoc
erit testimonium ignis aeterni, hoc exemplum iugis iudicii poenam nutrientis. Montes uruntur et durant. Quid nocentes et Dei
hostes? Eccoci all’ultimo capitolo dell’Apologetica, dove il grande scrittore
africano giustifica l’atteggiamento dei Cristiani, esultanti di essere
perseguitati e di soffrire anche la morte per la confessione di Cristo. Tale
atteggiamento era oggetto di vive censure; eran considerati i Cristiani come
gente disperata e perduta. Pure gli antichi avevano celebrato invece come eroi
gloriosi alcuni uomini che avevano patito, senza scomporsi, i più atroci dolori,
quali un Mucio Scevola, un Attilio Regolo, ecc. Perchè han da stimarsi pazzi i
Cristiani che fan lo stesso? Del resto, conchiude Tertulliano, fate pure, o
buoni governanti, contentate la plebe tormentandoci, condannandoci,
uccidendoci; codesta crudeltà non servirà che ad aumentare il nostro numero; il
nostro sangue è seme; il nostro esempio e l’ostinazione che ci rinfacciate, fa
scuola ; perchè chi ci vede e ammira, sente di dover ricercare che cosa ci sia
sotto, e conosciuto vi si converte, e convertito desidera patire alla sua volta
per redimere la sua vita anteriore e ottenere Feterno premio. Di analogo
argomento, della resistenza dei Cristiani al dolore e della lotta loro contro
le minaccie e i tormenti dei carnefici, discorre pure Ottavio in Minucio. Anche
per lui il soffrire non è castigo, è milizia, e non è vero che Dio abbandoni
chi soffre, anzi lo assiste e a sè trae. Che bello spettacolo per Dio quando il
cristiano scende in lizza col dolore e le minacce e le torture, e contro re e
principi difende a testa alta la libertà della sua fede, non cedendo che a Dio,
vincitore anche di chi lo condanna e uccide. Glo- rioso ritiensi colui che
tormenti ha sostenuto con costanza; ma altret- tali e peggiori soffrono col
sorriso sulle labbra i fanciulli e le donnicciuole cristiane, evidentemente
perchè li aiuta Iddio. In manifesta affinità di pensieri, non mancheranno
riscontri di parole: Tertull. c. L: Victoria est... prò quo certaveris
obtinere. Haec desperatio et perditio penes vos in causa gloriae et famae vexillum
virtutis extollunt. Mucius dexteram suam libens in ara reliquit: o sublimitas
animi ! Empedocles totum
sese Catanensium Aetnaeis incendiis do- navit : o vigor mentis! Aliqua Cartaginis conditrix rogo se secundum
matrimonium dedit : o praeconium castitatis! Regulus ne unus prò multis
hostibus viveret, toto corpore cruces patitur: o virum fortem et in captivitate
victorem! etc. Min.: vicit qui quod contendi obtinuit. vos ipsos calamitosos
vi- ros fertis ad coelum, Mucium Scaevolam, qui cum errasset in regem perisset
in hostibus nisi dexteram perdidisset. Et quot ex notfris non dextram solum sed
totum corpus uri, cremari, sine ullis eialatibus,pertulerunt,cum dimitti prae-
sertim haberent in sua potestate! Viros cum Mucio aut cum Aquilio aut Regulo
Comparo? pueri et mulierculae nostrae cruces et tormenta, feras et omnes
suppliciorum terriculas inspirata patientia doloris inludunt. Messoci sott’occhio ordinatamente e nel modo più
compiuto possibile il materiale di raffronto fra Tertulliano e M., possiamo
risolvere il problema, quale dei due abbia avuto sott’occhio l’opera
dell’altro. A questo fine chi ci ha seguito fin qui voglia con noi fare due
osservazioni. La prima è che in molti luoghi si trova la stessa materia
trattata con ampiezza e originalità di vedute da Tertulliano, e accennata
brevemente da Minucio; ad es. al § 1 c, come già s’è osservato, a tutta una
teoria tertullianea sulla natura del male morale e sull’atteggiamento del
malvagio, teoria addotta per mostrare che non era un male Tesser cristiano,
corrisponde in Minucio un cenno fuggevole della stessa sentenza; così al § 2 d,
la natura della fama o diceria è rilevata con minuziosa analisi da Tertulliano,
ed è, in frase inci- dente, come per transenna, e con parole per sè sole non
chiare, toccata da Minucio; lo stesso dicasi al § 6 i, sullo scheletro ligneo a
forma di croce adoperato nel fabbricare gli idoli; e ‘al § 13 b, sull’essere i
delinquenti in massima parte pagani e d’altri brani ancora. In tutti questi
casi si ha egli a pensare che Tertulliano, visto il breve cenno minuciano, n’
abbia preso occasione per ampliare e a volte costruire una teoria intiera
basata sull’osservazione psicologica? o non si presenta anzi spontanea
l’ipotesi che M. abbia conosciute e fatte sue le spiegazioni tertullianee,
riassumendole dov’ e’ credeva opportuno? A chi non parrà questo secondo
processo ben più naturale del primo? Non è questo il modo comune di lavorare in
opere letterarie, quando non si tratta di amplificazioni rettoriche e luoghi
comuni? Chi potrà credere il rapporto inverso, se tenga conto dell’ ingegno
vigoroso, del ragionamento serrato e a fil di logica di Tertulliano, in comparazione
dei discorsi alquanto rettorici da M. messi in bocca agli inter-locutori del
suo dialogo? La seconda osservazione che noi vogliamo si faccia, ci conferma
nell’ ipotesi della priorità di Tertulliano; e questa riguarda i passi dove
Minucio presenta lo stesso pensiero e la frase tertullianea, ma o in luogo meno
opportuno per la concatenazione delle idee, o con aggiunta od uso di parole che
alterano il concetto esagerandolo. Fin dal prime riscontro segnalato al § 1 a,
il cenno del non volere i pagani udire pubblicamente i Cristiani desiderosi di
difendersi, vien fuori poco opportunamente come argomento del non essere essi
Cristiani in angulis garruli Così al § 3, già s’è notata la stranezza del
derivare dalle cerimonie di Giove Laziale gli usi sanguinarii di Catilina e di
Bellona. Nello stesso § 3, il riscontro f ci dà un esempio di esagerata
espressione in quel plerique sostituito al quidam di Tertulliano; come al § 4
g, è fuor di squadra il frequentius. Inesattezze pure riscontrammo al § 5 f,
dove è attribuita ad Omero una leggenda che non gli appartiene, e ove del
demonio socratico si parla men corretene)] tamente che in Tertulliano. Ma il
passo più significativo è al § 9 g, ove poco a proposito, come già s’ è
rilevato, Minucio fece sua l’osser- yazione psicologica del timore che
partorisce odio. Tali difetti dell’esposizione minuciana sono una evidente
conferma della priorità ter- tullianea ; è nella natura delle cose che l’
imitatore non afferrando con precisione i concetti dello scrittore che gli serve
di modello, alteri i rapporti delle idee e le renda in modo difettoso ; mentre
è ben più raro, se non impossibile, che un imitatore, prendendo le mosse da un
lavoro altrui, ne emendi tutti i difetti, raggiungendo una precisa coe- renza e
spontaneità, quale spicca in Tertulliano. Vi sono però due luoghi che paiono
far contro la nostra tesi. Uno è al § 5, b e d, ove a una semplice parola o
proposizione tertullianea: consecratione; d: statuas milvi et mures et araneae
in - ielligunt) corrisponde in Minucio una descrizione più ampia e ricca di
particolari. Ma, se ben si guardi, ciò non vuol dir nulla contro la tesi che
sosteniamo. Già prima si può pensare che Minucio, come per altre parti del suo
dialogo prese da Cicerone e da Seneca, così per questa abbia attinto ad altra
fonte oltre l’Apologetico, desumendone sia la descrizione dell’ idolo che
finché vien lavorato non è Dio e lo diventa appena è consacrato dall’uomo, sia
quella dei topi, delle rondini, dei ragni che rodono e fanno il nido e le
ragnatele nelle statue dei templi. Ma può anche darsi che qui s’abbia a fare
con una semplice amplificazione del pensiero suggerito dall’espressione di
Tertulliano, amplificazione non contenente altro che osservazioni semplicissime
e di dominio comune. Tanto più è probabile che tale lavoro si deva attribuire a
M., quanto che la caratteristica del suo stile, cioè l’uso degli asindeti
trimembri con omeoteleuto, si trova qui più volte: funditur fabricatur
sculpitur; plumbatur conslruilur erigitur; ornatur eonsecratur oratur; rodunt
inculcant insident; tergetis mundaiis eraditis, ecc. L’altro punto che deve qui
discutersi riguarda il fatto già segnalato, a, pel quale Ebert e molti altri
conchiusero senz’altro per la priorità di M., vale a dire l’errore commesso da
Tertulliano completando in Cassius Severus il nome dello storico Cassius così
letto da lui nelle sue fonti. Pur riconoscendo che Tertulliano ha qui commesso
un errore, era proprio necessario di supporre che l’indicazione di quelle fonti
storiche, Diodoro e Tallo Greci, Cassio e Cornelio Romani, egli l’avesse presa
da M.? Si noti che il discorso si aggira intorno alla spiegazione euemeristica
degli Dei pagani, e si ricercano le vicende di Saturno e di Giove per
conchiuderne che costoro in origine erano nomini. Ora questa tesi non era solo
degli apologeti cristiani, ma da secoli era di dominio comune in molte scuole
filosofiche. Può dunque ben darsi che in qualche libro euemeristico del primo o
del secondo secolo dell’era volgare già si citassero Diodoro Siculo e Tallo,
Cassio e Cornelio Nipote, e anche Varrone, a conferma della dottrina ; può
essere che la citazione di quei nomi fosse diventata come un luogo comune;
tant’ è vero che un secolo dopo Tertulliano, ancor la ripete con poche varianti
Lattanzio. Questo è l’unico punto in cui ritengo vera l’ipotesi di una fonte
comune anteriore a Tertulliano e M.. Il che se si ammette, l’errore di
Tertulliano non dice più nulla a favore della priorità di Minucio e contro la
tesi inversa da noi propugnata. Da questa stessa fonte euemeristica potrebbero
supporsi derivati i particolari minuciani che sopra avvertimmo non trovarsi in
Tertulliano, come pure ne derivarono le tradizioni simili a quella che si legge
nel De origine gentis Romanae e nei breviari storici concernenti le origini di
Eoma. Sia dunque lecito di conchiudere che l’ Ottavio di M. è posteriore
all’Apologetico; di non molto forse, se al tempo della sua comparizione era
ancora sì viva la memoria dell’oratore Frontone da ricordarlo nel modo che
fanno i due interlocutori del dialogo: Girtensis noster, : Pronto tuus. Non
andarono forse errati quelli che supposero composto il dialogo nel primo o al
più nel secondo decennio del terzo secolo, come certo l’Apologetico è degli
ultimi anni del secondo. Insù . : omnes ergo non tantum poetae sed historiarum
quoque ac rerum antiquarum scriptores hominem fuisse consentiunt Saturnum. Qui res eius in Italia gestas
prodiderunt, Graeci Diodorus et Thallus t Latini Nepos et Gassius et Varrò. V.
il Minucio del Waltzing. Marco Minucio Felice – He wrote “Ottavio” – draws on a
speech by Frontone. – cf. Marco Minucio Felice. Refs. : Luigi Speranza, « Grice e Minucio, » The
Swimming-Pool Library. Minucio.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Miraglia:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale di CICERONE – la
scuola di Reggio -- filosofia emiliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Reggio). Filosofo italiano. Reggio, Emilia. Grice: “Miraglia is
the type of philosopher beloved by the Oxford hegelians; but then he is a
Neapolitan Hegelian!” Grice: “I always found Kant easier, but there’s nothing
like a ‘filosofia del diritto’ in Kant! And Hegel’s ethics itself, compared to
Kant’s is mighty more complex – that’s why I taught Kant!” Si laurea a Napoli, dopodiché insegna filosofia del
diritto nella stessa università, ed economia politica alla scuola superiore di
agricoltura di Portici. Segue una
corrente di pensiero eclettica, ad esso contemporanea, che mira
all'integrazione di pratiche giuridiche ed ispirazioni filosofiche. Sindaco di
Napoli. Tra le più famose si ricordano: “Condizioni storiche e scientifiche del
diritto di preda (Napoli); “Un sistema etico-giuridico” (Napoli); “Filosofia
del diritto” (Napoli). Nella sua biografia ufficiale per la Treccani è nato a
Reggio nell'Emilia, mentre nella sua scheda storico-professionale sul sito del
Senato si riporta a Reggio di Calabria. Giuseppe Erminio. Enciclopedia
Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, (latinista) Sindaci di
Napoli Senatori della legislatura del Regno d'Italia Luigi Miraglia, su Treccani Enciclopedie,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Opere su open MLOL, Horizons Unlimited srl. su Senatori d'Italia, Senato della
Repubblica. I sistemi filosofici ed i principi del diritto. La speculazione greca
e LA DOTTRINA ROMANA. Fichte. Spedalierie Romagnosi. Gli scrittori della
reazione. La scuola storica e la scuola filosofica. Schelling e Scleiermacher. Hegel
Rosmini. Herbart, Trendelenburg e Krause.Le varie fasi della filosofia di
Schelling. Sthal e Schopenhauer Il materialismo, il positivismo ed il
criticismo. L'idea della filosofia del diritto. La Filosofia e le scienze. Il carattere
della Filosofia mo. L'idea del Diritto
ed i metodi logici. L'induzione e la deduzione. L'induzione, l'osservazione e
l'esperimento. L'idea del Diritto naturale e quella del buono civile di AMARI
ricavate dall'induzione. L'importanza del metodo storico-comparativo secon do VICO
Amari, Post e Sumner-Maine. Parallelo fra lo sviluppo della lingua e lo
sviluppo del Diritto. L'induzione statistica. Il compito della deduzione.
L'universale astratto e l'universale concreto come principi. Moderna divinato
da VICO. La Filosofia del Diritto come parte della Filosofia. L'idea umana del
Diritto se condo la dottrina di VICO, e le definizioni di Kant, di Hegel, di Trendelenburg,
di ROMAGNOSI e di SERBATI. La teoria sociale e la teoria giuridica. Il Diritto
e la Filosofia positiva. L'idea induttiva del Diritto. Lo studio della
coscienza etico-giuridica dei vari popoli. Il contributo della razza ariana e
della razza semi tica nella storia della civiltà. L'idea del diritto come
misura in LA RAZZA ARIANA. La misura riposta nel l'ordine fisico, nella legge
positiva e nella ragione. Il principio della personalità. Gl’elementi organici
e spi rituali della persona e la loro corrispondenza. La spiegazione del
materialismo. La teorica dell'evoluzione. La critica dell'evoluzionismo
meccanico La teorica dell'evoluzione e la Psicologia. Il sentimento
fondamentale e le sensazioni. La coscienza e la sua origine. Le
rappresentazioni sensibili e le rappresentazioni coscienti. Il pensare e le categorie. La cognizione secondo
l'empirismo oggettivo. La critica di questa teoria. I presupposti pratici
dell'idea deduttiva del Diritto. Sviluppo e partizione. L'istinto, il desiderio
e la volontà. L'arbitrio e la libertà morale. La costanza degl’atti umani
rivelata dalla Statistica. Il fine dell'uomo ed il bene. Il bene umano ed il
Diritto. La forma imperativa, proibi. I presupposti teoretici dell'idea
deduttiva del Diritto. Seguito dei presupposti teoretici. tiva e permissiva del
Diritto. Il Diritto come principio di co-azione, di coesistenza e di armonia.
La tri-partizione razionale del Diritto. La divisione di Gaio. Analisi critica
delle principali definizioni del Diritto. Le dottrine che riguardano a preferenza
il contenuto sensibile del diritto: Hobbes, Spinoza, Roussean, Mill e Spencer.
Le dottrine che considerano il diritto come astratta forma razionale: Kant, Fichte
ed Herbart. Le definizioni di Krause e di Trendelenburg. Ciò che vi è di vero
nelle dottrine esaminate. Il Diritto, la Morale e la Scienza sociale. Il
Diritto come disciplina etica. I rapporti fra Morale e Diritto nella storia.
Critica della confusione e della separazione dei due termini. Il fondamento
comune e la differenza reale. L'Etica e la vita sociale.VICO, Süssmilch ed i
fisiocrati precursori della Scienza sociale. La Sociologia di Comte ed i vari
indirizzi. La Sociologia di Spencer. La Sociologia come Filosofia delle scienze
sociali. Le analogie tra la società e l'organismo. Le relazioni fra il Diritto
e la Scienza sociale. Il Diritto, l'Economia sociale e la Politica.
L'ordinamento sociale-economico ed i filosofi del Diritto antichi e moderni.
L'Etica, la Sociologia fondata sulla Biologia, la Politica e la Storia come
presupposti dell'Economia. Il carattere del fatto economico. I rapporti tra il Diritto
e l'Economia. Il concetto della Politica. La Politica, la Scienza sociale,
l'Etica ed il Diritto. L'idea compiuta dello Stato. Il Diritto razionale ed il
Diritto positivo. Fonti ed applicazioni. La distinzione del Diritto razionale
dal Diritto positivo in sé e nella storia. La consuetudine ed il costume
primitivo. La giurisprudenza ed i suoi uffici. La legislazione ed i codici. L'efficacia
della legge nello spazio.L'efficacia della legge nel tempo. Esame delle diverse
teorie sulla retroattività . Diritto Privato. La persona. I diritti essenziali
o innati ed i diritti accidentali o acquisiti. Il principio dei diritti. Il
diritto alla vita fisica e morale. Il diritto alla libertà. I diritti all'eguaglianza,
alla sociabilità ed all'assistenza. Il diritto di lavoro . Il concetto storico
dei diritti innati. I diritti dell'uomo nello stato di natura.Lo stato di na.
tura dei filosofi del secolo decimottavo in rapporto. La persona ed i suoi
diritti. Le persone incorporali. Lo scopo delle persone incorporali. La teoria
della fin. La proprietà e i modi di acquisto. La proprietà e dil suo fondamento
razionale. Dottrine in torno a questo fondamento. Le limitazioni ed i
temperamenti della proprietà. I modi originari e deri vativi di acquisto La
storia della proprietà e dei modi di acquisto. L'attività procacciatrice
dell'animale e dell'uomo. La storia della proprietà e la storia della persona.
La proprietà collettiva. La comunità di famiglia. Il Cristianesimo ed il valore
della persona individua. Il feudo. La riforma ed il diritto naturale.La com
piuta individuazione ed itemperamenti della proprie tà privata. I modi di
acquisto primitivi. Le distin zioni dei beni. L'usucapione, l'equità e la
procedura civile.. ! all'ordine di natura dei giureconsulti romani e dei
filosofi greci.La teorica della conoscenza ed ilmodo di concepire i diritti
essenziali della persona. I diritti innati e la Filosofia moderna. Il regime
dello status e del contratto . zione e dell'equiparazione. La teoria che
riguarda la persona incorporale come veicolo. La teoria del patrimonio sui
juris. Le idee dei pubblicisti tedeschi.Il soggetto reale nella corporazione e
nella fon dazione. I diritti delle persone incorporali ed il jus confirmandi
dello Stato. La teoria di Giorgi. La proprietá prediale. Il collettivismo territoriale.
La teoria di Wagner sulla proprietà dei fabbricati. La teoria di Spencer sulla
proprietà del suolo. La proprietà privata del suolo e la rendita. Le dottrine
di George e di Loria sul la terra La proprietà forestale e mineraria. Le
funzioni dei boschi. La libertà del taglio. Il vincolo e le sue ragioni. La
proprietà mineraria e le fasi della industria. La critica degli argomenti in
favo re del proprietario del suolo. La dottrina che attribuisce la miniera allo
scopritore . La merce lavoro ed il suo prezzo. Il lavoro come pro prietà. La
coalizione e lo sciopero. La giuria industriale.La proprietà del capitale ed il
profitto. Il collettivismo ed il mutualismo. La teoria di Marx. La critica del
collettivismo e della teoria di Marx. Le coalizioni degl'intraprenditori. La
proprietà commerciale, il diritto di autore e di scopritore. Il concetto della
proprietà commerciale. La libertà dello scambio. La concorrenza. La nozione
primitiva del commercio. Il diritto di autore prima e dopo l'in La
propriatà industriale. La classificazione dei diritti sulla cosa altrui. Le
servitù gimento dell'istituto nelle legislazioni. Esposizione critica delle
varie dottrine assolute e relative. Il fon damento razionale. La critica della
teoria di Ihering sulla volontà di possedere. Le obbligazioni. zioni. Le loro
varie specie e modalità. I differenti modi di estinzione . Il contratto e le
sue forme. L'indole del possesso. La sua origine storica. Lo svol
L'obbligazione. La sua origine. Le fonti delle obbliga La nozione del
contratto. Le sue fasi ed il suo fonda. mento. I requisiti essenziali. I vizî
del consenso ed alcune recenti teorie. L'interpretazione dei contratti. Le loro
classificazione e le dottrine di Kant e di Trendelenburg. venzione della
stampa. Il suo fondamento ed il suo carattere. La garentia del diritto dello
scopritore I diritti reali particolari. e le loro specie. In quali modi le
servitù nascono, si esercitano e si estinguono. L'enfiteusi. La superficie. Il
pegno e l'ipoteca. Il carattere del diritto di ritenzione Il possesso. La
libertà di contrarre ed il contratto di lavoro. La libertà di contrarre, i suoi
limiti e la sua guarentigia.. L'interesse e la sua limitazione. La libertà
dell'interesse. L'usura ed i suoi procedimenti. L'usura come forma dell'ingiusto
civile ed i modi di combatterla. L'usura come delitto. Critica della teoria di
Stein. La figura specialedeldelittodiusura.La leggeela vita. La società, la
cambiale, il trasporto e alcuni contratti aleatori. Il contratto di società e
le sue forme. La società e la. Il prestito usurario. persona incorporale. Il
regime dell'autorizzazione e della vigilanza. La cambiale antica e la moderna.
L'indole del contratto di trasporto. L'assicurazione e le nuove teorie. Il
giuoco. La missione sociale del diritto privato. L'eguaglianza delle parti
nella locazione di opera. I sistemi che regolano la responsabilità
dell'intraprenditore negli infortuni del lavoro. La famiglia primitiva. L
accoppiamento e l'istinto di riproduzione fra gli animali. Le teoriedi LUCREZIO
e di VICO. Le unioni pri mitive. La famiglia femminile. L'erogamia ed il ratto.
Gl'inizi e lo sviluppo della famiglia patriar . matrimonio. Le sue
condizioni.Il matrimonio civile. La precedenza del matrimonio civile. I
rapporti fra i coniugi. L'autorizzazione maritale. Il libro di Bebel e le idee
di Spencer. I sistemi con cui si regolano i beni nel matrimonio.
L'indissolubilitá matrimoniale ed il divorzio. L'ideale dell'indissolubilità.
Le esigenze concrete della vita.La quistione del divorzio in rapporto ai
diritti individuali ed alle ragioni sociali e storiche. Il divorzio e la
Chiesa. Le cause di divorzio.Le cautele. La tendenza a rivivere in altri. Il
fondamento e le fasi della patria potestà. La tutela,le sue specie e la cura. L'adozione.
I figli nati fuori del matrimonio. La ricerca della paternità. La
legittimazione . Idea, storia e fondamento della successione. Il concetto
dell'eredità. La successione legittima e la te. stamentaria nella storia. La
successione ed il culto degli antenati. Le dottrine intorno al fondamento
cale. La progressiva individuazione della parentela. Il processo di
specificazione e la fine della famiglia. L'amore come fondamento del
matrimonio. L'idea del La societá coniugale.. La società parentale. della
successione. Il condominio domestico ed il diritto di proprietà come basi della
successione. La successione legittima e la testamentaria. La prossimità della
parentela e del grado. La capacità
di succedere. Le classi degli eredi. La rappresentazione. La capacità di
testare e di ricevere per testamento. Le specie di testamenti, La legittima. Il
diritto di rappresentazione e la successione testamentaria. L'errore nella
causa finale ed impulsiva, e le condizioni.Il diritto di accrescere. La
sostituzione e la fiducia. I principi comuni ad ogni specie di
successione. Il mondo romano è il mondo del volere, e quindi del diritto e
della politica. Il volere in siffatto mondo da un lato continua a mostrarsi
negli ordini superiori ed inflessibili dello stato, e dall'altro comincia a
svolgersi in forma di diritto individuale. Con il principio del volere, di sua
natura soggettivo, il diritto privato non può non sorgere, e lo stato non può
più per lunghissimo tempo conservare le rozze sembianze d'una organica
oggettività naturale. In Roma, il diritto privato ė nei suoi primi momenti
stretto, ferreo ed arcano. Poi è ampliato, oltre al divenire palese, giovato,
supplito e corretto dall'equità, ch'è lo stesso diritto in opposizione ad una
legge, la quale non ha saputo attuarlo. Alla fine è diritto umano, e per
conseguenza proclama il principio, che la schiavitù, istituto delle genti e contronatura,
non riguarda l'anima, echegliuomi ni innanzi al diritto naturale sono liberi ed
eguali. CICERONE, il filosofo più alto del mondo romano, non avendo
coscienza scientifica della manifestazione del diritto soggettivo, come atto
dell'astratta potenza del volere, ė inferiore alla stessa realtà romana. CICERONE
non è autore di una filosofia propria, e segue d’ecclettico gli scrittori greci.
CICERONE professa il dubbio, non crede che la mente possa Il vuoto
soggetto, rappresentato dall’accademici come oggetto, riceve ora tutta la sua
concretezza, ed è in seno del Cristianesimo determinato quale Verbo o mente
assoluta. La filosofia quinci innanzi s'informa al principio soggettivo.
L'uomo, immagine di Dio ed in carnazione del verbo, si riabilita; e lo stato
antico, perdendo il suo alto significato, è costretto a rimpiccolirsi. La parte
più intima dell'individuo non è più sottoposta alla potestà politica, sibbene
alle nuove credenze, che in origine si mantengono in quell'ambiente ce leste in
cui sono nate, e si oppongono al mondo ancora pagano. L'Apostolo scorge una
contraddizione tra gli stimoli della carne e gl’impulsi dello spirito. LATTANZIO
crede che la vera giustizia sia nel culto di un divino unico, ignoto ai
gentili. AGOSTINO parla di una città celeste, sede di verità e di giustizia, in
antitesi alla città terre stre, fondazione di fratricidi e prodotto del peccato
pri 6 essere assolutamente certa, é pago della semplice verosimiglianza. Nell'etica
elimina il dubbio per leconseguenze dannose, e fa appello alla coscienza
immediata, in cui si ritrovano i germi della virtù, ed al consenso del genere
umano, per definire l'onesto e per stabilire alcuni pre supposti speculativi di
esso. Preferisce il principio etico del PORTICO, che tempera da uomo pratico. Trae
il diritto non dalle leggi di le XII tavole o dall'editto, ma dalla natura
umana. Riproduce la teoria aristotelica del lo stato, e si attiene alla forma
mista, propria degl’ordinamenti politici di Roma. Luigi Miraglia. Miraglia.
Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Miraglia” – The Swimming-Pool
Library.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Misefari:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale -- implicatura anarchica – la scuola di Palizzi
-- filosofia calabrese – filosofia italiana -- Luigi Speranza (Palizzi). Filosofo italiano. Palizzi, Reggio
Calabria, Calabria. ‘Io non sono
italiano; io sono calabrese!” Fratello di Enzo (politico calabrese del P.C.I.,
storico e poeta), di Ottavio (calciatore reggino tra i più conosciuti nei primi
anni del secolo; giocò nella Reggina e nel Messina) e di Florindo (biologo,
attivista della Lega Sovversiva Studentesca e del gruppo "Bruno
Filippi"). Dopo aver frequentato la scuola elementare del piccolo
paese di nascita in provincia di Reggio Calabria, a undici anni si trasferì con
lo zio proprio a Reggio Calabria. Già da adolescente, influenzato dalle
frequentazioni di socialisti e anarchici in casa dello zio, partecipò
attivamente alla fondazione e allo sviluppo di un circolo giovanile socialista
(intitolato ad A. Babel, rivoluzionario tedesco dell'Ottocento). Iniziò a
collaborare al giornale Il Lavoratore, organo della Camera del Lavoro di Reggio
Calabria, firmando gli articoli come "Lo studente". Collaborò nello
stesso periodo a Il Riscatto, periodico socialista-anarchico stampato a
Messina; e con Il Libertario, stampato a La Spezia e diretto da Binazzi. A causa
della sua attività anti-militarista esercitata all'interno del Circolo contro
la Guerra italo-turca, fu arrestato e condannato a due mesi e mezzo di carcere
per «istigazione alla pubblica disobbedienza». Fu nei due anni successivi
che M. si convertì dal socialismo all'anarchia. Ciò avvenne soprattutto con la
frequentazione da parte di Berti, suo
professore di fisica presso l'"Istituto Tecnico Raffaele
Piria". Si trasferì a Napoli e si iscrisse al Politecnico, dopo
avere studiato fisica e matematica alle superiori, e anche per non dispiacere
al padre, proseguì tali studi. Pesò inoltre su questa decisione il fatto che in
quegli anni, dopo la tragica distruzione della città di Reggio Calabria a causa
del terremoto del 1908, il lavoro che garantiva le maggiori certezze era
proprio quello dell'ingegnere. Nondimeno continuò per proprio conto gli studi a
lui prediletti: politica, filosofia, letteratura, come aveva fatto fino ad
allora. A Napoli si fece subito avanti nell'ambiente anarchico. Il movimento a
Napoli contava allora di un centinaio di aderenti. Si rifiuta di
partecipare al corso allievi ufficiali a Benevento e fu condannato a quattro
mesi di carcere militare. Diserterà una seconda volta, trovando rifugio nella
campagna del beneventano in casa di un contadino. Tornato a Reggio Calabria,
interruppe una manifestazione interventista nella centrale Piazza Garibaldi,
salendo sul palco e pronunciando un discorso antimilitarista. Venne per questo
motivo arrestato e condotto presso il carcere militare di Acireale; sette mesi
dopo venne trasferito presso quello di Benevento. Da lì riuscì ad evadere
grazie alla complicità di un amico secondino. Fu tuttavia intercettato alla
frontiera del confine svizzero; ancora incarcerato, riuscì nuovamente nella
fuga. Tocca il territorio svizzero, ma i gendarmi lo condussero al carcere di
Lugano. Giunte dalla Calabria le informazioni su di lui, essendo un uomo
politico, dopo quindici giorni fu lasciato libero con la facoltà di scegliere
il luogo di residenza. Indicò subito Zurigo, dove sapeva di potere rintracciare
Misiano, suo caro amico e noto esponente politico socialista, anche lui
accusato di diserzione. A Zurigo trovò ospitalità presso la famiglia Zanolli,
dove si innamorò della giovane Pia, che diventerà sua compagna di vita.
Durante il periodo di esilio in Svizzera, Bruno svolgeva attività politica
tenendo i contatti con Luigi Bertoni e con altri gruppi anarchici elvetici,
collaborando anche al giornale: Il Risveglio Comunista Anarchico. Svolse una
serie di conferenze in varie città della Svizzera. M. si autoannunciava con un
suo pseudonimo anagrammatico Furio Sbarnemi. A Zurigo frequenta la Cooperativa
socialista di Militaerstrasse 36 e la libreria internazionale di Zwinglistrasse
gestita dai disertori Monnanni, Ghezzi e Arrigoni; in questi ambienti conosce
anche Angelica Balabanoff. Venne arrestato per un complotto inventato
dalla polizia. Fu incolpato innocentemente con l'accusa di avere fomentato una
rivolta nella città e di «aver fabbricato bombe a scopo rivoluzionario». Con
lui furono arrestati diversi attivisti politici, tra i quali lo stesso
Francesco Misiano (che fu poi rilasciato perché socialista e non anarchico).
Rimase in carcere per sette mesi, e venne poi espulso dalla Svizzera. Grazie ad
un regolare passaporto per la Germania, ottenuto per ragioni di studio, si recò
a Stoccarda.Lì entrò in contatto con Zetkin (che gli rilascia una lunga
intervista sul movimento rivoluzionario in Germania) e Vincenzo Ferrer. Poté
rientrare in patria, in seguito all'amnistia promulgata dal governo Nitti. -- è
a Napoli e poi a Reggio Calabria. E un periodo intenso per la sua vita
militante di M. A Napoli partecipò come oratore a molte manifestazioni, si
prodigò a favore dei suoi compagni colpiti dalla repressione, denunciò le
provocazioni della polizia; tenne numerose conferenze e comizi. Con il dentista
anarchico Giuseppe Imondi, stampò alcuni numeri del giornale: L'Anarchia. In
autunno fu chiamato a Taranto a svolgere il compito di segretario propagandista
presso la locale Camera del Lavoro Sindacale. Ha stretti contatti con
Malatesta, Berneri, Binazzi, Borghi, Vittorio e altri esponenti dell'anarchismo
e del sovversivismo italiano. Si impegnò su più fronti per la campagna a favore
degli anarchici Sacco e Vanzetti. Nello stesso periodo e corrispondente di:
Umanità Nova, settimanale anarchico diretto da Malatesta e collaborò al
periodico: L'Avvenire Anarchico di Pisa. Continuò i suoi studi a Napoli
con qualche salto a Reggio Calabria con la sua compagna Zanolli, che sposò. Si laureò a Napoli.
Successivamente si iscrisse anche alla facoltà di filosofia. Nonostante
l'avvento del fascismo, fondò un giornale libertario, “L'Amico del popolo,” che
però dopo il quarto numero fu soppresso dalle autorità. Nel primo numero del
giornale,scrisse un editoriale dal titolo “Chi sono e cosa vogliono gli
anarchici.” Lo scritto è l'espressione del suo pensiero libertario:
«L'anarchismo è una tendenza naturale, che si trova nella critica delle
organizzazioni gerarchiche e delle concezioni autoritarie, e nel movimento
progressivo dell'umanità e perciò non può essere una utopia.» Da esperto
di geologia, progettò per primo in Calabria l'industria del vetro e fondò a
Villa S.Giovanni, la prima vetreria in Calabria (Società Vetraria Calabrese).
In quegli stessi anni subì però persecuzioni continue da parte del regime. E cancellato
dall'Albo di categoria e non poté più firmare progetti. Gli venne mossa
l'accusa di avere «attentato ai poteri dello Stato, per il proposito di uccidere
il re e Mussolini». Fu prosciolto dopo venticinque giorni di carcere. La
polizia ravvisò in un discorso di commemorazione durante il funerale di un
amico (tra l'altro un industriale fascista, Zagarella) un'ispirazione anarchica
e pertanto lo propose per l'assegnazione al confino. Fu arrestato, in carcere
si sposa con Pia Zanolli, fu inviato per il confino, prigioniero a Ponza.
Tuttavia sembra che tale provvedimento fosse stato determinato da altri motivi.
M., che era ingegnere minerario, si era attivamente impegnato nello
sfruttamento su larga scala di giacimenti di quarzo, materia prima per
l'industria vetraria, che fino a quell'epoca dipendeva, in gran parte, dai
silicati stranieri. Assunto come direttore tecnico della Società Vetraria
Calabrese (di cui era stato finanziatore e Presidente il succitato Zagarella)
egli si era dovuto ben presto scontrare con l'assenteismo e l'inettitudine del
consiglio di amministrazione che si schierò contro di lui con l'intenzione di
eliminarlo in qualsiasi modo, ricorrendo anche ad espedienti politici.
Giustizia e Libertà, in un articolo anonimo ddal titolo «Politica e affarismo.
Il caso di un ingegnere libertario», attribuisce la causa del confino alle
manovre dei suoi ex soci. Durante il confino stringe amicizia con Torrigiani,
Gran Maestro del Grande Oriente d'Italia, il quale lo affilia alla
Massoneria. L'amnistia del decennale del fascismo lo liberò dal confino
dopo due anni. Ma tornato in Calabria vide il vuoto intorno a sé; scrive
infatti a sua moglie: "Amnistiato sì, però a quale prezzo: la salute
sconquassata, senza un soldo, senza prospettive per l'avvenire". Gli viene
diagnosticata l'esistenza di un tumore alla testa. Va e viene con la moglie da
Zurigo a Reggio Calabria. Riesce a trovare il capitale necessario per
l'impianto di uno stabilimento per lo sfruttamento della silice a Davoli (in
provincia di Catanzaro). Le sue condizioni di salute peggiorano a causa
del tumore. Perde conoscenza, viene ricoverato in stato gravissimo nella
clinica romana del Senatore Giuseppe Bastianelli, e lì si spense la sera
stessa. Ancora ragazzo, studente, cominciò a ribellarsi contro
l'ingiustizia del mondo che lo circondava: Palizzi Superiore, un paese tra i
monti dove il castello feudale dei signori locali dominava la valle, dove si
ammucchiavano piccole e povere case desolate di contadini. E si ribellò a quel
mondo, costruito secondo quell'immagine topografica che portava impresso nella
memoria: sopra, chi comanda e non lavora, sotto, chi subisce e lavora. E ancora
ragazzo cominciò a sognare un mondo in cui quella gerarchia fosse sovvertita
prima, distrutta poi. Poteva scegliere di ispirarsi al socialismo marxistico o
al socialismo libertario. Del primo apprezzava l'analisi dell'antagonismo tra
le classi, ma mostrava perplessità circa i mezzi proposti dalla diagnosi
marxistica per fronteggiare il pericolo di una rivincita dell'avversario di
classe. Inclinò perciò verso il socialismo libertario. «Nel comunismo
libertario io sarò ancora anarchico? Certo. Ma non di meno sono oggi un amante
del comunismo. L'anarchismo è la tendenza alla perfetta felicità umana. esso
dunque è, e sarà sempre, ideale di rivolta, individuale o collettivo, oggi come
domani. M., Taccuino personale. La scelta della diserzione fu coerente con il
suo obiettivo di combattere non la guerra degli stati, ma a fianco degli
oppressi di tutto il mondo contro il loro nemico, tenendo alta la bandiera
dell'internazionalismo. Pur sottoposto senza tregua alla persecuzione della
polizia e all'inquisizione della magistratura, fu sempre al suo posto accanto a
coloro che lavoravano e soffrivano. Come ogni rivoluzionario sincero e
coerente, pagò col carcere e col confino la sua fede in un ideale. Chi
sono gli anarchici. Secondo M., essere anarchici voleva dire per prima cosa
proclamare, contro ogni violenza, l'inviolabilità della vita umana. Inoltre
significava lottare per l'abolizione della proprietà privata e a favore della
socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio. Proprio per questo gli
anarchici sono, di fondo, dei socialisti. A questo esperimento di vita sociale
andava affiancata la lotta contro lo Stato, che ne impediva la realizzazione. E
la lotta contro lo Stato non poteva essere vittoriosa se non con la
rivoluzione. Dunque gli anarchici sono socialisti, antistatali e rivoluzionari.
Elemento fondamentale della lotta, secondo Misefari, era l'allargamento di essa
alla sfera internazionale. È comunque una lotta che non si fa violenta. M. è
fortemente pacifista, contrario all'uso della forza e della violenza armata.
L'anarchico è inoltre antireligioso: la religione infatti è considerata
"fattore di abbrutimento per l'umanità". Antimilitarismo Per M.
la guerra è pura barbarie, speculazione capitalistica consumata in nome dello
Stato. «L'esistenza del militarismo è la dimostrazione migliore del grado
di ignoranza, di servile sottomissione, di crudeltà, di barbarie a cui è
arrivata la società umana. Quando della gente può fare l'apoteosi del
militarismo e della guerra senza che la collera popolare si rovesci su di essa,
si può affermare con certezza assoluta che la società è sull'orlo della
decadenza e perciò sulla soglia della barbarie, o è una accolita di belve in
veste umana.» Religione La religione è considerata come un anestetico
delle facoltà critiche della mente umana. Sarebbe proprio la religione a
imprigionare le energie morali dell'uomo, a inebetire lo spirito critico e di
riflessione. Perciò i popoli più religiosi sarebbero i meno progrediti e i più
afflitti dalla tirannia, mentre, laddove la religione sparisce, lì è florida la
libertà e il benessere. «È il più solido puntello del capitalismo e dello
Stato, i due tiranni del popolo. Ed è anche il più temibile alleato
dell'ignoranza e del male.» È forte nel pensiero di M. la volontà di
sottolineare l'uguaglianza sociale tra uomo e donna. In anni difficili e
lontani dalle battaglie del femminismo di metà Novecento, egli afferma che la
donna nobilita e abbellisce la condizione di vita umana. È dovere della donna
lottare per risollevarsi da una condizione di inferiorità, che è tale in virtù
di un "delitto sociale" e non dovuta a leggi di natura. «Donne,
in voi e per voi è la vita del mondo: sorgete, noi siamo uguali!» M. vive
di sogni, di ideali. Nella sua concezione non esiste un artista, che sia poeta,
filosofo, persino scienziato, che si sia mai messo al servizio della menzogna.
Se tutti potevano essere vili, un artista non poteva. «Un poeta o uno
scrittore, che non abbia per scopo la ribellione, che lavori per conservare lo
status quo della società, non è un artista: è un morto che parla in poesia o in
prosa. L'arte deve rinnovare la vita e i popoli, perciò deve essere
eminentemente rivoluzionaria. Poesia composta da M.: FALCO RIBELLE. Un
giovane falco che drizza il libero volo Ne l'alto, ove sono i fulgori di soli
immortali Un giovane falco ribelle o piccoli, io sono. Mi spinge ne' campi
ignorati, un acre desio Di sante ideali battaglie, di luce e di gloria. Mi
splende nell'occhio la speme di certe vittoria, Mi parla nel core la voce
sinfonica, dolce D'un caro sublime Pensiero, ch'è Bene ed Amore. Ho giovini
l'ale e robuste, o venti, o cicloni, O fulmini immani feroci, vi lancio la
sfida. Voi soli potete pugnare col giovine falco, Chè Luce, chè Forza, chè Vita
multanime siete. Ma voi, piccoli, no. Coi vermi guazzate nel fango, Dal fango
mirate del falco il libero volo.» Frammenti «Prima di pensare di
rivoluzionare le masse, bisogna essere sicuri di aver rivoluzionato noi
stessi» «Ogni uomo è figlio dell'educazione e della istruzione che riceve
da fanciullo. Gli Anarchici non seguono le leggi fatte dagli uominiquelle non
li riguardanoseguono invece le leggi della natura» «Prima l'educazione
del cuore, poi l'educazione della mente» «Socialismo vuol dire
uguaglianza, vuol dire libertà. Ma l'uguaglianza non può essere senza libertà;
come la libertà non può essere senza l'uguaglianza: dunque socialismo e
anarchia sono due termini dello stesso binomio, sono i due inseparabili fattori
della redenzione proletaria.» «Quando la giustizia non sarà la durda
infame delle tirannidi, quando l'amore non sarà deriso, quando il ferro non
sarà legge e l'oro non sarà dio, quando la libertà sarà religione e sola
nobiltà il lavoro, allora, solo allora, il mio rifiuto della guerra sarà
benedetto.» «M'è questa notte eterna assai men grave del dì che mi mostrò
viltà dei forti e pecorilità di plebi schiave. Lungi da quì il pianto: sto ben
coi morti! (epitaffio) Opere complete M.,
Schiaffi e carezze, Roma, Morara, M., Diario di un disertore, La Nuova Italia,
Entrambi i testi sono stati pubblicati postumi sotto lo pseudonimo Furio
Sbarnemi. Le schede biografiche di alcuni esponenti anarchici calabresi,
A/Rivista Anarchica, Antonioli, Antonioli, E. Misefari. Antonioli, Pia Zanolli era nata a Belluno. Dopo il
matrimonio con Misefari, fu iscritta nell'albo dei sovversivi pericolosi,
venendo poi arrestata col marito a Domodossola (cfr.: A/Rivista Anarchica) Chi sono e cosa vogliono gli anarchici, ed.
settembre. Antonioli, Pia Zanolli, L'Anarchico di Calabria, Roma, La
Nuova Italia, Utopia? No, Pia Zanolli, Roma, ALBA Centro Stampa, E. Misefari,
biografia di un fratello, Milano, Zero in condotta, M. Antonioli, Gianpietro
Berti, Santi Fedele, Pasquale Luso, Dizionario biografico degli anarchici
italianiVolume 2, Pisa, Biblioteca Franco Serantini, Bruno Misefari, Schiaffi,
Carezze e altro, Pino Vermiglio, Laureana di Borrello, Ogginoi, Furio Sbarnemi,
Diario di un disertore, Camerano (AN), Gwynplaine, Dizionario biografico degli
italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Horizons Unlimited srl. Bruno
Misefari presso l'International Institute of Social History di Amsterdam, su
iisg.amsterdam, Fondo M. presso la Fondazione Lelio e Lisli Basso di Roma, su
fondazione basso. Gli anarchici contro il fascismo, celebre articolo di Giorgio
Sacchetti. Bruno Misefari. Misefari. Keywords: implicatura. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Misefari” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice e Moderato: la ragione conversazionale -- da Crotone a Roma
– filosofia italiana – Luigi Speranza. (Roma).
Filosofo italiano. Scuole Pitagoriche. Attivo in epoca neroniana. Scrisse
Lezioni pitagoriche, un'opera articolata in dieci libri, in cui l'autore,
rappresentante di quella scuola di pensiero che assommava nel sincretismo
ellenistico temi platonici, pitagorici, greci e orientali, pone in antitesi la
«Triade» spirituale, rappresentata dall'Uno, l'Intelletto, l'Anima, alla
«Diade» rappresentata dalla materia. Di tale opera ci restano solo alcuni
frammenti tramandatici da Stobeo. Sembra che le sue Lezioni ebbero una certa
influenza sul Neoplatonismo. Calle, Un pitágorico en Gades (Philostr., VA). Uso, abuso
y comentario de una tradición, Gallaecia. Collegamenti esterni Moderato di Gades, su
Treccani.it – Enciclopedie Istituto dell'Enciclopedia Calogero, M,
Enciclopedia; M. Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia M., su
Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Categorie: Filosofi
romani Persone legate a Cadice Neopitagorici. Moderato.


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