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Thursday, June 12, 2025

GRICE ITALO A-Z M

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Massolo: FILOSOFO SICILIANO, NON ITALIANO -- all’isola -- l’implicatura conversazionale nelle prime ricerche di Hegel – implicatura idealista di Plathegel e Ariskant – filosofia siciliana – la scuola di Palermo -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Palermo). Filosofo siciliano. Filosofo italiano. Palermo, Sicilia. Grice: “If I had to decide on my favourite Massolo, that would be his ‘historicity of metaphysics,’ way before when I was venturing with Strawson and Pears to lecture the erudite audience of the BBC third programme on the topic!” Dopo aver intrapreso gli studi presso il Liceo Classico Vittorio Emanuele II, si laurea a Palermo con “L’individuo in Rosmini, con Allmayer. Fu autore di alcuni volumi di poesia.  In seguito ad un periodo di docenza nei licei di Perugia, Catanzaro e Livorno, insegna a Urbino e 'Pisa. Ha influenzato importanti figure del dibattito filosofico del secondo Novecento, come Luporini, Badaloni, Sichirollo, Salvucci, Cazzaniga, Barale, Bodei, Losurdo. Gli scambi epistolari avuti con numerosi intellettuali (tra cui spiccano i nomi di Gentile, Spirito, Bo, Fortini, Russo, Capitini, Weil) mostrano l’alta considerazione di cui M. godeva all’interno del panorama culturale del secondo dopoguerra.  Partecipa alla fondazione della rivista Società, entrando nel comitato di redazione. La rivista, nel primo anno della sua uscita, ospitò tre importanti saggi di M.: Esistenzialismo e borghesismo,  La hegeliana dialettica della quantità, L’essere e la qualità in Hegel. Idea e fonda la collana «Socrates» dell’editore Vallecchi, con la quale pubblicò “Filosofia e politica” di Weil, Vita di Hegel di Rosenkranz e Dialettica e speranza di Bloch. I suoi studi su Hegel, inclini a valorizzare la filosofia della storia e la dimensione realistica del filosofo tedesco, contrastano tanto la lettura del neoidealismo italiano (Croce e Gentile) quanto quella di Volpe. Nell’ambito della sua riflessione Massolo ha posto le basi teoriche per una nuova ed originale rilettura del rapporto Hegel-Marx, tanto da essere considerato da alcuni interpreti l’avviatore dell’hegelo-marxismo in Italia. I suoi interessi teoretici si sono rivolti principalmente alla filosofia classica tedesca da Kant ad Hegel, della quale ha studiato, per più di un decennio, i principali momenti storico-teorici.  In antitesi all’esegesi del neoidealismo italiano, che tendeva ad attribuire alle filosofie di Fichte, Schelling ed Hegel il superamento della finitezza umana che Kant aveva posto a fondamento della sua filosofia, M. ha proceduto alla rilettura della genesi dell’idealismo tedesco con l’idea che esso abbia storicizzato i dualismi kantiani in un processo che si compie nella Fenomenologia dello spirito di Hegel.  Nelle fasi più mature della sua riflessione ha tematizzato in vari saggi la problematica della scissione della coscienza comune (Filosofia e coscienza comune, oggi), l’idea della completa politicizzazione del filosofare (Politicità del filosofo,  Frammento etico-politico), ed il problema della storia della filosofia con particolare riferimento al ruolo della coscienza riflettente del filosofo, nonché al rapporto dialettico tra Pensiero e Realtà nella città-storia» (La storia della filosofia come problema,).  Si dedica alla questione della dialettica intesa come dialogo, ovvero quell’elemento dialettico-razionale mediante il quale è possibile conciliare le differenti rappresentazioni dell’oggetto storico-sociale e le contraddizioni all’interno della comunità.  Tramite queste riflessioni, che lo hanno condotto a porsi in diretta polemica con Nietzsche ed Heidegger, M. ha contrastato l’idea del sapere come visione solitaria del singolo ed ha concettualizzato l’idea del sapere come processo essenzialmente dialogico e comunicativo (La storia della filosofia e il suo significato).  Saggi: “Mattutino,” versi (Palermo, Trimarchi); “Adolescenza” (Palermo); “Convivio; storicità della meta-fisica” (Firenze, Monnier); “L’analitica di Kant” (Firenze, Sansoni); “Fichte” (Firenze, Sansoni); “Schelling” (Firenze, Sansoni); “Prime ricerche di Hegel” (Lettere e Filosofia, Urbino); “La storia della filosofia come problema” – (Firenze, Vallecchi); “Logica idealista” (Salvucci, Firenze, Giunti-Bemporad, “Della propedeutica filosofica” e altre pagine sparse, Urbino, Montefeltro, Landucci, M., "Belfagor, Remo Bodei, Arturo Massolo, "Critica storica", Studi in onore di M., Sichirollo, Urbino, Argalia, Badaloni, Ricordo di Arturo Massolo, "Giornale critico della filosofia italiana", degli scritti di  Massolo, Burgio, Urbino, QuattroVenti, “Il filosofo e la città: studi Domenico e Puglisi, Venezia, Marsilio.   La ricca letteratura critica su M. - tenuta viva da amici ed allievi, ma rivolta non a celebrare bensì a interpretare l’itinerario filosofico dell’amico/maestro e il suo modello teoretico, che, da Heidegger e Kant,  lo conduce verso Hegel e Marx, evidenziando così sia una ‘parabola’ della  filosofia italiana (e non solo) del dopoguerra sia la costruzione di un modello di storicismo connotato in modo assai diverso da quelli post-crociani o gramsciani, correnti nell’Italia postbellica, e incardinato su una  ontologia storica del soggetto, tale letteratura critica (che ha coinvolto Landucci e Sichirollo, Bodei e Salvucci, Losurdo e Badaloni, ecc.), dicevo, ci ha indicato - con precisione - alcuni nuclei forti di quel pensiero,  sottolineandone l’articolazione complessa e la significativa attualità. Sul  primo fronte sono stati il passaggio dall’esistenzialismo al marxismo, l’interpretazione della filosofia classica tedesca, il rapporto teoretico fra Hegel  e Marx, il nesso fra «il filosofo e la città» a essere sottolineati; sul secondo, soprattutto, quel carattere etico-politico del suo storicismo, connesso  a un forte e vero umanesimo» fondato sul dialogo-nella-città e rivolto a  una «costruzione della ragione nel mondo reale, elementi che rendono il  suo insegnamento «ancora fortemente attuale, anche nell’orizzonte del  postmoderno (Salvucci, in Domenico, Puglisi).  Proprio per leggere più intimamente il modello storicistico di M.,  dobbiamo sottolineare ancora:   il suo passaggio dall’esistenzialismo al marxismo;   l’elaborazione del suo neo-storicismo negli anni Cinquanta;   il modello maturo che esso assume nel lavoro dell’ultimo M.,  da La storia della filosofia come problema a Entiusserung, Entfremdung nella Fenomenologia dello spirito. Lesistenzialismo del primo M., come emerge dagli scritti dei  primi anni Quaranta e culminato in Storicità della metafisica e in  Introduzione all'analitica kantiana, risulta contrassegnato dalla  storicità, ma questa è ancora una struttura ontologica del soggetto, pro-  prio quella che è sfuggita a Kant da trovarsi nella loro di coscienza tra- [Cambi, Pensiero e tempo: ricerche sullo storicismo critico: figure, modelli,  attualità, Firenze] scendentale e coscienza sensibile] storicizzazione, nel piano, dunque, della  storicità dell’esistenza umana e di una intelligenza critica dell’uomo - e  che va messa in luce in Heidegger, il quale ci ha evidenziato la «tempora-  lità» dell’uomo (riprendendo e approfondendo Kant, al di là dei razionalismi idealistici) e la condizione storica (connessa all’esser «il singolo  mai l’aurora», poiché «egli si muove in un mondo già apparso, il cui es-  sere gli è nascosto»? e su cui deve interrogarsi facendo i conti col «passa-  to» che costituisce l’orizzonte di quel mondo) del suo «esserci», in cui è la  «trascendenza pura» del tempo che impone la domanda metafisica, ma  per cui ogni risposta non sarà che condizionata e parziale, poiché è l’uo-  mo che pensa la metafisica, la pensa dalla condizione di «un’indigenza di  essere a cui mai potrà rispondere in toto. Così alla metafisica spetta una  radicale storicità (come domanda/risposta dell’uomo-nel-tempo), anche  perché - inoltre - nel processo di fondazione metafisica la    rivelazione del mondo non significa manifestazione di qualcosa che  rimanga nel suo in sé irrevocabile alla vista, ma il suo stesso venir pro-  dotto all’essere, giacché il suo essere è il suo apparire.    È la storicità stessa dell’uomo che fonda la metafisica e la ricerca metafisica dovrà porsi il problema della storia perché    unicamente un approfondimento della storicità può permettere di  guardare nella eccezionalità che è la metafisica come azione non del-  l’uomo in generale ma del singolo. Singolo, temporalità, storicità sono qui gli elementi ontologici su cui si  attiva la ricerca di Massolo, attraversata dalla lezione dello Heidegger degli  anni Venti-Trenta (tra Essere e tempo e Kant e il problema della metafisica),  riletto anche attraverso le indicazioni postgentiliane di Fazio-Allmayer,  che nel suo attualismo critico ha messo al centro sempre più l’uomo e ha  guardato a una umanizzazione del reale. Già Salvucci, nella sua Presentazione al volume Logica hegeliana e filo-  sofia contemporanea, che raccoglie gli scritti sparsi di M. sottolinea il «faticoso processo» del suo pensiero, che lo  conduce alla «liberazione dal predominio della logica hegeliana» e verso  «il realismo», in cui emerge il ruolo dell’uomo colto nella sua alienazione, che ne è il contrassegno storicamente primario ed efficace. Alienazio-  ne che è storica, ma di cui la filosofia - da Kant in poi - si fa testimone e  interprete. Con Hegel, invece, la ricomposizione dell’alienazione si com- [M., Introduzione all’analitica kantiana, Sansoni, Firenze,  Storicità della metafisica, Le Monnier, Firenze] pie nell’orizzonte dell’assoluto, attraverso l’artificio della logica e la sua  riconsiderazione unitaria e pacificata dai conflitti e dalla dialettica che  essi producono, e che dà luogo alla costruzione dell’Idea filosoficamente  resa trasparente a se stessa e, proprio per questo, totalmente realizzata.  Per liberare Hegel dal primato della logica, bisogna risalire all'opera più  drammatica e aperta di Hegel stesso, a quella Fenomenologia dello spirito  che pone al centro proprio l’alienazione (e non come sola estraneazione),  l’alienazione dell’uomo colto nel suo statuto tragico. Sarà Marx, poi, a  compiere il passo successivo e decisivo: a riportare nel tempo storico-sociale (nella dimensione del lavoro e nei sistemi di produzione economi-  ca) tale alienazione, mostrando che essa «non è altro che un prodotto di  quella forma storica di lavoro che è la divisione del lavoro»?. Lasse nuovo  e il principio determinante di questo storicismo realistico e antropologico  diviene la Città («la Città-Storia» già di Hegel, ma qui riportata ai sogget-  ti e alla loro rete di azioni e reazioni nel tempo e sul tempo). Ed è questo  costituirsi nella e relazionarsi alla città che viene a contrassegnare il filosofare, quale atto di «razionalizzazione» e di «storicizzazione».   Per Salvucci qui sta il senso del lavoro di M., lo stemma del suo  storicismo e la stessa angolazione da cui ricostruisce e interpreta il marxi-  smo. Marxismo come storicismo, ma qui ripensato sulle orme di Kant, Hegel e Marx e che pone al centro, heideggerianamente, la questione della  temporalità, del tempo storico ovvero della forma antropologica di vivere  la temporalità storica. Che è - appunto - l’alienazione.   I testi raccolti da Salvucci nnel volume citato sono un preciso  résumé di questo itinerario teoretico, in cui i vari tasselli vengono a com-  porre un cammino in ascesa verso il marxismo critico, di cui Marx e il  fondamento della filosofia è l'esempio cruciale. I conti con Hegel sono fat-  ti analiticamente nelle Ricerche sulla logica hegeliana, in cui è  proprio l’oblio del destino del mondo, del «nascere e del morire» (per  valorizzare il puro paradigma logico-ideale) che viene sottolineato e fis-  sato nel suo ruolo, per noi, oggi, di ‘scandalo’. Ma l’idealismo non muore  con Hegel: ritorna anche dopo di lui. Nella tensione cartesiana del pensiero di Husserl, che riduce l’uomo a mente, la mente a pensiero, il soggetto  a un'isola, caratterizzato dalla ‘solitudine’ della soggettività trascendentale. Saranno figure come Heidegger, come SPIRITO (si veda), come LUPORINI (si veda), come FAZIO (si veda)-Allrnayer (con la sua logica della compossibilità), come BANFI (si veda)  a riaprire i confini di questo storicismo bloccato nella formula idealistica  e a ricondurci sul terreno della esperienza ‘esistenzialmente’ connotata e  orientata a un pensiero che si compie e si legittima nel processo stesso della  storicità, intesa come storia degli uomini, degli uomini concreti, cioè dei  produttori. Allora è Marx che ‘invera’ lo storicismo con la sua «filosofia  dell’uomo alienato». Ma Marx non è un ‘tribunale’ della filosofia: è anco-  [Salvucci, Presentazione a M., Logica hegeliana e filosofia contemporanea, Giunti-Marzocco, Firenze] ra filosofia, ma è la filosofia del nostro tempo, che rompe ogni dualismo,  che rende l’atto filosofico segno e prodotto dell’alienazione, che la ricolloca  nel suo terreno genetico «il lavoro» ma da lì fa procedere anche il suo  possibile superamento, indicando nei mutamenti delle condizioni econo-  miche il varco stesso per aprire la storia alla speranza, ovvero alla disalie-  nazione. Marx umanizza la filosofia e umanizza la storia. Allora Massolo  può concludere con decisione: Il rovesciamento che Marx opera del rapporto alienazione-lavoro,  rovesciamento che ha il suo teoretico e storico fondamento nella cri-  tica al concetto hegeliano di lavoro e perciò nella critica alla divisione  di esso, impegna la filosofia che si fa cosciente della propria origine e  della sua radice che è il lavoro, a non cercare la propria giustificazione  nel mondo dell’estraneazione che è per essa il mondo dei massimi pro-  blemi, ma a distruggere questo mondo, nel quale è l’altro di sé, mondo  che non è il suo mondo e del quale non ha bisogno, perché esso non è  il suo fondamento. Il percorso del pensiero maturo di M. è qui già  delineato con precisione: confrontandosi con Marx, riportare lo storicismo  a nutrirsi della lezione di Marx, integrandola però con i vettori di quell’esi-  stenzialismo che pur è stato un ‘raddrizzamento’ antropologico e una re-  staurazione di una corretta concezione del tempo. Si pensi ad Heidegger. M. imposta il lavoro sul suo Marx, distanziandolo  da Feuerbach e dalla sua stessa interpretazione di Hegel (un Hegel antropologico, appunto), riportandolo verso Hegel e la sua visione dialettica e  real-razionalistica della realtà, non teologica bensì storicistica del mondo,  e un Hegel che sta al centro del Capitale e della sua riflessione (metodo-  logica e contenutistica) sulla forma attuale del divenire storico. Rispetto  a Hegel, però, Marx fa un passo ulteriore: supera la fenomenologia (che è  ancora lettura teoretica) e reclama la «realtà rivoluzionaria», un mutamen-  to prassico, storico; storico-economico, anzi, poiché la storia è ‘sorretta’  dall’economia. Così è il lavoro a stare al centro di questo programma e  di rilettura di Hegel e di interpretazione di Marx. Se Hegel legge, però, il  lavoro ancora ‘in assoluto’, sarà Marx a collegarlo storicamente alla divi-  sione del lavoro, ai conflitti sociali, alle prassi rivoluzionarie. Attraverso le Ricerche sulla logica hegeliana e altri saggi (poi  ripubblicato come Logica hegeliana e filosofia contemporanea con altre aggiunte), si arriva a La storia della filosofia come problema e altri  saggi, e poi all’ importante Frammento etico-politico. M., Logica hegeliana e filosofia contemporanea. Bene Sichirollo presentava l’orizzonte del lavoro teorico maturo di  M. nella Premessa alla seconda edizione di La storia della filosofia come problema: lì è la filosofia e la storia da Hegel a Marx ad  essere protagonista, e contrassegna    la stagione della coscienza filosofica nel suo momento più maturo ed  ultimo: il passaggio dal rapporto dialettico al rapporto storico, dal-  la filosofia come speculazione e identità alla filosofia come storia e  differenza, alla filosofia che si fa storica, e sa la propria genesi dalla  non-filosofia-ideologia.” M. stesso enunciava l’impianto complessivo di quella sua ricerca,  che parlando di storia della filosofia, in realtà, parlava della «filosofia storica, poiché quella «mette in crisi» questa, le impone di ripensarsi oltre  la «sua pretesa di universalità» e le impone un circolo storico.   Qui essa si fa contraddizione a se stessa: verità e tempo, insieme; verità nel  tempo. Come lucidamente comprendeva Hegel, che risolve tale contraddizio-  ne nella «determinazione dell’Idea nel suo concetto logico», ma per diversi  gradi, come scrive lui stesso. Ogni verità filosofica è verità di e per queltempo  che la produce, ma - retrospettivamente risulta sempre radicalmente storica. Ma Hegel sottrae il suo sistema a questo principio e fa della sua filosofia  il sapere assoluto. E non solo: è l’autocoscienza che supera la storicità e si  ripropone - come filosofia e filosofia della filosofia - come Assoluto. Allora  gli apporti della sociologia correggono questo errore: riportano nel relativi-  smo storico tutti i sistemi filosofici, anche quello hegeliano, mostrandone la  «condizionatezza». Condizionatezza che è storicità, è dialogo col tempo, col  proprio tempo, e con un mondo che non è tanto coscienza/autocoscienza  quanto socialità, vita sociale dalla quale dipende e sulla quale agisce. Il filo-  sofo stesso è sempre «uomo della città». Sì, nel suo pensiero «il concetto è il  sistema», ma il suo «dialogo» con la città sta prima e dopo quel «concetto».  La storia della filosofia delinea uno storicismo radicale, dialettico, aper-  to, in cui il gioco tra saperi (filosofia in primis) e forme sociali si fa deter-  minante e che non è mai disponibile a priori. La stessa storia del pensiero  «non si costruisce da sé, anzi    risulta dall’assoluta storicizzazione che di volta in volta la riflessione  filosofica compie, facendosi in tal modo logica e pensabilità delle di-  verse epoche, nelle quali di volta in volta debbono considerarsi con-  cluse ed esaurite le possibilità esistenziali dell’uomo. Ritornando sul tema  (La storia della filosofia e il suo significato) M. difende lo storicismo dal nihilismo, si oppone al suo obiettivo [La storia della filosofia come problema, Vallecchi, Firenze, di catastrofe del pensiero occidentale, e lo fa valorizzando il «rapporto  vivente» che lega le filosofie al tempo storico-sociale e le rende sue fun-  zioni esemplari e rivelative. Dalla Grecia a noi centrale resta il messaggio  di un pensiero che si pensa «lungo il sentiero degli uomini». Già per Hegel «la filosofia sorge dalla polis», dalla libera cittadinanza e dall’incontro  degli uomini, nello «spirito etico» e nel conflitto tragico che la polis viene a istituire. La filosofia porta i segni di quelle origini, e li porta nel suo  farsi «lo sforzo di sapere che cosa è lo spirito», di fissare quel complesso  traguardo condensandolo nel concetto. In realtà, però, la filosofia è storia,  è epoca, è tempo della polis. Dopo Hegel è Marx a illuminare la dialetti-  ca delle forme, riportandole al lavoro concreto e lesgendole nella matrice  dell’economico, posto come «leva» delle dinamiche sociali e fattore-chiave  (ma non esclusivo: c'è anche l’ethos determinante per la filosofia e, quindi,  per il «contesto» storico) della polis. Ed è il Marx di Per la critica dell’economia politica, con la sua dialettica tra astratto e concreto, ad essa posto  come guida. Lì è, sì, il circolo qualità/quantità a rivelarsi decisivo, ma lo  è anche e ancor di più - la contraddizione, non una contraddizione che  da logica si è fatta storica e sociale, e proprio perché la storia è fatta dalle  società e dal brulichio delle loro forme.   La filosofia è dialogo, e dialogo con la città e nella città. Tra logos e comunità corre un rapporto simbiotico, se pure fatto di differenze e oppo-  sizioni. Ed «è la comunità stessa che deve decidere come sola misura della  verità. Ma la comunità non è una cosa, ma un insieme di individui, cia-  scuno dei quali è a sua volta un possibile criterio e misura della verità»,  ma non sempre e necessariamente. Può anche assumere il dialogo come  forma-di-vita e come forma del logos e farsi così soggetto-nella comunità,  ad essa saldandosi e promuovendone, con gli altri, le stesse possibilità. Già  Socrate aveva posto la sua filosofia in questa condizione, poi il pensiero  moderno l’ha riscoperta. E oggi si impone come regola, ma regola d’azio-  ne. Per noi quella «coscienza comune» non è un dato ma un compito: Ciò  che sinora era stato il grande presupposto, può oggi semmai essere posto  e creduto come compito»?.   Allora la filosofia è politica, è politicità concettualizzata e impegno eti-  co-sociale, poiché tra politica e polis corre un nesso intimamente efficace,  che si sviluppa in tensione tra pensiero e polis o in loro integrazione, rico-  noscendo - però - il loro intimo legame dialettico, e storico. Il filosofo sa  di stare-nella-storia e che «l’essere è ora la storia stessa», nella quale il filosofo introduce la «finalità universale», il compito e il traguardo da pensare  e volere sempre nella «città-storia». E da valere in funzione dell’uomo di  cui e per cui nasce la stessa filosofia. Se pure per un uomo che, anche oggi  e sempre di più, sa di essere comunità. È poi nel Frammento etico-politico che lo storicismo engagé di M. riesce a rispecchiarsi più com-  piutamente. Lì la filosofia, condotta ormai oltre Hegel, se pure attraverso lo stesso Hegel, posta in luce nel proprio «spettro» profondo da Marx, può  dispiegarsi come radicale storicismo. Di uno storicismo della polis e di una  polis di cui si sottolinea come centrale la lotta di classe. È il materialismo  storico che dispiega al massimo questo storicismo antispeculativo e non  relativistico, uno storicismo degli uomini, per gli uomini e che antropologizza la storia attraverso il loro operari rivoluzionario. Solo che ciò im-  plica una «coscienza di classe» che non è spontanea, bensì è e va costruita  e si costruisce sulla «coscienza infelice» dell’uomo, dell’uomo storico e di  quello contemporaneo in particolare. Il disegno di M. è compiuto: fi-  losofia e storia si congiungono, storia e economia/ethos si fondono, la polis  è il loro organismo vivente, in quella polis noi pensiamo e agiamo, oggi la  filosofia si sa come politica e in vista di una polis-comunità fondata a sua  volta sulla non-alienazione. Che è, però, concretamente, politicamente (con  Marx) tutta da costruire. Il quadro è energico e compatto, sorretto da un  suo «principio speranza» che è quello dell’emancipazione. A riconferma del suo marxismo emancipativo va riletto con preci-  sione proprio l’ultimo testo di M.: «Entiusserung» e «Entfremdung»  nella Fenomenologia dello Spirito, apparso su «aut-aut». È un testo che si colloca allo sbocco di tutta una rilettura di Hegel. Una lettura sì  epocale, ma che di quel pensiero coglie più integralmente la problematicità  e la ricchezza, ma anche le interne tensioni e la articolazione teoretica più  aperta (e più antropologica) rispetto allo Hegel «del Sistema» (che si po-  ne nell’ottica, sempre e comunque, dell’Idea). L’epocalità va fatta risalire  a Dilthey e al suo studio del 1904 e alle varie interpretazioni che esso ha,  via via, prodotto, fino a Hyppolite, fino a Kojève, fino a Lukács, passando anche per NEGRI (si veda) Negri e VOLPE (si veda), approdando a una fitta letteratura  europea tipica. È il primo Hegel che va studiato  per capirne sì le radici, ma soprattutto le potenzialità molte e complesse.  Soprattutto, ancora, la sua vocazione antropologica: descrittiva e inter-  pretativa della condizione umana (quasi-esistenzialistica) e della forma  che assume nella coscienza, se riletta nella sua frontiera fenomenologica,  cioè dell’apparire delle sue «forme» trascendentali. Allora saranno, anche  per M., le «prime ricerche» di Hegel a farsi interessanti, anzi deter-  minanti. Ad essere più squisitamente filosofiche, perché più storiche, ri-  spetto allo Hegel-del-sistema, che assegna il primato alla speculazione e  alla sua assoluta aseità. Qui no, è l'epoca, il tempo stesso e l’uomo di quel  tempo medesimo che parla, e parla in presa diretta. Colto nel suo trava-  glio spirituale, posto da coscienza/storia/spirito/città (per dirla in termi-  ni massoliani) e contrassegnato dalla contraddizione che si fa coscienza  e coscienza vissuta dell’alienazione e della sua rimozione/superamento. M. ancora si domanda: Come bisogna leggere  Hegel? Fissa sì la dialettica di essere/nulla/divenire come centrale, ma  legandola al concreto pensiero del filosofo che ben distingue, pur intrecciandole, Alienazione e Estraneazione. Entfremdung è condizione della  vita storica, della stessa vita spirituale, è l’atto costitutivo della nostra stes-  sa umanità. L'uomo è in quanto si oggettiva e crea a se stesso un mondo.  Lì, però, si annida anche l’Entàusserung, che è esser-altro-da-sé, riduzio-  ne del sé ad altro, essere dominati dai fattori storico-sociali. E questa è la  condizione della coscienza storicamente determinata, epocalmente storica, anche se di una storia che coinvolge tutto l’assetto delle civiltà. Entiusserung è assolutamente altro da Entfremdung, anzi ne è  l'opposto, è la differenza storica che contrassegna l’uomo così come è  divenuto nella storia stessa, che pur resta sorretta dalla legge dell’Estra-  neazione. L'Alienazione è «contingenza storica» che può essere superata. La stessa dialettica servo/padrone si fa, qui, fondante e in senso  esistenziale e genetico, sottolinea. Da qui M. deduce due percorsi  di indagine. Uno dentro Hegel, che mostri la funzione sistematica della Fenomenologia dello Spirito e il riconoscimento del suo ‘punto  di crisi’, che la separa dal sistema. Nel gioco delle figure dell’opera sarà  quella dello Spirito estraneo a se stesso che va valorizzata, come decisiva e  ricorrente nell’opera stessa. La «ripetizione della coscienza lacerata» si di-  lata nel percorso storico e si attua sotto varie forme. La  vita spirituale, per Hegel, resta duplicazione, conflitto, rischio di ‘disgregazione della coscienza stessa. Ma seguita, come un’ombra, dal bisogno,  attesa, speranza, volontà della ricomposizione nell’«essenza calma delle  cose». Negatività e assoluto stanno intrecciati, ma questo è anche l’attesa  di quel travaglio del negativo. La stessa «intellezione» si fa «rappresenta-  zione», della vuota apparenza del mondo ma anche del suo riscatto, ri-composizione, salvezza integrale del suo senso. Sotto un altro aspetto quel saggio di M. si nutre di, e apre a, una  filosofa dell’emancipazione che vede l’alienazione come condizione sto-  rica, storicamente rimuovibile, attraverso quel riscatto della polis, che  riesca a farsi sempre di più città degli uomini e per gli uomini, come già  ci ha indicato l’erede eretico di Hegel, Marx, col suo materialismo  storico. Il materialismo storico è oggi la vera filosofia dell’emancipazione, che eredita il nocciolo duro della riflessione hegeliana, la storicizza e  fa della storia il regno non della necessità bensì della libertà. Anzi, della  liberazione. E lo stesso M. fissa questo traguardo proprio a conclu-  sione di quel saggio: La coscienza che sorge dall’azione rivoluzionaria sarà una coscienza  che non incontrerà più l'oggetto come un'entità estranea (ein Fremdes).  Un mondo nuovo sorge come sua Entiusserung. Il saggio su Entfremdung e Entiusserung conclude là dove si apre lo  spazio di quello storicismo attivo e emancipativo descritto proprio nel Frammento etico-politico, allargando meglio la vista sulla tensione antro-  pologica di quello storicismo e la lettura raffinata (non scolastica, non-riduttiva, non-oggettivistica) e aperta del materialismo storico, visto come  prassi rivoluzionaria di e per un uomo-della-città, ma anche di e per una  città-dell’-uomo. Per molti aspetti possiamo dire che siamo davanti a uno storicismo  d’epoca, con questo elaborato da M.. Uno storicismo neostoricista,  postmetafisico, critico, antropologico, emancipativo. Anche uno storici-  smo incardinato sul nesso Hegel-Marx, in cui è però Marx a illuminare  i connotati attuali e critici di Hegel. E un Marx che non si fa ‘tribunale’  della filosofia, ma metodo per pensarla, nella sua attualità e nella sua storia. Uno storicismo critico e antropologico, ma che proprio ed è il suo  punto di originalità e di onore - nella città (polis) trova l’asse portante  della propria teorizzazione, sottolineando l’aspetto sociale e politico della  storia stessa e quindi la lettura dialettica dei condizionamenti e supera-  menti che ogni filosofia compie in relazione alla sua città. Per il presente/  futuro solo questo tipo di storicismo potrà dar corpo a filosofie critiche  che sull’emancipazione vengono a trovare la propria legittimazione e il  proprio compito.   Tale aspetto complesso, sfumato, problematico ma anche attuale e pre-  gnante, carico di futuro, dello storicismo di Massolo è stato più volte sot-  tolineato dai suoi interpreti, da Sichirollo a Salvucci, già ricordati, agli altri  che in anni anche più recenti hanno ripensato la speculazione massoliana  nel suo imprinting e nella sua densità storica e teorica. Si pensi al volume  su Il Filosofo e la città e ai richiami ancora di Salvucci alla «forte  attualità» di quel pensiero, proprio per il vero e forte umanesimo che  lo caratterizza e che è il frutto di un incrocio tra dialogo/città/storia che  M. ha teorizzato con vivacità e precisione. Per questo Massolo, anche  nel presente postmoderno, in questa età di decentramento, pluralizzazione, di a-teleologismo, può fungere da significativo orientatore. Anche Burgio, nella stessa raccolta di studi, parla di M. e il nostro interesse per la storia, riflettendo proprio su quello storicismo mas-  soliano della maturità e sul suo statuto teorico. La storia per M. non  è «condizionatezza», è possibilità, ma secondo un senso «posto da noi» e  costruito nel tempo nella e per la città. Il vettore che guida tale storicismo  è quello di una comunità politica che si impegni a vivere valori e fini col-  lettivi, e a realizzarli insieme. Cazzaniga in Individuo e mondo moderno  sottolinea ancora l’attualità di M. storicista.   Lo chiama il filosofo della città e lo vede come attento interprete e erede di un marxismo dell’emancipazione, da realizzare dialetticamente nella  città. Anche Sichirollo e Losurdo si attestano sulle stesse tematiche, rimandandoci un'immagine di M. sì ‘d’epoca’, ma ancora tutta attuale, per  la vocazione politico-emancipativa e per l'identità antropologico-sociale della sua filosofia, che si delinea come uno storicismo molto avanzato, privato di ogni residuo metafisico e che si lega in modo squisitamente dialettico a quel nesso storia/prassi che è un po” la ‘croce’ della filosofia moderna  e contemporanea e l’osso di seppia su cui si sono esercitati, ma anche se-  parati e contrapposti, i vari storicismi. Qui, in quello di Massolo, il nesso è  di problema e di equilibrio, è aperto e sottile, ma posto come il nucleo  costante da cui emerge e per cui emerge lo stesso filosofare. Saldando così  il pensiero filosofico alla città, che è il luogo e il simbolo di questo intrec-  cio, ma anche lo spazio in cui l’uomo può e deve realizzare se stesso. Bodei, M., Aut Aut, Badaloni, Ricordo di M. Giornale Critico della Filosofia  Italiana, Burgio (cur.), M., Quattroventi, Urbino, Domenico, Puglisi (cur.), Il filosofo e la città. Studi su M., Marsilio, Venezia, Farulli, L'engagement de la philosophie selon A. M., Revue de  Métaphysique et de Morale, Landucci, M., Belfagor, M., Storicità della metafisica, Le Monnier, Firenze, Fichte e la filosofia, Sansoni, Firenze, Introduzione all'analitica kantiana, Sansoni, Firenze, Il primo Schelling, Sansoni, Firenze, Ricerche sulla logica hegeliana e altri saggi, Marzocco, Firenze, La storia della filosofia come problema e altri saggi, Vallecchi, Firenze, Logica hegeliana e filosofia contemporanea e altri saggi, Giunti-Marzocco, Firenze, Della propedeutica filosofica e altre pagine sparse, Montefeltro, Urbino, Omaggio a M., Studi urbinati, Ricci Garotti, Heidegger contro Hegel, Argalia, Urbino, Salvucci, Presentazione a M., Logica hegeliana e filosofia con-  temporanea, Situazione e filosofia in M., in Omaggio a M., Sichirollo (cur.), Studi in onore di M., Studi Urbinati, Spinella, recensione a La storia della filosofia come problema, Rinascita, Vacca, recensione a La storia della filosofia come problema, Paese Sera-Libri, Valentini, recensione a Frammento etico-politico, Società. Arturo Massolo. Massolo. Keywords: prime ricerche di Hegel, la logica di Hegel, Gentile, implicatura idealista, Ariskant and Plathegel. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Massolo” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Mastrofini: l’implicatura conversazionale e l’implicatura verbale di Romolo – la scuola di Roma – la scuola di Monte Compatri – filosofia lazia -- filosofia italiana – Luigi Speranza pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Monte Compatri). Filosofo romano. Filosofo Lazio. Filosofo italiano. Monte Compatri, Roma, Lazio. Grice: “I like Mastrofini; for one, he found how old Roman evolves into what we may call new Roman, or Italian!” – Grice: “And of course as a philosopher, he focused on the philosophical terminology – it takes a PHILOSOPHER to translate a philosophical text!” – Grice: “What I like about Mastrofini” is that he mostly kept with the cognates. La Crusca adores him!” Noto soprattutto per il volume “Le discussioni sull'usura” in cui sostenne che non è reato far fruttare il danaro e che né la Sacra Scrittura, né i Vangeli, né la tradizione ecclesiastica vietavano di ottenere un giusto interesse per danaro dato a prestito. Questo diede luogo a molte discussioni ma anche apprezzamenti lusinghieri da economisti dell'epoca e dall'opinione pubblica.  In precedenza aveva scritto un'opera di economia finanziaria, il Piano per riparare la moneta erosa relativa all'inflazione nello Stato Pontificio, opera largamente utilizzata per la riforma finanziaria dello Stato, intrapresa da Pio VII. L'edificio del Collegio Romano ove  insegna. Insegna a Frascatii. Nel pieno della crisi della Repubblica Romana, si trasfere a Roma dove venne nominato professore di eloquenza presso il Collegio Romano.Torna a a Frascati. Si trasfere definitivamente a Roma dove assume la carica di consultore della "Nuova Congregazione cardinalizia per gli affari totius orbis".  Produce le traduzioni dei capolavori di Floro, “Sulle cose romane,” e di Ampelio, “Sulle cose memorabili del mondo e degli imperi.” Traduce “Le Antichità romane” di Dionigi. Pubblica “Teoria e prospetto; ossia, dipinto critico dei verbi italiani coniugati, specialmente degli anomali o mal noti nelle cadenze,” opera che porta un grande contributo allo studio dell'italiano, utilizzata dall'Accademia della Crusca nella revisione del dizionario della lingua italiana. Pubblica “Della maniera di misurare le lesioni enormi nei contratti e uno studio sulla patria potestà e filiazione, che ha larga eco nei circoli giuridici romani, essendo allora in corso una causa di riconoscimento di paternità per successione tra i Torlonia e i Cesarini.  Piazza di Monte Citorio. Nell'edificio dove abita e muore, in piazza di Monte Citorio il Comune di Roma appose una lapide con il seguente ricordo: Abita in questa casa -- filosofo assai più grande che celebrato fissa le incerte leggi dei verbi investiga felicemente con l’uso della ragione i misteri della scienza divina S.P.Q.R.» “Dissertazione filosofica” (Roma); “Piano per riparare la moneta erosa” (Roma); “Ritratti poetici, storici, critici dei personaggi più famosi nell'antico e nuovo Testamento” (Floro); “Sulle cose romane” (Roma, Ampelio); “Sulle cose memorabili del mondo e degli imperi” (Roma); Dionigi di Alicarnasso “Le Antichità romane”, Roma, “Dizionario dei verbi italiani” (Roma); “Metaphisica sublimior de Deo triun et uno,” Roma, Appiano “Storia delle guerre civili dei Romani", Roma, Arriano “La Storia”, Roma, ristampata da Sonzongo con il titolo “Delle cose d'Italia” “Le usure,” Roma, “Amplissimi frutti da raccogliere sul calendario gregoriano,” Roma, “L'anima umana e i suoi stati,” Roma,  “Teorica dei nomi,” Roma, “Teorica e prospetto de' verbi italiani conjgeniti,” Roma. Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Il primo fondatore di Roma, e dell'impero e ROMOLO, generato da MARTE, e da Rea Silvia. Tanto nella sua gravidanza confessa di sèquesta sacerdotessa: nè la fama ne dubita quando poco appresso il fanciullo gettato con Remo suo fratello nella corrente per ancenno di Amulio, non potè soffocarsi. Imperoc chè il padre Tevere ritira dal lido le acque ed una lupa, lasciati i suoi parti, e seguendo il suono de'vagiti, inboccò li sue mamelle a' fanciulli, presentando in se stessa una madre. Cosi trovatili un regio pastore presso di un'arbore, e portatili in casa (2 gli educa. Di que' giorni Alba, opera di Giulo, e capitale nel Lazio chè avea quegli dispregiata Lavinia, città del suo padre Amulio. Sopra ttutto sembra inc satto l'intervallo da Augusto fino a Trajano Eglilo crededi anni duecento ; laddove è di anni cento due a!l'incircd. Ma forse vi è sbaglio nel testo e dee leggersi cento in lungo di duecento  Rea Silvia figliuola di Numitore presedeva al sacerdo zio di Vesta Quindi è dettaSacerdotessa. Nel testo in casam: questa voce può sign'ficare capan Tuttavia par verisimile che l'abituro di un regio pastore fosse alquanto migliore di una capanna. L'espressione italiana comprende ogni abitazione fosse capanna o no. av. Cr av. R. 26. na ENEA dopo finita la guerra con Turno foudo la città cui chiamò Lavinia dal nome della moglie. Ascanio, ossia Giulo, peròdi luifigliuolo dopolamortediEneafabbricò A!. ba Lunga la quale tu capitale del regno per trecento anni   Ani. dik. 3.av. Cr. essi viregnava, avendonecacciato il germane suo Numitore, dalla cui figlia Romolo era n..to. Adunque co stui nel primi bollore degli anni caccia Imulio suo zio dal principato, el'avoloviri pone. In tanto egli amante del fiume e de’monti, vicino a'quali era stato educato, meditava lemura di una nuovacitt). Ma l'unoe l'altro essendo gemelli; p acque loro consultare gl'ld dj, qual de’due le fondasse e vi dominasse. Per tanto REMO andossene al monte Aventino, el altro al Palatino. Colui pel primo vide VI avoitoj: posteriormente videne l'altro, ma XII: e vincitore negli augurji nal Area fin quì fatto un'ABOZZO di citta, piuttosto che una città; mancandole gli abitanti. Ma siccome riina neale vicino un bosco;eg! 2feceunasilo; edisubia tovisi adund moltitudine prodigiosa di uomini, Latini, e Toscani pastori, eGo ancotras marini, sia de ' Frigj venuti con ENEA, sia degl’Arcadi con Evantro. Cosi quasida varii eleinenti, ne trasse un corpo solo; ed e per lui creato IL POPOLO ROMANO. Vi quel popolo di uomini e cosa di una sola generazione. Si chiesero dunque de’matrimoni da'confinanti; e sccome non si otteneano, sono con la forza espugnati. Imperocchè finti de 'giuochi equestri, le vergini accorse per lo spets 747. incirca. Finalinente ROMOLO inalza Roma che diverrebbeca.  C o. za una città pieno di speranza, che guerriera diverrebbe; tanto ripromettendogli quegli uccelli, consueti a 7 LIBio sangue e prede. Sembra che in difesa della puova cit tá basterebbe un vallo; se non che deridendo Remo le angustie di questo, anzi condannandole con saltarle, e trucidato; è dubbio se per comando del fratello; ma certo ei ne fu la prima delle vittime; e CONSACrA COL SANGUE SUO e fortificazioni della nuova città. Av. Cr. R.2 so 52 7> ro dell'Italia e del mondo,   PRIMO  Spoglie opine eran quelle che un comandante toglie all'imperadore o supremo comandante nemico uccidendolo di sua mano. Queste sono così rare; che se ne contano appena tre. Le prime le riporta Romolo contro di Acrone. Le seconde Cornelio Cosso contro di Tolunnio. E le terza Marco Marcello su Viridomaro. Giove poi e detto Feretrie o perchè a lui ferebantur si portavano le spoglie opime, o perchè ferisce col fulmine; o perchè nell'acquistare le spoglie opime un capitano ferisce l'altro con la spada. E questo un bel mantenere le promesse e intendere di dare alla donzella gli scudi perchè gli scudi le vibravano opprimendola. Questo metodo di mantenere le promesse, ras somiglia a quello usato dalla fanciulla per consegnare una porta creduta da Floro senza inganno o cone noi abbiamo tradotto, senza malizia, perchè non chiedeva danaro, ma gli scudi o li braccialetti. Potrà inai persuadere questa ragione? La vergine, che quisi addita, secondo Valerio Massimo e figliuola di Spur.Tarpejo il quale a tempi di Romolo presede alla fortezza: c coleiera uscita per prenderc acqua pe’santi riti,  tacolo, furon preda, e cagione immediata di guerre. Furono I Vejentire spinti e fugati: la città di Cenina fu presae diroccata: inoltre lo stesso monarca ne riporta con le sue mani a Giove Feretrio le spoglie ooiine del re. Ma le nostre porte furon date a Sabini per una donzella; nè già con malizia: ma chiesto avendone la fanciulla in ricompensa ciocchè essi portavano alle sinistre, gli scudi forse o li braccialetti; coloro e per man tenere a leila promessa e per vendicarsene la oppressero congli scudi. Ricevuti in tal modo fra le mura i nemici ne sorse nel foro medesim un'atroce battaglia; tanto che ROMOLO prega Giove che arrestasse la fuga vi tuperosa de’ suoi. Quindi ha origine il tempio, e Giove Statore. Finalmente le donzelle in lacere chiome s'intrammisero ad essi che infierivano. Così fu la pace riordinata, e stabilita l'alleanza con Fazio. Donde ne.diR. Cr. bandonati i lor domicilj, sen passarono alla nuova città, consociando co'nuovi generi loro gli aviti beni perdote. Accresciute in poco tempo le forze da il sapientissimo re quest: forma alla Repubblica. E la gioventù divisa in tribà con cavalli ed armi perchè sorgesse nelle subire guerre: fosse il consiglio su pubblici affari ne’ seniori, i quali si chiamano pari arringando dinanzi la città presso la palude della capra, e di repente levato di vista. Alcuni pensano che i senatori lo trucidassero per la ferocia dell'indole di lui. Dopo la morte di ROMOLO il trono resta privo di sovrano per un'anno, comandando in tanto a vicenda i senatori di cinque in cinque giorni. Quello spazio e chiamato interregno. Il magistrato a forma d'interregno ha luogo ancora ne'se. coli posteriori quando I consoli occupati in lontane azioni non potevano intervenire ai coinızj;o quando erano costretti a depor.  14 LIBRO dir. seguitò, cioc chèè portentoso a dire, che inemiciab 7.av. Cr. diR. 38. l'autorità, ma per la eta S.nuto. Ordinate in tal modo le cose, egli SI CONDO Tav. 37 av 713 so non che la tempesta e l'oscurarsi del sole presentaroncincid le imnagini con e di una santa operazione: alla nuale poco appresso diè credito GIULIO Proculo coll'offermare; che ROMOLO si era a lui dato a vedere Cr 743. informa più augusta della consueta; e che imponeva che per Dio se lo prendessero. Piacere a Numi che egli sichiami Virinoin sul cielo. Con tal mezo Roma conquisterebbe le genti. E' natura del Verbo di esprimere l'afermazione e la negazione. E siccome Essere e non essere esprimono appunto per se stessi l'affermazione e la negazione; ne seguita che il verbo Essere preso nudamente, o preceduto dalla particella “non”, è verbo per natura e per eccellenza. Comunemente la voce essere è nota col nome di verbo sostantivo, perchè esprime l'esistere, o L’ESSERE di sostanza. Le qualità che si affermano o negano possono aversi distinte o no, dall'affermazione,o negazione. Nel primo caso l'affermazione o negazione si addita col verbo essere, come si è detto. Ma nel secondo caso risulta un nuovo ordine di verbi più composti; appunto per chè in essi è riunita l'affermazione o negazione colle qualità che si affermano o negano: tali sono amare, godere, odiare, piangere et cetera, che significano essere nell'amore, nel gaudio, tra l'odio, o tra 'l pianto. Questo secondo genere di verbi ha servito incredibilmente a variare e fecondare il discorso, in somma alla dolcezza dell’eloquenza, e della Poesia. Chi afferma e nega, o afferma e nega dise stesso, che si chi a ma persona prima, o di altri a cui parla, che si chiama persona seconda, o di soggetto a cui non si parla, e si chiama persona terza. Per altro queste persone possono essere una, o più, cioè possono riguardarsi in singolare, duale, o plurale. E 'naturale che tanto nella nostra quanto nella più parte delle lingue s'introducesse l'uso di finire il verbo diversamente secondo la diversità delle persone,e del numero. E quindi abbiamo amo ami ama amiamo amate amano. E potendo il discorso riguardare cose presenti, cose cominciate e non finite, cose passate, più che passate, e future; fubene varia. Anzi siccome le proprietà si affermano o negano assolutamente, o sotto certi rapporti e condizioni. Cosi li verbi divennero parole terminate diversamente secondo la persona, il numero, i tempi, e i modi di affermazioni e negazioni assolute o relative.  S. 1. re il verbo secondo la persona, il numero, e i tempi. a I   6. Questi modisono cinque: Indicativo, Imperativo, Ottativo, Congiuntivo, ed Infinito. L'indicativo dimostra assolutamente che una cosa è, fu, sara; e perd vien detto ancora assoluto e dimostrativo. Cosi Pietro ama amò amerà. le scienze, forme tutte dell'Indicativo, dichiarano che Pietro amo, ama, ed amerà, assolutamente. L'Imperativo esprime comando, preghiera, avviso, consiglio, esortazione di far qualche cosa, e con una sola voce si vuol esprimere il comando, preghiera et cetera, e l'azion e che deve farsi. Tale sarebbe ama tu, amerai til, ameremo noi et cetera. Per tanto si esprime l'azione ed il modo col quale si fa, cioè per comando, preghiera et cetera; laddove nell'Indicativo mancano questi rapporti. L'Ottativo esprime desiderio di fare una cosa, giusta i varii tempi; e per questo è detto ancora desiderativo, e tale sarebbe, “O se amassi, io amerei, O avessi amato, lo avreiamato et cetera. Il congiuntivo è così detto perché si adopera quando si vuo le congiungere il discorso con altre cose precedenti, e perd siegue le particole sebbene, quantunque, conciossiacosache et cetera. Tále è quel di PETRARCA Italia mia, benchè il parlar sia indarno et c. E talequel di BOCCACCIO. .6.7.n.2. per l'amore di Dio, come chè il fatto sia et cetera. Tra i Greci l'Ottativo ha le sue desinenze tutte diverse dal congiuntivo: ma nella lingua latina e nella nostra L’OTTATIVO ADOPERA LE STESSE VOCI DEL CONGIUNTIVO, se ben si rifletta. Il verbo si dice di modo finito o determinato finchè si concepisce indicativo, imperativo, ottativo, congiuntivo. Ma talvolta esprime indeterminatamente qualche proprietà senz'additare ne persona, nè numero, come amare, leggere, et cetera, ed allora si chiama di modo infinito cioè indefinito ossia non determinato. La varia desinenza di un verbo secondo le persone, il numero, i tempi, ed i modi si chiama conjugazione. Ed i verbi si dicono di una conjugazione medesima o diversa, secondo che rassomigliano o no nel complesso di queste desinenze. E siccome queste si diversificano secondo la diversità dell'infinito; e l'infinito puo terminare in -are, in -ere -lungo e breve --, ed in -ire; cosi III sono le conjugazioni della nostra lingua. Tutti gl’infiniti terminati in -are si dicono della prima conjugazione come amare, balzare, danzare. Tutti quelli terminati in -ere sichiamano della seconda, o l'infinito sia lungo o breve, come temère,cadère, giacère, et cetera, e come credere, discendere, volgere, ecc.. I latini di queste due desinenze ne faceano II CONGIUGAZIONI diverse, come docère e legere. Nè mancato è pur tra gl'Italiani chi abbia concepite diverse le conjugazioni secondo l'infinito lungo o breve. Ma siccome, tolta la pronunzia lunga e breve dell' infinito, non vi sono altri di vari, parlando regolarmente; e siccome la pronunzia concerne il modo di significarlo in voce, non la forma del verbo; così piùra gionevoli sono quelli che rinniscono in una conjugazione gl'infiniti in -ere, lunghi o brevi. Spettano alla terza tutti i verbi terminati in -ire, come sentire, uscire ecc.  Chi si propone per iscopo di presentare il prospetto de'verbi italiani dee porre sott'occhio le varie desinenze di essi giusta i modi, I tempi, il numero, e le persone nelle varie conjugazioni. E cið ė propriamente che noi cercheremo di eseguire. Per vedere però più da presso il suggetto, anzi fin dalle origini, ed in tutta l'ampiezza sua, divideremo quesť opera in due parti. La prima e tutta di Teoria e di Prospetto generale; ed esporremo in essa come le conjugazioni latine sian si trasformate e si trasformino nelle presenti d'Italia; la dipendenza comune de' nostri verbi dall'infinito, e per ogni conjugazione il prospetto di qualche verbo che serve di norma in tutti i simili e regolari -come del verbo “amare” per la prima, de'verbi “temere” e “credere” per la seconda, e de’ 'verbi “sentire” ed “aborrire” per la terza. Anteporremo per altro a tutti il verbo “essere” come principio di ogni verbo, e quindi il verbo “avere” che prossimo gli succede, esprimendo la sostanza, che passa ad ottenere in generale delle proprietà. E ciò tanto più dee farsi; che senza questi due verbi, però detti “ausiliari”, non possono formarsi le tre conjugazioni divisate degl’altri verbi. Dato cosi principio e norma al prospetto di tutti i verbi regolari, verremo alla seconda parte ed esporremo ad uno ad uno per ordine alfabetico i principali tra' verbi anomali cioè quelli che in qualche tempo escono dalla legge consueta, ed i quali servono spesso di regola per altri anomali non dissimili. Il prospetto e distinto in quattro colonne. Nella prima si avranno le voci corrette, nella seconda le antiche, nella terza le poetiche, e nella quarta le non ben certe, gl'IDIOTISMI e gl’errori. Si avverta che non tutte le antiche sono affatto dismesse, anzi talvolta usate a tempo adornano la scrittura: come pur le poetiche non tutte sono così della poesia che non servano talora alla prosa. Il che si conoscerà dalle note. GLI ERRORI SON SEMPRE ERRORI. Gl'idiotismi poi sono voci usate nel parlare e nello scrivere familiare, non però nelle belle scritture, sebbene talvolta vi scorrano per incuria e per arbitrio degli scrittori che le decidon per buone, o vogliono nobilitarle con la fama già da essi acquistata. Per compimento dell'opera spesso porremo in fine del prospetto il participio ed il gerundio. Il primo é propriamente un nome tratto dal verbo. Dicesi participio perchè partecipa del nome e del verbo: e come nome si declina, e come tratto dal verbo esprime un qual che significato di questo. Tali sarebbono “amante” ed “amato”. Tra’Latini si aveano participii presenti, passati, e future: “amans”, “amatus” “amatVRVS” (cf. IMPLICATVRVM).  Presso noi, non si hanno che li presenti, e li passati che sono “amante”, “amato,” temente, temuto. Tra’nostri antichi furono ideati anche i futuri come fatturo, perituro ecc, ma non ebbero buon successo, nè più vi si pensa. Il participio passato e descritto per lo più nella formazione de' tempi PIU CHE passati: laddove il participio presente si troverà nel fine de' prospetti. Un tal participio può essere messo informa di aggiunto e di attributo come se io dicessi: la virtù possente, e la virtù a2  3. Il participio si riguarda anzi come adjettivo, che qual participio. Per chè sia participio con ogni proprietà, dee, quando si risolva, significare come i participj latini: come se dicesi canto possente a diletta re: schiere seguenti le altre ecc. E ciò rileva conoscere perchè non di raro si anno gl’esempj anzi di adjettivi che di participi, e noi pur he useremo in mancanza di participi, tali per ogni rispetto. Gerundio tra noi e tra' latini è una voce tratta dal verbo, la qual significa le affezioni di questo, ma la quale non si declina come il nome, nel che differisce dal participio: come amando, credenádo, temendo, sentendo. Da'quali esempj risulta che il Gerundio delle prime conjugazioni finisce in -ando e delle altre in -endo. L'uso di tali gerundi è frequentissimo nell'italiano in luogo ancora de'participj presenti. Ma veniamo all'argomento, Come le congiugazioni latine siansi trasformate e si trasformina nelle conjugazioni presenti d'Italia. TUTTE LE VOCALI LATINE, FINALI DI PAROLE INTERE, NE SEGUITE DA CONSONANTI, SI CONSERVANO. Così, in AMO ed AMARE, si conserva l'O di amo, e l'E di amare. Tutte le consonanti finali si tralasciano o mutano. Le consonanti sono M, S, T, NT, ST. Nel caso di NT si cambia il T in O, e però non si lascia che il T amant amano, amarunt amarono: ma talvolta tutto l'NT si muta in RO : amassent amassero: sebbe ne in questo e simili casi può sempre rimanere la regola di mutare il solo T in o dicendosi ancora “amassono”. Vedi il prospetto di amare.Tutti gli “U” finali seguiti da M o da S si cambiano in 0: POSSVM > POSSO. amamus amiamo: ma se gli U sono seguiti da NT si cambiano in o nei presenti e nei passati, ma nei futuri in AN. Così da legunt si trae leggono, e da amabunt ameranno. Tutti gli A ovvero gli E precedenti immediatamente l'S finale SI MUTANO IN “I”: amas > ami; times temi: e cosi da timeas abbiamo tu temi, e da legas tu legghi. Il che basta a conservare la regola, ma ora si dice anche “tu tema”, e “tu legga”. Tutti gli E, ogl'I precedent gli A, oppure gli O finali, si lasciano affatto. Timea temo, timeam icma. Sentio sento: sentiam io senta,  4 è possente: il fuoco bruciante, e il fuoco è bruciante: ma in tal caso NOZIONI ARCHEOLOGICHE.  Non dee sperar di comprendere il trattato che qui soggiungo se non chi conosce per le gli altri ne differiscano la lettura. sue regole l'idioma Latino e l'Italiano: 3. non si $. Tutti gl'I precedenti gli S finali in singolare si conservano assumendo nel futuro un A precedente: legis leggi: a ma bisamerai, ed in plurale si mutano in E: legitis leggele. Tutti gl'I seguiti dal solo T finale subiscono un cambiamento secondo i tempi. Ne'presenti si cambiano in E, e ne’ futuri in A accentatolegiilegge, creditcrede: amabit ameră, timebio temerà. Per i preteriti perfetti ne diremo più innanzi. Tutti i B avantil'afinalene gl'imperfettisi cambiano in “V” consonante, ed avanti l'O, l'I,o l'U finale del futuro, li B. caratteristichi della conjugazione del tempo si cambiano in R. Quindi si trae amerò da “amabo”, ma da belabo si forma belerò senza mutarne il primo B; perchè questo è proprio del verbo, e non della formazione del futuro. Queste regole sono ordinarie. Vediamolo. LATINO amatis est amamo reg. 3. e 2, ora amianio sono sono Ed eccone la maniera. Dalle regole 3. e 2. è chiaro che la prima persona debba essere so e l'ultima sono. Ora dee sapersi che appunto tra gl’antichi si trova non poche volte “so” per “sono” in prima persona. B. Jacop. Poes. Spirit. Venez. 1617. lib. 4. cant. 28.  stanz. 12. sei  amamus es еè sumus somo este credit et c. ama reg. 2 credi reg. 2. amas sentit et c. Amo reg.i. Vedo reg.4. vedi reg. 4. vede reg. 2. senti reg.2: Amo amat amant amano reg. Dicasi altrettanto di Video vides videt et c. credo ITALIANO ami reg. 4. e 2. 3. Applichiamo queste regole al presente del verbo sostantivo : Sum amate reg. 5. e 2, sente reg.6. credis credo So e finalmente Sono i 5 se, estis semo siamo sunt sete siete sentio sentis crede reg. 6. sento reg. 4. lo so nulla: ho peccalo: Mi exalto quantoposso. e cant. 3. st. 2. del lib, stes.   A pinger laer so dato. E GIUSTO de Conti nella bella mano pag. 39. La seconda persona es fu trasposta e non altro, facendo prece dere l'S. Quindi gl’antichi dicevano comunissimamente se anche senz'apostrofo per seconda persona: come Petrarca, Boccacci, Albertano, ed altri: ALBERTAN. ediz. di Fir. cap.23.  Selegaloa moglie? non domandare di scioglierti. Se sciolto da moglie? non domandar di legarti. E più sotto: e sìselenulo di tanto amarla moglie. PETRARC. canz. 26. v. 77. ediz. Comminiana Spirto beato, quale  6 Se, quando altrui fai tale? e altrove più e più volte. Il Decamerone secondo la ediz.1718. col la data di Asterdam ne è pieno. Senza questa origine che facono scerecheseper seconda persona è voce interae non accorciata, non s'intenderebbe, perchè gl’antichi spesso non l'apostrofassero. Tutta via per distinguerla a prima vista da se pronome, e condizionale, convenne in qualche modo contrassegnarla, e si fece uso dell'apostrofo: e servendo questo a notare le voci scorciate; si riguardo se persona seconda, come scorciata, quando non era: e perchè tutte le seconde persone singolari presenti dell'indicativo terminano in I Reg. 4.e seguendo le leggi generali, tal persona nel verbo sostantivo avrebbe dovuto essere un I. Così poco a poco si ricongiunse se ed i in sei, ed ora si crede questa la voce intera di tal persona. E cid supposto quando si scrive se per indicarla, si apostrofa, quasi fosse uno scorcio di Signor non è giovato Mostrarmi cortesia: Tanto so slato ingrato ! e altrove spessissimo. E GUIDO Guinzelli Rime antic. appresso la bel la mano ediz. di Firenz. 1715. Come io so avvolto nel Lenace visco; e se ne hanno esempj ancora nelle lettere di S. CATERINA, in Fr. Gi.ROLAMO da Siena nel1. Tom. delle delizie degli eruditi Toscani, ed in altri: vedi vocab. di S.CATER. alla voce essere: ma so trovasi parimente persona del verbo sapere, nata da sapio > sapo > sao > so: ovvero da scio regola 5. scosso so: la prima derivazione è di Menagio: a m e piacerebbe la seconda. Ma torniamo all'intento: siccomeso era voce ancora del verbo sapere, e SICCOME IL SAPER VERO E DI TANTO POSTERIORE ALL’ESSERE. Così per togliere ogni equivoco EQUIVOCO GRICE, si volle piuttosto ridurre il “so” del verbo essere in sono, che lasciarlo indistinto col “so” del verbo sapere. Chi dunque considera che il primo verbo italiano “essere” ha la voce “sono” per esprimere la prima singolare e la terza plurale, sappia che questo è stato UN MALE DI ORIGINE, voglio dire è provenuto dalla FIGLIOLANZA della Italiana dalla lingua latina, in forza delle leggi universali, che per tanta combinazione di circostanze cooperarono a trasmutare l'una nell'altra.   s e i : nè chi procede con tal veduta può riprendersi: ma in origine non vi era bisogno, e più che apostrofarsi, avrebbe dovuto accentarsi. sero eepere.ALBERTAN. Giud. cap. 51. Dal savio uomo eeda temere lo nimico. Or cid fecesi per distinguere e del verbo, dalla congiunzione e, come pure dal pronome ei solito ad apostofrarsi, e dalla congiunzione e seguita dall'articolo plurale ili quali due e iriunitisi rende anopere: ma col tempo, la varietà dell'apostrofe e dell'accento pote contrassegnare e diversificare abbastanza l’e del verbo dagli e di altro valore: vedi esseren.Trovasi ancora fra gl’antichi este per è ma rarissime volte: vedi Gradidi S. GIROLAM. ediz. Fir.1729. in fine alla voce este; finchè prevalsero le regole generali anzidette. Da “sumus” uscirebbe sumo o somo, e non semo. Ma siccome tutte le prime persone plurali dell'indicativo presente nelle seconde conjugazioni presero la desinenza in “-emo,” come avemo, tememo, ecc.,così da “sumus” e tratto semo. Ovvero siccome tutte le persone prime plurali ora pe'rincontri della forma loro anno rapporto con la seconda persona singolare tanto che sono un composto di questa con qualche a g giunta, come “amiamo” da ami ed amo, temiamo da temi ed amo et c;e siccome tal seconda singolare era se nel presente indicativo di essere, quindi ne uscisemo e poisiamo. Chi conosce gl’antichi sa quanto è familiare l'uso di “semo”. Ne allego un esempio dalla vita nuova di ALIGHIERI: Per chè semo noi venuti a queste donne? E Fra Jacop. lib. 1. sat, 5. Uomo pensa di che semo. Di che fummo, et a che gimo. Vedi il prospetto del verbo Essere In forza delle regole generali, la seconda plurale sarebbe “estes”. Ma trasponendo l'savanti l'E come nel singolare per uniformità maggiore con “sono”, “sei”, “siamo”. Sen'ebbe sele, e questa appunto è la voce degl’antichi: si consulti il verbo essere not. 5. FINALMENTE SI AGGGIUNSE UN “I” PER DOLCEZZA (“se” > “sei”) o per distinguere tal voce da alcuni sostantivi e sen ebbe siete, che ora è la voce più propria di questa persona. Apparisce dunque per quali gradi e per quali mutamenti siasi formato il presente come ora si usa del verbo essere, La terza persona si esprime con la voce “e”, che appunto RISPONDE all’ “EST” latino, lasciatene le consonanti SECONDO LA REGOLA 2. ma gl’antichi, prima che la lingua si modellasse in tutto, non di raro dis  7 Preferiti Imperfetti Amabam amabas amabat amabamus amabatis amabant Amaya reg.2.7. amavireg.2.4.7. amava reg.2.7. amavamo reg.7.3. 2. amavate reg.7.5.2. amayano reg.7. 2.   Temeva &c. legebam leggeva e e da sentiebam lasciatone l’I che è quel di sentio reg. 4. si ha sen leva com e era nelle origini prime, nelle quali, tutto risentiva di conjugazione seconda tra gl'italiani ne' verbi provenienti DALLA QUARTA DE’LATINI. Non è raro che “senteva” si oda anche ora tra' CONTADINI PIU CORROTI CHE SONO GLI ULTIMI A CORREGGERSI. E finalmente fu detto sentiya sentivi et c.lasciando l'E per l'I. Per queste regole e questi progressi apparisce che la prima persona dell'imperfetto doveva terminare in A amava temeva legge va sentiva. Al presente i filosofi ed i gramatici si meravigliano, per chè la prima e terza persona singolare combinino, e perchè la prima non siasi terminata in O. Ma la meraviglia cessa, se riflettasi che al cambiarsi del latino nell'italiano, si prendevano di netto I vocaboli antichi, nè si aveano di mira che certe regole, come le indicate di sopra, per contornarli di nuovo. E siccome tutte le prime singolari degli imperfetti levatane la terminazione latina in M ; restavano amaba legeba ec; cosi mutato il “B” in “V” non poté farsi a meno d'incorrere nel lo scoglio anzidetto. Molto più che in que'tempi non faceasi poco, se le parole non sapevano di latino. Veduto come siasi introdotto l'equivoco EQUIVOCO GRICE, ora tocca ai filosofi di emendarlo. Ttanto più che non siamo poi scarsissimi di esempii antichi pe'quali si compionoin o le persone prime singolari dell'inperfetto: de'quali mi piace allegarne qui alcuni riserbandone altri ailor verbi nel prospetto. Petrar. Vit. De Pontef. Ed Imperadori: VITA DI CALIGOLA, lo PREGAVO ogni giorno che Tiberio morissi. Così pure leggiamo in Fr. Jacop. 1. 4.can. 38. La cagion del mal FUGGIVO. Cavalc. Epist. di S. Girol. ad Eusloch. cap. 3. ediz. Rom.. E vedendomi io venir meno quasi ogni rimedio ed esser privato di ogni ajuto, GITTAVOMI a' piedi di Cristo &c.... iratoame medesimo erigido, solomi mettevo per li diserti, e dove io trovavo più oscure e aspre e profonde valli, e aspri monti o scogli pungenti o luoghi più aspri e spinosi; ivi mi ponevo in orazione. Pulci. Morg. c. 3. 62. lo mi posavo in queste selve strane.  Da Timebam così pure si ebbe C. XI. 83. Tal ch'io pensavo d'aver acquistato. 8 ec.16.44 Per Dio, cugin, ch'i'sognavo al presente, Che un gran lion mi veniva assalire. Onď io gridavo, echiamavo altra gente E però E con Frusberta il volevo ferire. e altrove più volte. Letter. San. CATER. di Sien. ediz. di Aldo pag. 14. a tergo. Dicevo: Signor mio io ti priego et c. e pag. 20. vi aggiunsi anzi che io volevo in voi la perfezione della carità  pag. 92.   desideravo divedervi: anzi tal voce desideravo si legge molte volte inquelle lettere. Vita B. COLOMBIN. ediz. di Roma pag.9. lo gode voé voi non mi lascia testare, e pag. 96. ad irviilveroio andavo a posarmi; pag.167. 0 figliuoli, e fratelli miei io non meritavo di es ser padre di tanta buona gente; pag. 174. E questa la compagnia che io dal e speravo, e pag. 299. Pensavo che quanto è maggiore la soggezione e l'unità ; tanto si vien piuttosto ad aver libertà : Vedi ero n.6. verbo essere:e n. 6. avere. Eram Erant Erate reg. 5. e 2. e quindi Eravate avevano reg. 7. 2. Imperocchè ben è facilissimo concepire, che se cambiavasi in questo tempo in V il B precedente l'A finale, potevasi cambiare in V parimente anche l'altro B: anzi parea troppo ragionevole, perchè non si notasse tanto di variodi usi in parole medesime, e si familiari. E' poi noto, che tutto il verbo “avere” si scrivea ne’ principi, e si scrisse a n cor dopo per lunghissimo tempo con l’ “H”” precedente: ed ora per un progresso, non saprei quanto considerato, si tralascia ancora nelle vo ci, che forse ne abbisognano. Ma giova esaminare ancora come siansi trasformati gl'imperfetti de'verbi ausiliari: Eccolo 9. Si possono da tutto ciò comprendere le cause de'cambiamenti prodotti nel presente di habco: seguiamoli via via, che'non sarà inutile la ricerca Lasciato l'E di habeo reg. 4, e le altre consonanti, e cambiatele giusta le altre regole, risulta 9 Era reg. 2. Eramo ed erale presentano Erano reg. 2. le voci come si traevano dal latino in ottima forma. Ma il va inserito eramus ed eratis Eras Era reg. 2. in eravamo, ed eravate negli altri verbi, mentre in suppongono il B cambiato in V, come dunque di vainera questa consonante. Tale aggiunta affatto manca la origine, nè fu, che una intrusione vamo ed eravate è contro per di altri verbi, che usciva, nato dal sentire le voci consimili isbaglio amayate &c. Il peggio no in quel modo, come amavamo, non dandosi quell'aggiunta fu che si anche alle voci era tolse la uniformità tiranno delle lingue, autorizza erano et c. Non dimeno l'uso, quel, più che le semplicie naturali vamoederavale essere, n. 6. Ma diciamo si trovino pur queste. Vedi que risultasse. Eccone la maniera fetto di avere, è come Haveva 8. Habebam habebas Habeva habevi era eramo erate, quantun dell'imper Aveva reg.7. 2. habebamus aveva reg. 7. 2. habebat habeva habevamo habevate habevano haveva havevamo avevamo reg.7.3.2. avevate reg. 7. 5. 2. habebatis habebant havevate havevano Erat Eramus Eratis Eri reg. 4. e 2. Eramo reg.3. e 2.e quindi Eravamo havevi avevireg.7. 4. 2. b   abbemo abbiamo &c. Forseil B fu raddoppiato per compensare la perdita dell'E nell’ “habeo.” Sia comunque, abbosi legge ancora in ALIGHIER, Infer. 25. E quanto io l'ABBO ingrado mentre io viva: E negl iAMMAESTRAMENTI degl’antichi certamente abbo provato; e più sotto: ripenso la seraa quello che iolo di abbo detto.E nelle Vite de’ SS.PP.e diz. Man.Fir, 1731., nella VITA DI GIOSAFATTE ediz. Rom., e nelle Noyelle antiche Fir, 1572 l'uso di “ABBO” è comune. Abbi è rimaso nel Congiuntivo. E 'poi noto, che gl’antichi usavano la seconda singolare presente dell'Indicativo ancora nel Congiuntivo, come resta tuttora in molti verbi, Così ami serve in tutti due i tempi alle due seconde persone singolari,e cosi temi può servire ancora, sebbene ora vi siano dei divarj. Sopravvanza nell'uso comune abbiamo; e siccome gl’antichi finivano le voci per tali persone in eino, cosi non vi è dubbio che ne'principj si dicesse “ABBEMO,” quantunque negli scritti forse non si trovi, per la rapidità di altri cambiamenti succeduti. Certamente l'uso di scambiare tutti i B nell'imperfetto di “HABERE,” di buon pra scorse in alcune, o in tutte le voci del presente, e si trasse da Habo Avo habi ave avemo avete habono avono ave resta tuttora tra’ poeti, e fu non meno della prosa. Vedi questa voce nel prospetto di avere. Avemo é comunissima tra gli’antichi. Avete rimane per ogni scrittura. Le altre tre voci presto furono cambiate: perchè siccome l'V consonante ha un suono come di vi, o di un i sibiloso; così specialmente se l'V sia doppio, l'avo, oppure avvo per abbo, fe sentire nella pronunzia questo i quasi doppio.E quindi è che il B. JACOPONE lib. 1. satir. 9. scrive Nè ferma fede per esempio ch'AJA; Franc. BARBERINI edizion. Roman. pag.189. Non veggio ancor chi contento AJA il core. E Francesco SACCHBTTI disse ajolo per lo ajo, cioè per lohu. S'insinud tal cambiamento nella seconda persona avi, é mutato l'V in I, se ne  habet abbi 1 habemus habe habemo habete abbe avi da Habeo Abbo habes Ch'io n'ajo una si dura e più sotto: ajo portato in core et c, ed altrove più volte: anzi usa “AJA” per abbia:lib.1.sat. 12.3. 10 Illuminato mostromi fore, E ch'AJA umilitate nel core. ALIGHIERI, Parad,17.   fece huii, e col tempo hai. E questa è la causa, per la quale ora ci troviamo con “hai”, seconda persona del presente dell'Indicativo, senza che volgarmente se ne intenda la origine. Può notarsi però che in forza della provenienza di hai l’i finale è risultato da un doppio i; e quindi seguendo le origini, avrebbe dovuto scriversi “haj”: e ciò sa rebbe stato opportunissimo pe' giorni nostri, ne'quali vuolsi lasciare anche l'h precedente. Imperciocchè chiarissimamente si distinguerebbe che “aj” è del verbo, senza pericolo alcuno che si confondesse con l'articolo plurale “ai.” La mutazione del doppio B in V ed in I doppio o lungo, al meno quanto al suono, porto l'altro cambiamento in aggio, aggi, aggiamo, aggia, aggiano: essendonoto che l'J lungo si cambia spessissimo in tal modo:e questa è la causa parimente, per cui si dice veg go veggiamo et c. Imperciocchè nelle prime origini si disse ancora vejo vej veje per vedo vedivede: si consulti il prospetto di vedere. Quindi 'Imperador Feder. Rim. ant. 114. Rispondimi Signor ch'altro non chiejo. Da crejo è propriamente quello scorcio, che pur si usd tra'poeti di cre' per “credo”, quasi crejo fosse cre io. Vedi il prospetto di credere. Ant. Pucci nel suo Centiloquio can. XI. terz. 27. scrive: Gli comandò che giù sedesse al piano. L'ultimo verso assai dimostra, che sie fu detto per siedi: E siccome in ALIGHIERI Inf. 27.53. si trovasi e'per siede; parchiaro che ambedue de rivino da sejo. Allego un esempio di “trajamo”: BOCCACCIO: g.8. n.5. lo voglio che noi gli TRAJAMO quelle brache del tutto: da ciò ben apparisce la origine di traggiamo &c. 12. Ridotto havi ad hai; dovea sembrare che fosse di netto stato levato l'V consonante, quando erasi inviscerato nell'j: e cið comparendo, era facile di lasciarlo pure nella terza persona have, e formar ne hae come si trova in Fr. Jacop., in Guid. Giud., in ALBERTANO,  Di voi,chiaritaspera. Rim .Allac. 408 Ciulo dal Camo Cose da non parlare. anzi avverto, che tra gl’antichi si trova ancora crejo, chiejo, sejo, trajamo, donde sono creggio, chieggio, seggo, lraggiamo &c,enon dalla mutazione del D in G come si tiene, forse meno propriamente dai Grammatici. Cosi Fr. Jac. lib. 5. c.3.12. secondo che io crejo: e nelleno te vi si legge: crejo,creggio,credo, e lib. 5. can.25. 12. II E vejo li sembjanti Quando ci passo e vejoti. F. Jac. lib. sat. 3.9. la sera il vei seccato. lib. 6. can. 45. 4. Che vee con vista acuda disse l'anziano: Sie giù a pena di cento fiorini: E volendo pagare a mano a mano, E l'anziano a pena di dugento b2   12 e generalmente negl’antichi. Cost Albertan. al càp. 12. L'avar7 sempre ha e le mani di stesepertorre. ..ivi l'avaronon haesicura vita. I Grammatici han creduto che quell 'E sia stato sopraggiunto all'ha per genio della lingua, che non amava finire le parole in accento. Ma questo sarebbevero, quando la parola originale della terza persona fosseha, ciòche è falso; essendo questa habet, habe, have. Hae dun que non èche have, toltone ”v per simiglianza di quanto era accaduto in hai, ed in hajo. 13. A questo proposito avverte, che non di raro fra gl’antichi si legge dae, fae, slae per dà, fa, sta, come leggesi trae, e come hne per ha. Anche gli E di dae, fae,stae, si credono aggiunti per la ragione medesima: ma egli è FALSO UGUALMENTE;  perchè dai ruderi antichi della lingua può concludersi ta esistenza degl'infiniti, daire, faire, staire, come esiste traire. Ora da quegl' infiniti daire et c. sorge naturalissimamente dae, fae, stae, cometrae, che ancorc irimane da trai re:vedi S. III. di questa Prima Parte sotto il titolo Dipendenza delle conjugazioni italiane dall'infinito, n.2.E quindi pure sono le voci dai, fai, stai, come trai, che altronde sono inesplicabili. A dichiarare quanto dico sappiasi, che Fr. Jacop. lib.6.c.10.st. 20.scrive A chi gli dice villania et c. Fra duo ladri allo staia. e lib. 4. c. 1o. E che al povero dala. elib.6.c.43.5. Ch'egli è il daenteeti il ricevitore: e lib.7. c.9. II.  Staendo in quest'altura dello mare: Vita S.Maria Mad. É cosistaendola poverettasì per l'amore che gid ave v a con celto di Gesù Cristo, si per la doglia ; cominciò a piangere. Parimente in Fr. Guitt. si legge più volte faite alla pag. 36, e faie alla pag.54. E nel TESORETTO: ponelemente al beneche faite per usaggio: e Franc. BARBERINO pag. 17. Faesselei di quel pregio degnare. Nei GRADI di S. Girolamo alla voce Fa il e nell'indice si dichiara, chel’idi faiteè un aggiunto,e non più:ma faie, faesse, e le voci slaca, daia &c. ne'verbi simili palesano il contrario: e Traire si legge in Fr. Guit. lett.2. pag.9, ma traers spiega ugualmente la origine di trae, come fae sorgerebbe ancora da faere, del quale fece uso Franc. BARBERINO nel verso allegato. Per tanto gli E di dae, fae, stae NON SONO AGGIUNTI, come si pensa, MA SONO NATURALI; ed ora non si è cessato diaggiungerli, ma sono stati tolti. Tornando alle voci hai ed hae, siccome in queste era perito \'u consonante; così poco a poco si tento,ma non riusci, di farlo pe rire nelle vociavemo, avete: e non è infrequente di udire aemo, aele; e nel futuro dell'Indicativo, e negl'imperfetti dell'Ottativo trovasi scritto arò, arai, arei, aresti' &c.come vedremo. Non prevalendo pero quel tentativo, siri serbarono le voci avemo, avete, e talvolta aviamo, aviate, aggiamo, aggiate. Essendosi creduto, che l’E di hae fosse ag giunto; presto fu stabilita ha per terza persona; talchè le prime tre fossero ho, hai, ha. La terza plurale divenne harno; perchè dall’ “habent” sifece haveno, haeno, hano, hanno,ed esistono ancora'esempi di dano, fano et c. per danno e fanno, voci similissime nella origine, com me è chiaro: vedi S. III. 12. 15. Ma passiamo ad esaminare come dai perfetti de'verbi latini si traessero quelli presenti d'Italia. Potrà ciò conoscersi ne'verbi comuni ad ambe le lingue, ma terminati secondo i metodi di ciascuna: E noi su questi rifletteremo. I Latini sincopizzavano il perfetto in più voci, togliendone il VI, o il Ve. Per avere dai perfetti latini l’italiano corrispondente, silasciil VI, o Ve in tutte lepersone per quanto si può senza contradire alle regole generali del s. I. Quindi nel la persona prima singolare dee lasciarsi il solo V, non potendosi togliere l'I finale, secondo la regola prima. Si noti, che la terza singolare risulterebbe simile ad alcuna voce del presente, e quindi nelle origini si accentava: ma ora se la voce finisce in A, si muta in O accentato. La prima plurale sarebbe amamo come nel presente, e quin di I'M si è raddoppiato. Del resto in Gio. VILLANI nella edizione fatta procurare da Remigio Fiorentino in Venezia si vede gran quan tità di persone prime plurali dei perfetti, scritte con un semplice M : come tememo per tememmo. Altrettanto si osserva in Fazzo degli Uber ti, nel Cavaliere Jacopo SALVIATI Tom. 18. Delizie degli eruditi Toscani, nella Cronica del Pitti, ed in altr’antichi; indizio che per tali vie si passava dal latino all'italiano in questo tempo. Anzi Celso CITTAD I ninelle sue Origini della Toscana favella osserva al cap. 6. che i Sanesi in tali persone non davano asentire che un M, quasi pronunziando facemo, dicemo &c, ed egli con pari ortografia scrisse tali voci. Ma Girolamo Gigli nel suo Vocabolario di S. Caterina noto alla lettera M, che a'suoi tempi (vuol dire un secolo dopo il Cittadini) quell'uso era perduto. Serbate dunque anche le regole generali del n. primo, avre di Ama(v)i ama (viisti ama(vit) ama(vi)mus ama(vi)stis ama (verunt Amai amasti amd amamo amammo amaste amarono. Dai Latini si disse ancora amávere: toltone il ve, si ebbe Vita Lano amare, e perché non si confondesse con l'Infinito, si muto l'E i n o, e si ebbe amaro per altra terza persona plurale. I Grammatici han ereduto che amaro sia precisamente una sincope di amarono, toltone il no. Á me però sembra che amaro sia voce intera in sestessa, e provenuta altronde, come ho dichiarato. E questa è la ragione, per cui amaro può troncarsi ancora, e dirsi amàr per amaro, laddove le troncature delle troncature non sono consuete, almeno nella lingua, come ora si trova.  13 mo 17. II P. Bartoli nella sua Ortografia riguarda come un incanto che le terze plurali del Perfetto indicativo scorciate tre volte s e m   14 pre significhino lo stesso con quadrupla desinenza: amarono, amaron, amaro, amàr. Ma l'incanto, se ben si consideri, non è che un caro abbaglio di un animo, che al veder primo si appaga, stanco delle molestie di riflettere. Imperocchè da amarono sitragge amaron, e qui cesserebbe la troncatura: ma perchè levato anche l'N ci troviamo da amaron in amaro, desinenza ancor buona; si è creduto, che tal bontà risulti in forza di uno scorcio: laddove amaro già era legittima desinenza in se stessa: e perchè tale, ammettevasi; non perchè nata da amaron, levatone l'N. A parlar dunque propriamente si hanno due desinenze, amaro, ed amarono, ed ognuna ammette uno scorcio, ama rono porgendo amaron, ed amaro la voce amar, col vago incidente, che se da amaron si spicca l'N finale; ci troviamo alla desinenza seconda, la quale è amaro. E siccome amaro è desinenza intera in se stessa; di qui nasce che gli scrittori del buon secolo, ed alcuni ancora del cinquecento, come il DAVANZATI ne fecero tanto uso: laddove le altre sincopi amar ed amaron sono assai più rare, spacialmente in prosa. Anzi si noti, che nelle NOVELLE 'ANTICHE la desinenza in aro è quasi la comune, laddove l'altra in arono vi è scarsa, e meno pregiata. Ma proseguiamo l'esame de perfetti: e prima nella terza conjugazione. Audi(vi audi(ve)runt Audii audisti audi audimmo audirono udiste udiro. proviene udiro dall'audivere, come amaro dall'amavere. E'poi noto, che nelle origini della lingua si disse in italiano anche “audire” finchè l' “au” si chiuse in “o”, cone nelle voci aurum, tesaurus,dalle quali si trasse “oro”, “tesoro” &c, e se n’ebbe udii, udisti &c.Vedi questo verbo nel prospetto. Debui debuimus debuerunt Devei,. Pertanto abbiamo da dové doveste  udisti audi(vi)t udi audi(vi)mus udimm o audi(vi)stis. Riguardo alle seconde conjugazioni, avanti l'I finale vi è l'U vocale, e non consonante, quindi regolarmente parlando tutto l'UI o l'UE si muta in E semplice, avvertendo, che l'1 finale nella prima persona dee conservarsi secondo i canoni generali debuisti Dovei deve, audiro devemmo, deveste, deverono, audi(vi)sti audi(vere) debuit debuistis debuere doverono dovero. audiste devesti, dovesti devero, Siccomel'U fu cambiato in E(dovei) gravato di accento, quindi nella terza persona non potea non dirsi se non dovè seguendo le regole ge Udii udirono dovemmo   nerali, o “dovèt”, trascurando la regola sulle consonanti finali; e da que. sto nacque che per istrascico di pronunzia fu detto ancora dovette, come dalla voce Giudit PETRARC. Trionf. fam. c. 2. v. 119. Non fia Guidit la vedovellaardita, si è fatto Giuditta, e come da Josafat, DANTE Infer. 10.v. 8.Quando da Josafat qui torneranno, si è prodotto Giosafalte comunemente. Fattosi dovei, dovė, o davèt, fecesi quindi per coerenza doveltero e dovelti: e cosi questi preteriti ebbero doppia desinenza: e si disse temci e temetti, teme e temette, temerono e temettero. E' poi tanto vero, che questa è la origine di temetti, tèmel te et c, che siccome lo stesso argomento vale per le terze conjugazioni; così talvolta si scontra ancor questa desinenza applicata alle medesime. Ond'è che trovasi fuggi, fuggi et c; e nelle Vire de SS.PP. ediz. Man.tom.1.pag.20. fuggitte,e nella pag.125 salitlepersa li: una nolle, essendo questi ito, alla casa di una vergine Cristiana o per rubare, o per altromalfare, salitte con certi ingegni il tetto della casa. Anzi questa ragione è sì certa che spessissimo le desinenze in ilte come salitle et c. furono modellate affatto a norma delle altre in elle, cioè di temelle,credette et c. Quindi è che nel medesimo tom. 1. delle Vit.deSS.PP. se in alcuni esemplarisi legge fuggitte, in altri, sihafuggelte: allapag. 101 ediz. citat. Vi è fuggetti per fuggii: nella 62, uscite per uscì, nella 71 irrigi delle per irrigidi, nella 73 finette per fini, ed Pucci versificatore famoso del trecento nel suo Centiloquio al can. 2. st. 69 ha sentelle per senti; ed Oito impe rador che ciò sentette, e così altre se ne veggono in altre pagine ed opere. Simile terminazione non potevaaver luogo nella prima conjugazione, perchè l'amavit, secondol'uso di cavarne il volgare, cessadove è il secondo a, dicendosi amo,e non cessanell'I con farsentire un amavit: il che direttamente gli avrebbe causato la uniformità, che'mai non ottenne: ora la desinenza in illi ed etti et c.è del tutto abolita per le terze conjugazioni: rimane ancora la cadenza in etti e dette, &c. per le seconde conjugazioni; ma forse, almeno in più verbi,è men cara che nelle origini della lingua, come potrà rilevarsi dal prospetto de' verbi, che soggiungeremo. E giacchè consideriamo il rapporto fra le desinenze delle terze persone de’ preteriti dell'indicativo, piacemi dilatare ancor più la serie delle riflessioni, picciole sì, ma pur necessarie per chi brami co noscere intimamente la lingua, e suoi movimenti. Ho detto di sopra, che dall'amavit, debuit, audivit si tragge amò, dove, udi, abolendoin tutto, quel vit finale: ma questa è piuttostola regola, che ora predo, mina. Del resto quando la lingua pendeva incerta sul fissare le sue desinenze, talvolta tentò rendere queste, tutte simili alla cadenza del. la prima conjugazione, e tal altra a quella della seconda. E certo quell'amavit ebbe talorauna desinenza come amao: di che produco un esempio luminoso di FR. Jacop. lib. 2.can. 2. Quando che in prima l'uomo peccdo Si guastò l'ordin lullo dell'amore: E questa è la causa, per la quale ora diciamo “amarono”, lassaro no, e non “amorono”, lassorono et c. vuol dire questa è la causa, per la quale la sillaba antipenultima è un a, e non un o. Tutte le terze plurali nascono nel preterito con aggiungere alla terza singolare un rono, o un semplice ro, ne'perfettianomali, o simili aglianoma li. Così diciamo sentirono, temèrono, crederono, sparsero, videro et c. Pardunque la original terza persona quella de'contadini “amà,” “lassà”,  et c. e quindi sen ebbe amarono, lassarono, e non amorono, las sorono &c.desinenza che leggesi in molti antichi: Così nelle Vite de’ Pontefici di  PETRARCA visileggeandorono, seccorono, e simili ordinariamente. Venturi traduttore di Dionigi di Alicarnasso è pie no di tali cadenze. Forse a dire amarono, lassarono &c.vi contribui pur LA DOLCEZZA per non avere insieme tre o finali amorono, lasso rono et c. Nel modo poi che il vit era supplito da un o nella prima conjugazione; lo fi pure nelle seconde e nelle terze: e quindi sono le voci temeo, credeo, poteo, aprio, finio, udio, e simili, tanto frequenti ne gli Scrittori. Ora queste desinenze, per le prime conjugazioni sono spente in tutto: ma nelle altre conjugazioni rimangono tuttavia per li poeti, e l'uso moderato può riuscire utile non meno che dilettevole. Chi non bene conosce le primizie della lingua, meravigliasi che imo di poteo, lemeo, udio &c. fossero comunissimi. I Grammatici dissero che l'o finale SI AGGUNSE PER LICENZA POETICA. Ma cið non ispiega perchè voci di questo conio abbiansi frequentissime ne'vecchi prosatori, come nelle Storie dei Villani, nel Davanzati, ed in altri. Dir finalmente che l’o si accresceva per non finire in accento, era un luogo comune, un parlar di abitudine, e nulla più. Si doveva avvertire, che quest'ori ceveasi da tutte le conjugazioni nelle terze persone singolari de'pre  16 Nell'amor proprio tanto l'abbracciao ; Che n'antepose se al creatore. E la Giustizia tanto s'indignao; Che la spogliò di tutto suo onore: Ciascheduna virtù l'abbandonao, Gli fu il demonio dato possessore: Nel tom. 12 degli Scrittor. Ital. Del MURATORI trovasi inserita la Memoria di Messer Lodovico di Buon Conto Monaldesti su la coronazione del Petrarca: costui, che lavidediperse, cosìscrive:Poi comparve lo Sena tore in mezzo a muti (molti)cittadini, e portao allo capo soio (suo) na corona di lauro,ese assettao alla sedia, e poi s'inginocchiaoallo senatore et c. Si vede in questi esempi, che si accento l a preceden te il vit,e questo vit fu supplito con un o.Più volteho notato, che presso alcuni contadini appunto ne'dintorni di Roma dicesi difforme mente amà,lassà,&c.per amò, lasciò come ora è laregola: Tocca al filologo accorto di rintracciarne le provenienze:esse non sono che per lo scorcio naturale,che si faceva della lingua parlata sotto questo cie lo da'nostri antenati.   teriti, e la uniformità medesima avrebbe fatto conoscere, che era un supplemento del vil, risecato dalle voci latinecorrispondenti, o pure una proprietàdi cadenza;e con cið sarebbesi dichiarato perchégliAn tichiusassero temeo, udio,e simili,promiscuamente in ogni scrittura, senzascrupolodiriprensioni. E'poitantomanifestochequell'O non si aggiungeva per non finire in accento, che nel Dittamondo si tro va unito anche alle prime persone della terza conjugazione, leggen dovisi nel 3 lib. cap. 15 udio per udii : 22. Tornando al nostro principio, apparisce dal fin qui detto che sitento chiudere in tutte le conjugazioni con desinenza simile allaprima:ma perchè l'uso non eraancora ben fissoe comune, si tento per eguale maniera terminare tutte le terze singolari d e' prete ritiinE,comein E finisce la terza singolare nella seconda conjugazione. Quindi è che troviamo amoe, teme, finie, e similicon tan ta abbondanza di esempj. Faz. Dittam. lib. 4 cap. 20 23. La chiusa delle terze persone tutteinO,ovverotutteinE,de riyava dallevoci corrispondenti latine, finite tutte in un modoamavil, timuit,audivit.Era difficile abbandonare ogni somiglianza nell'italiano,с  17 Passato poi Suasina, io udio et c. e cap. 16 Secondo ch'io udio, e'l nome prese e cosi nel lib. 4 cap. 4 vi si legge sentiu per io sentii, e nella Vin LadiGiosaf.pag.31 uno essemplo tidico chel'udio direa uno molto savio uomo : e pag. 34 lo ritornerò nella mia casa onde io uscio. Novell.ANTIC. Firenz.1572 novel. 20 lo poi che mi partio,abbo avuto moglie efigliuoli. Etic.di Arist. compend. da Ser BRUNET.ediz. Lion. pag. 100 quando io udio le loro parole, non mido lea &c. Gli o dunque di udio,finio, lemeo et c. in terza persona, non sono licenze di poeti,non aggiunteper iscansare gliaccenti,ma regole o modi di terminazione, e risultati di una lingua, che in altra si trasmutava,come or ora meglio dichiareremo. Che amoe si;che'lsipuò dir percerto. e . Che rifutoe l'onor di tanta manna. Vit. de S S. P P.  inciampo e in una pietra, e fece alcuno strepito: pag.10 con molte lagrime cantoe salmi, e pag.6 ľani male si levoe a corsa, e fuggie:pag. 43 per la sele l'uno morie,e pag. 47 udie una voce che gli disse et c.'Or questa uniformità fa vede re,come dianzi ho pur detto,una proprietà di cadenza nelle terze persone singolari del preterito in su le origini della lingua, e quin di è che se ne abbiatanta copia ancora ne'prosatori;e tanto èlun gi che l'E si aggiungesse perevitare l'accento,che ci è facile tro yare temè,ma non temee; se non forse per la rima.Cosl Dante dis sePurg.3212 senza la vista al quanto essermife e permife,voce interain sestessa,come vedremo nella seconda parte al num.6 del verbo Fare.   dopo che le altre persone omologhe del preterito si erano concordate nella desinenza.Così tutte le prime escono in I,amai, temei,udii, tutte le seconde in sti, amasti,temesti,udisti:e tuttelepluralihan pari concordia di finale. Or come poteasi tralasciare quesť armonia nelle sole terze del singolare? Questa è la origine vera degli O e degli E che si aggiungevano, e non le sognate fra le minuzie di una grammatica, che inaridisce. Col progressodel tempo sivolle trascurare quellaparitàdicadenza, e le voci sichiuseroin 0, in E, inI,ac centandole finalmente, sebbene quelle chiuse in O si trovino spesso tra gli Antichi senz'accento comeinFazio degli UBERTI, e nelle NoVELLE ANTICHE.Ed oranoi,lucidiesseridi unsecolointelligente, go diamo su la idea dolcissima di una lingua perfezionata. Ma i gravis simiAntichi,colle mire ch'essi aveano,questi Antichi io dico, risor gendo,ne sarebbero in tutto persuasi?  E cid su le terze persone singolari de'preteriti: ora torniamo al verbo temere o dovere, dalle considerazioni del quale siamo qui per venuti. Si noti che doverono e temerono ammettono le tre solite scor ciature Lemeron, temero,temer,come amaron, amaro, amàr,perchè da lemeron ci troviamo all'altra desinenza intera temèro prodotta da ti muere,come dovèro dadebuere: laddovedovellerononsopportacheuna scorciatura appena,potendosi faredovetter, ma non proceder più oltre; perchè le nuove scorciature non ci fanno casualmente trovare in altra desinenza compiuta in se stessa.Tanto è vero quelloche siadditonel 3. 17. E'certo che ne'perfetti delle seconde conjugazioni italianeso no le irregolarità più grandi: ma non ho veduto che altri notasse in esse un incontro curioso: cioè la irregolarità non concerne mai se non la prima persona singolare,e le dueterze singolare e plurale,mentre tutte le altre persone si trovan sempre comela regola chiederebbe. Cosi nel preterito rompere abbiamo ruppi, ruppe, ruppero anomale; e le altrevocisono rompesti,rompemmo,rompeste,come vorrebbe la indo le di un perfetto italiano regolare rompei, rompè et c. Tal cosa è so vente osservata e confermata con esempj nel prospetto. E m m i più vol. te nato il prurito d'indovinare onde sia talearcano di lingua. A me ne sembra la origine dall'avere le terze persone plurali una seconda desinenza derivatadal latino,per esempio rupere ond'èruppero,enon daruperunton d'èrupperono, oromperonoBo'i reg.2, chepursitro ya negli Antichi: vedi ilprospetto di questo verbo. Romperono ha l'ac cento,che riposa in su l’E: e quindila terza singolare non può es. sereche rompe, e la prima rompei; laddo veruppero hal'accento nell'U, restandobrevelaE.Quindi perleggedicorrispondenzalaterzasin golaredee tenere l'accento anch'essa nella vocale precedente, e non nella finale; altrettanto dee succedere nella prima singolare: e per ciddeemancarel'E diEInella desinenza, giacchèl'E diEIintutte le conjugazioni seconde è gravato di accento; efinalmentedee cavar seneruppi, ruppe,ruppero. Ma rompesti, rompeste,rompemmo non pos.  18 già   26. Ma diciamo qualchecosa de'perfetti de'verbiausiliari.Nascono fuit fusti fosti C2  sono non avere l'accento sull'E in forza dellaformazione loro,essen do in esse la E seguitata dalla doppia consonante S T, M M. Quindi non possono non esser tali come romperono, quantunque poco o nulla usate, come avviene in molti se provenissero da rompei, rompe, verbi irregolari. E per cið l'anomalia de'preteriti non può concer nere se non la prima singolare, e le due terze persone singolare e plurale de'perfetti. Questo discorso vale eziandio ne'verbi ano mali di terza conjugazione ; dicendo dell'I quanto si è detto dell'E. Potremo da ciðtantomeglio persuadersi, cheamaro, temero,&c. sono desinenze piene in se stesse, e non sincopi di amarono merono et c. fuisti Fui da Fui fuistis fuerunt fuere fummo fuste foste furono 19 fuimus furo Questo tempo somiglia in tutto al preterito debui o timui della se conda conjugazione latina,alla quale appartiene ilverbo esse,o pure essere secondo che leggesi in Plauto. Pure esso nelle persone non ha subito la legge di mutare l'UI:ma ciò non è stato senza una ragio ne: Imperocchè dando luogo a tal mutazione, sarebbe risultato fei, fe sti,fe et c, e questo è il preterito appunto del verbo fare: purtroppo si osservano tra gli Antichi talvolta le voci del preterito del verbo sostantivo piegate in quelle del verbo fare: Cosi Fazio degli UBERTI nelsuo Ditcam.1.4c.8 dissefoperfu. Per il diluvio chefositene broso:Filip.Vil,nelprologo allesueStorie:con lo stile che aluifo possibile:e Faz. Nel Ditlam. lib.3 cap.22 infinescrivefonno perfurono,e Fr.Guitt.let.12, scrivefoe per fu:e Fra Jacop.1.2 can.172 scrive fom per fummo.Per nonconfondere dunque una cosa con lealtre,non doveasi praticarela legge anzidetta: nei tempi debui,debuisti periva in. tuttele persone l'UI,eccetto l'Ifinalenellaprima perfareil cambiamen toindicato. Infuisti, fuimus &c. sièritenuto l'U, edèperitol'I:edin fuerunt è peritol'E. Si noti cheil fuit dagli Antichi si rendeva,e nesonopienii libri, perfue. Igrammaticihancreduto l'Edifue come una giunta per non terminare quell'E non è che la E nella quale dovea mutarsi l'UI, supplita in questo luogo per dare alla terza singolare del perfetto la desinenza in E,comune a tutte le persone simili di altri verbi di questa con jugazione, dicendosi lemè, iemelte, crede, ruppe et c. Tanto siam dunque lontani che l'e di fue siasi una giunta, che anzi era lettera distinti va della persona, ed una conseguenza dellamutazione, che aveasi a faredelUI in E, come più si poteva. E quando sparì quell'E, sitol fue fu in accento la semplicefu:mą   serealmente,non si cesso di aggiungerla.Ed ora ci rimane il sem plice fu, voce cheesce affatto da ogni regola di terminazione. da Habui E le voci avesti, aveste, avemmo sono comunissime: delle altre avei, avè, averono, se pur furono in uso, non ho presente nemmeno un esempio; e solamente mi ricordo che in Fr. Jacop.si legge avi per ebbi, ed avvero per ebbero. Di buon ora s'introdusse la irregolarità, la qua le concerne, come ho detto, la sola prima singolare, e le due terze singolare e plurale, e si fece ebbi, ebbe, ebbero; presa la occasione c o m e s'intende pel S. 17 dal habuere: perché se ne dovea cavare ha. bero,con lapenultima breve,donde ne seguitava habe per terza sin golare, ed habi per prima; e somigliando queste due voci ad altre dell'antico presente abbo, abb i et c, non potè non cambiarsi l’A in E, condirsiebi,ebe,ebero,ebbi,ebbe ebbero.IPoetitalvoltaco me PETRARCA Trionfo Fam.cap. : ora investighiamo, come da’pre teriti più che perfetti latini ne derivassero gl'italiani, che tanto sem brano differenti. E certamente i Latini esprimevano col tempo la qua lità che si affermava, ossia la cosa che siera fatta: e tali erano a m a yeram,fueram,habueram.Ma negliitaliani sidecomposero gliattri buti, e si disse io aveva amato,io aveva avuto,io era stato.Possiamo però conoscere che tra'Latini medesimi si aveano i semi di simili riso. luzioni. Cosi Cic. nel 15 Fam. 20 disse, quantum ex tuis litteris h a beo cognitum per cognovi:od in Verr.7 63 hodie sic homines ha bent persuasum: cosìnel 4 Ac. comprehensum animo habere atque perceptum; ed altrove assai volte. Pertanto nel passare da'preteriti più che perfetti latini agliitaliani,nonsifeceche ampliareciocchè giàsi usavadai Latinimedesimi. Abbiamopiù voltenotato,che  20 per la rima scrivo. no ebe con un b solo:qualche Antico ciò praticava quasi per abitu dine, come può vedersi nel Dittamondo di Fazio degli UBERTI l'uso finalmente ha stabilito ebbi, ebbe : ma,ebbero:vociche varianonel principio e nel fine come appunto i preteriti greci. 28.Ma bastisu'preteritisemplici avesti ayè avemmo aveste averono avero. 27.Seguendo le leggi descritte dovea nascere ancora Habuisti Habuit Habuimus Habuistis Habuerunt Habuere I Ayei v.92, li che incominciano ad imparare il latino quel lo scordano, facilmente,o che per disusoin parte esprimono le azioni trapassate col verbo habe re,e col participiopassato latino. va linguagl'Italiani erano Or siccome nelle originidella in rispetto della lingua latina nuo punto chi principia ad apprenderla come ap, o chi per disuso l'ha quasi di   menticata; così l'analogia e la voglia di esprimersi inqualche modo gl'indusseade comporre,edireioavevaamato,io avevaavuto. &c; lasciando in amalus ed habitus gli S finali, e mutando gli U in 0 secondoleleggidelş ireg:2e3, dalle qualiappuntorisultaamalo ed ayuto con i cambiamenti suggeriti appresso dall'uso. 29. Quanto al verbo essere:il più che perfetto latino è fu -eram, fu-eras,fu-erat&c:t alivocisonocompostedi eram,eras,erat,e fuo fuit: quasi dicasi io erafu:tu eri fu &c.Seguendo pertanto l'indole del tempo aveasi ad indicare tal nozione che spontanea si presenta: cioè dovevasi indicare che questo era spettante alfueram; non era indeterminato,e pendente come chiamano i Grammaticil'imperfetto, ma era piuttosto di un tempo definito e certo. E'noto che i Latini appuntocon la voce status, stata, statum upita al giorno o tempo accennavano i giorni e tempi definiti. Cic. Offic.37 status diessit cum hoste:o come Plinio disse stato tempore. Quindiin tempo che la lingua degenerava o si decomponeva si disse io era stato,cioè in tempogiàfisso, giàpassato,e non pendente:tueristalo,cioèintempo fisso et c, egli era stato, &c. La voce stato fu dunque come una giunta o segno di cosa passata, e non altro:ed in seguito si aggiunse a tutti itempi,che lo richiedevano nel verbo essere.I Grammatici han creduto, che stato sia il participio del verbo stare applicato al verbo essere. M a non dee presumersi che la formazione del verbo stare pre ceda quella di essere, che èil primo de’verbi,e verbo per essenza: edaggiungo che sto,stas tra'Latini,da'quali derivava in gran parte la lingua,se non è privo diparticipio, certamente ne somministrava un uso ben raro, come può intendersi, consultando il Forcellini sul verbo sto sta.Per taliriflessièda concepire,cheilverbo esserenon abbia participio se non quello dedotto da stalus, stala et c. usato in principio come segno e non più, di cose precedenti e consumate. 30. E da ciò nacque, che a poco a poco si tentò creare un par ticipio proprio di essere,facendosi essuto,issulo, o suto. Quindi AlBERTAN. Giud.cap.44pag.100 ediz.Fir.1610maggioronoreglisareb be essuto s'egli se ne fosse rimaso. Amm AESTRAM. degli Antic.pag.93 Nella Grecia la Filosofia non sarebbe stata in tanto onore s'ellanon fosse essuta invigorita per contenzione. Collaz. Ab. Isac. pag. 59 E se l'uomo avesseconosciuto lasua infermilate nelprincipio e avessela veduta ; non sarebbe essuto negligente. Questo participio pareva il più naturale: pur si disse anche issuto; ma più di raro: AMMAESTRAM.de gli Antic. pag. 303 la nuora il seguente di che è issuta menata, di. manda &c.Ma più di tutti fu in uso ilparticipio sutopiùanalogo a sono,sei &c,e molti nesonogliesempj in Boccaccio,nelle Croniche diLionardo MORELLI, nelMorgante del Pulci, nell'ARIOSTO, ed in altri: ne allego un solo tratto da' FIORETTI di S. Francesco cap. 38 a.me si è suto rivelato che tu et c. A fronte di tali sforzi non irragionevoli lavocestato, laquale nonera che unsegno,divenneilparticipio legittimo, esclusone ogni altro, 21    Ed eccone gli esempj. Fra JACOP. Poes, Spirit. lib.1satir.i averanno reg.2, 3,7 perchè se nell'habebo si cambiavano i due B in Vrisultava havevo e quindi havevi,haveva &c.come nell'imperfetto:nonvolendosi dun que ritenere il secondo B, fu necessità cambiarlo in altra consonante, e fu questa la R, e se n'ebbe averò, averai, averà et c. in forza delle regole generali citate: mapresto sitolseanchel'Eintermedio,esi fece Ayrd Avremo ayrai  22 Sempre serai in tenebria Ditlamon.lib.icap,25 eris erit erimus eritis erunt avrete ayrà avranno serai sera seremo Serete seranno. LATINO habebis AveròS.Ireg.7 31. Venendo ai futuri dirò prima come derivassero quelli de’ver bi ausiliari. Nel verbo essere è il futuro Ben serai crudo se gli occhi non bagni. FBA Guit, let. 3_pag. 13,e anche sera di molti. Dittamon. 1.2 c.31 L'ITALIANO nelle origini Sero Le cose quivi ne seran più conte. Novell,ANTIC,99 seranno queste le novelle che io porterò. Chileg. gegli Antichi trova questeésimili vocinon infrequenti.Manifesta mente dunque derivano dalle latine con la giunta di un S in prin cipio per uniformarle con sono, sei, siamo et c. Del resto eris,erit, giusta le regole, danno erai, erà,S. 1, e quindi serai, serà. Presso al cuni popoli ancora si ode ladesinenza serimo, serile, che presto fu ridotta in seremo, serețe et c. Al presente si trova cangiato anche il pri mo E,dicendosisarò,sarai.Questo cambiamento è1'usuale,ma non forse il migliore, secondo le regole. Vedi il verbo essere n. 13. Quanto al futuro di avere era il habebit averaiS.Ireg.5,e7 averemo reg.2, 3 habebitis LATINO Ero Habebo habebimus avera S. i reg 6, 7 averete reg. 2,5, 7 habebunt L'ITALIANO   e talvolta a simiglianza delle mutazioni occorse nel presente si tolse anche l'V,esen'ebbe Aremo arai arete arà E stabilita una volta la cadenza de'futuri ne’primi verbiessereed avere inserò, sarò, arò per continuadiscendenza dallatino;qualmeravi. glia che siestendesseposcia ai futuri di ogni verbo, esi dicesse amar),amerò,temerò&c. 32. Può nondimeno assegnarsi altra origine dei nostri futuri, sem-" plice al paro che universale. Nel nascere della lingua si scrisse raggioper amarò,faraggio per farò come leggonel B.Jacop. lib.2c.15, elio faraggio questa convenenza: edice raggio per dirò come lostesso autore scriye lib. 2.c. 25 or m 'udite in cortesia Però crudele, villano, e nemico Sarabbo, amor,sempre ver te se vale &c. In alcuni villaggi d'intorno a Roma si ode anch'oggi la desinenza in ajo, come farajo, amerajo et c. A ben riflettervi tali voci non senoncheamar-aggio, dicer-aggio,far-aggio &c:vuoldire aggioa fare,aggio a dire,aggio adamare:formole intutto del futuro:per chè colui,il quale ha afare, non ha fatto, nè fa, ma riserbasia fare: cioè dichiara l'azione sua come futura. E perché in luogo di aggio si disse ancora ajo; quindi è che si hanno pur le cadenze amerajo, farajo&c.Ma siccome in progresso abbo, aggio, ajo degenerarono nelle più semplici ho, hai, ha, avemo, ayete, e per sincope aemo, aele, han no;cosìda ultimosifeceaver-ho, aver-hai,aver-ha, enelpluraleaver emo, averele, lasciato l'a del dittongo in aemo, ed aete, e finalmente aver-hanno:ed eposto l'hozioso nel mezzo di tali composizioni,sieb be aver-o,aver-ai&c.Ma perchèho, ha,come monosillabe han suono tutto raccolto in esse,e grave come per accento; quindi è che poco a poco simise ancorl'accentonelleprimee terzesingolari,dicendo si averò, averà et c. Pari è la origine di serò, serai, serà et c.voci del futuro del verbo sostantivo, quali usarono da principio per sarò, sarai, sarà et c. Risultavano dall'infinito essere,troncatene le due prime let tereES,come insono, sei &c, tanto che se ne avessesere,equindi  aranno, come si scorge ne'libri degli Antichi: Così Lell. 5 tra quelle del B. GIOVANNI delle Celle: solo tanto l'arò a immutare, e nella letter. XI a Guido, arai Dio teco, e più sotto, dove arai a stare in eterno, e lett. 13, che mai non arannofine. FR. JACOP. lib. 2. cant. 3 pianto harete é dolore: tali yoci si hanno pure ne' GRADI di S. Girolamo nell'Eneida di Annibal Ca'Ro, e nel Cavalca, e comunissimamente nell'Orlando del BERNI. Diceraggiovi via via. FraGuit. ediz.Rom.1745lett,3 lamoremioparteraggio,elett.16 folle acquisto far mi guarderaggio: e tal volta ne'scuri principj della lingua s'incontra la desinenzain abbo,farabbo,amerabbo et c.per il futuro. GUITTON. d'Arez.Son. ame 23 Ard sono   ser-ho, ser-lai, ser-ha, ser-emo, ser-ete, ser-hanno:e finalmente sarò, sa rai,sarà&c.Siapplichi lateoria dichiarata ancheagli altriverbi, ed avremo amar-ò,amar-ai,amar-à,amar-emo,amar-ele,amai-anno, comesidisse originalmente: le Letteredi $.Caterina di Siena ediz. di Aldo son piene di questa desinenza,ed ilVarchi,egregio maestro di lingua, ne fa uso ben grande nelle opere sue.Ora l'A precedente l'R fina. lesicambia inE,non sapreiperqual vezzoirragionevole(vediama re nel futuro del prospetto:) e siè prodotto amer-ò,amer-ai,amer-à, amer-emo &c. Dicasi cid proporzionatamente di temerò,temer-ai,sentir-ò,sentir-ai et c. 33. Si noti, che la terza singolare del presente di avere era have, hae, ha. Spesso inluogodiadoperarehanelcomporre ilfuturo,fu adoperata la voce hae,con dire aver-lae, aver-ae, amer-hae, amer -ae, far-hae,far-ae. Questadesinenzaè frequentissimain alcuniantichi Scrittori. I nostri Grammatici han creduto che l'Ediaverae,farae &c. fosse un aggiunta, per genio della lingua, che non soffriva di termi nareinaccento:ma essa non èchelaE dihave,hae; etantoèlun gichefosseun'aggiunta,che anzidicendosiora averà,amerà,non già si è cessato di aggiungerla,ma si è tolta propriamente laE spet tante all'have,hae.Siapplichi quanto ho detto alla desinenzaameroe per amerò lemeroe,per temerò et c. E'difficile trovar parola italiana terminata in anno,la quale si scorci,eccetto le terze persone hanno, danno, fanno, stanno,vanno, formate tutte a simiglianza di hanno. Quindi le terze plurali avran no, ameranno &c.non si dovrebbero troncare;ma perchèson esseun composto di aver-hanno,amar-hanno;cosi queste voci non han po tuto perdere lo scorciamento particolare di hanno, e degli altri dan no, fanno et c. foggiati a simiglianza di esso, come si vedrà nel trat tare partitamente de'verbi.Anzi aggiungo,che hanno, fanno, slan no &c.intanto si scorciano perchè nelle origini si diceva fano,stano, e così forse hano:voci idonee tutte agli scorci,restando han, fan, dan:e siccome pur queste sirinvengono mozzando hanno,fanno&c, perciò sono ricevute. Chi volesse notomizzare più sottilmente questa materia, potrebbe trovare forse le tracce del futuro del presente nel futuro del congiuntivo. Cosi lasciato da amavero, celavero &c. ilve per simiglianza di quan to si pratico nel fissare la derivazione dei preteriti, si avrebbe ed accentandoli celaro  24 54. Riguardando a tal seconda spiegazione,i nostri futuri non sa rebbero quei de'Latini trasmutati:ma solo deriverebbero quanto ne derivano gl'infiniti de'verbi,ed il presente del verbo ave re, che ne sono gli elementi componenti. dal latino da Ama(ve)ro cela(ve)ro amaro et c. 55. Quanto agl'imperativi ognun vede che l'amato, il timelo, il legito, el'auditode'Latini,altrononèche l'amatu,temitu,leggi Amaro   lu,odi lu degl'Italiani. Le altre voci italiane sono pur le latine tra dotte:ma perchè questesono lestessedei presenti,partedelcongiuntivo, eparte dell'indicativo,overo del futuro dell'indicativo; cosìnon bi sogna se non investigare come que'tempi si diramino dal latino,cioc chè si è fatto, e si farà tuttavia. 36. Eccomi pertanto ad esaminare il congiuntivo de'Latini,dal quale hanno origine tutte le voci del nostro ottativo e congiuntivo. Ames Amet Amemus Ametis Ament Nelle voci amemus, ametis l’E si volge in IA, perchè nel tradurle si riguardanotalivocicomedipendenti dalla seconda singolare conlagiun t a d i a m o o diate, ami amo, ami -a l e. Del resto sebbene l ’ E finale avanti la S dovea mutarsi in I; e la E di amem o di amet dovea secondo leregole conservarsi; pure ne'principj non erano questi limiti abbastanza riconosciuti: e diceasi promiscuamente io ame,tu ame, que gliame:desinenza era questa originale, perchè meno distante dalla latina, taciutene le consonanti in fine, e resta tuttavia tra’ Poeti, spe cialmente per la rima: nondimeno si crede che questa sia termina zione di licenza, e non primitiva e spontanea. Tale è ilprogresso delle cose,c h e dimentichiamo gli usi più naturali, sostituendone altri men proprj,che poscia il tempo caratterizza come legittimi!Vedi amare num. 14. Nelle altre conjugazioni, lasciate o mutate le consonanti finali se condo le regole S. 1, e lasciato l'E, o l'I precedente l’A finale, S. I reg.4,risulta dal LATINO Timeas Timeat Timeamus Timeatis Timeant Tema Temi, e poi tema Tema Temiamo Temiate Creda  d 25 1 Timeam ITALIANO Ame,ed ora ami L'ITALIANO LATINO Amem Credam Temano Credi, e poi creda Creda Crediamo Crediate Credano Credas Credat Credamus Credatis Credant Ami Reg. 4 e 2 Ame,ed ora ami Amiamo Amiate Amino.   E ne verbi ausiliari. Nel qual mutamento l'EdiHabeam et c.èdivenuta per eccezione o dolcez. za un I, ed ilB siè raddoppiato, osservate ancora le regole generali. Quanto alsim, sis, sit, simus, sitis, sint, siccome il verbo essereè di seconda conjugazione, e tutte le seconde conjugazioni anno il presente del congiuntivo terminato in A nel singolare, almeno nella prima e terza persona; quindiè che si fece iosia, tusia,o sii,quegli sia, noi siamo, siate, siano. 37. Ma perchè nelle origini della lingua non era ben decisa la terminazione, con cui chiudere levocidel presente nel congiunti vo, si tento talvolta, o si dubito modificarle in tutte le conjugazioni, come nella prima. E siccome la prima era terminata in io ame ovvero 38. Così pure essendosi terminata la prima conjugazione in I nel presente del congiuntivo,siterminarono talvoltain Ipurlevoci delle altre: e si trova abbi per abbia, giunghi per giunga, vadi per vada &c,in terzapersona: Lett.S. Cat.pag.31. Deh!nonsirendi più il cuor nostro ambiguo,cieco, e negligente.E quindi è che tra'Cin quecentisti generalmente le terze plurali abbiano,temano,leggano fu Abbia  Habeam 26 tu ame Ilabeas Habeat Habeamus Habeatis Habeant Abbi ed abbia Abbia Abbiamo Abbiate Abbiano io ami quegli ame quindi èche si quegli ami; trovano anche i verbi di altreconjugazioni figurati. Così AB. Isac. Collaz. cap.2. cosi con scrive,abbie preziosa operazione: e cap. 12 abbie paura della superbia, ed ALBERTANO Giudice l'uno de Scrittori più antichi assegnato all' anno 1260 in circa, scrive vece diabbia al principio del cap. in 6 tu abbie: e si dice abbie cari tade e fa ciò che tu vuoi, e cap.9 dci render lo beneficio all'amico con usura se puoi:e se no; abbie spesso lo beneficio a te dato memoria: e cosi nel cap. 3 usa in pieper diche per dichi, enel 5 in finesap sappi: e nel cap. 9 sie per sia. Sie largo di dar mangiare Tuoi conti ecari amici,e nel alli cap• 38 de'tuoi beni e dello stato che Dio l'ha dato ţi stie contento.Tali formole parrebbono a chi non guarda alle origini, tutte licenziose, laddove ri naturali,quando erano modi primitivi e la lingua pendeva ancora indecisa circa la desinen za.Ora eccettosie efie,le quali pur vogliono gran parsimonia piùnon siuserebbono talivoci. Vediesserenot.17, avverto che tali voci abbie Del resto io non all'imperativo,sie&c.spettano al congiuntivo come. tu amirono abbino, temino, leggh i n o et c ., che poi l'uso ragionevolmente 27 ha ri pudiate, perchè rimanesse un divario tra le cadenze, onde riconoscer ne le conjugazioni. ec.1491. Are ( avrebbe) quelcolpo gillatigiù mille. E qual sare'colei che nol facessi? In questo esempio il primo sare sta per sarei, e l'altro per sarebbe. Eguali manieresiscontranoancora,ma più rare assai,nell'Orlanda del BERNI:così nel c.5.16  39.  Quanto all'imperfetto amarem,amares,amaret; taciutene le consonanti finali risultava amare, voce non distinta dall'infinito: si aggiunse per cið un I finale, e si fece amerei:e siccome il per fetto dell'indicativo termina in I, dicendosi amai, temei, sentii, e da questa si ebbe per seconda persona amasti, temesli, sentisti; cosi fu con progresso consimile terminata la seconda di questo tempo, dicen dosiameresti, temeresti, sentirestiaggiunto un TI ad amares,timeres, sentires,il quale in origine non era che un lu, e perciò trovasi tal volta ameres-tu, vederes-tu per amaresti, vederesti &c.Cosi PASSAVAN ti nel suoSpecchio di Penitenza pag.107. Avrestuoffeso intaleolal cosa?&c.Laterzaamaret,gittatoilT,divenneamare nuovamente, e per distinguerla si fece amerie,ovvero ameria per essere ne' prin cipii non ben precisa la vocale distintiva da aggiungersi. Quindi in FRA Jacop.lib.4 cantic.30 silegge fariemiconsumare,permifaria consumare;e nellib.5can.27 si ha vorrielo perlo vorria,eDan.Par. 29: 49 usa giungeriesi per sigiungeria. Nel Morgante del Pulci s’in contra un uso speciale, ma certo molto analogo a dimostrare la ori gine di questa persona.Egli più volte in vece di modificare diver samente la voce, o desinenza amare, aggiunge un apostrofe,e scrive amere',sare',potre'perameria,saria,potria.Vedi c.12,13,c.13, 13 e 38. E son qui per provarquelchel'hodetto. 'Amaremus diede ameremo mutatol'us in mo secondo le regole generali: ma perchè ameremo è pur del futuro, si aggiunse un'M, facendosiameremmo:amaretisdiedeamereste,come da amarespro viene ameresti; o come da amasti proviene amaste. amerieno da amerie; ovvero mutato il T di amarent in secondo le regole,siccomerisultaamereno;cosi coll'inserirviun'I,sen'ebbe amerieno. Amerie, ovvero ameria, ecostamerienosonodunque desi nenze originali:e questa è laragione, per cui ne' Prosatori antichi, come ne'Poeti, si trova tante volte la cadenza inieno,amarieno,te merieno,farieno: la quale ora è mutata in iano, ameriano, temeria AO et c.da ameria, cemeria, che prevalse sopra di amerie, temerie E disse sare'io, ch'era pursaggia, Che a cosi degno amante non piacessi, Purchè mai tempo e luogo accaggia; Ancormi dare il cord'uscirne nello, ipo d2   chissimo usate fin da principio.I Poeti,sovrani conoscitoridella dol cezza degl'idiomi, ritengono tuttora, usandola amplissimamente,la terminazione in ia ed iano. I Prosatori l'hanno quasi dismessa: nè io credo che ciò seguisse con piena ragione: giacchè si allontanarono davoci, le quali presentano laoriginelorodallalingualatina che ne era lamadre:e potevano variare con ogni dolcezza il discorso. Inluogo di ameria,ameriano sottentraronole altre amerebbe,ame rebbero, ovvero amerebbono. Queste voci a somiglianza di quelle del futuro sono composte ancor esse, ma dall'infinito e dalle terze del perfetto diavere, amar-ebbe, amar-ebbero,ovvero amar-ebbono.Può no tarsilamarciaincostantedegli uomini:mentre sonostatiesclusi tantiB dagl'imperfetti, e dai futuri,qui ne sono stati riprodotti con usura: la desinenza è divenuta più lunga, e talvolta quasi indistinta, essen dovi alcune terze. Resta a dire qualche cosa intorno la desinenza amassi, temes si&c.laqualeesprimeilpresentedell'ottativo,e l'imperfetto del congiuntivo. E 'manisesto che questo tempo è tratto dalle voci sincopizzate del più ch  perfetto de’ latini nel CONGIUNTIVO, tolto n e il v i come nel perfetto dell'indicativo, e serbate leregole generiche delle vocali finali, lasciato l'M, e mutata l'E in I et c. Amassi Amasse Amassimo Amaste Amasseno.  del perfetto, che somigliano, come crebbe, increbbe, bebbe, ecc. E poco vedo cosa abbia a fare ebbe e debbero, vocidel perfetto, convocidel soggiuntivo, lequalihannodell'imperfet persone to, cioè che resta da fare. Possono osservarsi al verbo amare, dove trattasi della desinenza in ia, ed iano, altre incongruenze. Ma l’uso ha già prevaluto, e chi parla dee parlare conl'uso. Tale appunto sorse la terza plurale: ed ancora n e restano degli esempj Fra Guit.  let.I pag.8 se'reiabitasseno,elett.2ev'entrassenoalcore. PETRAR. son. 154 che andassen sempre lei sola cantando&c.Ma posteriormente di “amasseno” si fa “amassono”, ed ora dicesi “amassero’ co munissimamente. Si noti che la seconda plurale amaste involge una mancanza di lingua: perchè non più vi resta il ssi o sse, caratteristi co di questo tempo, e perché amaste è voce plurale ancora nel perfetto dell'INDICATIVO. Ed è certo un difetto con una voce stessa esprimere tempi, emodi tanto differenti. Forse è natodaciòchetalvolta s'in contra voi avessi per voi aveste, come in Antonio Pucci Centiloquio cant.69 terz.58. Se voi in qua non m'avessi menato. Anzi ho notato che MACCHIAVELLI tanto conoscitore della sua lin Amassi nel suo 28 Ama (vi)ssem Ama (vi)sses Ama (vi)sset Ama (vi)ssemus Ama (vi)ssetis Ama (vi)ssent   Ma primach'iosentissetalruina&c. FRA JACOP.lib.6 c. 18. 28. 42. E siccome questo tempo nell'italiano esprime il presente dell'OTTATIVO, e l'imperfetto del congiuntivo, i quali non E cosìnella Gerus.: "Quel partissi addita azione già fatta.  29 gua, spesso in tal tempo usa la seconda singolare per la plurale con premettervi il pronome.Cosi nell'Arle della guerra ediz. Cosmopoli Far este voi differenza di qual arte voi li scegliessi, e pag.63 iodcsiderereichevoivenissiaqualcheesempio,pag.233.so lovorrei che voimi solvessiquesti dubbj,e 236 vorrei chemi dices si&c.Un tale scriveresidirebbeartifiziosoonegli gente?Glieru diti decideranno se forse era meno male così scrivere. Certo se replichiamo nel singolare io amassi, tu amassi,perchè non farlo nel plurale? Amassetesarebbestata,parmi,lavoce idoneae conseguente:ma sealtri la dicesse ora, sarebbe uno sgraziato, un imperito. Tanta è la prepon deranza degl’abusi, resi venerandi per vecchiezza. L'origine di questo tempo è similissima in tutti gli altri verbi.Così da timuissem è temessi, da legissem è leggessi, da audivissem udissi, &c.e nezliausiliaridafuissemfossi,dahabuissem avessi,mu tato al solito il B in V, e ľ U I in É come in “timuissem”, timui ecc. e tutti soggiacciono all'inconveniente anzidetto.Del resto ne'principj della lingua pendette incerto alcun poco se avesse a farsi amassio amasse di amassem, e così sentissi o sentisse di sensissem. Quindi Fazio nel Dittam. lib. 1 loro discordano, ma PROVIENE DAL LATINO, che era un più che passato. Così le di lui voci medesime scorrono a significare cose passate non senza un pocodi confusione:ma egliè male di origine, esivuol condonare:peress.SEGNERI Predic.358.10Visovviend'altroreo,che mai tollerasse una o più tragica o più tirannica forma di tribunale? E'chiaro che quel collerasse esprime cosa passata:tale è pur quello nelle Vit. De'SS.PP. tom.1pag.83.E allora conosceretechefuil meglio per m e ch' io m i partissi molto fra D'amarli e di servir, quant'io potesse. BARBER ch'io gli mandasse a quello. Giosafat ed io non sarei savio se io tale cosa manifestasse. Novell. ANTIC.37 s'iovolesse dire una mia novella&c.Nel primo tom.delle Delizie degli Erudili Toscani pag. CL.sinotanoaltriesempj disi mili desinenze. E se piaciuto pur fosse là sopra ch'iovi morissi, il meritai coll'opra. Quanto agli altri tempi amaverim, amavero et c. sono decom posti negl'italiani,che io abbia amato, o io avrò amato et c. Sicchè non vi resta presso a poco da osservare, se non quanto si disse in torno di habueram, fueram ecc DIPENDENZA delle conjugazioni italiane dall'infinito, e loro somiglianza generalissima. Conjugare i verbi italiani non èchevariarediversamentel'in finito,secondoimodi,itempi,lepersone,inumeri,come altrove si è detto. Or volendo conoscere queste variazioni e somiglianza loro generale, si avverta. Ogni infinito termina in “-RE”: “amare”, “lemere”, “credere”, “sentire”; e quasi tutte le variazioni succedono appunto in questo RE finale:solamente talvolta subisce de cambiamenti anche la vocale precedenteilRE.Cos)per avere I participj presenti, il “-RE” si muta in “-NTE” nelle prime e seconde conjugazioni: “amante”, “credente” &c.E nelle terze tutto l'IRE, per ess. di sent-ire si muta in ente, sentente; ovveroilREsimuta inENTE;obedi-re,obedi-ente.Per avereil par ticipio passato,aparlar generalmente, basta nella prima e terza con jugazione mutare il “-RE” in “-TO”: “ama-re” > “ama-to”,senti-re,senti-lo.nelle altreconjugazionisicambiatuttol'EREinUTO lem-ere,tem-ulo, cred-ere, cred-uto. 2. Quanto ai tempi per avere il presente singolare si lascia il RE dell'infinito, e lavocale precedente il “-RE” simuta in “-O” per le prime persone, e dove bisogna in Iperleseconde;ma perle ter ze persone, tolto ilRE, I'lsicambiainE nelleterzeconiugazioni: nelle altre non bisogna variazione ulteriore. Ama-re teme-re Crede-re a m a teme crede senti ne’plurali il “-RE” dell'infinito si muta in “-MO”, “-TE”, e “-NO”, per le prime seconde,e terze persone. Ama-mo Teme-mo Crede-mo ama-te teme-te crede-te senti-te a m a -n o teme-no crede-no Senti-mo  30 E cosi trovansi presso gli Antichi terminate le prime e terze plurali. E per dare qui un qual ch'esempio su le terze plurali, CASTIGLIONE nel suo perfetto cortigiano usa commoveno, rivesteno, discerneno, occorreno, cadeno, moveno, serveno, ed altre moltissime. Nell’archisihagiaceno, soggiaceno,ed altre. Ma ora l'uso porta che anche le vocali precedenti il “-RE” hanno subito de'cambiamenti, dicendosi tutte le prime persone amiamo, temiamo, crediamo, sentiamo:enelleultimedue conjugazioni terminandosi le terze persone plurali in ono, temono, cre sente -n o 1 S. III. 1. amo temo credo sento ami temi credi Senti-re sente. Quanto ai verbi della terza conjugazione, ne’’ qualivi è la doppia cadenzacome abborroeabborrisco (vediquestoverboinfine della prima parte ) sappiasi che la cadenza in isco esce di regola nei pre senti dell'indicativo, imperativo,e congiuntivo. Tutto il divario è che in questi presenti le persone, prima, seconda, e terza singolare, si formano come prima secondo le regole, e che poi alla vocale fi nale si antepone la sillaba ISC in ognuna di queste solamente, on de si abbia: la terza plurale si trae dalla prima così mutata, aggiuntole il “-N O”, segno della pluralità ne'verbi. “Abborrisco-no.” Ossia all'infinito abborri re, tolto il R E si congiunge sco, sci, sce, scono, abborri-sco, abbor ri-sci, abborri-sce,abborri-scono. 4. Il Re dell'infinito si muta in VA VI VA pel singolare a m a -re teme-re crede-re senti-re ama-va teme-va crede-va sentiva Ne plurali alla prima, o terza di ciascun singolare si aggiungono le distintive dette di sopra MO,TE,NO. amaya-mo temeva-mo sentiva-mo amava -te temeva-te credeva-te credeva-no sentiva.no Perfetti dell'indicativo per la terza persona l'ultimo “A” di “amasi” muta in “-O” accentato. Nelle altre conjugazioni si accentuano la E o l'I; masiaggiunge MMO  31 dono,sentono &c, come se aggiungasi ilNO alle prime persone, temo, temono,credo,credono,sento,sentono,laddove essendole terze plurali un multiplo di terza e non di prima persona singolare, non dove asiaggiungere il NO, segnodipluralità,senonallaterza sin golare, come dicesi ama, amano, e non amono. amava-no temeya -no STE 1) sentiva -te ama-vi ama -va t e m e -vi teme-ya “senti-va” credevi sentivi Imperfetti dell'Indicativo 2 ) personeplurali, RONO 3 crede-va credeva -m o abborr (isco abborr(isc)i abborr(isc)e 5.ToltoilRe dell'infinitosiaggiungeIperlaprima,eSTIper laseconda persona: per le   senti-sti senti ama-mmo teme-mmo crede-mmo senti. mmo amo teme crede ama-ste teme.ste crede-ste a m a -rono teme-rono 6.Ma nelle seconde conjugazioni,come in temere e credere, ol tre la legge universale,il RE dell'infinito spesso si muta per le pri m e in singolari in T T I; per le terze singolari in T T E, e per le terze plurali in TTERO ovvero in TTONO dicendosi Temei temetti Credei credetti Temė Futuri dell'Indicativo 7. Il solo E finale dell'infinito si muta, o cresce in O accentato 1 ) A I nelle amar-o temer-6 sentire amar-ete creder-emo sentir-emo Presenti dell'Ottativo IIRE si muta in “senti-ste” crede-rono senti-rono creder-o  33 ama-re tem e re cred e -r e ama-sti teme-sti crede-sti amar-emo temer-emo temer-ete creder -ete sentir-ete amar-anno temer-anno I SSI SSI SSIMO SSE. STE SSERO SSONO sentir-à senti i amar-ai temer-ai creder-ai sentir-ó amar-a temer-à creder-à sentir-ai ama-i teme-i crede-i amar-e temer-e creder-e Credé Temerono temettero temettono Crederono credettero credettono 2 ) del singolare A accentato 3 EMO ETE nelle2) delplur. ANNO 3) temette credette Si noti che ora si volge in E anche l'ultimo A di amare, almeno dagli Scrittori, non senza equivoco EQUIVOCO GRICE. Vedi amare nel prospetto not. 9. crederanno sentiranno sentire ama-re teme-re crede-re a m a -sse teme-sse crede-sse crede-ssimo ama-ste teme-ste senti-ssi serti-ssimocic. BBERO solamente nella prima conjugazione si è preso il COSTUME – forse NON RAGIONEVOLE – di cambiare 1A precedenteilRE dell'infinitoinE. sentire sentire-i credere-sti credere -bbe credere-mmo sentire-mmo credere-ste sentire -ste credere-bbero sentire-bbero credere-bbono sentire-bbono Si noti che le aggiunte che qui si fanno per le due prime per sone singolari eplurali sonole stesse dei perfettie che quelle che si fanno per le terze sono, direi, le terze del perfetto di avere, ebbe, ebbero,ciocchè facilita di molto la formazione di questo tempo, presente del congiuntivo AMO ATE credere credere -i sentire-sti sentire-bbe  ama-ssi a m a -ssi teme-ssi teme-ssi crede-ssi crede-ssi senti-re senti-ssi ama-ssimo teme-ssimo Amare Io ami Imperfetto dell'Ottativo Conjugazione 1." Si toglie il RE dell'infinito, e la vocale precedente il “-RE” si muta in I, e nel plurale si aggiunge 3 1 sentisse credeste, amassero amassono temessero temessono credessero credessono 33 I alla 1) S T I 2 ) del singolare BBE 3) MMO I) STE 2)delplurale amare amere-i amere-sti amere-bbe amere-m m o “amere-ste” amere-bbero amere -bbono 9. L'infinito resta immutabile e si aggiungono Tu ami Colui ami Ami-amo Ami-ate Ami-no temere temere -i temere-sti temere -bbe temere-m m o temere-ste temere -bbero temerebbono NO 2 person.  La vocale precedente il -re dell'infinito si muta in “a” in tutto il singolare, e nella terza plurale. Il resto è come nella prima :anzilla seconda singolare può terminare come nella prima conjugazione; i che sarà considerato ne verbi rispettivi. Credere Creda Creda o Credi Creda Crediamo Crediate Credano. Queste sono le variazioni. Gl’altri tempi composti risultano da alcuno de' tempi già esposti, presi da'verbi essere ed avere, e dal participio passato del verbo particolare, il quale si usa; e però non occorrono nuovi cambiamenti nell'infinito. Quindi si dovranno cercare nel prospetto. Intanto si potranno raccogliere alcune regole, e sono: Tutte le prime persone singolari dell'indicativo eccetto il perfetto e l'imperfetto finiscono in 0. Tutte le seconde in I in ogni tempo. Tutte le prime plurali in ogni tempo e modo in “-mo”, e le seconde in “-te”, e le terzein “-no” o “-ro” in alcuni tempi. Ma in tutte le prime plurali dei presenti di ogni modo, degl'imperfetti, e futuri dell'indicativola Mè semplice: amiamo, amassimo, amavamo, ameremo, temiamo, temessimo, temevamo, temeremo, &c. Ma ne'perfetti dell'indicativo e negl'imperfetti dell'ottativo la “m” è doppia: “amammo”, ameremmo, temeremmo, crederemmo, &c., e cosi le seconde plurali in que stid u e tempi ed anche nel presente dell'ottativo anno la “s” avanti ilTe finale dicendo siamásle amereste &c.!,le altre anno il semplice “-te.” Parimente, questi tre tempi possono finire in “-no” ed in “-ro” nelle terze plurali: amaro, amarono, amerebbero amerebbono, amas, amaranno, amarino. Gli. BIBLIOTECALVCCHESI -PALLIBIBLIOTECA LUCCHESI • PALLI III. SALA Scaffale. Pluteo. N. CATENA. h Digitized by Google Digitized by Gopgle COLLANA DEGLI ANTICHI STORICI GRECI VOLGARIZZATI. Digitized by Google Digitized by Google Dìgitized by Google Digit zec! ov \Vo3^ LE ANTICHITÀ ROMANE I DI DIONIGI D’ALIGARNASSO VOLGARIZZATE DALL’ AB. MARCO MASTROFINI già’ frofessore di matematica e di filosofia NEL SEMINARIO DI FRASCATI MtmOKX KOrJMMKTt USCOKTIUTÀ COI TM3T0 BAh TKÀBVTTOBt TOMO PRIMO MILANO DALLA TIPOGRAFIA De’ FRATELLI SONZOCMO M. Dionigi di Alessandro fu d’Alicarnasso, reggia un tempo della Caria, della quale pur furono Eraclito il poeta ed Erodoto di gr^ca istoria padre come Petrarca lo intitola nel terzo de' capitoli sul trionfo della Fama. E difficile determinare V anno, non che il giorno della sua nascita. Fozio nella sua Biblioteca (cod. ^4) dice che egli precedette Dione Cassio, ed Appiano Alessandrino, espositori aneli essi di Storie Romane. Errico Dodwello che meditò gravemente quelt argomento non seppe ristringersi ad altra particolarità, se non a questa, che Dionigi debbo essere nato fra t anno (i"G e ^oo di Roma calcolali alla maniera di V airone. DIOyiGI, toma ^ ‘, X / 2 I(. Dionigi sentiva in sè la nobiltà del cor suo] c si mosse verso la capitale del mondo, e venne a Roma nelt anno F^arroniano ja5, cioè finita la guerra interna di Augusto contro di Antonio ; domd è che egli non vi giunse prima dell' anno suo venticinquesimo. Fi si trattenne 22 anni: vi compose le opere critiche, e vi apprese intanto diligentemente C idioma del popolo vincitore su la mira di leggerne gli antichi monumenti nazionali, e di scriverne infine con greco stile una stona per uso de’ Greci suoi che troppo la ignoravano. Egli riusci nell intento, e la scrisse, e la divulgò nell anno Fcu roniano y47 sotto il nome di Antichità Romane come l ebreo Giuseppe Jion molto dipoi, forse ad imitazione di lui, e certo con più proprietà, pubblicò sotto il titolo di Antichità Giudaiche la storia del popolo ebreo, la quale era insieme la storia della origine stessa del mondo. III. Par che Dionigi delineasse la storia col disegno stesso con cui Firgilio cantava la Eneida: vuol dire l uno e l altro spargevano fiori appiè de’ trionfatori non senza il lusinghevole desiderio di guadagnarne la grazia : non leggera conquista per uomini inermi, autorevoli solo per sillabe, per parole, e per periodi ! 'Dionigi fece sapere a’ suoi che il popolo del Campidoglio non era poi barbaro ; anzi che era pur esso greco di origine, e che assai conosceva leggi e costumi ; e ciò perchè riuscisse il comando romano, se non pregevole, certo men duro nella Grecia d’ Asia e di Europa, paesi che una volta orati patria e tempio di fortezza e di libertà. Egli distese il suo scrino in venti liLri ; ma non sopravanzano che i primi dieci e parte dell’ undecimo; tutto il resto perì per la ingiuria de' tempi. Per quanto ci racconta Fozio  che aveala letta per intero, scorre ane la narrazione dagli Aborigeni e dalla venuta di Enea nella Italia fino alla guerra de’ liomani con Pirro, monarca degli Epiroti ; perchè ivi appunto comincia la storia Romana deli altro greco scriuor precedente, Polibio da Megalopoli. Quest ordine di storie si consideri diligentemente ; perchè da indi apparisce che Dionigi dee precedere c non seguire Polibio, come parve al primo che dispose la Collana Greca, e come trovo fatto pur questa volta irreparabilmente su Cantico disegno. Siccome un estero per la novità che v incontra, può notare ì. costumi varj de' popoli meglio che il nazionale che cresce e invecchia con essi ; così questi due Greci conversando co’ Romani seppero distinguervi e descriver più cose che i Romani stessi non han descritto e trasmesso con la successione de’ tempi ai tardi nipoti. Or ciò dovea tanto più seguitarne quanto che scrivean quelli pel greco il quale non avrebbe gustata nè intesa la loro narrazione se non esponevano minatamente le cose notissime tra Romani. E quindi è che Polibio delincò su la milizia romana quello che non si legge in niuno de’ romani scrittori medesimi: e Dionigi toccò tante picciole circostanze che meglio dichiarano le ori-,gmi, il complesso, ed il termine degli eventi: cioc Bihiiotre. cod. 8f>. ( 1 ) Ediz. romana di Vinccoio Pojryiuli delT anno che ne ha rendalo, e ne renderà sempre, preziosissimo quanto sopravanza delle storie di lui. V. Livio rimpelto a Dionigi è come il compendio rimpello all' opera estesa ; tanto che il primo raccoglie in tre libri ciocché l’altro dilata in undici. Nè io saprei dolermi su tanta espansione quando le cose vi fossero state moltiplicale in proporzione. Ma per dirne ciocché io ne penso, e dare intanto il paragone degli autori fin qui da me volgarizzati che sono Sallustio, Quinto Curzio, Lucio Floro, e Dionigi ; mi è sempre parato che in Sallustio non capano i sentimenti dentro le parole, che in Curzio si pareggino compiutamente gli uni alle altre, che in Floro le parole superino alquanto i sentimenti, e che in Dionigi fincdmente( siami cosi lecito di esprimermi) le sentenze galleggino affatto tra le parole. Sallustio é come il fior vivo, che di sé promette gran cose, ma stretto in parte ancora dalla sua buccia : Curzio è il fior copioso, odoralo, aperto graziosamente al sole che 10 vagheggia ; Floro è il fior vago, ma tutto spampanato con molte le f rendette e poco t odore; e Dionigi finalmente è il fiore delle ampie e libere frondi 11 quale sot^ di sé nasconde il picciolo guscio che ravvolgevalo, e par sorgere pomposo e vario tra le aure che lo investono, ma troppo, se lo stringi, è minore delle belle apparenze. Dionigi era un greco dell jfsia, e fa sentire in sé la prolissità propria di quella vastissima parte del globo. Le parlate in lui sono lunghissime, e per ordinario non ripetono se non ciò che presentano le storiche narrazioni ; laddoue in,Tilo Livio sono lampi e folgori, sentenze e risultati. V ultimo lascia a pensare, il primo li lascia senza pensieri prima che finisca di parlare ; nelV uno senti il capitano ed il console, nell altro lo storico d il declamatore : quegli è pieno di entusiasmo e di fuoco su gt interessi della sua nazione, /’ altro vi si spazia sopra come il panegirista che loda non per affetto, ma in vista di ricompense, o per moda. Forse tanta loquacità non piacque nemmeno tra' suoi nazionali; e Dionigi voglioso di essere letto, s’indusse a ristringere in un compendio di cinque libri quanto avea steso in venti. Fozio nella sua Biblioteca [cod. ^4) parla eziandio di un tale compendio ; e lo dice più utile per questo, che non contiene se non le cose necessarie alla storia. Egli paragona Dionigi in quel nuovo scritto ad un re che giudica e tiene intanto in mano lo scettro; e sentenzia ma con la precisione e col tuono di chi comanda. Vr. Quanto allo stile i giudizj ne sono difformi : vi è chi lo chiama scrittor soave, scrittore elegante ; e non vi è dubbio che e"li abbia de' bei tratti, dei pellegrini concetti, e gravissimi documenti. Nondimeno vi è chi dice risolutamente che Dionigi rimpetlo a Senofonte è come il duro e licenzioso jépulejo rimpclto alle maniere delicate e spontanee di Livio. Dionigi fa pur troppo conoscervi che egli non era nativo deir Attica. Fra le sue formole ne occorrono alcune  La prcsealc versione fu stampala in Roma l’anno i8ia. Dopo quest’ anno il Compendio fu creduto rilrovato in Milano. Se ne patterà nel tomo quarlo là dove sono i fiammcnli. Digitized by Google G nuove, Ialine (T indole, o certo non abbastanza monde da solecismo ; tantoché vi si violano le regole pròposte da esso medesimo nelle opere sue critiche per gli storici e per gli oratori. Ad ogni modo Dionigi é come la miniera ampia di oro, e come V archivio ricco di monumenti preziosi in mezzo di altri che sono anzi un ingombro ; dond è che un tale scrittore, come ho toccato dianzi, sarà caro finché saran care le storie. Ora diciamo qualche cosa delle versioni del nostro Autore. VII. Lapo lìira^o fiorentino il primo diede una versione latina di Dionigi. Questa fu pubblicata la prima volta in Trevigi Hanno i48o, e poi di nuovo in Basilea nel i53a. Il Glareano ebbe cura di tal seconda edizione e la purificò da sei mila errori coni egli dice. Boberto Stefano vedendo pubblicato Dionigi nella lingua non sua, trasse il greco originalo dalla Biblioteca dei re di Francia, e lo mise in luce l’anno ì5^(i. Il Gelenio divulgò colle stampe in Basilea [ anno iS/fg una nuova versione latina de’ dieci primi libri. Silburgio rettificò con critica squisitezza le tante lezioni non sane che ci aveano nel greco dello Stefano, e nel latino del Gelenio, e congiunse i due testi e li stampò V anno i586 in Francfort. In questa edizione vi é la traduzione dell’ undecimo libro fattu da Silburgio medesimo, li frammenti ricorielti delle Legazioni già pubblicale da Fulvio Ursino, ed un libro di annotazioni in fine. Mentre apparecchiavasi o compivasi da Silburgio questa edizione ; Emilio Porto diede su t originale dello Stefano una nuova Dìgilized by Googlc 7 traduzione latina delle antichità con amplissime annotazioni, imprimendo anche il libro delle legazioni con la trina interpretazione dì Stefano, di Sitburgio e di Porto. JSel 1704 si ebbe la vaghissima edizione fatta in Oxford la quale comprende il testo greco di Dionigi colla versione di Porto, emendata dove nera il bisogno, e le legazioni secondo la impressione fattane da falesie riunite a quelle già pubblicate da Ursino. Si cominciò finalmente nel 1774 ^ ^i compiè nel 1777 lO' edizione riputata la più corretta di Lipsia colle note varie di Errico Stefano, di Silburgio, di Porto, di Casaubono, di Fulvio Ursino, e di Giangiacomo Peiscke. Vili. Francesco Venturi fiorentino ci diede nel 1545 colle stampe venete la prima versione italiana delle sole antichità di Dionigi. In quell'epoca il testo greco non era nè stampato nè rettificato, e quindi avendo egli lavorato su di ^un manoscritto, frequentissime sono le aberrazioni dcd vero senso. Aggiungasi che lo stile è contorto, implicato, nè sempre regolare: in somma risente tutte le imperfezioni del primo traduttore latino Lapo Birago : nè questi potè sempre capire il senso del testo, ma dove ciò non potè fu contento di volgarizzare le parole greche, appunto come significavano, una per una. Il signor Desiderj nel continuare in Roma V anno 1 794 la edizion sua della Collana Greca ideava, parmi, riprodurre la versione stessa del Venturi; ed il primo periodo di questa è del V snturi in gran parte ; ma fatto accorto che grande ne era la oscurità, e poca la naturalezza. \ .Dìgitized by Google 8 continuò a pubblicare non il resto del Venturi, ma una traduzione di traduzione; t'uol dire, diede alla Italia un Dionigi tradotto, forse non sempre adeguatamente, e certo non sempre con purità di stile, sopra la traduzione francese, e non sid greco originale. Al primo leggere il Dionigi del Desiderj mi parve ravvisarvi una fisionomia anzi francese che greca. Adunque paragonai la versione framese del padre Francesco la Jai Gesuita con la produzione del Desiderj a luogo a luogo, e fui convinto che era ciò veramente che io sospettava. Questa immagine éT immagine, questa eco di eco che scolora le fattezze, e deprime sempre più la energia dell originale, questa stampa non greca, non francese, e forse non italiana, non dee numerarsi tra le versioni, degna almeno di un tal nome ; tanto più che quella versione frarucese essa stessa non lascia gustare la vena ampia, continua, maestosa del greco originale, ma presenta la inquietudine, lo scintillamento, e come la spezi satura consueta delle parli. IX. Che io sappia niun altro ha poi volgarizzalo tra noi Dionigi. La mia versione è diretta su la edizione di quest' autore intrapresa in Lipsia nel i Chi vuol ragione di ciascuna delle mie interpretazioni dee consultare il testo greco, la versione latina, le note in piè di pagina, ed in fine de’ tomi. Spesso a fissare i sensi ho consideralo anche la versione francese, supplitami dalla Biblioteca del Collegio Romano nella nuova mia dolcissima dimora in quel luogo nell’ anno 1 8 1 1, la quale mi concedè calma profondissima da compiervi quasi per intero la traduzione che ora presento. Sarebbemi piaciuto ugualmente di consultale la traduzione inglese di Eduard Spelman impressa in Londra t anno 1759; ma per quanto la ricercassi tra le Biblioteche, tra i libraj e tra gli amatori di libri, non mi venne fatto di rinvenirla in Roma. Aveva io già presso che terminato questo mio travaglio quando mi ju significalo che in Francia si pubblica una nuova versione di Dionigi: ho il piacere che l'Italia he veda contemporaneamente un altra sua, lavorata quasi tutta in Roma, ove lo storico di Ali-, carnasso stendevano già t originale. Roma i8ia. 1 1 I. UANTU^QUE alieno io ne sia, pur sono astretlo ad una prefazione, com’ usa nelle storie, e sopra di mfe ; non già per diffondermi nelle lodi mie proprie, che so quanto, udite, dispiacciano, o nelle accuse di altri scrittori, come fecero Teopompo ed Anassilao gli storici, ne’ prologhi loro ; ma solo per dichiarare le cagioni per le quali mi diedi a .quest’opera, e per dire de’ mezzi, onde io seppi ciocché son per iscrivere. E certamente chi risolve lasciare a’ posteri monumenti d’ ingegno, i quali, come i corpi, non vengano meno per anni, e molto più chi scrive le istorie, nelle quali, tutti concepiamo che siavi la verità, principio del sapere e della prudenza ; costui dee per mio sentimento, scegliere argomenti vaghi e magnifici, come bene fruttuosi a chi legge ; e poi dee preparare le materie opportune al subjelto con assai previdenza e lavoro. Imperocché chi ponesi a trattare di cose vili, abominate, indegne delle cure di una storia, sia che brami rendersi chiaro, ed acquistare comunque una fama, sia che voglia manifestare la idoneità sua nell’ arte del dire, non sarà mai da’ posteri né invidiato per la fama sua, né per 1’ arte encomialo ; lasciando a chi leggelo da sospettare che egli amasse nel vivere le maniere appunto che descrisse ; per essere gli scritti la immagine de’ cuori, come da tutti si giudica. Colui ^ poi che ottimo sceglie l’argomento; ma ne scrive scioperatamente, e come per caso, seguendo i ronoorl del volgo, nemmen’ esso ne ottiene lode niuna ; imperocché si spregiano, se negligenti sleno e confuse le storie delle città famose e de’ principi. Or pensando Io per uno storico esser questi I canoni sommi ed inviolabili, ed avendone tenuto cura gelosa ; non volli nè trasandare il discorso su di essi, nè compartirlo altrove, che nel proemio. II. £ che io scelsi argomento, bello, grandioso, uti-' lissimo; non bisognano, credo, molte parole a convincerne chi non affatto Ignora la storia comune. Imperocché se alcuno recando 41 pensiero su’ governi antichissimi delle città e delle genti e contemplandoli, parte a parte, o nel paragone dell’ uno coll’ altro, voglia saperne qual di esse fondasse principato più grande, o che più splendesse per azioni belle, in guerra ed in pace; vedrà che la signoria di Roma sorpassò di gran lunga quante prima di lei se ne additano, non solo jper grandezza d’impero e per luce d’imprese, cui niuno mai lodò' quanto basta, ma per la durazione ancora del tempo che abbraccia, 6no al presente. Fu pur antica la signoria degli Assirj, e ne chiama fino ai secoli favolosi ; ma non comandò che su picciola parte dell’Asia. Abbattè la monarchia de’ Medi quella degli Assiri, e crebbe a potenza maggiore sì, non però molto diuturna, cadendo alla quarta successione. I Persiani fiacca t ono il Medo, e dominarono infine quasi per tutto nel r Asia ; ben si gettarono poi su gli Europei, ma noti molto vi profittarono, e tennero poco più che dugent’ anqi II comando. Il Macedone, vinti li Persiani, superò colla sua tutte le dominazioni che precederono : Don però fiorì lungo tempo, comiuciaiido a declinare alla morte appunto di Alessandro : imperocché smembrato da’ successori il potere in molti principi, sostennesi la monarchia fino alla terza o quarta generazione ; ma resa debole per sé stessa, fu distrutta finalmente dai Romani : nou tenne poi mai servi tutti i mari e le ter re : che non vinse in Africa se non l’ Egitto, il quale non è vasto, nè sottomise tutta l’Europa ; ma nel settentrione di questa si estese alla Tracia, e nell’ occaso fino all’ Adriatico. III. Pertanto i più famosi degl’ imperj che precederono, giunti, come sappiam dalla storia, a tanta forza e grandezza, rovinarono. Con essi non sono poi da paragonare le Greche potenze le quali nè spiegarono mai si ampia la signoria, nè lo splendore si diuturno. Gii Ateniesi quando più poterono in mare, ne dominarono per anni sessantotto la spiaggia, e non tutta, ma quella solamente tra l’ Eusino ed il mar di Pamfilìa. E gli Spartani impadronitisi del Peloponneso e del resto della Grecia stesero fino alla Macedonia le leggi; ma non prevalsero che per quarant’ anni  nemmeno interi, e trovarono ne’Tebani chi li depresse. Ma la Repubblica romana signoreggia tutta la terra, non già la  testa uri o?ici in TpmiccfTx: cioè nemmeuo iuteri treot’aimi. Isacco Casaubono vi saslilui rinrxfxi'oyTX cioè quaranta. Pur questa emenda fu tolta, nè so perchè : concedendosi comunemente che gli Spartani dopo vinti gli .Ateniesi al fìuinc Egio furono gli arbitri più che 33 anni. Ciò stando non può dirsi nel testo m-mmeno interi treni’ anni, ma usando un numero rotondo, dovremo leggere quaranta come il Casaubono. l4 PROEMIO, deserta, ma quanta ne è 1’ abitata : signoreggia tutto il mare non solo  nai mente Oenotro diciassette generazioni avanti che a Troja si combattesse. E questa è l’epoca nella quale mandarono i Greci nella Italia una colonia. Oenotro poi si levò di Grecia ; perché non pago della sua parte : giacché nati essendo a Licaone ventidue figli; aveasi l’Ai^ cidia a dividere in altrettanti. Per tale cagione lasciando OcDOiro il Peloponneso, passò con fiotta gié preparata il mar Ionio, e passavalo teco Peucezio l’uno de' fratelli di lui. Navigavano con essi molti della sua gente, po^ pelosissima, come si dice, nelle origini ; e quanti altri de’ Greci non aveano terreno ^he loro bastasse. Peucezio pigliò sede in sul promontorio Japigio, appunto ove prima sbarcò nella Italia, cacciando chi v’ era, e da lui furono Pcucezj chiamati quanti abitarono que’ luoghi. Oenotro guidando seco il più dell’ esercito, venne ad altro seno più occidentale d’Italia, Ausonio allora chiamato dagli Ausonj, che la spiaggia nc popolavano. Ma quando i Tirreni diventarono i padroni de' mari prese il nome che tien di presente. IV. E trovando la regione bonissima da pascolarvi o da ararvi, ma deserta in moltissimi tratti, anzi con poco popolo ov’ era abitata j dìé la caccia a’ barbari in tina parte della medesima, e fondò citt.ì non grandi si, ma frequenti in sui mouli ; com’era stile antichissi> mo, di situarsi. Così tutta la regione fu detta Oenotria, essendone amplissimo lo spazio occupalo ; ed Oeuotr) pure si dissero gli uomini tutti a’quali comandava, mutando nome per la terza volta ; mentre Ezei si chiamavano dominandoli Ezeo, e poi subito Licaonj quando al governo succedè Ligaone. Menati però nella Italia da Oenotro, Oenotrj si nominarono per un tempo : nel che Sofocle il tragico mi è testimonio net suo TriptoIcmo : perciocché vi s’ inU'oduce la madre degli Dei che dimostra a Triptolcmo quanto spazio debba trascorrere per seminare i semi eh’ ella dati gli aveva. Or ella, mentovato prima l’ oriente d’Italia dal promontorio J.ipigio 6uo allo stretto Siciliano, e poscia additata la Sicilia che sta dirimpetto; volgasi tosto alla Italia occidentale, e numera i popoli più grandi della spiaggia, cominciando dagli Oenotrj: ma bastino le sole cose da lei dette ne’ jambj, percl)è dice : Questo é do tergo ; a destra siegue tutto La Oenotrìa, il mar Tirreno, e la Liguria. Antioco di Siracusa, scrittore antichissimo, annoverando i primi ad abitare la Italia e le parli occupale da ognuno, afferma che gli Oenotri in questo precederono ogni altro di cui s’abbia ricordo, dicendo: jéntioco il figliuolo di Zenofanle compilò su la Italia queste cose, le più credibili e più manifeste ira vecchi monumenti', la terra che ora Italia dimandasi la ebbero antkhism simamente gli Oenotri : poi discorre in qual modo la governassero, e come Italo un tempo divenisse re loro. 35 cd Itali ue fossero oomioati : e poi Morgili per essere a Morgite venato quel principato. E siccome stando Sicolo per ospite presso Morgite, e tentando appropriarsene la signoria, ne divise le genti ; conclude : cosi gli Oenotri divennero e Sicoli e Morgiti ed Italiani. V. Ora dichiareremo quanta fosse la gente degli Oenotri allegando per testimonio nn altro vecchissimo autore, io dico Ferecide, non secondo a niuno degK Ateniesi che trattasse delie genealogie. Egli fa su quelli che dominaron 1’ Arcadia questo discorso: nacque Licaoue da Pelasgo e Dejanira e sposò Cillene, una ninfa dell Najadi dalla quale ebbe nome il monte Cillene: poi divisando i generati da questi e quai luoghi ciascuno abitasse, fa menzione di Oenotro, e di Peucezio dicendo : Oenotro, donde Oenolrj son detti gli abitatori Italia ; e Peucezio onde sono i Peucezj lungo il golfo Ionio. Tali sono le cose dette da’ vècchj poeti e mitologi sul popolarsi d’Italia, e su la origine degli Oenotri. In forza di che, se greca veramente è la stirpe degli Aborigeni, come disse Catone, e Sempronio e molti altri ; io penso che provenisse da questi Oenotrj : perocché trovo e Pelasgbi e Cretesi, e quanti altri abitaron l’ Italia, venuti in tempi di poi : nè so vedere spedizione più antica di questa, che si recasse dalla Qrecia alle parti occidentali di Europa. Giudico poi che gli Oenotri occupassero molti luoghi d’Italia, o deserti, o poco popolati, e parte smembrati ancora dalle terre degli Umbri, e che Aborigeni si chiamassero per le abitazioni, come gli antichi le amavano, prese ne’ monti: cosi pur v’ ebbero in Atene que’ della spiaggia e dd monti. Che ie alcuni per indole non ricevono di subito senza prove quanto si afferma su cose antiche, nemmen subito decidano esser questi, o Liguri ovvero Umbri, o tali altri de’ barbari : ma sospendendo finché apprendano le cose che restano, giudichino poi da tutte qual ne sia la più verìsimile. VI. Delie città che furono degli Aborigeni, poche ora ne sopravanzano : perocché premute la maggior parte dalle guerre, o da altri mali che straziano, finirono in solitudini. E secoudo che Terrenzio Varrone scrisse nelle anlichilà, ve ne erano nell’ agro Reatino non lungi dagli Appennini ; e le meno disgiunte da Roma, ne disiavano per lo viaggio di un giorno. Di esse io ridirò le più celebri secondo la storia di lui. Palazio è l’ una, lontana venticinque stadj da Rieti, cittade abitata da’ Romani fino a miei giorni, presso la strada Quinzia. Siede Trebula a sessanta stadj pur da Rieti, su dolce collina : e da Trebula con pari intervallo disgiungesi Vesbola dicontro a’ monti CerauBj: laddove quaranta stadj ne è lungi Soana, città famosa con antichissimo tempio di Marte. Discostavasi Mifula da Soana per trenta stadj, e se ne additano ancora le ror vine, e le vestigia de’ muri. A quaranta stadj da Mifula elevavasi Orvinio, città, quanto altra mai, chiara e grande in que’ luoghi : e segno ancora ne sono i fondamenti delle mura di lei come le tombe di antica struttura, e li recinti pe’ cimiterj comuni su’ monti altissimi : e là pure vedessi nella sommità di lei 1’ antico tempio di Minerva : lungi dieci miglia da Rieti, procedendo per la strada Giulia, là presso il monte Corito v’ era Cararbari, e soprattutto ai Sicoli, loro conGnanti. E sa le prime pochi bravi, quasi giovani sacri mandati da genitori in traccia de’ bisogni della vita, nscirono seguendo un primitivo costume, che pur vedo seguito da molti de’ Barbari e de’ Greci. Imperocché quante volte le città moltiplicavano tanto in popolo che non più bastassero ad esse i proprj viveri ; quante volte fa terra danneggiata dalle mutazioni del cielo rendea meno dell’usato; e quante volte altro caso non dissimile buono o rio le necessitava a minorarsi di gente ; consacrando allora agl’ Idd^ d’anno in anno una serie di discendeuti Digitized by Google libro I. 2g gii armavano, e li congedavano. E con fausti augurii gli accompagnavano se giusta le patrie leggi sacrificando, rendevano grazie ai cieli per la generazione copiosa, o per le vittorie tra Tarmi : laddove se pregavano i Numi irati a rimovere da loro i mali che tolleravano ; li dimettevano pure slmilmente, ma rattristandosi, e chiedendo die loro si perdonasse. E quei sen partivano quasi non più avendo una patria, se pure altra non sen facevano che li raccogliesse o per amicizia, o combattendo, e vincendo ; ed il Nume al quale i congedati eran sacri parca per lo più cooperare con essi, ed alzarne sopra la espettazione le colonie. Su tale consuetudine gli Aborigeni, floridi allora in popolazione, e schivi, perchè noi credeano il meno de mali, di uccidete alcuno de’ posteri, consacravano agl’ Iddii d’ anno io anno le generazioni, e via via dimetteano gli allievi, già grandi fatti, dalla patria. Uscitine questi non desisterono di far contro i Sicoli, e derubarli. Ma non si tosto conquistarono alcuna delle contrade inimiche ; divenutine ornai più sicuri ancora gli altri Aborigeni i quali bisognavano di terreno, insorsero parte a parte su’ confinanti : e fondarono alcune città, e quelle, abitate ancor di presente, degli Antemnati, de’ Tellenesi, e de’ Ficolesi presso i monti Cornicli nominati, e dei Tiburtini finalmente, tra’ quali evvi un luogo della città che pure a dì nostri si chiama Siciliano. Nè furono ad altro vicino più molesti che incontro de’ Sicoli. Sorse da tali contrasti guerra con tutte le genti ; talché mai non fu per addietro la più grande in Italia, e v’ infierì lungo tempo. Dopo questo alcuni de’ Pelasgbi che abitavano la regione ora detta Tessaglia costretti di trasmigrarne, divenuei'o gli ospiti degli Aborigeni ; ed i compagni di arme, contro de’SicoIi. Gli accolsero gli Aborigeni forse {icr la speranza, io penso, di un utile, ma più per la comunanza di origine: perocché son pure i Pelasgbi un greco lignaggio, antichissimo del Peloponneso : quan tunque sciaurati per molte cose e principalmente per la vita errante, nè mai stabile in sede ninna. E certo, come molli affermano su di essi, abitarono su le prime la città che ora chiamasi Argo di Acaja ; traendo il nome di Pelasgbi da Pelasgo, loro sovrano, generato da Giove e da Niobe la figlia di F oroneo, quando il Dio si congiunse la prima volta con donna mortale, come è ndle favole. Poi nella sesta generazione lasciato il Peloponneso, passarono nella Emonia che ora Tessa glia si nomina ; e duci furono del passaggio Acheo e F tio, e Pelasgo, figli di Larissa e di Nettuno. Giunti nella Emonia ne cacciarono i barbari che 1’ abitavano, e la divisero in tre regioni cognominandole da’ condot tieri, F liotide, Acaja, e Pelasgiote. Fissi colà da cinque generazioni, lungamente vi prosperavano, profittando pur de’ campi migliori della Tessaglia: ma intorno la sesta generazione ne furono espulsi da Cureti, e da Lelegi che ora sono gli Eioli ed i Locri, e da più altri che abitavano intorno del Parnasso, guidando i nemici Dencalione il figlio di Prometeo e di Glimene nata dall’ Oceano. ' X. Dispersi nella fuga, altri vennero io Creta, altri ottennero alcune deile Cicladi. Alcuni abitarono la regione intorno di Olimpo e di Ossa, ora detta Estiotidc: ed altri furon portati nella Beozia, nella Focide e nella Eiubea : alcuni tragittandosi in Asia occuparono molte delle spiagge deli’ Ellesponto e molte delle isole dirim> petto, e quella che ora Lesbo si chiama, mescolatisi alla colonia che prima andavaci dalla Grecia sotto gU auspizj di Macaro Gglio di Criaso. La maggior parte però dirigeudosi entro terra a’ loro parenti i quali albergavano in Dodona, ed a' quali, come sacri, niuno facea guerra, abitarono quivi alcun tempo : ma poiché si avvidero che eran di aggravio, non bastando la terra a nutrire tutti in comune, se ne involarono, mossi dalr oracolo che ordinava loro di navigare in verso la Italia, allora chiamata Saturnia. E fatto apparecchio in copia di navi, passarono il mar Jonio, procurando giungere in parti presso la Italia. Ma pel vento di mezzogiorno, e per la imperizia de’ luoghi, portati più oltre capitarono ad una delle bocche del Pò chiamata Spi” itelo e quivi lasciarono le navi, e la turba meno idonea ai travagli con un presidio, per avervi una ritirata, se i disegni non riuscivano. Or questi rimanendo in quella regione circondarono di muro il campo dell’ esercito, cd introdussero colle navi copia di vettovaglie. E poi che videro succedere loro le cose come voleano, fabbricarono una città coLnome appunto dellabocca del fiume. Quindi prosperando più che tutti su le spiagge dell’ Jonio, e prevalendo lungo tempo sulle onde, portarono quant’ altri mai, decime vistosissime in Delfo alla Divinità, de’ beni tratti dal mare. Da ultimo però venendo amplissima guerra su loro da’ barbari intorno, ' losciarono la città, donde anche i barbari furono dopo nn tempo cacciati da’ Romani. Cosi mancarono i Pela minandola da Larissa, metropoli loro nel Peloponneso. Delle altre città ne resta pure alcuna fino a miei giorni, quantunque variati spesso gli abitatori: ma Larissa è distrutta già (la gran tempo : nè presenta dell’ antica esistenza altro segno più manifesto che il nome, e nemmeno questo è noto a moltissimi. Era non lontana dal foro chiamato Popilio. Finalmente possederono, togliendoli a Sicoli, molti altri luoghi entro terra, o lungo la spiaggia. XIII. I Sicoli ornai non più valevoli a resistere ai Pelasghi ed agli Aborigeni, riunendo i figli e le mogli e quanto aveano di moneta in oro ed argento, si levarono in tutto da quella terra. Ripiegatisi a’ monti verso del mezzogiorno, e trascorsa tutta l’ Italia inferiore, siccome dovunque erano discacciati, apparecchiarono in fine delle barche nello stretto, e notandovi il flusso e (piando era fausto, passarono dalla Italia in su l’ isola vicina. Allora i Sicani, Spagnuoli di origine, la pouedevano, nè da gran tempo vi erano stati ammessi, cercando uno scampo dai Liguri; e già per essi era detta Sicania l’isola un tempo chiamata Trinacria^ per la figura sua di triangolo. Non molti erano in questa grand’isola gli abitatori; ma la più gran parte vedeasi ancora deserta. Giunti i Sicoli ad essa, ne abitarono su le prime i luoghi occidentali, e mano a mano più altri, talché l’isola ne fu detta Sicilia. Cosi la gente de’ Sicoli abbandonò la Italia ', tre generazioni, come Ellanico di Lesbo scrive, prima delle cose trojane, correndo in Argo r anno vigesimo sesto del sacerdozio di Alcione. Perciocché stabilisce due passaggi fatti dalla Italia nella Sicilia il primo degli Elimei cacciati dagli Oenotri, e l’altro dopo cinque anni degli Ausoni, che fuggivano i Japigi. Dice che re di questi fu Sicolo, donde ebbero il nome gli uomini e 1’ isola. Filisto però di Siracusa scrisse che 1’ anno di quella discesa fu 1’ otuntesimo innanzi la guerra trojana: e che non Sicoli, non Ausonj, non Elimei, ma Liguri furono gli uomini trasportati dalla Italia, conducendoli Sicolo, figliuolo di Italo, e che dalla signoria di quello furono Sicoli nominati. Lasciavano i Liguri le patrie terre, astrettivi dagli Umbri e da’ Pelasghi. Antioco di Siracusa non distingue il tempo del tragitto; ma Sicoli dichiara quelli che tragittarono, premuti dagli Oenotrj e dagli Umbri, pigliatosi nel trasmigrare Sicolo per condottiero. Tucidide scrive che Sicoli furono i profughi, e Opici quelli che li fugavano, per altro molti anni dopo la guerra di Troja. E queste sono le cose che affermansi da uomini riguardevoli intorno de’ Sicoli, passati dalla Italia nella Sicilia. XIV. Impadronitisi i Pelasghi di una regione ampia e bella, ne ebbero pur le città ; poi fondandone altre ancor essi, crebbero presto e molto in forze, in ricchezze, ed altri beni ; non però ne goderono lungo tempo. Ma sembrando floridi troppo per ogni parte furono sbattuti dall’ ira de’ celesti, e quali ne perirono per divine calamità, quali pe’ barbari confinanti : e la parte più grande ne fu dispersa tra’ barbari, o nuovamente Ira’ Greci, e lungo ne sarebbe il discorso se per Digitized by Coogle tninuto seguissi un tal fatto. Pochi ne sopravanzaronc nella Italia per cura degli Aborigeni. Parve alle città che la origine prima di un tale struggersi di famiglie fosse la siccità che intristiva la terra, talché non restava frutto alcuno Gno al maturarsi negli arbori; ma innanzi tempo cadevano 5 nè i semi che sbucciavano in germi, vegetavano Gnchè le spighe floride si empiessero nei tempi naturali, nè bastavano i pascoli alle greggio. Non più le fonti eran atte a toglier la sete, guaste, impicciolite o spente dagli estivi calori. Consentivano con ciò le vicende delle bestie e delle donne nel generare : e quale sconciavasi in aborti, e quale dava Agli, morenti nel parto, o fatali nell’ utero ancora alle madri. Se scampavano 1 pericoli del parto, mutili, o storpi, o manchevoli per altro disagio, non eran’ utili, onde si allevassero. L’ altra moltitudine poi, specialmente la più vegeta era colta da mali, e da morti frequenti più delr usato. E consultando l’ oracolo per quale violazione di genj o di Nomi questo patissero, e per quali pratiche mai fosse da sperare una calma in tanti orrori, udirono ciò essere perchè esauditi ne’ loro desiderj, non aveano penduto quanto promisero ; ma dovevano ancora agli Dei cose preziosissime. Imperocché li Pelasghi l’idotti a penuria di ogni cosa nelle loro terre, si votarono a Giove, ad Apollo, ed ai Cabiri  di santiGcare ad essi le decime di ogni prodotto. Appagati nella preghiera presero ed offerirono agli Dei parte delle messi e de' frutti, quasi votati si fossero per questo soltanto.  Forte Castore e Polluce. E certo che erano Dei di Sanietracia. Digilized by Google 38 DELLE Antichità’ romane Mii'silo di Le$bo scrive ciò quasi con le parole medesime, toltone, che egli chiama Tirreni e non Pelasghi quegli uomini, di che dirò più sotto le cause. XV. Ascoltato 1’ oracolo non sapevano interpretarlo. Fra dubbj loro un più vecchio, raccogliendone i sensi, disse che erravano affatto, se credevano che gli Dei li punissero a torto : volere il diritto ed il giusto, che si desse loro la primizia di tutto : nondimeno aspettavano ancora parte della generazione degli uomini, cosa più che tutte ad essi accettissima: se avessero questa, l’oracolo sarebbe adempito. Parve ad altri che costui parlasse rettamente ; ad altri che tendesse delle insidie. E proponendo un tale che s’ interrogasse il Dio se gradiva che si facessero per lui le decime, ancora degli uomini ; inandarono i sacri vati per questo, e rispose che si facessero. Quand’ecco sedizione fra loro sul modo di decimarsi : e prima surse a vicenda tra’ capi della città ; poi l’altra moltitudine prese i suoi magistrati io sospetto: nè già sollevavansi con regola alcuna, ma come per entusiasmo e per divino furore. Cosi molte case furono abbandonate, trasmigrandosi parte di essi, nè sostenendo gli attenenti di essere abbandonati dai loro carissimi, e restarsene tra i più crudi nemici. Primi questi levandosi dall’ Italia errarono per la Grecia, e molto tra’ barbari: quindi ancor altri incorsero ne’ mali medesimi, continuandosi ogni anno la decima. Nè i magistrati la sospendevano, ma sceglievano le primizie de’ giovani più robusti pe’Numi, quantunque nel proposito di soddisfare agli Dei, temessero i moti di chiusciva a sorte per vittima. Erano ancora non pochi espulsi dagli avversar). 3^ per nimiclzia, lutto che sotto specie di oneste cagioni. Laonde spessissime furono la partenze ; e la gente Pelasga errò dispersa in più terre. XVI. Erano i Pelasghi, vivendo in mezzo a genti bellicose tra cure e pericoli, divenuti assai buoni nelle armi, e più ancora nella nautica per avere coabitato co’ Tirreni. La necessiti che ne’ stenti della vita ispira coraggio, fu loro maestra e direttrice in tutti i cimenti. Perciò non difUcilmente dovunque ne andavano vincevano. Erano chiamati ad un tempo Pelasghi e Tirreni dagli altri uomini si pel nome delia regione donde par ti vano, come in memoria della origine antica. Ora io dico ciò perchè alcuno udendoli chiamati Pelasghi e Tirreni da’ poeti e dagli storici, non meraviglisi come abbiano ambedue le denominazioni. Tucidide in Atte di Tracia fa menzione di loro e delle città che vi era no, abitate da uomini bilingui : e questo è il dir suo su’ Pelasghi. Ivi sono de Calcidesi, ma i più sono Pelasghi, cioè que’ Tirreni che abilarono un tempo Lemno ed Atene. E Sofocle nel dramma suo dell’ Inaco fa questi versi detti dal coro : Inaco genitor, figlio de' fonti Bel padre Oceano, assai splendendo, reggi Le terre d’ Argo e di Giunone i colli E i Tirreni Pelasghi. Quindi il nome de’Tirreni risuonava in que’ tempi nella Grecia : e tutta la Italia occidentale lo assunse ancora per sé, lasciando i nomi speciali de’ suoi popoli. Occorse già pari vicenda nella Grecia e nella regione ora detta Peloponneso: giacché dagli Achei, che eran Tuno de popoli che v’ abitavano, fu detta Acaja tutta la Pe nisola ov’ erano gli Arcadj, c li Jonj, ed altre nazioni non poche. XVII. L' epoca nella quale cominciarono i Pelasghi a decadere fu quasi nella seconda generazione innanzi la guerra di Troja, e durarono, direi, dopo ancora di questa 6nchè si ridussero ad un gruppo di gente. E, salvo la città di Crotone, famosa nell’ Umbria, e tale altra, se pur v’ ebbe, data loro ad abitare dagli Aborigeni, perirono tutte le rimanenti de’ Pelasghi. Crotone serbò lungo tempo l’antica sua forma, ora non è molto, ha mutato nome ed abitatori, e divenuta colonia romana, si chiama Cortona. Varj poi furono c molti che occuparono le sedi abbandonate da’ Pelasghi secondo che ciascuno vi confinava ; ma le migliori e le più si rimasero pe’ Tirreni. Quanto ai Tirreni v’ è chi li dice naturali d’ Italia e chi forestieri. E quei che li stimano propri della regione, affermano che si diè loro quel nome per gli edifizj sicuri, che essi i primi di quanti vi erano, si fabbricarono : imperocché le abitazioni con muri e con tetto son tirseis chiamate dai Tirreni come da’ Greci. Cosi pensano imposto loro quel nome per accidente come nell’ Asia ai MosinIcI dalle mosine che sono le case di legno abitate da essi, altissime in forma di torri. XVIII. Ma quelli che favoleggiano che i Tiireni sono stranieri, additano un tale, detto Tirreno, che fa  Ssronito altri Cotorni'n. 4 1 duce della colonia, e dal quale ebbe nome la nazione. Dicono che originario fosse di Lidia, chiamata già Meonia; e che da indi antichissimamente si trasmigrasse; e che egli fosse il quinto dopo di Giove. Imperocché narrano che da Giove e dalla terra nacque Mani, il primo a regnare in que’ luoghi : che da questo e da Calliroe. figlia dell’ Oceano nascesse Coti ; che da Coti sposatosi con Alle, figlia di Tulio, uomo paesano, germinassero due figli Adie ed Ati : che da Ati e da Callitea figliuola di Coreo sorgessero Lido e Tirreno : e che Lido rimastosi in que’ luoghi succedesse al regno paterno, e Lidia lo denominasse dal suo nome ; ma che Tirreno fattosi duce di una colonia occupò gran parte d’Italia, Tirreni chiamando il luogo, e quanti lo seguitarono. Erodoto però dice che Tirreno nacque da Ati figlio di Manco, e che P andarsene de’ Meonj nelr Italia non fu volontario. Imperciocché narra che regnando Ati si mise la penuria tra Meonj : che gli uomini ritenuti dall’ amore della regione si argomentarono in più modi a vincer quel male, taluni di colla parsimonia, e tal altri con 1’ astinenza : ma che prorogandosi la sciagura, tutto il popolo diviso in due, decise per le sorti chi dovesse di là trasmigrarsi, e chi rimanere y e che perciò 1’ un figlio di Ati si stette, partendosi r altro : la moltitudine che pendeva da Lido trasse colle sorti il suo meglio, e si stette ; ma 1’ altra pigliando quanto le si dovea per le sorti in danaro, navigò verso r occidente d’ Italia, e postasi dove erano gli Umbri, vi fondò città che duravano ancora al suo tempo. Ben so che altri non pochi scrissero, appunto come io scrissi, della origine de’ Tirreni ; ma che altri ne variano il fondatore ed il tempo. Imperocché dissero alcuni che Tirreno era figlio di Ercole e di Onfale Lidia : che venuto questo in Italia, espuke i Pelasghi dalle loro città, non però da tutte, ma da qnelle poste di là del Tevere su le parti boreali. Altri però ci fan vedere in Tirreno un figliuolo di Telefo venuto in Italia dopo la rovina di Troja. Zanto lidio perito quant’ altri mai delle storie antiche, e creduto nelle patrie non inferiore a niuno, nè mentova in parte alcuna de’ suoi scritti un tirreno signore de’ Lidj, nè conosce passaggio alcuno de’Meonj nella Italia, nè parla mai de’ Tirreni come di Lipia colonia, sebbene parlasse di cose ancora bassissime. Dice che Ati generò Lido e Toribo, che dividendosi il regno paterno si rimasero ambedue nell’ Asia, c che diedero il nome loro a’ popoli su’ quali comandavano. Imperocché scrive: da Lido si fecero i Lidj, e da Toriho i Toribi 5 poco d’ ambedue differisce l’ idioma, e gii uni, come li Jonj e li Doriesi, usano a vicenda le parole degli altri : Ellanico di Lesbo dice che i Tirreni chiamati già Pelasghi assunsero il nome che or hanno, quando abitarono la Italia ; imperocché nel suo Foronide  scrive, da Pelasgo re loro, e da Menippe figliuola di Peneo nacque Fraslore, da questo surse Amintore, che diede Teutamide, e da Teutamide ebbesi Nanas j regnando il quale i Pelasghi, profughi dalla Grecia  Opaieolo di Ellaaieo; ne fa meniione Ateneo nel lib. 9.. 4^ lasciarono le navi dove il fiume Spineto esce nel mare Ionio , ed invasero entro terra la città di Crotone; e di là movendosi fondarono quella che Tirrenia ora si chiama. Mirsilo sponendo come Ellauico le altre cose, dice tuttavia che i Tirreni quando erravano profughi dalla patria, furono detti Pelasghi per certa somiglianza loro con le cicogne, pelarghi chiamate; giacché passavano in truppa per le terre de’ Greci e de’ barbari: aggiunge che essi alzarono il muro detto Pelargico intorno la rocca di Atene. XX. A me però sembra che s’ ingannino quanti si persuasero che i Tirreni e i Pelasghi non sieno che una gente ; perciocché non è meraviglia che alcuni abbian talvolta il nome di altri, mentre in pari vicenda incorsero ancora altri popoli greci o barbari come i Trojani ed i F rigi, perchè prossimi di regione. Eppure molti fanno di questi due popoli Un solo, quasi distinti di nomi, non di lignaggio. I popoli poi d’Italia, nom meno che quei d’altri luoghi, furono confusi ne’ nomi. E v’ ebbe un tempo quando Latini, Umbri, Ausoni, e molti altri si chiamavano Tirreni da’ Greci ; riuscendo ogni ricerca di questi men chiara per la lontananza di que’ popoli : anzi molti degli scrittori pigliarono Roma ancora per città de’ Tirreni. Io dunque penso che queste genti mutassero il nome, variandosi fino il vivere : non penso però che una fosse la origine di ambedue, per molte cagioni, e più per le voci loro non simili,  Qui si estende il nome di ionio all’interno dell’ Adriatico. Spesso gli storici antichi cosi praticarono contro 1’ uso de’ geografi che distinguono 1’ uno dall’ altro mare. ma diversissime. Imperciocché nè li Crotoniati  come scrive Erodoto, nè li Piaciani ne’ proprj luoghi parlan la lingua dei circonvicini ; ma una ne parlano tutta lor propria; donde è manifesto che serbano i caratteri delr idioma che aveano quando in que’ luoghi si traslatarono. Meraviglisi poscia chi può che li Crotonlati somiglino nell’ idioma al Piaciani, popoli ne’ lidi dell’ Ellesponto, nè somiglino intanto a’ vicini Tirreni. Erano que’ primi ambedue Pelasghl ne’ principj loro : e se la unità di origine prendesi per causa della uniformità nei linguaggi ; dunque la differenza di origine è pur causa del divario di essi ; non dando un principio medesimo contrarj gli effetti. Certamente, se avvenga, ben è ragionevole quello, cioè che uomini di una gente medesima domiciliatisi lontani fra loro non conservino i caratteri de’ proprj idiomi per lo conversar col vicini; ma che poi negl’idiomi non somiglino popoli di una origine istessa, e d’ istesse contrade, ciò non è ragionevole per ninna maniera. Seguendo tali indizj convincomi che differiscono i Pelasghi dai Tirreni ; nè credo i Tireeni un tralcio de’ Lidj ; perocché nè parlano la lingua medesima, nè può dirsi che se non la parlano, ritengono almeno alcuni vestigi della teiTa materna, nè tengono per IdJj que’ che da’ Lidj si tengono ; nè li somigliano per leggi o per abitudini, ma in ciò dai Lidj si diversificano più, che da’ Pelasghi. Pertanto sembrano più verisimili quelli, che dicono un tal popolo, naturale  Cortoncsi. della contrada, non venutovi altronde : pérciocchè si rinviene antico in tutto ; nè simile ad altri nel parlare, o nel vivere : e niente ripugna che avesse un tal nome da’Greci o per le abitazioni fortissime  o per l’uomo ancora che li dominava. Ma i Romani con altri nomi li chiamano Etruschi dalla Etruria, regione dove un tempo abitarono : ed ora li dicono Toschi men propriamente, avendoli come i Greci, nominali prima con più verità Tioscovi per lo magistero nelle cerimonie del culto divino, nelle quali sorpassano lutti, Que’ popoli inoltre distinguono sè stessi dal nome di Rasenna r uno già de’ loro comandanti. Sarà poi dichiarato in altro libro quali città fossero abitate dai Tirreni e con / quali forme di governo, quanta fosse di tutti insieme la potenza, e quali, se pur degne ne ebbero di ricordanza, le azioni ne fossero, e le vicende. 1 Pelasghi che non perirono, nè si disgiunsero per fare colonie, si rimasero, pochi di molti, con gli Aborigeni, sotto le leggi de’ luoghi ne’ quali si lasciavano, e ne’ quali col volger degli anui i posteri loro fondarono Roma. E tali sono le novelle intorno de’ Pelasghi. Dopo non molto tempo, nell’ anno, al più, sessantesimo come narrano i Romani, prima della guerra trojana, capitò ne’ luoghi medesimi un’ altra spedizione di Greci la quale abbandonava il Pallanteo, città delr Arcadia. Il duce erane Evandro, figlio di Mercurio, e di una ninfa, abitatrice di Arcadia. I Greci la tengono per ispirata da’ Numi, e la chiamano Temide ;  Tirseis delle di opa J xvii. ma Carmeiita è delta nella patria lingua da’ romani che scrissero le antichità di Roma: perocché la ninfa avrebbesi a dir propriamente Tespi-ode con greca parola : ma le odi chiamansi carmi da’ Romani, e quindi è Carmenta : si consente poi che tal donna presa dallo spirito divino presagisse, cantandole, le cose avvenire ai popoli. Non venne quella spedizione di comun sentimento; ma nata sedizione del popolo, la parte inferiore, di voler suo si spatriò. Dominava di que’ tempi su gli Aborigeni Fauno, un discendente come dicono di Marte, uomo di azione e di prudenza, e riverito da’ Romani con sagrifìzj e con inni come un genio del loco. Ricevè' costui con assai benevolenza gli Arcadi che erano pochi, e diede loro della sua terra, quanta ne vollero ; ed essi, come Temide gli avea, vaticinando, ammaestrati, presero un colle poco lontano dal Tevere, il quale ora è nel mezzo di Roma, e tanto vi fabbricarono, che bastasse alle genti venute con le due navi dalla Grecia. Era questo il principio segnato dai. destini per formare col volger degli anni una città, non pareggiala mai da greca o barbara città per grandezza di abitazioni, di comando, e di ogni bene, e certamente memorabile soprattutto finché dureranno i mortali. Pallanteo chiamarono quel fabbricato come la metropoli loro in Arcadia: ora Palagio è detto da’ Romani per la confusione che inducono i tempi ; e ciò diede a molti la occasione di stolte etimologie. Dicono molti, e tra questi Polibio di Megalopoli, che quel nome viene da Pallante, un giovinetto ivi morto, nato da Ercole e da Cauna la 6glia  di Evandro: perchè facendogli questo avolo materno in quel colle un sepolcro, chiamò ' Pallanteo, quel luogo dal giovinetto. Io nè mirai in Roma la tomba di Fallante, nè conobbi che vi si praticassero funebri onori, nè potei conoscere nulla di slmile : quantunque la famiglia di lui non sia dimenticata, nè priva del culto col quale i semidei sono venerali dagli uomini. Perocché vidi che i Romani faceano gelosamente ogni anno pubblici sacriGzj ad Evandro e a Carmenta, come agli altri genj ed eroi : e vidi gli altari dedicali a Carmenta appiè del Campidoglio presso la porta carmentale, e quelli dedicali ad Evandro appiè dell’ altro colle detto Aventino, non lungi dalla porta trigemina ; nè vidi intanto cosa ninna di queste latta inverso Fallante. Gli Arcadi i quali coabitavano appiè del colle, eressero pure altri monumenti nelle forme della patria, e santi riti v’ istituirono ; ma per ispirazione di Temide, innanzi lutti a Pane Liceo, Nume il più antico e più riverito tra quelli di Arcadia, in sito idoneo, che i Romani chiamano Lupercale, e noi diremmo Liceo. Ora empiuto essendosi di abitazioni il suolo intorno ; non è facile rintracciarne la natura del luogo. Era questo, come dicono, appiè del colle, una spelonca, vetusta, grande, coperta da una querce, ramosa qual bosco : profonde bulicavano le fonti abbasso delle pietre ; e lo spazio appresso ai dirupi era opaco per arbori, altissime e folte. Qui collocando un altare a quel Nume compierono il patrio sagriGzio, che i Romani, non mutando cosa alcuna delle antiche allora fatte, ripetono ancora di presente dopo il solstizio d’ inverno nel mese di febbrajo. La maniera del sagrìGzio sarà detta più innanzi. Ergendo poi su le cime del colle un tempio alla Vittoria, stabilirono in questo ancora annui sagriGzj che i Romani tributano ancora. Gli Arcadi favoleggiano che questa sia figlia di Fallante generata da Licaone : e Minerva, fece, che ricevesse da’ mortali gli onori che le si rendono ; imperocché fu essa educata colla Dea, giacché la Dea nata appena fu consegnata da Giove a Fallante, e presso lui fu nudrita finché ascese alle stelle. Fondaronoancora un tempio a Cerere ed il sagrifizio, che faceano le donne ma non usate al vino, com' era la pratica de' Greci : nel che 1’ andare del tempo non ha cagionato mutazioni, fino a miei giorni. E Nettuno Ippio ebbe pure il suo tempio e le feste, dette Ippocratie da’ Greci, ma ConsucUi da' Romani: e Roma in esse libera per uso dal travaglio cavalli e muli, e ne incorona le teste di fiori. Consecraronu similmente altri tempj, altri altari, altri simulacri, costituendo purificazioni e sacrifici, ritenuti ancora ne’ modi medesimi. Né già sarei meravigliato se alcune di queste cose neglette, come antiche troppo, non avessero più ricordanza tra’ posteri : nondimeno le consuetudini presenti danno ancora assai da congetturare su’ riti arcadici d’ allora, de’ quali diremo altrove più pienamente. Dicesi che gli Arcadi recassero i primi nella Italia 1’ uso delle lettere greche, note ad essi da poco, e la musica della lira, della tibia e del trigono, non sonandosi ivi altri armonici stromenti che le sampogne de’ pastori : e dicesi che vi introducessero le leggi, vi raddolcissero le maniere del vivere, 6ere in gran parte, e che vi diflondessero le arti, e le istruzioni, ed altre utili cose in gran nume ro onde assai ne furono rispettati dagli ospiti. Questa greca moltitudine, seuouda dopo i Pelasghi, giunta nella Italia ebbe comune 1’ abitazione con gli Aborigeni in uno de’ bonissimi luoghi di Roma. Pochi anni dopo degli Arcadi vennero nella Italia altri Greci, guidati da Ercole il quale avea domato la Spagna, e le parti, fiu dove il sole tramonta. Alcuni di loro, implorato da Ercole il congedo dalla milizia, si fermarono in questi luoghi ; e trovando un colle opportuno, lontano al più tre sladj dal Pallanteo, vi si accasarono : chiamalo alloca Saturnio, o Crònio come i greci direbbono, ora si chiama Capitolino. Erano quei che rimasero per la più parte del Peloponneso, io dico i F enueati, e gli Epei della EUide, disamorati di viaggiare in verso la patria, perchè devastata nella guerra con Ercole. Mescolavansi ad essi alcuni de’ Trojani &tti prigionieri quando Èrcole prese già Troja, regnandovi Laomedonte. E pormi che in quei luogo si annidassero ancora tutti di quell’esercito, quanti o stanchi dalla fatica, o dal rigirarsi ottennero levarsi dalla milizia. Alcuni, come ho detto, stimano antico il nome del colle ; tanto che gli Epei gli si affezionarono nommeno in memoria del colle, Gronio chiamato nella Elide in su le terre di Pisa lungo le rive dell’ Alfeo. Gii Elicsi riputando quel poggio loro sacro a Saturno vi si adunano in fìssi tempi, e l’onorano con sacriGzj e con altro colto. Nondimeno Eusseno, ed altri mitologi VIOlfJGT, tomo I. i 5o nr.Italiani pensano che i Pisani per la simiglianza del Cromo loro dessero il nome anche all’ altro : che gli Epei con Ercole erigessero a Saturno l’ altare che trovasi alle falde del colle presso la via che mena dal Foro al Campidoglio : e che essi istituissero il sagriCzio che i Romani v’ immolano ancora con greche cerimonie. Ma io, paragonando, trovo  che prima della venuta di Ercole nella Italia quel luogo era sacro a Saturno, e Saturnio chiamavasi da’ terrazzani : e che tutta 1’ altra regione, che ora dimandasi Italia, era dedicata ancor essa a quel Nume, e Saturnia nominavasi dagli abitanti, come trovasi detto nelle risposte date dalle sibille o da altri Iddii. Eid in molti luoghi di questa sonovi de’tempj alzati a quel Nume, ed alcune città da lui si denominano, come allora tutta la Italia: e portano ancora il nome del Dio molti luoghi, singolarmente i monti e le rupi. Col volger degli anni fu detta Italia per un uom potentissimo, Italo nominato. Antioco di Siracusa lo dipinge per uomo destro e filosofo, il quale convincendo molti popoli col dire e molti colla forza, ridusse in poter suo quanto v’ è tra ’l golfo Napitino  e quello di Scilla : e quel tratto fu il primo che Italia da Italo si dicesse. Dopo ciò scrive che divenuto più forte, fece che molti altri gli ubbidissero; perocché mise il cuore su’confinanti, e ne prese molte città: e scrive finalmente eh’ egli era Qenotro di nazione. Ella(l) Cluverio in tini. Aniiq. I. IV crede die deliba Irgf’ersi Lame/in in Tece di IVrpitino. Filoguno k di parere die Lamet città di Lucania desse nome a questo golfo.. !) I iiko di Lesbo narra die Ercole coiiJucevasi i bovi di Gerione alia volta di Argo, ma che essendo già nell' Italia il tenero figlio di una vacca spiccossegli dall’ armento, e profugo vi errò da per tutto ; finché solcalo il mare interpostp giunse nella Sicilia : che cercando Ercole quell’ animale, e chiedendo ovunque capitava, se alcuno lo avesse veduto de’ paesani, siccome poco intendevano il greco, e da’ segni lo chiamavano come aneli’ oggi si chiama nella patria lingua vitello ; cosi Vilalia chiamò tutta la regione da questo percorsa. Non è poi meraviglia che uu tal nome si tramutasse com' è di presente ; mentre tanti greci nomi eziandio subirono pari vicende. Ma, sia che prendesse quel nome, come dice Antioco, dal condottiero, il che forse è più probabile, sia ebe dal vitello come pensa Ellanico ; raccogliesi da ambedue che lo prese intorno ai tempi di Ercole, o poco prima ; essendo chiamala iunanzi Esperia ed Ausonia dai Greci, e Saturnia da [laesani, come di sopra fu detto. Coutasi ancora tra qne’ popoli la novella ebe innanzi al principato di Giove ivi Saturno regnasse: e che tra loro più che altrove si avesse quella vita sì famosa, beata per tutti i beni, quanti le stagioni ne apportano. Ma se alcuno risecando ciocch’è di favoloso nel discorso, vaglia Intenderne la bontà di quella gioite, dalla quale il genere umano, sorto di recente dalla terra, come è vecchia fama, o d’ altronde, ne raccolse vantaggi moitissiini, e giocondissimi ; non troverà [>cr tal fine suolo pili acconcio di questo. Iiiiperocciiè se paragonisi una terra con altra di eguale granàezza, T Italia pei mio giudizio è la migliore neU' Europa, e dovunque. Non ignoro clie io sembrerò dir cose incredibili a molti, i quali risguardano l’Egitto, la Libia, e Babilonia, e quante altre vi sono beate contrade: ma io non pongo la ricchezza della terra in una specie sola di prodotti, nè invidierei di abitare dove pingui sono le campagne, nè vi si scorge altro bene se non tenuissimo: ma quella regione chiamo la migliore la ^ale sia bastantissima a sé Stessa, e che meno abbisogni deir altrui. Sono poi persuaso che la Italia paragonata con altra qualunque, appunto sia la terra datrice di ogni frutto, e di ogni utile. E certamente, se comprende campagne felici e molte, non perchè madre è di messi, è men propizia per gli arbori : e se vale assai per ogni genere di alberi, non perchè tale, è poco ubertosa^ nel seminarvi: o s’ è bonissima per ambedue questi usi, non per questo è men propria pe’ bestiami : nè perchè varia si dimostri ne’ prodotti e ne’ pascoli è disamena poi se vi si abita. Ma direi che di ogni agio soprabbonda e di ogni diletto. E qual terra mai frumentaria vince le terre dette della Campania, bagnate dalle acque non de’fiumi, ma del cielo f Io vi contemplai campagne che davano tre raccolte nudrendo dopo i semi del verno, quelli per la state, e dopo gli estivi, gli altri in 6ne per 1' autunno. Quale coltivazione supera in olio quella dei Messapj, de’ Daunj, de’ Sabini e di altri? Qual mai suolo con vigne sorp rende più che il Tirreno, l’Albano e il Falerno 7 il quale ama così le viti, che ne porge col tnen di lavoro amplissimi frutti e bonissimi. Ma oltre le terre che si lavorano, ivi molte pur se ue trovano, riservate per le capre e per le pecore ; ma più mirabili ancora sono quelle da pascervi le mandre dei cavalli e de’ bovi: imperocché soprabbondandovi l’erba palustre c dei prati, e riuscendovi fresca e rugiadosa nelle parti che si coltivano, dan pascoli senza limite in tutta l’estate, e mantengono in fiore gli armenti. Qual dolce spettacolo ivi sono le selve per balze, per valli, per colli non culti, e di qnale e quanto niateriale per le navi e per altre operazioni ì Nè già cosa alcuna di queste è dilTìcile ad ottenerla, nè rimota dall’uso degli ^ uomic : ma tutte sono pianissime, e tutte facili a trasmettersi per la moltitudine de’ fiumi, i quali scorrono tutta la regione : e li quali con utile vi agevolano i trasporti e le permute dei prodotti della terra. Vi si trovano ancora in più luoghi delie acque calde, propriissime a’ bagni, e bonissime per le cure di mali diuturni. E metalli vi sono d‘ ogni genere, e cacce d’animali in copia, e mari fecondissimi, come pure altre cose moltissime ; e più utili e più meravigliose. Benissimo soprattutto ne è 1’ aere per la dolce sua temperie secondo le stagioni, e poco opponesi con calori o freddi eccessivi al formarsi de’ fratti, ed al vivere degli animali. Non è dunque da meravigliarsi che gli antichi prendessero quella terra per sacra a Crono, o Saturno; concependo che questo Dio vi fornisse, e saziasse i mortali d’ogni bene. Ma sia che chiamisi Crono come da’ Greci, sia che Saturno  come da’Romaui;  Stefano r fiasaubono credono ebr qui fosse nel testo K^ac Digilìzed by Google ìy!^ dkt.i.t; Antichità’ koma^e •omprenJeitilo ciascuno di essi la natura tutta delle cose ; tu lo nomina come più vuoi. Nemmeno è da meravigliarsi cbe contemplando in quella ogni abbondanza e delizia, commoventissime cose, ne credessero ogni luogo più acconcio, degno degli Dei, com' era de’ mortali ; e li monti e le selve si ascrivessero a Pane, i prati e floridi luoghi alle ninfe, e le rive e le isole ai geuj marini, ed ogni altra parte ad un genio o a un Dio, come più couvenivagli. È fama che gli antichi immolassero a Crono umane vittime, come in Cartagine, ^ mentre esistè, come tra’ Celti, e come in mezzo di altri occidentali ; e che Ercole volendo precludere U barbarie di quel sacrificio, innalzasse l’ altare nel colle Saturnio, e facesse che vittime pure vi si ardessero con puro fuoco. E perchè que' popoli non sen corucciassero quasi spregiasse i patrj sacrifizj, è fama die gli ammonisse a placare l’ira di quel Nume; e piuttosto che gli uomini gettare nel Tevere legati nelle mani e ne’piedi, a gettarvi i simulacri loro, vestiti appunto com’ essi. Egli serbava una immagine degli antichi costumi, perchè si sterpasse alfine, quanta superstizione, ' restava ancora ne’ cuori. Conservavano i Romani tal pratica ancor ucl mio tempo, rlnovandola poco appresso all’equinozio di primavera nel mese di maggio nelle idi che chiamano, le quali vogliono che ricorrano il giorno aj>punto, cbe è il ipezzo del mese della luna. In questo il che linde > azieti, e bcDÌssiraa corrisponde alla parola Ialina di Saturno i e perh di sopra abbiamo usala il verbo saziata. Crono poi non h che il tempo ; cd il tempo lutto prepara, a di tallo ioruiicc ^li iiooiini col suo corso.  1 fiamapi Inp \nraa regolavano l’anuo sul corsa delia Urna,. DD i ponteGci, vale a dire i primi tra’ sacerdoti, come le vérgini, custodi del fuoco inestinguibile, i pretori, e gli altri che esser possono all’ opera santa, dopo avere compiuti secondo la legge il sagriGzio, gettano del ponte sublicio nel Tevere, trenta simulacri in forma umana Argei  nominati. Ma de’ sagriGzj e delle altre divine cerimonie^di Roma, nazionali o greche di maniere, diremo in altro libro ; richiedendo ora il subjetto che più riposatamente seguitiamo Ercole nella sua venuta in Italia, nè trasandiamo cosa da lui fattavi, degna di lode. ! XXX. E su questo Dio diconsi delle cose, quali più vere e quali più favolose : e cosi stanno le favolose. Ercole, oltre gli altri travagli, comandato da Eurisleo di condurgli da Eritea li bon di Gerione in Argo, tornando dalla impresa in sua casa, venne in molte parti d’ Italia e della terra degli Aborigeni, prossima ai Pallanteo. E trovandovi copioso e buon pascolo, vi addusse i bovi, ed egli, quasi stanco dalle fatiche, die desi al sonno. Intanto un ladro paesano, Caco di nome, capitò tra’ bovi, pascolanti senza custòde, e se ne in-' vaghi. Ben conobbe che Ercole si riposava ; ma vide che> nè puteali tutti involare occultamente, nè facile ne sarebbe la impresa. Quindi ne ascose pochi solamente ed il principio della nuora luna era principio insieme del nnoT mete. Di qui nasce che faceano combinare te idi di maggia cl plenilunio o col mezzo del mese lunare.  Queste figure erauo di giuoco: si chiamavano Argei, qnsai rappreseiilasscro tanti Argivi che si slarmioavann come nemici degli Arcadi. nell’ antro vicino, dov’ egli vivea, traendoveli via via retrogradi per la coda, perché vedendovisi le pedate contrarie all’ ingresso, potesse render vano ogni argomento sa di essi. Ma levatosi Ercole poco appresso, e numerati i suoi bovi ; come vide che ne mancavano, dubitò su le prime, ove fossero andati, e li cercò mano a a mano come erranti da’pascoli. Nè raggiungendoli ancora ; venne alla spelonca sebbene sconsigliatovi dalle pedate, niente meno pensando, quanto che ivi ne ritroverebbe il covile. Standone Caco dinanzi l’entrata, e richiestone, dicendo non averle vedute, nè volere che ivi più si cercassero ; anzi convocando clamorosamente i vicini, quasi patisse violenza dal forestiero ; Ercole, dubbioso in prima come istrigarsela, prende in fine a ' dirigere all’ antro ancor gli altri bovi. Ma non sì tosto quegli da entro sentirono la nota voce e 1’ odore, lasciarono verso gli altri di fnora un muggito, e fu quel muggito r accusatore del furto. Caco, vedutosi reo manifestamente, ricone alla forza convocando tutti i suoi compastori. Ecco Alcide investirlo colla clava, ed ucciderlo e sprigionarne i suoi bovi: poi vedendo, com’era la spelonca un refugio opportuno pe’ rubatori, la dirupò. Quindi, parificatosi con Tonde del fiume dalla strage, inalzò presso quel luogo a Giove ritrovatore un altare, ora visibile in Roma nella porta trigemina ; sacrificandovi un vitello al Nume onde ringraziarlo su’ bovi ricu-, perati. Roma porge ancora quel sacrificio, tutto con greci riti, come Ercole lo istituì. Gli Aborigeni e quegli Arcadi che abitavano il Pallanteo come seppero della morte di Caco, c mirarono Èrcole, nemici già del primo per le rapine, siu> pirano all’ aspetto del secondo, credendo non so che divino in lui per la grande avventura sua nella vittoria. I poveri tra loro spiccando ramnscelli di alloro, copioso in que’luoghi, ne coronarono Ercole e sè stessi ; ed accorrendo i loro monarchi lo invitarono ad ospizio. Come poi dal dir suo ne conobbero il nome, il lignaggio, e le imprese ; prolferivano a lui per benevolenza il i-egno e sé stessi. Ed Evandro che anticamente udito avea da Temide stessa, volere il destino che Erctde, il figlio di Giove e di Alcmena, cambiasse per la virtù la natura mortale colla immortale, appena ravvisò chi egli fosse, ansioso di prevenire tutti e di rendersi propizio l’eroe con gli onori de’ Numi, alzò di repente con assai cura un alure, sacrificandogli dove l' oracolo avea già significato, un giovenco, intatto ancora di giogo, e supplicandolo a ricevere da lui le primizie di un culto. Meravigliatosi Ercole delle accoglienze, tenne il popolo a convito, immolando parte de bovi, e separando per ciò le decime delle altre prede : poi donò a quei re che assai Io bramavano, molte delle terre de’ Liguri ^ e di altri confinanti, cacciando da esse alquanti ribaldi. Dicesi ancora che egli fe’ la ricerca, giacché i primi de’ paesani lo tenevano per un’ Iddio, che gli perpetuassero quegli onori, sagrificandogli ciascun anno un giovenco non domo, e santificandone l’azione con greche cerimonie : e dicesi che insegnasse queste a due famiglie le più riguardevoli perchè vittime in tutto accette gli si offerissero: essere poi quelle de’Potizj e dei Pinarj, le famiglie allora istruite del greco rito, e le loro generaziout aver lungo tempo continuata la cam de’ sagriiìzj, come v’ erano da colui depuute : talché i Potizj erano i capi nella santa operazione, ed aveano le primizie al bruciarsi delle vittime; laddove i Pinarj non ammetteansi a parte delle viscere, e teneano sempre i secondi onori nelle cose comuni ad ambedue. E cagione a questi della onorificenza minore fu la tardanza loro nel presentarsi; giacché comandati di venire sul far del mattino, giunsero essendo già consumate le viscere. Ora r incarico del santo ministero non è più de’ posteri loro: ma di servi comperali dal pubblico. Dirò poi nel suo luogo le cause per le quali il costume fu varialo, e le significazioni del Dio quando i santi ministri si permutarono. L’ara ov’ Ercole offerì le sue decime, chiamasi Massima da’ Romani, e trovasi presso al foro detto boario, veneratissima, quanto altra mai, da’ paesani : imperocché su questa fa patti e giuramenti chiunque vuole stabilità negli accordi ; e su questa si offrono spesso ancora le decime a compimento de’ voti. Nondimeno un tale altare nelle fattezze è minore della sua gloria. Vi ha de’ tempj di questo Nume altrove ancora in più luoghi d’ Italia ; e gli'altari ne sono per le città e per le strade: e diffìcilmente trovcrebbesi una popolazione che non lo adorasse. E questo ci tramandan le favole intorno di Ercole.  Il testo ove DioDÌp spiegava tali cose è perito. Potrà vederseue ciocché ne scrive Livio oel libro nouo. Egli dice occorsa la mutaiioDc quando Appio Claudio esercitava le funxinni di censore. Allora in un anno perirono dei Potizj trenta tnaschj abili a rinovaro le famiglie, a cosi la stirpe virile corse al suo termine. Ma il più vero è quest’ altro : e molti die scrissero le imprese di lui, cosi nella storia lo delincarono. Ercole divenuto potentissimo in arme tra tutti dei suo tempo, e postosi con esercito numeroso scorse tutta la terra cinta dall’ Oceano, levando, se ce ne aveano, qualunque tirannide, grave e molesta ai sudditi, e qualunque impero di città contumelioso e nocevole agli altri vicini colla condotta dura e colle uccisioni ingiuste degli ospiti, e stabilendo monarchi onesti, governi savj, c costumi socievoli ed umani. Scorse ancora tra’ Greci e tra’barbari, neirinterno de’ mari e delle terre, in mezzo popoli infidi, intrattabili : fondò città .su luoghi deserti, diresse fiumi che inondavano i campi, aprì vie su monti impraticabili, e mille cose fece onde i mari tutti e le terre si comunicassero ogni vantaggio. Giunse finalmente in Italia ma non già solo, nè con mandre di bovi ; perocché non è questa regione in senti‘o per chi viene dalle Spagne in Argo, nè conseguito ci avrebbe tanti onori per causa di un passaggio. Egli vi giungea dalle Spagne conquistate, ma con esercito amplissimo per sottoporsela, e dominarvi. Se non che fu costretto a consumarvi gran tempo, e perchè lontana era la sua fiotta, stanti le bnrrasche ree dell’ inverno, e perchè le genti d’ Italia, non tutte spontanee gli si abbassavano. E per non dire di altri barbari, i Liguri, popolo numeroso e guerriero, posto ne’ passi delle Alpi, tentarono d’impedirgli colle arme 1’ ingresso nella Italia, e là s’ ebbero i Greci battaglia fierissima, esaurendovi tutti gli strali. Eschilo, poeta antichissimo, menziona questa battaglia nel suo Prometeo disciolto. Ivi inducesi Prometeo (he presagisce ad Ercole non che le altre vicende, quelle che gli sovrastavano nella spedizione contro di Gerione, e nella guerra co’ Liguri, certamente non focile : e questi ne sono li versi : À fronte là de" Liguri starai. Imperterrita gente : onta e rammarco Non ti fa guerreggiarli, e per destino, Pugnanda, ti vedrai mancar gli strali. Ma poiché, vincendo, s’ impadronì di quei passi ; alcuni, specialmente se greci di origine, o non valevoli a resistere, sottomisero volontai^' le loro città ; ma i più vi furono astretti con le arme e con gli assedj. Quanto ai vinti in battaglia, dicesi che Caco, quel si noto per le favole de’ Romani, barbaro principe di barbara gente, gli si opponesse perchè dominava luoghi assai forti, il che lo rendeva molesto ancora ai vicini. Costui poiché seppe che Ercole si accampava ne’ piani contigui apparecchiatosi all’ uso de’ ladroni, appari con subita scorreria su 1' esercito di lui che dormiva, e ne involò le prede, quante ne erano senza guardia. i Ma rinchiuso poscia per assedio da’ Greci che ne espugnavano le fortezze, finalmente anch’ egli soggiacque, e nel mezzo de’ suoi baluardi. 1 suoi castelli furono rovesciati; ed i compagni di Ercole, Evandro con gli Arcadi,. c Fauno con gli Aborigeni suoi pigliarono ciascuno per  Eboliìlo sdisse il suo Proiueleo ignìfera, il suo Promeleo legato, ed il Prometeo seioUo. Strabono nel lib. i, Ateneo nel 14 liarlarono dell’ ultimo. Il secondo ci resta ancora.  I.' 6l 9Ò parte delle terre del vinto. Ma ben può taluno immagnare che i Greci rimasti in quella regione furono gli Epei, e gli Arcadi originar) della città di Feneo, e li Trojani, lasciativi a presidiarla. Perocché tra le arti imperiali di Ercole fu pur quella nommeno sorprendente che le altre, di sospingere tra le sue milizie uomini divelti a forza dalle città conquistate, e di metterli alfine, se animosi combattessero, ad abitare le terre invase, arricchendoli dell’ altrui. Per tali cagioni, e non per II viaggio che niente area di rispettabile, il nome e la fama di Ercole divenne grandissima nell’ Italia. Aggiungono alcuni, che ne’ luoghi ora abitati ^a’Komani egli vi lasciasse due suoi figliuoli gen^ retigli da due donne. Pallente era 1’ uno natogli da Launa  la figlia di Evandro: Latino è l’altro, natogli da una donzella boreale. Egli la conduceva seco dataci dal padre in ostaggio, e custodivaia finché candida si maritasse ; navigando però verso 1’ Italia ne fu vinto dall’ amore, e la fecondò. Ma essendo egli ornai per tornarsene in Argo concedè che si restasse sposa di F anno, re degli Aborigeni ; e per tale cagione molti tengono Latino per figlio di Fauno, e non di Elrcole. Narrano che PaUante morisse nel fiore primo degli anni: ma che Latino, adulto fatto, succedesse al comando degli Aborigeni : e che venuto lui meno senza stirpe virile, il regno, per la battaglia co’Rutòli confinanti, restasse al figlio di Anchise, vale a dire ad Enea, che  Quesu nel S Zini, precedeatemente è chiamata Canna, ed ora  chiama Launa. Forse non k che la tanto nota Lavinia detta da Greci Launa, Labina, Laiinia, o Laouinia.  iliveuae suo genero'; ma queste cose accaddero in altro tempo. Ercole, ordinate come volea, le cose tutte d’Italia, e giuntagli la flotta, salva dalle Spagne, ofTerl con sagrifizio agl’ Iddii le dècime delle sue prede, e là, dove alloggiavasi la milizia navale, eresse una piccola città, dandole il nome di sè stesso , la quale ora albergaci Romani, e giace tra Pompeiano e tra Napoli con porto sicurissimo per ogni tempo. Cosi divenuto tra gl’ Italiani simile ad un Dio per gloria, per emu> lazione, per onori, fece vela per la Sicilia. Gli uomini lasciali custodi ed abitatori dell’ Italia, là, d’ intorno al colle di Saturno, si ressero un tempo da sè stessi : ma non molto dopo compartendo i proprj costumi, le leggi, i santi riti agii Aborigeni, come già fecero gli Arcadi, e prima i Pelasgbi, divennero coudttadini degli Aborigeni, talché sembrarono in (ine una gente medesima. E questo sia dettò su la spedizione di Ercole nella Italia, e su quei del Peloponneso che vi restarono. Nella seconda generazione dopo la partenza di Ercole, nelr anno cinquautesimoquinto al più regnava su gli Aborigeni ornai da trentacinque anni Latino il Aglio di Fauno il discendente di quel magnanimo. In quel tempo i Trojani fuggendo con Enea da Ilio già debellata approdarono a Laurento, .spiaggia degli Aborigeni in sul mare Tirreno non lontano dalle bocche del Tevere. Ed avendo da’ paesani'uu luogo per abitarvi, c quanto chiedevano, alzarono poco  (^uMia citi à di Ercole, si crede dorè ora è la torre del Grt-cu nel gulfe di lungi dal mare in un colie uqa città cui chiamarono Lavinia. Ma da indi ’ a non molto, cedendo 1’ antico nome, ebbero quello di Latini dal re di que’ luoghi ; e levandosi da Lavinia insieme co’ terrazzani fondarono una città più grande, Alba denominata. Donde uscendo di tempo io tempo fabbricarono molte e molte delle città de’vecchj Latini, abitate in grandissima parte ancor di presente. Sedici generazioni 'dopo la presa di Troja spedironouna colonia nel Pallanteo, e nella Saturnia, dove già fabbricato avcano i Pelopounesj e gli Arcadi, e dove erano pur le reliquie di essi, e fecero che vi ^ abitasse. Allora cinto di mura il Pallanteo prese la prima volta la forma di una città. Allora ebbe il nome di Roma dal duce della colonia, io dico da Romolo, diciassettesimo tra’ posteri di Enea. Ma, perciocché gli scrittori, parte ignorano, e parte ricordano variamente quanto è della venuta di Enea nella Italia, non io vo' trattarne come di fuga, ma prendendo ciò dalle storie, almeno più accreditate de’ Greci e de’ Romani. Ora tali sono le cose narrate su quell’ argomento. Espugnato ilio da’ Greci .sia per l’ inganno del cavallo di legno, come è presso di Omero, sia pel tradimento degli Aulcnoridi, o per altra maniera, perirono in città la popolazione, e gli alleati, sorpresi ancora nelle camere loro ; sembrando che la sciagura gii assalisse, non guardandosene, tra la notte. Enea e con esso i Trojani venuti da Dardano c da Olrinio a soccorrere gl’lliesi, c quanti altri conobbero in tempo la sciagura, che era preso il basso della città, fuggendo a luoghi più forti di Pergamo occuparono il castello,  difeso da proprj muri, ove, come ia saldissima parte, erano le sante cose di Troja, e danaro in copia, insieme col fior dell’ esercito. Standosi colà respingevano chi tentava di espugnarveli; ma per la perizia ne’ sotterranei vi riceveano chi vi si riparava dalia città già pigliata. Così più furono quelli che ne scamparono, che non quelli che caddero prigionieri. Con tal metodo Enea conseguì che l' impeto col quale i nemici ovunque infuriavano, non comprendesse in un tempo ogni cosa. Poi calcolando nelle sue probabilità l’avvenire, siccome era impossibile conservare la città, perdutane già la più gran parte, si rivolse al partito di cedere le mura ai nemici, e di salvare almeno le persone, e le sante cose della patria, e quanto potea trasportarsi di danaro. Così deliberato, comandò che fanciulli, e donne, e vecchj, e quanti abbisognavano di pausa nel fuggire, s’ incamminassero intanto verso le cime dell’ Ida ; mentre ~gli Achei tra T ardore di espugnar la fortezza non curerebbero d’insegnire la moltitudine che levavasi dalla città: destinò parte di milizie in guardia di ehi si avviava perchè la fuga riuscisse più certa, e nello stato presente men dura; avvertendoli insieme che occupassero i luoghi più forti dell’ Ida. Intanto ( col resto dell’ esercito, ed era il più rilevante ) egli persistendo su le mura, teneavi dis’ ratti i nemici che le attaccavano, e rendeva meno disagiato lo scampo ai suoi, che sfilavano : se non che salendo poi Neptolemo co’ suoi la fortezza, e convocandovi d’ ogn’ intorno i Greci perchè lo ajutassero; Enea finalmente si ritirò. Spalancate le porte,. 6 !) deuominate perla fuga di tanti , anch’egli uscì per esse, ma in ordine di batiaglia tra quelli che gli restavano, portando su di ottime bighe il genitore, i patrj Dei, la sua donna, i figli, e quante v’ erano persone, o suppellettili più riguardevoli. Intanto gli Achei, presa di for/.a la città, spaziandosi intorno la preda, lasciavano ai fuggitivi grande comodità di salvarsi. Enea raggiungeva via via gli altri suoi, finché raccoltisi tutti in un corpo, occuparono i luoghi più forti deir Ida. Sopravvennero ivi ancora quelli che abitavano in Cardano ; perocché vedendo lanciarsi da Ilio fiamme copiose fuor dell' usato, abbandonarono tra la notte insieme la loro città, levatine gli altri, i quali partirono prima coti Elimo ed Egesto, avendosi apparecchiate delle navi. Poi vi giunse tutto il popolo della città di Ofrinio, e vi giunsero dalle altre città Trojane quanti aveansi cara la libertà, sicché in poco tempo la milizia vi divenne grandissima. Ora questi', fuggiti con Enea dal cader prigionieri, tenendosi in quei luoghi sperarono di rendersi dopo non molto alle patrie, appena i Greui via navigherebbero : ma i Greci sottomettendo Troja e le adjacenze, e devastandone le fortezze, apparecchiavansi a porre sotto giogo ì rifuggiti ancora ne’ monti. E mandando questi gli araldi perchè desistessero, nè li necessitassero alla guerra, si venne per le suppliche a trattative, e tali ne furono gli accordi. Enea e li suoi recandosi tjuanlQ  ni/Asf ^vyciéits, porle de' fu(;giiÌTÌ. s DIOAIGI t l. aveano salvalo nella fuga partissero in dato tempo dalla Traode, e consegnassero le fortezze : i Greci in apposito ovunque dominavano in mare ed in terra, vi procurassero la sicurezza à Trojani che viag~ giovano a norma de’ patti. Enea consentendo a lai leggi, anzi bonissime riputandole per le circostanze ; manda Ascaiiio il più grande de’ figli con banda di milizie per 10 più frigie, alla terra detta Dascilite ove ora è il lago uiscanio, perchè invitatovi da’ paesani a prendervi 11 comando. Ascanio andò, e vi stette ; ma non molto : perocché giugneudogli dalla Grecia Scamandrio e gli altri Ettoridi, rilasciativi da Necptolemo, egli guidandoli ne’ regni paterni, si rimise in Troja. E tanto è quello che si narra di Ascanio. Enea però com’ ebbe pronta la flotta, vj assunse gli altri figli, il padre, le cose auguste de’ Numi, e navigò su 1’ Ellesponto alla penisola vicina, chiamata Pallene, la quale giace dirim petto di Europia. Ivi un popolo ci avea, di Traci si, detto Cruseo, ma bellicoso e fidissimo tra quanti erano gli alleati de’ Trojani nella guerra. Tale è il racconto il più verisimile fatto da Ellanico, scrittore antichissimo, intorno la fuga di Enea 1  Nel teilo si legge: ZufUTns Europa: ciocebè ha prodotto degli equivoci: la vera lezione deve essere cioè di Europia la quale h regione della Macedonia che prende nn tal nome dal fiume Europo. Pailene talvolta è detta ancora città di Tracia, perchè li Traci vi comandarono. Del resto essa è pib distante che la Tracia a quelli che navigano dall’ Asia per 1’ Ellesponto. E Dionigi Den propriamente 1’ ha chiamala vicinissima per questi, essendo tale pinitesto la Tracia.  là dove tratta delle cose Trojane. Se ne hanno ancora degli altri e non simili in altre leggende, ma non si, come io penso, persuasivi. Decidane chi gli ode, come più vuole. Sofocle il tragico nel suo dramma su Lao coonte, esseudo già Troja in sul termine, rappresenta Enea che va con le sue robe in sull’ Ida, seguendo i voleri del padre Anchise, pieno dei ricordi di Venere, e mirando la distruzione ornai della patria ne’ freschi portenti avvenuti su’ figli di Laomedonte. E tali souo i versi di lui ma pronunziati da altra persona : £cco il fgliuol di tenere alle porte ; In dorso ha il padre, a cui di [bisso pende Cerulea veste dalle spalle, tocche Dalla folgore un tempo ; intorno intorno Gli fin turba i domestici, e le schiere Non si grande però, come tu pensi, De‘ Frigi, amanti d’ aver sede altrove. Menecrate di Zante fa saperci che Enea mise la patria nelle mani de’ Greci, tradendola per l’odio suo contro di Alessandro, e che gli Achei per tal merito gli con cederono che salvasse la sua casa. Egli comincia la sua storia dalla sepoltura di Achille in tal modo. Erano gli Achei liete afflizione, sembrando a sè stessi come privi del capo della milizia. Nondimeno ergendogli una tomba guerreggiavano di tutta lena ; finché Ti'P]a fu presa per tradimento di Enea. Quest’ uomo, perche spregiato da Alessando, ed escluso dagli onori  Piccolo dooo aozi nullo: raentte Enea aveva luLio questo, c più ancora, sema il iradìmento: yorrei dire che Meuecraie non è savio, uel tulio aluaeuo de’iUCt;outì, e quindi cUc poco stm da aiifudarsi. sacerdolali, rovesciò la reggia di Priamo, e divenne per tali opere come uno de' Greci. Altri però narrano eh’ Enea di quel tempo si trovava dove ferme si stavano le inavi trojane, ed altri che nella Frigia, speditovi da Priamo con soldatesca pe’ bisogni della guerra ; anzi evvi pure chi; assai piò favoleggia su la partenza di Enea : ma ne senta ognuno come vien persuaso. XL. Le vicende di lui dopo la partenza mettono più incertezza ancora in molti; perciocché taluni guidandolo in Tracia dicono che ivi compiesse la vita ; e tra questi sono Cefalone Gergitio, ed Egesippo il quale scrìsse intorno Pelleiie, antichi entrambi e rispettabili. Altri ripigliandolo dalla Tracia lo sieguono 6no all’ Arcadia ; e dicono che abitasse in Orcomeno di Arcadia, e nel luogo, che, sebbene entro terra, cangiossi in isola, per le paludi e pel fiume, che le colonie che ora chiamansi Cafie sursero per Enea e pe’ compagni, ma Gamie nominandosi allora da Capi trojano. Sono questi racconti di varj e di Aristo che scrisse le cose degli Arcadi. Novelleggiasi ancora eh’ Enea capitasse veramente in que’ luoghi, non però che in essi morisse, ma nell’ Italia : e ciò da molti attestali, come da Agatillo, Arcade poeta, nelle elegie scrivendo : Feline in Arcadia e generò nell’ isola Con le due donne Antèmone e Codone,  Due,/iglie ; e scorse nell' Italia, e quivi Del gran Romolo suo padre divenne. La venuta di Enea e de’ Trojani nella Italia la sostengono tutti i Romani ; e monumento ne sono le pratiche nelle feste e ne’ sagi'ifizj, i libri sibillini, gli oracoli Pitici, e ben altre cose, le quali niuno trascurerà, quasi aggiunte per ornamento. In Grecia ne restano tuttora molti indizj notissimi, come il porto nel quale approdarono, ed i luoghi ne’ quali si. trattennero, non essendo il mare navigabile. Siccome dunque sono tanti, io ne farò come posso menzione, ma breve. Primieramente dunque vennero in Tracia approdando alla penisola detta Pailene, tenuta, come indicai, da’ barbari chiamati Crusei, e v’ ebbero ospizio sicuro. Passando ivi r inverno edificarono in un promontorio un tempio a Venere, e fondarono la città di Enea, dove lascia rono quanti non poteano pe’ disagi più navigare, o quanti voleano rimanere, vivendovisi come nella patria. Questa durò fino al regno de’ successori di. Alessapdro, ma nel regno poi di Cassandro fu distrutta, quando sorse Tes.salonica : e gli Eneati e molti altri passarono alla nuova città., ; XLI. Salpando da Pailene vennero i Trojani a Deio, ove Anio signoreggiava. E, finché Deio fu popolata r e (lorida, molti erano gl’ indizj della venuta di • Enea, e de’ compagni nell’ isola. Dalla quale navigando a Citerà  aUra isola incontro del Peloponneso ’ vi edificarono un tempio a Venere. Da Citerà tornandosi al mare e trovando morto non lungi varono i Trojani con Eleno. Ottenuto l’ oracolo sulla nuova loro sede, offersero al Dio cose trojane, e tra queste crateri di bronzo, de’ quali alcuni manifestano ancora con iscrizioni antichissime gli oblatori : e quindi si ricondussero camminando quattro giorni alle navi. Intendesi la venuta de’ Trojani a Butrinlo da un colle ove accamparono, che ancora chiamasi Troja. Da Bu> trinto sospinti lido lido Gno al porto detto, dopo un tal fatto, di uincitise ed ora chiamato con nome men chia ro (a), eressero ancor ivi un tempio di Venere : e passarono il mar Ionio avendo per guida della navigazione molli, che volontari li seguitavano, e li quali menavano con sé Patrone da Turi con la sua genie ; ma li più di questi, giunta l’ armata nell’ Italia, tornaronsi alle patrie : rimasero però nella flotta Patrone ed alquanti de’ suoi mossi a far causa con Enea, nel cercar nuove sedi ; quantunque alcuni dicano che il domicilio mettessero in Alunzio di Sicilia. In memoria di tal beneGzio col volger del tempo i Romani donarono agli Acarnani Leucade ed Auaitorio, togliendole ai Corintii ; e permisero ad essi che lo bramavano, di rimettere ne’ pro Regia dirimpetto a Corfb dalla qnale è lontana 13 miglia. (a) Il Casaubono crede questo porto quello che da Tolomeo h chiamato Onchesmo, e da Strabone Oochismo ; il quale incontraTasi dopo Butriuto e Cassiope ( ora Januia ); crede che in principio si chiamasse di Anchise, poi di Anchesmo, o d^i Anchismo, e quindi men chiaramente, di Onchesmo, o di Oncbismo. Digilìzed by Google 7^ nm.LE antichità’ romane prj averi gli Oniadi, e di godere in comune con gli Etoli il frutto delle isole Ecliioadi. Calarono i compagni di Enea, ma non tutti in un luogo a terra ; approdando coi più delle navi al capo japigio, detto allora dei SalenUni ; e con le altre al lido, prossimo a quello cliiamato di Minerva nel quale Enea stesso sbarcò. Era questo sito ancora un promontorio ma con porto estivo denominato di Venere, appunto dopo quel giorno. Poi navigarono, quasi col piè sulla terra, fino allo stretto di Sicilia, lasciando, ovunque andavano, de’ monumenti, e tra questi là nel tempio di Giunone, la caraffa me fallica, la quale con antichissimo scritto manifesta 4I nome di Enea che porgevala in dono alla Diva. XLIII. Fattisi ornai vicini, eccoli nella Sicilia finalmente a Drepano, dir non saprei, se portativi per disegno di sbarcare, o se per le burrasche de’ venti, consuete in quel mare. Qui s’imbatterono coi compagni di Elimo e di Egesto fuggiti prima di loro da Troja. Favoriti questi da’ venti propizj e dalla sorte, nè gi'avati di molte bagaglio, erano in poco tempo approdati in Sicilia, e fabbricato aveano intorno al fiume Crimiso in una terra che i Sicani aveano amorevolmente ad essi ceduta, per essere Egeste nodrito già nella Sicilia e congiunto col sangue di loro per questo Caso. Uno dei maggiori suoi, famoso trojano, cadde nell’ ira di Laomedonte, e quel re pigliandolo, certo per una incolpazione, lo uccise, uccidendo nemmeno tutta la stirpe virile di lui perchè alfine non • sen vendicasse ; ma le vergini figlie giudicò bensì cosa non degna lo ucciderle, ma uon sicura nemmeno a permettersi che si accasassero. 73 eoa Trujani. Pertanto le diede a mercadanti con ordine che lontanissime le portassero. Or queste rimovendosi navigò con esse un cospicno garzone, il quale preso già dall’amore di una maritollasi, e trassela nella Sicilia; e là dimorandosi nacque di loro il fanciullo Egesle nominato. Apprese i costumi e la lingua del loco : infine morendogli i genitori, e dominando Priamo in Troja, brigossi per lo ritorno. E militò pur egli contro gli Achei ; ma prendendosi ornai la città, navigò di nuovo per la Sicilia, fuggendo con Elimo su tre navi, usate già da Achille quando saccheggiava la Troade, e poi da esso abbandonale perché  portn bello ^ o buono, ma nel codice Valicano ai La porto cattivo: il che varia la àeuicuta quali finge Nettuno che presagisca la grandezza avvenire li Enea, come de’ posteri, con tali maniere : Ifo, non i dubbio ; la virtù di Enea /leggerà li Troiani, e re^ranli Be’ figli i fgli, e chi verrà da loro. G^ncependo da ciò, che Omero conosciuto avesse che questi regnavano nella Frigia ; inventarono qnel ritorno di Enea, quasi fosse impossibile che abitando nella Italia dominassero genti trojaue. Eppure ben poteano comandare a Trojani già diretti nei viaggio e stabilitisi altrove: vi saranno forse altre cause per le quali diasi a vedere r inganno. XLY. Che se alcuni sien turbati da questo : che la tomba di Enea si dica e si additi in più luoghi, non potendo in più luoghi esser lui tumulato ; riflettano esser tal dubbio comune su molti uomini, specialmente su gli insigni per sorte, e vivuti sotto cielo ognor vario : e sappiano che una è 1’ urna che accoglie i loro cadaveri, ma molti tra le nazioni li monumenti per gratitudine sul bene che vi operarono, massimamente se tra quelle esistano stirpe o città che da essi provengano, o se lungo vi fecero ed amorevol soggiorno. Or tali appunto conosciamo che furono i casi che del nostro eroe si novelleggiano. Costui dopo aver operato che Ilio nelr esser preso non fosse totalmente distrutto, dopo aver operato che gli alleati si ritirassero salvi in Bebricia che chiamano; lasciò sovrano della Frigia 'Ascanio suo figlio, eresse in Pailene una città col nome di sé medesimo, maritò la figlia nell’ Arcadia, e fissò parte de’suoi nella Sicilia : e sembrando che segnalato avesse la sua dimora in più altre parti, beneficandovi ; ne acquistò la benevola propensione per la quale gli eroi quando cessano la vita dell' uomo si onorano, e con pompa di monumenti in più luoghi. £ veramente quali altre cause mai potrebbe alcuno ideare de’ monumenti di lui nell’ Italia ? Ma di ciò sarà detto nuovamente secondo che le materie de’ subjetti si dorran rischiarare. Che poi l’armata trojana non veleggiasse verso parti più remote di Europa, ne furono cagione gli oracoli, i quali prendéano compimento appunto in quei luoghi, e la divinità che tante volte avea rivelato, ciocché si volesse. Laonde approdati a Laurento alzarono le tende in sul lido. Ma stentandovi su le prime per la sete, perchè il luogo mancava di acque ; ecco vedonsi, ( dico ciò che ne udii tra’ paesani ) prorompere dalla terra spontanei rampolli di acque dolci, dalle quali fu tutto abbeverato 1’ esercito, ed irriguo ne divenne quel campo, scorrendo co’ rivoli loro dalle sorgenti fino a gettarsi nel mare. Ora però non si le acque abbondano che ne trascorrano, ma scarsissime, si restano in un cavo luogo, credute da’ paesani sacre al sole : e presso queste si additano due altari, trojani monumenti, rivolto r nno all’oriente l’altro all’occaso, ove favoleggiano che Enea facesse il primo sagrifizio in ringraziamento al Nume per le fonti che scaturirono. Poi sedutisi in terra per desinarvi, posero i cibi secondo molti su degli strati di appio come su le tavole ; ma secondo altri, per mondezza maggiore, li posero su focacce di farina : se non che finitisi i cibi apparecchiati, prima 1’ urto, indi r altro mangiava già 1’ appio o le focacce sottoposte ; quando com’ è fama, uno de’ Ggli, o certo della tenda slessa di Enea disse : oh ! Gn le tavole ci divoriamo. Destossi all’ udir ciò fra tutti un entusiasmo, uno strepito, come allora si compiessero i primi oracoli che riceverono : essendo già fatto ad essi un presagio, in Dodona secondo alcuni, o come altri dicono in Entra  nelle vicinanze dell’Ida ove sta la Sibilla, fatidica ninfa di que’luoghi. Questa annunziò loro che navigassero verso /’ occidente, finché giungevano in luogo, dove sarebbero mangiale le mense : e che prendessero, quando vedeano ciò verificaio, per guida un quadrupede, e dove stanco del viaggio sdrajavasi, ivi fondassero una città. Ricordevoli di quest’oracolo, chi per comando di Enea portava custoditi com’ erano i simulacri de’ Numi dalle uavi a luogo destinalo, e chi preparava basi ed altari per essi. Le donne accompagnavano le sante cose con ululati e con danze. InGne essendo già tutto pronto pei sacriGzio, i compagni di Enea stavano coronati intorno l’ altare.E già questi facevano de’ voti, quando la porca già pronta pel sagriGzio,gravida nè lontana dal parto, dibattendosi tra le mani de’ sacri ministri che la tenevano, fuggissene in parti più remote del mare. Enea concependo esser questa il quadrupede di cui 1’ oracolo signiGcò che sarebbe loro di guida le tiene dietro, non  Vi ebbero pià Lrilre ; I’ una in Beoiia l’altra in Tessaglia; (jui si parla della terza nella Jooia tra Llazomcns c Teon. Ma questa Krilra non era poi cosi vicina dell’ Ida : il che fa vedere che il testo non è puro abbastanza : seppure la idea di vicinanza non è qui relativa a distanze beo grandi. Digitized by Google  legni e cose di rustico apparecchio su le quali appariva che dolentissimo ne sarebbe chi ne era privato. In quel tempo Latino re guerreggiava co’ Rutoli, suoi vicini, ma con poca prosperità nelle battaglie. In tale suo stato gli annunziano, esagerando le imprese di Enea : che un esercito di forestieri gli devastava tutto il litlorale: che se non davasi presto a riutuzzarlo, avrebbe poi manifestamente guerra più aspra con essi, che non co’ vicini. Temè Latino a tal nuova, e ben tosto, sospesa la guerra presente, mosse con esercito poderoso contro a’ Trojani. Ma vedeudoli armali alla greca, intrepidi, in buon ordine, aspettare il cimento, si arrestò, difGdando di poterli sottomettere in un colpo, come avea già speralo nel moversi contro di essi. Ed accampatosi in un colle pensò che dovevaiuuanzi tutto ricrear le milizie dalla molta fatica, sostenuta nel lungo e coutinuo travaglio. Adunque ivi riposò quella notte; ma disegnò di lanciarsi al fare del giorno sul nemico. Fra tali risoluzioni un genio del loco venne a lui tra ’l sonno, e gl’ impose di ammettere i Greci che venivano a grande utilità di Latino, e bene comune degli Aborìgeni. Parimenti i Dei patrii, svelandosi tra la notte ad Enea, suggerivano che inducesse Latino a concedergli spontaneamente una sede nel luogo che bramava, e rendersi i Greci alleati, e non competitori nelle arme. Tal sogno contenne l’uno e r altro dal cominciar la battaglia. E non si tosto fu giorno, elle milizie mossero in campo; ecco gli araldi venire da ambe le parti ai capitani per chiedere un vicendevole parlamento; e si tenne. Latino il primo querelatosi della guerra improvisa e non intimata, chiedeva ad Enea che dicesse chi fosse, e con quale disegno invadeva e derubava que’ luoghi, non avendone mai ricevuto alcun danno, e non ignorando che gli assaliti rispingono gli autori della guerra. E laddove tutto esibivasi a lui se moderate ne erano le dimande, e potea rinvenire tutto nella cortesia degli abitanti ; egli violando la giustizia comune degli uomini, voile impudentemente anzi che da onorato, arrogarsi ogni cosa colla forza. Enea rispose : Noi siamo Trojani di lignaggio, e veniamo da una città non ignota affatto tra Greci. Essi espugnandola con gueira di dieci anni ce la tolsero ; ed ora vagabondi ci rigiriamo, sema città, senza regione, ove prendere sede finalmente. Siamo qui venuti seguendo i voleri de' Numi ; annunziandoci gli oracoli che que- ta è la tota terra che ci lascia come requie da tanti errori, Abbiam preso dalle wstre terre quanto ri era bisogno ; Noi provvedevamo anzi alla nostra infelicità che al decoro, lutto che non volessimo far cosa meno di questa, come novizj in tai luoghi. Ma ne daremo copiose e buone ricompense. Vi offeriamo i nostri corpi, le nostre anime, costumati ahbaslanza ai travagli. Comunque usar ne vogliale ; noi custodiremo come inviolabili le vostre tene, noi ci lanceremo ad acquistarvi quelle de' nemici. Noi vi supplichiamo che non ascriviate ad odio le cose operate; non avendole noi fatte per ingiuriarvi ma dalla necessità violentati; e ciò che non è volontario è pur degno di scusa. E se ora ce ne scusiamo, se ne imploriamo voi stendendovi le mani supplichevoli; già non si conviene che ci destiniate alcun male, Altrimente invocheremo gli Dei, invocheremo gli Genj di queste terre perchè ci condonino quanto abbiamo fatto o necessitati faremo. Noi tenteremo respingervi la guerra se ce la incominciate ; chè non è questa la prima nè la massima di quante ne abbiamo sostenute. Latino ciò udendo soggiunse : Io sono propenso inverso di tutti i Greci e mi struggono il cuore i mali necessarj degli uomini. E pregerei moltissimo di salvarvi se poteste mai farmi chiaro che qua venite bisognosi di una sede, per aver parte nelle nostre terre e su quanto vi sarà dato per amicizia, non per involarmi colle armi il comando. Se questo dir vostro è vero ; se ne dia, chiedo, la vostra fede e se ne riceva la nostra : e saranno queste le mallevadrici pure de' patii. Dtomet, Hmt r. s  L. Enea encomiò quel parlare ; e si giurarono tali patti tra i due popoli : Darebbero gli Aboiigeiti ai Trojani quanta terra volessero in qualunque parte del colle, dentro il giro di cinque miglia da questo. Li Trojani entrerebbero a parte della guerra che gli Aborigeni aveano tra le mani, e militerebbero con essi in qualunque altra li chiamerebbero. Farebbero in comune ambedue col senno e colla mano t utile vicendevole. Stabiliti tali patti, e confermatili con gli ostaggi, combatterono insieme contro le città dei Rutoli : e soggiogando in brevissimo tempo ogni cosa, presentaronsi ad ultimare la trojana città non compiuta, e tutti con un ardore vi fabbricavano. Enea le diè nome di Lavinia, come dicono i romani scrittori, dalla figlia di Latino, chiamata anch’ essa Lavinia; e secondo alcuni de' greci mitologi dalla figlia di Anio re tra Deliesi, Lavinia nominata ugualmente : perchè morendo questa nel primo costruirsi degli edifizj, e datale sepoltura appunto nello spazio dove Enea fabbricava , la città ne era il monumento. Dicesi che navigasse co’ Trojani conceduta dal padre alle istanze di Enea, come donna di senno e di profezie. È fama che i Trojani nel fabbricare Lavinia ne avessero questi segni. Accesosi jl fuoco da sè stesso in una valle, narrano che un lupo vi traesse colla bocca e gittassevi aride materie ; e che  si spiega per infermarsi, travagliarsi, quasi Dionigi dica che la donna fu sepolta dove infermava ; ma tal voce significa ancora fabbricare e rende il senso pib acconcio e concorde. Altronde non è facile che uno seppeliscasi nel luogo appunto o aiansa. o tenda dove si ammala. Digitized by Gopgle LIBKO I. 83 no’ aquila volaado, Vi eccitasse le (ìamtue col battere delb ale ; ma che una volpe in contrario si desse ad estinguerle colla coda, bagnatala iu un Hume : e die ora vincendo chi accendeva ed ora chi ammorzava, al> fine, prevalessero le due ale, partendosi la volpe senza che nulla più vi potesse: che Enea da quello spettacolo conchiudessc, come la colonia diverrebbe magniCca, meravigliosa, celeberrima ; darebbe il crescere di essa invidia ed affanno ai vicini ; ma ne vincerebbe ogni ostacolo, ricevendo dagl’ Idùii fortuna più potente dell’odio de’ mortali in combatterla. Questi sono i portenti famosi, nati colla città : e per memoria se ne custodiscono ancora da tempo antichissimo in mezzo al foro di Lavinia le immagini metalliche di quegli animali. LI. Poiché fu compiuta la città de’ Trojani entrò desiderio in tutti di giovarsi a vicenda ; e primi ne diedero r esempio i monarchi accomunando pe’ matriinonj il grado de paesani e de’ forestieri, e sposando Latino la sua figlia Lavinia ad Enea. Quindi presi ancor gli altri da brama eguale, dandosi in breve a gara 1’ uno all’altro leggi, costumi, sacrifici, congiungendosi in città di cure e di consorzio, e divenendone tutti un corpo e chiamandosene Latini dal re degli Aborigeni, osservarono con tal fermezza gli accordi, che uiun tempo mai più li divise. .Tali sono le genti che vennero e si congiunsero, e dalle quali è la stirpe de’ Romani, prima che si fondasse la città che otn gli alberga. Erano i primi gli Aborigeni, i quali cacciarono dalle proprie .sedi i Sicoli 4 greci antichissimi del Peloponneso, di quelli, io credo, spatriatisi con Eouotro dalle terre ora dette di Arcadia. erano secondi ì Pelasghi, usciti dal>' r Emonia, ora chiamata Tessaglia : ed erano terzi quei che vennero con Evandro nell’ Italia dalla città del Pallanteo. Si ebbero dopo questi gli Epei ed i Feneati del Peloponneso, militari di Ercole, a quali si mescolavano alquanti Trojani; e gli ultimi furono i Trojani scampati con Enea da Ilio, da Cardano e da altre loro città. LII. Che poi li Trojani ancora fossero Greci, principalmente di orìgine, usciti un tempo dal Peloponneso fu già detto da molti, ed io pure lo dirò brevemente: e cosi stà quel racconto. Atlante divenuto primo re dell Arcadia che ora chiamano, abitava intorno al monte detto Taumasio. Sette erano le figlie di questo ora trasferite, dicesi, nel cielo col nome di Plejadi. Giove sposandosi 1’ una di esse vi generò Giasone e Cardano: Glasoue si tenne celibe, ma Cardano sposò Crise la figlia di Palante, e gli nacquero Ideo e Cimante, i quali due regnarono nell’Arcadia, succedendo al trono di Atlante. Poscia avvenendo il gran diluvio in Arcadia ; i campi ne divennero paludosi, nò più coltivabili per lungo tempo. Gli uomini ridottisi ad abitare nei monti, e con scarsi viveri, consentendo ad una voce che le terre intorno non erano più bastanti a nutrirli, si divisero in due. Rimastisi gli uni nell’Arcadia crearono sovrano Cimante il figlio di Cardano > gli arltri partirono su gran flotta dal Peloponneso ; e direttisi in verso di Europia giunsero al golfo detto di Me lane, recandosi ad un isola della Tracia, non saprei se abitata allora o deserta, cui chiamarono Samo Tracia con nome composto dal duce e dal luogo, per essere questo nella Digilized by Google usno I. 85 Tracia, e Samone 1’ altro, figlio di Mercurio e di Rene, ninfa Gillenide. Ma non a lungo vi dimorarono ; cbé non era ivi una facile cosa la vita, avendosi a lot tare con terre ingrate e mare disastroso. Adunque lasciando un gruppo di loro nell’ isola, li più se ne mossero nuovamente inverso dell’ Asia sotto gli Auspicj di Bardano ; perocché Giasone era morto fulminato nell’ isola per avervi appetito il concubito con Cerere. Venuti al mare chiamato Ellesponto, e sbarcatine, abitarono la terra detta poi di Frigia. Ideo con la parte da lui retta della milizia di Bardano, abitò ne’ monti che • Idei si appellano da lui, ne’ quali ergendo un tempio alla madre degl’ Iddii v’ istituì misteri e sacrifici, durevoli ancora in tutta la Frigia: e Bardano nella Troade che dicono, fondandovi la città coi nome di sé medesimo, e ricevendone delle campagne da Teucro re, dal quale Teucria fu nominata la terra. Molti, tra’ quali Faiiodimo che scrisse delle antichità dell’ Attica, narrano che Teucro ancora passasse dall’ Attica nell’ Asia, e regnasse in sul popolo di Zipeta ; allegando su ciò molti argomenti. Quivi dominando egli campagna ampia p buona, ma non molto popolata, desiderò di vedere Bardano, e li Greci con esso venuti, si per avergli alleati nelle guerre co’ barbari, sì perchè la sua terra non giacesse deserta. LIU. Ora porta il subjetto eh’ espongasi da quali Enea discendesse : ed io ciò laro ; ma brevemente. Bardano morendogli Crise la figlia dL Fallante dalla quale avea due fanciulli, si sposò òon Batia la figlia di Teucro. Di lei nacqn^li Elrittooio, creduto tra’ mortali felidssif Digitized by Gopglc 86 dt:lle antichità’ eomane mo per lacloppia eredità della signoria paterna, come deli’ altra fondata dall’avo materno. Da Erittonio e de Callii’oe figlia di Scamandro nacque Troe dal quale ebbe nome la nazione. Da Troe e da Acalide fisiia di O Euniida sorse Assaraco : e da questo e da Glitodora figlia di Laomedonte ebbes! Capi. Poi questo e la ninfa, Kaide chiamata, generarono Anchise: e di Anchise e di Venere è figlio Enea. Cosi avrò dichiarato che i Troiani siano Greci di origine. LIV. Su 1’ epoca della fondazione di Lavinia scrivesi variamente : a me sembrano piò verisimiii quelli che r assegnano all’ anno secondo dopo la partenza da Troja. Imperocché Ilio fu preso nel fine della primavera, il giorno diciassettesimo prima del solstizio estivo, mancandovi otto giorni a compiersi il mese Targhilione secondo la cronologia di Atene: e dopo il solstizio rimaneanci venti giorni a terminare quel giro di anno. Pertanto nei trentasette giorni decorsi dopo quella presa io stimo che gli Achei provvedessero su le cose della città, che ricevessero le ambascerie di quelli che erano usciti, e giurassero dei patti con essi. Nell’ anno seguente e primo dopo la espugnazione, i Trojani salpando da quella terra circa l’ equinozio autunnale passarono 1’ Ellesponto: e portati nella Tracia ivi dimorarono quell’ inverno, rac^ cogliendo gli altri che giungevano ancora dalla fuga, e preparando la navigazione. Levandosi dalla Tracia in sul fare biella primavera tragittarono fino alla Sicilia dove riparatisi spirò intanto quell’ anno : ivi spesero il secondo inverno fabbricando città con gli Elimi. Ma divenuto il pela^ navigabile fecero vela dall’ isola, e Digitized by GoogieLIBRO I. 87 valicando il mare Tirreno vennero finalmente sul mezzo della estate a Laurento, spiaggia marittima degli Aborigeni, e presavi terra, vi fabbricarono Lavinia mentre compievano 1’ anno secondo dopo la invasione di Troja. Per tali detti sarà chiaro quanto io su ciò concepisco. LV. Enea fornendo la nuova città di tempj e di altri edifizj i più de’ quali persistevano ancora a’ miei giorni, alfine nell' anno seguente, terzo della sua emigrazione, regnò ma su’ Trojani solamente. Morendo però Latino nel quarto, ebbe anche il regno di questo si per 1’ affinità sua con esso, di cui Lavinia era la erede, si per essere lui già duce degli eserciti nella guerra coi vicini. Imperocché li Rutoli si erano di bel nuovo ribellati da Latino scegliendosi per capitano Turno un disertore di Latino, e cugino di Amata, regia moglie di lui. Questo giovine alle nozze di Lavinia comcciatosi dell’ affine suo che tenesse anzi cura degli esteri che de’ parenti, e sospinto da Amata e da altri, andò cM>lle milizie delle quali era capo, e si congiunse coi Rutoli. E mossasi per tali richiami la guerra perirono in battaglia vivissima Latino e Turno e molli altri ; trionfandone Enea. Da quell’ epoca ebbe questi lo scettro del suocero, e regnò dopo la morte di lui tre anni ancora ; ma nel quarto morì combattendo : perocché gli uscirono contro dalle loro città tutti in arme li Rutoli e Mezenzio re de’ Tirreni che per le sue regioni temeva, conturbato al vedere che la greca poteuza via via si ampliava. Si dié la battaglia, ma fortissima non lungi da Lavinia; soccombendone molti da ambe le parti, finché la notte sopravvenendo, divise gli eserciti. ENEA più non apparve ; e chi lo disse trasferito Ira’ Numi, chi perito nel fiume, presso cui fu la pugna. I Latini gli eressero un tempietto iscrivendolo : del Padre e Dio del loco il quale regge il corso del Jiume Numicio. Pur vi è chi dice edificato il tempio da Enea per An chise, morto P anno avanti tal guerra. L’ edifizio è non grande : ma tiene arbori ordinatamente intorno degne da vedersi. LVI. Passando Enea da questa vita, al più I’ anno settimo dopo la presa di Troja, assunse il comando su’ Latini Eurileone, quegli che. nella fuga intitolavasi Ascanio. Erano allora i Trojan! chiusi tra le mora, e la forza nemica ognora più spaventava ; nè bastavano i Latini a soccorrere gli assediati a Lavinia. Ascanio dun que il primo chiese pace e condizioni onorate ai ne mici : ma non giovando la inchiesta, fu costretto ren dersi pienamente, e finire la guerra come il vincitore ne giudicasse. Ma siccome il monarca de’ Tirreni oltre le tante cose intollerabili comandava come agli schiavi che si recasse ogni anno ai Tirreni quanto vino producerasi dalla campagna latina ; cosi per la ìndegnissi ma condizione Ascanio prima, e dopo lui li Trojani dichiararono co’ decreti loro sacro' a Giove ogni frutto della vite. E confortandosi gli uni gli altri ad imprendere da valentuomini, e chiamando i Numi a parte dei loro pericoli, si mossero di città ma tra notte non chiara per luna. E sopravvenendo improvvisamente, presero in un subito il campo nemico il più vicino alla città, riputato antemurale ancora delle altre milizie, perchè tenuto su luogo forte e difeso dal fiore de’ giovani tirreni, comandati da Lauso, figlio di Mezenzio, Intanto che questo luogo espugnavasi le soldatesche attendate nei piani vedendo la luce insolita, ed ascoltando le voci degli oppressi fuggirono ai monti. Ivi sorse fra loro paura e strepito grande qual suole tra schiere mosse di notte, che apprendano già già di essere assalite, ma nè ordinate uè provvedute abbastanza. I Latini all’ opposito poiché vinsero per assalto quel presidio, e conobbero lo scompiglio deir altra milizia, le furon sopra incalzando e trucidando : e questa non potea nemmeno sapere i suoi mali; non che pensasse ricorrere alla forza. Quindi confusi, incerti che fare chi s’ avvia tra .dirupi e ne soccombe, chi tra luoghi cavi ma senza esito, ed è preso. Li più non distinguendosi tra loro si trattarono ira le tenebre a vicenda come uemicì ; e ben fu la sciagi>ra micidialissima. Mezenzio occupato un colle con pochi, poiché vi seppe la morte del figlio, quanto esetcito gli fosse perito, ed in quai luoghi ora si fosse iin tempo in cui fu costrutta la città, signora al presente delle cose. Ma quali ne fossero i fondatori, con quali vicende recassero la colonia, o le fondassero la città, molti già lo narrarono, discordandone alcuni in più casi. Io sceglierò da' monumenti le cose più persuadevoli ; te quali sqn queste. LXYIl. Dopo che Amulio usurpò colla forza la reggia di Alba eliminando dagli onori paterni Numitore il fratello. più grande, scorse ad altre infamie col molto abuso dei diritti, macchinando all’ultimo distruggere la stirpe di Numitore per timore di subirne la vendetta, e per desideri^ di perpetuarsene il principato. E macchinando ciò da gran tempo, notò primieramente dove recavasi alla caccia Egeste il figlio già pubescente di Numitore, e, fattegli delle insidie nel meno visibile di que’luoghi, lo uccisse appunto che inseguiva le fiere, dando opera che si dicesse poi, che il giovine fu vittima de’ladroni. Ma tal voce artificiosa uon potè soffocare la verità che. lacevasi; perocché molli ebbero cuore di palesarla, con pericolo ancora. Ben conobbe Nunillore il successo ; ma tollerando con saviezza bonissima fìnse non conoscerlo per differirne i risentimenti a tempo meno pericoloso. Amulio tenendo la vicenda per occulta, fece ancora, che la figlia di IVumitore detta Rea secondo alcuni, e poscia Ilia quando fu matura per le nozze, si dedicasse al sacerdozio di Vesta perchè andando subito a marito noti partorisse un vindice della sua gente. Dee irenl’anni, e nommeuo rimanersi candida da cose maritali lina donzella messa alla cura del fuoco inestinguibile, o per altro religioso ministero serbato per legge alle sue pari. Compieva Amulio tutto ciò co’ bei nomi di onorare c distinguere il parentado : perchè non avevane egli introdotto la legge : anzi essendo già praticata non astringeva il fratello, sicché la prima volta esso tra’ nobili si valettse di quelli onori. E pregiavasi tra g]i Albani che le donzelle più nobili ministrassero a\^esia. Ben vedea Numitorc che il fratello non facea Ciò per amore del meglio: tuttavia non espresse l’ira sua, ma tacque profondamente ancora su questa ingiuria per .non esserne malmenato dal popolo. Dopo quattro anni Ilia recatasi al bosco sacro di Marte ad attingervi limpide acque pc’ sacriGzj vi fu violentala da uno, dicono, de’ giovani innamorato della donzella : o da Amulio non si per amori che per inganni, tutto in arme, e travisatosi quanto poteva, onde essere terribilissimo a vedere. Molli però novelleggiano che fu in persona il Nume del loco, acconciando a tal fatto varie circostanze divine, e che il sole se ne ascose.  I()3 e le tenebre si spnrsero in cielo. Essersi,la immagine di quel Dio presentata augusta più che la umana per la mole e per la bellezza. Aggiungono che colui che aveala violata ( e da ciò conchiudono che fosse un Iddio) dicesse alla fanciulla che si consolasse, non si affliggesse per la vicenda essere a lei fatte le cose de’matrimonj dall’ unirsele del genio del loco : ne partorirebbe due figli y potentissimi in arme. Narrano che, ciò dicendo, nna nuvola lo circondasse, e che spiccatosi di terra, si elevasse per 1’ aere. Non è poi questo il luogo, ma bastino i detti de’ filosofi, per discutere la sentenza da aversi su queste cose, cioè se debbano dispregiarsi come opere umane imputate agli Dei, la natura de’quali felice nè corruttibile non subisce niente d’ indegno ; o se debbano riceversene le narrazioni, perchè 1’ universo è un composto di tutte le sostanze, tra le quali haccene pure una intermedia tra la umana e divina, che ora mescendosi agli uomini, ora ai Numi, genera la stirpe degli eroi. La donzella dopo la violenza si diè per inferma : consigliatavi dalla madre per la sicurezza di lei, come per la riverenza de’ Numi : nè più andava alle sante cose,' ma se dovea porgervi l’ opera sua, supplivano le vergini, compagne nel ministero. LXIX. Amulio, sia che mosso dalla coscienza, sia che da’ concetti del verisimile, spiava attentissimo le ca gioni per le quali tcneasi tanto tempo lontana da’ riti divini. E mandò de’ medici su’ quali fidava moltissimo : ma pretestando le donne non essere un tal male da presentarsi ai maschj, mise la moglie sua per guardia della fanciulla. Ma non si tosto colei gli accusò la in(loie del male, conghietlurando da indizj muliebri, ignoti alle altre ; egli fe’ custodire co’ soldati la donzella: perchè il parto, ornai prossimo, non si occultasse. £ chiamando a collocjuio il fratello, disse la violazione recondita, dolendosi che i genitori vi stessero a parte con la fanciulla, e comandò che non tacessero, anzi pubblicassero il fatto. Asseriva Numitore eh’ egli udiva cosa incredibile: ma che egli era innocente in tutto, e chiedea tempo per chiarire la verità. £d ottenutolo a stento, poiché seppe dalla moglie la cosa come erale narrata in principio dalla fanciulla, gli riferì la violenza fatta dal Nume, e le cose dette su’ due gemelli, e dimandò che si prestasse fede a tanto, se da quel parto nasceane la ]>role cora’ era presagita dal Nume. Non essendo ornai lontano il parto ; egli non sarebbene deluso lungamente : intanto esibiva donne in custodia della figlia, nè ricusavasi a prova ninna. Acconsentivano quanti erano in parlamento: Amiilio però diceva che non aveaci punto di buono in que’ detti, e diedesi per ogni guisa a pci^ dere la lànciulla. Intanto presentansi gl’ incaricati per invigilare su quel parto, e narrano aver lei dato in luce due maschi. Insistè Numitore ben tosto in dimostrare che a'veaci. r opera del Nume, e richiedÈva che oltraggio non si facesse alla vergine incolpabile. Amulio nondimeno concepiva che ci avesse della cabala umana anche nel parto mer desimo, con essersi procurato 1’ uno de’ fanciulli da altra donua, ignorandolo o cooperandovi le custodi ; e molto su ciò fu disputato. Come i consiglieri videro che il re piegavasi ad ira inesorabile, sentenziarono aneh’ essi, com’ egli volea ; che si applicasse la legge, la quale ordina che uccidasi, battuta con verghe, la ver gine profanata nel corpo, e gettisi ciò che è nato da lei ndla corrente del fiume. Ora però le leggi per le sacre cose prescrivono che tali donne seppelliscansi vive. LXX. Fin qui la più parte degli scrittori narrano le cose medesime o con picciolo divario, altri seguendo più la favola, ed altri la verisimiglianza. Ben però discordano su ciò che vi rimane ; dicendo altri che la condannata fu tolta immantinente di mezzo, ed altri che serbata in carcere oscura fe’ nascere nel volgo la idea della occulta morte di lei. Scrivono che Amulio a ciò s’inducesse vinto dalla figlia supplichevole che chiedevagli in dono la cugina ; già nudrite insieme, e pari di età voleansi il bene di sorelle. Amulio che non avea se non quella figlia, gliela concedette ; nè più compiè la morte di Ilia, ma tennela rinchiusa, nè visibile; finché fu liberata col morir del medesimo. Cosi le antiche scritture discordano intorno di Ilia, ma tutte presentano un apparenza di vero ; e perciò ne ho fatta menzione. Chi legge intenderà da sè stesso quale sia più credibile. Quanto ai figli d’Ilia cosi scrive Fabio detto il Pittore, cui seguirono Lucio Cincio, Porcio Catone, Calpurnio Pisone, e la più degli storici.  Alcuni de’ ministri prendendo per comando di Amulio i fanciulli, posti in un cestello, ve li U'asportavano per gettarli nel fiume, lontano quasi cento venti stadii dalla città. Ma come vi si approssimarono e videro che il Tevere per le pioggie incessanti usciva dall’ alveo suo naturale in su i campi, discesero dalle cime del Pallanteo fino alle acque più vicine ; uè polendo avanzarsi più oltre, deposero il cestello appunto ove il fiume toccava, inondando le falde del monte. Ondeggiò quello alcun tempo ] ma poi ritirandosi la fiumana dalle parti più ester> ne, il vasello percosse in un sasso, e deviatone, travolse i fanciulli ^ che vagendo in sol fango si dimenavano. Quando apparendo una lupa, fresca di parto e gonfie le mammelle di latte ne porse i capi alle tenere bocche de’ medesimi, tergendoli via via colla lingua dal loto onde erano intrisi. Frattanto sopravvengono dei pastori che guidavano le greggi ai pascoli ; potendosi già per que’ luoghi camminare. Al vedere 1’ uno di essi come la bestia carezzava que’ pargoletti, restossi estatico per lo spavento e per la incredibilità dello spettacolo. Quindi ( perciocché non era col solo dire creduto ) andando, e raccogliendo quanti potea de’ vicini pastori, li con duce a mirare il portento. Approssimatisi questi, e vedendo come la bestia molcea que’ pargoletti, e come i pargoletti usavano colla bestia quasi colla madre, parvero a sé stsi presenti a celeste meraviglia : ma congregatisi e proceduti ancora più oltre tentarono col tuonare delle grida impaurire la lupa. E questa non incrudita affatto dal giungere degli uomini, ma quasi domestica fosse, ritirandosi passo passo da’ fanciulli, si levò ( mutoli restandone ) dalla vista de’ pastori, essendovi non lungi un luogo sacro, opaco per selva profonda, ove le fonti sgorgavano da pietre cave. Dicesi che quello fosse il bosco di Pane ; ed un allare’per lui vi sorgeva. In questo venne la fiera e si ascose. Ora il bosco non è più: ma ben additasi 1’ antro dal quale scorrevano le acque, in vicinanza del Pallanteo, lungo la via che mena al}  107 r Ippodromo ( 1 ) : scorgesi ivi prossimo un tempietto ov’ è j come effigie del fatto, una lupa che offre a due fànciullini le poppe ; metallico e di antico lavoro è quel monumento. Era questo luogo, com’ è fama, sacro per gli Ai'^ cadi che vi si accasarono con Evandro. Allontanatasi la fiera, i pastori presero i fanciulletti provvedendo che si allevassero appunto, come se volessero gli Dèi che si conservassero. Era tra questi un placido uomo, il capo de’ regj pastori, F austolo nominato, il quale trovavasi in città per alcun suo bisogno, nel tempo che lo stupro vi si riprendeva ed il parto d' Ilia.' Dopo ciò mentre erano que’ teneri putti portati al fiume, egli nel tornare ài Pallanteo, tenne per incontro divino la strada medesima di quelli che li portavano. E non dando vista di sapere principio alcuno del fatto, dimandò per sè que’ miserelli, e presili con voto comune, e recandoseli, venne alla moglie. E trovatala che avea partorito, e dolente, che il parto erale morto, la racconsolò, e le diede que’ fanciulli da sostituirsi ; contandole dalle origini la vicenda che li riguardava. Poi crescendo, chiamò r uno di essi Romolo e Remo 1’ altro. Fatti adulti / non somigliavano per la bellezza dell’ aspetto e della prudenza a pastore niuno di gregge immonde o di bovi, ma chiunque numerati li avrebbe tra’ regj figli, specialmente tra quelli creduti di generazione divina, come in Roma cantano ancora nelle patrie canzoni. Era la vita loro fra’ pastori, e col travaglio la sostenevano,  Cirro oTc -garrpgiavasi col corso Je’ cavalli.  fissando per lo più su’ monti e legni e canne in guisa che dessero in un tempo alloggio e tetto. Ed ancora nel lato che dal Pallanteo piegasi verso l’ Ippodromo V sopravanza 1’ uno di questi abituri, detto di Romolo > cui guardano come sacro, ma nulla vi aggiungono on-, de renderlo più venerando. Che se parte alcuna ne vi6a meno per anni o tempeste, la suppliscono, riparandola, quanto possono con simiglianza. Giunti a’ diciotto anni ebbero dispute su de’ pascoli co’ pastori di Numitore i quali tenevano i loro bovili sull’ Aventino, colle situato rimpetto del Pallanteo. Ricbiamavansi spesso gli uni su gli altri, che pascessero i campi non proprj, o soli si tenessero i campi comuni, o per cose altrettali, se ne avvenivano. Davansi per tali dissidj colpfdi mani e di armi ; e ricevendone da’ giovani assai li servi di Numitore, e perdendovi alcuni di loro, ed essendone esclusi a forza dalle campagne, cosi macchinarono. Disposero in valle occulta le insidie su’ giovani, e concordato con quei che le disponevano il tempo di eseguirle, gli altri intanto andarono in folla alle roandre de’ medesimi. Romolo di quel tempo crasi co’ paesani più riguardevoii recato alla città detta Genina per farvi a no^ me della comune i patrj sacrifizj. Avvedutosi Remo della incursione volò per la difesa, prendendo in un subito le armi, e li pochi venuti a lui per unirsegli dal villaggio. Non aspettarono quelli, ma fuggirono per tirarseli dietro, dove rivolgendosi a proposito gli assalissero. Ignaro della trama, seguitandoli Remo lungamente, si ingolfò nel luogo delle insidie ; e le insidie proruppero e li fuggitivi si rivolsero ; e circondando lui co’ seguaci. 1 09 e tempestando co’ sassi, gli arrestarono, com’ era il comando de’ loro padroni che volevano vivi que’ giovani nelle mani. Cosi 'fu Remo condotto prigioniero.Ma Elio Tuberone uomo grave, e ben cauto nel tessere le istorie scrìve : che avendo que’ di Numitore preveduto che i due garzoncelli erano per ofTerire a Pane ne’ lupercali 1’ arcade sagriGzio come era istituito da Evandro, tesero gli agguati pel tempo appunto del santo ministero, quando bisognava che I giovani, abitanti il Pallanteo, correswro dopo le oblazioni nudi per la terra, e velati solo nel sesso con le pelli recenti delle vittime. Era questo un tal rito patrio di espiazio^ ne, praticato ancora di presente. Standosi nel più angusto de’ sentieri i nemici a tempo per le insidie su quei facitori di sante cose, ecco venirsene ad essi la prima banda con Remo, seguitando più tarda 1’ altra con Romolo per essersi la gente loro divisa in tre masse, e distanze. Non aspettando quelli il giungere degli altri, dato un grido, uscirono in folla sa’ primi, e circondatili, gl’ investirono > chi con dardi e chi con sassi o con altro, comunque gli era alle mani. Sbalorditi questi dall’ inaspettato assalto, e mal sapendo che fare, inermi contro gli armati, furono assai facilmente arrestati. Con tal modo, o con quello tramandatoci da Fabio, divenuto Remo il prigioniero de’ nemici, fu tratto in Alba. Romolo, al conoscere le ingiurie sul fratello, pensò dover subito tenergli dietro col Bore de’ suoi pastori, quasi a ricuperarselo ancora tra via : ma ne fu distolto da Faustolo che vedea la insania del disegno. Era F austolo ancora tenuto come padre, avendo sempre occultato ai due garzoacelli i loro primi tempi, perchè non si mettessero di slancio a’ pericoli, prima della robustezza degli anni. Allora peiTò vinto dalla necessità rivela, solo a solo, a Romolo ogni cosa. E Romolo in udire tutta la sciagura che areali involti 6n dalla nascita, impietosito per la madre venne in grande ansietà verso di Nnmitore. E molto consultandosi con Faustolo conchiuse che doveva allora contenersi da ogni impeto ; sorgere poi con apparato più grande di forze a redimere la sua famiglia dalle ingiustizie di Amulio, e subire fin 1’ ultimo rischio in vista de’ grandi risultati, operando col padre della madre, quanto egli nc risolvesse. LXXII. Stabilito ciò per lo m^lio, Romolo convocando i paesani, e pregandoli a recarsi di subito in Alba, non però tutti io folla, nè ad una porta perchè non si eccitasse in città sospetto di loro, c a tenersi nel foro, pronti per eseguire, s’ incamminò per il primo verso di quella. Intanto quei che menavano Remo presentatolo ai regj tribunali, ve lo accusavano delle ingiurie, quante ne aveano da lui ricevute, e vi addita.vano le ferite dei loro protestando che abbandonerebbero tutte le manche, se non erano vendicati. Amulio volendo fare cosa grata alla moltitudine accorsa, come a Numitore, forse presente ad incolparlo per altri , volendo la tranquillità del paese, e stimando insieme sospetta la baldanza del giovane, imperterrito in sue parole ; lo ( i) Secondo Dionigi, Numitorc ignaro della condiziona di lìcmti, lo accusava a nome de’ suoi clienti.. Ili .condannò con rendere Numitore 1’ arbitro del castigo, e con dire che chi fa ree cose, non dee rintuzzarsene da altri quanto da chi le ha sostenute. Intanto che Remo era condotto con le mani addietro legate, ed erane vilipeso da’ pastori  che sei conducevano Numitore postoglisi appresso ne ammirava la bellezza delle forme che aveano molto del regio, e ne contemplava la nobiltà de’ sentimenti, che egli conservava in mezzo ancora a terribili cose, non volgendosi a far compassione nè importunando, come tutti fanno in simili casi, ma procedendo con silenzio maestoso al suo termine. Giunto in sua casa, Numitore fece che gli altri si ritirassero, ed egli, solo con solo, chiese a Remo chi fosse, e da quali parenti ; non potendo lui, : ootal giovine, essere da ignobile stirpe. E soggiungendo Remo quanto ne sapea dal suo nutritore., come dopo la nascita era stato esposto bambino nella selva col germano, gemello di lui, come raccolto da’ pastori fosse poi stato allevato ; colui, sospesone alcun tempo, alfine, sia che in ciò vedesse  vole sospettando che egli non pensasse come parlava, cosi rispose : I giovani, come è loro mestieri, vanno pasturando de' bovi pe' monti. Io men veniva in nome di essi cdla madre per dichiararle come stieno i loro fatti. Ma udendo come tu fai guardare questa donna, io dirigevami a supplicare la figlia tua perché a lei m' introducesse. E questo cestello, io recavalo meco per certificare i miei detti. Ora poiché tur sei fermo di ricondurre qua li garzoncelli, ne esulto ; e manda con me chi vuoi, che io dimostreroUi, perchè loro si annunzino gli ordini tuoi. Cosi dunque diceva per allontanare la morte de’ giovani, e sperando egli insieme fuggire da quelli che sei menavano, quando sarebbe ne’ monti. Amulio immantinente invia con esso i più fidi tra’ suoi militari, ordinando però segretamente che afferrino, e gli rechino quelli che il pastore dimostrerebbe. Intanto deliberò chiamare il fratello e farlo custodire, ma senza catene finché 1’ affare presente se gli acconciasse. Lo chiamò dunque ma in vista ben di altre cose. Mosso l’ araldo speditogli, dalla benevolenza e dalia compassione de’ mali di lui che pericolava non tacque i disegni di Amulio a Numitore : e questo manifestando a’ giovani l’ infortunio che pendeva su loro, e confortandoli a farla da valentuomini, -andò alla reg già tra le arme di clienti, di amici, e di non pochi servi fedeli ; e lasciato il mercato pel qual erano venuti in città, vi andarono ancora co’ pugnali sotto degli abiti i contadini, gente robustissima. £ forzando tutti con impeto comune l’ ingressa, non presidiato da molli,  I. I l5 bea tosto uccisero Amulio, e presero poi la fortezza. Cosi Fabio ne racconta su ciò. ' LXXV. Altri però giudicando non convenirsi punto di favoloso alla storia dicono inverisimile che la proje> zione de’ fanciulli non seguisse com’ era ordinata ; e dicono che l’amorevolezza della lupa che porge lemammelle ai fanciulli è piena di comiche incoerenze. Raccontano invece che Nnmitore al conoscere la gravidanza d’ Uia, ne tramutasse poi nel parto i figliuoletti, supplendovene altri nati di fresco ; e dandoli in fine ai custodi della parturieute, perchè al re li recassero. Sia che la fedeltà di questi fosse comperata con oro, sia che la sostituzione fosse compiuta per mezzo di femmine ; ad ogni modo Amulio prese ed uccise gli spurj; laddove i figli d’ llia cari più che ogni cosa a Numitore, furono da lui salvati, e consegnati a Faustolo. Asseriscono che un tal F austolo era un Arcade, originato da’ compagni di Evandro, alloggiato in sul Pallanteo colla cura degli armenti di Amulio ; e che condiscendesse di allevare i figli di Numitore, indottovi da Faustino , fratello sno, presidente de’ bestiami di ]Vnmitore i quali pascolavano per 1’ Aventino : essere stata la nudrice, la esibitrice delle poppe sue, non la lupa, ma com’^ verisimile la moglie di Faustino detta Laurenza, e Lupa con soprannome da quei del Pallanteo perchè prostituiva il suo corpo. Certamente era questo  Questo nome si legge Tariaroenle. Plutarco io Rumalo Io chiama PUiacino. Altri Io ha chiamalo Fausto: perchè tra Faustolo e Fausto siavi somiglianza come tra Romolo e Remo : ed altri con molla confusione lo chiama Faustolo come il fratello. il greco aatico ^ soprannome per le femmine le quali si vendono ne’ riti di amore, e le quali ora con più gentil nome, amiche si appellano. E quindi alcuni che ciò non sapevano ne tesserono la fàvola della Lupa, cosi chiamandosi quella bestia tra’ Latini. Aggiungono che i fanciulli slattati appena, filrono dagli aj loro mandati a Gabio città non lontana dal Pallanteo perchè vi prendessero greca istruzione ; e che nudriti colà presso gli ospiti di Faustolo Gno alla pubertà furono ammaestrati nelle lettere, nel canto, e nell’ uso greco delle armi ; che rivenendo poscia ai padri loro putativi brigaronsi co’ pastori di Numitore intorno de' pascoli comuni, e li percossero, e gli allontanarono colle greggie : essere tali cose state fatte col volere di Numitore perché si avesse un principio di ridami, ed una causa onde la turba de’ pastori in città si recasse : che dopo dò Numitore fe’ lamentanze contro di Amulio, quasi per grave danno e ruberie de’ pastori di lui ; dimandando che se egli non avead parte, gli desse nelle mani il porcajo, reo delia lite, e li Ggli di quello : che Amulio a rimuovere da sè quella. incolpazione, ordinasse a tutti gli accusati, ed a quanti si dicevano essere stati presenti al successo di comparire in giudizio per Numitore : che insieme concorrendo molti altri sul pretesto di quella causa, Numitore dicesse a’ nipoti quanta, sciagura gli avea perseguitali : e dimostrando^ lui che quella, se altra mai ve ne fu, quella appunto era 1’ ora della vendetta, iramautiuenle volarono colla turba de’ pastori all’ assalto. E queste sono le memorie su la origine e su la educaziouc de’ fondatori di Roma. Ecco poi le cose avvenute nella fondazione: ciò clic mi resta anche a scrivere, ed ora mi vi accingo. Poiché Numitore col morirsi di Amulio riebbe il principato ; spese breve tempo a riordinare su le antiche maniere la città, già premuta colla tirannide, e ben tosto fabbricandone un’ altra, meditava di crearvi anche un regno pe’ figli. Pareagli bello, essendosi il popolo suo troppo moltiplicato, levarne totalmente la parte almeno già sua contraria, per non più sospettarne. E comunicatosi co’ figli, ed essendone questi dilettati ; diè loro, perchè vi regnassero, le terre dove erano stali allevati, e la parte del popolo divenuta a lui sospetta, e disposta ancora per fare innovazioni, e quanti voleano spontaneamente mutar sede. Ci avca tra questi, come per una città che si mova, molti della plebe, e buon numero de’ più potenti, anzi pure dei Trojani reputati più nobili, de’ quali esistevano ancora a’ miei giorni, almeno cinquanta famiglie. Diede a’ giovani danaro, arme, frumento, schiavi, bestie pe’ trasporti, è quanto ricercasi per la fondazione di una città. Poiché questi ebbero cavato da Alba il popolo loro, aggregarono ad esso quanti rimaneano nel Pallanteo e nella Saturnia, e ne divisero tutta la massa in due parti. Sembrava loro che ciò desterebbe dell’ ardore nella gara di compiere più speditamente un lavoro ; quando fu causa del pessimo de’ mali, cioè di una sedizione. Imperocché celebrando le due parli il suo capo, ciascuna lo inalzava come il più idoneo al comando di tutti: al-tronde li due capi non più avendo una mente e non quella di fratelli, ma di soprastanti 1’ uno su 1’ altro, ornai non curavano 1’ eguaglianza, e moltissimo ambi'^ hivano. Celatasi fin qui, proruppe finalmente la loro ambizione per questo incontro. Non piaceva ugualmente a ciascun d'essi il luogo per fabbricarvi la città : vdleala Romolo sul Pallanteo per più cause, e per la prosperità del luogo, essendovi stati salvati e nudriti : ma sembrava a Remo da edificarsi nella sponda che ora da lui lìomoria si addi manda. Ben erane il luogo acconcio per una città, su di un colle non lontano dal Tevere, in distanza di circa trenta stadj da Roma. Da tal gara appalesaronsi ben tosto le voglie di soprastarsi; apparendo assai chiaro che qual, di essi prevaleva sulr altro dominerebbe ancora su tutti. Passato intanto alcun tempo, nè sceman. dosi punto il dissidio, parve ad ambedue da rimettersene all’ avo materno, e si recarono in Alba. E colui suggerì che lasciassero giudicare agli Dei, quale di loro due desse nome e comandi alia colonia. E predestinan do ad essi il giorno, ordinò che si trovasserò di buon mattino separatamente ciascuno nel luogo ove 'bramava porre la sede : e che sagrificandovi prima secondo le usanze agl’ Iddii vi osservassero gli uccelli propizj : e qudlo di loro due per cui sarebbero gli uccelli più fausti, quello comandasse la colonia. •! giovani lodato il consiglio partirono, e trovaronsi poi nel giorno decisivo, appunto come avevano convenuto. Prendeva Romolo gli augurj sui Pallanteo dove ujeditava fissare la  Pesto con altri colloca Komeria nelle cime dell’ Arentino : ma Dionigi sembra collocarla più lontana. Sarebbero mai state due queste Romnrie, o Remurie t colonia : ma Remo nel colle contiguo, detto Aventino, o Romoria, come altri raccontano. Erano con essi le guardie, perchè non permettessero che alcuno de’ due dicesse altre cose che le vedute. Postisi ambedue nei luoghi convenienti ; Romolo dopo un poco, per ansia, -e per invidia del fratello, e più che per invidia, per impulso forse di un qualche Nume, innanzi di avere osservato alcun segno, quasi il primo avesse veduto lo augurio lieto, spedi messaggeri al fratello, perchè a lui ne 'venisse prontamente. Ma non accellerandosi questi, perchè vergognosi di portare un inganno p intanto sei avvoltoi, volandogli a destra, apparirono a Remo. Era costui lietissimo delia veduta, ma dopo non molto gli inviati da Romolo, movendolo, sei menarono al Pallaa" teo. Dove giunti, Remo chiedeva da Romolo, quali uccelli avesse veduto : e dubitando Romolo come rispondere ; ecco dodici avvoltoi, propizj col volo gli si mostrarono. Inanimato al vederli disse, addiundoii a Remo: che cerchi tu s pel tempio, e per gli usi del comune. Tale era la partizione fatta da Romolo ne’ terreni e negli uo mini diretta alla massima eguaglianza comune. Vili. Ora dirò della partizione degli uomini per concedere privilegi ed onori secondo la dignità di ciascuno. Scevrò gli uomini cospicui per nascita, o lodati per virtù, o comodi secondo quel tempo per danaro, purché avessero prole, dagl’ ignobili, dagli abietti e dai bisognosi. E plebei nominò quelli di sorte deteriore, che il greco appellerebbe dimolici ; ma intitolò padri quei di fortuna migliore sia che per la età maggioreggiassero su gli altri, sia perchè avessero figli, sia per la chiarezza della prosapia, sia per tutte queste cagioni ; pigliando, come può congetturarsi, 1’ esempio dalla repubblica degli Ateniesi, quale esisteva in quel tempo. Imperocché questi chiamavano Eupatridi principalmente o patrizj li più distinti per nascita, e più potenti per danaro, a’ quali afQdavasi la cura della repubblica : e chiamavano agrici, o rustici gli altri che di niente eran arbitri sul comune: ma col volger degli anni furono ancor essi elevati agli onori. Per tali cagioni dicono gli scrittori più credibili delle cose romane che Padri fossero nominati que’ valentuomini, e patrizj i squadre de cavalieri erano divise in decurie come i chiaro da Varrooe e da Polibio.  li. i35 loro discendenti. Ma coloro che guardano 1’ affare con occhio d’ invidia, e malignano su le origini vili di Ror ma, non dicono che i patrizj avessero questo nome per tali cagioni, ma perchè soli potevano additare gli autori della loro generazione ; quasi gli altri non fossero che vagabondi, o senza liberi padri. E davano per sicuro argomento di ciò, che quando piaceva al re di convo> care i patrizj, gli araldi gl’ intimavano pel nome loro e per quello ancora de’ padri ; laddove pochi banditori invitavano alle adunanze i plebei rinfusamente col buccinare de’ corni da bove : ma nè la intimazione per mezzo di araldi è buon segno degl’ ingenui natali, nè il snon della buccina è simbolo della ignobilità de’plebei: ma la prima recavasi per onorificenza ; spandevasi l’altro per compendio ; non riuscendo invitare in poco tempo a nome tutta la moltitudine. IX. Poiché Romolo segregò li più degni dai men riguardevoli, ordinò per leggi le incombenze degli uni e degli altri. Adunque stabili che i patrizj intenti con esso alle cure pubbliche fossero i sacerdoti, i magistrati, i giudici, ma che li plebei, liberi da tali sollecitudini per la imperizia e per la penuria, lavorassero le terre, allevassero i bestiami, ed esercitassero le arti mercenarie, perchè non sorgesse fra loro sedizione, come in altre città, quando gli uomini di grado spregiano gli ignobili, o quando i vili c poveri invidiano la preminenza degli altri. Affidò, qual deposito, a’ patrizj i plebei, concedendo a ciascuno di questi di eleggersi liberamente tra quelli un patrono. Greca antica consuetudine era questa ritenuta lungamente da’ Tessali, e dagli Ateniesi  quando ancora conoscevano il meglio : ma poi declina rono al peggio, ed insolentirono su’ clienti; comandando loro cose non degne di uomini ingenui, minacciandoli di battiture se non ubbidivano, ed abusandoli con altre maniere, quasi schiavi comperatiGli Ateniesi chiamavano Thitas pe’ servigi che rendevano, i Clienti, ed i Tessali li chiamavano Ponesti  vituperandone fin col nome stesso la condizione. Ma Romolo fregiò con nome conveniente, chiamandola patronato, la garanzia de’ bisognosi e degl’ infimi : e date all’ uno ed all’ altro utili cure, ne rendè la congiunzione benevola veramente e cittadina. X. Le obbligazioni stabilite da lui sul patronato e conservatesi lungo tempo tra’ Romani erano queste: doveano i patrizj informare i clienti della legge che ignoravano, doveano prender cura di loro ugualmente, fossero o no presenti, e far su di essi come i padri su’ figli, quanto alla roba, ed ai contratti su la medesima ; movendo liti pe’ clienti se altri ne era danneggialo, su contratti, e subendola, se altri la moveano. E per dir molto in poco, doveano proctware. ad essi tutta la ti'anquillità della quale abbisognavano nelle cose domestiche e nelle pubbliche. I clienti a vicenda se i patroni scarseggiavano di beni doveano coadiuvarli, maritandosene le figlie : doveano riscattarli da’ nemici se alcuno di essi  Diouigi qui paragona i clienii Romani, i TMti drgli Ateniesi ed i Penesti dei Tessali : ma i Thili erano almeno liberi, e servivano per la miseria o pe' debiti. 1 Penesù dei Tessali erano un intermedio tra gli schiavi e gli uomini liberi. Non era cosi de’ c.ieuti Romani. Questi non di raro parteggiavano o superavano la fortuna dc'pauoui.  ir. 187 o de’ figli rtmaDeva prigioniero : pagare del proprio per loro non a titolo di prestito, ma di gratitudine le liù perdute, e le pubbliche multe tassate in moneta : e concorrere quasi ne spettassero alle famiglie, nelle spese di essi per le magistrature, per gli onori, e per le altre pubbliche dimostrazioni. Quanto ad ambedue poi non era lecito o giusto pe’ clienti o patroni che gli uni accusassero gli altri ; che si dessero testimonianze e voti contrari ; o si lasciassero cercare gli uni per nemici degli altri. E se alcuno era convinto di aver fatto l’opposito, soggiaceva alle leggi di tradigione promulgate da Romolo : ed era per chiunque santa cosa lo ucciderlo, come vittima a Dite ; costumando i Romani di consagrare agl’Iddj, spezialmente infernali, le persone alle quali volevano impunemente dare la morte, come fece allora anche Romolo. Adunque perseverarono per molto tempo tramandandosi da figlio Jn figlio le congiunzioni dei patroni e dei clienti, senza che niente differissero dai ligami strettissimi di parentela. Ed era gran lode per uomini d’ inclita stirpe aver clienti in più numero, custodendo i patrocini lasciati loro dagli antenati, ed acquistandone altri ancora colla propria virtù. E meravigliosa era la gara di ambedue per non lasciarsi vincere gli uni dagli altri nella benevolenza ; proferendosi li clienti a far quanto potevano verso de’ patroni ; nè volendo i patrizi dar loro molestia con riceverne danari in dono. Così era tra loro il vivere condito con ogni diletto ; e. la virtù non la sorte era la misura della felicità. XI. Non solamente poi vivea sotto l’ ombra de’ patrizi i38 la plebe di Roma; ma quella delle colonie di lei, quella delle città confederate ed amiche, e quella ancora delie conquistate colle armi tenevasi per custode e protettore qual più voleva de' Romani. E più volte il senato rimettendo ai protettori le controversie di città e di nazioni confermò le sentenze date da essi. Anzi era tanta la concordia de’ Romani cominciando dall’ ora che Romolo ne fondava i costumi, che mai per secento venti anni tumultuarono con stragi e sangue, sebbene nasces sero intorno del comune molte e gravi dispute tra la plebe e li magistrati, come nascono in tutte le città, picciole o popolose : ma illuminandosi, e persuadendosi a vicenda, e parte concedendo, parte ottenendo racchetavano le interne dissensioni. Dacché però Cajo Gracco, divenuto tribuno, sconvolse 1’ armonia della città, non cessano dal sopraffarsi colle stragi e con gli esilj ; nè risparmiano misfatto per vincersi. Ma per dir tanti mali avrem poi luogo più acconcio. XII. Ordinate tali cose, ben tosto Romolo deliberò di creare i consiglieri co’ quali dividere le pubbliche cure, e trascelse cento de’ patrizj cosi facendone la separazione. Prima nominò fra tutti il più idoneo, a cui si afBdasse lo stato, quando egli coll’ esercito uscirebbene dai confini. Quindi prescrisse a ciascuna tribù di scegliersi tre uomini, savissimi per età come insigni per nascita. Fissati questi nove impose ancora che ciascuna delle curie eleggesse tre li più opportuni fra li patrizj. Infine unendo ai primi nove dichiarati dalle tribù li novanta determinati col voto delle curie, e facendo presidente di tutti quell’unico prescelto da lui ; compiè la serie di cento consiglieri. Potrebbe il consesso di pesti signiBcare tra’ Greci un senato, e con tal nome chiamasi appunto tra’ Romani. Nè io saprei deGnire se un tal nome se lo acquistasse per la età senile, o per la virtù dei membri che vi furono incorporati. Certo solcano gli antichi dir seniori i più maturi negli anni e nelle opere. Quanti ebbero luogo in senato furono chiamati e si chiamano ancora Padri Coscritti. Greca isti-tuzione era questa : perocché quanti regnavano, sia pei^ chè succeduti a’ diritti paterni, sia perchè nominati capi dalla moltitudine, aveano un consiglio di ottimi uomini, come attestalo Omero, e poeti antichissimi : nè le monarchie primitive de’ principi erano, come ora, assolute, e Gsse agli arbitrj di un solo. XIII. Ordinato il consiglio de’ cento seniori, vedendo che egli avea bisogno di una gioventù regolata da usarla in guardia del corpo suo, come per incumbenze di affari pressanti, unì trecento i più robusti delle più insigni famiglie. Le curie nominarono ciascuna dieci di questi giovani come aveano nominato li senatori ; ed egli tenea sempre con sè tali uomini. E tutti, panti erano stabiliti in quella schiera, aveano il nome di Celeri, come dai più si scrive, per la speditezza ne’ loro servizj ; chiamandosi Celeri dai Romani gli uomini pronti e spedili nell’ operare. Ma Valerio Anziate dice che lo derivarono dal duce loro, Celere nominato. Era un tal duce riguardevolissimo nel suo grado ; ed a lui ubbidivano tre centurioni, ed a’ centurioni altri capitani minori. Questi lo accompagnavano per la città colle aste, pronù ai suoi cenni: ma nel campo erano propugnatori e custodi : e spesso dirigevano a buon fine ia battaglia,primi a cominciarla, ed ultimi a levarsene. Combattevano, dove il luogo consenti vaio, a. cavallo; ma appiè, dove era aspro, nè proprio da cavalcarvi. Sembrami cbe un tal uso lo derivasse da’Lacedemoni coll’intendere die tra quelli vegliavano alla custodia dei re, e li proteggevano nelle guerre giovani generosissimi, buoni per militare a cavallo ed appiede. XIV. Composte in tal modo le cose, comparti gli onori ed i poteri cbe volevano in ciascuno ; prescegliendone tali primizie pe’ monarchi. Volle dunque cbe avesse il -re primieramente la presidenza de’ templi e de’ sagrifizj, e che tutte per lui si compiessero le sante cose in verso de’ Numi : cbe fosse il custode delle leggi e dei patrj costumi: che avesse cura dei diritti provenienti dalla natura o dai patti : che esso giudicasse delle ingiustizie capitali ; ma rimettesse il giudizio su le altre ai senatori, e provvedesse che niente si peccasse ne’ tribunali: cannasse il Senato, convocasse il popolo, e primo vi dicesse il parer suo, ma seguitasse quello dei più. Tali sono le prerogative che egli riservò pe’ monarchi, oltre quella di un comando indipendente nelle guerre. Al consesso poi de’ senatori attribuì questi onori, e questa autorità : cioè, che esaminassero le cose che il re proporrebbe, e ne votassero, ma vi prevalesse la sentenza dei più. Trasse quest’ uso ancora da' Lacedemoni : perciocché li re de’ Lacedemoni non si preponderavano da fare a lor modo, ma l’ autorità su-t prema terminavasi nel senato. Lasciò da ultimo al popolo il potere di eleggere i magistrali, di appro-, l4l Tare le leggi e discutere intorno la guerra quando al re ne paresse, non però deOnitivamcnte se contrario tosse il senato. Il popolo dava i sufTragj non tutto in un corpo, ma convocato per curie ; e riferivasi poscia al senato ciocché le più sentenziavano. Ora cangiata è la consuetudine ; imperocché non è il senato che ratifica le sentenze del popolo ; ma il popolo è 1’ arbitro delle sentenze, del senato. Io lascio, che chi vuole esamini quale di queste due consuetudini sia la migliore. Con tali scompartimenti le cose civili prendeano marcia savia e regolata, e le militari altresì la prendeano docile e pronta. Imperocché quando fosse piaciuto al re di muover l’ esercito, non aveansi a creare i tribuni dalle tribù, nè li centurioni dalle centurie, nè li maestri dai cavalieri ; nè restava àd alcuno di essere coscritto, o scelto, o di ricevere il posto che gli conveniva. Ma il re intimava i tribuni, e li tribuni i centurioni. All’ avviso di questi ciascuno dei decurioni cavava i soldati, subordinati a sé stesso. Così per un solo comando la milizia, secondo che era chiamata, in parte o del tutto, presentavasi colle arme al luogo destinato. Xy. Romolo abilitando la città pienamente per la pace e per la guerra con tali istituzioni, la rendè con esse grande e popolosa : obbligò primieramente gli abitanti ad allevare tutta la prole virile, e le primogenite delle femmine, con ordine che non uccidessero niun infante più recente di tre anni, se pure non era storpio, o mostruoso fin dalia nascita. Tali sconci bambini non proibì che via si esponessero, se presentatigli a cinque uomini dei più vicini, vi consentissero. E per chi vioDigitized by Google i43 delle Antichità’ romane lasse questa legge stabili fra le altre pene la con6sca di una metà delle loro sostanze. Considerando poi che molle delle città d’ Italia erano miseramente premute dalla tirannide di uno o di pochi; procurò di ricevere e di tirare a sè li tanti che ^ne fuggivano, purché fossero liberi, senza esaminarne i pregiudizi, o la sorte, e tutto per ampliare la potenza romana, e diminuire quella de’ vicini. Adunque fe’ ciò cogliendone una bella occasione su le apparenze di onorare gl’ Iddi!. Fondatovi un tempio, non saprei deci ferace a quale de’ Numi, o dei genj, dichiarò come asilo per chi ricorrevaci il luogo tra ’l Campidoglio e la fortezza, ora detto nell’ idioma de’ Romani il basso tra le due selve, e nominato allora cosi, per essere quinci e quindi coperto dalle ombre delle piante amplissime delle terre contigue ai due colli. Inoltre per la riverenza de’ Numi, promise a chi rifuggivasi al santo luogo che non ci avrebbe molestie dai nemici, anzi, che se voleva albergare presso di lui, parteciperebbe ai diritti sociali, ed alle terre che leverebbe altrui guerreggiando. Pertanto vi si affollavano d’ ogn’ intorno uomini che fuggivano i mali domestici ; nè altrove poi si trasferivano allettati dai colloquj, e dalle cortesi maniere di lui. XVI. La terza istituzione di Romolo, degna soprattutto che i Greci la osservassero, e certo la migliore, come io penso di tutte, la quale fu principio della libertà stabile de’ Romani, nè poco contribuì per la formazione dell’ impero, la terza istituzione fu di non uccidere tutta la pubertà delie città debellate, nè di ridurre queste come terre da pascervi, ma di mandare \ li: 1 43 in esse chi se ne avesse in parte i campi, e di renderle, quando erano vinte, colonie de’ Romani, e talvolta ancora di ammetterle ai diritti stessi di Roma. Introducendo queste e simili pratiche fe' grande la colonia sua di picciola, come la cosa stessa dichiaralo. Imperocché quelli che fondarono Roma con esso, erano non più che tremila fanti nè meno che trecento cavalieri ; laddove quando egli spari dagli uomini vi lasciò quarantaseimila fanti, e poco meno che mille cavalieri. Ma se egli basò tali regole, le custodirono poscia i re die gli succederono, e dopo i re li magistrali che pigliavano di anno in anno il comando, aggiungendone altre per modo, che il popolo romano trovasi non inferiore a niuno tra quanti sembrano i più numerosi. XVII. Ora paragonando con questi i Greci costumi, non so come lodare le pratiche de’ Lacedemoni, dei Tebani, e degli Ateniesi che tanto pregiano sé stessi per sapere. Essi gelosi troppo dell’ incorrotto loro lignaggio, non comunicarono se non a pochi i diritti della propria repubblica, per non dire che taluni ripudiavano anche gli ospiti. Da tale arroganza però non solo non raccolsero alcun bene, ma gravissimamente ne scapitarono. Cosi gli Spartani battuti nella pugna di Leuttra con perdervi mille settecento de’ suoi : non solo non poterono mai più rilevarsi da quel danno, ma deposero turpemente il comando : e cosi li Tebani, e gli Ateniesi per la sola sconfitta riportata in Cberonea furono in un tempo spogliati da’ Macedoni e della preminenza su la Grecia, e della libertà. Ma Roma, brigata in guerre gravissime nella Spagna e nella Italia, brigata a i44  ricuperare la Sicilia e la Sardegna che le si erano ribel-' late, quando ardevano tutte in arme contro lei la Grecia e la Macedonia, quando Cartagine eie varasi novamente a disputarle il comando, quando l’ Italia, non che essere quasi tutta in rivolta, trae vale addosso la guerra detta di Annibaie ; Roma in mezzo a tanti pericoli, quasi contemporanei, non solo non si abbattè ; ma ne raccolse forze maggiori che dianzi, proporzionandosi fino per contrapporle a tutti i mali. Ne consegui già questo per favore di sorte propizia come alcuni sospettano ; mentre per conto della sorte sarebbe andata in rovina con la sola sciagura di Canne ^ quando di sei mila suoi cavalieri ne rimasero appena trecentosettanta, e di ottanta mila soldati ne scamparono pochi più che tre mila. Ora queste e le cose che io son per aggiungerne fanno che io prenda meraviglia su Romolo. Imperocché avendo concepito che le cause dello stato florido di una città sono quelle che tutti decantano, ma pochi seguitano, cioè primieramente la carità verso gli Iddii, colla quale tutte le cose degli uomini si risolvono in bene, e secondariamente la temperanza e la giustizia, per la quale men si offendono e più concordano fra loro, nè misurano la felicità co’ sozzi piaceri, ma colla rettitudine, e finalmente la fortezza nel combattere, la quale rende utili a chi le possiede anche le altre virtù ; ciò, dico, avendo Romolo concepito, non pensò che tali perfezioni provenissero per sè stesse, ma conobbe che le leggi provvide, e la bella emulazione nel disciplinarsi, formano appunto una città pia, prudente, giusta, bellicosa. Adunque molto in ciò vigilando, cominciò dal cullo de’ genj e de’ Numi : e seguendo le leggi migliori de’ Greci mise in pregio le sanie cose, io dico i templi, gli altari, le statue, le immagini, i simboli, le forze, i doni co’ quali gli Dei ci beneGcano, e le feste convenevoli per ogni genio o Nume; e li sacriGzj coi quali gradiscono essere venerati dagli uomini, e le cessazioni dalle arme, e li concorsi, e li riposi dalle fatiche, e quanto si addita di simile. Ripudiò le favole che sen divulgano, sparse di bestemmie e di accuse contro di loro, giudicandole ree, dannevoH, obbrobriose, indegne di un uomo dabbene non che de’ Numi ; e ridusse gli uomini a dire e sentire magniGcamente su’Nu^ mi, non a gravarli di cure aliene da una natura beata. XIX. Già non si ode tra’ Romani nè Gelo castrato da' Agli, nè Crono che stermina i figli per timore di essere da loro assalito, nè Giove che scioglie il regno di Crono, e rinchiude il suo genitore nella prigione del Tartaro. Non le guerre vi si odono, non le ferite, e le catene e le servitù degli Dei presso gli uomini : non feste vi si usano atre e dolorose per gli cluiaii e per il lituo di femmine che piangono gli Dei levati loro, come in Grecia il ratto si piange di Proserpina, e le avventure di Bacco, e cose altrettali. E quantunque ornai li costumi vi si corrompano, niuno ravvisa colà nè uomini invasali da’ Numi, nè furie di coribanti, nè baccanali, nè misteri iuelfjbili, nè veglie notturne di femmine e raaschj nei templi, nè osservanze consimili, ma ravvisa tutto praticarvisi e dirvisi verso gli Dei con tanta pietà con quanta non si pratica o dice BIONICI, tomo I.  tra’ Greci o tra’ Barbari. Eid io vi ho soprattutto ammirato, che sebbene sieno venute a Roma tante migllaja di esteri necessitati a venerare ciascuno i suoi Dii coi riti delle patrie loro ; pure mai questa, come pur troppo succedette ad altre città, non venne in desiderio di riceverne pubblicamente il culto peregrino : e seper le risposte degli oracoli introdusse talvolta sante cose come quelle della madre Idea, le onorò co’ riti suoi propri!, escludendone quanto ci avea di superstizione e di favola. Quindi i pretori ogni anno apprestano alla diva Idea sagrifizj e giuochi secondo le leggi romane : ma un frigio, ed una donna, fHgia ancor essa, le immolano il sacriGzio. Questi la recano in giro per la città questuando per la dea come è loro costume, fregiati di immaginette ne’ petti, movendo il passo, e percotendo i timpani intanto che altri gli accompagnano col suono delle tibie, e cantano gl’ inni della gran madre : ma ninuo de’ Romani nativi ornato con veste di vario colore va per la città questuando o sonando di tibia, o venerando con frigie adorazioni la diva  ; e tutto è secondo le leggi ed il voto del senato. Tanto è cauta la città su gli usi forestieri interno de’ Numi ; e tanto ne ripudia le osservanze vane nè decorose !  Questo (ratto su la madre Idea non è ben chiaro. Sembra che il culto de lei fosse ricerulo ed eseguito in una parte solamente colle leggi romane. Quei riti che non erano ricevati non poteano esercitarsi dai Romani. Dei resto Dionigi forse afferma senza verità che gli Dei forestieri adottati in Roma non si veneravano co' riti ancora de' forestieri. Arnob. lib. a e Valerio Massimo lib. primo possono dimostrare il contrario. Nè credasi che io non sappia che alcune delle favole greche sono utili agli uomini. Certamente talune dimostrano allegoricamente le opere della natura : e talune furono simboleggiate per confortarci ne’mali; altre levano i 'turbamenti ed i terrori dell’ animo, e lo purgano dalle opinioni non sane, ed altre ancora per altro buon termine furono immaginate. Ma quantunque io nommeno che gli altri, conosca tali cose, pure vi sono assai cauto, ed ammetto piuttosto la teologia de’ Romani; considerando che tenui sono i beni derivati dalle favole greche e che non possono far utile se non a pochi, a quelli cioè che investigano le cagioni per le quali furono inventate. Ora ben rari possiedono questa fìloso6a ; ma la moltitudine ignorante suole rivolgere al peggio i discorsi che se ne fanno, e patirne 1’ una o l’altra miseria, cioè di spregiare gl’ Iddii come implicati in 'tanto malfare, o di non contenersi m.ii più da ingiustizie e da vituperi, vedendo die sono questi gli esercizi de’ Numi. Ma lascisi ciò da contemplare a quelli che que sta parte sola si appropriano di filosofia. Quanto al governo istituito da Romolo io reputo degne della storia queste cose ancora : e primieramente il numero delle persone che egli deputò per le cure religiose. Certo niuno potrebbe additare in altra nuova città stabilitovi fin da’, principi .tanto sacerdozio e tanto ministero dei Numi. Per non dire de’ sacerdoti gentilizi, furono sotto il regno di lui creafi sessanta 'sacerdoti che fornissero le pubbliche divine funzioni delle curie e delle tribù. Nè io qui ridico non le cose che descrisse nelle sue antichità t Terrenzio Varrone, peritissimo tra quanti Borirono ai suoi tempi. Poi siccome altri per lo più fanno ineonsideratamente, e malamente la scelta de’ sacri ministri ; siccome altri ne mettono a prezzo le dignità per la voce de’ banditori; e siccome altri infine le compartono a sorte; egli non volle che fossero il premio dell’argento, o della sorte, ma decretò che si nominassero da ' ogni curia due uomini, maggiori di cinquanta anni -, pteeminenti di lignaggio, insigni pe’ meriti, agiati abbastanza di averi, nè difettosi in parte della persona. E comandò che questi avessero quegli onori non a tempo ma durante la vita, e che essendo per la età già liberi dalle cure militari, lo fossero per legge dalle politiche. E siccome alcuni sagrifizj si aveano a fare dalle femmine, ed altri da’ giovani, aventi tuttavia padre e madre ; cosi perchè questi ancora degnamente si amministrassero, ordinò che le donne de’ sacerdoti fossero le compagne de’ mariti ancora nel sacerdozio ; che esse compiessero le sante cose che le leggi della patria non permettevano agli uomini, ed i figli loro prestassero il servigio, proprio de’ giovani: Che se non avevano prole scegliessero dalle altre case nella curia loro i più graziosi tra’ fanciulli e fanciulle, perchè ministrassero, quelli fino alla pubertà, queste finché erano pure senza le nozze. Io credo che Romolo derivasse questé pratiche ancora da’ Greci ; mentre ciò che ne’ Greci sacri Qnesii fanciulli cosi eleni anche dalle altrui case erano chiamati Camillì e Camille. Plutarco nella vita di Numa accenna elio cosi chiamavansi que’giovinelti che ministravano 1 sacerdote di Giove,. 1 49 ficj forniscono quelle che Canifore si domandano, lo compiono tra’ Romani quelle che Camille  son dette, cinte di ghirlande la testa, come da’ Greci la testa inghirlandasi delle statue di Diana Efesina. E quanto èseguivano un tempo fra’ Tirreni e prima già fra’ Pelasghi i Cadolj nelle adorazioni dei Cnreti e degli Dei Grandi, lo ministravano nel modo medesimo ai sacerdoti i garzon celli nominati Camilli tra’ Romani. Prescrisse inoltre che intervenisse da ciascuna tribù ne’ sagriGzj un indovino, che noi chiameremmo Jeroscopo, ed i Romani chiamano aruspice, serbando in qualche tenue parte la denominazione primitiva ; e statuì, che li sacerdoti ed i ministri loro fossero tutti nominati dalle curie, ma confermati da quelli che interpretavano i voleri de’ Numi colla divinazione. XX [II. Ordinate tali cose intorno al servigio divino, divise ancora, secondo che era per cosi dire opportuno, alle curie le sante cose, destinando a ciascuna i Numi ed i genj che in perpetuo adorerebbe ; e tassò per le sante cose le spese che aveansi a supplire dal pubblico. Celebravano coi sacerdoti le curie i sagriGzj a loro assegna ti. facendo per le feste il convito nelle case delle curie.' Perocché vi era in ciascuna curia un cenacolo, ed insieme vi era un’ edifizio comune, consacrato per tutte ; -.come i Pritanei tra’ Greci. Que’ cenacoli, quegli edifizj, curie si, chiamavano, e si chiamano, come le partizioni stesse del popolo (a). E tale istituzione sem. (j) La voce Camille manca nel tetto : ma par troppo coerente colla totalità del senso, Canifore vai quanto portatrici de' canestri. (a) Varroiie uellil>. 4 della lingua latina diceche gli edirizj ciitabrami che Romolo se l’ avesse dalla disciplina che fioriva allora tra’ Lacedemoni ne’ riti sociali. Licurgo avea ciò, fluttua quella fra le tempeste ; e che però debbe un uomo savio di stato, legislatore o sovrano che sia dar leggi che rendano i privati prudenti e giusti nei vivere; Ma qon tutti mi sembra che vedessero egxialmente còn quali industrie e leggi si rendessero tali, e sembrami che alcuni assai, per non dire interamente, mancassero, nelle parti essenziali e primarie della legi.slazione.; come subito ne’sposalizj e nel convivere colle femmine, donde un legislatore dee cominciare, come ne cominciò la natura l’ ordine armonioso di noi tutti. Imperciocché taluni pigliando esempio dalle bestie vollero i congiungimenti del maschio colla femmina promiscui e liberi, quasi fossero cosi per liberare la vita dalle furie amorose, e preservarla dalie gelosie che uc> cidono, e rimoverla dai tanti mali che per causa delie femmine invadono le intere città, non che le famiglie. Altri esclusero dalla città tali silvestri e ferali eoocu bili accordando un uomo per una donna : in custodia però delle nozze, e della moderazione delle mogli, non tentarono più o meno far leggi, ma se ne astennero; quasi impossibile fosse il contrario. Aluri nè lasciarono, come taluni de' barbari, le cose amorose senza leggi, nè le mogli senza premunirle come i Lacedenàoni, ma vi promulgarono molte e castissime regole. E vi furono pur quelli che fondarono un magistrato che invigilasse intorno la purità femminile : ma non bastarono tali provvidenze alla cura. Fu quel magistrato languido più del dovere, nè potè ridurre a pudicizia chi mal ci avea contemperata la natura. XXV. Ma Romolo non dando azione all’uomo contro donna se adulterava, o se abbandonavagli la casa ; nè dandola alla femmina che accusava l’uomo di pessima amministrazione o d’ ingiusto ripudio ; non formando leggi sul ricevere e sul restituirsi della dote, nè definendo altra cosa qualunque, consimili a queste; ne stabilì solamente una, migliore assai ( come il fatto dichiarò) delle altre, colla quale fe’ le donne' savie e pudiche e di ogni onoralo contegno. E la legge fu: che la femmina maritala la quale secondo le sacre leggi recavasi alt uomo, divenisse partecipe de’ beni e delle sacre cose di lui. Gli antichi chiamavano con formola romana nozze sacre e legittime la confarreazioiie per l’uso conume del farro .che. noi Zea chia. I 53 nilamo. E come noi Greci tenendo l’orzo per antichissimo diam principio con esso a’ sagrifìzj ; ed questo. cliiamiamo: cosi li Romani giudicando cibo primitivo e pregevolissimo il farro; incomincian col farro, quante volte una vittima si abbruci. E ul rito persiste, nè si compensò con altre squisite primizie. L’ essere le donne fatte partecipi con gli uomini di un cibo il più sacro e primitivo, e della sorte di essi, qualunque fosse, aveva un nome dalla comunanza del farro, e ciò portava un ligame indissolubile di appropriazione, e niente polca disfare quel matrimonio. Questa legge necessitava le mogli eome prive d' altro rifugio a vivere co’ modi di chi aveasele maritate, e faceva agli uomini tenere le donne come cose proprie nè separabili. Quindi una moglie pudica e docile in tutto al marito, era appunto come r.uorao, l’ arbitra della casa. Morendo 1' uomo, ne era la erede, come la figlia del padre : se moriva senza figli e senza testamento, essa era la padrona di ogqi cosa lasciata da lui, ma se avea de’ figli essa era coerede di parte eguali con questi. Che se colei peccava, avealo giudice della delinquenza, cd arbitro della grandezza della .pena : se non che li parenti ancora insieme coir uomo la giudicavano fra le altre reità, se avea contaminato il suo corpo, o se bevuto del vino, mancanza certo nel parere de’ Greci tenuissima. Ambedue queste colpe, come le estreme delle colpe femminili, ordinò Romolo che si -castigassero : la contaminazione qual priimipio d’ insania, e la briachezza qual principio della contaminazione. E lungo tempo seguirono ambedue queste colpe ad avere odio implacabile tra’Romani. Ora che buona fosse questa legge su le donne; lo at> testa la esistenza lunga di essa ; consentendosi che per dnquecento venti anni non si sciolse in Roma niun matrimonio. Solamente narrasi, che sotto il consolato di Marco Pomponio, e di Cajo Papinio, nella olimpiade centesima trentesima settima Spurio Garvilio, uomo non ignobile, il primo lasciasse la moglie, costretto Innanzi però dai censori di giurare, che la donna sua non abitava in sua casa per generare con esso. Certamente la sua donna era sterile: ma egli per quest’ opera, quantunque la necessità ve lo' inducesse, ne ‘incorse r odio perpetuo del popolo. Tali sono le leggi egregie di Romolo colle quali rendè le donne piu disposte inverso de’ -mariti. Assai più gravi e più convenienti di queste e molto diverse dalle nostre sono le leggi sul rispetto e su la corrispondenza de’ 6gli, perchè onorino I genitori col dire e col fare quanto comandano. Coloro che ordinarono i governi de’ Greci, istituirono che i' figli rimanessero un tempo, troppo breve, sotto la potestà dei loro padri: vuol dire istituirono alcuni che vi restassero tre anni dopo la pubertà ; altri, fin che erano celibi ; ed altri finché non erano scritti nelle curie pubbliche: e questo a norma della legislazione appresa da Soloné, da Pittaco, da Caronda, uomini di sapienza riconosciuta. Preordinarono ancora delle pene ; ma non gravi su'figli indocili, permettendo ai padri di espellerli e diseredarli e non altro. Ma le pene miti uon bastano a correggere la precipitanza e la caparbietà de’ gióvani, nè a renderli nel bene attenti di trascurati. Dond’ è che assai. l55 vlluperii si commettono da’ Ogli contro de’ padri nella Grecia. Ma il legislatore di Roma diede a’ padri sul • figlio per tutta la vita autorità compiuta di escluderlo, di batterlo, di vincolarlo a’ lavori campestri, e di ucciderlo ancora se cosi volessero, quantunque il figlio già trattasse le cose pubbliche, già sedesse tra’ magistrati supremi, e già si avesse gli applausi per lo zelo suo verso del popolo. In forza di questa legge uomini ragguardevoli concionando da’ rostri su cose contrarie al ' senato', e care al popolo e divenuti perciò famosi, furòno di là staccati e rapiti altrove da’ padri, perchè subissero la pena che iie voleano ; e traendoseli per lo foro, ninno potea liberarli non il console, non il tribuno, e non la plebe da essi adulata, sebbene questa  valutasse tutti men che sé stessa in potere. Ometto di dire quanto i padri uccidessero de’ valentuomini, spintisi per virtù e per ardore a far magnanime imprese ma diverse da quelle prescritte dai padri, come abbiamo di Mallio Torquato e di altri, de’ qnali diremo a suo tempo. Né il legislatore di Roma ristrinse a questo soltanto i padri; ma permise loro anche di vendere i figli, niente attendendo che altri vinto dalla sua tenerezza riprendesse la concessione come dura e gravosa. SopratUttto, chi fu allevato colle maniere molli de’Greci riguarderà come a(Cerbo e tirannico, che lasciasse i padri utilizzare su’ figli eoi venderli fino a tre volte, dando licenza più grande a’ padri sn’ figli che non a’ padroni su gli schiavi. -.Perocché il servo venduto una volta se riacquista poi la libertà rimane in seguito padrone di sè : ma il figlio venduto dal padre se diviene libero ri-' cade di nuovo sotto il padre: e quantunque rivenduto e liberatosi per la seconda volta; pur trovavasi ancora servo del padre come in principio ; ma dopo la terza vendita più non era del padre. Osservavano da principio i re questa legge stimandola rilevantissima, scritta o non scritta che fosse, ciocché non posso decidere. Disciolta poi la monarchia, quando piacque ai Romani che si affiggessero nel foro, manifeste ad ogni cittadino., tutte le leggi e le consuetudini patrie e quelle ricevute di fuori, perchè il diritto comune non finisse col potere de’ magistrati ; i Decemviri che erano incaricati dal ' popolo di compilarle, e distenderle, scrissero ancora questa legge colle altre: e trovasi nella quarta delle dodici tavole, che chiamano, che essi esposero nel .fòro. Che  poi li decemviri, eletti trecento t^nni appresso per la ordinazione delle leggi, non diedero essi i primi questa legge ai Romani, ma che ricevutala come antica molto, non osarono toglierla, lo deduciamo da molle fonti,e principalmente dai decreti di Numa tra’quali era scritto; Se un padre conceda al figlio di prender moglie la quale secondo le leggi sia partecipe delle cose sacre e de' beni, questo padre non avrà fin dt. allora più facoltà di vendere il figlio. Or ciò non avrebbe., cosi scritto, se per le leggi antecedenti non era permesso af padri di vendere i figli. Ma basti su 'ciò : frattanto voglio dcllneare come in compendio la. bella istituzione colla quale Romolo ordinò la vita de’ privati. Vedendo che le adunanze politiche, ove i più sono indocili, non si riJucouo con magistero di. iSj parole a vivere temperantemente, a preferire il giusto all’ utile, a dumr la fatica, nè riputare cosa alcuna più onorata del retto procedere ; ma che piuttosto si dirigono ad ogni virtù colle consuetudini buone ; e vedendo che quelli ohe si disciplinano anzi di forza che spontaneamente, ben presto, se niente impediscali, ritornano ai geiij loro; non concedette che ai servi ed a’ forestieri di esercitare le arti sedentarie, illiberali, fautrici dei turpi desideri, come quelle che guastano e profanano i corpi e le anime di chi vi si applica. E lungo tempo rimasero queste ingloriose tra’ Romani, e ninno che nativo fosse di que’ luoghi, vi rivolse le industrie sue. Lasciò solamente per gl’ ingenui le due cure della cam> pagna e delle armi ; perocché vide che con tali maniere di vivere gli uomini signoreggiano il ventre, e meno languiscono tra gli estri amorosi, nè sieguono quella voglia di arricchire che dissocia i cittadini a vicenda, ma quella che trae 1’ utile dalle terre o da’ nemici. Riputando imperfette, anzi litigiose queste vite se disgiunte, non ordinò già che una parte si desse ai lavori del campi, e 1’ altra andasse e derubasse i nemici come la legge disponeva tra’ Lacedemoni; ma prescrisse in comune li rustici e li militari travagli. Se godea pace, ; costumavali a star tutti intenti per le campagne, salvo il giorno ( ed erari da lui destinato ogni nono giorno ) • in cui faceano mercato ; perchè allora amava che accorrendo iu città vi commerciassero. Ma se prorompeva la guerra, addestravali a farla, e non cedere gli uni agli altri nel faticarvi o lucrarvi; pèrocchè divideva tra loro ugualmente, quanto involava al nemico, campi, schiavi, danari, e xciidcali con ciò volenterosi ad imprendere. Spediva, non prolungava i giudizj su le offese scambievoli ; c quando giudicavale da sé medesimo e quando per mezzo di altri: e proporzionava ai delitti le pene. Considerando che la paura più che tutto respinge gli uomini dalle scelleraggini, coordinò più cose per incuterla, come un tribunale, ove sedea giudicando, nel più visibile luogo del foro, imponentissimo l’ apparato de’ soldati, trecento di numero, che lo seguivano, e le verghe e le scuri portate da dodici uomini li quali nel foro stesso batteano chi avea colpe degne di battiture, o nella' pubblica luce lo decapitavano, se altri ne avesse più grandi. Tale fu l’ ordine del governo indotto da Romolo, e da queste cose ben si può conghietturare su le altre. XXX. Quanto alle altre opere civili o beUiche di un tal uomo, queste ne furono tramandate, degne che si intessano ad una storia. Siccome i popoli circonvicini a Roma erano molti, e grandi, e bellicosi, nè punto amici di essa ; deliberò conciliarseli co’ matrimoni, mezzo gii> dicato dagli antichi saldissimo di procacciar le amicizie. Considerando però che tali genti non si unirebbero spontaneamente con loro, nuovi di colonia, impotenti per danaro, e privi d’ ogni gloria di belle operazioni, e che altronde cederebbero violentati, se oltraggiosa non fosse la violenza; risolvè, (ciocché avea NumitOre l’avo suo materno già suggerito) di faré, ed in copia, i 'matrimòni col ratto delle vergini. Cosi risoluto, fe’ Voti al Dio guidatore dei disegni reconditi, che se la prova gli riusciva appunto come la ideava, gli tributereUie ogni anno e feste e sagrifizj. Quindi riferito il .disegno in  li. 1 5() senato, e comprovatovi, propose di celebrare giuochi solenni a Nettuno, e ne sparse la nuova per le città vicine ; invitando chiunque al concorso ed ai giuochi, che giuochi sarebbero moltiplici di cavalli e di uomini. iVenuii forestieri in copia alla festa insieme colle mogli e co’ figli, e compiti già li sagriCzj a Nettuno e li giuochi, infine nell’ ultimo giorno quando era per dimettere la moltitudine fe’ intendere ai giovini che al dare di un segno certo, tutti involassero quante a loro ne capitavano, le vergine accorse agli spettacoli, le custodissero però quella notte inviolate, ed a lui le recassero nel prossimo giorno. Compartitisi i giovani in truppe non si tosto videro elevato il segno convenuto ; si volsero a far preda di vergini. Sorgene un tumulto un damore de’ forestieri che maggiore ne sospettavano il male. Condottegli nel prossimo giorno le vergini, Romolo consolavale disanimate, con dire che tendea quel ratto a maritarle non a vilipenderle. £ dichiarando che Greco, e primitivo, e nobilissimo era il modo tenuto da lui tra tutti i modi co’ quali si procurano le nozze alle femmine ; invitavale ad amare gli uomini che la sorte ad essi offeriva. Dopo ciò numerando le donzelle e trovandole secenlo ottantalrè ; scelse bentosto altrettanti de’ suoi non maritati, e con essi congiunsele. Egli legandole colle nozze secondo il rito della patria, rendeale partecipi dell’ acqua stessa, e del foco ; e quel rito mantienesi ancora. Alquanti scrivono che avvenne un tal fatto nell’ anno primo del regno di Romolo : Gneo Gellio lo assegna nell’ anno terzo, e ciò pare più verisimile. Imperocché non èprobabile che il capo di una città uascente si accingesse a tal opera prima clic ne avesse costituito il governo. Altri stimano cagione di quel rapimento la scarsità delle femmine, altri l'impulso a far guerra; ed altri più persuasivi, a’ quali io m’attengo, la necessità di aver amicizia cogli abitanti vicini. Ripetevano i Romani anche al mio tempo la festa allora consacrata da Romolo chiamandola Consuali (t). In essa un altare sotterraneo, scalzato intorno intorno di terra,, posto vicino al circo massimo, onorasi con sagriOzj, e primizie che bruciansi. Evvi corsa di cavalli sciolti, o congiunti ai carri. Conso chiamasi da’ Romani il Nume a cui tributano questi onori : e taluni con greca interpretazione dicono che sia Nettuno, scotitore della terra, e che si venera appunto in altari sotterranei, perchè questo Dio possiede la terra : ma io ne so’ pure altra origine perchè udii che la festa era celebrata per Nettuno, e per Nettuno li s giuochi equestri; ma che r altare sotterraneo era stato consecrato infine ad un genio ineffabile, guidatore e custode de’ segreti disegni. E certamente Nettuno in niun luogo tiene altari invisibili inalzatigli da’ Greci o da’ barbai'i. Pure è difficile a diffinire come stiasi la verità. Come la fama del rapimento delle vergini e gli eventi de’ giuochi si sparsero per le città vicine; altre si corucciaron su 1’ opera, ed altre invesugando 1’ affetto ed il fine ond’era avvenuta, la sopporlavanu in  I giuochi isliluili da Romolo nel ratto delle Sabine furono chiamali Consuali perchè fatti in onore del Dio Conso. Appresso furono detti Circensi quando Tarquinio Prisco fece il circo massimo. Sembra che la prima volta fossero celebrali nel campo Marso.. l6l pace. In fine però ne proruppero delle guerre, alcune sicuriiniente ben facili ; ma grave e disastrosa fu cjuella co’ Sabini. Felice fu l’esito di tutte, come prima che si cominciassero ne aveano presagito gli oracoli, i quali significavano che grandi ne sarebbero i travagli, ed i pericoli, ina lietissimo il fine. Le città che prime si misero a tal guerra furono Genina, ed Ànlemna, e Crustumero, in apparenza pel ratto delle vergini e jicr vendicarsene ; ma la cagione vera che ve le spingeva era la fondazione, era il créscere di Roma divenuta grande in poco tempo, e la voglia di non trascurare che più si estendesse quel male, comune a tutti i vicini. Ben tosto dunque spedendo ambasciatori ai Sabini gl’ invitarono perchè fossero i capi nella guerra, essi che erano i più polenti di arme e di danaro, degni di comandare ai vicini, nè oltraggiali menu degli altri; essendo le vergini rapite per la maggior parte Sabine. Ma poiché niente profittavano, pere he gli ambasciadori di Romolo contrariavano, ed appiacevolivano con parole e con opere quella gente ; stanche alfine di perdere più tempo coi Sabini i quali esitavano c rimettevano ognora a tempo più rinioto il consiglio di guerra, destinarono fra loro di combattere esse i Romani; pensando che avrebbono suificieiiza in sè stesse di forza, se univansi tutte tre, per invadere una città sola, nè grande. Così dunque si coiicerlarouo ; ma non si espedirono già per concentrarsi tutti in un esercito ; insorgendo innanzi gli altri i Ceuiuesl, pi'imarj già nel volere la guerra. Ora avendo questi mossa l’ armata, e devastando il campo contiguo, Romolo usci colle sue truppe : e piombando repentinamente su' nemici che non seu guardavano ; ben presto ne espugnò gli alloggiamenti, che appena erano formati. Poi gettatosi appressa quelli i quali si rifuggivano nella città, dove non crasi udita ancora la sciagura dei suoi, non trovandovi nè guardate le mura, nè chiuse le porle ; la invase a primo impeto, ed uccise, combattendo, e spogliò colle sue mani delle arme il re di essa venutogli incontro con forz^ poderosa, Cosi prendendo e comandando la città che gli consegnasse le armi, e togliendosene per ostaggio, que’ gioviui che più volle; marciò contro gli Antemnati. Rendutosj colla subita incursione padrone delle milizie di questi, sbandate ancora a far preda, come crasi padrone renduto delle precedenti, e trattati i vinti nella maniera medesima; ricondusse a casa l'esercito, recando le spoglie degli oppressi in battaglia, e le pripiizie delle prede ai Numi i quali onorò con assai sagriSzj. Andava-, massimo della pompa egli stesso in veste di porpora, e coronato di alloro le tempie, ma su di una quadriga  per serbare la dignità di monarca. Seguivano  Plutarco scrive c>;e Dipoigi uon dice bene quando afferma che Romolo veniva su di un carro. FwyueAer it vac piia-tt Aisrue-rur. Tito Livio scrive che Roipolo spolia ducis hostiunt cacti tuspensa, fabrieato ad id apté ferculo, gerent, i/t capholium asce/idit. Il Casaubono pensa che Dionigi per la non piena peiizia delia lingua latiua interpretasse quel ferculum di ^vio, dal quale derivava tali racconti, per cocchio;' quando eia ir. ' i63 le milizie de’ fanti e de’ cavalieri, ornate secondo i loro gradi, magnifìcando gl’ Iddii colle patrie canzoni, ed il capitano con gli slanci di versi improvvisi. Quelli della citii recatisi loro incontro colie mogli e co’ figli, e schierai isi quinci e quindi per le vie si congraiulavano con essi per la vittoria, e davano ogni altro segno di ami^ cizia. Entrata la truppa in città trovò crateri spumanti di vino e mense colme di ogni varieià di cibi appiè delle case più riguardev.oli pei’chè a piacere vi sì saziasse. Cosi andava con trofei e sagrifizj la pompa della vittoria istituita la prima volta da Koniolo, e chiamata dai Romani trionfo : ma ora, trascendendo ogni antica semplicità, spiegasi magnifica e clamorosa come in tragico rito, anzi per gala di ricchezze che in prova di virtù. Dopo la pompa e dopo i sagrificj Romolo edificò su le cime del cimpidoglio un tempio a Giove detto Fé-, retilo da’ Romani : Non era grande il sàiito edificio ; apparendone ancora i primi vestigi, e vedendosene! iati maggiori meno lunghi oi dal vero chi voglia questo (jiove Feretrio a cui Romolo offerse le anni, chiamarlo il Dio che tiene i trofei, o che porge come altri dicono, le spoglie de’ nemici, o il Dio preeminente, perché supera ed abbraccia tutta intorno la natura ed il movimento degli Esseri. piutlo.s(o come iuterprela Plulaico ciocché ni direbbe trnfeo. Lo stesso Plutarco ìoscgiia che Lucio Taripiaio Piiscu fu il (irinio che tiiuufasse sul cairu. Poiché Romolo ebbe tributalo agl’ Iddìi le primizie ed i sagrifìzj di ringraziamento, deliberò, prima di far al irò, col senato, com’erano da trattarsi le città debellate ; ed esso il primo ne dichiarò la sentenza che ottima riputava. E piaciuta questa come la più sicura e la più luminosa a quanti erano in quel consesso, ed encomiatone pe’ vantaggi che a Roma ne risultavano non pur di presente, ma in ogni avvenire; comandò che venissero a lui le donne di Cenina e di Antemna cadute prigioniere con altre. Riunitesi sconsolaté^, e prostratesi, e piangendo esse la sorte della patria; accennò che frenassero i pianti e tacessero e poi disse: hen dovrebbero i vostri padri, i vostri fratelli, e le intere vostre città subire ogni male, perchè scelsero anzi che r amicizia la guerra, e guerra non necessaria nè onesta. Nondimeno abbiamo noi deliberato di essere clementi con essi per molle cagioni, e perchè apprendiamo la vendetta de' Numi, pronta contro i superbi, e perchè temiamo la indignazione degli uomini, e perchè giudichiamo essere la compassione compenso non lieve de' mali comuni, noi che già la dimandavamo dagt altri : e finalmente perchè pensiamo che ciò non sarà caro e grazioso poco per voi, congiunte finquì co' vostri mariti senza che possano querelarsene. Condoniamo questo delitto, nè togliamo a’ vostri cittadini non la libertà, non i poderi, non altro bene qualunque. Lasciamo noi dunque ( nè già se ne avranno a pentire) lasciamo libera a tutti la scelta di rimanere in patria se il vogliono, o di traslatarsene. Ala perchè niente pià faccia abberrare le vostre  città, perchè niente più trovisi in esse che possa ridividerle dcdla nostra amicizia’, rìputianio espedientissimo e saluberrimo per la concordia e sicurezza di ambedue se le rendiamo colonie di Roma, e se da Roma vi mandiamo abitanti che bastino. Àndcde : statevi di buon animo : moltiplicatevi nelt ossequio e nella benevolenza de’ vostri mariti; tra’l dolce sentimento che liberi per voi sono i vostri figli, liberi i vostri fratelli, libere le patrie vostre finalmente. Ti-ipudiando in udir questo le donne e lagrimando viva^ niente di gioja partirono dal Foro. Romolo mandò in ciascuna città trecento uomini e le città cederono ad essi, dividendolo a sorte, il terzo de’ loro terreni. In opposito menò in Roma quanti Antemnati e Ceninesi vollero trasferirvisi, e raeuovveli colle mogli e co’ figli mentre ritenevano in que’ luoghi i campi ad essi toccati, e portavano seco il danaro che possedevano. Li descrisse il re ben tosto nelle curie e nelle tribù ; nè furono men di tre mila : tanto che ne’ cata-^ loghi romani si numerarono allora la prima volta sei mila fanti. Genina ed Antemna città non ignobili avean greco lignaggio : imperocché tolte ai Sicoli caddero in potere degli Aborigeni, i quali erano una parte degli Oeijoirj, venuti già dall’ Arcadia, come nel primo libro fu detto, ma ora finita la guerra divennero colonie romane.  Romolo dopo ciò condusse Tesercito incontro de’ Crustumerini, apparecchiati meglio che i primi : e vintili, quautiinque stati fortissimi , nella battaglia  Qui Dionigi è contrario a Livio il qnale scrive:' Poi t’in \ in campo e su’ muri, non volle che patissero più oltre; ma fece della città, come delie altre una colonia romana. Era Cruslumero colonia degli Albani speditavi mollo tempo innanzi di Roma. Divulgando la fama in molte città la fortezza militare del capitano e la clemenza in verso de’ vinti; si congiunsero ad esso ancora non pochi valentuomini ; i quali con tutte le famiglie a lui trasferendosi, gli recarono forze non dispregevoll. Ed uno de’ colli di Roma ancora chiamasi Celio, da Celio che uno fu di que’capi venuti dalla Etruria. Anzi a lui si diedero Intere città, cominciando dalla città dei Medullini, le quali divennero colonie romane. I Sabini al veder ciò se ne conturbarono, accusandosi a vicenda che non avessero messo iiu argine alla monarchia dei Romani in sul nascere, o che si avessero a brigare con lei fatta già grande. Nondimeno parve ad essi che fosse da correggere il primo errore collo spedire un esercito rispettabile. E riunitisi a congresso In Curi la più cospicua e la più imponente delle loro città, vi decisero co’ loro voti la guerra ; creaudone generalissimo Tito Tazio re dei Cureli. Deliberato ciò ripatiiaronsl e prepararono i Sabini la guerra per marciate In su la nuova stagione con esercito poderoso contra Roma. Intanto Romolo si apparecchiò fortlsslmamente onde jìsosplugere uomini fiorentissimi in arme. Elevando le mura del Palatino e torrioni più alti di camminò contro de Crustomenesi g i quali portavano la guerra z ftia qui ci ebbe men di contrasto perchè già gli animi erano abbaia tuli per le sconfitte degli altri  1 67 esse perché dentro vi si stessè con sicurezza, e circondando con fossi e irincere 1’ Avventino, ed il Campidoglio che ora chiamano, colli ambedue dirimpetto dei primo, e presidiandone l’uno e l’altro con salda guarnigione; ordinò che nella notte vi si riparassero e greggio e villani. Munì similmente con fossi e palizzate, e guardie ogni altro luogo opportuno per la loro salvezza. Intanto Lucumone, divenuto amico suo non molto di prima, Lucumone uomo operoso ed insigne nelle arme, venne a lui con buon sussidiodi Toscani da Vetulonia ; e vennero pure da Albano in copia, ( e mandavagli 1’ avo materno ) combattitori. commissari, arteBci di militari stromenti. Diè loro frumento ed arme e quanto facea di mestieri, e largamente ne diede per ogni vicenda. Poiché furono apparecchiati ambedue per r impresa, i Sabini al sorgere della primavera, ornai sul pnnto di cavar le milizie, deliberarono di spedire, e spedirono prima a’ nemici un ambasceria la quale esigesse le donne e la soddisfazione della rapinà di esse ; perchè se ’l giusto non ottenevano, apparisse che spinti dalla necessità davano alle arme. Romolo pregò in opposito che si permettesse alle donne rimanersene con quelli a’ quali si erano maritate giacché restie non ci convivevano: che se abbisognavano di altra cosa, volessero da lui riceverla come da un amico, non lo investissero colla guerra. I Sabini non contentati in alcuna dimanda menarono in campo venticinque mila pedoni e quasi mille cavalli. Non molto differiva dalla milizia sabina la romana ; numerosa di ventimila fanti, e di ottocenfp cavalieri, ed accampatasi divisa in due parli dinanzi la città, teneva con una parte il colle Esquilino sotto gli auspicj di Romolo, e con l’altra il Quirinale ( che allora non avea questo nome ), e Lucumone il Tin'eiio erane il capitano. Al conoscere tali disposizioni Tazio re dei Sabini levandosi di notte, traversò coll’ esercito la campagna, non già per danneggiarla, ina per mettersi prima del nascer del sole in sul campo tra ’l Quirinale ed il Campidoglio. Ma vedendo che tutto era custodito dalle guardie vigili de’ nemici, e che non ci avea luogo sicuro per lui, cadde in gravi dubitazioni senza rinvenire intanto come avea da usare quel tempo. Fra tante dubitazioni sorsegli una prosperità non pensata ; essendogli consegnato un de’ luoghi fortissimi con questo successo. Rigirandosi appiè del colle Capitolino i Sabini per esplorare se ci avea parte niuua, donde potesse espugnarsi con sorpresa, o di forza ; videli dall’ alto Tarpeja, una vergine cosi nominata, figlia del valente uomo al quale era la cura hdata di que’ luoghi : s’ invaghì la donzella, come scrive Fabio e Ciucio, dei braccialetti che que’ Sabini s’ aveano intorno la sinistra, e s’ invaghì degli anelli. Brillavano allora di oro i Sabini, molli nommen che i Tirreni nel vivere. Ma Lucio pisone il censore narra che la fanciulla ciò fece sul bel desiderio di esporre ai cittadini i nemici, nudi delle arme colle quali si difendevano. Ben può da quel che siegue raccogliersi qual sia di queste due cose la più verisimile. Mandando fuora una serva per una tal porticina che niun si avvide che fosse aperta, fe’ richiedere il monarca Sabino che venisse a lei senza compagni per nn colloquio ; ed essa parlerebbegli di cosa grande e necessaria. Accettò Tazio l’ invito su la speranza di un tradimento, e recatosi al luogo additatogli, e venutavi ( che ben lo potè ) la donzella, disse che il padre suo quella notte si era allontanato per un tal bisogno dalla fortezza, e che le chiavi delle portò erano presso di lei : consegnerebbele se a lei venissero quella notte, e se in premio della consegna le si dessero quelle fulgide cose che ì Sabini portavano tutti nella sinistra. Piacque a Tazio 11 partito, e contraccambiatasi ambedue la promessa con giuramento di non illudersi ne’ patti ; la vergine distinse la parte per la quale avrebbero a venire a quel fortissimo luogo, e distinse 1’ ora della notte in che meno s' invigila ; e poi ritornossene, nè quelli che eran dentro ne seppero. Concordano Gn qui ma non già nel resto gli storici romani. Pisone il censorino del quale abbiam detto di sopra scrive che Tarpeja spedì quella notte un messaggiero che signiGcasse a Romolo gli accordi fatti tra i Sabini e tra lei ; e come ella esigerebbe le arme difensive di essi, deludendoli coll’ ambiguità de’ trattati : egli dunque mandasse altra milizia nella fortezza, e vi sorprenderebbe i nemici col capitano spogliati di arme. Aggiunge però che il messaggero fuggendosi presso il re de’ Sabini gii accusasse i disegni di Tarpeja. Ma nè F abio nè Cincio dicono che ciò avvenisse, e sostengono che la donzella mantenesse i patti del tradimento. Dopo ciò continuano tutti la storia con slmiglianza. Imperciocché narrano che avvicinatosi il re dei Sabini col Gor dell’ esercito colei per adempiere le promesse aprisse a’ nemici la piccola porla concordata, e che destate le guardie del luogo le stimolasse a scampare sollecitamente per tragitti ignoti ai Sabini che ornai possedeano la fortezza. Narrano inoltre che i Sabini al fuggire di quelli, trovatene le porte aperte, occupassero la fortezza abbandonata ; e che la donna avendo prestato i servigi pattuiti, ne chiedesse il premio secondo i giuramenti. XL. Dopo ciò scrive Pisene che essendo i Sabini pronti di dare l’oro di che riluceano ne’bracci sinistri; Tarpeja la donzella ue pretendesse non i fregi ma gli scudi : che Tazio andasse in collera per l’inganno, ma pur si guardasse dal violare i trattati : che era a lui sembrato perciò che si dessero alla vergine le arme richieste ma per modo, che ricevutele non potesse valersene : che ben tosto dunque, comandando di essere imitato dagli altri, lanciasse lo scudo con quanta avea forza contro Tarpeja : la quale investita d’ ogn’ intorno e sopraffatta da tanti colpi e si gravi succumbè sotto delia tempesta. Ma Fabio ascrive a’ Sabini la frodolenza su’ trattati. Perocché dovendo secondo i patti dare a Tarpeja le auree cose che dimandava, rattristatine per la grandezza di esse, scagliarono su lei le arme colle quali si difendevano, quasi scagliar le medesime fosse un darle come aveano promesso quanto giurarono. Se non che sembra che i fatti consecutivi rendano più verisimile il giudizio ultimo di Pisone. Certamente fu la giovine, dove cadde, onorata di tomba, e la tomba sta nel più augusto de’ sette colli, e Roma ivi le replica ogni anno sacre libagioni. Io dico ciocché scrive Pisone. Cioè se ella fosse morta tradendo la sua patria non avrebbe ottenuto niuno di questi due onori nè da quelli che ne erano traditi, nè da quelli che ne furono gli uccisori : anzi se avanzo mai v’ era del tuo cadavere sarebbe stato poi disotterralo e gittato per atternre i posteri, e respingerli da simili operazioni. XLI. Tazio e li Sabini impadronitisi di quella fortezza, e pigliato senza disagi il più degli appareccbj de Romani, facevano ornai la guerra da luogo sicuro. Cosi tenendosi dunque ambedue le armate dirimpetto a piccola distanza fra di loro, molti erano in molte occasioni li tentativi e gli attacchi senza grandi risultati di danno o di utile per ninna delle parti. Due furono le battaglie più rilevanti date con tutte le milizie, schierate 1’ una contro l’ altra; e grande ne fu la strage vicendevole. Ma tirandosi in lungo, ambedue li re concorsero nel sentimento di venire a decisiva giornata. E recatisi nello spazio intermedio ai due accampamenti i capitani migliori nelle armi ed i soldati già sperimentati in mille cimenti fecero memorabili prove dando e ribattendo gli assalti, e traendosene e rimettendovisi ugualmente. Coloro i quali contemplavano da luogo munito la equilibrata battaglia, e che d’ora in ora piegava dall’ una o dall’ altra parte, incitando, ed acclamando incoraggivano chi vi si distingueva ; o con preghiere e pianti richiamavano chi vacillava o lasciavasi ornai sopraffare, perchè vile sempre non rimanesse. Dond’ è che gli uni e gli altri erano necessitati a sostenere travagli, maggiori delle forze. Cosi tenuta avendo la battaglia nel giorno con sorte eguale ; alfine essendo già notte si ravviarono lieti ai proprj alloggiamenti. Ne’ di seguenti dando sepoltura ai morti ristabilirono i feriti, e procurarono insieme altre forze. Poiché parve loro di farsi nuovamente alle mani, tornati jiel luogo medesimo vi combatterono fino alla notte. Prevalsero i Romani in ambe le ale; reggendone Romolo stesso la destra, e Lucumone il tirreno la sinistra. Ma restando dubbia ancora nei centro la sorte delle armi ; Mezio, cognominato il Curzio, uomo meraviglioso per le forze del corpo, magnanimo nelle arme, e chiaro soprattutto perchè noa turbavasi a pericoli o terrori, impedì la disfatta totale de’ Sabini e portò di nuovo contro de’ vincitori le schiere che sorvanzavano. Costui messo a dirigere 1’ armata del centro avea già vinto i nemici che gli stavano a fronte. Volendo poi ripristinare lo stato delle ale sabine ornai sbattute, e presso a dar volta, esortandovi la sua milizia si mise ad inseguire i nemici che fuggivano sbandati da lui, cacciandoli fino alle porte, cosicché Romolo fu costretto a lasciare imperfetta la sua vittoria, e rivolgersi ad accorrere contro la parte de’ nemici che era vincitrice. Cosi quel corpo de’Sabini il quale pericolava si riebbe j allontanaudosegli Romolo colla sua gente : e tutto il nembo si raccolse inverso di Curzio e de’ suoi che erano già vittoriosi, e questi tenendo fronte per un tempo ai Romani combatterono luminosamente. Ma poi rovesciandosi troppi su loro ; piegarono e rìpararousi negli alloggiamenti, assai contribuendo Curzio alio scampo col ritirarli grado a grado, non col fargli inseguire in disordine. Egli flesso arrestavasi in arme, e. facea fi'onte a Romolo che lo investiva. E grande e. 1^3 bella a vedere fu la gara de’ capitani che si attaccavano. Alfine essendo già Cur/io ferito, già esausto di sangue, riucnlava poco a poco, quando eccogli addietro una palude profonda ; difficile da girarla intorno, perchè cinta da’ nemici, e dilficilissima da traversarla per lo fango che ammassavasene alle sponde, e per le acque, che altissime vi erano in mezzo. Inoltratosi dunque vi si lanciò con tutte le arme. E Romolo sul pensiero che colui quanto prima perirebbe nella palude non potendovisi perseguitare pel fango e per le molte acque ; si rivolse contro degli altri. Ma Curzio dopo molti e lun> ghi stenti emerse finalmente còlle arme dalla palude, e fu portato a’proprj alloggiamenti. Rimanea la palude nel mezzo quasi del foro romano, e lago chiamasi di Curzio dalia vicenda ; ma ora è tutta ricoperta dalla terra. Romolo inseguendo gli altri avvicinasi al Campidoglio. Spaziava nella speranza di rivendicarselo : ma travagliato da molte ferite, e più da un colpo di pietra lanciatogli dall’alto nelle tempia fu preso ornai semivivo da’ compagni, e riportato dentro le mura. Sbigottirono i Romani più non vedendo il capitano, e dicdesi l’ala destra alla fuga. Sostenevasi ancora la sinistra diretta da Lucumone, uomo chiarissimo nelle arme, e segnalatosi per molte e belle imprese in tal guerra. Ma nemmeno questa più resse alfine ; quando colpito in un fianco da'Sabini cadde pur Lucumone rifinito di forze. Allora la fuga fu universale. I Sabini imbaldanziti gl’ incalzavano verso le mura: se non che giungendo alle porte pe furono respinti, sboccandone contro loro i giovani a’ quali aveva il re dato in guardia le mura. Ed a(Yrcttaiidosi quanto potè per soccorrerli Romolo stesso, riavutosi già dalla percossa ; la sorte assai ne variò della battaglia. Imperocché li fuggitivi mirando iuaspettataineute il sovrano, risorti dalla paura, si riordinarono, uè più s’ indugiarono a volar su’ nemici. Questi che aveano finora pressato i Romani e concluso non esservi schermo, che impedisse di prendere la loro città culla forza ; non si tosto videro il cambiamento inopinato e repentino, pensarono come scampare sè stessi. Il ritorno al campo era precipitoso per essi, inseguiti dall' alto, e per istrada profonda. Quindi grande fu la strage loro in questa ritirala. Cosi pugnato avendo quel gioruo da pari a pari, ma involgendosi ambedue tra casi inaspettati ; alfine ornai tramontando il sole, si divisero. Ne’ di seguenti consultarono i Sabini se avessono a ricondurre in patria l’esercito devastando intanto il più che poteano le campagne nemiche, o se di là ne chiamassero un altro, ivi trattenendosi cd insistendo fiuchè dessero buon fine alla guerra. Ben era misera cosa per essi partire, donde mauifeslcrebbcsi la infamia che niente aveano conseguilo; ed era misera cosa nonimeno il rimanersi non riuscendo loro disegno alcuno come speravano. Concepivano poi, che venire a trattali co’ nemici, unica maniera conveniente a levarsi di gueiv ra, gioverebbe anzi a’ Romani che a loro. Tuttavia uon meno, anzi assai più che i Sabini, erano i Romani caduti in gran dubbio intorno le cose da fare. Imperocché nè volevano rendere nè riteuere le donne ; riputando la prima cosa un seguito di uua [lerdila mauilcsta, cd  n. 175 un preludio di aversi nccessariamenle a sottomeltere anche ad altri coaiaudi : ma 1’ altra cosa presentava molli e gravi mali, distrutte le patrie campagne, e la gio> ventò più florida trucidata. Se faceansi a trattar coi Sabini, parca loro che questi non ser berebbero alcuna misura, per molte cagioni e principalmente perchè i superbi insolentiscono non condiscendono col nemico che volgesi agli ossequj. XLV. Mentre ambedue cosi cogitabondi, e così disanimati dal cominciare o battaglie o discorsi di riconciliazione dispergevano il tempo ; le mogli de’ Romani, quelle che erano sabine di origine, quelle per le quali ardeva la guerra, congregatesi ed abboccatesi fra loro in un luogo medesimo risolverono d’ intramettersi con ambi per la pace. Dava tal partito alle altre Ersilia, non ignobile di legnaggio tra’ Sabini. Di lei dicono che rapita già come vergine con altre donzelle, ora fosse maritala. lN|a più verisimile è chi scrive che ella si fosse rimasa spontaneamente colla unigenita sua, 1’ una delle derubate. Riunitesi a tal sentimento andarono le donne in Senato, ed ottenutovi di parlare, ve lo diffusero, chiedendo di uscir per un colloquio co’ loro parenti. Annunziavano che aveano molte e belle speranze di fiduiTe unanimi le due genti e stringerle di amicizia. Come udirono ciò quelli i quali consultavano col monarca assai ne furono dilettati, riputando che questo fosse r unico spediente in tanto inviluppo di cose. Adunque si decretò che quante Sabine avean Agli tante lasciando questi co’ mariti, avessero la potestà di andarne oralrici ai lor nazionali: che quelle però le quali eran madri di più 6gli ne recassero con sè la parte che più volcano, e trattassero la riconciliazione de’ popoli. Uscirono dopo ciò tra lugubri vesti, e talune coi teneri Ggliuoletti. Giunte al campo sabino mossero col piangere e col prostrarsi appiè di chiunque iucontravale tanta compassione, che ninno de’ riguardanti potea rattenere le lagrime. E Tannatosi per esse il fior del Senato, e comandate dal re che dicessero le cagioni della venuta; Ersilia, autrice e guida della S])edizioue, feceiie una lunga e patetica sposizione, implorando che donassero pace a’ mariti appunto in grazia di esse per le quali dicevano intimata la guerra. Si adunassero i principi loro; ed essi, veduto 1’ utile puliblico, discutessero le condizioni,per le quali cessassero le discordie. XLVI. Ciò detto caddero prostese co’ teneri figli appiè del sovrano e vi si tennero, finché quelli che erano presenti non le rilevarono da terra con promettere che farebbono quanto era onesto e possibile. Fattele uscire dal Senato, e consultando fra loro, si decisero per la pace. E prima si fece la tregua : poi riunendosi i re, si concordò su la pace ancora. E tali ne furono le convenzioni che sen giurarono. Sarebbero ambedue re dei Romani Romolo e Tazio con eguali poteri ed onori. La città serbando il nome del suo fondatore chiamerebbesi Roma, e romano ogni suo cittadino come per l’addietivMa tutti insieme si chiameiiano generalmente Quiriti desuntone il nome dalla patria di Tazio. Si domicilierebbero que’ Sabini che voleano, in Roma, ma comunicandosi le sante cose, c prendondo luogo nello tribù c nelle curie. Giurate questo cose, ed eretti gli altari ove far 1’ alleanza, in mezzo quasi della Via 1 Sacra, si mesoolarono insieme. Poi rao cogliendo ogni duce li suoi, tornarono alle proprie magioni. Si rimasero in Roma Tazio il monarca e con esso tre de’ più, riguardevoli Valerio Voleso, Tallo, soprannominalo il Tiranno, ed in fine Mezio Curzio, quegli che : avea colle armi trapassato la palude, e vi ebbero gli onori che i discendenti loro pur vi godcronow Anzi con questi si rimasero amici, consanguinei, e clienti, non minori di numero agli altri di Roma. Mentre ordinavano queste cose parve ai so vrani di raddoppiare il numero de’ patrizj per essersi la popolazione moltissimo arnpbata. Adunque segnando in X catalogo colle famiglie più nobili tanti cittadini novelli, quanti erano i primi, chiamarono patrizj ancor’ essi. Poi trascelli cento di questi col voto delle curie gli connumerarono ai senatori antichi. E su ciò concordano presso a poco tutti gli scrittori delle cose romane : differisce taluno sul: numero de’ sopraggiunti : dicendo che non cento cui cinquanta furono gl’ inseriti al Senato. Non consentono però gli storici romani su F onore che i re concederono alle donne perchè gli aveano rioou dotti aUa pace. Perocché scrivono alquanti che diedero ad esse distintivo grande e moltiplice non pure i prindpi, ma le curie : le quali essendo trenta, come già dissi, presero nome ognuna da queste, giacché trenta furono ancora le oratrici. Ma Terrenzio Varrone si di scosta da questi in tal capo, aflermando che i nomi erano stati imposti -alle curie anteriormente da Romolo, quando divise la prima volta il suo popolo: c die quei nomi furono desumi da’ capi di esse, o dalle antiche lor patrie. Aggiunge che le femmine andate ambasciadrici non furono trenta ma cinqueceutotrentatrè : dond’ è che noti sia verisimile che il re concedesse ad alcune poche di esse quell’onore, escludendone le altre. A me nè tali son parute queste cose da non farne parola, nè tali da scriverne dtra il bisogno. Ora l’ordine stesso della narrazione dimanda che io dica quali e donde fossero i Cureti alla città de’ quali apparteneva Tazio, e quei eh’ eran seco. Noi cosi ne sappiamo. Nel tempo che gli Aborigeni possedeano 1’ agro Reatino una vergine nobilissima natia di que’ luoghi entrò, per danzarvi, il tempio di Enialio. Enialio lo chiamano Quirino i Sabini, ed, ammaestrati da essi, i Romani, senza che sappiano dire più oltre s' egli sia Marte, o tal altro, eguale a Marte in onore. £ li primi pensano che 1’ uno e 1’ altro nome dicasi del Nume arbitro delle guerre ; ma gli altri che sia quel doppio nome non di uno, ma di due Dei bel licosi. La vergine danzando già nel tempio fu dallo spirito investita del Nume; e lasciale le danze si ritirò ne’ penetrali santi di lui, dove, come a tutti sembra, fecondatane, diede un fanciullo, che Modio fu detto, ed ebbe soprannome di Fabidio. Or questi, adulto  Vi è chi pensa che il Modio Fabidio sia il Afe £>iuj Fidius de’ fìoinaui, forinola colla quale riguardavaisi il Nume tutelare della fede, o pure Ercole figlio di Giove. Se ciò lesse, Diouigi avrebbe malameuie iuierpiaato quella formula Romana di giuramento.. 179 feuo nella persona, ebbe forma non umana, ma divina, e combattè con preemiuenza di tutti i valentuomini. Preso poi dal desiderio di abitare una città che avesse la origine da lui, congregando gente io copia da luoghi d’intorno, eresse in tempo assai breve quella che Curi addimandasi, denominandola, come narrano alcuni, dal Nume, dal quale è &ma che egli fosse generato, e come altri asseriscono dall’ asta, poiché Curi chiamasi 1 asta in. Sabina. Cosi scrive Terrenzio Yarrone. Ma Zenodoto Troizinio uno scrittore dell’Umbria, narra che le genti di essa furono prima abitatrici de’ campi detti Rèalini : che espulse da’ Pelasghi se ne vennero alla terra dove ora soggiornano, e dove mutato nome coi luoghi, si chiamarono Sabini per Umbri. Porzio Catone dice imposto tal nOme ai Sabini da un Nume di que’ luoghi Stoino Sanco, e che Sanco per alcuni vai quanto Dio Fidio, Dice che fii domicilio primitivo di essi un villaggio nominato Testrina presso la città di Amiterna ; che movendosi da questo inondarono i Sabini 1’ Agro ReatioQ abitato al Silio nel libro ottavo scrive. Ibant et laeti pars tanctum voce canehanl, Auetorem genlis, pars laudes ore ferebant, Sahe, Uuis, qui de patrio cognomine primus. Dixisli poputos magna ditione Sabinos. Forse dunque nel testo di Dionigi dee leggersi Sabo e non Sabino. Festo e Yarrone additano che Sanco tra’ Sabini siguifìca Ercole. Ora Plutarco nel suo Noma e Servio nel libro 8 dell’ Eneide derivano i Sabiui dagli Spartani, e gli Spartani da Ercole. Quindi quel Sabo Sanco non sarebbe che Ercole ; tanto più che Sanco 'redesi il me Diut Fiditu, c questa par furatola per additare Ercole. e lora dagli Aborigeni, e da Pelasghi : e che ne ottennero colla forza delle armi Colina la loro città più cospicua : che spedendo dal contado Reatino delle colonie fondarono altre città non poche, ove, senza cingerle di mura, si viveano ; e tra queste la città che Curi fu nominata : che occuparono campagne lontano circa dugento ottanta stadj dall’ AdrìaUco, e dugento quaranta dal mare Tirreno: e dice che stendeasi la lunghezza di quelle poco meno che mille stadj. Secondo le storie paesane intorno de’ Sabini abitavano con essi già dei Lacedemoni quando Licurgo tutore di Eunomo, nipote suo,. dava a Sparta le leggi : e questo perchè impazientiti alcuni dalia dura legislazione di lui, staccaùsi da’ compagni abbandonarono affatto la città ; e corso ampio tratto di mare, e desiderosi ornai di prendere terra dovunque, si legarono per voto cogl’Iddii di abitare quella appunto ove imprima giungerebbero. Venuti nell’ Italia ai campi detti Pomentini nominarono, dal mare che aveali portati, Feronia il luogo dove prima approdarono, e vi eressero un tempio alia Diva Feronia alla quale aveano fatto i lor voti ; e la quale mutatane una lettera ora Faronia si chiama. Alcuni da indi rimovendosi ne andarono a dimorar tra’ Sabini : e però spartane sono molte delle loro istituzioni, spartani principalmente gli amori per la guerra ; la parsimonia e la durezza nelle opere tutte della vita. Ma ciò basti su la origine de’ Sabini. L. Ben tosto Romolo e Tazio ampliarono la città congiungendole altri due colli, 1’ uno chiamato Quirinale, e Celio r altro. E ponendo separatamente le case. 1 8 1 viveasi ognuno nelle sedi sue. Avessi Rouiolo il monte Palatino ed il Celio, monte contiguo col primo. ^azÌo avevasi il Campidoglio, occupato già ne’ principi da esso, ed il Quirinale. Recisa la selva la quale spandevasi appiè del Campidoglio, e ricoperta in gran parte di terra la palude, la quale per la concavità dei sito rooltiplicavasi dalle acque scese da’ monti, fecero ivi il foro, dei quale servonsi ancora i Romani. E là tenendo le adunanze, consultavano nel tempio di Vulcano, cbe quasi al foro sovrasta. Inalzarono i tem^q, e consacrarono gli altari ai Numi, a’ quali gli aveano promessi co’ voti nelle battaglie. Romolo ne eresse uno a Giove Statore presso la porta òe Muggiti la quale mena dalla via sacra al Palatino, perché quel Nume esaudendo i voti di Romolo fe’ cbe l’ esercito suo già fuggitivo si arrestasse,, e si volgesse a fronte dei nimico. Tazio ne eresse al Sole, alla Luna, a Crono, a Rea, ' come pure a Vesta, a Vulcano, a Diana, ad Eniàlio ed altri difScili a nominarsi con greca parola. Mise in tutte le Curie le mense per Giunone Quirizia  le quali esistono ancora. Dominarono cinque anni insieme senza dissidio, e compierono in quel tempo con impresa comune la spedizione contro de’ Camerini. Impercioccbè questi mandando delle masnade assai danneggiavano loro il paese : e tuttoché chiamativi non erano mai comparsi a darne ragione. Adunque schieratisi a fronte di essi, e vintili in campo, e poi nell’ assalto delle mura, gli astrinsero a cedere le arme e la terza parte della re Secondo Pesto vuol dire Giunone coW atta, vedi $ 4^ prcoedenle. • Digitized by Google iSa PFLLE Antichità’ romane gione. Continuando nondimeno i Camerini ad Infestarla riuscirono nel terzo giorno I re coll’ armata e li fuga-, rono, e ne divisero ogni cosa ai proprii soldati, concedendo solamente che quelli, se volevano, si domiciliassero in Roma. Quattromila quasi ve ii’ ebbero, e lì compartirono tra le curie. E Camaria, sorta già tanto tempo prima di Roma, Camaria già domicìiio famoso degli Aborigeni, e poscia di un ramo di Albani, fu ridotta colonia de’ Romani. Tornò, nei sesto anno il comando a Romolo sodamente, morendo Tazio per le insidie de’ primarj tra Laurenlini tesegli per questa cagione. Scorsi gli amici di Tazio a far preda nel territorio de’ Laurenlini ne aveano rapito danari in copia, e menato via de’ bestiami t uccidendo o ferendo chiunque presentavasi a rivendicarseli. Spedita quindi dagli offesi una legazione a reclamar la giustizia, Romolo sentenziò che gli o^ fensori le si consegnassero. Tazio però sollecito degli amici, non istimava bene che si desse alcun cittadino perchè si portasse in giudizio tra forestieri e nemici. Laonde intimò che quanti si richiamavano della ingiuria venissero e discutesserla ne’trihunali di Roma. Cosi non trovando giustizia partirono indispettiti gli ambasciadori. Ma datisi per isdegno alcuni Sabini a seguitarli gli assalirono, che dormivano tra le tende lungo la via sorpresivi dalla notte : e spogliatili di ogni cosa, ne scannarono quanti giaceansi ancora ne’ letti. Si ricondussero alia loro città quauti si avvidero a tempo deir insidie e fuggirono. Dopo ciò venendo ambasciadori da Laurento e da molte città si dolsero su’ diritti violati, ed intimarono la guerra, se non erano compensati.  LII. Sembrava a Romolo, com’ era, terribile 1’ oltraggio d(^li ambasdadori e degno di una subita espiazione, es:;endosi profanata una legge santa. E vedendo che Tazio tcneane picciolo conto, egli senza più indugio presi e legati i complici, li diede agli ambasciadori \ ortato a Roma ebbe magnifica sepoltura, e la città gii rinnova ogni anno pubblici sagrifizj. LUI, Romolo trovandosi un’ altra volta solo nel principato purificò la infamia commessa contro gli ambasciatori pubblicandone privi dell’ ncque e del fuoco gli autori, faggitt già tutti da Roma al primo udire la morte di Tazio. In opposito essendogli conseguati da Laurento ero la vittoria per saviezza del capitano, il quale occupato di notte un monte non molto lontano da’ nemici teneavi in agguato il fiore de’cavalieri, e dei fanti, giuntigli ultimamente da Roma. Tornati in campo ambedue per combattervi come prima, non si tosto diè Romolo il segno convenuto a quelli del monte, corsero schiamazzando dalle insidie alle spalle de' Vejentani : e piombando essi, freschi ancora su uomini stanchi, non durarono lunga fatica a travolgerli. Pochi ne morirono in campo ; ma molti piò nellt; acque del Tevere, il qual fiume scorre presso Fidene, lanciativisi per iscampare nuotandovi. Perocché parte per le ferite e la stanchezza non resse a compiere il transito, e parte per la imperizia del nuoto e la confusione dell’ animo in vista dei pericoli soccombè tra’ vortici non preveduti. Se i Vejentani avessero ponderato seco stessi, quanto furono sconsigliati la prima volta, e se avessero dall’ora in poi cei^ cato la calma, non sarebbero incorsi in disastri, più gravi ancora. Ma sjierando di riaversi de’ mali passati, e pensando che vincerebbero di leggeri, se uscissero con apparato maggiore ; bentosto arrolate milizie in copia dalla città loro, e procuratene presso de’ nazionali secondo i trattati di amicizia, marciarono per la seconda volta contro de’ Romani. Si combattè di nuovo ferocemente presso piiuii. iiy Ci( ••. ' 187 Fidene ; e di nuovo i Bonnani vi superarono i Yejenti, e ve ne uccisero, e più ancora ve ne imprigionarono. F 11 invasa la loro trincierà piena di danari, di arme, di S( biavi: furono prese le barche lluviali cariche di vettovaglia copiosa e con queste per lo fiume trasportati in Roma li prigionieri. Fu questo il terao trionfo di Romolo ma più brillante assai de’precedcnti. Venne dopo non molto un' ambasceria de’ Vejenli per chetare la guerra e chiedere perdono de’ mancamenti, e Romolo ne secondò le istanze imponendo : che cedessero i terreni contigui al Tevere nominati Setlepagi : che non si accostassero alle saline presso le bocche del Jiume : e che dessero cinquanta ostaggi in pegno, che non farebbero innovamenti. Si rimisero i Vejeiiti alle leggi: e Romolo fece tregua con essi per cento anni, e ne scolpi su più colonne le condizioni. Rilasciò senza compenso i prigionieri vogliosi di andarsene ; ma rendè cittadini di Roma quanti pregiarono di rimanersene, ed erano più numerosi degli altri, e li comparti fra le curie, e diè loro in sorte le campagne di qua del Tevere.. Quest furono le guerre di Romolo degne di stima e di ricordanza : e parmi, che se egli non sottomise ancora altri popoli vicini, ne fosse cagione la fine prematura di lui, quando era florido ancora per le armi. Di questa fine varj e molli ne sono i racconti. Coloro .che più ne favoleggiano dicono, che intanto che aringava le milizie, abbujatosi l’ aere sereno, e fattasi procella terrìbile, Romolo diventasse invisibile, e che Marte il suo genitore in alto se lo rapisse. Ma chi scrive cose più vcrisimili dice che da’ suoi cittadini fu morto ; e dice elle gliene fu cagione 1’ aver egli restituito senza il voto del popolo, contro la consuetudine, gli osti^gi presi gii da' Vedenti ; il non serbare la eguaglianza tra i cittadini antichi e novelli, ponendo i primi in altissimo onore, e trascurando gli ultimi: e Gnalmente Tincrudelire nelle pene dei delitti, e lo insuperbire. Imperocché sentenziando, solo, da sé comandò che fossero precipitati dalla rupe non pochi nè ignobili uomini, incolpati di essere scorsi a predare i vicini. Ma soprattutto,ne fu cagione, 1’ essersi ornai renduto pesante, e dispotico f e tiranno, anzi che principe. Per questo, narrano, che i patrizj, congiuratisi, ne decisero la morte, e la eseguirono nel Senato ; e che divisone in brani il cadavere, perclté non se ne sapesse, uscirono occultandone sotto le vesti ognuno la parte sua, che pdi seppellirono, onde renderle invisibili. Altri però narrano che egli aringando fosse tolto di mezzo da’ cittadini nuovi di Roma ; e che m lanciassero ad ucciderlo quando appunto abbuiatosi il cielo, crasi il popolo dileguato, ed egli rimasto senza guardia : e però dicono che un tal giorno tien nome da quel dissiparsi di popolo, chiamandosi tuttavia fuga della moltitudine. Sembra che gli eventi ordinati da’ Numi sui concepimento e sul termine di quest’ uomo diano non piccola occasione a coloro che fanno de’ mortali un Iddio, e che ne spingono al cielo le anime più segnalate. Perocché nella .compressione della madre di lui sia per uno Dio, sia per un nomo, affermano che il soie si ecclissasse, e che tenebre, totali come nella notte, coprissero la terra; e che il simile avvenisse por nella morte. ROMOLO IL FUNDATORE DI ROMA, il primo, assunto da lei perchè la domioasse, cosi narrasi che finisse. E tutlodiè nella età di cioquanlactnque anni, e già monarca da trentasette non lasciò rampolli di sua generazione. Novello in tutto delr impero de’ popoli, se lo ebbe nell’ anno suo diciottesimo come unanimi lo ripetono gli storici di queste cose. LVII. Nell’anno seguente non si fece alcun re dei Romani : ma vigilava su la comune un magistrato detto interré, costituito in questa maniera. I Patrìzj ascritti da Romolo in Senato, dugento, come dissi, di numero si divisero io decadi. Poi traendo le sorti diedero la reggenza sovrana a que’ dieci che primi erano favoriti dalle sorti ; non già che i dieci reggessero tutti in un tempo, ma successivamente ciascuno cinque giorni, nei quali avea con sé li fasci, e gli altri simboli del regio comando. Il primo cedeva il comando ai secondo, questi al terzo e cosi fino all’ ultimo. Decorso lo spazio dei cinquanta giorni, fisso. pe’ dieci, primi nel comandare, succedea la decade seconda al governo, e poi le altre via via. Finalmente piacque al popolo di abolire questi decemvirati, essendo ornai stanco da tanto trasmutarsi di comandanti, varj nella natura e ne’ genj. Allora dunque i Senatori convocando l’ adunanza del popolo per tribù e per curie renderono ad esso il potere di discutere la forma del governo, cioè se volevano un re ; o se annui magistrati. Ed il po[K>lo non decise già esso, ma fece che scegliessero i Senatori, pronto di attemperarsi  Ciò fu nell’anno 713 avanti Cristo : secondo Catone nell’ anno 38 e secondo Varrone nel 4 ° di Roma] all’ ordìae che approverebbei'o. Parve a tutti di fondare la regia domiuasione ; ma non tutti concordavano tra i quali si avesse ad eleggere il futuro monarca : e chi pensava che tra vecchi e chi volea che tra’ novi Senatori ossia tra gli aggiunti di poi, à dovesse trascegliere il |>er8onaggio che regnerebbe su Roma. LYIII. Procedendo la disputa, si convenne finalmente su questi due punti : che i Senatori antichi scegliessero il monarca non però del ceto loro, ma qualunque altro ue giudicassero idoneo; o che farebbono ciò li Senatori novelli. Presero essi la scelta i Senatori più antichi, e molto consultandone stabilirono ; di non dare, giacché essi ne erano esclusi, il principato a niuno degli emuli, ma di creare monarca un personaggio cercato ed intro> dotto di fuori, nè aderente ad alcuno de’ due > principalmente perchè semi non ci avessero di discordie. Ciò deliberato, destinarono co’ voti loro, il figlio del chiarissimo nomo, Pompilio Pomone, Sabino di lignaggio, Numa di nome, e per età prudentissimo, come non mollo lontano dall’ anno quarantesimo. Regia ne em la dignità dell’ aspetto ; e grandissima la riputazione per la sapienza non pur tra’ Cureti ma tra popoli intorno. Pertanto riuniti in questa sentenza adunarono il popolo ; e fattosi in mezzo l’ uno di loro, interré di que’ giorni, disse : che piaceva a tutti i Senatori di fondare un regio governo : e che egli incaricalo di trascegliere chi lo assumesse trasceglieva in Numa Pompilio il monarca di Roma. Dopo ciò deputando dei Patrizj ; gli spedi perchè invitaswro il valentuomo alla Reggia. E fu questo nell’ anno terzo della Digitized by Google gemati da Romolo per non essere stati con'esso in guerra niuna, non godevano terre, nè utile alcuno. Questi senza case, e vaganti per la miseria, erano di necessiti nemid ai più ricchi, e vogliosi di mutamenti. Fra tali agitamenti fluttuava Roma quando Numa ne prese le redini, e su le prime ricreò la classe de poveri, compartendo loro porzione delle campagne possedute da ROMOLO, ed un tal poco ancora de’ terreni dei pubbln co. Non togliendo quanto godeano, ai patrizj fondatori di ‘Roma, e concedendo ai patrizj più recenti altri onori, ne chetò le discordie. Proporzionata come uno stromento tutta la moltitudine all’ oggetto unico del pubblicò bene; ed ampliato il giro della città con inchiudervi II Quiri. naie, colle non ancora cinto di mura, si rivolse ad altre istituzioni. E concependo che grande e beata diverrebbe la città che se ne adorna ; procurava queste due cose : la pietà primieramente, insegnando agli uomini, che gl’ Iddi! sono i datori e li custodi di ogni bene alla mortale natura ; e poi la giustizia, dimostrando che per essa i beni dispensati da’ Numi arrecano delizioso godimento a chi li possiede. Non reputo però che slan tutte da scrivere le leggi e le pratiche per le quali consegui 1’ uno e l’altro intento e con tanta amplitudine; perchè temo la prolissità de’ racconti, uè la vedo necessaria ad una storia pe’GrecI. Solo ne dirò sommariamente le cose principai lissime, idonee a dimostrare la mente di un tanto uoimo, cominciando dalle disposizioni di lui sul culto divino. Lasciò nel pieno vigore lé consuetudini e le leggi die  trovò fondate da ROMOLO, credendole benissimo istitoite: ne supplì quante ne erano state da lui pretermesse ; e diè sacri luoghi a’ Numi, non adorati ancora, c fece altari e tempj, e compartì feste per ognnnp, e ministri per le sante cose. Finalmente ne ordinò colle leggi la illibatezza, le espiazioni, le suppliche e tante altre onori Gcenze e tanto culto ; quanto non mai ne ebbe nonbarbara gente, nè Greca, nemmeno delle più famose un tempo per la pietà. Comandò che Romolo ancora, divenuto più che uomo, s’ intitolasse Quirino, e si onorasse con templi e con annui sacrifizj. Perocché non sapendosi ancora come Romolo fosse sparito, se per divina provvidenza, o se per Iraude umana ; venne in mezzo del F oro un tal Giulio, un agricoltore della stirpe di Ascanio, uomo incolpabile di costumi, nè capace di mentire per utile alcuno. Ora costui disse che tornandosi di campagna vide Romolo che partivasi di città colle arme ; e che fattoglisi più da vicino gl’ intimava : O Giulio va, riferisci in mio nome ai Romani ; che il Genio che ni ebbe in sorte per custodirmi quando io nacqui ; questo, ora che io compiei la mortale carriera, mi solleva tra Numi, e che io sorto Quirino, Noma stese in iscritto tutte le ordinazioni su le cose divine, dividendole in otto classi, quante erano quelle de’ sacerdoti. Diè l’ incarico primo delle funzioni religiose ai trenta Curioni de’ quali io diceva che coinr pieano i sacrifizj comuni delle curie : diè 1’ altro si Stefanofori detti da’ Greci, e Flamini dai Romani, cosi nominati dai portare delle berrette e delle bende le  Nel usto PUot e stemma. 0 ptimo era una specie di berretta quali portano ancora, e le quali Flama si chiamano : diede il terzo ai capitani dei Celeri, soldati come additai, che combàttono a piedi e a cavallo in guardia dei monarchi; e certo que’ capitani ancora fornivano divini ordinati esercizj : diede il quarto a quelli che interpetrano i segni mandati dal cielo, e dichiarano se conceróOno private o pubbliche cose. I Romani chiamangli Auguri dall’ indole dei precetti dell’ arte loro, e noi OionopoU li chiameremmo, uomini scenziati in ogni divinazione de’ segni del cielo, dell’ aere, e della terra. Il quinto alle vergini, custodi del fuoco sacro, appellate Vestali fra loro dal nome della Diva a cui servono. Noma il primo fondò il tempio di Vesta, e misevi delle vergini che ministrassero nel culto di lei. Su che rileva che io dica alcune poche còse le più necessarie ; dimandandole il sobjetto ; perocché degna ne è la ricerca, e degna pur si stima da’ romani scrittori in questo luo 30 a consola di una tomba, non 1’ esequie, non altro rito niuno legittimo. Molti sono gl’ indiz) di mancanza nel santo ministero, e principalmente lo spegnersi del fuoco: accidente che i Romani temono più di tutti i mali, pigliandolo, e sia qualunque Torigine di esso, come presagio della rovina ultima di Roma. E molto ossequiando e placandolo; di nuovo riconducono il fuoco nel tempio. Ma di ciò sarà detto a suo luogo. > LXVIIL Ben è degna che raccontisi l’assistenza manifestata delia Dea per le vergini indegnamente accusate. Credesi questa da Romani, quantunque ioconcepibile, e molto gli scrittori ne ragionarono. Quei che vansene a maniera degli Atei filosofando, se filosofare dee dirsi mai questo, ripudiano tutte le assistenze de’ Numi avvenute tra Greci e tra Barbari, e molto ne deridono i racconti, ascrivendole a ghiattanza nmana, quasi niuno de’ celesti prenda cura delle cose de mortali. Ma quelli che non levano agl’ Iddi! questa cura, e li giudicano propiz) ai buoni, e malafifetU a’malvagj, venendosene con istorie moltissime, non prendono per impossibili tali divine manifestazioni. Narrasi dunque che smorzandosi un tempo il fuoco per poco avvedimento di Emilia, che allora ne era la guardiana, perocché ne avea trasmessa la cura ad una compagna novella, e di fresco ammaestrata ; Borsene in città turbamento ben grande, e si cercò dai pontefici se violazione ci avesse nel ministero santo del fuoco. Allora, dicono, che Emilia, la incolpabile Emilia, non sapendo che farsi nell’evento stendesse io presenza de’ sacerdoti e delle vergini le mani in su l’altare e dicesse: o Vesta, o tu Dea, custode di Roma, se 2o5 io santamente, e debitamente compiei le sacre tue cerimonie ornai da treni anni, se pura l anima mia, se immacolate ti si presentarono le membra di questo mio corpo, deh ! tu soccorrimi, nè volere trascurare^ che la tua sacerdotessa miserandamente si muoja. Ma se io pur commisi alcuna cosa men pia, deh ! che nelle pene mie la pena si dissipi di Roma. Ciò detto è fama che spiccando il lembo dalla veste di lino onde era coperta lo gittasse in so 1’ altare : e che dopo la preghiera, essendo la cenere già fredda, e già senza favilla ninna, brillasse di.su per quel lembo una damma copiosa, talché più non abbisognò la città né di puri' ficaztoni, né di fuoco novello. Più meraviglioso ancora e più somigliante ad una favola è ciò che io sono per dire. Narrano che un tale accusasse Tuzìa 1’ una delle vergini ma >n alle gazioni non vere di congetture e di testimonj ; non polendo affermare che fosse per lei venuto meno il ìkoco : e che la vergine comandata rispondere dicesse che smentirebbe co’ fatti le calunnie : che ciò detto invocata la Dea perché le fosse guida nelle sue vie, s’in? camminasse verso del Tevere concedendolo i pontefici, seguita dalla moltitudine: che giunta in riva del fiume, si ponesse a cimento impossibile, ora passato in proverbio : cioè, che prendesse acqua con un vaglio vuoto e ve la recasse fino al Foro, quivi ai piedi spargendola de pontefici. E narrano che dopo ciò 1’ accusatore di lei, per quante ne fossero le ricerche, né vivo più nè morto si ritrovasse. Ma quantunque dell’ intramettersi della Dea potrei soggiungere più cose ; reputo che bastino le dette finora. 2o4 delle Antichità’ romane La sesta parte delie istituzioni religiose fa quella intorno àe Salii che chiamansi In Roma. Numa stesso li nominò scegliendo dodici decentissimi giovani patiizj. Stansi le sacre loro cose nel palazzo ; ed essi ne sono chiamati Palatini. Ma gli Agonali, de’ quali serbansi le sacre cose nel poggio Collina, questi cognominati Salj Collini, furono istituiti dopo Noma da Ostilio re pel voto fatto da lui nella guerra co’ Sabini. Del resto i Salii tutti sono danzatori e lodatori dei Numi delle arme. Tornano le loro solennità arca i tempi delle nostre Panalenee nel mese detto di marzo : si celebrano a pubbliche spese per piò giorni, ed in questi guidano per la città cori di saltatori al Foro, al Campidoglio, ed altri luoghi speciali, o comuni. Variopinte ne brillano le toniche traversate con cinture di rame ; ed affibbiate sono le trahee loro che chiamano, luminose di porpora intorno. Sono le trahee in Roma pregiatissime, e proprie del luogo. Torreggiano loro sul capo tiare  alte con forma di cono, apici dette fra loro, ma cirbasie tra’ Greci. Ognuno è cinto di spada; stringe colla destra mano un’asta o verga, o cosa consimile ; e colla sinistra uno scudo romboidale, stretto ne’ lati, quale è quello de’ Traci, e quale, dicesi che in Grecia lo portino quelli che vi celebrano le 'sacre cose dei Curetl. I Salj, per quanto io conosco, sarebbero con greca Interpetrazione I Cureli, denominati  Nel testo sono detti piUi, ma le cirbasie erano specie di tiare secondo Esicbio la lesione dello scudo romboidale è del codice V aticano e par la migliore.. 2o5 cosi tra noi dalla età giovanile  ; ma tra’ Romani hanno quel nome dal moversi faticoso : perocché spio carsi e battere co’ piè la terra tra lor si chiama salire. Per questa ragione medesima quanti altri noi chiameremmo dallo spiccarsi e battere con tal modo, essi gli chiamano salitorì con voce originata dai Salj (a). Che poi dirittamente io do questi nomi, può chi vuole, concluderlo dalle cose che fanno. Movonsi colle arme regolatamente al suono delle tibie, ora insieme, ora a vicenda, e danzando intuonano patrie canzoni. Ora se dee con antichi monumenti procedersi, i Gureti furono primi che insegnarono a danzare armati tripudiando e battendo con le spade gli scudi : nè bisogna che io ripeta ciocché ha la fàvola su loro, essendo noto poco meno che a mtti. Ben molti sono gli scudi che portano i Salj, 0 che i loro ministri portano sospesi in su de’bastoni: ma tra questi uno ce ne ha che dicesi caduto dal cielo. È fama che fosse nella reggia ritrovato di Numa, non avendovelo recato ninno, anzi neppur conoscendosene la forma nella Italia. Argomentarono da tali due segni 1 Romani che fosse quell’ arme celeste di origine. E volendo, Numa che lo scudo si onorasse, e recasse nei dì solenni per la città da’ giovani cospicuissimi, e riscotesse annui sagrifizj ; e temendo che i nemici in oc  Quasi aiaao Ktft$ gioTaoi, ma forte ebbero cuti nome ^wi rnt cioè dalla tontora : perchè erano tosi nella parte anteriore del capo. (a) Si saltava anche prima de’ Salj, però la voce salùores che precede non è pptieriote al nome de’ Salj. culto lo ÌDsidiassero e rapisserio; dicono che fabbricasse molti scudi uniformi a quello caduto dal cielo, accingendosi Mamorìo artefice a questo, che f arme divina per la somiglianza egualissima con altre umane non più potesse contrassegnarsi e riconoscersi da chiunque vi macchinasse un inganno. Ebbe quel rito de Cureti accoglienza e pregio tra’ Romani, come io lo deduco da più seghi, e principalmente dai spettacoli nel circo e nei teatri. Ne’ quali spettacoli giovinetti già puberi, acconci d’ abito con cimiero, con spada, e con scudo, moTonsi come con le leggi di un ritmo armonioso; e £utlioni chiamansi i duci della pompa, dalla invenzione fattane, sembra, nella Lidia. Questi sono, a me pare, immagine de’ Salj ; perocché non fanno appunto come i Salj cosa ninna in foggia de’ Cureti sia negl’ inni sia ne’ salti; e prendonsi da ogni condizione; laddove i Salj deggiono esser liberi e naturali del luogo, e ricchi di padre e di madre. Ma perché mai rigirarmi più a lungd su queste cose? È la settima parte delle leggi sacre indiritta a dar ordine a’Feciali che chiamano. Questi con greca significazione giudici si direbbono della pace : scelgonsi tra le più illustri famiglie, e restansi per tutta la vita ht santo ministero. Numa anch’egli dava la prima volu ai Romani tal ceto venerando. Io non so definire sé egli ne derivasse l’esempio dagli Equicoli, come alcuni pensano, o se, come Gelilo scrive, da Ardea : bastami dir solamente che innanzi Numa non erano Feciali tra i Romani. Numa quando era per dar guerra a’ Fidenati, perchè aveano fatto scorsa e ruberia nel territorìu'dt  lui ; Numa gl’ ioslitul, perchè vedessero se voleano pa> ciGcarsegli senza le arme, come vinti dalia necessità poi fecero. E poiché non ci ha nella Grecia tribunale di Feciali; giudico necessario di adombrare quante e quali De sieno le incombenze; perchè coloro che ignorano la pietà che i Romani coltivano, non si meraviglino che tutte ad ottimo fine riuscissero le guerre loro : certamente imprendeano queste con prìncipj e cagioni onestissime, dond’è che aveano propizj gl’ Iddi! ne’ pericoli. Non è già fiicile, per la moltitudine, comprendere le cure tutte de’ Feciali. A delinearle però con tocco lieve son tali : debbono cioè provvedere ' che i Romani non movano guerre ingiuste a ninna città confederata ; che cominciando taluna a rompere i trattati verso loro, vadano ambasciatori, e ne dimandino il giusto prima con parole, poi v’ intimin la guerra, se non ubbidiscono. Similmente se mai confederati alcuni dicendosi offesi da’ Romani chiedano de’ compensi, debbono i Feciali riconoscere, se quelli han sofferto contro dei patti; e se par loro che lamentinsi con diritto fan prendere e consegnare i colpevoli ai danneggiati. Giudicano su gli oltraggi degli ambasciadori, e vegliano per la Osservanza fedele dei trattati : fan le paci o le annullano, se fatte sieno contro le leggi sacre : decidono ed espiano, quante sono, le violazioni fatte de’ giuramenti e delie alleanze' da’ capitani : ma di ciò dirò ne’ suoi Inoghi. Quanto ali’ andarsen’ essi come araldi per esigere soddisfazione da città che sembrino offenditrici, ne ho conosciuto (peste cose, non indegne ancor esse che si risappiano, per la molta cura che involgono della giu-." sUzia e della pietà. Uno de’ Feciali eletti a voti dagli altri, cinto degli abiti e delle insegne sacre perchè fra tutti distingnasi, vassene alla città rea: ai primo toccarne i conGni, attesta Giove ed altri dumi che egli' viene perchè Roma sia compensata : poi giurando che, dirigesi alla città colpevole, ed invocando s’ei mentisce, maledizioni terribili contro sè stesso e contro Roma, slanciasi olure i conGni. Quindi protestandosi ancora col primo che gli s’ imbatte, rustico o cittadino che sia, C; ripetendo l’ esecrazioni medesime, continua di andare iu città ; ma prima di entrarvi protestatosi nel modo ine>. desimo col portinajo e con qual’ altro nelle porte gli capita il primo, s’inoltra sino al Foro; ove giunto parlamenta co’ magistrati ; aggiungendo tratto .tratto giur ramenti, ed imprecazioni. Se danno soddisfazione consegnandogli li colpevoli, egli menali seco e vassene, amico già, dagli amici. Che se dimandano tempo per consultarsi, ripresentasi dopo dieci giorni, e pazienta Gno alla terza dimanda. Decorsi trenta di se la città non siegue il dover suo, egli invocati i Numi celesti e grinfemali se ne parte, questo solo dicendo, che Roma deciderebbe, tra la sua calma, su loro. Poi recatosi cogli altri Feciali in Senato, dichiaravi come tutto fu compiuto secondo le leggi sacre, quanto convenivasi : e che se vogliono risolversi per la guerra niente vi si oppone dal canto degl’ Iddii. Senza tali pratiche nè il popolo, nè il Senato può conchiudere col voto suo j la guerra. Questo è quanto abbiamo risaputo su’ Feciali. Nelle ordinazioni di Numa intorno le,, cose divine v’ ebbe in ultimo la classe la. quale ottennero quanti aveano in Roma sacerdozio ed autorità superiore. Questi con patria voce si chiamano pontefici dal rifarsi di un ponte di legno che è uno degl’ incarichi loro ; s son gli arbitri di cose grandissime. Imperocché giudicano tutte le cause sacre de' privati, de’ magistrati e de’ ministri de’ Numi : fissano le cose religiose non scritte nè solite ; scegliendo le leggi, e le consuetudini che stimano più acconcie : esaminano tutti i magistrati o tutti i sacerdoti a’ quali è fidata la cura de’sagrificj e ' della venerazione de’ Numi: provvedono che i loro ministri e cooperatori non violino punto le sacre leggi : espongono ed interpetrano il culto de’ Numi e de’ Genj a’ privati che lo ignorano; e se colgono alcuno, disubbidiente agli ordini loro, lo puniscono secondo i delitti: ma essi non soggiacciono nè a giudizio nè a multe, non rendendo ragione nè al Senato nè al popolo. Non travierà poi dal vero chiunque vuole chiamare tali sacerdoti o dottori, o dispensatori, o custodi, oppure interpetri delle sante cose. Mancando ad alcuno di loro la vita gli viene sostituito un altro, il più idoneo ripu .tato tra’ cittadini ; nè già il popolo sceglielo ; ma essi medesimi : 1’ eletto però piglia il sacerdozio, quando propizj gli siano gli augurj. E tali sono, oltre alcune più piccole, le leggi più grandi e cospicue di Numa sulla pietà, compartite secondo i rami varj del culto, per le quali Roma ne divenne più religiosa. Moltissime poi sono le leggi che guidano r uomo a vita frugale e temperata, e che ingenerano r amore della giustizia' la quale custodisce in città la coacordia : altre però di queste sono scritte, ed altre non scritte ma passate pel lungo esercizio in abitudini. E lungo sarebbe a dire di tutte ; ma basterà dire di due più degne di ricordanza, e cbe sono argomento delle altre. La legge su’ confini da’ poderi fu causa che oguuno si contentasse de’ proprj ; non gli altrui desiderasse. Imperocché comandando a ciascuno di marcare intorno i proprj poderi, e di porvi de’ sassi per termini, dichiarò sagri que’ sassi a Giove Terminatore, e volle che tutti periodicamente ogni anno recatisi in sul luogo vi facessero sopra de’sagrifizj, e stabili parimente una festa in onore degli Dei termini. I Romani chiamano la festa Terminali, da que’ sassi o termòni, che essi con simiglianza al nostro idioma, chiamano termini ^ mutata una lettera soia. E se alcuno involava o trasponeva que’ termini fu per legge sacro agl’ Iddii ; talché potesse, chiunque volevalo, uccidere qual sacrilego impunemente, e senza macchia di colpa. Nè stabili tal diritto su’ poderi de’ privati solamente, ma su quelli del pubblico eziandio, circondandoli di con&ni ; perchè gii Dei termini tenessero distinte le terre comuni dalie individuali, e quelle de’ Romani dalle altre de’ convicini. Praticano i Romani pur ne’ miei tempi un tal rito, almeno per apparenza, come ricordatore de’ tempi : perocché riguardano i termini come Numi, e sagrificano ad essi focacce di fior di farina, ed altre primizie di frutti, e non già cose animate ; essendo profanità riputata insanguinarne le pietre. E bisogna che rispettino la cagione medesima per la quale fecero d’ogni termine un Dio, contenti de’ poderi proprj, non arrogandosi gli altrui colla forza, o coll’ inganno. Ora però contrassegnano i propri  ma a propagare la giustizia e la moderazione ; e con questi tenne il comune di Roma ordinato più ancora di una famiglia. Con quello poi che ora io sono per dire egli fe’ Roma sollecita procnratrice delle cose necessarie e delle dilettevoli. Considerando il valentuomo che una città istituita per amar la giustizia e serbare la temperanza non dovea penuriare delle cose necessarie ; divise tutta la campagna in porzioni chiamate pagi, assegnando per ciascuna un capo che la visitasse e curasse. Questi recandovisi di tempo in tempo, e notandovi i buoni o tristi cultori, ne riferivano poscia al sovrano ; ed il sovrano ricompensava i buoni con lodi e con altre gentili maniere ; e svergognava i tristi o mullavali, onde accenderli a cultura migliore. Quelli dunque che sciolti dalle core della guerra o della città sen vivevano in ampio ozio, pagandone col vitupero o colle multe la pena, diventavano tutti operosi in lor bene, e riputavano la ricchezza della terra che è la più giusta di tutte, essere ancora più dolce della militare, che incerta fluttua ognora. Segui da ciò che Numa fu amato dai sudditi, emulato da' vicini, e celebrato da’ posteri. Per opera di lui nè sedizione interna disunì la città, nè guerra esterna la distolse dalla disciplina sua bonissima e mirabilissima. E tanto i circonvicini furono alieni da prendere la calma inerme de’ Romani come occasione d’ invaderli; che se prorompea guerra alcuna tra quelli, assumevano i Romani per mediatori; e deliberavano di spegnere le inimicizie su le condizioni date da Numa. Pertanto io non prenderei vergogna di collocare questo uomo tra’ più famosi per sorte beata. Nato di regia stirpe ebbe regia presenza, e si esercitò nelle discipline non già di lettere vane, ma in quelle donde apprese la pietà verso i Numi, e la pratica di altre virtù. Giovine fu riputato degno di prendere il comando di Roma : ed invitatovi a prenderlo per la bella fama delle sue virtù, regnò per tutta la vita su popolo docilissimo. Complesso com' era di persona ^ nè danneggiatone mai dalla sorte, giunse a lunghissima età. Finalmente consumato dalla vecchiaja venne meno a sé stesso con morte placidissima. Quel medesimo genio di felicità che gli era toccato da principio, quello sempre lo accompagnò finch’ egli non fu tolto dall’ aspetto de’ mortali. Visse più di ottant’anni, regnandone quaranlatrè. Di lui restarono, come i più scrivono, quattro figli, ed una figlia, de’ quali conservasi ancora la discendenza : ma Gellio scrive che egli non lasciò che una figlia, dalla quale nacque Anco Marzo, terzo re di Roma dopo lui. Tutta la città si abbandonò, lui morendo al dolore ; facendogli nobilissima sepoltura. Egli riposa nel Gianicolo di là dal Tevere. E tali sono le (jose che ‘ abbiamo risapute su Numa. IVEancatO Numa Pompilio, i Senatori arbitri nuovamente de’ pubblici affari deliberarono di conservare il governo medesimo: nè già il popolo era di altro avviso. Adunque deputarono un numero certo de’ Seniori i quali comandassero intanto nell’ interregno. Da questi, approvandolo tutto il popolo, fu nominato re Tulio, Ostilio, di cui la origine fu, come siegue. Un tale, Ostilio di nome, uomo nobile e facoltoso di Medullia, città fondata dagli Albani, presa a condizioni da Romolo e venduta colonia romana, trasportatosi, per domiciliarvisi, a Roma, vi tolse in moglie una sabina, la figlia appunto di quella Ersilia, la quale, ardendo la guerra co’ Sabini, consigliò le sue nazionali di ao libro in. 2 i 5 darne oralrici ai padri loro su de’ mariti, e la quale sembra la cagion principale che i due popoli si racchetassero. Compagno costui di Romolo in più guerre, e segnalatovisi per opere grandi ; moti finalmente, lasciando un unico figlio, nel combattere co’ Sabini, e fu sepolto dai re  nella parte più insigne del Foro, onorato di una iscrizione, che la virtù ne ricordava. Cresciuto 1’ unigenito suo, e legatosi con nobile matrimonio, ne ebbe un figliuolo; e Tulio Ostilio fu questi, uomo elBcace. Dichiarato monarca dal voto, dato secondo le leggi dal popolo; i Numi ne approvarono con augurj propizi la scelta. Quando egli prese il comando, volgea r anno secondo della olimpiade vigesima settima nella quale Euriboto ateniese vinse nello stadio essendo arconte Leostrato (a). E nello stringere appena lo sceu tro si affezionò la classe de’ mercenari e de’ poveri con questa liberalissima azione. Aveansi i re predecessori eletto ampio e bel territorio, colle rendite del quale fornivano i templi di sagrifiz), e le regie case di abbondanza moltiplice. Romolo avealo tolto a’ primi possessori colla legge delle armi : e morendosi lui senza figli, aveaselo goduto Numa che gli succedette nel re^ gno. Laonde non era allora quel podere del popolo ; ma perpetuamente dei re. Tulio nondimeno concedè che si compartisse tra’ Romani privi in tutto di campagna; dicendo essere a lui sufficienti le sostanze paterne per le cose de’ Numi, e della regia famiglia. Sollevò  Romolo e Tazio. ( 3 ) Anni di Roma 84 secondo Varrone, 8 a secondo Catone, avanti Cristo 670.] Goa questa beneGcenza li cittadini bisognosi ; tanto che non più stentassero in servigio degli altri. E perché ninno fosse privo di alloggio aggiunse a Roma il monte Celio chiamato. Ivi quanti non aveano magione se la fabbricarono, pigliatovi sito che bastasse : ed egli stesso la sua residenza vi collocò. E tali sono le operazioni urbane di quest' uomo degne di ricordanza. II. Ma delle militari molte se ne raccontano, ed io mi accingo a parlarne, cominciando dalla gueiTa di lui con gli Albani. Gluvilio, un Albano, allora magistrato supremo, fu cagione che i dne popoli consanguinei si scindessero, e separassero. Punto da invidia, e mal più la invidia potendo rattemperare su la prosperità de’ Romani, come superbo e maligno per indole, risolvè d’ implicare i due popoli in guerra vicendevole. Non sapendo però come volgere gli Albani a commettergli che portasse 1’ esercito contro Roma ; altronde non avendone alcuna causa giusta e necessaria; macchinò' questa o simile trama. Concitò, promessane la impunità, li più poveri e li più baldanzosi degli Albani a far preda su’ campi romani: dond’ è che seguendo un guadagno senza pericolo molti che tra ’l pericolo ancora seguito r avrebbero, empierono le terre vicine di assalti e di latrocinj. E ciò fece con disegno non alieno, come r evento stesso lo dimostrò. Perciocché prevedea che i Romani non sofierendo le rapine correrebbono all’ armi, che egli potrebbe accusarli al suo popolo come primi a romper la guerra : e prevedea che moltissimi Albanesi invidiosi delia prosperità della colonia, riceverebbero C6n piacere le accuse, e farebbero la guerra contro di senti se fosse da accettarsi il partito. A16ne, ascoltatine i roti, tornò nel consesso e disse: A noi non sembra o Tulio che abbiamo a lasciare solitaria la nostra patria, deserti i templi paterni, vuote le case degli antenati, e desolata infine quella sede che i nostri padri tennero quasi per cinquecento anni; tanto più che nè guerra ce ne bandisce, nè flagello niuno del cielo. Non però ci dispiace che formisi un Senato, e che una sia la città che domini, sut altra ancora. Scrivasi questo se così vi pare, tra le condizioni, e levisi ogni seme di guerra. Concordi 6n qui, difTerivano poi sa la città che prenderebbe il comando. E molti furono i discorsi quinci e quindi tenuti, giustificando ognuno che dorea la propria città signoreggiare su l’ altra. L’ Albano insisteva su questo diritto : Noi o Tulio siam dagni di comandare anche al resto d Italia, perchè una gente siamo di Grecia, e la più potente che qui in torno si alloggi. Crediamo giusto di precedere i Latini almeno, se non altri, nè già senza cagione; ma per la legge comune data dalla natura a tutti gli uomini, che 1 padri comandino ai figli : crediamo che ci si convenga il Comando su la vostra città, piucchè su le altre, che pur sono nostre colonie, delle quali non possiamo finora dolerci. Noi abbiamo inviato la colonia nella vostra ; nè già da tanto tempo che siane per t antichità svanito ogni legame di sangue ; ma indietro da tre generazioni. Quando la natura avrà capovolte le leggi umane facendo che i giovani maggioreggino su veechj, e li posteri su gli antenati; allora, e non prima, noi sottoporremo la nostra città madre perchè sia governata dalla colonia. Questo è ìuno de' titoli della nostra superiorità, nè questo mai cederemo spontaneamente. Il secondo è tale. Voi lo prendete, detto non come per calunnia o doglianza, ma per sola necessità. Il popolo di Alba mantienesi ancora qual era sotto de' fondatori : nè può alcuno additarvi altro ramo di uomini, se non Greci o Latini, partecipi della nostra repubblica: ma voi avete contraffatto la sì gran purità della vostra cittadinanza intrinsicandovi Tirreni e Sabini, ed altri barbari molti, erranti e senza patrj lari. Tanto che poco soprawanzavi di quell ingenuo lignaggio che da noi vi si diramava, ed è questo, come un solo, tra i moltissimi, ricevuti dt altronde. Se noi vi cediamo il comando; il . non ingenuo comanderà su l ingenuo, il barbaro al Greco, i estero al patriota. Nè già potreste voi dire che non permettete a peregrini di amministrare il comune, e che voi, naturali del luogo, voi presiedete e regnate : voi creale re forestieri, e senatori in gran parte di altri popoli. Dite: v'inducete a ciò di vostro volere? Ma chi mai di voler suo f chi se più sia valeni uomo abbandonasi cd governo dei meno riguardevoli ? E se apparisce, che voi siete a ciò sospinti da necessità, ben sarebbe grande tj pravità, grande la manìa nostra se volontarj a tanto c inchinassimo. Da ultimo così dico ; in Alba niuna parte ancora si è smossa della repubblica : corre già, da che vi si abita la decima ottava generazione ; e V ordine ancora vi si mantiene, e le abitudini primitive. Ma la vostra città senza buorì ordine e senza bel complesso, come nuova, e sorta da più genti, assai bisogna di tempo e di vicende, perchè inferma e scissa, com’ ella è, sì articoli e calmisi. Tutti poi concederanno che deono le cose ordinate antistare alle disordinate, le cose note alle ignote, e le sane alle inferme. Voi dunque chiedendoci in contrario ; non bene adoperate. A Fuffezio che cosi ragionava sottentrando Tul.> lo rispose, o Fuffezio, o uomini di Alba noi li abbiamo uguali con voi li diritti della natura e del merito de progenitori ; perocché vantiamo ambedue la origine da capi medesimi. Quindi niuno è di noi da meno, o da più dell’altro. Noi non istimiamo nè vero nè giusto che debbano le città madri, quasi per legge indispensabile della natura, dominare su le colonie. E molte sono le nazioni dove le città madri servono, non comandano alle colonie. Massimo, luminosissimo aSi esempio del proposito mio si è Sporta, elevatasi a comandare non pur gli altri Greci: ma fino i Doriesi da’ quali discendeva. Sebbene e che giova dir su gli altri? Voi stessi, voi padri della colonia che fece tlioma, voi non siete che un tralcio de’ Laviniesi. Quindi se diritto è della natura che le città madri regnino su le colonie, non saranno con precedenza i Laviniesi li legislatori de’ nostri popoli ? E ciò sia detto sul primo de’ vostri titoli sì bello nelle apparenze. Siccome tu poscia o Fuffezio ti davi a contrapporre r una all’ altra città, quali sono, dicendo che il puro lignaggio di Alba rimanesi tale ancora; laddove il nostro si è degenerato col tanto soprajfondervi de' forestieri, e che non sono degni i non ingenui di comandare agli ingenui, nè i forestieri agl’ interni ; vedi, quanto anche in ciò ti sei deviato. Tanto è lungi che noi vogliamo vergognarci di rendere la patria nostra comune a chi vuole; che anzi,, di ciò moltissimo ci gloriamo : nè già siamo noi gli autori di tale istituzione : ma ce ne diede Atene l’esempio, Atene tra Greci famosissima per questo, almeno in parte se non in tutto. E questa pratica è sorgente a noi di molti beni non che ci dia rimprovero e pentimento, quasi per essa, mancassimo. Tra noi comanda e provvede, e tali altri onori si gode chi di essi è degno non chi tiene il molto oro, nè chi può la serie additare degli avi sempre nazionali : perciocché non poniamo in altro la nobiltà che nella virtù. ; l'altra moltitudine non è che il corpo della città il quale somministra potenza e forza a savissimi consiglieri. Con tale benevolenza si è la nostra città fatta grande di piccola, e formidabile d' ignobile tra’ popoli intorno, ed è cominciata tra noi la forma di signoria, che tu o Fuffezio condanni, e che niuna ornai de’ latini può disputarci'; perocché sta la potenza delle città nella forza delle armi ^ e la forza delle armi nella moltitudine delle persone. Ma le città piccole, e spopolate, e però deboli non comandano le altre, anzi nemmeno sé stesse. Jo generalmente stabilisco che uno debbe esaltare il proprio governo e riprovare quello degli altri, quando può dimostrare che la sua città col metodo che le ascrive, diviene glande e felice, e che le altre se ne decadono e sconciansi appunto col non seguirlo. Ora così vanno le cose; la vostra città già nel fior della gloria, già ricca di molti beni, si è ridotta ad uno scarso abitato ; e noi movendoci da piccioli principi abbiamo tra non molto tempo ingrandito Roma più d’ ogni altra città vicina, e colle istituzioni che tu ne biasimi. Le. nostre sedizioni, poiché di queste ancora tu ne incolpi o Fuffezio, nontendono alla depressione o rovina, ma sibbene alla salvezza ed incremento del comune. I giovani vi contendono co’ schiari, i nuovi con gli antichi cittadini chi più debba operare il pubblico bene. E per dir tutto in breve, spettano alla città che dee comandare le due qualità, forza nel guerreggiare, e saviezza nel risolvere; e queste tra noi sono ambedue. Né ce ne fa testimonianza un millantarsene vano, ma il fatto che supera ogni dire. Imperocché non era  ni. 233 possibile che la nostra città nella terza generazione appena dopo la origine, fosse già divenuta sì grande e' potente, se non abbondavano in lei senno e valore. Argomentano la nostra potenza le tante città. Ialine le quali sebbene da voi fondate, pure voi dispregiane do, si concederono a noi per essere comandate anzi da Roma che da Alba. E questo perchè potevamo noi prosperare gii amici e por già gl’ inimici ; ma non potfiono gli Albani altrettanto. Ben altre cose e fortissime o Fuff&sio potrei rispondere ai diritti che ne presentasti. Ma considerando che vano è il distendersi, perciocché il dir breve vale quanto il prolisso con voi che siete i competitori, ed i giudici; cesso tT insistere. Aggiungo soltanto, e finisco, che io penso che tunica maniera, bonissima per togliere le nostre controversie, della quale si valsero greci e barbari ne’ dissidj di principato edi territorj sia questa, cioè che gli uni e gli altri veniamo a battaglia con una parte solamente dell’esercito, vincolando la sorte della guerra alla vita di pochissimi, e concediamo che la città che co’ suoi guenneri vince i guerrieri delt emula, quella domini ancora. Ben è giusto che ove le parole non vogliono, i brandi decidano. Tali furono le dispute di que’ due principi su la preminenza delle città : ma il seguito delle dispute non fu se non quello suggerito dal Romano. Imperocché quelli di Alba e di Roma presenti al colloquio cercando ^ un sollecito fine alla guerra ; deliberarono di risolver la lite colle armi. G)ncluso ciò, si ebbe controversia intorno ai numero de combattenti; non sentendone ambedue li capilani in un modo. Imperocché Tulio voleva che si decidesse la gara col menomo delle persone, contrapponendo per combattere uno de’ più riguardevoli Àlbahi ad altro simile de’ Romani : ed egli stesso era pronto a spendersi per la patria, invitando TAlbano ad emularlo. Diceva che era pur bello che quelii che prendono il comando delle schiere, prendano pur la tenzone pel comando e pel principato o vincano de’’ valent' uomini, o vinti ne siano. E qui ricordava quanti capitani e quanti re cimentarono la vita loro per lo comune, tenendo essi a vii cosa di partecipare al più degli onori, ed al men della guerra. L’ Albano credea ben detto che dovessero le due città rischiarsi con pochi: discordava però su la battaglia di un solo contro di un solo. Esponeva che bello, anzi pur necessario è il combattimento da solo a solo intorno la sovranità pe’ capi degli eserciti quando fondano la propria potenza; ma che stolido anzi vituperoso è ne’ suoi pericoli quando ne disputano due città sia che sperimentino sorte propizia sia che malvagia. Adunque consigliava che tre valent’ uomini dell’una e tre deU’allra città pugnassero in vista di tutti gli Albani e Romani ; essendo questo numero, come avente principio, mezzo e fine, propriissimo alla total decisione della controversia. Ciò stabilito per voto de’ Romani e degli Albani il congresso fu sciolto ; e ciascuno ritornò nei proprj 'alloggiamenti. Poi convocando i capitani ciascuno le loro milizie a parlamento, riferirono la disputa vicendevole, e le condizioni ricevute per la soluzion della guerra. Approvarono vivamente gli eserciti i patti di ambedue li capitani ; e gara meravigliosa di onore comprese centurioni e soldati ; desiderando moltissimi di riportare la palma di quel combattimento, e studiandovisi non pur con parole, ma profTerendovisi con preludj di bell' ardore ; tantoché si rendette malagevole ai duci il giudiziosu quelli che erano i più idonei. Se alcuno vi era nobile per luce di origine, o forte per gagliardia di corpo, o cospicuo pe’ fatti di arme, o segnalato comunque per eventi ed ardire, insisteva che mettessero lui primo fra i U'e. Ma tali fiamme di emulazione che più e più si dilatavano in ambedue gli eserciti le ripresse il capitano di Alba col riflettere che la provvidenza celeste antivedendo già da tanto tempo la tenzone che sarebbe tra le due città, ne avea preordinato che quelli che vi si cimenterebbero fossero non ignobili di lignaggio, buoni in guerra, belli a vedere, nè simili a molti pe’ casi della nascita rara, meravigliosa, impensata. Sicinio un di Alba avea nel tempo medesimo maritato due figlie gemelle, 1’ una ad Orazio Romano, e r altra a Curazio  un Albano di popolo. Ingravidarono ancora ambedue queste donne in un tempo, ed ambedue diedero nel primo parto prole virile, e trigemina. I genitori pigliandone buon augurio per sé, per le famiglie, e per le patrie allevarono e perfezionarono tutti que’ gemelli. Iddio, come io dicea da principio, diè loro beltade, robustezza, magnanimità; talché non cedeauo a niuno de’ben avventurati per indole. A questi  Mei testo Corazio. Sigonìo crede che vada bene e che in Tito Livio si debba leggere Curazio, com' egli ha trovato in un manoscritto e non Cariazio come comnnementesi legge. deliberò FufTezio di appropiare la battaglia sa la preminenza de’ popoli. Quindi invitando vid un colloquio il re di Roma gli disse: XIV. Un Dio, sembrcuni o Tulio che provvedendo le nostre città, dia loro segni manifesti di benevolenza in p ià cose; come su la tenzone imminente. Certo ben dee parere in tutto opera divina e meravigliosa che si rinvengano per combatterci uomini non inferiori a niuno di prosapia, buoni nelle armi, belli a vedere j originati da un padre, nati da una madre sola, e venuti', ciò che è pià singolare, in ungiamo stesso alla luce ; e tali sono gli Orazj fra voi, tali fra noi li Curazj. Che dunque non abbracciamo una tale provvidenza divina, e non assumiamo ambedue per questa gara di sovranità que trigemini ? Bisplendono tn essi ancora le doti sublimi, quante altre mai ne brameremmo in chi fosse per uscire al paragone delle armi; ed essi pià che tutti gli Albani e Romani han pure il bene che essendo fratelli non abbandoneranno, pericolano, i compagni nella impresa. Cesserà subitamente rimpetto a loro la emulazione difficile a calmarsi per altra maniera in altri giovani, de' quali tnolti tra voi penso che di virtà competerebbero, come Ji'a gli Albani competono. Noi persuaderemo questi di leggeri, se additeremo loro come la bontà Divina ba prevenuto le sollecitudini umane, dandoci con. egualità chi decida con le armi le contese della patria. Nè già crederanno di essere superati dalla virtit dè' fratelli trigemini; ma da certa prosperità di natura ed opportunità di fortezza eguale in essi per competere. Cosi disse Fuffezio, e comune ne fa I’ approvazione, quantunque presenti vi fossero i più bravi di Alba e di Roma. Soprappensò Tulio un poco, e seguì : Ben sembra o Fuffezio che abbi tu saviamente concepito. Imperocché meravigliosa è la sorte che ha dato in questa generazione ad ambedue le città prole tanto simile; quanta altra volta mai non vi s’incontrò. Mi sembra però che non abbi tu considerato che assai rattristeremo i giovani se chiediamo che fra loro dontendano. Imperocché la madre degli Orazj nostri è sorella della madre de' vostri Curazj : e questi cresciuti giovanetti nel seno di tali due donne si carezzano ed amansi come fratelli. Bada che non sia forse, indegna cosa dare le armi e sospingere gli uni alla morte degli altri, questi, congiunti per fratellanza e per educazione. Il sangue se vi si astringono, il sangue di cui si lordano ritornerà su noi che ve li astringiamo. Replicò F ufTezio ; iVbn ignoro o Tulio, il parentado de’ giovani ; nè io già, se li ricusano, sono per violentare i cugini alla battaglia. Ma non sì tosto mi venne in pensiero di mandare dal canto mio li Curazj di Alba io gli investigai se porrebbonsi volentieri al cimento. E ricevendo essi il dir mio con enfasi incredibile e meravigliosa, io fui deliberato allora di svelare e proporre quel mio sentimento. Suggeriscoti che anche tu facci altrettanto chiamando quei tuoi trigemini, ed esplorandone i cuori. Che se vorranno anch’ essi esponersi per la patria, tu ne accetta la benevolenza : ma se ricusano, tu per niun modo non isforzarvegli. Io di loro presagiscoti ciocc/l’ è degli altri miei. Se come abbiamo ascoltato ( giac~ chè venuta è fino a noi la fama della loro virtà ) sa~ migliano i pochi bennati, e se bellicosi ancor sono per indole ; abbracceranno prontissimi, e senza che niuno ve li necessiti, di combattere per la patria. XVI. Accolse Tulio il suggerimento : e conchiusa una tregua di dieci giorni per consultarsi, e tentare 1’ animo degli Orazj, e risponderne ; si ricondusse a Roma. Deliberatosi ne’ primi sei giorni co’ migliori, e vedutili per lo più propensi agl’ inviti di Fufiezio; chiamò li fratelli trigemini, e disse : Fu/fezio o uomini Orazj, abboccatosi meco nell' ultimo congresso nel campo, mi annunziò, che crasi fatto per la provvidenza degli Iddii, che si cimenterebbero per V una e per V altra città tre bravi, de quali invano ne cercheremmo altri più. valorosi, o più idonei, cioè li Curazj per Alba, e voi pe'Jìomani. Ciò conoscendo, mi disse, che aveva egli primo investigato, se que vostri cugini si esporrebbero volontari per la patria : e trovatili che ardentissimi correrebbono ad ogn impresa, inanimatone mi propose V evento, invitandomi perchè io vedessi di voi parimente, se voleste offerirvi per la patria, e rispondere in campo ai Curazj, o se lasciaste ad altri tanta emulazione. Ben io mi argomentava che voi per lo valore dell’ animo, e per la possanza delle mani, doti in voi non occulte, spontanei più che tutti, vi rischiereste per trionfare : ma temendo che la consanguinità vostra co’ tre gemelli di Alba non fosse un impedimento al vostro ardore, chiesi tempo a risolvermene, e feci tregua con lui di dieci giorni. Restituitomi in Roma adunai li senatori, e proposi l’qffare sicché ne discutessero. Parve al più, di loro che se voi spontanei vi mettereste alla impresa, bella e degna di voi, impresa che io già voleva, solo io per tutti combatterla ; allora ve n esaltassi e v ac-^ cettasi. Ma se voi, restii contro al sangue de vostri, e non già confessandovi pusillanimi, dimandereste altri fuori della vostra famiglia ; allora, parve loro, che io non dovessi farvene la menoma violenza. Così pronunziava il Senato : nè già ne avrà egli rammarico se voi riguarderete la impresa come grave: ma non picciola è la gratitudine che dovravvene, se voi pregierete la patria più de’ parenti. Or su ponderate col bene vostro, ciocché siate per farvi. Udendo i giovani questo ; si ritirarono, e conferirono brevemente. Tornatisi quindi a rispondere cosi disse il maggiore fra loro : Se noi fossimo liberi; se fossimo gli arbitri unici delle nostre risoluzioni; e tu ci avessi o Tulio incaricato di consultarci su la pugna contro i nostri cugini: già ti avremmo risposto de' nostri voleri. Ma perocché vive il nostro genitore senza cui niente vorremo dire nè fare ; preghiamoti che ci concedi alcuna requie a risponderti, finché ce ne intendiamo con esso. Encomiando Tulio la pietà loro, e volendo che cosi appunto facessero ; partirono in verso dei padre. Dichiaratogli l' invito di F uffezio, il colloquio di Tulio con essi, e la risposta vendutagli ; alfine insisterono perchè dicesse ciocch'egli ne sentisse. E colui sottenlrando disse : Pietosamente o figli adoperaste riserbandovi al padre, nè risolvendovi senza a4o lui. Ma ò tempo ornai che voi pure vi manifestiate idonei a tali consigli : concepite già venuto il fine dei miei giorni; palesatemi ciocché scegliereste di fare, deliberandovi tra voi sema del padre : Allora cosi rispose il maggiore: Noi o padre assumeremmo a noi di combattere per la preminenza di Roma, e ci porremmo alle vicende che a Dio si piacessero; bramosi anzi di morire che di vivere indegni di te e degli oìvtenatì. Il ligame del sangue co’ nostri cugini non lo avremo noi sciolto i primi; ma come sciolto già dalla sorte, placidi lo mireremo : perocché se i Corcai; stimano la parentela men che il benfare ; nemmeno agli Orca] parrà quella più. onorevole della virtiu Come il padre conobbe i loro sentimenti, divenutone lietissimo, e sollevando le mani al cielo, parve che rendesse copiose grazie agl’Iddii, perchè gli avessero dato figli onesti e generosi. Quindi prendendoli uno per uno, e dando loro soavissimi amplessi e baci di amore, voi vi avete, disse, magnanimi figli, anche il mio voto. An• date j rispondete a Tulio i pietosi e belli sentimenti. Allora giojosi quelli per le ammonizioni paterne si divisero, e corsi al monarca accettarono la battaglia. E colui convocato il Senato, e mollo encomiativi i giovani spedisce messaggeri alPAIbano per dichiarargli che i Romani sieguono,il suo volere, e pongono gli Oraz) per combattere sul principato. Ora dimandando il subbletlo che rappresentisi diligentemente la forma della battaglia, nè scorrasi di volo su’ casi che la seguirono, simili a quelli di una tragedia, tenterò di pareggiare, quanto io posso, coi detti ogni cosa. Venuto il tempo di compiere le condisioni, uscirono tutte in campo le milizie romane, e dopo le milizie, fatte prima suppliche ai Numi, uscirono i giovani. Essi ne andavano compagni del re, mentre il popolo per tutta la città gli acclamava, e spargeva loro de’ fiori sui capo. Erano già uscite anch’esse le schiere albane. Collocatesi le une in vicinanza delle altre destinarono per teatro dell’ azione il campo che separa i confini di Alba e di Roma ove già s’ alloggiavano entrambi gli eserciti. Quivi sagrificando giurarono anzi tutto Romani ed Albani su le vittime che ardevano di essere contenti della sorte la quale per r una e per l’altra città risulterebbe dal combattere dei cugini, e di osservare santamente i patti senza mescervi inganno, essi nè i posteri. Compiuti tali sacri riti in verso de’ Numi si avanzarono in arme dal proprio campo, spettatori gli uni e gli altri della battaglia ; lasciando, tre stadj o quattro di spazio intermedio pei combattitori. Prescntaronsi indi a non molto il capitano di Alba ed il re di Roma conducendo quello i Curazj, e questo gli Orazj, armati splendidissimameute, e con apparato quale il prendono, uomini destinati alla morte. Giunti gli uni vicino agli altri consegnarono le loro spade agli scudieri ; e corsero e si abbracciarono, piangendo vicendevolmente, e chiamandosi co’ più teneri nomi; talché datbi tutti intorno alagrimare, accusavano la grande inumanità loro, e de’ capitani, perché potendo definire la lite con altri, l’ aveano ridotta al sangue de’ parenti ed ai contaminarsene delle famiglie. Staccatisi CDalmente i giovani dagli amplessi, ripigliale dagli scudieri le spade, e già ritiratisi quanti s’ aveano intorno, si contrapposero secondo la statura, e si avventarono.. XIX. Stavansi Gn qui le milizie placide e senza clamori : ma poi da ambedue proruppero grida frequenti, esortazioni scambievoli per chi avea da combattere e voti e rammarichi, e continui suoni di voce, varj secondo r ondeggiare vario della mischia, quali per le cose fatte e vedute dall’ una e dall’ altra parte, e quali per le cose future o pronosticale : ma più dalle immaginazioni ne derivavano che dai successi ; perocché la visione fatta in tanta distanza non era ben chiara ; e passionandosi tutù pe’loro combattenti, prendeano come avvenuto quanto ideavano. E gli assalti incessanù, le ritirate degli emuli, e li passaggi rapidi, e li rivolgimenù  degli uni in su i luoghi degli altri levavano ai riguardanù la forza del distinguere. Durò tal vicenda gran tempo; perocché gli uni e gli altri aveano pari le forze del corpo, pari la generosità degli animi, e bonlssime le armi che li circondavano; nè rimaneano loro membra alcune indifese ; tanto che feritivi, subito ne morissero. In tale stato molti Romani e molti Albani in mezzo all’ansia di vincere e nel commovei'si pe’loro atleti, s’ inGammavano, elGgiandosi appunto con gli affetti di quelli, quasi volessero anzi star nel conflitto, che rimirarlo. AlGne il maggiore degli Albani serratosi col Romano che stavagli a fronte, e dando e ricevendo  Cioè il voiiat della taccia, molalo luogo. colpi su’ colpi ; immerse non so come la spada nel> r anguinaja dell’ emulo. Questi ingrevilo già da altre ferite ai riceverne l’ ultima e mortale, cadde, rilascian dosi nelle membra, e spirò. Alzarono a tal vista gli spettatori tutti le grida ; gli Albani come già vineitori, e li Romani quasi già vinti ; concependo i due loro fàcilissimi da essere conquisi dai tre degli Albani. Frat' tanto il Romano che era per soccorrere il caduto com> pagno y vedendo quanto l’Albano rabbellivasi ai fausto evento, si spiccò come un lampo su lui, e menando e riportando ferite in copia, alfine gli cacciò la spada nella gola e lo uccise. Ricambiatisi in poco d’ ora i successi de’ combattenu, e le affezioni degli spettatori, elevandosi i Romani dal primo abbassamento, e per^ dendo gli Albani la esultazione ; un’ altra volta ancora la sorte spirò contraria ai Romani, e ne umiliò le spe concio ; por zoppicandone, ed appoggiandosi via via su lo scudo, reggeva ancora, e si ritirava presso del fratello rimastogli, che starasi alle prese col Romano. Restava a questo F uno de' contrarj a fronte, venendogli r altro da tergo. Allora temendo che avendola a fare con due che da due lati lo investivano, sarcbbenc facilmente rlnthiuso : e trovandosi invulnei^to ancona ; pensò di separare i nemici e combatterne. 1’ uno dopo r altro. Concepì che avrebbeli facilmente disgiunti se facesse vista di fuggire; non potendo ambedue segui tarlo, giacché vedeane l’ uno infermo del piede. Cosi deliberato fuggi con quanto avea di velocità, nè gli vennero meno le speranze. L’ albano che non avea piaga mortale, tennegli immantinente appresso; ma l’ invalido a camminare si rimase più addietro che non dovea. Qui gli Albani confortavano i suoi : riprendevano i Romani il proprio guerriero : anzi cantavano quelli e si maguifìcavano, come sul termine glorioso della impresa ; ma s addoloravano gli altri come non più potesse la fortuna rasserenarsi verso di loro. Quando ecco il Romano, coltone il punto, si rivoltò rapidissimo ; e prima che r Albano potesse guardarsene, gli diè colla spada in un braccio, e spiccoglielo nel gomito. Fattagli. cadere la mano e colla mano la spada gli sopraggiunse un colpo, e con questo la morte. Quindi si lanciò su r ultimo albano e lui già derelitto, già semivivo scannò. Poi spogliati i cadaveri de’ cugini, corse in città ; volendo esso il primo dare al padre la nuova della vittoria. Portavano però i destini che essendo mortale anch’ egli non avesse prospera ogni cosa ; ma sentisse i morsi ancora della invidiosa fortuna. Lo avea questa iu pochi momenti venduto grande di picciolo, e sollevato a chiarezza inaspettata e mirabile, e questa appunto nel medesimo giorno lo gittò dentro amara sciagura, spingendolo ad uccidere la sorella. Come egli fu vicino alle porte di Roma, videvi moltitudine immensa che fuori se, ne versava, e vide accorsa con essa ancor la sorella.^ Tnrbato ài primo vederla perchè essa, donzella ornai nubile, ave^ lasciato la custodia materna, e si fosse esposta in mezzo di turba incognita ; ne formava pensieri funesti: ma si rivolse alfine ad altri più miti e be nevoli, quasi ella cedendo al muliebre genio avesse ne, gletto il decoro per desiderio dì salutare primieramente il fratello salvo, e d’ intenderne i fatti virtuosi degli' estinti. Colei però s’era ardila di mettersi alla insòlita via non' per desiderio del fratello ma vinta dall’ amore di uno de’cugini, col quale aveale il padre fuo concordate le. nozze. Celavano colei l’ ineffabile afletto ; ma poiché seppe da un tal dell’ esercito gli eventi della giornata ; non più lo contenne : ma lasciati i domestici lari corse come furiosa alle porle di Roma, nemmeno volgendosi alla nutrice che la seguiva, e la richiamava. Uscita dalla città come vide il fratello festevole colle ghiriande trionfali dntegli dalle regie mani, e gli amici che portavano le spoglie degli estinti, e tra le spoglie ancora 1’ ammanto vario, che essa avea colla madre tessuto e màhdato in pegno delle nozze allo sposo, giacché usano gli sposi futuri tra’Latini abbigliarsi di ammanto vario; come vide il caro suo dono macchiato di sangue ; si lacerò le vesti, si battè con ambe le mani il petto; ululò, richiamò l’ amato cugino ; tanto che grande stupore ne invase quanti in quel luogo si stavano. £ pianto il destino dello sposo folgorò col fisso sguardo sul fratello, e gridò: Tu esulti o sozzissimo uomo su la occisione decagoni, e tu, scellerato, tu privasti con ciò dello sposo la misera sorella tua. Nè pietà senti de’ trafitti parenti che pure chiamavi fratelli tuoi; ma f innebrj di gioja quasi per buonissima impresa y e vai fra tanti mali coronato. E qual cuore è mai il tuo ? forse di una fera ?  anzi, colui replicò, di un cittadino che ama la patria ; di uno che punisce chi le vuol male, siasi egli un estraneo o siasi un domestico. E tra questi colloco te pure, te' che vedendo i beni grandissimi, e i grandissimi mali in un tempo awemUici, la vittoria della patria che io qui ti presento, e la morte de tuoi fratelli ; già non esulti o malvada pe’ beni comuni della 'patria, nè ti addolori pe’ domestici infortuni > spregiati i fratelli, non sospiri che lo sposo ; e profani te stessa non fra le tenebre ; ma nel pubblico aspetto di tutti. A me la mia virtù, rimproveri, a me le mie corone ! O non vergine, non ‘sorella, e non degna degli avi! Poiché dunque non piangi i fratelli ma lo sposo ; poiché tieni il corpo co’ vivi, ma V anima colf estinto ; va, ten corri a lui che richiami, nè più. disonorare il geni' tare, e i fratelli. Cosi dicendo, più non serbò misura nell’ odio della scellerata ; ma le immerse con quanto area d ira la spada ne’Ganchi; ed uccisala andossene al padre. I costumi e gli animi de’ Romani erano allora cosi pieni dell’odio del male, e cosi fermi in questo; che se alcuno li voglia paragonare co’ nostri, dirà che erano aspri e duri, nè diversi molto da quei delle fiere. Il padre udita la spaventevole uccisione non -solo non se ne corrucciò ; ma la tenne come debita e decorosa ; perciocché nè permise che fosse portata nella sua casa ; nè procurò che la seppellissero nelle tombe degli avi ;  nè clic fosse con esequie e fregi, c conianque coTunebri riti onorata. Ma coloro che passavano dove giacevasi uc> mettono che uccidasi alcuno impunemente, e riferendo gli esempi dati dagl’iddi! su le, città che non vendicano gli scellerati. Faceva il padre le difese del giovine, ed incolpava la Gglia ; pretestando eh’ ella non ebbe morte, ma castigo : che niuno era nella domestica sciagura giudice più acconcio di lui come genitore di ambedue. Moltiplicandosi da arabe le parti i discorsi, assai fu perplesso il monarca come avesse a terminare il giudizio. Eigli per non portare la colpa, e la maledizione nella magione sua da quella dell’ autore di esse credea bene che non si assolvesse chi dichiaravasi reo del sangue della sorella, sparso prima di ogni condanna, e per cagioni per le quali vietano le leggi che uccidasi : non ammettea però che si avesse ad immolare come un omi> cida chi avea scelto di cimentarsi per la patria e tanta signoria le avea procacciato, mentre nou tenealo per colpevole il padre stesso a cui la natura e la legge danntT ' i primi diritti di risentimento per la figlia. Incerto come decidersi, tenne da ultimo per lo meglio rimetterne al popolo la sentenza. Il popolo Romano divenuto allora la prima volta giudice di un omicida si attenne alle de-^ siinazioni del padre, ed assolvette il suo liberatore dalla morte. Pure non istimava il re che' bastasse a chi volea mantenere la pietà verso i Numi tal giudizio venduto dagli uomini: ma chiamati i pontefici commise loro .che placassero i Geni! e gl’ Iddi!, e mondassero il giovine colle espiazioni le quali purificano da morti involontarie.. a 49 E quelli eressero due altari, l’uno a Giunone, Dea difenditrice delle sorelle, e 1’ altro ad uno Dio, chiamato  Genio da’ nazionali, col nome appunto de’cugini Curazj uccisi dal giovane. E facendo su questi de’ sagrifìzj, ed usando nondimeno altre espiazioni, da ultimo passarono 1’ Orazio sotto il giogo. Costumano i Romani, quando diventano gli arbitri di nemici che abbassano le armi, di piantare due aste diritte, acconciandone una terza supina su di esse ; e poi di passarvi sotto li prigionieri, e dimetterli alfine liberi verso le patrie loro. E questo è ciò che chiamasi giogo. Coloro che lustrarono J1 giovane si valsero di tal ultimo rito nel purificarlo. I Romani tutti stimano sacro il luogo della città dove fu praticata la cerimonia. Rimane questo nell’ angusta via che mena giù dalle Carene coloro che vengono all’angusta via Cipria. Ivi sorgono altari allora edificati, e su gli altari stendesi 1’ asta supina confitta ai due muri contrapposti: pende questa sul capo di quelli che ne escono, e chiamasi nel parlar de’ Romani asta o legno della sorella. Questo luogo onorato con annui sagrifizj ricorda in Roma ancora la sciagura del giovane: ma ricorda il valor suo tra la battaglia la colonna angolare che è principio del portico secondo nel Foro dalla quale pendevano già le spoglie de’trigemini Albani. Le armi vennero meno per gli anni ; ma la colonna serbane ancora la denominazione chiamandosi pilastro Orazio. Che anzi evvi in Roma una legge nata da tal fatto,  Genio Curazia: fu così detto perchè destinato a placare le ombre de' Coratj. Ed Orazio meritava appunto di essere espiato dal sangue della sorella e de’ cugini.  ed osservatavi pur nel mio tempo, a riverenza e gloria de’ giovani immortali, la quale ordina che nascendo dei tiigemini si dispensino per essi a pubbliche spese i vi veri Gno alla pubertà. Tal Gne ebbe la serie delle cose degli Oraz] iniessuta d’ inaspettate e meravigliose vicende. Indugiatosi il re de’ Romani per un anno onde apparecchiare quanto era d’uopo alla guerra; inGne deliberò di avanzar coll’ esercito contro Fidene. Preodea le cagioni di guerra da questo, che invitau i ciuadioi di essa a giustiGcarsi circa le insidie ordite su gli Albani e Romani non aveano ubbidito, anzi dando in un subito alle armi e chiudendo le porte e congregando le schiere ausiliarie de’ Yejenti, erai^si manifestamente ribellati. Aggiungevasi, che andati gli oratori per inten dervi le ragioni della rivolta, i Fidenati non altro risposero, se non che non aveano essi cosa alcuna comune co’ Romani Gn dalla morte di Romolo al quale si erano, giurando, congiunti di amicizia. Su tali cagioni armò le sye milizie, e fe’ richiedere le conJederate, delle quali Mezio F uffezio recava da Alba le più numerose in apparato bellissimo ; tantoché superava ogni altra forza amica. Tulio commendò Mezio, come detet^ minato a prendere seco lui la guerra ardentissimamente, in ogni miglior modo ; e Io rendè consapevole di tutti i disegni. Ma quest’ uomo incolpato già da’ suoi come rio capitano di guerra, anzi calunniato di tradimento ; questo dopo che si era tenuto per tre anni sotto 1’ autorità suprema di Tulio, alGne sdegnando un principato schiavo dell’ altrui principato, e di essere diretto. s5l pimtosto che dirigere; macchinò cosa non degna. Imperocché mandati messaggeri segreti a’ nemici de’ Romani, irresoluti anewa per la ribellione, gl’ infiammò ^, che non piò dubitassero ; promettendo che in mezzo della battaglia investirebbe egli stesso i Romani. E tali cose macchinando e facendo ; potè rimanersene occulto. Tulio apparecchiate le milizie sue e quelle de’ com-i pagni le portò su’ nemici, e valicato il fiume Aniene si pose non lungi da Fidene : ma scoprendo innanzi di questa io ordinanza un gran numero di Fidenati e loro compagni si tenne in calma tutto quel giorno: nel seguente convocando 1’ albano F nlfezio, ed altri de’ piò intimi amici ponderò con essi com’era da praticare la guerra ; e poiché parve loro che fosse da combattere spe> ditamente, senza indugiarvisi ; egli preaccennando i posti e r ordine che ognuno prenderebbe, e destinando per la zuffa il prossimo giorno, congedò l’ adunanza. Quindi FufFezio che ancora tenevasi occulto con molti degli amici sul tradimento che meditava, fatti a sé venire i più cmpicui tra’ suoi centurioni e tribuni disse: Tribuni, centurioni, io sono per comunicarvi grandi, inaspettate cose, che vi tacqui finora. Vi raccomando se non volete distruggermi che voi pure le taciate : anzi che miei cooperatori vi siate, se utili a compiersi vi parranno. Il tempo angusto non consente che io distesamente vi parli di ogni cosa; e ristringomi alle primarie. Io per tutto V intervallo che fummo subordinati a' Romani fino a questo giorno ; io m’ ebbi una vita piena di vergogna e di rammarico j eppure fui onorato dal monoica loro della maaSa  gisàratitra 'suprema, oggimaì da tre anni, è lo sarò' nemmeno per sempre se il voglio. Ma perciocché mi parca t estremo de vituperj che io' solo mi fossi felice' nella sciagura comune ; e vedeva intanto io bene che eravamo stati spogliati della sovranità contro tutti i diritti sacri dell’ uomo ; cosi mi diedi a considerare come potessimo ricuperarla, ma senza rischiarvi gran fatto. E discorrendola io meco moltissimo ti-ovai una via sola facile nè pericolosa che guiderebbe all’ intento, cioè che sorgesse loro una guerra da confinanti. Imperocché prevedeva io che i Romani avrebbono a chiamare le truppe ausiliarie, e le nostre massimamente, e prevedeva dopo ciò che non avrei gran bisogno di persuadervi che più. bello, e più giusto è combattere per la nostra libertà, che per istahilire' r impero de’ Romani. Spinto da tali pensieri produssi a’ Romani la guerra de’ sudditi loro Fidenati e Vejenti risolvendoli alle arme con esibire che io prenderei parte con essi. Fin qui si rimase occulta a’ Romani la pratica ; ed io provvidi intanto per me la occasione di assalirli. Ora considerate quanto sia questo opportuno. Primieramente, grande in una ribellione manifesta, sarebbe il pericolo o di avventurare ogni cosa mentre siamo sprovveduti per la fretta, e contiamo unicamente su ciò che potrebbero le nostre forze ; o di essere sorpresi da essi già pronti mentre ci apparecchiamo e ci procuriamo dagli altri un ajuto. Noi però così non manifestandoci non cor-reremo nè V uno nè V altro disastro,• e ne avremo raccolto almen questo bene. Secondariamente noi non.. a53ci daremo a percuotere la grande, la bellicosissima potenza e fortuna degli emuli con le violente maniere, ma si bene colle artijiziose e scaltre, con le quali si prendono finalmente le cose trascendenti, e meno facili a battersi colla forza ; nè già saremo a far questo i primi, o li soli. Inoltre siccome le nostre milizie mal potrebbero schierarsi in campo a fronte di quelle de’ Romani e degli alleati ; così abbiamo congiunto a noi le forze sì grandi, come vedete, dei Veìenti e de Fidenati. Anzi si è da me provveduto che le ardite schiere di questi ne diano con effetto il soccorso che ne ho cercato. Imperocché già non sarà J.a pugna nelle nostre campagne; ma battendosi i Fidenati per le proprie, difenderanno in esse an~ coro le nostre. E quello che riesce dolcissimo agli uomini, quello che di raro occorse ne’ tempi andati ; questo ancora per voi si combina : noi giovati dai nostri alleati sembreremo di avere ad essi giovato, E se r affare si termina a piacer nostro, come par verisimile; i Fejenti e li Fidenati che avranno liberato noi da un durissimo giogo, essi noi ringrazieranno quasi col favor nostro ottengano un pari benefizio. .Questi sono i successi che da me con gran diligenza procurati mi sembrano bastare ad ispirarvi confidenza, e viva prontezza ad insorgere. Ora udite in qual modo io voglia por mano alla impresa. Tulio mi ha destinato appiè del monte ; perchè io vi governi luna delle ale. Ma quando saremo per attaccarci co’ nemici ; io non attendendo allora tale destinazione ; mi ritirerò poco a poco sul monte. Voi seguitemi allora ordincUamente. Giunto alle cime ed in salvo, udite come io continuerò. Quando vedrò le cose che qui dico riuscirmi come io le disegno ; quando vedrò infiammati di corono i nemici perchè noi cooperiamo con essi, umiliati e spaventati come traditi i Romani ; e come è verisimile, già più. intenti a pensare la fuga che le difese; allora io starò su loro : ed io coprirò de’ loro cadaveri il campo ; perocché scendendo dcdC altura destra a basso, mi gitterò su di essi sbigottiti e dispersi con esercito pieno di beW ardore e di ordine. 'Rilevantissima è nelle guerre la fama sparsa di un tradimento anche falso degli alleati, o del giung.'re di altri nemici ; e sappiamo che grandi eserciti furono totalmente da tali vane apprensioni rovinati, più che da altri spaventosissimi casi. Il nostro adoperare però già non sarà fama vana, nè arcano spaurimento ; ma cosa più che tutte terribile a vedersi e provarsi. Ma ( dicansi pur le cose consuete a presentarsi contro la espettazione, giacché la vita ne involge molte, nè verisimili ) se gli eventi riusciranno contro i disegni ; anch’ io farò cose ben altre da quelle che in mente io ravvolgevami. Allora io piomberò co’ Romani su nemici ; co’ Romani raccoglierò la vittoria, simulando di aver prese le alture per cingere gt inimici. Ben avran fede i miei detti concordandosi le opere colle finzioni : tanto che noi non comunicheremo cogP infortuni di niuno, e solo parteciperemo lo belle vicende dell’ uno o delC altro. Io tali cose ho deliberato : e tali cose eseguirò col favorB degV Iddii come bonissime non solo per gli AU boni ma per tutti i Latini. Bisogna che voi guardiaie prima che tutto il silenzio : poi, che serbiate il buon ordine, che vi prestiate immantinente ai comandi, che guerrieri vi siate pieni di bell’ ardore, e che tali rendiate pur quelli che vi ubbidiscono ; considerando che il combattere nostro per la libertà non somiglia al combattervi degli altri, consueti ad essere comandati, e lasciati da loro padri in tale condizione. Noi liberi siamo naU dai liberi : anzi i nostri avi ci han tramandato il comando su vicini ; serbarono questa forma per cinquecento anni ; nè di questa si troveranno per noi spogliati li posteri. Nè tema chi vuole far questo, quasi rompa i trattati, e violi i giuramenti fatti sopra di essi: pensi piuttosto che egli i diritti ripristina rotti e violati da' Romani : nè già i tenui diritti ma quelli che la natura ci ha dato degli uomini, quelli che la legge ha fondato comune ai Greci ed ai Barbari, vuol dire che i padri comandino j i padri dian leggi ai figli, e le città madri alle colonie. Questi sacri diritti che mai saranno cancellati dalla natura degli uomini, questi noi volendo che siano perpetuati, nè frangiamo alleanza fàuna, nè genj nè Dii ci si potran corrucciate quasi non sante cose facciamo, se mal pià comportiamo servire cì nostri discendenti. Cnloro però che li hanno conculcato i primi, e che con opera indegna han tentato di far prevalere la umana alla le^e divina ; coloro, corn è giusto, e non già noi, s' avranno a fronte V ira de’ Numi, c su di essi non su noi soi't  gerà la vendetta degli uomini. Pertanto se queste vi sembrano le cose migliori / eseguiamole, e chiamia^ movi protettori gl’ Iddii. Ma se alcuno sente in contrario e sente o t una o t altra delle due cose ; vuol dire o che più, non debba ricuperarsi t antica dignità della patria ; o che debbasi aspettare un tempo pià acconcio del presente ^ e differire; costui' non esiti, a dire i suoi pareri; e quello sarà fatto che a tuui sembri il migliore. Alfìae lodato nel dir suo dagli astanti, e promettendosi questi a far tutto ; esso ne obbligò ciascuno col giuramento, e dimise radunanza. Nel prossimo giorno all’ uscire appunto del sole, uscirono da’ proprj alloggiamenti le milizie de’ Fidenati e degli alleati, e si schierarono per la battaglia: vennero nemmeno di fronte i Romani, e si ordinarono. Tulio stesso e i Romani si opponeano coll’ala sinistra ai Vejenti i quali formavano la destra nel corpo loro. Nell’ ala destra dei Romani si stava Mezio Fuffezio e gli Albani presso del monte incontra de’ Fidenati. Rendutisi ornai vicino gli uni degli altri, gli Albani prima di essere a tiro si staccarono dal resto dell’ esercito, ascendendo ordinatamentè sul monte: I Fidenati ciò vedendo e cerziorandosi della realtà del tradimento promesso dagli Albani si portarono più baldanzosi contro de’ Romani. L’ala destra de’ Romani, essendosene tolti gli alleati, erane ornai rotta e molto in pericolo. Combattea però bravissimamente 1’ ala sinistra e Tulio con essa in mezzo di scelti cavalieri. Quand’ ecco un cavaliere affrettandosi verso quelli i quali pugnavano presso del monarca, o Tulio, disse, la nastra ala destra è sul perdersi : gli jilbani, abbandonatala, ascendono il monte, ed i Fidenali che li teneano schierati dinanzi, ora preponderando a fronte ilelt ala tanto indebolita j già la circondano. I Romani ciò ndcmlu, e vedendo T accelerarsi degli Albani in sul monte; temerono di essere avviluppali da' nemici, taulu che non aveano cuore nè di combattere, nè di restare in quel luogo. Or qui, dicesi, che Tulio niente commosso all aspetto di un male si grave e tanto inaspettato facesse uso dell’ avvedutezza : e che salvasse con questa 1 esercito ornai nel pericolo manifesto di essere circondato; c disfacesse e terminasse tutto il bene degli inimici. ltn[>erocchè non si tosto il messaggero ebbe detto; egli a gran voce sicché i nemici, la udissero, o Bomani, esclamò, li nemici son vinti. Gli Albani sul mio comando hanno occupato come vedete il monte prossimo a noi per piombare alle spalle de' nimici. Mirale ! gli abbiamo pin e al nostro buon punto gli impiegabili awersaij. Noi siamo loro dirimpetto, e gli Albani alle spalle : pià non possono aveutzare, ISO retiocedei e. Dall' uno de' lati rinserrali il fiume, dall’ altro il monte : ci daran pure le pene meritate. Andate : avventatevi intrepidamente su loro. Cosi esclamando ne andava tra le milizie. E ben presto i Fidenati furono presi dalla paura che quel tra> dimenio, si rivolgesse fìnalmente su loro per frodolenza del capo degli Albani : perchè nè lo vedeano schierarsi contro i Romani, nè fulminarsi contro di essi come avea già promesso. Altronde avea quel parlare iniiammati di VIOSIGI, P>m l. ir ardire e riempiuti di confidenza i Romani. Adunque scop piando in un grido e ristrettisi lanciarousi all’ inimico. Piegarono allora, e fuggirono i Fidenati in disordine alla loro città. Il re de’ Romani rilasciando la cavalleria su questi atterriti e turbati li perseguitò qualche tempo; ma vedutili poi sbandati, senza animo di raccogliersi e senza forza, permise che fuggissero ; e si rivolse contro r altra parte de’ nemici ancora ordinata. Ivi era battaglia viva tra’fanti; e più viva ancora tra’ cavalieri. Imperocché li Yejenti quivi schierati non che sbigottirsi e dar volta, resistevano all’ impeto de’ cavalli romani. Alfine vedendo che l’ ala loro sinistra era battuta, e chel’esercito de’Fidenati e degli alleati fuggiva tutto precipitosamente, anch’cssi per timore di non essere colti in mezzo da’ nemici che tornavano da inseguire gli altri, diedero volta, e si scomposero e tentarono di salvarsi a traverso del fiume. I più robusti, e men carichi di ferite, nè impotenti a nuotare passarono senza le armi il fiume e scamparono: ma quanti non aveano l’uno o l’altro di que’ requisiti, affondavano tra’ vortici ; essendo il Tevere presso Fidene rapido e tortuoso. Tulio intanto impose a parte de’ cavalieri di uccidere i nemici che. accorrevano al fiume, ed egli conducendo il resto delr esercito assali gli accampamenti de’ Vejenti e gl’ invase. E tali sono le operazioni che diedero, a’ Romani salute inaspettata. Quando il re d’Alba vide manifestamente vittoriose le milizie di Tulio ; egli per dare a vedere che faceala da alleato, calando dal monte le sue, le menò contro de’Fideuuti che fuggivano ; e molli in tale stalo. ... a!xg ne uccise. Tulio vedendo il suo fare, ed esecrando la nuova sua tradigione, dissimulò di presente, finché lo avesse nelle mani : ansi diè vista di lodare tra molli come l>onissima l’ andata di lui su pel monte : e spcuna banda di cavalieri lo richiese che desse ultimi contrassegni di zelo, incaricandolo, che cercasse con diligenza, e trucidasse que’ Fidenati che non potendo ripararsi tra le mura, vagavano dispersi intorno • in tanto numero per la campagna. Colui quasi avesse, già conseguila Tana delle due cose che sperava, e quasi, fosse accetto veramente a T ullo, ne fu dilettato ; e cavalcando gran tempo per que’ campi fe’ strazio, de’ prò-, fughi i quali sopraggiungeva. E già tramontato il sole, condusse i suoi squadroni da tale persecuzione al campo Romano, c vi festeggiò con gli altri la notte. Tulio di-, inoratosi nell’ accam|)amento de’ Vejenti fino alla prima vigilia vi esplorava da’ prigionieri più riguarderoli quali fossero mai stati li capi della rivolta. Come poi seppe che ci avea tra congiurati anche 1’ Albano Mezio Fuffezio, gli parve che i fatti di lui concordassero colle indicazioni de’ prigionieri. Adunque montato in sella si ri-, condusse cavalcando in città fra lo stuolo dc’suoi più fidi. E prima della mezza notte convocando dalle case loro i Senatori ; disse del tradimento degli Albani, dandone |)er teàlimonj li prigionieri ; e narrò gli artcGzj co’ quali egli avea deluso i nemici e li Fideuali. E poiché la guerra avea fine bonissimo ; invitò loro a discutere come si avessero a punire i traditori, perchè Alba si rendesse |>iù savia per 1’ avvciiire. Parve a tulli giusto anzi necessario che si ['Unissero quanti si erano messi ad ojteia tanto cellerata. Si ondeggiò però molto intorno la ma-' oiera facile e sicura della esecuzione. Sembrava loro im> possibile che tanti cospicui Albani si potessero involare con morte tenebrosa e nascosta. Che se tentassero arrestarli e punirli palesemente, torneasi che quel popolo, piuttosto che ciò non curare, volasse alle armi. Non voleano poi combattere in nn tempo co’ Fidenati/ coi Tirreni, e con gli Albani loro consocj.Ora non espedendosi essi ; diè Tulio in6ne uu suo parere cui tutti encomiarono. Io ne dirò dopo un poco. Siccome non era Fidene distante da Roma se non cinque miglia ; ' cosi egli eccitando con tutto r ardore il cavallo si restituì negli alloggiamenti : e prima che il giorno brillasse’ laminoso, chiamando Marco Orazio il superstite de’ trigemini, e dandogli li fanti e li cavalieri piò scelti, ordinò che marciasse con questi ad Alba, che vi s’ introducesse in sembianza di amico ; che, quando ne avesse in sua balia gli abitatori rovinasse da’ fondamenti la città, non risparmiando edifizio alcuno privato o pubblico, se non i tempj: non vi uccidesse però nè vi oltraggiasse uomo ninno, ma consentisse che ognuno s’avesse le sue cose. Spedito questo egli aduna tribuni e centurioni, palesa ad essi il decreto del senato, e forma di loro la guardia del corpo suo. Si presentò dopo non molto 1’ Albano in gaudio per la vittoria co mune, e per congratularsene con Tulio t e Tulio serbando tuttavia li segreti suoi, Io encomiava, confessavalo degno di gran doni, ed invitavalo a scrivere i nomi de’ valentuomini che si erano più distinti nel combattere e portarglieli perchè tutti partecipassero ai beni della villoria. Inondatone costui dal jnacere diè su di una tavoletu in iscritto i nomi de’ suoi più fedeli, de’ quali si era valuto ne’ disegni reconditi. Allora il re di Roma invita a radunarsi lutti, senza le arme, e radunatisi ; fece che il duce degli Albani, come li centurioni e tribuni si collocassero presso di lui, e che gli altri Albani ordinatamente si compartissero ; ponendo dopo loro il resto degli alleati e dietro tuui infine circolai-mente i Romani, tra’ quali ce ne avea de’ magnanimi, co’ brandi sotto degli abiti Quando poi gli sembrò di avere a suo bell’ agio i nemici ; sorgendo cosi ragionò : Romani, amici, compagni di arme, finalmente abbiamo col favore degl' Iddìi portala la vendetta su Fidene e su quanti partigiani di lei, furono arditi investirci con guerra manifesta. Seguirà da questo t una delle due, vale a dire che quanti ci molestavano si cheteranno ; o ne daranno pene tanto più spaventose. Ora venule già le prime nostre imprese a buon termine, é tempo iche puniamo quei guerrieri che avendosi il nome di amici nostri, ed assunti a questa guerra da noi perchè facessero contro (i nemici comuni, abbandonarono la loro fedeltà verso noi, si strinsero con patti segreti a nemici, e macchinarono la universale nostra rovina. Ben sono essi peggiori de' nemici manifesti, e perciò degni di pena più grande. Imperocché facile cosa è deludere le insidiose lor trame, e ribattere si possono se ci assaliscono come nemici : ma né riesce di leggeri cautelai si da amici che la fan da nemici, né si possono risospingere se ci prevengano. Ora tali sono i guerrieri che Alba ci manda\>n : ingannevoli alleali ! eppure non danneggiati, ma beneficati grandemente, e in tante cose da noi. Noi, ramo già della lor gente, non toglievamo punto della lor signoria, ma 'la nostra forza, la nostra potenza fondavamo qol domare i nostri nemici. Premunendo di mura la nostra patria contro genti amplissime e bellicosissime abbiamo prodotto ad essi un alta sicurezza in fra le guerre de’ Tirreni e de’ Sabini : tantoché serbandosi la nostra città prosperamente, dovean essi rallegrarsene principalmente ; e decadendo questa non dovean meno rattristarsene che per la propria città. Essi però si ostinarono ad invidiare non solamente il nostro ben • esseio, ma il proprio ancora nel nostro : e da ultimo non potendosi più Iodio nascondere, ci hanno premeditato la guerra. Ma perciocché vedeano noi benissimo acconci a ripeivoterli, non essendo essi valevoli contro di noi, c invitarono a trattati ed amicizia, e richiesero che la lite sul principato si decidesse con la tenzone di tre combattenti. Acoetlammo t invito e vincemmo ; e ci fu la loro città sottomessa. Or, dite : che abbiamo noi fatto dopo questo ? Potendo noi ricevere gli ostaggi da Alba, polendo mettervi guarnigiotìe, e qual’ uccidervi, qual cacciarne de’ principali a por dissidio tra t uno e t altro popolo; potendo cambiarvi in favor nostro la forma del governo, smembrarne il territorio, prescrivervi de’ tributi, e torlo infine le arme ciocché era facilissimo, ed avrebbe tanto più noi convalidato ; polendo noi tutte queste cose ; non abbiamo pur voluto farvene in. 263 nemmeno una, mossi anzi dalla pietà versò loro, che dalla sicurezza del nostro principato. E preferendo cioccK era il decoio all’ utile abbiamo conceduto che si godesse ogni suo bene. Permettevamo che Mezio Fujfezio, che essi avevano elevato à primi gradi come il più degno, vi amministrasse ancora la repubblica. Ed essi ( ascoltate qual .contraccambio ce ne renderono quando più bisognavamo dell’ amicizia, e delle armi loro ) ! si convennero in segreto col nemico comune di assalirci insieme tra la battàglia ; e quando t inimico e noi eravamo già già sul combattere ; essi lasciando il posto della ordinanza, corsero a’ monti vicini onde preoccuparne le alture più forti. E se la cosa andava loro a seconda, niente avrebbe impedito che noi tutti perissimo 'circondati dagli amici e dai nemici ; e che tulli i combattimenti da noi sostenuti per la signoria della nostra città, tutti in un giorno, svanissero. Ma poiché tal disegno riuscì vano primieramente per disposizione benefica degV Iddìi da quali ripeto quanto io fo mai di buono e di bello, e poi per t avvedimento mio che non poco valse a scoraggir t inimico ed accendere i nostri, essendo stato mio stratagemma il dire che gli Albani ^ ordine' mio preoccupavano il monte per cingere t inimico ; poiché t affare si terminò coll utile nostro ; noi non sarenpmo, quali essere ci conviene, se non punissimo i traditori ; quelli io dico i quali, doveano se non per altro, almeno pe' ligami di parentado serbare gli accordi ed i giuramenti, fattici di recente, e li quali non temendo gl Jddii che fecero testimonj de’ loro trattati, non riverendo la giustizia stessa, non la riprovazione degli uomini, non calcolando la grandezza del pericolo se il tradimento sconciavasi, tentarono in miseranda maniera di perdere noi progenie, noi benefattori loro, essi nostri fondatori, e congiurali con gt implacabili nostri nemici. Dicendo lui queste cose prorompeano gli Albani in gemiti, e preghiere d’ogni modo. ÀHermavail popolo non aver lui saputo niente dei disegni di Mezio : simulavano' i capitani non aver conosciuta la mao chinazione, se non che nel darsi della battaglia, quando più non era in poter loro d’ impedire, o non fare i comandi. Riferivano altri il lor fatto alla insuperabile necessità di congiunzione e di parentado ; quando il re, fatto silenzio disse: niente,. Albani, niente ignoro, di quanto allegate per iscusannivi. E penso che il più di voi noi sapesse quel tradimento, perchè dove molti sono i consapevoli, non si tacciono, neppur brevissimo tempo le cose : penso che de’ tribuni e de’ centurioni la parte minore fosse la complice ; ma che la più grande non era che aggirata, e ridotta a passi non volontari. Che se niente di ciò fosse vero ; se voi tutti Albani, quanti qui siete, e quanti si rimasero in Alba, vi aveste in cuore di danneggiarci, nè già da ora, ma da tempo antichissimo ; pur s avrebbe il liomano nella sua parentela una ben forte cagione a pazientarne le ingiurie. Perchè però non più vi aduniate a consulte ingiuriose contro noi, non più violentati, non più sedotti vi troviate da’ capi della vostra città ; ito abbiamo pure sebbene unico, questo rimedio : vale a dire che divenendo tutti cittadini di una città riguardiamo questa sola per patria, e partecipiamo ciascuno ai beni e mali di tei, coma essa ne incorre. Finché saranno come ora discordi i pareri, finché disputeremo su la preminenza; non sorgerà mai stabile pace fra noi ; principalmente se gli uni i primi siano per insidiare gli altri con vista di dominare vincendo, o di essere come parenti impuniti se perdono. Imperocché quelli die sono assalili tenteranno riscuotersi coll estremo de' mali, nè fuggiranno modo alcuno onde nuocere gli tdtri quali nemici, come ora addivenne. Pertanto sappiate: avendo io nella scorsa notte adunalo il SeruUo, i Romani per bocca sua emanavano, ed io firmava il decreto che la vostra città fosse disfalla, nè si permettesse che vi restasse in piedi edifizio niuno privato nè pubblico alf infuori de' templi : che quelli che vi abitano ritenendo ogni bene, non ispogUali di schiavi, non di bestiami, non di oro pongano da ora innanzi la sede in Roma: che gli Albani poi, che non hanno campo alcuno se lo abbiano, purché non sia de' poderi sacri co’ quali si procacciano i sagrifizj : che io provveda i luoghi della città dove le abitazioni si fondino degli emigrati, e supplisca a chiunque di voi più ne ahbisogna, i mezzi onde tompierle : che tutta la vostra moltitudine prenda la forma del nostro po.polo ; comportasi in, curie e tribù; abbia parte nel Senato e nelle magistrature più insigni, e si ascrivano alle famiglie patrizie le famiglie de'Giulj, de' Servi Ij, de Geranj, de Metelj, de’ Corazj, de’ Quintìlj , e de’ Cluvilj ; che finalmente Alezio e quanti deliberarono con esso il tradimento, se ne abbiano le pene, e noi le stabiliremo queste, giudici sedendo di ogni causa ; mentre a ninno dee negarsi giustizia e difesa. XXXI. Intanto che Tulio cosi diceva i poveri tra gli Albani gradendo di essere fatti abitatori di Roma, e di parteciparne le campagne, lo acclamavano a gran voce. All’ opposito i più cospicui per grado o più agiati per sorte si affliggeano che avessero ad abbandonare la propria città, e le case paterne, e vivere per 1’ avvenire in terra altrui; nè più sapean che dire in tanto orribile necessità. Poiché Tulio ebbe investigato i pareri della moltitudine, impose a Mezio, che allegasse, volendo, le sue giustiBcazioni r e costui non sapendo che replicare alle accuse ed alle testimonianze t disse che il Senato di Alba avealo segretamente incaricato di far ciò quando usci per guerreggiare; e pregava gli Albani ai quali avea tentato di racquistare il comando, che lo soccorressero, nè guardassero con indifferenza la patria che rovinava, e tanti cittadini degnissimi che erano strascinati al supplizio. E già nasceane tumulto nella moltitudine, e volavano alcuni ad afferrare le armi ; quando i Romani che circondavano l’adunanza sguainarouo, datone il segno, le spade : ed essendone tutti aiierriti ; sorse Tulio un'altra volta e disse: Albani, non qui vi è dato d' insorgere, nè di trawiarvi: giac‘  Lrsino, e Patino de Famil. Romanor. leggono Quinzf.  ’ ^6'J cJtè tulli, se ariìiste commovervi, sareste trucidali da questi : ( E cosi dicendo additava le spade de’ suoi ). Prendete ciocché vi si dona, diventale fin da oggi Romani. È per voi necessità, domicitiaivi in Roma, o non avere più patria sulla terra. Marco Orazio andò sulC ordine mio fin dalC aurora per abbattere la vostra città dai fondamenti, e condurne in Roma gli abitanti. Ora sapendo che ornai questo è fatto, non vogliate correre alla morte; ubbidite. Metio Fuffezio, quesf occulto nostro insidiatore, che nemmen ora teme d’ invitare alle armi i turbolenti e li sediziosi'; questo ne darà le pene, degne del perfido cuore e scellerato. Sbigottì ciò udeudo la parie irritata degli adunali, come vinta da insuperabile necessità. Fremea Fufiezio per l’ opposi to, e vociferava, ma solo, e reclamava r alleanza, egli che era accusato di averla tradita, nè perdea la baldanza, anche in mezzo de’ mali ; quando i littoii per comando di Tulio afferrandolo gli squarciano in dosso le vesti e lo caricano di battiture. Poi quando parve che ornai quel supplizio bastasse ^ avvicinando due carri, legarono con lunghe redini le braccia di lui nell’ uno di questi, e li piedi nell’ altro. Allora spingendo gli aurighi quinci e quindi i due carri ; egli strascinato e tirato in parti contrarie, fu subitamente ridotto in brani. Tale fu il termine miserando e vergognoso di Mezio. Infine io stesso re mise un tribunale per gli amici e complici di lui nel tradimendo ; punendoli, come li scopriva rei, colla morte >, a norma delle leggi su’ disertori e su’ traditori. Intanto che si laccano tali cose, Marco Orazio spedilo innanzi con scelta milizia a distruggere Alba compiè’ ben tosto la marcia, e se ne impadroni ; trovandovi le porte non chiuse, nè difese le mura. Poi convocando la moltitudine le palesò quanto era accaduto nella battaglia, e quanto il Senato di Roma ne decretava. Contrariavano quelli, e dimandavano tempo almeno per ispedire degli ambasciadori. Ma costui senza indugio spianò case, muri ; e tutti in somma i privati e pubblici ediGzj ; scortandone con assai diligenza a Roma gli abitatori, che menavano e portavano ogni loro bene con sé. Tulio ritornato dal campo gli comparti ira le curie e tribù romane, li coadjuvò per fabbricare ne’ luoghi, che sceglievano in Roma, le case : dispensò porzione sufGciente de’ terreni del pubblico fra i loro meroenarj, e sen cattivò con altre amorevolezze la moltitudine. Ma la città di Alba già fondata da Ascanio nato da Enea figlio di Anchise, e da Creusa figlia di Priamo, quella che per quattrocento ottanlasette anni dalla sua fondazione era tanto cresciuta di popolo, di ricchezze, di ogni ben essere, quella che aveva propagato trenta colonie in trenta città del Lazio e che era sempre stata la capitale della nazione, quella alfine vittima ^i) dell’ ultima delle sue colonie giace squallida ancora e desolata. Prese requie nell’ inverno il re Tulio ; ma nel sorgere della primavera cavò nuovamente l’ esercito contro Fidene. Non era venuto a’ Fidenati, nè lo pretendeano, pubblico soccorso ninno dalle città confederate : solamente da più luoghi erano venuti de’ mer Anni di Roma 88 secoodo Catone; 90 secondo Varane, e G 6 f aTanli Cristo] cenar} ; e contando su questi osarono un’ altra volta esporsi in campo. Schierativisi, uccisero molti de’ nemici; ma poi furono rispinti di nuovo tra le mura. Come però Tulio cingendo la città di argini e fosse la ridusse alle ultime angustie ; vinti dalla necessità, si renderono a discrezione. Divenuto costui padrone della città vi uccise nemmeno gli autori della ribellione. Lasciò gli altri a sé stessi ; concedendo ebe godessero i lor beni : e restituendo ad essi la forma che aveano di reggenza, congedò 1’ armata. Restituitosi a Roma onorò gl’ Iddii con la pompa trionfale e co’ sagrilìzj promessi, e fu questa la seconda volta che trionfò. Si eccitò dopo questa a’ Romani la guerra de’ Sabini ; e tale ne fu la cagione. Onorasi da’ Latini e Sabini in comune il tempio, sacrosanto più che ogni altro, della Dea nominata Feronia, che taluni con greca interpetrazione chiamano la portatrice de’ fiori ^ 0 r amica dei serti, o Proserpina. Essendosene annunziate le feste, erano dalle eittà d’ intorno venuti molti per supplicare, e sagrificare alla Dea, e molti, mercadanti, artefici, agricoltori per guadagnare nel concorso ; ivi tenendosi fiera famosissima più che in altri luoghi d’ Italia. Recavansi per avventura a questa luogo alquanti non ignobili tra’ Romani, quando alcuni Sabini concertatisi, li circondarono e derubarono. E 1 quantunque si spedissero de’ messaggeri, non voleano su questo i Sabini rendere la giustizia : ma riteneansi 1 danari e le persone degli arrestali ; imperocché dolevansi anch’ essi de’ Romani che avessero dato ricetto ai fuggitivi de’ Sabini, costituendo il sacro asilo, come si dicliiarò nel primo libro. InSammanciosi da tali queri> monie alla guerra uscirono con moltissime schiere in campo aperto. Fecesi ordinata battaglia, e pari splendeavi il coraggio de’ combattenti ; tanto che separatine dalla notte lasciarono la vittoria indecisa. Ke’ giórni ap]>res$o considerando ambedue la mohitudiue degli estinti c de' feriti, ricusarono ogni altro cimento ; ed abbandonando gli accampamenti, si ritirarono. Ma tenutisi iu cylma per quell’ anno uscirousi di nuovo a fronte con. forze più formidabili. Si appiccò la zuffa presso di Erelo lontana centoquaranta sladj da Roma, c molti vi soccombeano da ambe le parli. E pendendo questa zuffa ancora lungo tempo sospesa, Tulio elevò le mani al cielo, votandosi che se vinceva in quel giorno i Sabini istituirebbe delle feste a Saturno ed a Rea con pubblica s])esa. Celebrano ogni anno i Romani tali feste dopo che barino riportato tutti i frutti della terra. Egli facea voto insieme che raddoppierebbe il numero de’ Salj. Derivano questi da nobile prosapia,, e ne’ debiti tempi si cingono di arme, e saltano accordando al suono delle tibie i salti, e cantando patrie canzoni, come ho spiegalo nel bbro primo. A quel volo si mise tanto ar dorè ne’ Romani che questi pressando, come freschi soldati, gli stanchi, ne ruppero le schiere in sul mancare del giorno, e ridussero gli stessi capitani a dar principio alla fuga. E seguendo essi li fuggitivi ai propri irincieramcnli, ne raggiunsero la maggior parte vicino alle fosse. Tuttavia nemmeno dopo ciò retrocederono : ma rimanendosi ivi nella notte imminente, e respingendo i uciuici che pugnavano da entro il vallo,. 271 invasero alRne gli accampamenti. Trasportaronsi dopo ciò quanta preda voleano dalle campagne sabine : e siccome niuno più presenlavasi a combatterli, si ricon> dussero in casa. Fece il re per questa battaglia il terzo trionfo. Quindi per le molle ambascerie de’ nemici depose le armi, avendone da essi li suoi disertori, e li soldati suoi caduti prigionieri ne’ pascoli; ed esigendone la multa decretata contro loro dal Senato di Roma il quale avea calcolato in argento r danni ricevuti da’ nemici negli armenti, nelle bestie da giogo, e nelle altre cose tolte ai coltivatori dei cttmpi di lei. Fransi cosi scioiii dalla guerra i Sabini : e scrittine su colonnette i trattali, gli aveauo collocati nei tempj. Ma suscitatasi per le cagioni che tra poco diremo, la guerra di Roma con le città latine, congiurate fra loro, guerra che non parea da essere ultimata nè con prestezza nè con facilità ; li Sabini afferrarono di Lenissima voglia tale occasione, e dimenticarono quasi non fatti, i giuramenti e i trattati. E reputando esser questo il buon punto da rivendicare anche il multiplo del danaro sborsato a’ Romani ; uscirono su le prime, in pochi, ed occulti a predarne le campagne vicine. E succedendo in principio il disegno secondo il desiderio, perchè non accorreva milizia ninna in difesa de’ coltivatori ; si adunarono in gran numero e palesemente : e spregiato l’ inimico macchinarono di recarsi fino su Roma. Adunque congregarono le soldatesche da ogni loro città, brigando di congiungersi co’Laiini. Ma non venne lor fallo di ottenere nè amicizia uè lega ninna con quella gente. Imperocché Tulio veduti i loro peusieri, fe tregua colle città latine, e deliberò di volgere le annate contro di essi. Egli aveva in arme il doppio di allora, quando mosse alla presa di Alba, ed aveà rac colto il più che potea di sussidj dagli alleati. Già 1’ esorcito de’ Sabini crasi concentrato. Quindi avvicinatisientrambi alla selva della dei malfaUori  si accam-t parono a picciola distanza fra loro. Nei giorno appresso investendosi, combatterono, ma con dubbia sorte gran tempo ; finché violentati al far della sera i Saliini dalla ’ cavalleria romana piegarono ; e molta ne fu nella ' fuga ' la uccisione; spogliarono i vincitori i cadaveri de’ iie-> mici ; invasero quanto ci avea di danaro negli alloggiamenti ; e conducendosi dalle campagne il fiore delie prede, tornaronsi a casa. Tal fine ebbe pe' Romani la guerra Sabina nel regno di Tulio. Erano le città Latine divenute allora per la prima volta discordi da Roma, perchè essendo distnitta Alba, ricusavano fidare il comando di sé stesse ai Romani che ne erano i distruttori. Tulio, volgendo l’anno quindicesimo dalla caduta di Alba avea spedito ambaseladori alle città filiali, o suddite di questa le quali eran trenta, per chiedere che ubbidissero ai Romani, padroni di ogni cosa degli Albani, e con ciò dell’ imperio ancora su’ Latini. DIcea che due sono i titoli pe’ quali gli uomini diventano gli arbitri di altrui : la libera dedizione e la necessaria : e che i Romani se gli aveano ' tutti due per dominare le città già ligie degli Albani : [tercliè i primi avevano vinto i secondi dichiaratisi loro  Livio la chiama tj-lva malUiom.. 2; 3 nemici, e fra le arme, ed aveano poscia accomunato Roma ad essi che aveano perduto la patria. Ora da ciò seguitava che gli Albani o vinti o volontarj cedeano ai Romani l’imperio de’sndditi loro. Non risposero le città Latine una per una agli oratori : ma congregatesi pei deputati a Ferentino decisero co’ voti loro d^ non sottomettersi a’ Romani ; e crearono immantinente due capitani arbitri della guerra e della pace, 1’ uno Anco Publicio della città di Cori, e 1’ altro Spurio Vecilio di Lavinia. Si fece per queste cagioni guerra tra Romani e tra’ popoli di una gente medesima : continuò cinque anni ma quasi civilmente secondo 1’ antica temperanza. Imperocché venendo le intere milizie degli uni a battaglia ordinata con le intere milizie degli altri, mai non si fece gran danno, nè piena occisione ; nè mai ninna loro città vinta in guerra, soggiacque alla distruzione, alla schiavitù, o ad altre insanabili disavventure. Ma gettandoti gli uni ne’ territori degli altri ne’ tempi della raccolta pascolavano e predavano e ritiravansi in casa, e cambiavansi lì prigionieri. Tulio solamente cinse di assedio Medullia città latina, divenuta come fu detto nel libro antecedente fin da’ tempi di Romolo colonia dei Romani, ed ora congiuratasi co’ suoi nazionali, e con ciò la ridusse a non più tentare innovamenti. Non oocorse a ninna delle due parti alcun altro de’ mali consueti nella guerra perché le guerre de’ Romani di quei giorni eran subite, e per la subitezza non iochiudevano tanto rancore. Cosi adoperava nel suo principato Tulio Osiiiio, r uuo de’ pochi uomini degni di lode per l’ar> dire felice tra le arme, e per la saviezza ne’ pericoli ; c più che per tali due cause, per ciò che egli non era precipitoso a far gueire, ma postovi si, non mirava che a silperare in tutto i nemici. Dopo uu regno di trenta due anni mori per l’ incendio della sua casa, e con lui pur morirono nel fuoco medesimo la moglie, i figli, i domestici. Vi è chi dice che la casa di lui fu messa in fiamme dai fulmine ; essendoglisi irritato il Nume per alcuna sua non curanza di sante cose, perchè si erano sotto lui tralasciati dei sagrifizj della patria, introducendovisi in parte gli altrui. Ma i più raccontano che fu quel disastro per insidia degli uomini ; ascrivendolo a Marzio, re, successore di lui : perocché Marzio sde guavasi, dicono, che egli nato di regio lignaggio dalia figlia di Numa Pompilio vivesse tra’ privati : e vedendo già grande la prole di Tulio, altamente ne sospettas’a, che' se costui periva, passasse il regno a’ figli di lui. Fra tali concetti insidiava da gran tempo la regia vita. £d essendogli molti Romani, fautori per dargli lo scettro, e Tulio essendogli amico, ed era creduto fidissimo; spiava la occasione di sorprenderlo. Era Tulio per fare in sua casa un sagrilizio al quale non volea presenti che i suoi più congiunti; ma divenuto per avventura quei giorno ferale per tenebre, per pioggia, per nembi, le guardie aveano lasciato deserti gii atrj della reggia. Parendo questo il buon punto s’introdusse Marzio e i compagni co’ brandi sotto degli abiti : uccisero il monarca, i figli e quanti vi erano : vi appiccarono il fuoco in più bande e poi divulgarono la novella del fuoco. Ma io non ricevo la novella, perocché, nè vera la credo, nè verìsimile : e piuttosto m’ appìglio 'alla prima opinione, e penso che quest’ uomo per ira degli Iddìi corresse tal sorte. Imperocché non è facile che la congiura, operandola molti, si resusse occulta : nè il capo di essa era sicuro che egli sarebbe proclamato monarca da’ Romani dopo la morte di Tulio Ostilio: e quando fosse tutto stato sicuro per lui dal canto degli omini, non potessi confidare che somiglierebbero i divini agli umani pensieri. Bisognava dopo il voto delle tribù che propizj gli augurj comprovassero il regno per lui. Qual genio o qual Nume avrebbe mai sopportato ebe un uomo cosi lordo di delitti e di sangue si acco> stasse agli altari suoi per compiervi de’sagrifizj, o altre pie cerimonie ? Per tali cagioni io riferisco quell’ evento agl’ Iddìi, non alle trame degli uomini. Tuttavia ne giudichi ognuno come più vuole. Dopo la morte di Tulio Ostilio fu creato secondo i patrj costumi l’ interré dal Senato ; e l’ interré dichiarò sovrano della città Marzio, che Anco denominavasi. E Marzio, dopo confermati i decreti del Senato dal popolo, dopo renduti agli Iddii quanto a loro si conveniva, e compiuta a norma delle leggi ogni cosa, assunse il comando nell’ anno secondo della ohm\ piade 35. nella quale vinse Sfero spartano, nel tempo che Damasìa esercitava in Atene l’annuo magistrato. Ora osservando questo re la trascuraggìne delle pratiche religiose istituite da Noma, avolo suo materno, esserti ) Catone Varroae Ruma] vando die il più de’ Romani erano divenuti guèrrieri è dediti a vili guadagni, nè più si volgeano come prima ai lavori della terra; chiamati tutti a parlaménto, esortò che ripigliassero il culto degl’ Iddii come a’ tempi di Numa ; dimostrando che per tali negligenze delle sante cose erano venuti in città morbi e pestilenze ed alu'i Hagelli che ne aveano desolata parte non picciola : e che lo stesso re Tulio perchè non vegliavane quanto doveva alla custodia, travagliato per molti anni da tutti i generi de’ mali, nè più essendo padrone della stia mente, ma decadutagli questa come il corpo, incone in catastrofi miserande egli nemmeno che la sua stirpe." E lodando a’ Romani la pubblica forma indotta da Numa come egregia e savia, e generatrice di abbondanza quotidiana per giustissime cause ; raccomandò che la ravvivassero e volgessero l’ opera loro, a coltivare le terre, ad allevare i bestiami, e ad altri lavori, liberi dalle ingiustizie della violenza e della rapina, e spregiassero in fine le utilità che nascono dalla guerra. Con questi e simili detti risvegliava iu tutti il dolce trasporto per la calma, aliena dalle armi, e per la industria sapiente. Convocando poi li pontefici, e prendendone le leggi delineate da Numa intorno le cose divine, le scrisse ed esposele in su tavolette nel Foro a chiunque volesse vederle. Ora quelle tavolette vennero meno: perocché non usavano ancora le colonne di metallo ; ma scriveansi in tavole di querce le leggi del fero e de’ templi. Dopo la cacciala dei re furono Hprodolte in pubblico dal pontefice Cajo Papirio, il quale avea la cura suprema delle cose divine. Rendendo il suo splendore ai ministeri negletti de’ sacerdoti, e rendendo ai lavori suoi la turba oziosa ; encomiò gli utili agricoltori, e ne biasimò gl’improvidi, come cittadini non veri. Lusingavasi al favore di tali istituzioni di vivere sempre libero da guerre e disastri come 1’ avo materno : tuttavia non ebbe pari ai desiderj la sorte ; ma in onta del cuor suo fu necessitato alle arme, e ravvolto in tutta la vita fra turbolenze e pericoli. Im> perocché nel primo ascendere al comando appena diede calma allo stato, i Latini ve Io dispregiarono : e pensandolo per codardia non idoneo alla guetra; tutti mandarono entro i confini di lui bande di rubatori, che ' assai danneggiarono molti Romani. E spedendo il sovrano degli arobasciadori a chiedere compensagioni pei Romani secondo i trattati, finsero ignorare in lutto quei latrocini, non die fossero con pubblica autorità concertati. Diceano pertanto non dovere di cosa alcuna risponderne a’Romani; tanto più che i trattati erano con Tulio e non co’ presenti; e Tulio mancato, erano periti con esso gli accordi. Necessitato da tali pretesti e cavillazioni de’ Latini Marzio portò conti'O loro l’ esercito. Postosi all’ assedio della città di Politorio, la prese a condizioni prima che i soccorsi le giugnessero de’ Latini. Non infierì già cogli abitanti, ma portossegli tutti a Roma co’ beni che avean seco, aggregandogli alle tribù. Ma siccome i Latini mandarono nell’ anno seguente nuovi abitanti a Politorio, e ne coltivavano i campi, così Marzio pigliando I’ eserdto lo ricondusse contro di loro. Uscirono dalle mura i Latini e combatterono; ma egli li vinse, e prese la città per la seconda volta. E peixìhè più non fosse un richiamo de’ nemici. nè più lavorassero i campi di lei, ne abbattè le mura, ne incendiò gli edi6zj, e parli. Recaronsi nell’anno appresso i Latini a Mednllia ov’ erano de’ coloni romani, e dandole d’ ogn’iniomo l’assalto la espugnarono. Maiv 'zio andato di quel tempo contro la città di Tillene e divenuto vincitore in campo, c poi su le mura, la sottomise. Non tolse a’ prigionieri nulla di quanto aveano: ma li trasse in Roma ove. diè loro de’ luoghi perchè vi edi6cassero le abitazioni. Soggiacque Medullia per tre anni ai Latini, ma nel quarto la riconquistò con molle e grandi battaglie. Espugnò dopo non molto Fidene, città presa tre anni addietro per condizioni ; e ne 4rasferl tutto il popolo a Roma ; e non danneggiando la città più oltre, parve che si diportasse anzi con man sneludine che con' prudenza. Imperocché li Latini vi supplirono nuovi abitanti; e sen tennero e sen goderono il tet^ritorio ; tanto che fu Marzio costretto di accorrervi per la seconda volta; e divenutone per la seconda volta padrone a grande fatica ; ne abbandonò le case alle fiamme, e ne devastò le mura. XL. Occorsero dopo ciò due battaglie tra’ Latini e Romani. Durò la prima lungo tempo : e gli uni sembrandovi eguali agli altri, si distaccarono, e ritiraronsi a’ proprj alloggiamenti. Nella seconda i Romani vinsero i Latini e gl’ incalzarono fino alle trinciere. Dopo ciò più non vi ebbe fra loro battaglia ordinata : ma continue furono le scorrerie degli uni su le terre vicine degli  Vi i ehi legga Ficolara per Fidrue. E verameaie più sotto si parla della ribtIlioBe di Fideue.. 279 altri ; > econtinua le scaramucce tra cavalieri e fanti che volteggiavano; ma per lo più colla meglio de’ Romani i quali teneano in campo aperto appiè di castelli opportuni un armata sotto gli ordini di Tarquinio Toscano. Ribellaronsi intanto que’ di Fidene da’ Romani, nè già' dichiarando guerra manifesta ; ma danneggiandone a poco a poco con occulte incursioni le campagne. Marzio' però presentandosi loro con esercito ben fornito innanzi che si apparecchiassero alla guerra si accampò d’appresso alia città. Fingeano i magistrati non supere per quali affronti i Romani fossero venuti contro di loro : e di-chiarando il re che veniva per aver soddisfazione dei latrocinj e danni fatti da essi nella sua terra ; si escusarono che niente era stato con pubblica autorità, e chiesero tempo per esaminare e discernere i complici delle ingiustizie. Procrastinavano intanto, non adempievano gli obblighi loro, adunando in segreto de’ sussidj, e travagliando all’ apparecchio delle arme. Marzio conosciutine i disegni scavò de' cunicoli dal suo campo fino alla città : e compiutone il lavoro suscitò le schiere, conducendole con molte scale e mac^ chine e stromenti proprj per gli assalti, alle mura, non' però dove riuscivano sotto queste le vie sotterranee, ma in tutt’ altra parte. Accorsi in folla i Fidenati dove erar assalto, bravamente lo rispingevano, quando ì Romani incaricatine, dato 1’ ultimo traforo ai cunicoli, sboccarono dentro la città; e trucidando chiunque capitava, spalancarono le porte agli assalitori. Soccomberono nella presa della città molti de’ Fidenati; Marzio impose agli altri che cedessero le armi : poi fattili per la voce dei banditori congregare in luogo certo, ne battè con Terghe e ne uccise alcuni pochi, autori della ribellione ; e concedè che i soldati saccheggiassero le case di tatti. ÀlSne lasciato quivi un presidio marciò coll’ esercito contro de’ Sabini. Nemmeno questi eransi tenuti ai patti conchiusi con Tulio ; ma gettandosi nelle terre de' Romani ne aveano devastato le più vicine. Marzio, cono sciato dagli esploratori e dai disertori il tempo acconcio ad investirli, andò con i suoi iànti, e mentre i Sabini spargeansi a predar le campagne prese di assalto le loro trincierò, fornite di pochi difensori ; ordinando intanto che Tarquiuio piombasse con la cavalleria su i nemici che divisi rubavano. Al vedere la cavalleria romana verso loro lasciarono i Sabini la preda e quanto seco portavano o conducevano di proficuo, e fuggirono agli alloggiamenti. Ma non sì tosto mirarono questi hr potere de’ fanti ; dubitarono dove rivolgersi, finché si sparsero per le selve e per le montagne. Perseguitati pelò da soldati leggeri e da' cavalieri, ne scamparono pochi, soccombendone la parte più numerosa. Spedirono dopo ciò nuovi ambasciadori a Roma ed ottennero l’amicizia che voleano. Imperocché la guerra, permanente ancora, co’ Latini rendea necessaria la tregua o la pace con gli altri nemici. Xl.II. Intorno al quarto anno dopo questa guerra Marzio il re de’ Romani andò colle sue milizie e col più che potè delle ausiliarie contro de’ Vejenti, e devastò gran parte della loro campagna; imperocché questi si erano i primi gettati nell’ anno precedente sul territorio romano; e molto vi saccheggiarono, e vi uccisero. Ben uscirono  sperità, grandi oltre il dire, su le prime si diedero in pochi a scorrerne e derubarne le campagne : poi lusingati dal guadagno misero palesemente in piede un esercito ; e le desolarono. Ma non riuscì loro di portarsi via que’ guadagni, nè di partire impuniti. Imperocché venuto provvidamente il re de’ Romani, e posto il stio presso al campo de’nemici, gli astrinse a fare giornata. Sorse dunque battaglia terribile, e molti perirono da ambe le parti : nondimeno per la sperienza, e per la tolleranza de’ travagli, antica fra loro, prevalsero finale mente di gran lunga i Romani, e fecero ampia uccisione, seguitando immantinente i Sabini che disordinati e disgiunti riparavansi agli alloggiamenti. Poscia invadendo pur questi pieni di ogni ricchezza, e ricuperando i prigionieri usurpati da’ Sabini quando predavano ; sen tornarono in patria. Tali si dicono le gesta guerriere di questo re, credute degne di ricordanza, e di stima da’ Romani : sono poi le politiche, quelle che mi accingo a narrare. Primieramente aggiunse alla città non piccìola parte rinchiudendo fra le mura 1’ Aventino. E questo un colle alto leggermente, con perimetro di circa stadj diciotto : r occupavano allora piante di ogni genere e più che tutto lauri bellissimi, dond’ è che una parte di esso chiamasi laureto da’ Romani : ora è tutto ingombrato di case, e tra’ molti edi6zj, il tempio sorgevi di Diana. Dividevalo valle angusta e profonda dal colle della città ^ chiamato Palatino, dove fu Roma nel na cer suo collocata : ma ne’ tempi appresso l’ intervallo tra due colli fu riempiuto di terra : ora vedendo che un tal colle sarebbe un luogo forte per un armata nemica se nini si avvicinasse, lo circondò di mura e fossi, e inisevi ad abitare le genti trasportate da Telline, da Poiilorio, e da altre città soggiogate. Celebrasi tale istituzione del re come utile e bella, perchè Roma ne divenne più ampia, e meno espugnabile per quanti nemici mai le soprastassero. Migliore del regolamento anzidetto è 1’ altro che la rendè più felice nel vivere, e la mise ad imprese più generose. Imperocché scendendo il fiume Tevere dai monti Appennini, passando appiè di Roma, e scaricandosi attraverso de’ lidi del mare Tirreno, dirotti e senza porti, rende alla città picciolo bene, e certo non memorabile, perchè dove si scarica non evvi un emporio il quale riceva e cambj a’ mercadanti le merci portatevi dal mare, e giù colla corrente stessa del fiume. Altronde essendo il Tevere navigabile fin dalle origini con barche fluviali mezzane, e dal mare fino a Roma co’ legni grossi da trasporto ; egli deliberò di fare ivi un luogo da ricever le navi, servendosi della imboccatura come di porto ; tanto più che ivi il fiume si spande amplissimo, e formavi gran seni appunto come ne’ siti de’ porti migliori. E, ciò che porge più meraviglia, il Tevere non è traversato nella sua foce da cumuli di arene, come altri gran fiumi, nè dilagasi in stagni o paludi, nè consumasi con altre maniere prima che giintga nel mare : ma sempre navigabile si scarica per una sola bocca naturale, separando a forza le acque marine, quantun(]ue ivi spiri un vento occidentaie grande e malagevole. Adunque le navi lunghe per quanto grandi, e quelle da carico, capaci ancora di tre mila misure, si avanzano per la bocca del medesimo e giungono a Roma, sospintevi con remi e funi : ma le navi maggiori fermate colle ancore presso la imboccatura si vuotano su barche fluviali, che succedono ai trasporU. Tra lo spazio cui cingono il mare ed il Gume con forma di cubito, il re fece erigere una città chiamandola Ostia, o come noi diremmo, porta dall’ uso che presta, rendendo con ciò Roma mediterranea e marittima, talché godesse i beni ancora d’ oltremare Inoltre cinse dì muro il Gianicolo che è un colle alto di là dal Tevere, e posevi guarnigione che bastasse per difendere chi navigava in sul Game ; imperocché li Tirreni tenendo lutto il tratto di là dal Gume infestavano e derubavano i mercadanti. E dicesi che egli soprapponesse al Tevere il ponte Sublicìo, il quale dee per legge esser tutto di legno, senza rame nè ferro, ed il quale, perchè sacro lo estimano, conservasi ancora. E se parte alcuna ne pericola, i ponteGci la curano, compiendo insieme patrj sagriGzj mentre riparasi. Operate nel suo principato tali cose degne di storia. Marzio dopo un regno di ventiquattro anni moti, lasciando Roma non poco migliore di quello che avessela ricevuta, e lasciando due Ggli 1’ uno fanciullo ancora, r altro di più anni, e già nubile. Dopo la morte di Marzio, il popolo rimise al Senato la scelta del governo che più bramava ; ed il Senato Gssò di litenerne la forma consueta. Adunque furono gl’ interré dichiarati ; e questi riunirono pe’ coi^ mizj la moltitudine, e scelsero Lucio Tarquiuìo per monarca. E confermando i segni divinf la elezióne della moltitudine ; egli assunse il regno nella olimpiade nella quale Cleonida tebano vinse nello stadio, mentre era arconte in Atene il figliuolo di Enioco. Ora, secondo che io ne trovo negli scritti di que’ luoghi, dirò di quali parenti, e di qual patria fosse questo Tarquinio, per quali cagioni venisse in Roma, e per quali arti giugnesse al comando. Un tale di Corinto, ( Demarato ne era il nome ) della stirpe de’ Bacchiadi, risolutosi di commerciare navigò per la Italia con nave propria e proprie merci. Vendutele nelle città tirrene allora le più prosperose d’ Italia, e fattovi assai guadagno, non volle più rigirarsi per altri porti ; ma tenne continuamente lo stesso mare, portando le greche cose ai Tirreni, e le tirrene ai Greci ; donde ricchissimo né divenne. Nata però sedizione in Corinto, e postasi la tirannide di Cipselo attorno de’ Bacchiadi, egli ricco uomo, e del grado degli ottimati, più non credendo sicuri col tiranno i suoi 'giorni, raccolse quanto potea di sue robe, e fece vela per sempre da Corinto. E perchè stante il commercio continuato egli aveva amici molti Tirreni, anche riguardevoli; specialmente in Tar> quinia, città, grande allora e felice, quivi si domiciliò,' prendendovi una nobile donna per moglie. Da questa nacquero a lui due figli, chiamandone con tirreni nomi Aronle 1’ uno, e 1’ alu'O Lucumone. Diè loro greca é  Anni di Roma l3S secondo Catone, i^o secondo Varrone, e 6i4 acanti Cristo] tirreoa istituzione, e adulti fatti, li cougìaute per matrimonio colle più insigni famiglie. Mori non molto dopo il primogenito suo, non avendosi ancora di lui prole distinta. Da indi a pochi giorni si mori per l’ ambascia Demaralo ancb’ esso destinando erede di ogni sua cosa Lucumone il Aglio superstite. Investito questi de’ beni paterni, che erano assai grandi, desiderò di essere nom pubblico, di maneggiare il comune, e Ggurare co’ primi della città. Ma respinto in ogni parte da’ paesani, e non aggregato non dico a’ primarj ma nemmen co’ mediocri, mai sopportò quel dispregio. E sentendo come Roma accogliea con beneplacito i forestieri, e facevali cittadini, e gli onorava secondo i lor gradi ; risolvette di trasferirvisi. E raccolte per ogni modo le cose sue menò seco moglie, amici, e domestici quanti ne vollero ; e molti vollero con lui trasmigrarsi. Giunto al colle chiamato Gìanicolo, che è quello donde Roma presentasi in prima a chi .vien di Toscana, un aquila calatasi di repente, gli ghermisce il pileo che tieu sul capo, e sollevatasi, roteandosi a volo, si occolu al Aae nell’ allo delK aere : poi d’ improvviso rimise in capo a Lucumone il suo pileo come eravi quando sei portava. Riuscì tal segno inaspettato e meraviglioso a tutti: e Tanaqaila (che tale ne era il nome) la' moglie di Lucumone, sperimentata assai nell’ arte patema degli auguri > menatolo in disparte. lo abbracciò colmandolo di belle speranze, come se dalla condizione de’ privati a quella gingnerebbe dei re. Desse dunque  Latoiò la moglie graeiJa : e da essa aacrjua poscia Arunlc dopo la morie di Demaralo]. opera, moitranJosene degno, di ricererc il comando dai Romani spontaneamente. Lieto Lucumone de’ successi, ornai presso alle porte, supplicò gl’ Iddi! che verificassero gli augurj ; supplicò che gli dessero un ingresso felice, e si mise dentro la città. Quindi venuto a colloquio con Marzio il regnante indicò primieramente chi egli fosse, poi co> ni’ egli era deliberato domiciliarsi in Roma ; che avea perciò portate seco le paterne sostanze, delle quali pos sedendone piucché un privato, esibivale fin d’ allora in servigio de' Romani e del re. Lo accoke questi di buon grado, ascrivendo lui co’ Tirreni compagni in una curia e tribò. Cosi fabbricò Lucumone in città la sua casa, avutone in sorte il sito che bastasse, e ricevutane pure' una parte di campagna. Ciò fatto, e divenuto del nu-> mero de’ cittadini, osservando come ogni Romano ha un nome comune, ed inoltre uno patronimico e gentilizio, e volendo in ciò conformarsi, assunse, per suo nome comune quello di Lucio in luogo di Lucumone, e pel gentilizio quello di Tarquinio dalla città dove ebbe i natali e la educazione. In breve divenne 1’ amico del sovrano, donandogli ciocché si avvedea che più gli bisognava, e porgendogli danari, quanti ne erano di mestieri per la guerra. Combattitore benissimo a piede e a cavallo contavasi per sapientissimo quante volte bi sognassero opportuni consigli. Nè già col divenire caro al monarca aveasi perduto la benevolenza de’ Romani, ma si vincolò molti de’ patrizj co’ beneficj, e tentò di affezionarsi la plebe col chiamarla, e salutarla, e conversarla piacevolmente, e col porgerle danari ed altre significazioni di amore. Tale era Tarqulnio, e per tali cagioni vivendo Marzio divenne il più cospicuo de’ Romani ; e morendo questo fu da tutti proclamato degno del trono. Salitovi fece guerra in principio con gli Apiolani, popolo non ignobile del Lazio. Imperocché gli Apiolani, come tatti del Lazio, credendosi colla mone di Marzio sciolti dai trattati di concordia devastavano le campagne romane pasturandovi, e saccheggiandovi. Di che volendo Tarquinio farli pentiti usci con grande armata, e disfece quanto era il meglio del territorio di quelli. Ben sopravvenne gran soccorso per gli Apiolani da’ popoli vicini del Lazio : ma egli attaccò due volte battaglia con essi, e vintala due volte, si ristrinse all’ assedio della città, spingendovi a mano a mano delle schiere 6n alle mura. In opposito dovendo quelli della città combattere pochi di numero e senza intermissione contro i molti e freschi, soccomberono alfine. Presa la città di forza, i più degli Apiolani morirono con le arme in pugno : e se taluni le cederono, furono venduti colle altre prede. Furono le donne e i fanciulli condotti schiavi da’ Romani : fu la città lasciata al saccheggio, e dopo il saccheggio alle fiamme. Il re dopo' questo, e dopo rovesciate le mura da’fondamenti ricondusse in casa le milizie; rivolgendole poi contro la città de'Crustumerini: colonia anch’ essa de Latini, la quale erasi ceduta a’Romani nel tempo di Romolo : ma cominciava di nuovo a tenersela co’ Latini, dacché Tarquinio prese il comando. Nè già bisognarono a questo assedj e travagli per umiliarsela. Imperocché li Crustumerini vedendo la moltitudine venuta contro loro, la debolezza propria, e la niuna aita de’ Latini verso di essi, aprirono le porte ; ed uscitine i più anziani e più riveriti consegnarono a lui la citld, supplicandolo che usa^e moderazione e clemenza. Ben fu l’ evento propizio ai desiderj: perciocché andato quel inotutrca in città non vi uccise ninno, ma banditine per sempre alcuni pociù, amatori della ribellione, concedè che gli altri ritenessero i beni loro, e partecipassero come) prima alla cittadinanza romana. Ma perchè più non si rimovessero, lasciò de’ Romani con essi. LI. Egual sorte incontrarono i Nomentani datisi a pari consigli. Imperocché spedendo bande di ladroni ne’ campi de’ Romani si costituirono aperti loro nemici ; coutidaudu nella confederazione de’Latini. Ma giuguendo Tarquinio su loro, e tardando il soccorso latino, e non b.isiando essi contro tanti nemici, uscirono 'di città coi simboli di pace, e si renderono. Gli abitanti di Collazia 111 archi narono far battaglia co’Romani ed emersero dalle mura di essa : ma superati in tutti gli attacchi e molto danneggiatine ; furono costi-etti rifuggirsi tra le mura, e spedirono alle città de’ Latini per chiederne truppe compagne. Ma indugiandosi questi, e presentando i ne terre, ninno resistendovi, e messo il campo dinanzi la città, ne invitava gli abitanti a far pace. Ma ricusando questi, e confidando su le fortibcaziooi dei ricinti, e concependo che -verrebbero per loro schiere confederate d’ogn’ intorno, il re ne circondò con truppe le mura, e le assalì. Resisterono lungo tempo i Cornicolani combattendo virilmente, e coprendo di ferite gli assalitori, ma stanchi pei dalla continuità de’ travagli, e piò stanchi eziandio dalla discordia, perchè non erano più unanimi fra loro volendo altri la resa, ed altri la difesa della città Gno agli estremi ; furono alGne espugnati. Li più generosi di loro perirono fra le arme nella presa della città : gli altri, salvatisi come ignobili, furono venduti schiavi insieme co' fanciulli, e colle donne, la città fu prima abbandonata al saccheggio, e quindi alle Gamme. Dicchè malcontenti i Latini deliberarono con voto comune di uscire io campo contro a’ Romani: e fatto grande apparecchio di forze, si gettarono su le terre più buone di essi, e v’ invasero assai prigionieri, e vi divennero signori di amplissime prede. Volò Tar> quinio contr essi coll’ esercito spedito e pronto : nè po tendo raggiungerli, portò su le terre loro simili calamità. Cosi per le vicendevoli incursioni ne’ campi vicini.. 2()r molle lerano le perdite e gli acquisti di ambedue. Vennesi con tutte le forze a battaglia ordinata presso Fi^ deoc; e molti ne perirono da ambe le parti; ma vincendo inCne i Romani, costrinsero i Latini a lasciare il campo, e fuggirsene tra la notte alle loro città. Dopo quel comlntti mento marciò Tarquinio colle milizie schierate alle città de’ Latini esibendo ad essi la pace. E queste non avendo né riunite le forze' comuni, nè ben confidando su’ proprj apparècchj, accettarono  batteano questi nell’ ala destra ed aveano già fugato gli emuli che eran con essi alle mani, ma l’ inaspettato presentarsi di lui li sorprese e sconvolse. Intanto la fanteria romana riavutasi dalla paura piombò su’ nemici. Allora grande fu la strage de’ Tirreni, e piena la rotta dell’ala destra. Tarquinio dato avviso ai duci della fau> teria di tenergli appresso in buon ordine, e passo passo, spinse di tutta lena i cavalli in su gli alloggiamenti ne mici; e gl’ invase a prìm’ impeto, prevenendo quelli che vi si riparavano dalla fuga. Imperocché quelli che ne erano in guardia non avendo prima saputa la sciagura che invalse su i loro, né potuto distinguere per la rapidità del corso quali cavalli venivano, lasciarono che entrassero. Invasi gli alloggiamenti de’ Latini, quelli che dalla fuga vi accorrevano come ad asilo, vi erano sorpresi ed uccisi da’ cavalieri che lo aveano preoccupato : e se altri si fossero affrettati di là verso il piano s’ imbattevano' colla fanteria romana, e ne perivano : li più di loro spintisi e concnlcatisi a vicenda soccomberono con ignobile e miserabile fino intra i valli, e li fossi. Dond’ è che quanti vi sopravanzavano non avendo via ninna di salvezza erano costretti di rendersi ai vincitori. Tarquinio impadronitosi di persone, e robe in copia vendè le prime, e concedè le seconde in premio ai soldati. LV. F allo ciò si diresse alla città de’ Latini onde prendere combattendo quelle che a lui non si davano : non però vi fu bisogno di assalti : ma si rivolsero tutte alle umiliazioni ed alle preghiere ; e mandando oratori a nome del comune supplicarono che desse fine alla gtierra co’ patti che gli piacevano, e si renderono. 11 re divenutoi cosi l’arbitro delle città fu moderatissimo e mitissimo verso di tutte : perocché non uccise, non bandì, nè multò niuno de’ Latini. Lasciò che godessero -le terre loro, e conservassero le leggi delia patria : ma comandò che rendessero ai Romani i disertori ed i prigionieri senza prezzo ninno: che restituissero ai padroni i servi, quanti presi ne aveano nel fare le prede, agli agricoltori il danaro quanto ne aveano derubato ; e compensassero tutti gli altri danni o guasti, se causati ne aveano nelle scorrerie. Fatto ciò dichiarò che sareb-bero gli amici e li confederati de' Romani se pronti sarebbero in tutto ai loro comandi. A tal fine venne la guerra de’ Romani co’ Latini ; e cosi Tarquinio vinse e trionfò. L’ anno appresso prendendo 1’ esercito, lo conduce contro i Sabini, avvedatisi già molto innanzi dei disegni e de’ preparamenti suoi contro di loro. Non aspettarono questi che la guerra passasse in sul proprio territorio ; ma premunitisi di forze sufilcienti si avanzarono tutti ad un luogo. Fattasi ne’ confini battaglia fino a sera non vinsero né gli uni uè gli altri, anzi molto ne furono afiaticati. Quindi ne’ giorni appresso nè il duce Sabino nè il re dei Romani cavarono le milizie dagli accampamenti: ma via via trasmutandoli, senza danneggiare le terre, si ricondussero in casa ; ambedue coi disegno di piombare nella primavera con armata più grande 1’ uno nel territorio dell’ altro. Poiché furono ambedue preparali, primi si mossero i Sabini fiancheggiati da sussidio sufficiente di Tirreni, e collocarousi presso Fidene, dove l’ Aniene concorre col Tevere. Fecero questi due campi, l’uno dirimpetto, e come in continuazione dell’altro; avendoci tra tutti due 1’ alveo delle correnti riunite, e sull’ alveo un ponte di legno congegnato di picciole barche, il quale rendea spedito il transito dall’ uno all’ altro campo, anzi rendeali di due uno solo. Tarquinio uditane la irruzione aach’ egli cavò le sue genti, e si trincerò presso 1’ Aniene, alquanto più sopra di loro in una munita collina. Erano venuti ambedue con tutto l’ardore a tal guerra ^ por non vi ebbe ninna battaglia ordinata, non grande nè picciola. Imperocché Tarquinio con iscaltrezza di capitano prevenne ed isconciò tutte le opere de’ Sabini, e ne distrusse l’ uno e l’ altro campo. Lo stratagemma fa questo. Preparate e riempiute piociole barche fluviali di legna aride e di zolfo e di |>cce ul fiame presso al quale esso accampava, e poi colto uii vento propizio, ordinò che nella vigilia mattuliiia si desse fuoco a qnei combustibili e si lasciassero le navi a seconda della Corrente. Queste scorrendo iu breve tempo la distanza intermedia percossero il ponte, e vi comunicarono ' in più luoghi r incendio. Accorsi per ajuto i Sabini a tanta fiamma improvvisa, e datisi a far tutto, quanto giovasse ad estinguerla, ecco intanto gingnere su l’alba Tarquinio coU’eseixito in ordinanza; ed investire l’nno de’ campi, deserto di guardie, andate in gran parte contro del fuoco. Pochi dunque sorsero a resistervi ; talché senza fatica gl’ invase. Mei tempo di tale operazione altre milizie romane sopravvenendo espugnarono anche il campo Sabino posto di là dal fiume: premesse da Tarquinio nella prima vigilia erano su piccioli navigli valicate da sponda a spanda, laddove fattosi di due fiumi uno solo, rimarrebbero invisibili nel passaggio. Appena poi videro il ponte iu fiamme piombarono ( che tale ne era l’ accordo ) in sul campo dei Sabini : ove quanti ne erano o combattendo caddero appiè dei Romani, o gittatisi a nuoto nella 'confluenza de’ fiumi nè resistendone all’ impeto, si affondaron tra’ vortici : peri nou picciola .parte ancora per liberarne il ponte, tra le fiamme. Tarquinio, preso l’uno, e l’altro campo, diede a’ soldati. le robe che vi erano percltè se le compartissero, ma ' condusse in Roma e guardò ’ con molta diligenza li prigionieri ; ben molti in tutto, Sabini e Tirreni. Sentirono a tale sciagura i Sabini la propria debolezza, e mandando gli ambasciadorì concbiusero, 00 ’ Romani una tregua di sei anni. I Tirreni mal sop-, porundo che fossero tante volte vinti, e che Tarquinio jer quante istanze ne facevano, non s rendesse i loro prigionieri, anzi li ritenesse come ostaggi ; decretarono di spingere tulle generalmente le città Tirrene in guerra contro de’ Romani e di non più riguardarla come alleata, se taluna se ne ricusava. Cosi deliberati cavarono in campo le milizie, e tragittato il Tevere si trincierarono presso Fidene. E prima s’ impadronirono di questa con frodoienza, per esservi sedizione tra’ cittadini: poi fatti prigionieri in buon numero, e condottesi via via gran prede dal territorio romano ^ tornarono in patria. Fidene sembrava loro una piazza bonissima d'ar me in tal guerra; e vi lasciarono guernigioue quanta ne bastasse. Ma Tarquinio mettendo per la stagione seguente in arme tutti i Romani, e congregando il più che poteva di alleali marciò sui giugnere della primavera contro i nemici prima che riunitisi dalle varie città venissero su lui come 1’ anno d’ innanzi. Dividendo in due parti tu'.ia 1’ armata, egli stesso ne andò colla milizia romana contro le città de’ Tirreni : e fidate le truppe ausiliarie, per lo più latine, ad Egerio il suo consanguineo, gl’ ingiunse di marciare conU'O Fidene. E queste piene di disprezzo per l’ inimico, accampatesi in luogo non ben sicuro presso delia città ; non fiirono per poco tutte disfatte. Imperocché le guardie di Fideue procuratosi un rinforzo occulto dai Tirreni, e spiatone il tempo opportuno, fecero una sortita ed invasero il campo nemico non bene difeso, e grande fu la strage di qaein che erano usciti per foragghtre. la opposito la milizia romana sotto gli ordini di Tarquinio, manometteva e depredava le terre di Vejo, e traevane molti vantaggi. Ben si riunirono poi grandi snssidj da tutte le cittA de'Tirreni in sostegno di Vejo : ma Tarqnioio diede ad essi battaglia, restandone non dnbbiamente vincitore. Poi scorrendo a bell’ agio il paese nemico lo devastò : Cnalmente lattivi molti prigionieri, e presevi assai cose come in terre felici, essendo ornai per finire la state, si ricondusse in casa. Straziati i Vejenti da quella battaglia non uscivano più di città, ma dentro vi si teneano, mirando intanto sterminarsi le loro campagne : Perocché Tarquinio uscito per la terza volta, privavali per il terzo anno dei prodotti delle loro campagne, desolandole in gran parte : e non avendo poi come più danneggiarli condusse 1’ esercito alla città di Cere, sigilla chiamavasi la città quando i Pelasghi ne erano gli abitanti, ma soggiacendo poscia ai Tirreni fu Cere nominata. Era questa felice e popolata quanto altra mai fra’ Tirreni. Quindi ne uscì valido esercito a combattere per le proprie campagne, e molti vi straziò de’ nemici ; ma perdendovi più ancora de' suoi, rifuggissene alla cittàRimasti i Romani padroni di una terra la quale somministrava tutto in abbondanza vi si trattenero molti giorni ; finché venuto il tempo di ritirarsene menarono con sé quanta preda potevano, e si ridussero in casa. Riuscitegli come desiderava le operazioni su Vejo, Tarquinio ricavò l’esercito contro i nemici di Fidene per cacciameli, con ansia di punire quei che aveano la ci ttà consegnata a’ Tirreni. Vi fu batttaglia tra’Romani Digitized by Google LÌBRO III. 299 tf tra le ihilizie ascile da Fidene, e' poi darò contrasto nell’ assalto delle 'mura. Fu la città pigliata di forza, e tatti li prigionieri Tirreni legati e custoditi. Dei Fidenaii giudicati autori della rivolta quale ne fu battuto pubblieatnente e poi decapitato, e quale bandito per sempre. I Romani lasciativi per abitatori e custodi della città misero a sorte e se ne appropriarono i beui.  LX. Occorse l’ ultima battaglia fra Romani e Tirrani' presso di Ereto nella Sabina. Imperocché lì Tirreni erano venuti attraverso di questa incontro al Romano persuasi dai potenti di que' luoghi che i Sabini militerebbero insieme con essi. E certamente già era spirata la tregua sessennale conchiusa da questi con Tarquinio, e molti ardevano dal desiderio di emendare le antiche disfatte, essendo già cresciuta nelle città gioventù numerosa. Non pelò succedette ciò come ideavano : perchè ben tosto si presentò l’esercito Romano, nè potè farsi che ab cuna delle città mandasse un soccorso ai Tirreni ; e solo vi si congiunsero alquanti volontari, e pochi reclutali a gran soldo. Fu questa guerra la più grande di quante ne sorsero infra loro ; ed i Romani ne crebbero meravigliosamente, riportandovi una segnalata vittoria, ed il Senato ed il popolo decretarono a Tarquinio il trionfo, lu opposito lo spirito ue decadde ne’ Tirreni ; perchè avendo spedito da ogni loro città tutte le milizie, non riebbero salvi, se non pochi di tanti; gii altri o perirono tra la battaglia, o fuggiti in luoghi non idonei per Io scampo, si arresero. Colpiti da tanta sciagura i primarj delle città la fecero da savj ; perchè prendendo Tarquinio una nuova spedizione su loro, essi riunitisi a consiglio deliberarono trattare della pace ; e mandarono da ogni città plenipotensiarj anziani e riipettabili per concilitiderla. Teneano questi al re che gli udiva ragionamenti, induttivi a misericordia e moderazione, e ricordavano il parentado di lui colla lor gente; quando Tarquinio disse che volea sapere unicamente, se disputavano ancora intorno ai diritti e venivano per fare la pace con certe riserve ; o se confessavausi vinti, e rendevano a lui le proprie città. E rispondendo questi che le rendevano, e che desideravano la pace comunque loro si concedesse, egli dilettatone disse : ascoltale con quali condizioni sono per dare la pace, e quali benefizj vi dispenso con essa. Non io rn ho già nelt animo di uccidere, o bandire, o multare alcuno de' Tirreni. Lascio Ifs vostre città senza guarnigioni, senza tributi : lascio che vivano arbilre di sè stesse, e colla forma primiUva di governo. Ma per tante cose che io concedo a voi giudico che questa sola da voi mi si dia, cioè che io m'abbia la direzione suprema che pur ni avrei delle vostre città quand anche voi noi voleste, finché io sono il vincitore. Piacemi aver questo da voi sporta taneamerUe anziché di mai animo. Andate, riferitene alle vostre città, lo vi prometto sospendere le armi, finché torniate. Ricevute queste risposte andarono di volo gli ambasciadori; e dopo pochi giorni ritornarono portando non già parole nude, ma i fregi stessi del comando coi  Anni di Roma i 65 ecoado Caioae, 177 secondo Varrone, 587 avanli Cristo] ' 3oi qnali adornano i proprj monarchi, la areano seguali di giogo e di esecrasione. Ma se acquistano in guerra una vittoria ; se il irj di ogni città : e prima che 1’ armata de’ Romani venisse nelle terre loro, essi menarono la propria nelle campagne di quelli. Come il re Tarquinio udì che t Sabiui aveano passato 1’ Aniene e che devastavano per tutto intorno de’ loro accampamenti, prese : i giovani ro nani più spediti e piombò di tutta fretta su’ nemici sparsi a predare. Ed uccisine molli, e ritolta loro la preda che si recavano, mise il campo suo presso del loro. Passati cosi pochi giorni, finché gli era di città venuto il resto delle milizie, e le truppe ausiliarie dagli alleali, presentò la battaglia. LXV. Vedendo i Sabini i Romani venuti con ardore per combattere, cavarono la propria armata ancor essi, non inferiori nè di numero, nè di valore. Investitisi combatterono con tntto 1’ aadire fin eh’ ebbero a fare coi soli schierati di fronte : ma poi fatti accorti che marciava loro alle spalle un altro esercito ordinato e ben fornito; abbandonarono le bandiere e dieronsi alla fuga. Era di Romani 1’ esercito che apparve alle spalle, fanti lutti e cavalieri scelti, disposti insidiosamente da Tarquinio tra la notte in luoghi opportuni. Spaventali i Sabini da questi nomini inaspettati che li raggiungevano non fecero più ninna bella azione ; ma quasi colti dagli inganni de’ nemici, ornai sotto il nembo di danno irreparabile, tentarono chi d’ una e chi d’ altra via salvare sè stessi. Allora appunto però soggiacquero a strage grandissima inseguiti e rinchiusi d’ ogn intorno dalla cavalleria de’ Romani ; tanto che pochi in lutto si ripararono nelle città vicine : gli altri, quanti non caddero combattendo, rimasero prigionieri. Imperocché que gli lasciati negli alloggiamenti nè ardivano respingere r assalto de’ nemici, nè uscire in battaglia : ma cosierpati dal male impensato renderono senza combattere sè stessi e quel posto. Le città de’ Sabini vinte come dai stratagemmi e dagl’ inganni non dalia virtù dei nemici, si accinsero a mandare ben tosto milizie più copiose, e capitano piu sperimentato, Tarqajuio vedendo il loro dise^o, guidò soliecitameotc l’ esercito, e passò 1’ Anieue prima che quelli si potessero tutti riuuire. A tal nuova il duce Saltino andò prestissimo quanto polea colla nuova armata e mise il suo presso al campo romano su di un colle erto e dirotto : non giudicava però ben fatto dar battaglia se prima a lui non giungevano le altre milizie de’ Sabini. Solamente spedendo • delle bande de’ cavalieri, e postando delle coorti nelle balze e nelle selve contro quelli che uscivano a foraggiare, impedì che i Romani infestassero colle scorrerìe la campagna. Per tal sua condotta di guerra molte erano le scaramucce, ma di pochi fanti e cavalli, e niuna la battaglia universale. Adunque temporeggiandosi, e sdegnandosi Tarquinio dell’ indugio, risolvè di andare colr esercito alle trinciere de’ nemici, e più volte ne fece l’assalto: ma vedendo che non era farìle espugnarli per la fortezza del luogo, destinò di abbatterli colla penuria. E stabilendo delle guardie su tutte le vie che menavano’ al colle, nè permettendo che i nemici andassero a far legna, e recassero foraggi pe’ cavalli, o prendessero altro che facea di mestieri dalla regione; li ridusse a gravi disagi. Tanto che furono costretti, cogliendo uoa notte burrascosa per vento e pioggia, lasciare vergogno samenle quel luogo; abbandonandovi giumenti e tende, e feriti, ed ogni apparecchio militare. I Romani cono; seiutane al nuovo giorno la partenza, e lattisi padroni del campo senza contbattete vi predarono tende, e giumenti ed ogni cosa, e conducendosi i prigionieri si ravviarono a Roma. Continuò questa guerra cinque anai, 3o5 c gli uni (levasUnJo le campagne degli altri; .diedero via via delle battaglie piu o men grandi, vinte di raro da’ Sabini, e spessissimo da’ Romani : i ma nell’ ultimo cimento ebbe interamente il suo termine. Imperocché li Sabini non già di aumo in mano come dianzi ma quanti per la età ' lo poteano, erano tutti in uh tempo stesso marciati alla, guerra. In opposito i Romani tutti, raccolte le forze aosiliarìe latine, tirrene, ed in genere degli alleati erano venuti a fronlè del nemico. 11 duce Sabino dividendo le milizie ne avea fatto due campi : aveale il re dei Romani compartite in tre corpi in tre campi non molto lontani fra loro, ed egli comandava i Romani; dato ad Aruntc figliuolo del suo fratello il governo de’ Tirreni, e quel de’ Latini e degli altri ad un valentuomo per consiglio e per arme, ma forestiero e privo della patria. Servio era il nome di lui, e Tullio quello della sua stirpe : e fu quegli appunto cui dopo Tarquinio, morto senza prole virile, i Romani inalzarono ai trono per amore del suo ben lare tra le arme e nell’ uso della repubblica. Io sporrò ma nel suo luogo la prosapia, la educazione, le avventure di quest’ uomo, c come gl’ Iddii per lui si manifestassero. Allora dunque, poiché gli uni e gli altri vi  furono apparecchiati, diedero la battaglia. Avevano i Romani l' ala sinistra, i Tirreni la destra standosi i Latini schierati nel centro. Durò vivissima tutto il giorno la battaglia finché viuserla di gran lunga i Romani. Uccisero molti de’ nemici segnalatisi nell’azione; e più ancora ne presero prigionieri tra la fuga. Espugnatone INTONICI y t n> T, >0 l’uao e r altro accampamento ne ammassarono ricchezze in copia, e signoreggiarono senza timore Hitla la campagna: e messala a ferro e fuoco, e distruttivi gli alloggiamenti sen tornarono a casa ornai tramontando la estate. Tarquinio a questa vittoria trionfò per la terza volta nel suo principato. E preparando nelf anno seguente r esercito nuovamente per condurlo contro le. città de’ Sabini, non più concepirono questi nulla di magnanimò e di grande, ma deliberaronsi tutti per la pace prima di mettere a pericolo sè stessi dei giogo, e le patrie della rovina. Pertanto vennero da ogni città li Sabini principali a Tarquinio uscito con tutta 1' armata, e cederongli le terre loro supplicandolo di miti condizioni : e colui propensissimo ricevendo, perchè senza pericolo, il sottomettersi di quella gente, fe’ tregua e pace ed amicizia co’ modi appunto co’ quali aveala innanzi fatta co’ Tirreni, e rendè loro pur senza prezzo li prigionieri. Tali sono le imprese militari di Tarquinio: le urbane e pacifiche son come sieguono; che già non voglio passarle senza ricordo. Giunto appena ai comando desiderando, come aveano fatto i re predecessori, di conciliarsi la plebe, se la conciliò con questa beneficenza. Scelti fra tutto il popolo cento nomini a’ quali il pubblico grido accordava virtù guerriere, o civil sapienza, li nominò patrizj aggregandoli a’ senatori : i quali essendo fin’ allora dugento ampliaronsi al numero di trecento fra’ Romani. Poi, quattro essendo le vergini  Ad. di Boom 171 secoudo Catone, 173 secondo Varronc, e. 58 i avanti Cristo] 3o7 custodi del fuoco inestinguibile egli ve ne sopraggiunse altre due: imperocché cresciuti i pubblici sagrifizj ai quali doveano intervenire le vergini Vestali ; non parve che quattro più ne bastassero. Seguirono la istituzion di Tarquinio ancor gli altri principi, e sei pur ne’ miei tempi si additano le vergini ministre di Vesta. Ed egli sembra il primo, che guidato dalla ragione, o forse; dalle insinuazioni de’ sogni come pensano alcuni, ideò li castighi co’ quali i sacerdoti puniscono quelle che la verginità non conservano : e gl’interpreti delle sante coso dicono che que’ castighi si rinvennero dopo la morte di lui ne’ libri delle Sibille. Certo ne’ giorni suoi fu ravvisato che Pinaria Vergine, la figliuola di Pubblio, an(lavasi con membra non pure ai sacri ministeri. Ho poi già dichiaralo nel libro innanzi qual sia di tali castighi la forma. Egli abbellì circondando di officine di artefici, c di altri apparecchi il Foro ove si arringa e si giudica, e compionsi altre pubbliche cose : egli il primo deliberò di costruire con gran pietre lavorate a misura i muri della città, già vili e grossolani: ed egli prese a cavar la cloaca o canali sotterranei pe’ quali tutto, quanto scola dalle strade, vasseiie a scaricare nel Tevere : meraviglioso è questo edifizio, e maggior di ogni dire. Io tengo in Roma per tre magnificentissime cose, c donde la potenza rilevisi dell’ impero ; gli acquedotti, i lastricati delle strade, e le cloache ; non già che io ne rifletta la utilità della quale dirò ne’suoi luoghi, ma si bene 1’ amplissima spesa. E ben può questa argomentarla taluno da un fatto solo del quale io nc fo mallevadore Cajo Aquilio. Scrive costui che non più scorrendo, perchè negligentale, le cloache, i censori le diedero a spurgare e racconciarle per mille talenti. F e pur Tarquiuio il circo massimo tra ’l colle Aventino e tra’l Palatino costruendovi il primo intorno intorno sedili coperti. Certamente il popolo per addietro starasi in piede agli spettacoli in cima a’ palchi, fondati su cavalletti di legno. Compartì similmente il luogo in trenta spazj assegnandone uno per ogni curia, per^ chè ciascuna sedesse e mirasse dal posto che le si doveva. Anche questo edifìzio sarebbe col volger degli anni numerato tra le meraviglie bellissime della città. Perocché stcndesi il circo per lungo tre stadj e mezzo, spandendosi quattro jugeri per largo. Cinge i due lati maggiori ed uno de’ minori una fossa profonda e larga dieci piedi per raccogliere le acque, e dopo la fossa i portici sorgono con tre piani. I portici terreni han di pietra e poco elevati i sedili come ne’ teatri ; ma di legno sono ne’ portici più alti. Concorrono i due lati maggiori ad un tutto e congiungonsi fra di loro per via del minore che formato in guisa di luna li termina: cosicché risulta da tre ordini un sol porticato amGteatrale di otto stadj capace di cento cinquantamila persone. L’altro de’ lati minori che restasi aperto contiene !e mosse donde i cavalli si rilasciano, spalancandosi tutte in un tempo, ad un suono. • F uori dell’ amfìteatro evvi pure altro portico ma di un piano solo, il quale in sè contiene le òfTGcine c sopra le officine le abitazioni. In ognuna delle officine sonovi 'ingressi e scale per chi viene agli spettacoli ; e con ciò' nOri siegue confusione tra tante migliaja che vanno e tornano. Si accluse il re similineatc a iàbbricare il tempio di Giove, di Glaaoue, di Minerva per adem> plere il voto da lui fatto a quegl’ Iddìi nell’ ultima guerra co’ Sabini. Ma siccome il colle destinato per la santa magione abbisognava di radili travagli, perché non era questo agevole da salirlo nè eguale, ma scosceso e tutto ' acuto in su la cima; eg^i ponendo intorno intorno altri ripari, e tra’ ripari e la cima assai terra lo rendè piana ed acconcio! pel tempio. Non però s’ebbe il tempo di metterne le fondamenta, Tnon essendo egli vissuto che quattro anni dopo il fin della guerra. Molti anui ap> presso, Tarquinio terzo re dopo lui, quegli che fu espulso dal trono, ne gitlò le fondamenta, facendo gran parte del sacro edilìzio : ma noi compiè nemmen' egli, e solo ebbe il tempio il suo termine sotto gli annui magisirati da’ consoli dell’ anno terzo. Ben’ è convenevole che le cose ricordinsi accadute prima della erezione di questo, come pur le ricordano quanti scrìssero la storia di quei luoghi. Deliberatosi Tarquinio a far qnel tempio impose primieramente agli auguri, convocandoli, che spiassero co’ divini riti quale in città ne fosse il loco più accon do e più caro a que’Numi. E riferendo esser questo il colle che sovrasta al Foro, colle detto Tarpeo di quei giorni, ed ora del Campidoglio, comandò che replicati i riti santi additassero in qual parte principalmente del Campidoglio aveansene a porre le fondamenta. Non era ciò cosi fàcile a definirsi ; perchè sorgendo io sul colie a riverenza de’ genj, e de’ Numi altari in gran nume ro ; doveasi trasportare questi, e lasciar libera l’ area pel tempio novello degl’ altri Iddìi. Parve agli auguri di fare le divinazioni loro so di ogni altare, e poi moverlo se il proprio Nome Io concedeva. Consentirono alquanti genj e Numi che i loro altari fossero altrove portati : ma il Dio Termine è la dea Gioventù per quanto gli auguri pregassero e ripregassero non gli udirono ; nè condiscesoro a cedere il luogo. Adunque furono gli altari loro inchiusi nel tempio che destinavasi: ed ora r uno resta nel vestibolo, e l’altro nel sacro ricinto stesso di Minerva presso al simulacro di lei. Presagirono da ciò gl’ indovini che ninna età mai nè li termini moverebbe né il florido stato di Roma : ciocché si é già verificato fino a’ di miei per ventiquattro generazioni. Nevio chiamavasi per nome proprio, ed Azio col nome della prosapia il più insigne degli auguri, che trasferì quegli altari, definì il tempio di Giove, ed altre celesti cose ridisse per la sua divinazione al popolo. Si consente che carissimo egli fosse agl’ Iddii fi:a tutti del santo suo ministero, e che conseguito avesse riputazione grandissima per le prove da lui date incredibili e trascendenti nell’arte sua divinatoria. Io ne ricorderò solamente una la quale mi fu meravigliosissima infra tutte, dicendo innanzi per quale incontro di casi, e per quali divine occasioni venne in tanta chiarezza che fe’ tutti li coetanei comparir dispregevoli. Povero fu il padre di lui, cultore d’ ignobile campicello. Nevio il suo figliuoletto porgeagli l’opera sua, quanta per la .età ne poteva, e guidava de’ porci, e pascevali. Caduto una volta nel sonno, nè più rinvenendo al riscuotersi alcuni di quegli animali, ne pianse per timore de’ paterni castighl. Ma poJ venendo al tempietto sacro agli eroi nel suo campicello, pregò che a lui concedessero di trovare le perdute cose ; egli prometteva loro se ciò concedessero il grappolo più grande del suo poderetto. Trovò indi a poco gli animali, e volea recare i promessi doni agli eroi: ma 'grande era 1’ ambiguità sua nel decidere il maggiore ira’ grappoli. Adunque conturbatone supplicava gl’ Iddii che volessero col mezzo palesargli degli uccelli ciò che cercava. Or qui per divino favore gli venne in mente di dividere la vigna in parte destra e sinistra, e notare gli auspicj che in ognuna occoiresero. Apparsi in una delle parti gli uccelli com’esso ve li bramava, suddivise pur questa in due considerando gli uccelli che vi capitassero. Determinandosi con tale distinzione di luoghi, e venendo da ultimo alla vite indicala dagli uccelli: ebbe un tal grappo incredibile nella sua forma. Egli recavalo appiè delle immagini sante degli eroi, quando il padre lo vide. E meravigliato questi di una tal mole del frutto, e domandando d’ onde se lo avesse : il figlio narrò dalle origini tutto il successo. Concependo colui, ciocch’ era, che fossero questi naturali preludi della divinazione nel figlio, lo condusse in città, e lo sottomise a’ maestri delie lettere. E poiché fu nelle comuni discipline istrutto quanto bastava, affidollo all’ augure più dotto fra’ Tirreni perchè Io erudisse nel suo sapere. Nevio che avea naturali lumi per la divinazione, aggiungendovi pur gli altri de’ Tirreni ; superò di gran lunga quanti erano intesi agli anspicj. Quindi nelle consultazioni sul pubblico tutti gli auguri della città v’ invitavano lui quantunque non fosse del Digitized by Google 3i2 delle Antichità’ romane ceto loro, per la reltitudiae sua nel pronosticare, ti cosa mai vaticinavano, se non ' approvata da lui. Ora volendo Tarquinio creare tre nove centurie  di cavalieri da lui scelti, ed intitolarle dal nome suo e degli amici, questo Nevio il solo magnanimamente gli resisti, non permettendo che alcuna si alterasse delle istituzioni di Romolo. Disgustato per la proibizione il sovrano, e sdegnato con Nevio diedesi a vilipenderne 1’ arte come di nn vano nè veridico parlatore. Con tale intendimento chiamò Nevio nel suo tribunale essendovi moltissimi presenti del Foro.. Egli avea già divisato con qnei che lo circondavano i modi onde convincere l’aagure di menzogna: e lacendosegli questo dinanzi lo accolse con degnevoli salutazioni : ed ora, disse, o Nevio è il tempo di mostrare il potere delf arie tua divinatoria. Siccome io macchino di pormi ad una gran cosa ; vorrei per f arte tua risapere se possa riuscirmi. Or va : consultane co' riti tuoi, o toma il più presto per dirmene : io qui su questa sede ti aspetto. Esegui l’ augure i comandi, e dopo non molto tornò dicendo che propizj erano gli auspicj, e fattibile £ intento di lui. Diè Tarquinio in un riso a tali voci, e cavando dal seno una cote ed un rasojo gli disse: ora ben apparisce o Nevio che tu mi deludi, deluso che se’ manifestamente dagl Iddii, dacché ardisci anrutnziarmi possibili, le impossibili cose : per Nel testo ^vXmt tribù : ma i chiaro che parlandosi di cavalieri non debba pensarsi a tribù : Forse vi ò qualche sbaglio. Gli altri storici in questo luogo chiamano centurie quelle che Dionigi chiama tribù ciocché io meditava se potessi col rasojo fendere questa cote per mezzo : ridevano tutti d’ intorno, e Nevio niente commosso dalla beffa e dallo strepito : ferisci, disse, o Tarquinio animosamente come ideavi la cote: perciocché ne sarà divisa, e se no ; mi ti offero ad ogni pena. Sorpreso il re della confidenza dell’augure mena il rasojo su la cote, e l’ acume del ferro ne penetra r interno e dividela, incidendo anche in parte la mano che la teneva. Esclamarono per la novità quanti contemplavano la incredil.'ile e meravigliosissima cosa. Tarquinio vergognatosi del cimento dato a quell’ arte, c voglioso di emendare la indecenza de’ vilipendj ^ primieramente cessò da que’ suoi tentativi su 1’ ampliar le centurie ; poi risoluto di onorare Nevio come il più caro di tutti i mortali ai celesti, obbligosselo con pegni vari e copiosi di benevolenza ; e perchè la memoria se ne perpetuasse tra’ posteri collocò la statua di lui, fabbricala in rame, nel Foro : e questa, più picciola di nn uomo mezzano, e velata il capo, esisteva pur nel mio tempo dinanzi la curia, da presso del fico sacro. Dicesi che poco lungi del fico sia la cote sepolta ed il rasojo sotto di un’ ara sotterranea ; e quel luogo chiamasi il pozzo da’ Romani. Tali sono i ricordi che si hanno su questo indovino. Tarquinio ornai chetavasi dalla guerra, vecchio già di ottanta anni ; quando mori tra gl’ inganni de’ figli di Anco Marzio. Aveano questi macchinato fin da principio di balzarlo dal trono, e più volte vi si erano adoperali su la speranza che, balzatone lui, diverrebbe di loro come trono un tempo del padre, e die (li leggieri ad essi darebbonlo i cittadini. Delusi via via dalla speranza gli ordirono alfine insidie insuperabili che gii Dei non permisero che restassero impninite. Io narrerò la forma delle insidie. Quel Nevio del quale io dissi che erasi opposto al re che volea di meno far più le centurie, questi (piando più per le arti sue Boriva, quando potea sopra tutti i Romani come augure nobilissimo, allora sia per invidia degli emuli, sia per insidie de’ nemici, sia per altra sciagura, spari di subito da’ mortali ; nè alcuno potè de’ congiunti indovinare il destino di lui, nè più trovarne il cadavere. Addoloratone il popolo, e mal sopportando il suo danno, e molto sospettando di molti; i figli di Marzio ne ristrinsero su Tarquinio l’ accasa. E non potendo allegare argomenti e non segni della calunnia ; insisterono su queste due ombre di ragione. Era la prima, che volea Tarcpiinio far molti e gravi attentati contro le pubbliche norme ; e che però si era tolto d’ intorno chi sarebbe •per contrapporsegli come per l’addietro : la seconda era poi, perchè succeduto tanto infortunio non aveane fatta niuna ricerca, ma trasandavalo in tutto : nè avrebbe mai cosi praticato chi non era tra’ complici. E fattosi col dispensare de’ loro beni, gran seguito di patrizj e di plebei diedero gravissima accusa a Tarquinio, e stimolarono il popolo a non trascurare un tanto scellerato che stendea le mani su le sante cose, e la regia autorità contaminava ; molto più che egli non era un romano, ma un estero, anzi uno senza patria. Tali cose dicendo nel Foro uomini ; autorevoli nè infacondi ; concitarono molti plebei perchè lo rispingessero se venivaci come impuro da quel luogo. Ora cosi fecero, perchè nè poleano combattere la verità nè persuadere al popolo che dal trono il cacciassero. Se non che dissipando lui con difesa validissima le incolpaeioni, e Tullio il genero suo, potentissimo tra la moltitudine, risvegliando verso lui la tenerezza de Romani ; furono quelli avuti per calunniatori e scellerati, e carichi di vergogna partirono dal Foro. Sconciati in tal tentativo, ma tuttavia per> donati per opera degli amici, perchè Tarquinio contenevasi a fronte di tanta perfidia in vista de’benefizj pa gravidasse, e ne partorisse poi Tullio. Certamente non par la novella affatto credibile : pur la rende inverisimile meno un tal altro segno divino inopinato e meraviglioso intorno di quest’ uomo. Imperocché sedendosi un' tempo egli di mezzodì nella regia camera, e presovi dal sonno ; una fiamma gli usci balenando dal capo. Videro questa la madre di esso e la regia consorte, che per la camera passeggiavano, e quanti erano presenti alle donne : e luminosa gli si tenne intorno intorno del capo finché accorsa la madre riscosselo. Allora insieme c ciansi nemmeno le picciolo ingiustizie, e solleverai li poveri co’ benefizj, e co’ doni ; e quando ne parrà tempo, (diora diremo che Tarquìnio è morto ; allora gli daremo pubblica sepoltura. O Tullio ! tu nudrilo, tu educalo, tu renduto partecipe da noi di tanti beni quanti ne derivano i figli da padri e deUle madri, tu congiunto alla nostra figliuola, tu se mai divieni, o Tullio, re de’ Romani, è giusto che almeno in riguardo mio la quale tanto in ciò ti coadjuvai, presenti la benevolenza di un padre verso questi teneri fanciuU letti : e che quando siano già grandi, quando già bastanti a regnare, tu renda (diora al primogenito la corona di Roma. V. Così dicendo diede' 1’ uno e 1’ altro fanciullo in braccio alia 6glia ed a! genero : e risvegliò tenera compassione verso di ambedue ; poi quando ne fu tempo, uscita di camera impose ai domestici che assistessero, come richiedeasi, per la cura, e convocassero i medici. Lasciala passare la notte, siccome nel giorno appresso accorse gran turba alia reggia ; ella si fe’ vedere alle finestre che rispondono alla via dinanzi dell atrio : e su le prime scoperse quelli che aveano congiurata la morte del sovrano, e quindi presentò tra le catene i sicai'j mandati per compierla : e quando vide il popolo in pianto per la sciagura, quando videlo fremere contro de’ malvagi ; alfine gli disse, che pur non era la perfida trama riuscita, e che potuto non avevano trucidare Tar quinio. Confortavansi tutti all’ annunzio ; quando ella mostra in Tullio il personaggio eletto dal re, finché guariscasi, per curare le private sue cose, e le pubbliche. Adunque andossene il popolo, lieto come se il re non avesse niente patito di terribile, e gran tempo si rimase con questo concetto. Tullio cinto da’ regj littori marciò con valida schiera al Foro, e fece pe’ banditori intimare che venissero i Marzj al giudizio. E siccome questi non ascoltarono ; ne proclamò 1’ esilio perpetuo, ne confiscò li beni ; e cosi tenne sicuro lo scettro di Tarquinio. Ma sospendendo alquanto la narrazione, vo’ dir le cause per le quali io nè con Fabio consento nè con quanti scrivono che i fanciulletti lasciati da Tarquinio eran suoi figli ; perchè se altri si avviene in quei scritti non creda che io improvvisi quando non figli li chiamo, ma nipoti. Essi divulgarono ciò su que’ garzoncelli, ma per' negligenza ; niente considerando gli assurdi eie im cuni Storici Romani levarli con altri assurdi, e dissero che non era già madre de’ fanciulli Tanaquilla ma Gegania, una donna, di cui nulla additarono le istorie. Ma in tal caso riesce improprio il matrimonio di Tar> quinio nella età quasi di ottanta anni, e certo inverisimile riesce in quella età la generazione di figli. Nè già egli era mancante di prole ; tanto che ne languisse pei desiderio : ma egli avea due figliuole e queste già maritate. In forza di tali assurdi e di tali impossibilità dico che que’ fanciulli non eran figli ma nipoti di Tacquinio ; nel che sieguo Lucio Pisene, uomo savio, e funii co che ciò scriva ne’ suoi annali. Ma forse eran questi, nipoti a Tarquinio per nascita, e figli per adozione, e forse fu questa la origine dell’ abbaglio di tutti gli Storici delle cose Romane. Or dopo un tal prologo egli è tempo di ripigliare la narrazione. Vili. Poiché Tullio prese le redini del ^ornando, e dileguata la fazione de’ Marzj, giudicò di averselo consolidato ; fe’ con magnifica pompa trasportare Tarquinio, come spirato alfine per le ferite ; condeoorandolo di un cospicuo monumento e di altri onori : e tutore essendo de’ regi fanciulli ; e curò e guardò fin d’ allora le privale loro cosce le pubbliche. Non andavano tai fatti a grado de’ patrizj, ma doleansi e sdegnavansi, mal soffiando eh’ egli a sé stabilisse il regio potere senza le  Addì, di Roma sec. Catone, 179 scc. Varrooe : e 577 avanti Cristo] forme prescritte dalle leggi. E riunendosi più volte i più potenti, trattavano fra loro de’ mezzi onde abbattere TiU legittimo governo. Ora parve ad essi, come fossero la prima volta adunati, per tenere il Senato, da Tallio di violentarlo a lasciare i littori e le altre insegne del comando ; e fatto ciò di nominare gl’ interré da’ quali si scegliesse regolarmente chi dominasse. Tallio, risaputo il disegno, si diede a favorire il popolo, c soccorrerne i poveri, sperando coll’ opera sua di ritenere r impero. £ chiamata la moltitudine a concinne, presentò dinanzi la ringhiera i fanciulli ; e poi disse : IX. Molle cause o cittadini ihi astrinsero a prender cura di questi teneri garzoncelli. Perciocché Tarquinio l m>olo loro accolse e curò me privo di padre e di patria, nè fecemi punto meno che a un figlio; ma diedemi la sua Jìgliuola in isposa, e mi amò finché visse, e mi onorò sempre, come sapete, quasi fossi da lui generato : e poiché fu colto dalle insidie egli affidatami in caso di morte la cura de' fanciullettì. Ora e chi mi stimerebbe pietoso verso gl Iddf, chi giusto verso gli uomini, se io trascurassi e tradissi questi oifani a quali tanto io sono debitore? Ma nè io tradirò la mia fede, né darò per quanto è da me, 1 ultimo abbandono, a fanciulli già derelitti. Ben è giusto che ricordiate voi li benefizj che l avolo suo dispensava su voi quando a voi subordinava tante città Latine emide del vostro principato, quando vi umiliava i Tirreni i pià potenti tra tutti i vicini, e quando neces^ sitava al vostro giogo i Sabini ; procurandovi ognuna di tali cose in mezzo a grandi pericoli. Speltavasi a voi per tanta sua beneficenza di essere grati a lui finché visse, e di esserlo dopo la morte in verso dei posteri -suoi, e non già di seppellire coi cadaveri dei benefattóri la memoria ancora delle opere. Pensatevi dunque tutti eletti custodi de’ fanciulli, reusicurate per essi il regnò che t avo ad essi lasciava. Già non tanto benerisentiranno essi dalle cure di me che son uno, quanto ‘dal soccorso, comune di voi tutti. Io mi vedo necessitato a dir questo ; sentendo che > alcurù commovonsi contro loro, e vogliono dare ad altri il co mandò. Io vi. supplico o Romani, che memori ancora siate de' combattimenti che .io feci pel vostro princù pato, i quali np pochi sono nè piccoli. Ma ben sa^ pendolo voi, non occorre che altro io vi dica, se non che rivolgiafe su questi fanciulli gli obblighi che me ne avete. Imperocché non io per me fabbrico il prir^ cipato : nè se io mel cercassi, ne era già meno degno degli altri; piacemi solamente amministrare il comune in sussidio della stirpe di Tarquinio. Io vi raccomando che non vogliate ahbtmdonare a sé stessi questi farin ciuUi ora che il regno ne pericola : sarebbero anche espulsi da Poma, sé fauste riuscissero le prime mosse ai nemici. Ma non debbo io più dilungarmi su ciò, mentre sapete voi quello che dee farsi, anzi siete per fare quanto conviene.. Ora udite il bene, che io a voi apparecchio, e pel quale qui vi adunai. Quanti a debiti saziacele nè potete levarvene per la indigenza,, tutti sarete da me soccorsi come cittadini, e come già tanto affaticati, in servigio della patria; pert;hè voi che avete fondata la libertà di lei, la vostra non perdiate : io porgerò del mio danaro onde i debiti estinguiate. Inoltre quanti torranno ad imprestilo io non più soffrirò che sieno imprigionati per debito : ma porrò per legge che niuno dia de' prestiti assicurandoli su la persona di uomini liberi, mentre io penso che basti agli Usuraj di rivalersi su bèni de' contraenti. E perchè da 'ora in poi sosteniate più di leggeri il tributo pubblico, pel quale i poveri sono gravati, e ridotti a far debito ; comanderò che si registrino tutti i beni, e che ciascuno dia secondo l' aver suo, come odo che si pratica rtelle città più grandi e meglio ordinate ; mentre ancK. io credo più giusto e più vantaggioso al Comune che chi più possiede più paghi, e meno chi meno, Piacemi inoltre che il terreno pubblico f quello che avete corsquislato colle Urrtse > non sia come ora de più impudenti, nè che per compera ve lo abbiate, nè indarno: ma che quelli se lo abbiano infra voi che privi sono di terre : perchè voi liberi essendo non serviate, nè coltiviate le campagne altrui, ma le pròprie ; imperocché già non allignano generosi pensièri' ov’è disagio del vitto quotidiano. Soprattutto ho deliberalo render pari e fàcile il governo per tutti, e dàce a tutti eguale azione contro chiunque; perciocché sono alcuni venuti in tanta baldanza che oltraggiano il popolo, nè. liberi stimano i poveri fra voi. Ora perchè i più grandi nemmeno che gl’ infimi esigano' e Soffrano il giusto;, io farò leggi proibitive della violenza, e lonservOtrici dei diritti lomuni: nè mai lascciò di provvedere a questa libera procedura di lutti conlto tutti. Sorsero, lui cosi dicendo, grandi elogj tra la moloi gli esuli, e di ceden’i ai figli di Marzio, a quelH che vi lumno ucciso Tarquinio, quel re si buono, e sì amico di Roma, a quelli che macchiatisi in tanta scelleraggine, non osando risponderne in giudizio, si tolsero a voi colla fuga, a quelli in fine a quaU avete voi t acqua interdetta ed il fuoco. E se ben tosto non vòlavane a me t avviso, tali patrizj eccitando una forza straniera, avrebbero di bel nuovo introdotto nel cuor della notte i fuorusciti in Roma. Ben vedete voi quantunque io le taccia, le seguile, come i Marzj favoriti da' patrizj sarebbonsi impadroniti senza fatica di tutto, atsalendo primieramente me che il custode sono della regia prole, me che t autore fui del giudizio contro di loro, e spegnendo finalmente i regj fanciulli, e tutti I consanguinei, e tutti gli amici, quanti ve ne restano, di Tarquinio. Misere le nostri ritogli, le nostre madri, le nostre figlie, e misere le femmine tra noi! le avrebbero que' ribaldi ( tanta lumno di brutale e di tirannico ! ) terwie in' conto di schiave. Ora se tanto o popolani piace a voi pure, che qua si riammettano, anzi che re si proclamino i parricidi, e che i figli se rie scaccino de’ vostri benefattori, e dal trotto . tolgano che V avo ad essi lasciava ; se tanto, dico, a voi piace ; io mi cheto su destini. Ma deh ! per gli Iddj, deh / pe’ genj tutti, quanti le mortali cose riguardano ( e noi colle nostre donne, noi co’ nostri figli supplichiamo voi pe’ tanti benefizj ancora che Tar quinio su voi spondeo perpetuamente, e pe’ tanti, eh’ io stesso vi procurava ), deh ! coruredeteci questo dono ; manifestateci i vostri voleri una volta. Se voi credete altri più degni di noi di tale onore ; questi fanciulli f e tutto il parentado di Tarquinio, partiranHo, abbandoneranno la vostra città. Io poi ben altri più generosi consigli ho per me ! Ahbcatanza vissi alla virtù, abbastanza alla gloria : mancatami la vostra be^ nevolenza, quella che io pregiava più che tutti i beni, già non voglio io vivere indecorosamente presso di abtri. Prendete i vostri fasci, dateli, se così piacevi, ai patrizj. Io mel vedrò, -nè mi oppongo. Cosi dicendo, e già standosi in atto di ritirarsi sorse un clamor vivo per tatto, nn pregare, an piangere, perchè restasse, e governasse nè temesse. Allora alcuni, sparsi ad arte qua e là pel Foro, gridarono che si creasse re, che si convocassero le curie, e sen chiedessero i voti. Così preordinato T evento; ben tosto il popolo tutto vi propendè. Tallio ciò vedendo non trascurava la occasione: ma professandosi ad essi obbligatissimo che memori fossero de’ benefizj, e promettendone più ancora se re lo creasseró ; prescrisse il gionu> de’ comizj ; ordinando che v’intervenissero lutti dalla campagna. Accorso il popolo ; egli chiamando una per una le curie consegnava ad esse i lor voti. E giudicato da tutte le curie degno del trono ; vi ascese. : nè curò del Senato che non volle come solea ratificare la scelta del popolo. Cosi re divenuto fondò molte altre istituzioni, e fece grande e memorabile guerra co’ Tirreni. Io dirò prima delle istituzioni. Appena strinse lo scettro comparti tra’ mercenarj Romani le terre del comune : poi fe’ comprovare le leggi su i contralti e su le ingiustizie dalle curie, estese ^illora a cinquanta, quantunque non sia ora ciò da ricordare. Aggiunse a Ronia il Viminale, e l’Esquilino due colli, cosi nominati, capaci T uno e 1’ altro di nna città liguardevole, dispensandoli parte a parte ai Romani privi di case, perché ivi se le fabbricassero ; anzi egli stesso ivi ediCcò la sua nel sito più idoneo delle Elsquilie, Fu questo 1’ uhimo re che ampliò il circuito, della città, congiungendo ai cinque gli altri due colli, dopo avere presi gli aiigurj e compiute le usate pie cerimonie inverso gl' Iddj. Non poi la citti mise mai più da largo le sue mura ; non avendolo, come dicono, permesso i destini : ma tutti intorno i sobborghi che pur sono molti e grandi, si resuno so>perti, non chiusi da mura, ed espostissimi, se nemico mai sopravvengavi. Che se alcuno mirando a questi, voglia la grandezza racco-r glierne di Roma ; egli errerà certamente : perocché noo avrà nino certo seguo, dal quale discernere fin dove la città si oontinua o dove si termina. Cosi bene que’ sobborghi al fabbricato inleroo si congiungono, che presentano a chi li contempla la immagine come di una città che stendesi all’ iii6nito. Ma se taluno prendendo regola dalle mura, certamente malagevoli a distinguersi per le molte case fabbricatevi intorno, ma che pur sevv bano via via de’ vestigj dell' aulica loro struttura voglia risaperne il circuito in ristretto dei circuito di Alene; vedrà che il ricinto di Roma non molto eccede quello di Atene. Ma quanto alla grandezza e bellezza che Rpma presenta a miei giorni ; avremo appresso luogo più acconcio a discorrerne. Poiché Tullio comprese entro un giro solo di oiura i sette coili ; divise la città in quattro parti ; de-' nominandole da que’ colli, 1’ una Palatina ^ l’ altra Siiburrana, la terza Collina, e 1 ultima Esquilina. Cosi distese a quattro le tribù che erau tre sole. Intimò poi che chiunque abitava 1’ una delle quattro parti, quasi paesano di quella nè portasse in altra il suo domicìlio, nè in altra desse il nome suo pe' cataloglù militari, nè il tributo per le spese della guerra : in somma che noi^ rendesse in altra i servigi che doveansi pel comune; nè più ordinò le milizie secondo le tre tribù disposte come prima per genti  ma secondo le quattro da lui create e compartite ne’varj luoghi ; destinando per ciascuna un capo qual sarebbe un tribuno o prefetto, il quale dor vesse conoscere il domicilio di ognuno. Quindi ordinò che in ogni quadrivio si facessero da’ vicini picciole sacre cappelle agli Dei lari custodi della contrada, istituendo per legge che ogni anno si onorassero di aagrifizj, e che ciascuna famiglia porgesse loro le obbla-zioni sue : comandò che assistessero e ministrassero à chi facea tal sagri6zio non gl’ ingenui ma i sèrvi ; dilettandosi quegl’ Idd) del ministero di questi. Continuano i Romani pur nel mio tempo pochi giorni dopo de’Sa tumali tal festa, veneranda in tutto e magniBca, e detta compitale da’ quadrivi che compiti da .loro si chiamano.  Romolo fece ire tribù eecondo te diverse genti : erano la tribù, la prima Ramnentù dei Romani posti ad abitare nel Palatino, la seconda TatUnsU da Tasio, ebbe il monte Capitolluq, e la tersa dei Luceri a luco o dal bosco dato per asilo i era degli stranieri che aveano ivi cercato nn rifugio. Col progresso del tempo siccome la gente aggregala a Roma superara il popolo primitiro ; COSI Tullio fece una nuova divisione di tribù.. a 5 Serbano nel sagrifìzio 1’ anticx) rito, placaodo gl Iddj Lari con intrametlervi i servi, a’ quali tolgono in quei giorni quanto tien forma di servile; perchè riconfortati da tali dolci maniere ove è misto del grande e dell’ono, riGco sì affezionino più vivamente ai padroni e men sen> tano il peso della loro condizione. Inoltre, come Fabio scrive, divise tntla la campagna io ventisei parti, chiamandole tribù parimente : e congiunte queste alle quattro urbane se ne ebbero trenta inAutte : ma Yenonio dice che se ne ebbero trentuna : laddove Catone ben più autorevole di essi (,) afferma che le tribù ne’ tempi di Tullio furon tutte, non però distinguene il numero. Tullio dunque secondo gli atupizj divisa la campagna in tante parti, quante mai furono, apparecchiò su luoghi montuosi e fortissimi degli asih\ chiamandoli pagos con greco nome o castelii, onde renderne salvi i coloni. Imperocché .quivi tutti si rifuggivano ndle irruzioni de’ nemici, e quivi spessissimo pernottavano. Ci aveano in questi de’ presidi incaricati di conoscere i nomi de’ coloni, contiihnenti a quel borgo, e li poderi su quali viveano. E se mai portava il bisogno di convocare que’ contadini per le arme, o di esigere da ciascuno le lasse ; questi li congregavano, o ne raccoglievano le somme. £ perchè la moltitudine non fosse difGcile a trovarsi, ma facile a descriversi e palese; fece erigere degli altari ai Numi contemplatori e custodi del luogo, perché quella ogni anno vi si riunisse e ve gli onorasse con pubblici sacri Gzj, istituendo  Di Fabio • di Venonio.  tal (ine la festa soleanissima delta dei viUagi ."^Anzi intorno a tali sagrifizj scrisse leggi che i Romani ser bano ancora. Per tal sagriSzio, per tal celebrità volle cbe contribuissero tulli una data moneta, altra però gli uomini, altra le donne, ed alu'a gl’ impuberi : talché numerandosi queste dai, presidi delle sante cose rilevavasi il totale degl’ individui secondo il sesso e la. 6tà. E volendo, come scrive Lucio Pisone nel primo degli annali, conoscere quanti erano domiciliati in Roma, quanti vi nasceano o vi morivano, o toccavano  la età virile; stabili qual moneta dovessero i parenti vergare per ognun che nasceva nell’ erario di Eileitia, detta dai Romani Giunone Lucifera, o in quello che chiamano di Venere Libitina, là nel bosco, per ognun che moriva, o in quello della Dea Gioventù per ognuno che alla virile età perveniva. Da queste monete intendeasi ogni anno quanti erano in tutto, e quanti aveano idoneità militare. Ciò fatto diede ordine, che i Romani. registrassero, apprezzandoli inargento, i lor beni, e giurando di apprezzarli come dee 1’ uomo candido e buono t e che insieme dichiarassero quanta era la età loro, quali i padri loro, le mogli, ed i figli ; aggiungendovi dove in città soggiornassero, o in quale de’ villaggi d^Ho campagna ; e chi non &cea pari stima era in pena spogliato de’ beni, flagellato e Venduto. Dorò questa legge lungo tempo tra Romani. XVI. Cosi prese da tutti 'le stime, e rilevatone il numero di essi, e la grandezza de’ beni loro introdusse (l) Ciut Paganaliu. una instituzione savissima che fu poi larga fonte di beat a’ Romani, come il fatto stesso Io dimostrò. La islit zione fu di segregare dal resto del popolo quei che aveano sostanze più grandi non però minori di cento mine, e di ordinarli in ottanta centurie , le quali, armandosi, portassero scudo argolico, elmo di bronzo, corazza, stivali, asta e spada. Poi separandole tutte in due parti formò quaranta centurie di giovani per le spe> dizioni in campo aperto, e quaranta de’ più adulti, le quali in città si restassero per custodirla quando le altre uscivano per la guerra. E questa era la milizia, prima di ordine ; per altro i giovani aveano sempre il primo luogo onde proteggere tutta l’armata. Dal residuo quindi del popolo segiegò quelli ancora che aveano meno di cento mine non però più scarse di settantacinque, compar lendoli in venti centurie che portassero arme, simili a quelle de’ primi, toltane la corazza e dato ad essi lo scudo lungo in luogo dell’ argolico (u). E dividendo quelli di oltre quarantacinque anni dagli altri che aveano età militare formò dieci centurie di giovani, le quali an Nel Cesto Xt^gn: questa roce k ambigua: può sigaificare centuria, manipolo, coorte. Il traduttore latino la interpreta per centuria : e questa pare la nozioue piti acconcia : ma deve riflettersi che cengia: vai quanto compagnia di cento, laddove in questo luogo non significa cento esattamente ; ansi ne] paragrafo iS di questo libro significa ben altro che cento. Tra I LATINI ci ebbe io Cfypeut e lo tculuni. Il primo era detto cevrir da’ Greci, ed il secondo Bv/if i il primo era più breve e sièrico, l’altro piò lungo. La nostra lingua, come di un popolo che più non usa quelle armi non ba forse parole ben disliute o note pet indicare la doppia forma. Targa, Rotella o Broccbiero può forse dirsi il C/fpeus, e scudo è voce generica di ogni sorta di quelle armi. Digitìzed by Google a8 DELis Antichità’ romane dassero in guerra per la patria,  dieci di anziani che in gtiardia rimanessero delie mura. Era questa la milizia, seconda di ordine, e prendea luogo dopo de' primi nella battaglia. Una terza ne fece di quelli che aveano meno di settantacinque mine non però sotto le cinquanta; ma ne minorò T armatura non solo delle corazze come alla seconda; ma de’ stivali ancora. Descrisse pur questi in venti centurie dividendoli parimente secondo 1’ età, talché se ne avessero dieci de’ più gióvani, e dieci de’ più maturi. Era il luogo loro nelle battaglie appunto dopo quelli che seguivano i primi. XVII. Trasse un quart’ ordine di soldati da quelli che avean meno di cinquanta, e non meno mai di venticinque mine; disponendolo in venti centurie, dieci dei floridi, dieci de’ provetti per anni, come avea fletto cogli altri ; e dando loro per arme scudi, aste, e spade, e r ultimo posto nelle battaglie. Reclutò la quinta milizia da quelli che avean meno di venticinque mine, non però meno di dodici e. mezzo, acconciandola kcondo gii anni di ognuno in trenta centurie, quindici de’ più avanzati, e quindici de’ più giovani. Diè loro strali e Sonde, ma luogo fuori deli’ esercito, Uiesso in battaglia. Comandò che quattro centurie allatto inermi accompagnassero tutte le altre : cioè due di annajuoli, di falegnami, e di altri per altro militare lavoro, e due di sonatori di trombe e timpani e di altri stromenti pe’ bellici segni. Ma gli arteflci seguitavano la miUzia dà second’ ordine : e distinti anch essi per età, quali se. guitavano le bande de’ giovani, e quali degli anziani. I^addove i sonatori di trombe e di timpani lenean dietro alla miUzia quarta di ordine ; distribuiti anch’ eglino in giovani e vecchi. Erano li centurioni tmcelti fra' tutti li più insigni nelle arme; e reggea' ciascuno la sua centuria docilissima ai cenni. Tale era il metodo onde avessi la soldatesca legionaria e leggera. Scelse poi la cavallerìa dai più facoltosi, e più cospicui di lignaggio, e formatene diciotto centurie le dié compagne alle prime ottanta centurie de’ legionarj. Erano pur di queste diciolto, chiarissimi lì centnrioni. Finalmente ridusse ad una centuria gli altri tutti, ben più numerosi de’ primi che aveano men che dodici mine e mezzo, e gli escluse dalla milizia e li rese immuni da ogni tributo. Cosi risuitaron sei ordini che i Romani dicono classi denominandoli con greca parola : imperocché quello che noi significhiamo colla voce imperativa colei ( chiama ) lo significan essi coll’altra cala (>) ed anticamente caleseis pronunziavano in vece di classi. Comprendeano queste classi cento novanutrè centurie. Formavano la prima Bovantotto centurie compresevi quelle de' cavalieri : ventidue cogli artefici la seconda : venti la terza : di nuovo ventidue co’ sonatori di trombe e di timpani la quarta ; trenta la quinta : ed era dopo queste una centuria uuica la classe de’ poveri (a).  Calo catas tt antico veibo latino por chiamare j donde pur cbbesi la noce Calerule. (a) Classe prima. 9S -seconda aa ' tersa. ao quarta aa quinta 3 o sesta. Introdotto un tale sistema, iatimava i soldati per la guerra secondo le centurie, e li tributi secondo li beni. Quante volte a lui bisognassero dieci o ventimila soldati ; avendo distinta la moltitndine in cento novantatrè centurie, imponea ebe desse ognuna la sua parte. Calcolando, le spese da farsi pe’ frumenti e per gli bisogni di guerra ; egli stesso le compartiva secondo gli averi di ognuna tra le centurie, ordinate in cento novantatrè. Seguitò da questo ebe i possidenti piò grandi essendo minori di numero ma divisi io più centurie fossero sensa requie astretti a più guet're, e vi contribuissero danaro più ohe altri : laddove i possidenti mezxani e piccioli quantunque più numerosi, ridotti in meno centurie, non combatteano che alternativamente e di raro, né pagavano se non leggeri tributi ; e quelli che non possedeano quanto rìchiedevasi, erano intatti da ogni molestia. Nè ciò facea senza causa ; ma persuaso che gli averi sono per 1 uomo il premio della guerra,. e ohe ciascuno travaglia per difenderseli ; riputò giusta cosa, ohe chi pericola su più beni, più ancora al pericolo si opponga colla robba e colla persona : che men di molestia risenta in ambedue chi men perderebbe: e finalmente che chi non teme per cosa ninna non sia nemmeno in cosa alcuna aggravato, immune da’ tributi perchè bisognoso, e libero dalla guerra perchè libero da’ tributi. Imperocché li soldati Romani militavano allora, ciascuno a spese sue non lo stipendio riceveano dal pubblico ; nè pensava altronde che avesse a contribuire chi non aveane i mezzi e stentava il vitto quotidiano : nè che colui che non contribuiva militasse a spese altrui qual mercenario. G)sl rivolse Ai più ticchi tatto il carico de’ pe ricoli e delle spese : vedendo però che sen disgustavano^ nè raddolcì per altro modo il mal contento, e ne rat temperò lo sdegno, concedendo ad ewi tal prerogativa per cui gli arbitri sarebbero del pubblico esclusine i poveri. Nè comprese il popolo di ciò che facessi le con srguenze. Era la prerogativa ne’ comitj, ove dai popolo risolveansi. le cose le più gravi. Ho già detto di sopra come il popolo secondò le antiche l^gi era 1’ arbitro di tre cose grandissime e necessarissime : cioè di eieg> gere i suoi capi in città e nel campo, di ammettere o di abrogare le leggi, e di conchiudere la guerra o la pace.' E tali cose discuteva, e decidevate il popolo per curie, parrggiandovisi il voto del grande a quello del picciolo possidente. ^ E siccome pochi, come avviene, erano i facoltosi ; ma più assai li poveri; cosi preva leano questi ne’ comlej. Tullio ciò vedendo trasferì nei ricchi la prepotenza de’ voti. Imperocché quando pare vagli di' far creare i Magistrati o discutere le leggi, o Conchiudere la guerra teneva i comizj non più per ci^ rie, ma secondo le centurie anzidette. E prima chia mava a dare il Suo volo le centurie di maggior possi densa le quali èrano ottanta di fanti e diciotto di cavalieri. Or' queste più numerose che le altre di Un tre  quando fossero unanimi, superavano le altre ; e la di scussione avea fine. Che se non si univano queste in uu parere ; invitava allora le ventidue scritte nel se coud’ ordine., £ se i voti sciudcvansi ancora ; soprac  Erauo noTanioUo, e le altre tutte novauUoinijue. cbianuva le centarie di terz’ ordine : iodi quelle del quarto, e cosi via via, finché novantasette centurie si trovassera consentanee. Che se ciò non ottenessi neppure colla quinta, chiamata, ma le cento novantadue centurie si contrapponeano con parti eguali.; invitava allora 1’ ultima centuria che era de’ bisognosi, e però libera dai tributi e dalla milizia. E qualunque fosse la parte alla quale accostavasi questa centuria ; quella preponderava. Ma ciò era ben raro a succedere, per non dire impossibile ; mentre il più delle discussioni termi navasi col chiamar de’ primi ordini senza procedere al quarto. Doud’ è che l’ invito de’ quinti e degli ultimi superduo riusciva. Istituendo tal sistema e tal prerogativa inverso de’ ricchi, Tullio deluse, come ho detto i poveri ; né sei conobbero, e furono esclusi dalle cariche. Immaginavano questi che essendo richiesti un per uno a dare il suo voto, ciascuno nella sua centuria, avessero egual parte nel tutto : ma s’ ingannavano : perchè uno era il voto della intera centuria, e qual centuria conteuea. men cittadini e quale più i^sai ; e perchè prime votavano le centurie più ricche, più numerose per serie, quantunque con men cittadini. Aggiungi che un solo era il voto de’ bisognosi, quantunque fossero i molti ; ed aggiungi che ultimi si chiamavano. Per tal metodo i ricchi, quatunque assai soggiacessero a spese, né avessero mai requie da’ perìcoli della guerra, men sentivano il  Erano le centurie senza l’ultima 193. numero la cui metà è 96. Affinchè dunque vi, fusse preponderanza doveva un parlilo nascere almeno da 97 e I' alito da 96 ocniutia.peso ; perchè erano gli ariìitri divenuti di gravissime cose, ed aveano tolto agli altri tutto il potere. Altronde i poveri se non aveano che la minima parte nelle pabbliche cure sei comportavano placidi e ebeti, perchè liberi dai tributi e dalla guerra. Dond è che que’ medesimi i quali consigliavano ciocché era da fare ; quegli appunto se ne mettevano ai pericoli ed alle opere. Durò tal sistema per molte età tra’ Romani. Ma ne’ tempi miei fu variato, e renduto più popolare per forza di grandi necessità, non perché le centurie fossero disciotte ; ma perchè non più serbavasi 1 antica diligenza nel chiamarle; come io stesso, presente più volte ai comizj, ho veduto.: ma non è questo il tempo conveniente a parlar di ciò. Tullio data cosi regola al censo, comandò che tutti i cittadini andassero colie armi al campo più grande dinanzi Roma : e là, messi in squadre i cavalieri, ordinati li fanti in battaglia, e ridotti i soldati leggeri, ciascuno nelle proprie centurie ; li espiò con un toro, un ariete ed un capro. Egli fatte condurre prima tre volte le vittime intorno dell’ esercito le sagri Beò poscia a Marte, Nome sovrano di quel luogo. Anche a miei giorni vengono i Romani purificati con egual cerimonia, che essi chiamano lustro, dopo &tto il censo, da que’ che n’ esercitano' il magistrato santissimo. Come rilevasi da’ libri de’ censori, il, catalogo de’ Romani che si registrarono ascese allora ad ottantaqnattro mila settecento. Prese questo re non picciola provvidenza per ampliare le classi del popolo, ideandone de' mezzi sfnggiti a suol predecessori. Imperocché provvidero questi a far moltitudine ricevendo i forestieri e consociandoseli senza divario di natali o di sorte. Ma Tullio concedè che entrassero a parte della repubblica pur gli schiavi Fenduti liberi, se mai non volevano ripatriare. Àdon que permettendo che registrassero le loro sostanze iusieme con gii altri uomini ingenui gli ascrive fra le tribù urbane che erano quattro fra le quali ritrovasi aa cora la discendenza dai liberti, e fece che vi godessero quanto gli altri vi godeano di diritti.  Disgustandosi di questo e mal sopportandolo i Patrizj ; egli convocatane la moltitudine disse : cho meravigUctvasi primieramente de' malcontenti se credei vano che t uomo libero differisse dal servo per natura piuttosto che per la, sorte : e secondariamente se mv~ stiravano gli uomini degni di onori non dai costumi né dalle maniere, ma dalla prosperità, vedendo quanto caduca, e quanto mutabile sia la prosperità, mentre TÙuno, nemmeno de’ più felici, può dire quanto tempo gli durerà. Considerassero quante città barbare e gre^ che erano di serve divenute libere, e di libere serve. E qui condannava la grande loro incongruenza mentre rendevano liberi uomini degni di esserlo, e poscia ad essi invidiavano la cittadinanza : e consigliavali piuttosto a non liberarli, se malvagi li riputavano: ma -se ripa tavanli buoni, non li vilipendessero quantunque forestieri. Dicea, che ben era informe nè savia cosa che essi ammettessero alla loro cittadinanza tutti i forestieri, senza distinguerne la sorte, o por mente, se erano servi divenuii liberi ; e poi tenessero come indegni di tal graeia ^elli stessi che erano da loro liberati : e dicea, che essi i quali credeano più saperne che gli altri non vedeano poi le cose presenti, elementari, e piane anche ai più inetti': cioè che assai penserebbero i padroni anon rendere liberi cosi di leggeri i servi se poi doveano accomunarseli alle cose più grandi fra gli uomini : e che i 'servi assai più si studierebbero di far Fatile de’ padroni, se capivano che resi liberi sarebbero ancora cittadini di una città grande e beata ; e che ambedue questi beni Se gli avrebbero appunto dai padroni. Da ultimo fattosi a ragionare su F utile pubblico ricordava a chi io sapeva, ed a chi noi sapeva insegnava, che una città che aspiri al comando, una città che pre pansi alle grandi cose, non dee niun bene cercare quanto F aumentò del popolo, onde aver forze contro tutte le guerre, e non distruggere Ferario con assoldare gli estranei, perciò dicendo che i primi re concedevano a forestieri la cittadinanza. Che se ora adottavano la sua legge; aggiungeva che per loro via via crescerebbe una gioventù numerosa, nè sarebbero mai scarsi di soldati ; anzi che ne avrebbero abbastanza quantunque fossero astretti far guerra contro di tutti. Vi sarebbero ancora oltre le pubbliche, altra utilità non poche pe’ ricchi se lasciavano che gli schiavi renduti liberi avesser parte nelle adunanze ; mentre ne sarebbero in queste nel maggiore bisogno favoriti co’ voti o con altre decenze, e la scerebbero ne’ discendenti di essi altrettanti clienti ai posteri loro. Consentirono a tal dire i patrizj che si am> mettesse un tal uso in repubblica: e vi persevera ancora, custodito come una delle leggi sacre ed inviolabili. E poiché son venuto a tal parie di narrawoue ; parmi necessario adombrare i costami de’ Romani in que’ tempi sopra gli schiavi ; perchè niuno riprenda nè il re che tentò volgere in cittadini gli schiavi già liberi, né quei che la legge ne ammisero, quasi abbiano incautamente abolito istituzioni bellissime. Ottenevano i Romani dei schiavi per giustissime guise:' imperocché gli aveano o comperandoli dal pubblico che metteali qual preda all’ incanto, o concedendo un capitano che si appropriassero i presi in gnerra insieme con altre cosej o redimendoli da altri che gli aveano. con eguali marniere acquistati. Mé Tallio che lo introdusse, nè gli altri che lo riceverono e serbarono; tennero come vituperoso e nocivo al pubblico il costume pel quale si ridonasse la libertà e la patria da chi possedeali come schiavi, a quegli uomini che spogliati in guerra di patria e di libertà si erano utili dimostrati verso i primi che gii aveano soggiogati, o verso altri che gii avevano comperati dai primi. Ricuperavano moltissimi la libertà gratuitamente in vista deir onesto e bel procedere loro : e questo era il più onoridco mezzo onde riaversi : pochi ne sborsavano un prezzo, accozzato con legittime e caste fatiche. Non è però così di presente, ma sono le cose in tanta confusione, e cosi belle virtù de’ Romani sono invilite e bruttate; che chiunque trae danaro da crassazionl^ da sfasci, da prostituzioni o per altre ree guise, costui con tal prezzo redimesi, e diviene un Romano. Ottengono altri un tal dono dai loro padroni, divenutine i complici degli avvelenamenti, delle uccisioni, e. delle ingiustizie contro la : repubblica e contro gl’ Iddj : tal altri Digitized by Goo e de’ Veietiti, -già prime ad insorgere, e colpevoli di aver mosso le altre alla guerra co’ Romani, queste in pena le multa della campagna, coi divise in sorte tra gli ammessi di fresco alla cittadinanza di Roma. Compiate tali cose in guerra ' ed in pace, e fondati due tempj l’uno nel Foro boario, e l’altro in riva del Tevere alla Fortuna sembratagli propizia tutti i suoi giorni, e da lui chiamata Kirile come chiamasi ancora  ; alGne provetto assai per età, nè lontano ornai dal suo termine, morì tra le insidie dei genero suo e della Gglia. Io dirò di queste insidie ma ripigliandone il GIo alquanto da lungi. Avea Tullio due Gglie, nategli da Tarquinia, sposata a lui dal re Tarquinio medesimo. Divenute nubili le donzelle, cugine dal canto materno a’ nipoti di Tarquinio, diedele appunto a questi per mogli, la più grande al più grande, e la minore al minore ; cosi parendogli che meglio converrebbobo a chi le prendeva ;  Tullio fondò piò che due tempj. Fiutar, in quest. Rom. 74  Ma la fortuna ViriU fu coosccrata da Anco e non da Serrio secondo lo stesso Plutarco De Fortuna Roman, se non che per la diflbrmità de’ costami si trovò ì’ua genero e l’ altro accoppiato col sao contrario. Lucio il maggiore, baldanzoso, caparbio, tiranno per indole, ebbesi la fanciulla, savia ^ mansueta, piena di amore paterno: laddove Arunle il più tenero, mite molto per genio e tutto affabile, se ne ebbe la iniqua, e tutta ardire, e tutta odio contro del padre. Ora seguiva che movendosi ognuno a seconda del genio suo venivane ripiegato in contrae rio dalla sua donna. Ardea lo scellerato dal desiderio di balzare il suocero dalla reggia : ma intanto che a tale disegno applicavasi, erane dai voti contrariato e dal pianto della consorte. In opposito il mite sposo, fermo in cuor suo che non aveasi ad offender il suocero ma che do veasi aspettare che la natura ne consumasse la vita, ni tollerando che il fratello commettesse quella ingiustizia, era spinto in contrario dalia ribalda sua compagna, che lo istigava e garrivalo, rimproverandolo come vile. E poiché niente poteano nè le suppliche della savia donna che insinuava il suo meglio al non giusto suo sposo, nè le istigazioni della malvagia che provocava ai delitti Taomo suo, che non era temperato a commetterne; ma ciascuno seguiva l’indole sua tenendo per molesta la compagna perchè non avea desiderj uniformi ; la prima ne piangeva, ma comportava l’acerbo suo caso, quando l’altra fremevane audacissima, e cercava come togliersi dal sno camerata. Or qui levatasi di mente la scellerata, considerando quanto bene a lei si confarebbe il marito della sua germana, sei fa eh iamare, quasi per abboc carsegli di necessarie cose. E poiché fu venuto; ordinando che si rititasserò quanti eran seco per discorrere sola con solo Or su, disse, o Tarquinio posso io liberamente e senza pericolo ridire quanto medito pel bene di ambedue ? Lo celerai tu quanto sei per udire ? o vai meglio che io taccia, nè palesi V arcano' consiglio ?, £d invitandola Tarquinio à dire, e certificandola coi giuramenti, qualunque ne volesse, cbe-taóerebbe i discorsi ; ella non più contenuta dalla verecondia >neO‘ amici che abbondano, ed altre comodità copiose e grandi per imprendere. Che più, dunque t’ indugj ? u4 spetti forse il tempo che per sé stesso venga e ti dia la corona senza che pur te ne brighi ? Quando ? dopo la morte di Tullio ? Jippunto la fortuna riguarda gl’ indugj degl’ uomini, appunto la natura pon fine alle vite secondo la proporzione degli anni ! Anzi oscuro, incomprensibile è f esito delle cose mortali. Sebbene, io lo dirò pur francamente, quandi anche tu me ne chiami temeraria, una a me sembra, una la causa per la quale niente commoveti, non l’ amor degli onori non della gloria. Hai tu donna mal conforme a tuoi modi; e questa li lusinga, e t’ incanta, £ ammollisce : e da questa rendalo men che uomo diverrai finalmente un ignoto. Così pure quel marito eh’ è meco, tutto paura, e senza nulla di virile, quegli ha depresso me ch’era nata alle grandi cose, quegli ha fatto il fiore languir di bellezza che mi avvivava. Se portava il destino che tu prendessi me per moglie ed io te per marito, già non saremmo tanto tempo vivati nella ignobilità de’ privati. Che dunque non emendiamo le colpe della sorte ? che non trasmutiamo il matrimonio ? che non togli tu dalla vita cotesta tua donna ? Io sì che apparecchio per quel mio marito /’ egual trattamento. E quando, spenti questi ^ ci sarem conjugcUi y allora consulteremo con 'sicurezza sul resto, liberi già dagli ostacoli che ci conturbavano. Che so altri per cUtre cause teme la ingiustizia ; già non è da riprendersi chi tutto ardisce per dominate. Mentre Tullia cosi diceva, ne ascoltava Tai> quinio con diletto i disegni : e dando immantinente e ricevendo i pegni di fede, e le primizie dell’ empie nozze, si ritirò. Non andò guari tempo ; .e perirono p^ eguale sventura la primogenita di Tullio, ed il minor de’ Tarquinj. E qui sono astretto a far parola di nuovo di Fabio, e riprenderne la negligenza nell’esame dei tempi. Imperocché fattosi alla morte di Arante non. pecca per questo capo solo come io dinanzi dicea, che deaerivelo per figlio di Tarqninio ; ma per l’ altro ancora che narra, che mortosi Arunte fu sepolto dalla madre Tanaquilla, la quale non potea di que’ tempi più vivere. Conciossiachè giù di sopra fu dimostrato che costei numerava settantacinque anni, quando mori Tarquinio. Ora aggiungi a questi altri quarant’ anni, giacché sappiam dagli annali che Arunte mancò nell’ anno quarantesimo del regno di Tullio; e saran gli anni di Tanaquilla cento quindici. Tanto picciola nelle storie di que^ st’ uomo é la cura intorno la ricerca del vero ! Dopo ciò Tarquinio senza indugio riprese in Tullia una moglie, ricevendo lei da lei stessa, e senza che la madre approvasse, o consolidasse il padre quelle nozze. E come que’ due impurissimi, come que’ due micidiali si congiunsero, tentarono di cacciare se noi cedea di buon grado, Tullio dal trono: e teneano perciò delle conventicole, e raunavano que’ senatori che aveano cuore alieno da lui e dalie forme di un governo’ popolare, e comperavano i più bisognosi della città quei che non Bveau cura ninna della giustizia, facendo intanto tutto senza nasconderlo. Tullio vedendo ciò, ne fu contur baio, e temette di essere sorpreso da qualche infortunio. Nè dovrebbesi meno se dovesse far guerra alla figlia ed ai genero, e pigliarne vendetta come di nemiri. Adunque invitò molte volte Tarquinio a discorso in mezzo degli amici ; ora redarguendolo, ora ammonendolo ed ora esortandolo a non far contra lui mancamento. Poiché però costui non lo attendeva, e pretestava che direbbe in Senato i suoi diritti; egli stesso adunando il Senato, incominciò : Tarquinio o senatori ( e ben mi è ciò manifesto ) Tarquinio tien dei congressi; Tar~ quinio m insidia lo scettro. Io da lui voglio, presenti voi, risapere, qual privata ingiuria ha da me sostenuta, o qual vede che io ne ho fatta sul pubblico per insidiarmi. Rispondi Tarquinio, non '{infingere, di che avresti tu mai per incolparmene? È questo il Senato, ove di essere udito desideravi. E Tarquinio replicò : Breve o Tullio sarà il dir mio, ma giusto ; e però voleva io profferirlo tra questi. Tarquinio V avolo mio possedè la reggia di Roma, e molti e grandi travagli sostenne per essa. £ lui morto, io, gli debbo succedere secondo le leggi comuni de’ Greci e de Barbari. E convenivasi, come si conviene a quei che succedono agli avi, che io ne ereditassi non pur le monete, ma la reggia : e tu mi davi le une, come lasciate da esso, e mi toglievi la reggia, e già da tempo la tieni, senza averla mai ricevuta a norma delle leggi : perocché nè gl’ interré vi ti scelsero, nè i senatori mai per te davano il voto, nè assunto vi eri dacomizj legittimi come l’avo mio e come tutti i re precedenti. Tu andavi al trono,e comperando e subornando per ogni modo una turba di vagabondi e di miseri, una turba rovinata nella stima per le accuse e pe’ debiti, una turba infine niente sollecita del pubblico bene : e così andandovi nemmeno dicevi di stabilirlo per te, ma davi' le viste di custodirlo per noi orfani e pargoletti: e dichiaravi, udendolo tutti, che quando saremmo già adulti, lo renderesti a me che sono il pià grande. Se dunque volevi tu far la giustizia, quando mi consegnavi la casa, quando il danaro dell’ avo ; dovevi tu consegnarmene nommeno la reggia seguendo V esempio dei tutori onorati e dabbene, i quali ponendosi alla cura de’ regi figli, orfani de loro padi’i, rendono ad essi appena son grandi puntualmente e santamente la signoria degli antenati. Che se ancora non io semhravati idoneo a pensieri convenienti, ìiè bastante pei giovani anni a città si popolosa, dovevi almeno restituirmene il governo quando io giunsi ai treni anni che son gli anni vegeti del corpo e della mente, e ne’ quali tu mi davi la tua figlia in isposa. Avevi pur tu questa età quando prendevi la cura della nostra casa e del regno. Ti sarebbe, cosi facendo, accaduto di esserne detto pietoso e giusto, di essere il partecipe de’ miei consigli, il partecipe degli onori, e di udirmiti chiamar padre, e benefattore  e salvatore ; e con ogni bel nome, quanti ne sono destinati dagli uomini per le assioni le pià preziose ; nè io già da quarantaquattr anni sarei privo del regno, io non informe di corpo, io non disadatto di mente. E ciò stando y osi pur dimandarmi quale aggravio io ne senta, sicché io labbia per inimico, e te ne accusi? Anzi dX, Tullio, dì per qual causa non mi stimi tu degno degli onori delt avo ; dì, qual ne trovi, qual ten ^ngi buon titolo di tal mia privazione ? Non pensi forse che io sia germe puro di quella stirpe, ma intrusovi e spurio ? Come dunque tu curavi un estraneo da quella famiglia ? o come, quando ei crebbe, gliene rendevi la casa ? O pensi che io non lontano molto dai cinquant’ anni > io pur siegua ad essere un orfano ? un incapace ed moneti del pubblico ? Lascia dunque gli schemi di domande invereconde; cessa una volta di esser malvagio. Che se hai giuste cose a rispondere io, son pronto di rimetterle a questi giudici, de’ quali tu non potresti ih città rinvenirne altri migliori. Ma se di qua levandoti ricorri tu, come sempre solevi, a quella tua ligia moltitudine ; già non sarà che io mel soffra. Io qui sono appeaecchiato disputare sul giusto ; ma lo sono ugualmente per eseguirmelo, se non miascolti. Al tacere di lai ripigliando Tullio il discorso, così disse : Quanto è vero o senatori che dee t uomo aspettarsi ogtd caso pià impensato nè crederne assurdo rduno, se fn questo Tarquinia sta per levarmi dal pritKÌpato : questo Tqrquinio, else io prendea, che io salvava fanciulletto da’ nemici che lo insidiavano, che io educava e crésceva, e cresciuto, ' compiaceami di avermelo a genero, ed erede infine di tutto se io patissi umana vicenda. Ma poiché tutto mi riesce in contrario, e che ne sono ami accusato come ingiusto ; serberommi a piangere la mia sorte, rispondendo ora su miei diritti a fronte di lui. O Tarquinio, io presi la cura di voi lasciati fanciullini : nè già di voler mio, ma costrettovi dalle brighe, la presi. Imperocché si dicea che quelli ette aveano manifestamente ucciso I avolo vostro onde riprendersi il tròno, avrebbero occultamente insidiato • anche tutto il parentado : e quanti a voi per sangue si riferiscono, tutti confessano, che se quelli restavan gli arbitri del comando, non avrebbero pur seme lasciato della stirpe de’ Tarquinj. Non ci avea curar tore, non tutore ninno di voi se non una donna, la madre del vostro padre,. bisognosa ancor essa di alr tri curatori per la cadente età siui. Rimanevate vm solo a me corifidati, custode unico dell orbitade vostra, a me che ora chiami un estraneo, un che niente a voi si appartiene. Jn tali turbolenze ponendomi al comando io punii gli uccisori' deU’ avolo vostro', e ’ voi crebbi allo stato di uomini, nè avendomi prole virile, io vi eleggea ^perchè à me succedeste. E questo o Tarquinio il discarico della mia ‘cura; nè già potresti in parte alcuna imputarmene di menzogna,. Ma quanto al regno, poiché di questo mi accusi, odi come io me ìo abbia^ e le Cause per le quali non a voi lo ceda, nè ad altri. Quando io presi 11 governo, avvedutomi che mi si tramavano delle insidie, volea nelle mani riporlo del popolo. E chiamando tutti a concioAe, io già faceami a cedere il comando per cambiare con una vita di calma e senza pericoli^ la vita del comcmdare, la quale è piena di invidia, e sparsa pià di amarezze che di piaceri. Non comportarono i Romani che io tanto eseguissi, nè vollero alcun altro sul Comune, e me ritennero, ed a me diedero col consenso de’ voti, il régno, quel possesso loro, o Tarquinia, e non vostro. Così pure l'Oveano già dato all’ avolo vostro tuttoché forestiero, e niente congiunto col re precedente ; sebbene Anco Marzio lasciava de’ figli maschi e floridi per anni ^ e non de’ nipoti, e piccioli, come Tarquinio voi lasciò. Se legge è comune di tutti, che chi eredita le sostanze e i danari dei rei che cessano, debba insieme r,iceverne il regno, dunque non fu Tarquinio l’ avolo vostro che al morire di Anco ottenne là cotona, ma il figlio primogenito di questo. Ma il popolo di Roma chiama al comando t uomo degno di averlo, e non il successore del p’adre. Imperciocché giudica che le sostanze sieno di chi le possiede, ma che il regno sia di quelli che il diedero ; giudica convenirsi che ottengano quelle gli eredi per sangue o per testamento se i padroni sén muojono, e che tomi l’ altro a chi ’l diede se vien meno chi preselo a reggere •; se non forse hai tu da contrappormi che I avolo tuo ricevette il regno con tal condizione che non potesse pià tortegli, e che lo tramandasse a voi suoi discendenti; sicché non fosse pià t arbitro esso popolo, di conferirlo a m, levandolo a voi. Ma se hai tu punto di simile, che noi produci? Ma non gli hai tu questi patti. Che se io non ebbi il regno per buona via come dici, noneletto dagf interré, noti portato dai senatori agli cffari, né compiendo il resto a norma dette leggi; questi dunque, .questi ho 10 vilipesi e non te : e questi e non tu, saria giusto che V autorità men finissero. Ma nè io violai questi, né cdtro chiunque. Jl tempo tn é buon testimonio’, che 11 potere mi fu dato legittimamente, e che legittima^ mente mel tengo. Imperocché già ne volge I armo quarantesimo e niun Romano pensò mai che io commettessi, avendolo, una ingiustizia ; e non il popolo, non il Senato mai si mosse a spogliarmene. Ma lascisi pur tutto ità : diasi pur luogo alle tue ragioni. Se io te privava di un deposito delt avo, se io mi ascrissi il tuo regno contro. tutti i diritti degli uomini, convenivasi che tu a quelli ne andassi che mel diedero : che con quelli ti ramaricassi e garrissi che io mi tenga te cose non 'mie ; è che essi mi si obbligarono col dispensarmi t. altrui: e se tu il vero dicevi; di teneri gli [avresti persiutsi. Che se tu non certificavi ciò cotuoi parlari ; e tuttavia pensavi, indebita cosa che io regnassi, e che tu sei pià acconcio al maneggio del pubblico ; potevi almeno, fatta ricerca diligente de miei errori, e numerate le belle tue gesta, riclamartene giuridicamente la precedenza. Ma tu non hai fatta, nè luna nè F altra cosa; e dopo tanto tempo, finalmente, quasi riavendati da lunga ebbrietà, vieni per accusarmene  e nemmen ora dove si dee. Canciossiachè, già non conviene che queste cose qui dichi ( e voi non ve ne sdegnate o Padri., mentre io cosi parlo non perchè vi si tolga questa causa, ma per dichiararvi li costui vanilotfuj ), ma conveniva che preaccennandomi tu. che aduneresti il popolo a conciane là mi accusassi. Ora ciocché hai tu schivato, lo supplirò io questo per te :• convocherò il popolo, lo Jarò giudice delle Mense che òuoi : lascerò che decida di nuovo, qual sia pià idoneo di nói per comandare ; e quello che là destinasi, quello adempirò. Ma basti il fin qui detto a risponderti : perciocché toma allo stesso dir poche o molte ra^ni eon emoli che non le apprezzano, men-, tre questi per indole nemmen soffrono ciocché li per-, suada ad essere umani. Ben io mi meravigliava o senatóri che sdeuni di voi (se ve ne sono ) volendo depor me, cospirassero con costui. F^olentieri udirei da loro per qual mia ingiustizia mi fan guerra, o da quale mio trattò inaspriti. Sanno essi forse che assai nel mio principato, perirono senza essere uditi, assai furono spogliati, di patria, assai delle sostanze, o con altro sciagure affitti ? o non avendo a ridire su me niun tirànnico modo di questi, sono essi forse conseqtevoli delle, mogli lóro da ma disonorate ; delle prof ansate loro verini figlie, o di tal altra mia incontinenza su ingenue persone ? Egli è giusto se in me sorto tali eplpe, che io sia, nonuì del regno privato, che della vita. O può .dire alcuno che un superbo io sono, un esoso per la mia durezza, un-iiHollerabile per la mia caparbietà nel governare ? Qual mai dei re predecessori fu così moderato, così umano nel suo potere, o qual fu con tutti come me, quasi un tenero patire co’ figli? Io quel potere che voi mi deste, voi custodi di ciò che avete dagli avi ricevuto io non lo volli questo nemmen per intero : ma creai leggi, ( e voi le approvaste queste leggi) su cose principalissime,• e le intimai perchè tutti esigeste e rendeste cots-esse i diritti, ed io stesso il primo mi vi sottoposi, docile come un privato agli ordini, che io dava per nitri. Che più : non io mi tenni giudice di tutte le ingiusti-‘ zie ; ma commisi che voi stessi giudicaste delle pri-, vate} ciocché ninno uvea fatto dei re precedenti. ^Laon de, non vedesi in me colpa sicché altri me ne contrarino. O turbano voi forse i benefizf miei verso del popolo ? Ma non sarebbe così pensare un offendeivi ! se già tante volte con voi me ne giustificai. Se nonché niente bisognano discorsi tali : se a voi pare chequesto Tarquinio, preso il govermo, sia per ammiinistrarvelo anche meglio : io non invidio a. Roma .il suo miglior principe. Restituendo il comandò al po-^ polo che mel diede, e tornandomi tra privati, farò che vedasi chiaramente che io sapea tanto, ben' io minare, ' quanto io posso dignitosamente servire^. 55 ascese in tribuna, e tennevi un patetico e Inngo ragionamento óve numerò le gesta militari eh’ egli iece mentre viveva Tarquinio e dopo, e .ricordò mano a mano le istitnaioni donde sembrava il Cornane prosperato di, molte ; e grandi utilità. E venendogli dal dir di ogni fatto -amplissime lodi, e desiderando ornai tutti sapere perchè li ridicesse, palesò finalmente come Tarquinio accusa• vaio di' egli tenesse a torto un regno che a lui si doveva : e come apaigeva che l’avolo gli avea nel morire lasciato con le ricchezze anche, il regno, e che non po-, teva il popolo concedere ciocché suo non era. E qui -^Vegliatosi in tutti clamore, ed. indignazione, egli intimando silenzio, piega vali, che non impazientissero nè tumultuassero a quel dire : ma chiamassero Tarquimo, e se. forse aveva giuste cose da esporre le conoscessero: e se lo trovassero offeso, e se. piò idoneo a reggere, gli affidassero pure il comando di Roma : egli se ne allontanerebbe, e renderebbelo ad essi da’ quali lo .ebbe. Cosi lui dicendo e movendosi già per,i iscendere dalla ' tribiina,, proruppe da tutti un grido, un gemito, un pregar vivo ebe non cederne ad alui.il comando. E ci avea por chi esclamava elve si avesse a tempestare Tarqninio : e colui, vista in fremito la moltitudine, temendo che non gli desser di mano ; foggiasene cogli amici in casa. Allora tripudiando tutto il popolo ricondusse tra gli applausi e le acclamazioai Tullio alla reggia. Tarquinio, veuutogK meno, quel tentativo, fremè dal rancore, che il Senato non gli dess^ alcnn aiuto, quàndo egli fidava su questo principalmente; e teuniesi per alcun tempo in casa non conversandolo che gli amici. Quando la donna sua gli si fece a dire elle più non dovea star mollemente a bada, ma ebe dovea^ lasciate le parole, Tenire ai fatti, e primieramente cercar pace per mezzo degli amici da Tnib'o, perché colui credendoselo riconciliato, meno il guardasse. E parendogli eh’ ella ben consigliasse, finse di esser pentito, e più volle per .mezzo degli amici Orò caldamente Tullio affinchè lo perdonasse ; né difficilmente ve lo indusse, essendo placabilissimo per indole, ed alieno da nna guerra inestinguibile colla figlia e col genero. Ma venutogli poscia il buon ponto, essendo il popolo sparso ne’ campi per la raccolta, egli usci cìnto di amici co’pngnali sotto ' d^li abiti: dati i fasci ad alcuni de’ servi, e presa per se regia veste ed altri simboli del comando, si recò net F oro ; e standosi dinanzi la Curia, intimò che il banditore convocasse il Senato. E siccome ci aveanO già pel Foro appostatàmente molti de’Patrizj consapevoli ed istigatori del delitto ; allora si concentrarono. Intanto corso alcuno in casa di Tullio lo informa come Tarquinio' ersi uscito con regie vesti, e chiamava i Padri a consiglio. Stupitosi Tullio dell’ ardimento andò tra piccfolo seguito con più velocità che saviezza: e giunto nella Curia) e vedutolo in sul trono, e con gli altri distintivi reali, chi, disse, chi, scelleratissimo uomo, ti concedè questi onori? e colui, /ìi, replicò, l’ardire tuo; fu la tua inverecondia o J\dlio ; perocché non essendo tu libero, ma servo nato da serva  e posseduto qual prigioniero dalT avolo mio, ti arrogasti il comando di Roma. Tullio, ciò udendo, inaspritone, à biqciò fnor di proposito su lui, come per isbalzaflo dal trono. Vide. 5'J TaitjaÌDio ciò con diletto ^ e sorgendo dalla regia sede afferra e trasportasi Ini vecchio, che grida, ed invoca i suoi. Giunto fuori della Curia egli florido e forte, le vaio in alto > e trabalzalo giù per le scale che mettono al luogo de contizj. Alzatosi appena dalla caduta il vecchio, cóme vide intorno, pieno tutto de partigiaui di Tarquioio, e deserto e vuoto de cari suoi, partesene malconcio e mesto con pochi che lo sostengono, e ricoóducoDO, mentre riga intanto la via di sangue.Narransi dopo ciò le opere dell’ empia e barbara figlia, tremende ad udirsi, come portentose nè credibili a farsi. Costei sentendo che il padre era ito in Senato vogliosissima di conoscerne la fine, venne in sul cocchio nel Foro : e conosciutavela, e veduto Tarquinio in su le scale della Curia, essa la prima a gran voce lo salutò monarcA, supplicando gF Iddii, che il regno di hii riuscisse propizio a Roma. E salutandolo monarca altri ancora de’ cooperatori suoi, • lo trasse in disparte e di^se: Le prime cose o Tarquinia te hai Ut faUe come àoveansL Ma finché vive TuUio non potrpi renderli stabile il regno. Egli se abbia picciolo tempo di questo giorno ; ecciterattene incontro il popolo ; e tu sai’ quanto il popolo tutto è per lui. Su dunque' prima ih ei torni in casa, manda chi lo uo cida ; te ne libera. Ciò detto, e sedutasi di nuovo in sul cocchio,. parti. Tarquinio convinto che la iniquissima donna ben consigliava, spediscegli contro alquanti de’ suoi  co brandi : e quelli trascorrendo rapidissimaménte la via raggiunsero Tullio pressò la casa, e lo uccisero. Abbandonato palpitavane ancora il cadavere per la strage recente ; quando la figlia sopraggiunge : ma stretta essendo la via donde avessi à passare le mule a tal vista si spaventarono : e 1’ auriga stesso .che le guidava mosso da compassione si fermò e si volse a colei. La quale dimandandogli perchè mai non procedesse : Non vedi, disse, o Tullia, che qui giace U morto tuo padre, nè vi è transito fuorché, sul cada- vere suo ? E sdegnatasene quella, e levatosi lo scAbello da’ piedi e lanciatoglielo disse : ’E non le guidi o stolto in sul morto ? E colni gemendo anzi per la compassione elle per la percossa spinse forzosamente le mole so del cadavere: E la via chiamata Olbia  per addietro, fu dopo il tragico e barfiAro caso, detta nélF idioma de Romani scellerata.  Tale è il termine di Tullio dopo quarantaquattro anni di regno. Dicono che qnest’nomo il primo alterasse ì patrii costnmi e le leggi .ricevendo il principato non' dal Senato insieme, e dal popolo come tatti i re precedenti ma dal popolo. sedo, guadagnane dosene la classe > indige nte con' distribnzione e'donii, ^ altri sedncimentL E cosi sta la'veritè; perciocché' nei •> (l) OAjStar >0 greco saU fiUce, firtunaUn sareiiba il teina che la vìa ftlice fortunata fu delta scelterata pel delitto. Alcuni leggono va-fis io luogo di tXfittf, certamente, secondo che scrive Varrime nel lib. ^, de lingua laiina, i Sabini quando tinnirono ai Romani, chiamarono Cipria la contrada di Roma nella quale si alloggiarono come per buono angario, perché Cjrprwn tra’ SaiNui tigniScava il bene. E secondo ciò la contrada, detta Cipria o. buona dni Sabiui pel buon augurio, sarebbe appunto quella ghe fu. poi della scrllerata per la empietà commessavi. Ma Varrone .scrive che questa contrade cran prossime, e non già le. medesime.. prifni tempi quando un re moriva, il popolo dava al corpo del Senato la podestà di stabilire la forma che pià volessero di governo, ed il Senato nominava gl’interré, e gl’ interré sceglievano per sovrano 1’ uom più pregevole sia de’ cittadini, sia de’ nazionali, sia de’ forestieri : e se il Senato ’ne approvava la scelta, se il popolo co^ voti suoi r aotorizzava, se gli anspizj la confermavano, còlui prendeva il comando. Che se mancava alcuna di queste condizioni, ne; nominavano nn 'secondo ; e poi un terzo, se avveniva che il secondo non avesse propiziò quanto era d’ uopo dal cielo e dagli' notami. Ma Tullio, come innanzi fu detto, assumendo in principiò il carattere di regio tutore, e poi guadagnandosi il popolo con gli amorevoli modi', fu -re nominata solamente da quello Poi • diportandosi come uomo temperato e clemente fe' colle opere successive tacere le accuse, che non avesse adempita ogni cosa a norma delle Ipggi ; lasciando a > molti il 'sospetto, che se non era presto > levata; avrebbe' ridottolo Statoa forma di una repubblica. E (|nesta é la cagion principale. per ui dicesi che alenai de’ palrizj lo insidiassero^ Pionr potendo con altro modo hnirne il comando, inisero -TarqUinie alla impresa e gli cooperarono il regno^ per voglia di deprimere -il •'popolo fornài troppo potente pel ' governo  tura un giorno ; nella prossima notte spirò. S’ ignorava però da molti la maniera del termine suo. Diceano alcuni eh' ella stessa aveasi data da sé la morte, anteponendola al vivere. Altri però diceano che era stata uccisa dalla figlia e dal genero come troppo addolorata e benevola inverso lo sposo. Per queste cagioni il corpo di Tullio fii privo di regj funerali, e di magnifico monumento : conseguì però coUe opere sue memoria perenne in tutti, i tempi. Anzi quanto iegU | fosse caro agl’ Iddìi lo., fece eziandio palése nu segno celeste : dond’ è che alcuni tennero ancora per vera la opinione incredibile e fiivolosa intorno la nascita sua come dianzi fa detto. Appiccatosi il fuoco id tempio delia fortuna, che egli area già fabbricato, mentre tutto era preda delle fiamme ne rimase intatta solamente la statua di lui in legno dorato.. Il tempio e quanto .è' nel tempio rifabbricati dopo l’ incendip sul modo antico presentano le traccie di un’ arte recente: ma la statua, antica com era nelle fattezz^. vi riscuote ancora il qulto dai Romani. E ciò è quanto abbiamo ricevuto sopra Tullio. Dopo di lui prese la siguoria di Roma Laicìo Tar^illnio non gi^ fecondo le log^ ma colle armi nelr anno quarto dell olimpiade sessantesima prima nella quale vinse nello stadio Agatarco, essendo arconte di Atene Tericleo. Cosmi spigando la popolar moltitudine, spregiando i patria] da’ quali era stato condotto al trono, e confondendo e sconciando ogni costumee legge e disciplina colla quale i re precedenti ave'ano dato forma a Roma; rivolse il governo in nna manifesta tirannide. E primieramente mise intorno a sé guardie di bravi, naaionali ed esteri, con spade e lan ce, i quali vegliando di notte negli atrj della reggia, é scortandolo di giorno, ovnnqne ne andasse, lo scber missero appieno dalle insidie.' Inoltre non usciva nè di continuo, né con periodo certo, ma di raro, e quando non aspettavasi. Deliberava su le cose comuni molto in sua casa, e poco nel F oro, in mezzo a’ parenti più stretti cbe lo guardavano. Non concedette che alcuno di quei che il volevano si presentasse a Ini se noi chiamava : e presentatoglisi, non era giè con esso, compiacevole e mite, ma grave ed aspro ' come un tiranno, e terrìbile ansi che gioviale a vedere. Definiva le controversie su’ contratti in conformità de’ costumi suoi, non delle leggi e del dritto. Per le quali cagioni i Romani lo denominaron superbo, ciocché nell’idioma nostro vuoi dire soperchiatore contrassegnando l’ avo col soprannome di Prisco, o come noi diremo antico per nascita, giacché quello aveva i nomi appunto del giovine.  NelP annp e di Roma secondo Catone, a seconde Vatreus, e &3a avanti Cristo. Qaaado poi concepì di aver già consolidato il suo regno, concertandosene co’ più ribaldi de’ suoi ami> d, avviluppò tra accuse capitali i piò cospicui de’ cittadini ; e primieramente i contrari suoi, quei che già non^voleano che Tullio si levasse dal trono, e quindi altri li quali immaginavaseli malcontenti del cambiamento, o li quali abbondassero di riccbezae. Coloro che in giudizio li riducevano, gli accusavano l’un dopo l’altro con delitti falsi, e con quello specialmente che tendevano insidie al re che ne era il giudice. Ed egli quali ne condannava alla morte, e quali all’ esilio: e confiscati i beni degU uccisi o banditi, dispensavane alcun poco tra gli accusatori, serbandone la piò gran parte per sè. Pertanto molli de’primar} vedendo le ca> gioni per le quali erano insidiati, lasciarono, prima di essere complicati in delitti, Roma tutta al Uranno. Vi furono pure alcuni sorpresi ed oppressi di furto da lui nelle case o ne’ campi : uomini ben degni di riguardo, ma non piò sen trovarono nemmeno i cadaveri. DiBtrutla così la maggior parte del Senato con suagi e con esilii perpetui la supplì con chiamare agli onori di quei che mancavano i propri amici: nè però concedette loro di fare o dire se non quanto egli avesse prescritto. Tanto che li senatori già scelti da Tullio, e superstiti ancora nel Senato, e contrarj fin’allora al popolo sul concetto che la mutazione tornerebbe in lor bene per le promesse avutene da Tarquinio ingannevoli e tradiuici, vedendo infine che non aveano piò parte nelle pubbliche cose, anzi che aveano' come il popcdo per dula la libertà ne sospiravano : ma temendo un avvenire ancor più tetribile, nè potendo impedire pianto faceagi, chctaronsi necessariamente a’ mali presenti. Or vedendo il popolo dò, pensava che stesse lor bene, e godea sul Hintraccambio, quasi là tt> rannida foste per essere 'grave a quelli soltanto e non pericolosa per lui ; quando non molto dopo ne vennero i mali ancora più su di esso : imperocché Tarquinio annullò tutte le leggi di Tallio per le quali il popolo rendeva ed esigeva il giusto con diritti eguali senza es> seme come prima sovverchiato da’ patria) ne’ contratti : né lasciò pur le tavole dove erano scritte, ma fattele levare dal Foro le distrusse. Poi tolse i daz), propoiv zionevoli ai registri delle sostanze, tassandoli novamente sul modo antico. E se mai bisognavano a lui denari, Contribuivane il più ' povero quanto il più ricco. Or tale regolamento esaurì subito colla prima imposizione gran parte dei popolo; essendo astretti a pagare dieci dramme a testa. Intimò 'che non più si facessero quei concor, quanti sen facevano per villaggi, per curie', o per vicinati, a Roma, o nella campagna in occasione di feste o sagri6zj comuni, perchè riuneudovisi molti non vi macchinassero occultamente fra loro di abbattere il principato. Ci aveano qua e là disseminati, ignoti osservatori e spie dei detti e de’ fatti, e questi intra punto contro il governo scandagliavano gli animi: e se scoprivano alcuno esasperato da’ mali introdotti lo in(xilpavano presso del tiranno: ed aspre irreparabili ne erano le pene, se restava convinto. Né gli bastò di abusate m tal modo' del popolo : ma raccogliendo dal meazo di esso quanti ci area 6di e proprj per la gnerra, astrinse gli altri a lavorare in città, riputando che i re moltinimo pericolano, ae i più scellerati e poveri stieno oziosi. E desiderando vivamente che si ultimassero nel suo regno le opere lasciate imperfètte dall’ avo suo, che si continuassero; fino al fiume le cloache cominciate da quello e si circondasse di portici coperti il Circo Massimo il quale -non aveane che le gradinate; si applicarono a questo lavoro; e ne i ottennero parco frumento i poveri, altri tagliandone i materiali, altri guidando i carri che li trasportavano, ed altri portando su le spalle i pesi. Chi scavava sotterranei canali e largure : chi facea volte in essi ; e chi sn. Tarquinio perché aveasi scelto Mamilio per genero e non lui, fece uda lunga accusa di Tarquinio nmnerandone le op^re di orgoglio e di soperchieria, come il nou essere venuto in consiglio, dove eran già tutti, e dove gli aveva esso • stesso invitati. Difendealo Maroilio, imputando l’ indugio a cause urgenti^ime, e chiedea che diiferissero ; e differirono il consiglio al prossimo giorno, indotti dai suo parlare i Latini. (t) Livio nel lib. i dice che era della Aiceia : Tur /mi Herdoiui ai Arida. Forte la gran vicinanta di Coriolo e dell'.tfr(cM Ccce prender l’nna per l’altro. Coriolo era fra i terrìtorj Amiate, Ardcatinp, ed Aricino, tal monte Giov. toJOttlQGiunto nel giorno appresso Tarquinio, e congregato il consiglio, e toccato di volo l’ ittjiagio suo ^ fecesi a discorrere della preminenea che a lui cecnpe- teva come posseduta già dall’avo per la forza delle armi; e presentò gli accordi delle città fatti ctm quello. Lungo fu il suo ragionamento intorno dei diritti -e def patti; e grandi le premesse di beneficare le città se amiche gli si tenessero, e provocavale infine a far guerra con esso ai Sabini. Come dié fine al dir suo. Turno recatosi innanzi accusava la tardanza di lui, nè permetteva che li compagni gli cedessero il principato, perchè nè dovuto a lui per giustizia, nè possibile a darsegli con utile dei Latini. E molto ragionò su l’nna e su l’altra cosa dicendo che i patti che avean segnati ccfll’avo suo quando gli accordarono la sovranità finirono colla sua morte, per non essere scritto in quelli che il dono esienderebbesi anche ai posteri suoi. E qui dimostrava eh' egli chè pretendeva succedere ai diritti dell’avo, era il più ingiusto, e malvagio ' de’ mortali : e ne allegava le opere da lui latte per aversi il comando di Roma. Adunque scorrende^ i tremendi e molti suoi delitti, conchiuse infine che egli non tenea legittimamente nemmeno Roma, non avendola come i re precedenti ricevuta da’sudditi spontanei.; Egli t lui presa, disse, colla violenza e ' colle armi: et fondatavi la tirannide, uccide, esilia, confisca, e tòglievi fin la libertà di parlare, non che quella del vi~ vere. Ben sarebbe grande la stoltezza, grande la ingiuria inverso gli Iddj ripwmetlersi mai tratti umani e benevoli da un empio e da uno scellerato, e credere che chi non ha perdonato nemmeno agi intimi ruoi j nemmeno al suo sangue, risparmi poi gli altri. Esorlavali dunqne giacché noa eransi ancora sottoposti al giogo, a combatto^ per non sottoporvisi. Da ciò che pativano gli altri di terribile argomentassero ciocché sa rdibero essi per sopportare. Vaiatosi Turno di questo discorso, ed assai commossine i più; Tarqainio dimandò per difendersene il giorno seguente, e lo ebbe. E sciolto appena il consiglio ; convocati i suoi più intimi, esaminò con essi ciocch’ era utile a farsi. £ quali suggerivano le ruposte di apologia, quali ragionavano fra loro de’ mezzi onde era da blandirsi la moltitudine. Soggiunse Tarquinio che niente di ciò bisognava, e disse il parer suo di le vare l’accusatore, anziché di purgarsi dalle accuse. E lo datone da tutti e concertatosi con essi; pigliò tali vie per l’intento, quali non sarebbero cadute in mente di uomo che macchina o si difende. Imperciocché cercati U servi più rei che menavano i giumenti o curavano le robbe di Turno, e corrottili con argento, gl’ indusse a prendere da sé stesso nella notte assai spade e portarle nell’ ospizio del padrone e nasconderle, e lasciargliele tra le bagaglio. Poi nel giorno appresso, riunitosi il consiglio, e venutovi : Breve è, disse, topologia su le mie colpe, e giudice ne stabilisco t accusatore mede^ simo. Questo Turno, o compagni, giudice stabilito delle reitadi che ora mi ascrive, questo da tutte assolveami già, quando chiese in isposa la mia figlia. Ma poiché ne fu rigettato, com' era ben giusto ( imperocché qual savio mai rispinto avrebbe Mamilio, un si nobile, un sì potente Latino, e prescelto avrebbe per genero costui, che mal può delincar la sua stirpe, fino al trisavolo ? ) poiché ne fu rigettato, indispettitone mi assalisce colle accuse. Doveva, se per tale mi conoscea qual mi accusa, non desiderarmi per suocero : o se mi tenea per onesto quando mi chiese ‘la figlia, non doveami ora come un ribaldo accusare. E ciò basti su mei perciocché non si debbe ora più discutere se buono o malvagio io mi sia, quando voi, o compagni, voi correte il più grave de’pericoli. E. su me potete aruor dopo chiarirvi : ben ora dee colla salvezza vostra la libertà provvedersi della patria. 1 primarj delle città, quei che ne maneggiano il pubblico, tutti sono insidiati da questo bel capo-popolo, il quale apparecchiasi, uccidendo i più cospicui, torsi il regno del Lazio. E questo, questo é il fine che qua lo menava. Né già io parlo immaginando, ma di pienissima scienza, datami nella notte andata da uno dei complici della congiura. E se voi vorrete meco alt ospizio di costui venire, io ven darò documento infallibile del dir mio, le armi che vi occxdla. Or lui cosi parlando sciamarono tutti, e chie> sero, temendo per sè, che certificasse il fatto,. non gK illudesse. E Torno, come lui che non avea preveduto le insidie, disse che volentieri ricevea la inquisizione, e chiamò li primarj per compierla, aggiungendo che seguirebbe l’una delle due, o che egli morirebbe se il trovassero con apparecchio di altre arme che pel viaggio, o che le pene sue subirebbe chi lo calunniava. Cosi piacque ; ed andarono e trovarono nelf albergo cU liti tra le bagaglie le spade na$costevi da’ servi. ÀUora Dòn lasciando nemmen che parlasse gillarono Turno in UDS voragine, e coprendolo, vivo ancora, di terra lo aterminaron sul fatto. Ed encomiando nell’adunanza Tar> quinio come benefattore comune delle città, perchè ne àvea salvalo gli ottimati, lo crearono capo della nazione co’ diritti appunto co’ quali ne aveano già creato Tarqui nio r avolo suo, e poi Tullio. Scrissero in su colonne que’ patti, e datosene il giuramento per la osservanza, si congedarono. Tarquinio divenuto capo de’ Latini spedì messaggeri alle città degli Eroici e de’ Yolsci invitandoli a far seco amicizia ed alleanza. Ma de’ Volaci due sole cittadi Echetra, ed Anzio secondarono l’ invito ; laddove gli Eroici si decisero tutti per 1’ alleanza. Ora curando Tarquinio che gli accordi colle città si conservassero in ogni volger di tempo ; deliberò fissare un tempio comune ai Romani, ai Latini, agli Eroici ed ai Volaci confederatisi, perchè riunendosi ogni anno al luogo destinato vi mercantassero, e banchettassero, partecipando de’sagrifizj medesimi. Ed ascolundone tutti con piacere la idea, scelse quanto era possibile in mezzo de’ popoli per luogo della riunione il monte sublime, il quale sovrasta alla città di Alba : e dichiarò per legge che in questo fbsser le fiere, in questo fosse triegua di tutti in verso di tutti, e conviti si facessero e sacrifizi comuni a Giove detto Laziale, prescrivendo quanta parte dovesse ogni città contribuire per essi, e quanta riceverne. QuaranUsette furono le città compartecipi delle feste e de’ sacrifizj ; e tali sagrifizj e tali feste le conti nuano ancoc di presente i Romani che Laiine le chiamaoo. I^e città compagne nel sagrificare portano agnelli^' o cacio, o latte, o tal’ altra oblazione in fratti e farine. Immolandosi però da tutte un sol toro, ciascuna prendeane per sè la parte stabilitale. Il sagnfizio è per tutti, ma presiedono al rito santo i Romani. ^ L. Poi cb’ ebbe rassodato il regno con tali confederazioni ; risolvè di porure Tarmata contro i Sabini. E reclutando de’ Romani quei che men sospettava che farebbonsi liberi se otteuevau le armi, e conginngendo con essi truppe alleate, più numerose ancora delle sue, devastò le campagne Sabine : e vintivi quei che vennero con esso a battaglia ; menò l’esercito contro de’ Pomentini. Abitavano questi la città di Sessa e pareano i più felici de’ conBnanti, anzi per la felicità molesti e gravi a tutti. Avendo egli già reclamato ad essi per alquante rapine e prede, e richiestili che dessero de’ compensi, non aveano dato che orgogliose risposte: e quindi postisi in arme aspettavano pronti la guerra. Adunque venuto con essi in sul conBne alle mani, ed uccisine molti ; ne respinse e rinchiuse gli altri fra le mura : e poiché non più ne riuscivano, accampatosi dirimpetto, li circondò di fossa e vallo, investendo la città con assalti continui. Resisterono quei che v’erano dentro, durando assai tempo fra stenti luttuosi. Ma poi venendo ad essi meno ogni mezzo, infiacchendo ne’ corpi, e non ricevendo soccorsi, nè requie mai, anzi travagliando di e notte ; furono sopraffatti dalia forza. Impadronitosi della città trucidò quanti vi stavan colle amie: lasciò che i soldati rapissero donne, fanciulli, quanti sopportavano di cader prigionieri, e moltitudine non facile a calcolarsi di servi : e concedè' che invadessero e si portassero qnant’ altro veniva loro ' alle mani sia nella città, sia per la campagna : ma 1’ oro e l’argento, quanto se ne trovò, lo fe’ tutto rammassare in un luogo, e decimatolo per la fondazione del tempio, ne divise il resto fra le milizie. Tanta poi ne fu la somma che ogni soldato rioevè cinque mine di argento e la decima per gr iddj non fu minore di quattrocento talenti di ar' gento. LI. Ancora egli stavasi a Sessa quando gli giunse un messaggio, eh' era uscita la gioventù horentissiroa dei Sabini: che gettatasi in dne corpi nelle terre de’ Romani devastavano le campagne, l’ uno tenendosi presso di Ereto, e 1’ altro presso di Fidene : e che se una forza non le si opponesse, ben tosto tutto soccomberebbe. G>m’ ebbe ciò udito lasciò picciola parte dell’esercito in Sessa con ordine che vi guardasse le prede e bagaglie : e prendendo con sé il resto della milizia, spedita e leggera, e marciando contro quei che erano accampati presso di Ereto, si trincerò su le alture a picciolo intervallo da essi. Decisero i due Sabini dar la battaglia in sul mattino; e spedirono perchè venisse l’esercito ancor di Fidene. Ma scuoprl Tarquinio il disegno per essere stato preso chi portava le lettere dagli uni agli altri. Per tal successo ei si valse di questo accorgimento. Divise r esercito in due parti, e ne mandò l’ una fra la notte di nascosto de’ nemici su la via che viene da Fidene, e schierando l’ altra in sul brillare del giorno, la menò dagli alloggiamenti alla battaglia. Coraggiosi gli uscirono incontro i Sabini non vedendo gran serie de' nemici, e credendo non altro mancare aliare mata di Fidene, se non di gingnere. Coti venutisi que-> sti a fronte combatterono, e la pugna pendè gran tempo dubbiosa, quando li soldati spediti nella notte da Tarquinio ripiegarono la marcia, e correvano a tergo dei Sabini. Sbalordirono questi al vederli, e ravvisarli dalle insegne e dalle armi, e gettando le proprie tentarono di salvarsi : ma il tentativo rìnsd difHcilissimo, essendo essi circondati da’ nemici e rinchiusi dalia cavalleria dei Romani postata d' ogn intorno. Pertanto pdchi ne scamparono e tra duri casi : i più ne perirono, o cederono. Quelli eh’ erano lasciad agli alloggiamenti non li sostennero ; e quel luogo di sicurezza fu invaso al primo assalto. Furono qui prese le robbe de’Sabini, e qui molti de prigionieri, e qui le robbe de’ Romani quante ne erano intatte, e tutto fìi salvato per chi le aveva perdute; LIL Riuscito il primo saggio a Tarquinio secondo il cuor suo, prese 1’ esercito, e ne andò contro i Sabini accampati giù in Fidene, a’ quali non era ancor nota la disfatta dei loro. Usciti questi dagli steccati erano per avventura tra via: ma non si tosto furono più da vicino e videro le teste de’loro capitani confitte alle aste ( che ve le aveano i Romani confitte ed ostentavanle per ispaventare i nemici); conoscendo com’era l’altro lor campo distrutto, più non tentarono nulla di generoso, ma rivoltisi alle suppliche ed alle umiliazioni si resero. Cosi devastati miseramente, e vituperosamente nell’ uno e nell’ altro esercito, e ridotti i Sabini a speranze tenuissime, anzi timorosi che fossero le loro città pigliate di assalto ; spedirono ambasciadori per la pace., profierendosi per sudditi e tributar). Pertauto lasciò la guerra, e ricevute appunto >a tali coudizioni le loro città, si ricondusse a Sessa ; e ritiratene le milizie lasciatevi, e le prede ed ogni bagaglio, tornossene a Roma coll’ esercito carico di ricchezze. Poscia fe’ molte incursioni su le terre de’ Yolsci, quando con tutte le forze, e quando con parte, ne ottenne gran prede. Ma riuscitegli per lo più le cose a voler suo ; gli si eccitò una guerra coi con&nanti ben lunga pel tempo, giacché durò sette anni continui, e ben grande pe’ casi inaspettati e terribili. Ora io dirò brevemente le cagioni per le quali nacque, e qual ne fu 1’ esito, essendo stata terminata per inganni e per stratagemmi non preveduti. LUI. Una città, Latina di gente, e colonia già degli Albani, lontana cento stadj da Roma ( Gabio ne era il nome) sorgeva in su la via che mena a Palestrina. Città popolosa allora e grande qnant’ altre, ora non tutta si abita, ma solo presso la strada per uso degli alloggi. E ben può raccoglierne la grandezza e la magnificenza, chi mira le rovine in più luoghi delle case ed il giro delle, mora, che in gran parte esistono ancora. Eransi qua concentrati alquanti involatisi da Sessa, quando fu presa da Tarquinio, e molti fhggiti da Roma. Or questi supplicavano e pressavano quei di Gabio a prendere vendetta di loro, promettendo gran doni se ai beni proprj tornassero ; e dimostrando possibile e facile la distruzione del tiranno. Adunque ve gl’indossero sul riflesso che in Roma a ciò coopererebbero, e che lì Volsci erano ad altrettanto animati; giacché mandate aveano delle ambascerie, bisognosi anch’essi di ajutO’ per imprendere la guerra contro di Tarquinio. Si fe^ cero dopo questo irruzioni con eserciti poderósi, fi scorrerie su 1’ altrui territorio e battaglie, com’ è Veri simile, ora di pochi con pochi, ora di tutti contro di tutti: e quando i Gal^, respinti fino alle porte i Romani, ed uccidendone diedero intrepidamente il guasto ai lor campi ; e quando i Romani incalzando i Gabj e rinchiudendoli nella loro città, • sen portavano schiavi, e preda copiosa.. •. •. LIV. Or ciò facendosi di continuo, fu l’una e l’altra parte costretta a cinger di mura, e presidiare i luoghi forti delle proprie terre in ricovero de’ contadini. Di là prorompevano su’ predatori, e scendendo folti, straziavano, se ne vedeano, i piccoli corpi staccati dal resto dell’ esercito, o li disordinati per poca apprensìon de’ nimici, come accade nei pascere. Similmente temendo r una parte gli assalti improvvisi dell’ altra fu costretta a munire dì fosse e di muri le città facili a scalarsi ed a prendersi. Adoperavasi in ciò principalmente Tarquinio : e rassicurò con molte fortificazioni il tratto intorno la porta la quale menava a Gabio, scavandovi fosse più larghe, elevandone più alte le mura, e coronandole di torri più spesse : imperocché la città sembrava in tal canto men solida, quando era nel resto dei suo circuito sicura abbastanza, nè facile da invaderla. Se non che si fece in ambedue le città penuria di ogni vettovaglia, e costernazione gravissima per l’avvenire, essendo le campagne diserte per le incursioni incessanti de’ nemici, né più somministrando de’ frutti come accade a’ popoli avvolti in guerre diuturne. 11 disagio però’ stringeva i Romani più che i Gabj ; tanto che U poveri infra quelli, angustiatine più che gli altri, giudicavano essere da venire a trattati, e far pace comunque coi Gabj, se la volessero. LV. Or dolendoti Tarquinio altamente de successi, e non sofierendo di' deporre obbrobriosamente le armi^ nè polendo altronde resistere più inmmzi ; volgevasi a tutte le prove, a tutti gl’ inganni. Quando il figlio più grande ( Sesto ne era il nome  ) scoperse al padre un suo disegno. Egli parea mettersi ad impresa audace quanto pericolosa ; pur non essendo impossibile, concedettegli il padre che operasse di voler suo. Sesto dunque ‘fintosi in discordia col padre per voglia di por fine alla guerra : ne fu battuto colle verghe nei F oro, e con altri modi oltraggiato ; tanto che se ne sparse intorno la fama. E su le prime inviò come profughi i suoi più fidi perchè dicessero occultamente ai Gabj che egli deliberava far guerra al padre, e che ne anderebbe tra loro se gli desser parola di proteggerlo come gli altri refugiaii Romani, senza renderlo ai padre per isperanza di finir col suo danno le proprie nimicizie. Udirono con diletto quei di Gabio il discorso, e concordandosi di non offenderlo, egli venne, e con lui molti compagni e clienti come fuggitivi; e per meglio  Tito Lirio dà questo nome e' questa impresa al figlio minore : ma il disparere col padre e l’ incarico assunto pare più yerisimile in chi area più diritto di succedere ad un regno. direnuLo assoluto, e tale era il figlio maggiore. Pertanto il racconto di Uiouigi sembra più naturale, qualunque fosse il nome del finto rilielle. Vedi S 65 di questo 'libro. accreditare la ribellione sua dal padre portò seco molto di argento e di oro. Dopo ciò sotto velo di fuggir lar tirannide molti a lui confluirono ; tanto che ornai glie n’ era intorno un corpo ben forte. Concepivano quei di Gabio che avrebbono grande incremento dal giugnere di tanti ad essi, e lusingavansi che tra non molto .avrebbono suddita Roma, illusi ancor più dalle opere di quel ribelle, il quale scorrendo di continuo la cam pagna, raccoglievane prede ubertose. Ed il padre appunto, risapendo prima in quai luoghi il figlio verrebbe, ubertose glie le apprestava, e senza guardia se noa di scelti cittadini che egli v’ inviava come a lui sospetti per farli distruggere. Su tali significazioni molti credendolo amico fido, e buon capitano, e molti arrendendosi all' oro suo ; lo inalzarono al comando supremo delle milizie. Sesto divenuto per frodi e per illusioni T arbitrò di un tanto potere spedi, senza che i Gabj se ne avvedessero, un tale de’ servi suoi per dichiarare al padre r autorità che avea preso, e per udirne ciocch’era da fare. Tarquinio volendo che il servo non intendesse ciocché ordinava al figlio di fare, venne ( e conducea seco il messo ) al giardino, congiunto al regio palagio. Aveaci là de’ papaveri nati spontaneamente, già pieni di frutto, e maturi per la raccolta. Or tra que’ papaveri aggirandosi e dando co’ bastoni in su le tòste de’ più alti, abbattevali. Congedò ciò fatto il messaggiCro niente rispondendogli, quantunque interrogato ne fosse più volte. Egli imitava per quanto a me sembra la prudenza di Trasibulo Milesio. Imperocché chiesto da Periandro, allora tiranno di Corinto, per via di un messaggiero, con quali modi possederebbe più saldamente il comando, non rispose pur sillaba, ma fatto cenno all’ inviato die lo seguitasse, il. condusse in un campo di biade, ed ivi percosse le spiche più eminenti, le atterrò ; signiBcaudo che. cosi dovea pur egli troncare, e dismettere i -primi delle città. Or facendo Tarquinio allora somigliantemente. Sesto ne intese le mire, e come ordinavagli di por giù li più insigni di Gabio. E convocò la moltitudine, e le tenne un lungo ragionamento su questo, ehe egli ricorso cogli amici alla, lor buona fede, rischiava ornai di esser preso da alcuni, e dato al padre: ma che era pronto a deporre il co^ mando, an^i che Lucerebbe la città prima di cadere in tanto infortunio ; e qui lagrimava e deplorava la sorte sua, come quelli che di cuore si dolgouo su’mali estremi., Lyil. Irritatane la moltitudine, e ricercando sollecita quali mai fossero per, tradirlo, esso nomina Antisiio Petrone, il personaggio più distinto di Gabio. Egli erane il più insigne divenuto pe molti belli suoi regolamenti in pace, e pe’ molti capitanati in campo esercitati. Reclamando intanto quest’ uomo, ed offerendosi come Hbero da’ rimorsi ad ogni esame, disse 1’ altro che volea che se ne investigasse la casa: e che vi manderebbe perciò degli amici: egli intanto aspettasse TtelP adunanza finché ritornassero. Imperocché già era Sesto riuscito a corrompere con argento alquanti servi di lui perché prendessero e ponessero in sua casa lettere contrassegnate co’ sigilli paterni, e macchinate in rovina di Pelrone. Or come gl’ inviali alla indagine (che non aveala Pelrone contradetla ma concednla) vi rinvennero le carie occulutevi, tornarono recando all’adunanza molte lettere indicatrici, e quella scritta ad Anlistio; e dicendo Sesto che vi riconosceva il sigillo del padre la sciolse; e la diede allo scriba perchè la recitasse. Scriveasi in questa che gli consegnasse il figlio, vivo principalmente ; o se ciò non poteasi, almeno glie ne mandasse la testa recisa. Diceva, che darebbe ad esso ed d complici, oltre le taglie promesse già prima, la cittadinanza di Roma : che gli ascriverebbe tutti frd patrizj ^ ed aggiungerebbe case e poderi e doni, grandi e copiosi. Arsero dallo sdegno i Gibinj ; dialordtva Antistio dalla sciagura impensata, mancando- gli fin la voce: ma quelli co’ sassi lo tempestano e lo uccidono ; lasciando a Sesto la cura di far la ricerca e la vendetta su gli altri, compartecipi in ciò di Petrone. E Sesto fidando le porte agli amici suoi perchè gl’ incolpali non s’ involassero mandò per le misepiù illastri, e vi uccise molli de’ valentuomini. Intanto che ciò faceasi ed era in Gahio tuivbolenza pe’ sì gran mali ; Tarquinio avvertitone per lettere vi marciò coll’ esercito, e giunto prima della mezza notte ed apertegli le porte da uomini posti ad arte per questo, ed entratele ; s’ impadronì senza stento della città. Come il male fu ravvisato, deploravano tutti sè stessi, e le stragi, e la schiavitù che patirebbono, e temeano insieme gli orrori, quanti ne vengono su por poli sorpresi da’ tiranni. Quando pur li trattasse mitissimameute ; immaginavansi la perdita della libertà, e de’ beni, e cose altrettali. Pure Tarquinio sebbene scellerato, sebbene implacabile in punir gl’ inimici non fe’ ntilla di ciò che aspettavano e temevano ; nè uccise, nè liandl, nè disonorò, nè multò persona ninna di Gabio. Ma convocando la moltitudine, e prendendo regie maniere in luogo delle tiranniche sue, disse che restituiva la propria città ; che concedeva ad essa i lor beni; e che donava inoltre a tutti cittadinanza quale appunto r avevano i Romani : non già che ciò facesse per benevolenza inverso de’ Gabj ; ma per consolidare a sè con essi .la signoria su’ Romani; pensando che diverrebbe presidio stabi^imo per sè e pe’ figli la fedeltà di un popolo che fuori di ogni speranza era salvo, e ricuperava tutti i suoi beni. E perchè non più temessero per 1’ avvenire nè dubitassero se stabili sareb.bero. tali parole ; scrisse le condizioni colle quali sarebbero amici,' e le giurò subito nell’ adunanza, e poi toccando gli altari e le vittime. Monumento di quest’alleanza esiste in Roma nel tempio di Giove Fidio, chiamato Sango da’.Ròmani, uno scudo circondato colla pelle del bue sagrlGcato allora appunto per compierne il giuramento, su la quale scritte ne sono con antichi caratteri le condizioni. Ciò fatto, e dichiarato Sesto re di Gabio, ritirò le milizie; e tal fine ebbe la guerra con quella città. Dopo ciò Tarquinio dando requie al popolo dalle cose militari e dalle battaglie; si mise alla erezione de’ templi, desideroso di compiere i voti dell’avo. Erasi questi nell’ ultima guerra co’ Sabini votato a Giove, a Giunone, a Minerva di fondare ad essi de’ tempii se vincesse. E già, come fu detto nel libro prece dente, avea con grandi ripari e con terra|)ieni accori data l’altura ove destinava di erigerli; ma non potè' poi compierne la impresa. Deliberatosi Tarcpilnio di ultimarla colle decime delle spoglie raccolte in Sessa posevi a lavorare tutti gli artefici. Or qui narrasi che. accadesse un meraviglioso portento sotterra, doè che scavandosi per le fondamenta, e che già molto essendo gli scavi profondati, si rinvenisse la testa di un uomo ucciso come di recente, con faccia simile a quella dei vivi, stillandone ancora dalla ferita un sangue tepido e fresco. In vista di tale prodigioi^arquinio comandò gli opera) che sospendessero lo scavo : e convocando gli indovini della patria dimandò che mai dir volesse quel segno. Ma non rispondendone, anzi dando' essi la scienza di tali cose ai Tirreni, ricercò da loro e seppe qual fosse fra’ Tirreni l’ interprete più famoso de’ por tenti ; ed a questo inviò messaggieri i più pregievoli cittadini. Giunti i valentuomini alia casa dell’ augure, si le loro incontra un giovinetto a cui dissero di essere ambasciatori di Roma, vogliosi di consultare il vate, e pregavano che a lui li presentasse. Il giovine allora : Colui, disse, che ricercate, è mio padre: egli è di presente occupato : ma presto a lui passerete. Ora intanto che lo aspettate, ditemi perchè mai ne venite. Così voi se mai per imperizia foste per ishagliar la dimanda; istruiti da me non errerete. E le giuste interrogazioni non sono già la minima cosa nell arte de’ vaticini. Or piacque a coloro di secondarlo, e sveUrono a lui quel portento. Ckime il giovine gli ebbe ndiù, sopraslando breve tempo, ascoltate, disse o Bontani. Il mio padre ve lo interpreterà tal prodigio, e senza menzogne ; che certo ad un vMe non si convengono. Ma perchè neppur voi erriate, nè mentiate su le cose che direte o risponderete ; apprendete da me questo > che assai rileva che vel sappiate. Quando esposta gli avrete la meraviglia ; ei soggiungendo di non intendere appieno ciò che vi dite, descriverà colla verga quanto un picciolo tratto di terra, e poi vi dirà : seco la svrs tarsìa qvzsta nè la partx CMS GUARDA l' ORISNTS, quSSTA CBS L OCCASO: QUSSTA È LA PARTS SOREALS, QUSSTA LA OPPOSTA. Ed indicandole intanto colla verga vi chiederà da qual canto fu tiltvenuta la testa. Or che vi esorto io che rispondiate ? appunto che non concediate che fosse trovata in alcuna delle parti eh' egli addita colla ver^ ga, e ve ri interroga, ma che in Eotna tra voi fu veduta su la rupe Tarpea. Se tali risposte serberete; se punto col dir suo non ve ne allontanate; allora egli ravvisando che il fato non può cangiarsi, vi svelerà, non vi occulterà quel prodigio che volete, che interpetri. LXL Ammaestrali in tal modo i legati, piando il vate ne ebbe comodità, venne un tale che a lui li condusse, e parlarono del portento. Ora lui sofisticando, e descrivendo in terra circonferenze e linee rette, e facendo in ogni quadrante interrogazioni sul trovamento, non si turbarono punto di mente i legali, ma tennero la ridata, come aveala suggerita il 6glio dell’ indoTino, nominando sempre Roma e la rupe Tarpea, e pregando l’interprete che non travolgesse il segno, ma ne dicesse a proposito, e schiettissimamente. Cosi non potendo il vate nè illudere gli oratori, nè imbrogliarè r augurio, soggiunse ; Andate, annunziate o Romàni a vostri concittadini, portare il destino che il luògo dove avete il teschio trovato sia capitale di tutta l’Italia. Dall’ ora in poi capitolino fu detto il luogo del travamento; capi chiamando i Romani le teste. Tai>i quinio udendo ciò da’ legati rimise gli opera] su'lavori; e molto fece del tempio, ma noi compiè, cadendo 'in breve dal regno. Roma alfine lo perfezionò nel terzo consolato. Fu basato il tempio su di una altura la quale aveva un circuito di otto plettri, ed ogni lato di esso apprassimavasi ai dugento piedi col picciolo divario nemmeno di quindici piedi interi tra la lunghezza e la latitudine. Perciocché il tempio riedificato dopo l’incendio a’ tempi de’ nostri padri su’ fondamenti medesimi differisce dall’ antico per la sola preziosità della materia. Dalla parte della facciata che guarda il mezzogiorno circondalo un ordine triplice. di colonne : ma doppio solamente è quell’ordine nei lati. Tre sono’ in uno i templi, e paralleli, e divisi da mura comuni. Sacro è quello di mezzo a Giove, e quindi è l’ altro. di Giunone, e quinci di Minerva : ed un solo tetto, di un comignolo solo li ricopra. Questo tempio terminara a Iriargolo : la cima del. triangolo in tutto il tetto ossia il colmo del letto è ciò che cbiamasi comìgnolo. Uno de’ nostri lempj a tre narate sotto un tetto comune può foeilitare t’ intelligenza di questo luogo. Dicesi che nel regno di Tarquinio occorresse ai Romani un’ altra propizia e meravigliosa avventura sia per dono di un nume sia di un genio, la quale salvò la città non per poco tempo ma finché visse, più volte, da gravi mali. Una donna, nè già nazionale, venne al tiranno, vogliosa di vendergli nove libri di oracoli Sibilini : ma ricusando Tarquinio comperarli al prezzo cei> catogli ; colei partita ne spiccò tre libri e li arse. Riporundo dopo alquanto i libri superstiti gli ofierl sul prezzo medesimo. Riputatane stolta, e derisane perchè di minori volumi n’esigea la somma appunto che non aveane potuto ricevere quando erano più; si ritirò nuovamente e bruciò metà dello scritto che rimaneva. Tornò quindi co’ tre libri ancor salvi, e chiese l’oro di prima. Attonito Tarquinio su i disegni della donna fece cercar gl’ indovini, e narrò 1’ evento, e dimandò ciò ch’era da fare. Or questi conoscendo da alquanti segni che ripudiavasi un bene mandato dal cielo, e dichiarando che grande era la sciagura che non avesse comperato tutti i volumi ; comandò che si numerasse alla donna il valor dimandato, e che gli astanti prendesser gli oracoli. La donna che avea dato que’ libri, inculcò che si custodissero con diligenza, e sparve dagli uomini. Tarquinio creando tra’ cittadini i duumviri o due riguardevoli per-i aonaggi, e subordinando ad essi due ministri pubblici ; diè loro la’cura de’ libri : ma poi cucitolo io una otre bovina gettò nel mare Marco Acilio 1’ uno de’ due rignardevoli perchè parea sfregiare la buona fede, ed era accusato di pai-ricidio da uno de’pubblici ministri. Dopo la cacciata dei re, fattasi la repubblica a sostenere gli Oracoli, nominò custodi loro, durante la vita, personaggi chiarissimi, liberi da ogni militare e civile incomben 2 a, consociando ad essi ancor altri pubblici uomini, senza i quali non poteano i primi consultare que’scritti. A dirla in breve, i Romani non guardano ninna cosa con tanto zelo non i poderi sacri, non i tempj, quanto le risposte divine delle Sibille. Yalgonsi di queste i Romani quando il Senato sta per votare in tempo di civil sedizione, o di grave infortunio in guerra, o di portenti e grandi visioni, malagevoli ad intendersi, come avvenne più volte. Fino alla guerra chiamata Marsica gli oracoli posti in un’ ama marmorea ne’ sotterranei del tempio di Giove Capitolino furono custoditi dai decemviri. Ma braciandosi poi questo dopo 1’ olimpiade centesima settantesima terza sia per insidie, come pensano alcuni, sia per caso ; arsero colle votive cose del nume, anche i libri. C gli oracoli che ora si hanno, furono.' portati in Roma da più luoghi, quali dalle città d’ Italia, quali da Eritra dell’Asia, speditivi per decreto del Senato Commissarj a trascriverli, e quali da altre città, trascrittivi da' privati. Ma sen trovano confusi co’ Sibillini anche aluri, come convincesi da que’ che acrostici si dimandano. Io qui dico ciocché Terrenzio Varrone ha scritto nelle sue teologiche trattazioui. Avea Tarquinio operate queste cose in guerra ed in pace ; avea fondate due colonie, l’uja Cioè Segni, per caso, perché svernando ivi i suoi soldati aveansi il campo come una città ridotto ; e la seconda Circea-per disegno, perché ponessi nella campagna Pomentina, la più grande intorno del Lazio, e contigua col mare, in bel sito, alto discretamente, che sporge quasi penisola nel mare Tirreno ; ed abitato già com’ è fama da Circe la figlia del Sole : avea dato qnesle due colonie a due figli suoi che ne erano i fondatori, Circea ad Anmte, e Segni a Tito. Ma quando in niun modo temea del suo principato ; allora per la ingiuria fatta ad una donna da Sesto il suo primogenito, fu cacciato dai principato e da Roma. Àveano gl’ Iddj dato il segno della calamità futura della sua famiglia con molti augurj de’ quali qu^ sto, fu l’ultimo. Venute nella primavera delle aquile in un luogo adjacente alla reggia fecero il nido su di un’alta palma : mentre però teneano i figli ancor senza penne, volandovi in folla degli avoltoi disfecero il nido: ed uc cisane la prole, e bezzicando e ferendo co’rostri e colle ali, respinsero dalla palma le aquile che tomavan dal pascolo. Vide Tarquinio l’augurio, e vegliava per istorname se poteva il destino: ma non potè superarne la forza ; e perdette il regno, congiurando su lui li pa trizj, e cooperandovi il popolo. Io tenterò dichiarar brevemente gli autori della congiura ; e come si fecero ad eseguirla. Guerreggiava Tarquinio colla città di Ardea sul pretesto che ricettava i fuggitivi da Roma, e macchinava di rimetterli in patria : ma in realtà perchè ne aspirava le ricchezze come di una delle città più felici d’ Italia. Ribbattendolo però gli Ardeatini generosamente, e prolungandosi l’assedio loro; stanchi quei del campo per la diuturnità della guerra e quei di Roma impotenti a più contribuirvi; si disposero a ribellarglisi, appena ve ne fosse un principio. Intanto Sesto il primogenito de’ figli di Tarquiaio spedito dal padre nella cittì chiamata Collazia per compiervi talune incombenze militari si alloggiò presso il congiunto suo Lucio Tarquinio detto Collatino. Fabio delinea quest’uomo come figlio di Egerio, del quale ho sopra dichiarato ch’era figlio dei fratello di Tarquinio l’antico, re de’Romani. Da lui messo al governo di Collazia ne fu chiamato Collatino, lasciandone la denominazione anche a’ posteri suoi. Io sono persuaso che questi era nipote ad Egerio se avea la eti conforme ai figli di Tarquinio, come Fabio ha scritto e molti con esso ; e la cronologia conferma tal mio concetto. In que’ giorni Collatino era nel campo. Adunque la moglie di esso, una Romana, figlia di Lu crezia riposava, e colla spada in mano vi penetrò, non sentito nemmeno da quelli che prossimi alla porta dormivano della camera. F attesi al letto, e svegliatasi la donna col giugnere delle insidie, e chiedendo chi fosse, colui svela il nome ; e comanda che taccia e resti nella camera, minacciando lei della vita, se tentava fuggire, o gridare. Cosi, sbalorditala, propose alla donna di scegliere .qual più le piacesse o lieta vita, o morte infame, ó'e t’ induci, disse, a compiacermi, io te farò mia spo~ sa y e tu regnenù meco, ora s.u la città che mio pardre mi assegna, e dopo la morie del padre sii Ro'mani, sii, Latini, sii Tirreni e su quanti egli domina. Io, tu lo sai, primogenito de' suoi figli, io sarò t erede del regno, come à ben giusto. E quali beni inondano i re, de' quali' tutti sarai tu meco posseditrice ; che giova che io qui ti additi, se tu ne sei peritissima? Che se tenti resistermi per salvare la tua pudicizia, ucciderò te prima, poi scannando un dei servi porrovene a lato i cadaveri, e dirò che sorpresa avendoti in obbrobrio col servo, io vi punii tutti due per vendicare la ingiuria del mio congiunto ; tanto che turpe, ignominiosa sarà la tua fine, nè la morta Uia spoglia saià di sepolcro onorata nè di altre funebri cerimonie. Ora siccome assai minacciava, insisteva, giu> rava a^ ogni suo detto ; Lucrezia sbigottita di una morte infame venne nella necessità di cedere agli arbiirj amorosi di lui. Fattosi giorno; costui sazio della voglia scellerata e Ainesta, tornossene al campo : Lucrezia però corucciata per l’evento ascese quanto potè frettolosa in sul carro, e venne a Roma, cinta di lugubri vesti, ed occultandovi sotto il pugnale; non salutando, salutata, negl’ incontri, né rispondendo a chi voleva intendere de’ suoi mali, tutta cogitabonda, e mesta, e lagrimosa. Giunta a casa dal padre '( e ci aveano alquanti parenti ) ella prostratasi e stregasi ai ginocchi del padre vi singhiozzò, ma senza parole : e sollevandola e stimolandola il padre a dire ciocché solTerto avesse: Padre, disse, ecco la supplichevole tuai se tremenda, se insanabile è tonta mia, padre la vendica: non trascurare Ut figlia tua, incorsa in mali più gravi della morte. Stupitosi il padre, e con esso par gli altri, eccitavala a dire chi offesa 1’ avesse, e di qual modo. E colei ripigliava: Le udirai le mie ingiurie ; ma hrevissimamenle o padre: e solo or tu mi concedi questa grazia che prima te ne chiedo. Convoca gli amici, e i parenti che puoi, perché da me la odano, da me, non da altri la calamità che io patii. Quando tavrai conosciuta la terribile, la ver-, gognosa necessità ch’io sostenni; tu deciderai con essi la vendetta che dei per me fare e per te. Ma deh / non indugiarmi tu lungamente. Corsi all’ invito sollecito 'e premurosissimo i più riguardevoli nella casa com’ ella dimandava, narrò loro, pigliandolo dalle origini, tutto l’ evento. E qui abbracciandosi ai padre, e molto lui supplicando, e gli astanti e gl’Iddj, eli patri! lari che solleciti la scioglie sero dalla vita ; trasse il pugnale che celava sotto le ve sti e, portandosene una piaga sui petto, 6no al cuore se lo internò. Clamore intanto e gemiti e femmineo tumulto turbando tutta la casa ^ il padre avviatosene al corpo la circondava, la richiamava, la curava quasi potesse redimerla dalia ferita : ma colei tra le sue braccia palpitando e spirando Gai. Parve il caso agli astanti si terribile e si miserando che una fu la voce di tutti che era mille volte meglio morire per la libertà che patire ingiurie siffatte dai tiranni. Era tra questi Publio Valerio, discendente da uno de’ Sabini venuti con Tazio a Roma, uomo intraprendente e destro. Costai fu da loro spedito in campo perchè narrasse al marito di Lucrezia r evento, e perchè ribellassero, uniti, le milizie dal tiranno. Uscito appena dalle porte eccogli per avventura incontro Collatino il quale veniva dall armata a Roma ignaro de’ mali che straziavano la sua casa ; e Lucio Giunio soprannominato Bnilò cioè stolido se tal nome ne interpetri con greche maniere. E poiché li Romani additano quest’ultimo come principalissimo nell’ abolir la tirannide; porta il pregio che preaccennisi brevemente chi, di qual sangue egli fosse, e come sortisse un tal nome. niente a lui consentaneo. Di costui fu padre Marco Giunio, proveniente da uno di que’ che menarono con Enea la colonia, e distintissimo per la sua virtù tra’ Romani : fu la madre Tarquinia, figlia di Tarquinio 1’ antico. Egli ricevè la educazione, e tutta la coltura nazionale, nè la indole sua contrariavasi a niun de’ bei pregi. Dappoiché Tarquinio ebbe ucciso Tullio levò segretamente di mezzo con molti uomini probi anche il padre di lui non già pe’ delitti, ma per la ingordigia d’ invaderne le ricchezze ereditate da pingue, antico patrimonio di famiglia : levò similmente con esso il figlio primogenito di lui nel quale appariva non so che di generoso, e che sofferto non avrebbe invendicata la morte del padre. Bruto giovinetto ancora, -e privo in tutto del soccorso de’ parenti si rivolse al mezzo savissimo di fingersi, stolido divenuto. Dall’ ora in poi, finché non gli sembrò di averne il buon tempo, ritenne le apparenze dello stolido ; e se n’ ebbe il soprannome, ma si liberò con questo dalle ire del tiranno, mentre tanti egregj uomini ne soccombetrano. Tarquinio trascurandone la demenza apparente e non vera, spogliatolo di tutti i beni paterni, e datogli un tal poco pel vitto quotidiano, lo custodi presso di sé, come garzoncello orfano, e bisognoso di chi lo qurasse, e concedè che oo’ figli suoi conversasse ; nè già per onorarlo qual congiunto suo, come fingea tra’ parenti, ma perchè desse da ridere a’ propj figli, dicendo costui le mille frivole cose, e facendone le simili agli stolidi veramente. Anzi quando mandò li due figli Àronte e Tito per interrogare 1' oracolo di Delfo su la peste ( giacché nel regno suo proruppe una peste insolita su le vergini e su i fanciulli che in copia ne perivano, e più terribile ancora e men curabile su le gravide, che morte cadeano col proprio feto in su le vie ) quando io dico mandò questi per conoscere dal nume le cause del male e lo scampo, allora congiunse ancor lui co’ figli che gliel chiedeano perchè avessero intanto chi beffare e deridere. Giunti all’oracolo i giovani ed ascoltatolo su la causa ond’ erano inviati porsero sacri doni al nume, e lungamente risero di Bruto che avea consecrato ad Apollo una bacchetta di legno ; ma colui trapanatala tutta come una fistola aveaci offerto, senza che ninno ne sapesse, una verga di oro. Poi consultando essi il nume chi mai, portavano i destini, che divenisse re di Roma ;-^rispose che il primo che bacerehhe la madre. E non intendendo i giovani la mente dell’ oracolo concordarono di baciare insieme la madre onde regnare in comune. Bruto però penetrato ciocché 1’ oracolo volea significare, non si tosto discese nell’ Italia, prostratosi, ne baciò la terra, giudicando questa la madre di tutti. £ tali SODO i fatti precedenti di quest’uomo. Come Bruto udi da Valerio i successi di Lo eresia e la storia della morte di lei sollevando le mani al cielo disse: O Giove, o Dei tutti, quanti vegliate su la vita de’ mortali, è dunque giunto finalmente il tempo per aspettare il quale io contrafeci finora me stesso ? Fuole dunque il destino che Roma sia da me liberata e per me dalla insojfribil tirannide ? E ciò dicendo vassene sollecito in casa insieme con Collatino e Valerio. Entrata la quale, appena Collatino videvi Lucrezia stesa nel .mezzo, col padre allato, scoppiando in copi ge miti la slringea, la baciava, la chiamava, e fra tanta sciagura uscito di mente tenea colla estinta il discorso, quasi fosse ancor viva. Or essendo lui tutto in pianto, e con esso il padre a vicenda, e tutta rimbombando la casa di lamenti e di gemiti; Bruto, rimirandoli disse: O Lucrezio, o Collatino, o voi tutti, parenti di que^ sta donna, beri avrete altra volta il tempo di piangerla. Ora ( e ciò deesi alla ingiuria presente ) pensiamo ^ come vendicarla. Egli sembrava dir giusto : adunque se dendo soli fra sè, sgombrata immantinente ogni turba dimestica, esaminarono ciò ch’era da fare. Bruto cominciando il primo a dire sopra sestesso che la sua demenza non fu vera, qual parve a molti, ma simulata ; e svelaudo le cause per le quali diedesi a fingerla, e giudicatone savbsimo infra tutti ; alfine, allegatene molte, ed acconcio ragioni, animò tutti al parer suo di cac(t) Plinio sul fine del libro XV. scrive che Bruto baciò la terra di Delia, a non dall Italia. dare Tarquinio e li figli da Roma. E vedmili ornai tatti consentanei, disse Che non era pià tempo di parole e promesse, ma di opere; e che egli imprenderebbela il primo se cosa alcuna fosse da imprendere. Ciò dicendo, e stringendo il pugnale con cui la donna fini sestessa, e venuto al cadavere di lei, che giaceva ancora spettacolo compassionevole a tutti, giurò su Marte, e su gli altri Dei Che farebbe tutto, quanto potea, per abbattere la tirannide di Tarquinio, che non pià si riconcilierebbe co' lii'anni, nè permetterebbe che altri si riconciliasse con essi: ma terrebbe per nimico, chiunque non volesse fare altrettanto ; e perseguite-^ rebbe fino alla morte la tirannide e li partigiani di essa. Che se mancava a quel giuramento, imprecava per sè e pe’ figli un termine della vita, quale il termine fu della donna. Ciò detto invitò pur gli altri a simile giuramento : e quelli, niente esitandone, levaronsi, e dandosi a mano a mano il pfignale giurarono, ed investigarono poi qual fosse la maniera di dar principio all’ impresa. Bruto cosi consigliò : Primieramente poniam le guardie alle porte, perchè Tarquinio non penetri niente di ciò che in Roma si dice o si opera contro la tirannide, innanzi che noi siamo ben preparati. Quindi portando il cadavere della donna, lordo comi è di sangue, nel Foro, ed esponendovelo, chiamiamovi a parlemento il popolo. E quando siavisi congregalo, quando ne vedremo già piena ( adunanza; allora Lucrezio e Collatino presentandosi narrino H orribile caso, e deplorino la loro sciagura ; poi qualunque altro facciasi innanzi ed ocf)3 ousi la ^tirannide, e provochi li cittadini a liberarsene. Oh! come avran caro di veder noi patrizj insorgere i primi perla libertà. Stanchi del Tiranno, e de’ molti e terribili mali che ne han sofferto, non abbisognano die St un primo impulso appena. Quando vedremo la moltitudine in furia per togliere la monarchia ; farremo c^ risolva co' voti, che Tarquinio non dee più regnare su Roma, e solleciti ne spediremo il decreto in campo all' esercitaIvi quando coloro che han tarmi conosceranno che tutta si è la città ribellata da Tarquinio, infiammeransi per la libertà della patria, insensibili a tutti i doni del tiranno, essi che non più reggono agli affronti de' f gli, e degli adulatori del perfido. Or avendo lui cosi detto soggiunse Valerio: Tu mi sembri o Giunio che abbi giustamente parlato su le altre cose ; ma quanto ai comizj vorrei da te sor pere chi li potrà convocare legittimamente, e chi dare alle curie i voti; essendo questo offizio de' magistrati, e niun di noi trovandosi magistrato. Ripigliando allora Giunio : o Valerio, io, gridò, sono tale; imperocché sono il tribuno de Celeri, e per legge mi è dato d intimare quando voglio le adunanze. Tarquinio dava tal massimo incoi ico, a me come stolido, e che appresa non ne avrei la potenza, o che se appresa V avessi, non saprei prevalermene. Ma io mi son quegli che il primo arringherò contro del tiranno. Detto ciò lo applaudivano tutti come lui che prendeva le mosse da principio legittimo e buono ; e lo pressavano a dirne anche il seguito ; ed egli disse : E poiché ci piace far questo, vediamo ancora qual maDigitized by Google J)4 delle antichità romane gistrato, e da chi mai crealo, debba reggerci dopo Ut espulsione dei re : anzi vediamo qual Jorma daremo allo Stato f liberi dalla tirannide ; imperciocché prima ài accingersi ad opera siffatta vai meglio di avere de liberata ogni cosa, anzi che se ne lasci alcuna non discussa, né premeditata. Ora dica ciascuri di voi su tali cose ciocché ne pensa. Dopo ciò si tennero molti discorsi e da molti. Chi numerando i gran beni fatti da tutti i re precedenti, amava che si riordinasse la regia dominazione; e chi ricordando le tiranniche ingiustizie di altri e di Tarquinio finalmente su’ proprj cittadini, non voleva il Comune sotto di un solo, ma che piuttosto arbitro se ne dichiarasse il Senato come in molte delle greche città : varj però non anteponeano nè 1’ uno né r altro, ma consigliavano che si fondasse un governo popolare, conne in Atene, esponendo le ingiurie, le. avanìe de’ pochi ^ e le sedizioni de’ miseri contro de’ potenti, e dichiarando che in città libera il comando più sicuro e più degno è quello delle leggi, eguali per tutti. Ma sembrando a tutti malagevole ed arduo il giudizio su la scelta pe’ mali che sieguono da ogni governo ; alfine Bruto, ripigliando disse : O Lucrezio, o Collatino, o voi tutti, quanti qui siete, uomini buoni, e JigU ancora di buoni-, io quanto a me non penso che noi dobbiam di presente dar nuova forma allo Stato. Troppo é picciolo il tempo a cui siamo ridotti, perché ci sia facile staBilirvela armoniosa ; lubrico altronde, e pericoloso, é tentar di cambiarvela, quantunque benissimo su di essa avessimo risoluto. Quando ci saremo levati dallà tirannide, allora potrem finalmente, consultandoci con più agio e più feria, trascegliere il governo migliore a fronte de' menò buoni j seppur avvene uno migliore di guei'^ che 7?omolo e Numa e gli altri re successivi stabilirono e ci "lasciarono, donde la città ne crebbe e ne prosperò, signora fin qui di più popoli. Solamente vi esorto che si emendino, e che provvedasi ora che più non v abbiano i mali terribili solili prorompere dalle monarchie, pe’ quali si mutano in tirannidi crude, e pe' quali tutti le abborrono. Ma quali son queste provvidenze ? Primieramente giacché molti attendono ai nomi, è secondo i nomi vanno al male o fuggono t utile ; e siccome è succeduto che ora molto attendasi a quello di monarchia; vi consiglio che il nome cangiate del governo, fe che da ora in poi quelli che vi comandano non più re li chiamiate, non più monarchi, ma con appellazione più discreta ed umana : poi, che non più rendiate un sol uomo arbitro di ogni cosa, ma fidiate a due la potenza dei re, come odo che i Lacedemoni fanno da molte generazioni, e che perciò ne hanno più di tutti i Greci leggi buone, e stato felice. Diviso il comando in due, e l’ uno potendo appunto quanto F altro ; meno acconci saranno a violarci, e meno ad opprimerci: anzi da tale egualità dee seguirne principalmente la verecondia, il ritegno vicendevole dell’uno per F altro, sicché noti si sfrenino, ed una viva gara per la fama della giustizia. E poiché molti sono li regii distintivi, io giudico che y impiccioliscano o tolgano quelli che àddolorano a rimirarli o sdegnano il popolo, io dico gli scettri, dico le corone di oro ^ e le clamidi eli oro intessute e di porpora, se non forse si asswnono ne' giorni festivi e ne’ trionfali per magnificare g/i Jddj ; mentre usate di raro non offendono. In opposito penso che si conservi a questi uomini la sedir curule ove siedono rendendo ragione, e la veste candida cinta intorno di porpora, e li dodici fasci che il venir loro precedano. Oltracciò perchè quelli che prendono il comando non molto ne abusino, io penso utilissima e principalissima cosa, che non lascinsì comandare tutta la vita. Imperciocché riesce a tutd grave un comando ind^nito, uft comando che non pià dia di sè ragione ; e di qua vien la tirannide. Ma si limiti come tra gli Ateniesi f autorità del comando ad un anno. Quelcomandare a vicenda e quell' essere comandato, quel deporre il pMere prima che il pensar vi si guasti, preoccupa le indoli vane, nè lascia che vi / inebbrino. Se .così stabiliamo, goderemo i beni che sono il frutto di una regia dominazione, e schiveremo i mali che né conseguitano. E perchè il nome regio, consueto già tra' nostri avi, ed introdotto in questa città co t gli augurj propizj degl Jddj che lo favorivano, ti custodisca, almeno per tale riguardo ; si faccia continuamente, a vita, ed onorisi un re del Culto ^ un che libero dalle cure militari in questo solo si occupi e non in altro, cioè che abbia, quasi re ne fosse, l’ arbitrio sovrano de’ sacrifizj. Ora udite come fia ciascuna di queste cose. ’ Io, poiché dalle leggi mi si concede, io raccoglierò, come diceva, l’adunanza del popolo, e riesporrò la mia mente di bandire Tarquinia colla moglie e coi figli da Roma e suo territorio, escludendoneli per sempre essi e la lor discendenza. Quando avran ciò stabilito co’ voti, io dichiarando allora il governo che pensiamo fondare, eleggerò V interré, il qual nomini quelli che prendano le redini della repubblica. Quindi io deporrò la prefettura dei Celeri; e V interré da me creato, proporrà gl’ idonei all’ annua preminenza, rimettendoli al voto de’ cittadini : e se il pià delle centurie ne tien buona la proposta, se propizj gli oracoli la favoriscono, assumano i fasci e le insegne del potere sovrano, e provvedano che libera abitiamo la patria, nè pià li Tarquinj vi ritornino. Imperocché questi, abbiatelo per certo, se non invigiliamo su loro, tenteranno colla persuasiva, colla forza, coll’ inganno, per ogni via finalmente, rimettersi nell impero. Queste sono le somme, le principalissime cose, che io dir posso e raccomandar di presente. Quelli poi che avranno il comando devono, come io giudico, esaminare una per una, le cose particolari, giacché troppe, nè facili a discutersi pienamente ; e noi siamo stretti dal tempo: anzi'deono, come usavano i re ponderarle col corpo del Senato, non concludendone alcuna senza noi ; e quando siano approvate dal Senato, rapportarle, come f accasi tra i nostri maggiori, al popolo non levandogli niun diritto di quanti s’ avea nel principio. Così le sue magistrature saranno sicurissime e bellissime. Proferendo Giunio Bruto tal suo parere tutti lo commendanino ; e datisi ben tosto a consultare, decisero che si nominasse interré Spurio Lucrezio il padre di colei che uccise sestessa: e che da lui si scegliessero per avere il potere dei re Lucio Giunio Bruto, e Lucio Tarqninio Collatino. Stabiliscono che tali soprastanti nell’ idioma loro si chiamassero Consoli, vnol dire consiglieri o capi del ronsiglio, interpetrando in greco tal nome, giacché i Romani ciocché noi simboulas diremmo chiaman consiglio. Coi volgere però del tempo i consoli furono per l’ ampiezza del potere chiamati Ypati dalia Grecia, comandando essi a tutti e t^ neodo.il più sublime de gradi; e chiamandosi da’ nostri antichi Ipaton quanto sopralzasi, e maggioreggia. Dopo tali consulte e tali istituzioni supplicarono co’ voti gli Iddj che fossero propizj ad essi .intenti ad opera si giu non colla sepoltura a norma delle leggi : e Tarquinia la donna di questo ch’egli dovea venerare qual. madre, come sorella del padre, Tarquinia già tanto .sollecita in suo bene, % egli la strangolava, sì, questa misera, innanzi che prendesse il lutto, e che rendesse in su la tomba al marito gli ultimi onori. Così contraccambiava quelli da quali fa salvo, da quali fu nudrito, ed. a quali avrebbe pur succeduto sol che avesse un poco aspettato finché venisse loro naturalmente^ la morte. Ma perchè più, su questo riprendolo, quando, oltre i delitti contro de’ consan^inei e de’ suoceri, ho pur da accusarne le tante prevaricazioni contro la patria, e contro noi tutti, se prevaricazioni son queste, e non sovversioni e rovine di ogni costume e di ogni legge. E per comiiKiare subito ^dal regno, come lo prese egli questo ? forse come i re precedenti? ma quando mai? molto nè egli lontano. Imperocché quei tutti furono da voi portati al trono secondo i patrj costumi e le leggi, prima col decreto del ' Senato che è il capo di ogni pubblica deliberazione, poi degl’ interré scelti ed incaricati dal Senato per nominare il pià idoneo al comando f e co’ voti dati ne' comizj dal popolo, da cui, la legge vuole, che si ratifichi ogni cosa più rilevante, e finalmente cogli augurj f colle vittime, e con altri segni propizj senza i quali niente giovano i maneggi e le previdenze degli uomini. Or dite, qual di voi mai vide una parte almeno fatta di ciò quando Tarquinio prese il comando ? qual vide decreto preliminare del Senato? quale scelta degl’ interré? quali suffiragj del popolo ? per non dire dov è tutto questo ? quantunque se egli voleva il regno lecitamente, non dovea parte ninna pretermettersi di quanto chiedesi dalle leggi. Certo se alcuno può dimostrarmene fatta pur una di queste cose, più non vo’ che si brontoli su le altre che si tralasciarono. Come dunque egli si spinse al trono ? colle arme, come i tiranni, colla violenza, colla congiura degli scellerati, noi riprovandolo, e dolendocene, E fattosi re, comunque ciò fosse, la sosteneva egli V autoràà tua regalmente ? Emulava i suoi predecessori i quali co’ detti e co’ fatti costanti così ressero, che lasciarono a’ posteri la città più felice e più grande che presa non V avessero ? Chi, se pure è sano di mente, chi potrà mai dir ciò, vedendo quanto miseramente e scelleratamente siamo stati da lui malmenati. Tacio le sciagure di noi senatori, le quali, pur un nemico, udendole, ne piangerebbe, e come siam pochi rimasi di molti, come rendati abbietti di granài, e come venuti a disagio e stento, cadendo dai tanti e sì ampj beni. Que’ grati j que’ potenti,. Io3 que cospicui uomini, po' quali questa nostra città era un tempo magnifica, quelli perirono, o fuggono la patria. E le vostre cose y o popolo, come stan esse ? Non ha tolto. a voi le leggi ? non i concorsi soliti per le feste e pe’ sacrifizj ? Non ha fatto cessare i comkj, i suffragj, e le adunanze tutte su le pubbliche cose? Ridotti siete, quali schiavi comperati, ai vilipendi di tagliare, di portare pietre ed arbori, di logorarvi tra gli antri e i baratri senza requie mai, neppur tenuissima dai mali. Or quando avran fine mai tali strazj ? fino a quando li starem sopportando ? Quando la patria libertà vendicheremo ? ... Al morir del tiranno ? Appunto ! Dite ci sarà allora pià facile ? E perchè non piuttosto assai meno ? se per un Tarquinio ne avrem tre molto pià scellerati? Se chi di privato è divenuto monarca, se chi tardi ha cominciato a nuocere, ha percorsa tutta la malvagità de’ tiranni, quali, pensate, esser debbono i discendenti da lui, scellerati di stirpe, scellerati di educazione, che mai non poterono vedere nè apprendere in città misure politiche di moderazione ? E perchè non per congetture, ma intimamente conosciate la perversità loro, e quai cani latratori alleva contro voi la tirannide di Tarquinio ; specchiatevi in un azione sola del primogenito. E questa la figlia di Spurio Lucrezio, lasciato prffetto in Roma dal Tiranno nelP andare alla guerra, e moglie insieme di Tarquinio CollaUno, del consanguineo de’ tiranni che pur tanto ha da loro sopportato. Or questa per serbarsi pudica. e tutta agli amori del suo marito, come fanno le virtuose, avendo Sesto qual parente preso ospizio appo lei, mentre Collatino era lungi nelt armata, non potè schivare nella passata notte le onte. sfrenate della tirannide; ma violentata come una schù^va sostenne ciocché libera donna non dee. Pertanto esacerbatane, e presa la ingiuria per insoffribile, dopo che ebbe narrato al padre e a congiunti le vicende ree che la desolarono, dopo che ebbe pregato e scongiurato che la vendicassero per tanti mali; alfine traendo il pugnale che celava nel seno, profondosselo, e vedendola il padre j o Romani, nelle viscere. O tu certo mirabile, o tu di encomj degnissima per la nobile ' risoluzione ! t’ involasti, moristi non reggendo agli obbrobri del tiranno, e ricusasti le dolcezze tutte del vivere perchè simile calamità non ti avvenisse. Avrai tu dunque o Lucrezia nella tua femminil condizione K avuto il. cuore de’ valentuomini, e noi, uomini nati, noi saremo in viltà men che le femmine ? Tu perchè predata a forza del fiore immacolato della tua pudicizia, avrai tu reputato la morte pià dolce e pià beata della vita; e noi non avrem pur nell’ animo, che Tarquinio non da una notte, ma già da venticinque anni ci opprime, e ci ha colla libertà levato gli agi tutti del vivere ? No ; pià non dobbiamo, o Romani, noi vivere avvolgendoci in tanti pericoli, noi che discendenti siamo di que bravi, che vollero fondare i diritti fin per gli altri, e lanciaronsi a tanti .pericoli per la sovranità e la gloria : ma V una delle due si dee scegliere o libera vita, o morte onorata. È pur venuto il tempo che bramavamo ; perchè lungi è il tiranno dalla città, e perchè duci sono della impresa i patrizj, e perchè se con animo pronto ci facciamo ad imprendere, non abbisogniamo di cosa niuna non di uomini, non di danari, non di arme, non di capitani, non di altro apparecchio militare ; essendone Roma pienissima. Siaci pure una volta vergognà che noi che cerchiamo signoreggiare i Volsci, i Sabini, ed altri moltissimi^ noi stiamo • ad altri servendo, e che mentre tante guerre imprendiamo per in^andire Tarquinio, niuna per la nostra liberuì ne facciamo.Ma di quali incora^menti ci varrem per la impresa, di quai leghe ? È questo che rimanenti a dire. Primieramente c incoraggiremo su la speranza negl’ Iddj de’ quali Tarquinio viola le sante cose, i templi, gli altari, libando e sacrificando con mani lorde di sangue, e di ogni scelleraggine contró de cittadini; appresso c incoraggiremo su la speranza che abbiam su noi stessi che nè pochi siamo, nè inesperti di gierra ; e finalmente sul rinforzo di quegli alleati i quali non ardiranno far novità se noi non ve 'gV invitiamo ; ma se vedono che noi il valor nostro raccendiamo, lietissimi ci si uniran per combattere ; nemico essendo della tirannide chiunque vuole esser libero. Che se alcuno di voi teme quei cittadini che in campo si porran con Tarquinio per militare con esso contro noi ;• non bene teme costui. Anche ad essi è grave la tirannide, ed ingènito in tutti è V amore della libertà : ed ogni occasione di mutamento basta a chi è misero necessariamente. Che se voi li chiamerete col voto vostro a soccorrer la patria, non timore li riterrà co’ tiranni, non grazia, e non cosa ninna la quale sforzi o persuada, a mal fare. E se in alcuni si è per la ria natura, e la trista educazione abbarbicato V amor dei tiranni ; ridurremo ancor essi, che molti non sono, con insuperabile necessità sicché utili ci divengano i malevoli ; perciocché teniamo in città quali ostaggi i loro figli, le mogli, i parenti, pegni carissimi che ognuno pregia più che la vita. Or se noi prometteremo di rendere questi, se decreteremo per essi la impunità quando distacchinsi dal tìrannno ; di leggeri li persuaderemo. Cosicché fatevi cuore o Romani, concepite belle speranze per V avvenire, uscite per una guerra, certo la più gloriosa di quante mai ne imprendeste. Si, palrj Dei, propizj curatori di questa terra, sì Genj, tutelari già de nostri padri, sì, città carissima infra tutte ai Celesti nella quale nascemmo e cresciamo, sì noi vi difenderemo co’ pensieri, colle parole, colle opere, colla vita ; pronti a tutto soffrire, quanto la fortuna porti ed il fato. Presagiscorni che alla impresa buona seguirà fine bonissinto. Possano quanti confidano, quanti decidonsi come noi, voi salvare ed essere da voi salvati parimente. Mentre Bruto aringava, faceansi ad ogni suo detto acclamazioni dal popolo in signiBcazione, che esso appunto cosi voleva, e comandava. Ed i più sentendo quel parlare maraviglioso ed inaspettato lagrimavano per tenerezza. Inondavano passioni varie nè punto 1 07 amSi ogni petto: e dove il rancore, dove la gioja trionfavano, là pe’ mali già sostenuti, qua pe’ beni che si aspettavano. Dove era audacia, dove timidità, quella che incitava a non curar sicurezsa contro i subjetti, odiati perchè intenti a far male ; e T altra che oppo neasi agl’ impeti delia prima, perchè vedea non facile la rovina della tirannide. Ma non sì tosto colui cessò dal parlare ; tutti, quasi con una bocca, ad una voce esclamarono, che guidassegli alle arme. E Bruto dilettatone, sì, disse, ma quando prima avrete udito, e confermata co’ voti vostri i decreti del Senato. E noi decretiamo CHS i TAsqvatj s tutta la consangvu HIT a' loro svogano ROMA E QUANTO È Ds' ROMAICI : CBS NIUNO FOSSA DIRE O BRIGARE SUL RITORNO DEI tiranni; e se contravviene; si" uccida. Or se volete che un tal parere si adotti ; compartitevi in curie, e datene i voti. Questo incominci per voi li diritti della' vostra libertà. Disse ; e cosi fu hitto : e poiché tutte le Curie ebbero decretato 1’ esilio del tiranno ; Bruto fattosi innanzi, ripigliò : Giacché avete voi ratificato quanto deesi, le prime cose ; ascoltate U resto che abbiam deliberata su lo Stata. Esaminando noi qual magistrata esser dee V arbitro del comando, ci è piaciuto, non già di rinnovare il comando di un solo, ma di creare ogm anno due capi con regio potere, che voi stessi eleggerete ne’ comizj, votandovi per centurie. Or se volete anche ciò ; datene il voto. Il popolo lodò questo ugualmente; nè vi fu pur un voto contrario. Quindi ripresentatosi Bruto, nominò Spurio Lucrezio per interré, perchè secondo le patrie leggi prendesse cura de’comisj. Costui sciogliendo ' r adunanza, ordinò che tutti subito si recassero in arme al campo, dove solcano tenere i comizj. Recativisi ; scelse due Bruto e Gollatino che facessero quanto facevano i re. Ed il 'popolo chiamato per centurie con fermò la magistratura a que’ due. Tali sono le cose ai lora fatte in città. Tarqninio come udì da messaggeri sottrat tisi per avventura da Roma prima che le porte se ne chiudessero, che Bruto (perché narravano questo solo) fattosi capo-popolo, aringava i cittadini, e suscitavali a rendersi liberi, parti senza dirne le cause, prendendo se^o i figli, ed altri più fidi, e correndo a briglie sciolte onde prevenire la ribellione. Ma trovando chiuse le porte, e piene le mura di arme, tornossene, quanto potè, veloce nel campo affligendosi e lagrimando : se non che già le sue cose erano qui pure in iscompigUo. Imperocché li consoli antivedendo la sollecita venuta di lui verso Roma aveano per altra via spedito all’armata, invitandola a togliersi dal tiranno, ed annunziandole i decreti di quei della città. Or Tito Erminio e Marco Orazio lasciati dal tiranno nel campo prendendo quelle lettere le recitarono nell’ adunanza : e dimandando via via per centurie ciò che era da fare, e piaciuto a tutti che si ratificassero le deliberazioni della città ; più non riceverono Tarquinio che tornavasi a loro. E caduto pur da questa speranza fuggisseue con pochi alla città di Gabio f della quale, come ho detto di sopra, avea creato monarca, Sesto il suo primogenito. Esso già canuto per anni avea tenuto per cinque lustri il comando. Erminio ed Orazio, concbiusa una tregua di quindici anni cogli ÀrdeatinI, ricondussero in patria le milizie. Per tali cause e da tali uomini fu tolta in Roma la regia dominazione, conservatavisi per dugcnto quaranlaquattr’ anni dalla sua fondazione, e divenuta in fine tirannide sotto 1’ ultimo re. OloMSERVATASl in Roma la regia dominazione per dugento quarantaquatlr anni e cangiatavisi poscia in tirannide sotto r ultimo re fa per le cagioni anzidette abolita da tali uomini sul principio della olimpiade sessagesima ottava, nella quale Iscomaco da Crotone vinse allo stadio, mentre Isagora esercitava in Atene r aunuo magistrato. Ed istituitasi la signoria de’ pochi, mancando quattro mesi al compiersi di quell’anno, assunsero i primi il comando supremo, Lucio Giunio Bruto e Lucio Tarquioio Collatino col nome di consoli, Anni 345 fecondo Catone e i 47 'ecjndo Varrone dalla fondailone di Roìna, e So; avanli Cristo] cosi chiamandosi da Romani, come già dissi, nel patrio idioma i capi del Senato. Poi congiungendo questi a sè gli altri che numerosi tornavano dal campo in città dopo conchiosa la tregua con gli Àrdeatini ; e pochi giorni appresso la espulsione del Tiranno convocando il popolo a parlamento, e ragionando copiosamente su la concor dia ; fecero di bel nuovo decretare co’ voti, come già quelli che erano in Roma lo avevano decretato, bando perpetuo ai Tarquinj. Dopo ciò puri6cando la città, fattone sacrifizio ; essi i primi, stando intorno le vittime, giurarono, e ccndussero pur gli altri a giurare, che mai più dal bando richiamerebbero il re Tarquinio, nè la prole di lui, nè i figli de’ figli : anzi che non più iarebbono re ninno in Roma, nè tollererebbono chi far cel volesse. Cosi giurarono su’ Tarquinj, su figli, e su la prosapia loro. E, couciossiachè pareano i re, stati autori di molti e gran beni inverso del pubblico, deliberatisi a conservare il nome almeno di tal signoria, finché Roma durava, comandarono ai pontefici ed agli auguri di eleggere il più idoneo tra’seniori, perchè tolto da tutte le cure, se non dalle religiose, presedesse in sul culto, e Me si chiamasse non delle politiche, non delle militari,. ma delle sante cose. Per tanto fu delle sante cose nominato re per il primo Manio Papirio, uomo patrizio e dedito alla dolce calma. II. Stabilito ciò, temendo, io credo, che non si generasse negli altri sui nuovo governo la idea non vera, che in luogo di uno dominavano due re la città mentre Secondo Feslo il primo re tacriJieuUu, fa Sicinnio Beliulo, ed in cfò discorda da Dionigi e da Livio. Ir uno e 1’ altro de’ consoli avca come un tempo i re le dodici scuri ; deliberarono preoccupar tal concetto, e scemare la invidia del comando, e fecero cbe l’uno de’consoli portasse dodici scuri, e F altro dodici littori colle verghe coronate solamente come narrano alcuni: talché le scuri le assumesse e recasse ora l’uno ora F altro vicendevolmente per un mese intiero. Animarono con questo F umile plebe a conservar quel governo ; e con simili cose non poche. Imperocché rinnovarono tutte le leggi scritte da Tullio su’ contratti ; le quali si tenean per umane e popolari, e Tarquinio aveale tutte soppresse : e comandarono che si facessero come a’ tempi di Tullio, i sagriGzj che in città si faceaiio o nella campagna, riuiiendovisi que’ di Roma e de’ villaggi. Concederono che il popolo si radunasse per le cose più rilevanti, e desse il voto, e ripigliasse a voler suo gli usi primitivi. Piaceano tali cose alla moltitudine ravvivatasi dal servir lungo a libertà non aspettata. Nondimeno ci ebbero alquanti i quali desiderosi de’ mali della tirannide per demenza o per avarizia congiurarono di tradire la patria e richiamarvi i Tarquinj, trucidandone i consoli : ed io dirò quali ne fossero i capi, e come im provvedutamente scoperti, mentre credeansi occulti atutti, ma riassumerò le cose alquanto più addietro. III. Caduto Tarquinio dal trono, si tenne per un tempo, non lungo, in Gabio, raccogliendo quanti a Il lesto non è ben fìsso : e fotse dee leggersi verghe curve o grosse nella lesta. Il codice Valicano avendola voce xafvtat e noa xtfà/tttt favorisce la idea di verghe grosse in testa. Silburgio propende per le verghe ricurve iu cima lui ne venivano amici della tirannide pià che delia libertà, e confortandovisi in su le speranze de’ Latini, quasi potessero questi ricondurlo alla reggia. Ma poscia che le città non io ascoltavano nè voleano per lui fare una guerra ai Romani ; disperandone alfìne il soccorso fuggissene a Tarquinj città Tirrena, donde era la materna origine sua. E cattivandosi que’ cittadini co’ doni, e prodotto da essi in piena adunanza, rinnovò 1’ antica congiunzione con loro, e commemorò li benefizj deU r aiuolo suo con tutte le città Tirrene, e gli accordi che avean fatto con lui. Poi si lamentò con tutti della sciagura che avealo preso, e come travolto in un sol giorno da lietissima condizione, ora profugo con tre 6gli e bisognoso fin del necessario, era costretto ricórrere a popoli, un tempo, sudditi suoi. Scorrendo su tali cose pateticamente e con molte lagrime, indusse il popolo a spedire il primo a Roma uomini che portas sero parole di pace per lui, quasi i potenti ivi fossero per favorirlo, ed ajutarlo al ritorno. Nominati quelli eh’ egli volle per ambasciadori, ed istruitili delie cose che erano da dire e da fare gli spedi con alquanto di oro e con lettere de’ fuorusciti con esso dirette con preghiere agli amici e domestici loro. IV. Venuti questi a Roma dissero hi Senato : che chiedea Tarquinia la franchigia di venire con pochi prima in Senato, e poi, quando ciò fossegli conce-duto dal Senato, nell adunanza del popolo per darvi conto delle opere sue fin dai principj del regno, falline giudici tutti i Romani, se alcuno mai lo accusasse. Che se appien si giustifica, se persuade che egli non ha colpe degne dell esilio ; allora se gUel concedano, regnerà novamente con que' limiti che gli prescriveranno : se poi decreteranno di non voler più. come per l’ addietro la sovranità dei re, ma di fon-^ darne un altra qualunque, egli uniformandovisi al pari degli altri reslerassene colla sua famiglia in Roma, sua patria, libero almeno della vita degli erranti, e de' profughi. E ciò detto supplicavano il Senato pei comuni diritti che vogliono che niun si condanni senza discolpe e giudizj, a concedere una difesa della quale essi giudicherebbero. Che se ciò non volevano a lui concedere, fossero compiacevoli almeno in vista della città la quale s' intrametteva. Compiacendola, tuttoché senza discapito loro, assai onorerebbero la città che ciò conseguiva. Uomini essendo, non si elevassero sopra la sorte degli uomini: nè serbassero immortali sdegni in cuori mortali : ma in grazia degt intercessori si sforzassero anche contro lor voglia di usare mansuetudine ; considerando eh' egli è da savio condonare le inimicizie per le amicizie ; ma da stello e da barbaro volgere in nemici gli amici. V. Aveano ciò detto, quando Bruto sorgendo replicò : Sul ritorno de' Tarquinj in Roma cessate o Tirreni di più ragionarne. Imperciocché già si è qui J volato irreparabilmente per l'esilio loro: ed abbiamo tutti ^giurato agC Iddj di non restituire i tiranni, e di non tollerare che altri ce li restituisse. Ma se chiedeste con altra moderazione a cui nè le leggi nè li giuramenti si oppongono', manifestatevi. Or qui faitùi innanzi gli ambasciadoi’i soggiunsero : Terminale ci sono contro la espettazione le prime dimandet ambasciadori per uno che si raccomanda, per uno che vuole dare a voi conto di sè stesso, abbiamo chiesto qual grazia ciocch’ era diritto per lutti : nè potemmo ottenerlo. Ora poiché ve n è parato così ; non più vi presseremo sul tornar de' Tarquinj. J\oi facciamo istanza per un altro diritto di cui la patria c incaricava, e su cui non legge, non giuramento impediscavi, cioè che rendiate al monarca i beni clm [ avolo suo possedeva senza toglierli a voi nè di forza nè in occulto, ma portati qui avendoli, come ereditati dal padre. A lui basterà, se lo ricupera, il suo, per vivere altrove Jelicemente, senza vostra molestia. RitiraroDsi ciò detto gli ambasciadorì. Bruto T uno de’ consoli suggeriva che si ritenesser que' beni in compenso delle ingiustizie sì gravi e sì numerose dei tiranni contra del pubblico, e per util di Stato : perchè non si dessero ad essi de mezzi co’ quali far guerra ; preammonendo, che nè si affezionerebbero ad essi i Tarquinj col riavere i lor beni nè sosterrebbero una vita privata, ma porterebbero su Romani le arme di altri popoli, e tenterebbero di tornare colla forza al comando. Collatino però consigliava il contrario, dicendo che non gli averi, ma le persone dei tiranni noceano la città. Pertanto scongiuravali a guardarsi prima dalC incorrere nella rea fama di avere espulso i Tarquinj per invaderne i beni, e poi dal porgere ad essi cosi spogliandoli, giusta occasione di guerra : dicea che non era chiaro, che ricuperando i beni si accingerebbe^ ancora ad una guerra con essi, laddove era ben manifesto, che non ricuperandoli f rion si cheterebbero. VI. Cosi dicendo i consoli ; e molti sentendola colr uno e coir altro ; il Senato dubitò come avesse a risolvere. E ripigliandone per più giorni l’ esame, e parendogli che Bruto consigliasse il più utile, ma Collatino il più giusto ; in ultimo deliberò che giudice ne fosse il popolo. Or qui dette essendo più cosedairnno> e dall’ altro de’ consoli, e venendo alBne le curie, che eran trenta di numero, ai voli, preponderarono le une alle altre con si piccini divario che quelle le quali intimavano che si rendessero i beni superarono di uà sol voto le altre le quali voleano che si ritenessero. I Tirreni avuta la risposta dai consoli : e molto lodando' la città che anteponesse all’ utile il giusto ; spedirono a Tarquinio perchè mandasse chi ricevesse i beni di lui ; frattanto essi resiavansi a Roma sul titolo del trasporto de’ mobili, o di dar sesto a ciò che non potessi menar via j nè carreggiare : ma in realtà spiando e brigandovi, come il tiranno aveali incaricali. Perocché ricapitarono' le lettere de’ profughi agli attinenti loro ; pigliandone le altre di replica. E conversando, e studiando le affezioni di molti, se ne trovavano alcuni facili ad essere guadagnati per la poca fermezza, per la inopia, o pel desiderio di 'empiersi nella tirannide, davansi a subornarli coir oro e con ampliarne le belle speranze. Vi sarebbero secondo le apparenze in città si grande e si popolata, alquanti non degl’ infimi solo ma de’riguardevoli i quali anteporrebbono il governo men buono al migliore 'y or furono tra questi i due Giunj Tito e Ti> berio, figli di Bruto il console, puberi appena, e con essi i due Geli] Marco e Manio fratelli della moglie di Bruto, idonei a’ pubblici affari : Lucio e Marco Aquìlio, figli ambedue della sorella di Collatino, altro consolo, e conformi di anni al figli di Bruto, presso a’ quali, non più vivendo il lor padre, per lo più si adunavano e ctmcertavano sul ritorno de’ tiranni. VII. Tra le molte cose, per le quali a me sembra che Roma giugnesse per la provvidenza de’nnmi a stato si prospero, non sono le infime quelle che avvennero allora. Imperocché si mise in que’ sciaurati tanta de.menza, e tanta cecità, che osarono fino scrivere al tiranno di propria mano lettere che indicavano il numero copioso de’ congiurati ed il tempo nel quale assalirebbero r uno e r altro console, lusingati dalle epistole del perfido ad essi per le quali volea sapere i .compensi che avrebbe a dare, tornando in trono, al Romani. Ebbero i consoli queste lettere per tale incontro. Eransi i prlmarj de’ complici riuniti in casa, degli Aquilj nati dalla sorella di Collatino, invitativi come a sante cose e sagrifizj. Dopo il convito ordinando che quei che lo aveano ministrato uscissero e si • tenessero nell’ anticamera; confabulavano infra loro su • la rintegrazione del tiranno, e segnavano ciascuno, i .mezzi che glien parevano di mano propria in lettere che gli Aquilj doveano far giungere ai messaggeri Tirreni, e questi a Tarquinio. Intanto uno schiavo (Vin Sigonio ne scogtj LÌTiani pone Vitel^ in luogo di Gellj seguendo le antoriià di Livio e di Plnisrco. dicio ne era il nome ) della città di Genina, il quale fervito gli avea di bevanda, sospettando dalla remoaione de’ servi che coloro macchinassero qualche scelleraggine, si stette solo fuori della porta, ed applicatovisi in una fessura ben lucida, ne udì li discorsi, e ne vide le lettere che vi si scrivevan da ognuno. Quindi a notte avanzala uscendo come in servigio de’ padroni, non ardi di andare ai consoli sol timore che volessero per r amor de’ congiunti che il fatto si occultasse, e ' levas~ sero di mezzo chi porgea la dinunzia : ma recatosi a Pubblio Valerio l’ uno de’ quattro, primarj nel tor la tirannide y congiunsero a vicenda la destra, e giuratagli da lui sicurezza, gli svelò quanto odi, e quanto vide. Colui, saputo il fatto, si presentò • senza indugio su r alba in casa degli Aquilj con valida schiera di clienti e di amici, e penetrandone senza >ntesa le porte come per tutt’aliro affare, s’impadronl delle lettere mentre pur v’ eran que’ giovani, i quali menò seoo innanzi de’ consoli. Vili. Ora essendo io per dire le sublimi, e meravigliose gesta di Bruto di che tanto i Romani si magnificano, temo che sembrino austere troppo nè credibili ai Greci, giacché tutti sogliono per natura giudicare le cose che di altri si dicono dalle proprie, e secondo queste aversele per credibili o non credibili. Nondimeno io le dirò. Non si tosto fu giorno, sedutosi Bruto in tribunale, ed esaminando le lettere de' congiurati, appena scopri quelle de’ figli distinguendole dai sigilli, e dopo rotti i sigilli, dai caratteri; ordinò primieramente •he lo scriba leggessene 1’ una e l’ altra, sicché tutti le udissero, e quindi che i Ggli dicessero su ciò se voleano. Niuno de’ due ardiva rivolgersi impudentemente a negarle per sue, ma quasi avessero già condannato sè stessi, piangevano. Egli soprastando breve tempo sorse ; ed intimalo silenzio, ed aspettando tutti qual ne sarebbe la flne, disse, che condannavali a morte. Or qui alzarono tutti la voce, alienissimi, che avesse un tal uomo a punire sè stesso colla morte loro, e voleano condonare al padre la vita de’ figli. Ma egli non comportando nè le voci nè i pianti comandò a’ satelliti che di là rimovessero i giovani che lagrimavano e supplicavano e co’ nomi più teneri lo chiamavano. Riusciva spettacolo meraviglioso a tutti che un tal uomo niente piegato si fosse nè per le preghiere de’ cittadini, nè per la commi aerazione inverso de’ figli : assai però parve più portentosa 1' austerità di lui circa il supplizio. Imperocché nè permise che si uccidessero i figli allontanati dal cospetto del popolo, nè egli, almeno per fuggirne la terribile vista, si ritirò dal Foro finché non furono puniti : nè condiscese pure, che subissero, non disonorati co’ flagelli almeno, la morte destinata. Ma custodendo tutte le consuetudini, e tutte le leggi quante ve n’ ha su’ malfattori, egli stesso nel Foro tra la pubblica vista presente a tutto, fattili prima straziar colle verghe ; concedette alfine che con le scurì si decapitassero. Sorprendente soprattutto, inconcepibile era in quest’ uomo la immobilità degli sguardi senza indizio nemmeno di compassione. Tanto che piangendo tutti, egli solo fu visto non piangere sul destino de’ figli: nè sospirò per sè stesso, nè per la solitudine la quale facevasi nella sua casa, nè diè segno in tutto di debolezza: ma senza lagrime, senza lamenti, e come inalterabile, portò magnanimamente la sua sciagura. Tanto era forte di animo, tanto costante in compiere le risoluzioni, e tanto superiore agli affetti che turbano la ragione ! IX. Uccisi i &gli fe’ chiamare immantinente gli AquiIj, 6gli della sorella dell’ altro console, presso a’ quali teneansi i congressi de’ congiurati. E comandando alle scriba che ne leggesse l’ epistole sicché tutti le udissero ; intimò ad essi che sen difendessero. Ma i giovani venuti dinanzi al tribunale, sia che ammoniti ne fossero dagli amici, sia che di per sè lo risolvessero, si gittarono a piedi dello zio per essere da lui salvati. Ma comandando Bruto ai littori che li svellessero, e li traessero se non voleano giustificarsi alla morte ; Collatino sopraggiunse a questi, che sospendessero alquanto finché abboccavasi col collega, e pigliatolo da solo a solo orò lungamente pe’ garzoncelli ; parte escusandoli che fossero caduti in tale stoltezza per inesperienza e per compagnie triste di amici, e parte eccitandolo a condonare la vita di parenti, dimandandolo in grazia lui che non d’altro mai più lo vesserebbe, e parte facendo riflettere che turberebbesi il popolo tutto se davausi ad uccidere chiunque sembrato fosse tenersela co’ fuorusciti perchè ritornassero ; imperocché dicea eh’ eran molti, e parecchi non ignobili di lignaggio. Ma non venendogli di persuaderlo; ne chiese almeno pena più mite che non la morte, dicendo: mal convenirsi che i complici si avesser la morte, mentre il tiranno non sostenea che l’ esilio. E perciocché Bruto ripugnava da pene più mi, nè voleva (ciocché chiedeva da ultimo il suo collega ) nemmeno differire il giudizio de’ colpevoli, e minacciava, e giurava di darli tutti appunto iu quel giorno alla morte ; Coliatino sdegnatosi in fine che niente ottenea ; soggiunse : io, pari tuo, to scamperò que' giovini se tu se tanto intrattabile e duro : E Bruto indispettitone, no, disse, Coliatino ; non potrai finché 10 vivo far salvi i traditori della patria : anzi tu pure darai tra non molto le pene che meritL X. Ciò detto, e messa una guardia su’ giovani chiamò 11 popolo a parlamento : e riempiutosi il Foro, perchè il supplizio de’ figli suoi, già si era in città divulgato, egli facendosi in mezzo, cinto da’ più cospicui de’ senatori disse : lo vorrei o Cittadini, che Collatino, questo mio compagno, fosse concorde con me su tutto, ed odiasse e combattesse i tiranni non pur colla voce, ma colle opere. Ora poiché lo trovo manifestamente contrario e congiunto in tutto a' Tarquinj di sangue, di voglie, e di brighe onde riconciliarceli, anzi col-[ utile suo che del comune ; io sono risoluto di op~ pormegli perché non compia le ree sue macchinazioni, e perciò vi ho qua convocati. Io dirò primieramente in qitanto pericolo sia la città ; poi come t uno e t altro di noi siasi diportato. Biunitisi alquanti in casa degli Aquila nati dalla sorella di Collatino, e tra questi ambedue li miei figli e li fratelli della mia moglie, ed altri non ignobili ; stabilirono, e congiitrarono la mia morte, e di restituirvi in Tarquinio il monarca. E già erano per mandare ei fuorusciti /efrtere contrassegnate da loro caratteri e sigilli. Ma si fe ciò, la Dio mercede, a noi manifesto, indicandocelo questo uomo, che è un servo degli jiquilj, di quelli presso i quali si adunarono e scrissero nella notte precedente le lettere ; e noi, le abbiamo noi, queste lettere. Io già ne punii Tito e Tiberio miei figli : e niente, non leggi, non giuramenti, furono da me violati per la clemenza di un padre. Ma Collatino mi ritoglica dalle mani gli Aquilj con dire che non soffrirebbe che partecipassero la sorte de' miei figli, se partecipato ne aveano i disegni. Ma se costoro non soggiacìono a pena, nemmen dunque vi dovran soggiacere non i fratelli della mia moglie, non quanti sono, i traditori della patria. E qual diritto più grande avrò io contro questi, se risparmiatisi quelli ? Dite, qual contrassegno c mai questo, di amici della patria, o del tiranno, di conferma del giuramento che avete voi tutti prestato noi precedendovi, o di sconvolgimento e di perfidia ? Se egli rimanevasi occulto, pur sarebbe in preda alle fune e sotto la vendetta degli Dei che spergiurava. Ora poiché vi si è palesalo a voi si spetta, a voi di punirlo. Vi persuadea costui pochi giorni addietro che rendeste i suoi beni al tiranno, non perchè la città se gli avesse per usarne in guerra contro i nemici, ma perchè li nemici gli avessero per usarne contro la città. Ed ora si arroga di esentare dalle pene i congiurati a restituirvi i tiranni, in favore come è chiaro di questi, perchè se mai tornano, sia di forza, sia per tradimento egli in vista di tanti servigj ne ottengcL come amico, quanto dimanda. Ed io che non ho perdonato a’ figli miei, io dovrò, o Collatino, te risparmiare, che sei con noi di presenza, ma coll’ animo tra’ nemici ? E tu che salvi i traditori della patria, tu me che per essa travagiiomi, ucciderai ? Or potrà farsi ? Eh ! che lontani siamo di molto. E perchè non possi nulla di simile, ti levo dal consolato e cornandoti che in altra città ti conduciti. E voi o citiiadini voi chiamerò ben tosto per centurie, e presi i voti, deciderete se dobbiam così fare. Intanto, (e vivissimamente avvertitelo ) voi l' una delle due mi dovete, escludere Collatino, o Bruto. XI. Or lui cosi dicendo ; Gollatino esclamando ed angustiandosi, cbiamavalo di cosa in cosa calunniatore e traditore degli amici : e purgandosi dalle incolpazioni contro di lui, pregava intanto pe’ fìgii della sorella: ma perciocché non permettea che si dispensassero i voti contro di lui ; inferocivane il popolo, levandosi a remore in ogni suo dire. Ora essendo cosi inferocito nè soffrendo discolpe, nè volendo preghiere ma solo che si dispensassero i voti ; ed interponendosene il suocero Spurio Lucrezio, uom pregiatissimo, per timore che Collatino non perdesse ignominiosa mente ad un tempo il magistrato e la patria, chiese da ambi i consoli facoltà di parlare. Ed ottenutala, esso il primo, come dicono gli storici Romani, giacché non v era ancor r uso che un privato aringasse il comune ; diedesi pubblicarrtente a pregare 1’ uno e 1’ altro de’ consoli, Collatino perché non si ostinasse e non ritenesse il comando a mal cuore de’ cittadini, che spontanei gliel diedero ; ma se pareva a que’ che gliel diedero di ripeterlo, volontanamente lo restituisse, e levasse co’ fatti, non coi detti le accuse contro di lui : prendesse le sue cobbe e si recasse ad abiure altrove, dovunque voleva, Gnchè 10 Stato non era in salvo ; cosi porUndo 1’ utile pubblico : riflettesse come in altre ingiustizie gli uomini se ne sdegnano, quando sono commesse : ma che sospetundosi di tradimenti stimano anzi saviezza temerne invano e guardarsene', che trascurarli e lasciarsene rovinare. Persuadeva poi Bruto, che non cacciasse dalla città con vergogna e con vitupero quel magistrato com> pagno col quale avea preso le risoluzioni più belle {>ér la patria : ma che desse a lui, s’ avea cuore di lasciare 11 suo grado e di trasmigrarsi, tutto 1’ agio a raccor le sue robbe, e gli aggiungesse a nome del popolo un dono come pegno di consolazione nelle sue calamità. Cosi consigliando quel valentuomo, inUnto che il popolo ne lodava i discorsi, Collatlno depose la sua dignità, contristato che per la pietà de’ parenti era astretto a lasciare e senza demeriti la patria. All’ opposito encomiavalo Bruto perchè risolveva il migliore per la sua Roma e per sè, e pregavalo a non. disamorarsi nè verso di lui, nè della patria : trasportando altrove la sede, considerasse ancor sua, la patria che lasciava, nè si meschiasse a’ nemici contro lei non colle parole, non colle opere. Considerasse in somma questo transito suo qual pellegrinalo, non qual bando, o fuga: tenesse il corpo presso quei .che lo ricevevano, ma V affetto suo, lo. tenesse questo, presso quei che lo mandavano. Or, cosi avendo ammonito quest’ uomo persuase il popolo a regalarlo di.’ laS venti talenti, con aggiungerne egli cinque del suo. Ca duto Tarquinio Cotlaiino in tale disgrazia si ritirò a Lavinia, antica madre de’> Latini dove carico di anni mori. Bmto non sopportando di essere solo al comando, per non dare sospetto, che levato avesse il compagno dalia patria per fervisi re, chiamò bentosto il popolo al campo dove usava eleggere i sovranie gli altri magi strali, e creò per collega nel consolato Pubblio Yale rio, uno dei discendenti, come sopra fu detto, dai Sabini, uom degno di ammirazione e di lode per le molle suo doli, e principalmente per la sobria sua vita. Egli trovando in sé stesso una luce naturale di filosofia, la fece brillare in più affari, come poco ap presso diremo. Unanimi questi in tutto, immantinente diedero a morte, quanti erano, i congiurati al ritorno de’ fuom sciti, e dichiararono libero e cittadino il servo. che aveali denunziali, colmandolo di oro. Poi fecero tre bellissimi ed utilissimi regolamenti, che la città contemperarono a pensare tutta di un modo, sminuendo il favor pe' nemici. Il primo spediente fu di scegliere i migliori della plebe e di crearli patrizj, onde compier con essi un Senato di trecento. Appresso esposero al pubblico le suppellettili del tiranno, concedendo che ognuno se ne avesse, quanto toglievano ; e compartirono i terreni di esso a chi non aveane, riservandone unicamente il campo tra ’l fiume e tra la città, dedicato già dal voto degli antenati a Marte, come prato benissimo pe’ cavalli e per gli esercizj de’ giovani in arme. Tarquinio però, sebbene prima di lui fosse già sacro a qnel nume, aveaselo appropiato, e sem inavaci : di che è sommo argomento la risoluzione allora presa da’ consoli sul ricollo che sen ebbe. Imperocché sebbene avessero conceduto al popolo di prendere e portarsi quanto era del tiranno, non però consentirono che alcuno si arrogasse il grano germogliatovi, sia che fosse nelle spighe, sia che nell’ aja, sia che già lavorato ; ma decretarono che si gettasse nel fiume come esecraa do, né degno che se lo avessero in casa. £ di tal giuo sopravvanza ancora, monumento famoso, la isoletta sacra ad Esculapio, bagnata intorno dal fiume, prodotta, dicono, dagli ammassi delle paglie corrotte, e dai fango che vi si appiccò nel correr delie acque. Rispetto a quelli che eransi fuggiti a Tarquinio accordarono ad essi generale perdono, e ritorno sicurissimo in patria fra venti giorni, intimando a chi venuto non fosse in quel termiue, 1’ esilio perpetuo e la confisca de’ beni. Or tali provvedimenti impegnarono ad ogni cimento quei che godeano le robe, quante mai fossero del tiranno, sul timore che non venisse ior meno l’utile che ne aveano; come impegnarono a favorire non più la tirannide ma la patria, que’ lutti che per le gesta loro sotto dei despoti, eransi esiliati da sé stessi, per timore di non pagarne le pene. Ciò fallo, si diedero co pensieri alia guerra tenendo intanto 1’ esercito in campo presso di Roma sotto le insegne e li capitani per addestrarvelo ; perchè aveano udito che i fuornscili apparecchiavano centra loro ua armata dalle città dell’ Etruria, e che quelle de’ Tarquinj e de’ Vejenii, potentissime ambedue, cooperavano manifettamente al ritorno di essi, mentre gli amici loro adunavano dalle altre de’ stipendiati e de’ volontarj. Ma non si tosto seppero che l’ inimico moveasi, deliberarono di farsegli incontra ; e passando prima di esso il fiume, s' inoltrarono e si accamparono vicino ai Tirreni nel prato Giunio, presso la selva sacra ai genj di Orato. Trovaronsi ambedue le milizie quasi pari di numero con ardore eguale per combattere. £ su le prime, surse, appena si videro, picciola mischia tra’ cavalieri, innanzi che le fanterie prendessero campo. Cosi gli uni sperimentarono gli altri, e non vincitori e non vinti si ritirarono ciascuno al corpo de’ suoi. Quindi messa la fanteria nel centro, e la cavalleria nelle ale si mossero da ambe le parti coll' ordine stesso fanti e cavalli gli uni contro degli altri. Conducea l’ala destra Valerio il console, contrapponendosi a’ Yejeuti : Bruto reggea la sinistra avendo a fronte la n^ilizia de’ Tarquiniesi comandata da’ figli del tiranno. XV. Erano già già per venire alle mani quando ' avanzandosi dalle fila de’ Tarquiniesi 1’ uno de’ figli del tiranno, ( Aruute ne era il nome) il più vago di aspetto, e più magnanimo de’ fratelli, e spinto il cavallo verso i Romani in parte, dove tutti ne intendesser la voce, coperse d’ ingiuria il duce Romano, chiamandolo ferino, selvaggio, lordo del sangue de’ figli, imbelle e vile, e lo sfidò per tutti a combattere solo. E colui non Cosi nel Codice V.iticano. Alcuni peto leggono jirslo in luogo di Orato, perchè secondo Tilo Livio e Valerio Massimo jfrtia si idiiamava la selva. più bastando alle ingiurie, spronò dal suo posto il cavallo senz' attendere gli amici che nel distoglievano, correndo fortissimamente alla morte che eragli apparecchiata dai fati. Rapiti ambedue da pari ardore, intenti a ciò che era da fare non a ciò che ne patirebbono, avventano impetuosamente i cavalli uno a fronte dell’altro, e vibransi colle aste colpi vicendevoli, non reparabili cogli scudi, nè con gli usberghi, immergendone la punta chi nelle coste, e chi nelle viscere. Urtatisi per la foga del corso i cavalli nel petto, eievaronsi su pie’ di dietro, e girandosi colla cervice rovesciarono i cavalieri. Cosi caduti giaceansi versando sangue in copia dalle ferite, e lottando colla morte. Come le milizie videro caduti i duci loro, spiccaronsi tra clamori e strepito, e sorsene battaglia, quant’ altre mai ferocissima, di fanti e di cavalieri ; con sorte non dissimile. Imperocché li Romani dell’ ala destra comandati da Valerio console vinsero li Vejenti, ed incalzandoli 6no agli alloggiamenti, copersero il campo di stragi. Per l’ opposito i Tirreni dell’ ala destra guidata da Tito e da Sesto figli del tiranno misero in volta i Romani dell’ala sinistra, e corsi presso alle loro trincierò usarono perfino tentare se poteano in quell’ impeto primo espugnarle. Ma contrastati e feriti assai da quei che v’ erano dentro, si ripiegarono. Àveanci di guardia i Triarj, cosi detti, veterani peritissimi di guerra pel lungo esercizio, e soliti riservarsi pe’ cimenti più gravi, quando ogn’ altra speranza vien meno. XVI. E fattosi già il sole presso l’ occaso, tornarono gli uni e gli altri a’ proprj alloggiamenti non ti lieti per la viuoria, che doleati per la moltitudine de’ perduti compagni. E se doveasi far nuova battaglia non credeano bastarvi quanti erano intatti fra loro ; essendo i più feriti : se non che più grande era I’ abbattimento, e la diffidenza ne’ Romani per la morte del comandante; in guisa che venne a molti in pensiero che fosse il loro migliore di abbandonare prima del di le trìnciere. Ma intanto che cosi pensavano e dicevano usci circa la prima vigilia dal bosco presso al quale accampavano una voce, sia del genio tutelare del bosco medesimo, sia di Fauno che chiamano, la quale rimbombò su l’uno e l’altro esercito, sensibilissima a tutù. A Fauno ascriveano i Romani i panici timori, e tutte le visioni che varie ne’ luoghi varj presentansi spaventosamente ai mortali : e di questo Dio dicono che sian opera le chia mate fatte dal cielo, le quali tanto perturbano chi le ascolta. Animava questa voce i Romani a bene operare quasi avessero vinto, significando come era morto uno di più tra’ nemici : e dicono che levatosi a tal voce Valerio ne andasse nel cuor della notte agli alloggiamenti de’ Tirreni, e che uccidendoveli per la più parte, o fugandoneli s’ impadronisse del campo. Tal fu l’esito di questa battaglia. Nel giorno appresso i Romani spogliarono i cadaveri de’ nemici ; • seppelliti quelli de’ suoi, partirono. I migliori de’ cavalieri, presolo con molta onorificenza e con lagnme, riportavano a Roma il corpo di Bruto in mezzo ai fregi della propria virtù. Mossero all’ incontro di essi il Senato che avea decretato che si portasse il duce con pompa trionfale, ed il popolo che ricevè l’ esercito con BIOaiGl, torneai. crateri colmi di vino e con mense. Giunti nella città ; il console ne trionfò come i re soleano, quando solennizzavano i sagriBzj e le pompe pe’ trofei ; ed offerse a’ numi le spoglie, e fe' di quei giorno una festa, convitando i più riguardevoli de cittadini. Pigliata nel giorno appresso lugubre veste, ed esposto il cadavere di Bruto su magnidco letto in splendido ornamento nel F oro, vi convocò la moltitudine, e salito in palco, ve ne recitò 1’ elogio funebre. Io non so ben discemere se Valerio il primo introdusse in Roma quel costume, o se dai re io desunse : ben so che tia Romani antichissima é la istituzione degli elogi nella morte de’ valentuomini ; e so da’ pubblici documenti di poeti antichi, e di storici famosissimi che non i Greci i primi la fondarono. Imperocché le vecchie storie danno a conoscere che ci aveano in morte di uomini insigni, combattimenti equestri e ginnici, come Achille ne fe’ su Patroclo, e come Ercole, prima ancora, su Pelope : ma che gli encomj se ne recitassero, ninno lo scrive se non i tragici di Atene, i quali adulando la propria città, favoleggiarono che avesse ciò luogo nei sepolti da Teseo. Laddove tardi istituirono gli Ateniesi per legge le funebri laudazioni ; sia che le incominciassero su quelli che morirono per la patria ad Artemisio, a Salamina, a Platea, sia che su quelli i quali caddero a .Maratona. E la impresa di Maratona, se in quella sì cominciarono gli elogj pe’ defonti, è più tarda della morte di Bruto per sedici anni. Che se alcuno, lasciando d’ investigare quali stabilissero prima i lugubri encomi, voglia esaminare presso chi sia la legge meglio ordinata ; la troverà tanto più savia tra questi che tra quelli, quanto che gli Ateniesi introdussero i pubblici elogi mortuali, pe’ defunti in battaglia, quasi estimassero la bontà del solo termine glorioso della vita, sebbene al> tronde indegnissima : laddove i Komani destinarono tal6 onore non al soli estinti nel combattere, ma a tutti gli uomini, insigni per sublimi consigli, o per belle operazioni, sia che in città, sia che in guerra avessero comandato, ovunque morissero, giudicando che debbansi i valentuomini celebrare non per la sola morte luminosa, ma per tutte le virtù della vita. Così muore Giuoio Bruto, colui che schiantò la tirannia, che primo fu console dichiarato, che tardi rendutosi illustre 6orl sì, piccini tempo, ma fortissimo parve fra tutti. Non lasciò prole non di maschi non di femmine, come scrivono gli storici i quali esaminarono le cose de’ Romani, ancor le più chiare : di che ne allegano molti argomenti ; e questo infra gli altri non facile a vincersi, che egli era dell’ ordine de’ patrizj ; laddove quei che si dicono originati da lui li Giunj e li Bruti eran tutti plebei, perocché conseguivano le cariche degli edili e de’ tribuni, che son quelle che per legge a’ plebei si permettono, e non il consolato, cui niun conseguiva fuorché li Patrizj. E quando questa dignità si concedette ancora a’ plebei coloro non la ottennero se non tardi. Ma lasciamo che discutano ciò quelli a’ quali si appartiene conoscerlo più chiaramente. XIX. Dopo la morte di Bruto, Valerio il collega suo, divenne sospetto al popolo quasi cercasse lo scettro ; primieramente perchè tenea solo il comando, dovendo far subito eleggersi un compagno, come quando Bruto ripudiò Gollatino ; e poi perchè aveasi fabbricato la casa in sito invidiato, preso nella parte alta e dirotta del colle, il quale chiamasi Yelio e domina il Foro. Convinto però da' suoi come ciò dispiaceva al popolo, pre&sse il giorno pe’ comizj e fe’ darsi un compagno in Spurio Lucrezio. E morendo costui dopo pochi giorni della sua magistratura, sostituì Marc' Orazio ; e trasferì r abitazione sua dalle cime alle radici del colle, perchè i Jtomani, come ei disse concionando, potessero tempestarlo co sassi date alto se trovavano eh ei facesse ingiustizia. E volendo rendere il popolo più certo della sua libertà levò le scuri dai fàsci, dando ai consoli sue cessivi il costume, durevole pur ne’ miei giorni, di usare le scuri quando escono di città, ma di non portare nell’ interno di essa che i fasci soli. Fondò leggi piene di amicizia e di sollievo inverso del popolo; proibendo con una manifestamente che niun de’ Romani andasse alle magistrature se dal popolo non le prendeva; con pena di morte a chi contravvenisse, e licenza a tutti di ucciderlo. Con altra legge si decretava : Se un magistrato Romano voglia uccidere, o battere, o multare alcuno in danari; possa f uomo privato appellarne al popolo senza che intanto niente ne soffra dal magistrato finché il popolo ne sentenzii. Or siccome onoravasi con tali regolamenti il popolo ; cosi ne diedero al console il nome di poplicola, che in greco appunto significa curatore del popolò. E tali sono le cose fatte in quell’ anno dai consoli. Nell anno seguente è di nuovo creato console VALERIO, e con esso LUCREZIO: ma non si fece nulla di memorabile se non il censo de’ beni, e la tas sazion dei tributi per la guerra secondo le istituzioni di Tullio re : cose tutte sospese nel regno di Tarquinio, e rinovate da essi la prima volta. Trovaronsi in Roma idonei alle arme cento trenta mila : e fu spedito un esercito per guardia a Sincerio (z), luogo di frontiera contro i Latini e gli Ernie! da’ quali si aspettava la guerra. Creali consoli (3) Valerio detto Poplicola per la terza volta e Marc’ Orazio con esso per la seconda, 'Laro, re di Chiusi nell’ Etrurìa, quegli che Porsena si cognominava, promise ai Tarquinj ricorsi a lui, 1’ una di queste due cose, o di riconciliarli co’ Romani pel ritorno, e la ricuperazion del comando o che ripiglie rebbe e renderebbe ad essi i beni de’ quali erano stati spogliati. Imperocché spediti 1’ anno precedente amba>> sciadori a Roma, i quali portavano preghiere miste a minacce, non aveaci ottenuto nè la riconciliazione, nè il ritorno de’ Tarquinj; pretestando il Senato le imprecazioni e li giuramenti fatti contro di questi, nè aveaiie riavuto i beni, negando restituirli coloro che se gli aveano divisi, e godevanli. E non contentato in niuna delle domande, e chiamandosene vilipeso e conculcato, a46 secondo Catone e a4S secondo Varrone dalla fondazione di Roma, e 5o6 STanti Cristo. (a) Nel Codice Vaticano sì legge Tiiionirio. (3) a47 sec. Ceti e a4g see. Var. dalla fondazione di Boma, e 5o5 avanti Cristo] arrogante altronde, e briaco per 1’ ampiezza delle sue ricchezze e dominio, credette avere cagioni assai per abbattere la signoria de’ Romani, come già per addietro desiderava, ed intimò loro la guerra. A lui si con giunse Ottavio Mnmilio il genero di Tarquinio sul disegnò di mostrare tutto 1' ardore suo per la guerra. Egli si mosse dalla città del Tuscolo e menò seco i Carne rifai, e gli Antemnati, lignaggio latino, alienali già palesemente da’ Romani, e molti volontarj suoi fautori, delle altre genti Latine le quali ricusavansi ad una guerra manifesta contro di una città confederata, e tanto poderosa. Saputo ciò li consoli romani ordinarono a’tmltivatori di portare masserìzie, bestiami, e schiavi ai monti vicini, fabbricandovi -ne’ luoghi forti de’ castelli, opportuni a difendere chi vi si riparava. Quindi premunirono con più potenti maniere e con guarnigioni il Gianicolo, alto colle, cosi chiamato, nelle vicinanze di Roma di là dal Tevere, e provvidero con ogni diligenza perchè non divenisse un baluardo pe’ nemici contro la città, e vi depositarono gli apparecchi per la guerra. Quanto alle cose interne della città le disposero, ancor più propiziamente verso del popolo, diffondendo assai beneficenze su’ poveri, perchè questi non si ripiegassero in verso de’ tiranni, nè tradissero per 1’ utile proprio, il comune ; imperocché decretarono che fossero immani da’ tributi pubblici, quanti al tempo dei te ne pagavano, nè soggiacessero a spese di milizia e guerra, giudicandoli assai contribuirvi se la persona esponevano per la patria. Collocarono nel campo dinanzi Roma la milizia preparata ed esercitata già da gran tempo. Giunto il re Porsena coll’ esercito espugnò di assalto il Gianicolo, spaventandovi i Romani che lo presidiavano, e sostituendovi guarnigione tirrena. Quindi marciò verso la città quasi avesse a prenderla senza fa tica. Ma fattosi ornai prossimo al ponte, e visti accampati i Romani nella riva a lui più vicina del fiume si apparecchiò per combattere, in guisa da sopraffarli col numero, e spinse assai spregiantemente innanzi la milizia. Reggeano l’ ala sinistra Tito e Sesto figli di Tarquinio, tenendo sotto gli ordini loro i fuorusciti da Roma, il fiore della gente di Gabio, e stranieri, e mercenari non pochi. Mamilio il genero di Tarqninio comandava la destra ov’ erano i Latini ribellatisi da’ Romani: finalmente il re Porsena avea la fanteria schierata nel centro. Ma Spurio Largio, e Tito Erminio teneano l’ala destra de’ Romani contro ai Tarquinj: Marco Va lerio, fratello del console Poplicola, e Tito Lucrezio il console dell’ anno precedente stavano colla sinistra a fronte di Mamilio e de’ Latini. Moveano tutti due i consoli il corpo fra le due ale. Fattasi alle mani combattè virilmente l’una e l’altra milizia con lunga resistenza; superando i Romani per esperienza e fortezza i Tirreni e i Latini ; ma potendo questi assai più de’ primi col numero. Alfine cadendone quinci e quindi in gran copia s’ intimorirono prima i Romani dell’ aia sinistra in vedere i loro duci Valerio e Lucrezio feriti, e portati fuori della battaglia ; e poi, quando mirarono in piega i loro compagni, sbigoltironai aneli’ essi, quei dell’ala destra sebbene ornai vincitori delle schiere de’ Tarqainj. E fuggendosi tutti alla città, |>recipitosi, in folla, su per un ponte solo ; piombavAno intanto su loro ferocissimi gl’ inimici : e poco mancato sarebbevi che Roma priva di mura dalla banda del fiume, fosse espugnata, se i vincitori investita 1’ avessero misti co’ fuggitivi. Se non che sostennero r inimico, e salvarono tutto 1’ esercito tre uomini, due seniori, Spurio Largio, e Tito Erminio, appunto i duci dell’ ala destra, e Publio Orazio, un giovine, il più beilo, il più valoroso de’ mortali Coclite detto dallo strazio degli occhi, per essergliene stato di velto uno in battaglia. Era questi figlio dei fratello di Marc’ Orazio console, e traeva la origine sua generosa da Marco Orazio 1' uno de’ trigemiai che vinse già li tre Albani,. quando le città guerreggiando per la preminenza. accordaronsi a non cimentarsi con tutte le forze, ma con soli tre uomini, come fu dichiarato nei libri antecedenti. Questi soli fattisi alla lesta del ponte disputarono gran tempo il passo al nimico, fermi sul posto medesimo, in mezzo a nembo di strali e tra ’l fulminar delle spade, finché tutta l’armata ripassò di qua dal fiume. Come però videro in salvo i suoi, Erminio e Largio, laceri già nell’ armatura pe’ colpi incessanti, si ritirarono a grado a grado. Orazio però, sebbene dalla città lo richiamassero i cittadini ed il console, e tentassero per ogni via di salvare un tal uomo ai parenti e alla patria, Orazio solo non ubbidì, ma nel posto suo si rimase come dianzi, raccomandando ad Erminio di dire in suo nome ai consoli che tagliassero verso la città, quanto prima potevano il ponte. Era di quel tempo il ponte uno solo e di legno, con tavole congiunte per sè stesse e non per ferrei grappi, quale custodiscesi tuttavia dai Romani : raccomandò nemmeno che quando avessero sconnesso il più del ponte, quando picciola parte resterebbe a disfarne, a lui lo dichiarassero con certi segni, o con sonora voce. Lasciassero a lui poi la cura del resto. Cosi ricordando a que’due si tenne in snl ponte, e parte col ferir della spada, parte col dar dello scudo, ne respinse, quanti investendolo, vi si avventavano. E già quelli che perseguitavano il romano non ardivano più venire alle mani con esso, come preso da furore e fermo di morire , molto più che non era facile andar fino a lui, che aveva a destra e a sinistra il fiume, e dinanzi un monte di cadaveri e di armi : ma tenendosegli discosti Io bersagliavano in folla con lance, e dardi, e sassi quali empirebbon la mano ; o coi brandi e coi scudi degli estinti, se non aveano i primi stromenti. Resistea colui colle armi loro medesime : tirando su la moltitudine ; sempre, com’ è verisimile, colpiva alcuno. E già percosso, già carico egli era di ferite in più parti del corpo, già un colpo portatogli direttamente per la coscia alla testa del femore, lo addolorava e difficoltava nel caminare; quando, udendo gridarsegli addietro essere il ponte nella sua più gran parte disciolto, si gettò di un salto colle arme nel fiume. E valicatolo a stento, perchè divenuto rapido e molto vorticoso per le travi che già sostenevano il pon te, e che ora abbattute rompevano il corso delle acque, fecesi a terra finalmente senza avere in quel tragitto perduta niuna delle armi. Tale azione produsse a lui gloria immortale : e li Romani coronandolo lo portarono immantinente per la città com’ nno degli eroi tra’ cantici trion&li. RU versavasi la urbana moltitudine, finché le era permesso, per desiderio di vederlo, almeno nell’ ultimo presentarsele; sembrandole che tra non molto morirebbe per le ferite. Scampò tuttavia da morte; ed il popolo mise nella parte più cospicua del Foro la statua metallica di lui com’ era fra le armi ; e diedegli del terreno pubblico quanto ne potrebbe in un giorno un pajo di buovi arare d’ intorno ; e senza contare i pubblici doni, ogni uomo o donna, i quali erano insieme più che trecento mila, gli recarono ciascuno il vitto di nn giorno mentre era fra tutti terribile la peuorta. Orazio dimostrala in tal tempo tanu virtù parve più che tutti i Romani invidiabile. C quantunque, divenuto perchè zoppo, inutile ad altr’ incarichi nou potesse in vista di tale sciagura conseguire nè il consolato, nè altre militari presidenze ; nondimeno per le gesta meravigliose fatte da lui, vedendolo tutti ì Romani, in quella battaglia, merita di esserne encomiato quanto mai lo fosse ciascuno de’ più famosi per la fortezza. Cajo Muzio, soprannominato Cordo, sceso da chiari antenati, anch’ egli si mise ad una nobilissima impresa. Io ne dirò tra poco dopo esposti i mali che allora ingombravano Roma. Dopo quella battaglia il re dei Tirreni collocatosi nel monte vicino, dal quale avea discacciato il presidio romano, dominava tutta la campagna di là dal Tevere. Li figli di Tarquinio, e Mamilio il genero di lui tragittando le milizie loro picciole barche aU. ' i3y r altra riva per cui vasai a Roma, accampamsi in luogo ben forte. Donde slauciandosi davano ilguasto alle terre, ed agli alloggi pe’ bestiami, e piomavano su’ bestiami stessi che uscivano dai sicuri luo^i per pascere. Ora essendo tutto 1 aperto in balìa el iie mico, nè più di qua, nè più sopra il fiume reandoai in città le merci se non scarsissime; vi riuscì be tosto carestia gravissima ; consumandovi tante raigliaja Iprovvigioni già fattevi, che non erano copiose. Allea gli schiavi, abbandonandoli ogni giorno, in buon nttiero, disertavano dai padroni, e li più malvagi del ppolo trasferivansi alle parti del tiranno. In vista di ciò arve ai consoli di supplicare i Latini i quali riverivano' le> gami del sangue, e sembravano fidi ancora, che ian> dassero come prima potean de’ rinforzi : e di spjire ambasciadori a Cuma nella Campania, ed alle itià Fomentine per ottenerne dei grani. Non sovvenneri ad essi i Latini ; come quelli che non credevano giusti far guerra con Tarquinio nè co’ Romani, avendo con mbedue vincolo di amicizia : ma Erminio e Largio pediti commissari pel trasporto de’ frumenti, avendo trincate da’ campi Pomentini più barche di ogni vettvaglia, le introdussero in una notte senza luna dal tare EU pel fiume, in occulto de’ nemici. Ma venuta mno ben tosto pur questa provvigione, e ridottisi gli uoainì ai disagi di prima ; Porsena chiarito dai disertori cime, que’ eh’ eran dentro vi penuriavano, mandò arabi ad essi intimando che ricevessero Tarquinio se veleno liberarsi dalla guerra e dalla fame. Non comportarono i Romani il coaando, risola piuttosto di subirne ogni male. Ma prevedendo > Musi' che l’una delle due ne seguirebbe, o che vinti dal bogno non terrebbono gran tempo la parola, o che aendola ne perirebbono sgraziatissimamente; pregò li coioli che gli adunassero il Senato, come volesse proprgli grandi e rilevantissime cose : e radunatosegli, disse Io medito o senatori una impresa, donde il popo nostro s’involi da’ mali presenti. Ardita molto ella ì questa, ma facile, io penso, da compierla. Beri, riuscendomi, poco, ower nulla io spero su la mie vita. Ora essendo io per espormi a tali pericoli, anaaiovi da speranze sublimi, non ho voluto che, voitutti lo ignoraste ; perchè se mi accada di mancar la trova, io sitine celebrato almeno per V azione bellis.ma, e me ne abbia gloria eterna in luogo del capo mortale. Già non era sicuro palesar quanto mcchino al popolo, perchè niuno spinto dall util suo ne riferisse à nemici, quando è ciò da nascondersi cote arcano indicibile. Pertanto a voi primi e soli maniestolo, i quali, ne confido, lo tacerete: gli altri da vo r udiranno a suo tempo. La impresa che io medito è mesta : Fintomi disertore, andrommene al campo Treno. Se non mi ciedono e muojo, voi non avrete peduto che un cittadino : laddove se mi riesce introdumi in quel campo ; io vi prometto di uccidervi il sue re. Caduto Porsena, sarà per voi finita la guerra. Io pronto sono ad ogni sorte, qualunque gli Dei me ne òstinino : e tenendo voi per consapevoli e teslimonj miei presso del popolo, e pigliando il genio buoni della patria per guida, portomi^ e vado. Encomiatone dai senatori presenti, ed avuti gli augurj propizj per la impresa, passa il Tevere : e giunto agli alloggiamenti de’ Tirreni, ne penetra come nno di essi le porte, deludendone le guardie : perchè non portava arme visibili, e perchè parlava alla tir> rena, come eravi fanciullo stato istruito dalla sua natrice tirrena. Approssimatosi al Foro ed alla tecda del principe vedevi un uomo cospicuo per grandezza e complessione di membra seduto in veste di porpora nel tribunale in mezzo a molti che armati lo circondavano. Or pensò, ma indarno, che costui fosse Porsena, non avendo altra volta mai veduto il re de’ Tirreni : ma egli non era che il regio scriba il quale sedea nel tribunale e numerava i soldati, e registravano i pagamenti. Inoltrasi a tal vista tra la moltitudine fino allo scriba, e salito, senza esserne impedito perchè inerme, snl tribunale, cava il pugnale che celava sotto l’abito, e daglielo in capo. Ucciso con un colpo lo scriba, egli è preso immantinente e portato al re già consapevole della strage. Il quale vedutolo appena, Ah scelleralissimo ! esclama, pagherai ben presto le pene che meritasti. Dì, chi sei ? donde vieni ? e su qual confidenza osasti un tanto attentato ? Destinavi la sola morte delio scriba, o la mia parimente ? quali compagni hai tu della perfidia? Non celarmelo, o li tormenti vi ti forzeranno. E Muzio non presentando pur un segno di paura non col variar del colore, non colla fissezza dei pensieri, nè con altre affezioni solite in chi dee punirsi (li morte gli rispose : lo sono un Romano: venni qual diserlom ed tuo campo, nè già per causa vile, ma per liberare la patria dalla guerra, lo voleva uccidere te, qu$nUmque io non ignorava che o riuscissi o fai' lèssi tujl colpo io ne dovrei morire : io destinava con' secrard alta patria la vita, e lasciarle pel corpo che essa àveami dato, una gloria sempiterna. Errai : e causa ifelT errore furono la porpora, lo scanno, e le altre irfsegne del comando. Uccisi chi non voleva !. . lo scriba tuo per te stesso. Pertanto io non ricuso la morte thè io decretava a me medesimo nell accingermi a rfuesta impresa. Che se tu giuri per gli Dei di risparmiarmi li tormenti e gli ohbrobrj ; io prometto che ti svelerò cose, gravissime per la tua salvezza. Cosi Muzio diceva per deluderlo. E colui come attonito, e temendo pericoli non veri da molti, glie lo giurò. Muzio allora ideato un inganno del quale non potea convincersi : disse : O re, trecento Romani tutti a ma pari di età, tutti patrizj di condizione, abbiamo mac' chinata di ucciderli, dandocene vicendevoli giuramenti. Pavé, a noi quando ci consultavamo su le maniere insìiiarli, che non tutti insieme ci ponessimo a questa impresa, ma ciascuno da sà, tacendo perfno ai compagni, quando, dove, come, e con quale occasione £ investirebbe, acciocché facile ci fosse di occulterei. Cosi macchinando, ci demmo le sorti, ed io me la ebbi il primo per cominciare la impresa. Istruito tu dunque che tanti valentuomini hanno sete egiude di gloria, e che forse alcuno la sazierà con successo più fausto del mio ; deh ! considera se possi more mai guardia abbastanza che ti d fenda. Il re ciò udendo comanda al atelliti che incalenino costui, se lo menino, e lo custodiscano diii> gentissimamente : egli poi convocando i più amici, e facendo che Arunte il figlio suo gli sedesse da presso, ragionò con essi le maniere da far vane le insidie : ma suggerendone gli altri picciole cose ; non pareano cogliere il punto : quando il figlio suo propose un consiglio, superiore all’ età ; perciocché volea che non si pensasse a guardie onde precludere i mali, ma piuttosto a far quello per cui le guardie non bisognassero. E maravigliandosi tutti del suo consiglio, e desiderando sapere come lo eseguirebbe ; col farci, ei disse, amici i nemici, e col pregiare o padre, la salvezza tua più che il ritorno degli esuli. Soggiunse il re: cìut egli ben diceva, ma essere da consultare come consdignità si pacificassero. Sarebbe gran vitupero, se egli che uvea superato in battaglia, e tenea ristretti i Romani fra le mura si ritirava, senza compiere quanto avea promesso ai Tarquinj, quasi vinto dai vinti, e quasi fuggisse chi non ardiva nemmeno uscire dalle porte. Facea conoscere che l’unico mezzo da togliere le niniicizie sarebbe, se gli avversar) mandassero ambasciadori per trattare gli accordi. Cosi disse in quel giorno agli astanti ed al figlio: tuttavia pochi giorni dipoi fu necessitato egli il primo a fare proposizioni di pace per questa cagione. Sbandatisi intorno i suoi militari, e datisi a predar di continuo quei che recavano in città le merci; i consoli Romani se ne misero in buon luogo alle insidie, e molti ue uccisero, e più ancora ne imprigionarono. Di ohè nuioontenti i Tirreni ne facean crocchio e sussurro iocolpaodo il monarca e i duci suoi sul tanto prolungarsi della guerra, e sfogandosi in desiderj di rendersi alle lor case. Or vedendo come tutti gradirebbero ma nilestamente la pace spedi per trattarla i più intimi suoi. Scrissero alcuni che fu con essi spedito anche Muzio sul giuramento di tornare poscia al monarca: ma vo glion altri che fosse piuttosto custodito come ostaggio nel campo fino alla pace : il che forse è più verisimile.' Questi poi furono gli ordini che il re diede a’ commise sarj ; non dicessero parola sul ritorno de Tarquinj ; ma ne raddomandassero i beni, principalmente gli ereditar] dal canto di Tarquinio P antico, già posseduti da essi bitoncunenle : e se ciò ricusatasi; dessero almeno, quant’ era possibile, i compensi delle case, de' bestiami, de' campi, delle raccolte, come purea loro espediente, col danaro del pubblico, o de' possessori, ed usufruttuarj atlucdi de' beni. E ciò quanto ad essi. Chiedessero poi > per lui che deponea le inimicizie li sette pagi, cosi detti, antico luogo dell' Etruria, invaso da Romani nella guerra e tolto aproprielarj, e finalmente chiedessero de' giovani delle famiglie più insigni, per ostaggio, che i Romaai si terrebbono amici costanti de' Tirreni.Venuti i deputati a Roma, il Senato per in sinuazione di Poplicoia console si risolvè di accordarne tutte le dimande in vista della penuria che alHigeva il popolo e. la classe de poveri ; onde accettissima sarebbe loro una pace, giusta nelle condizioni. Il popolo ratificò tutti gli articoli del decreto del Senato; non soffri però die si vendessero i beni, o si desse a’ Tarquinj danaro, privato nè pubblico, e volle che si mandassero ambasciatori a Porsena perchè si contentasse degli ostaggi e della regione che dimandava. Quanto ai beni egli giudice fosse tra’ Romani e tra Tarquinio, udisse 1’ una e r altra parte, e ne sentenziasse non per favore nè per nimicizia. Partirono i Tirreni con questa risposta, e con essi gli ambasciadori del popolo i quali conduceano per ostaggi venti giovani delle famiglie più illustri, avendo i primi dato i consoli Marco Orazio il 6gl lo, e Publio Valerio la figlia, idonea già per le nozze. Pervenuti questi nel campo, il re dilettatone, e moltolodati i Romani, conchiuse una tregua per un numero certo di giorni, e prese a giudicare la causa. Baltristaronsi però li Tarquinj, caduti dalle speranze più lusinghiere, che avrebbegli quel monarca ricondotti sui trono ; e per necessità dovéttero acconciarsi alle circostanze, e prendere clocch’era lor conceduto. Giunti da Roma al tempo ordinato i più anziani de’ senatori e gii oratori della eausa ; il re sedutosi cogli amici nel tribunale, ed assunto anche il figlio per giudice ; intimò che parlassero. Trattavasi ancora la causa, quando un tale annunziò che gli ostaggi s’ eran fuggiti. Perciocché le donzelle tra' questi, avuta come la chiedeano, la facoltà di andare e di bagnarsi nel fiume, andatevi, dissero agli uomini che alquanto se ne discQstassero, finché lavate e rivestite si fossero, sicché non le vedessero nude. Or questi cosi facendo ; quelle gitlatesi a nuoto ripararonsi a Roma, eccitatevi da Clelia che le precedeva. A ul nuova Tarqutnto assai rimproverava li Romani di iperginro e di mala fede, e provocava il sovrano perchè più non gli adisse, come divenuto il giuoco dei loro tradimenti. Esciisavasi il console, dicendo queir opera, tutta delle donzelle, senza voler del Senato: e che presto dimostrerebbe che niente era per inganno. Persuasone il re concedè che andasse e rimeuasse come pròmettea le fanciulle. Andò Valerio appunto con tal fine: Dia Tarquinio e il genero macchinarono in onta di ogni diritto un opera infanóissima, e spedirono in su la strada una banda di cavalieri per sorprendere le fanciulle ricondotte, il console, e quanti tornavano al campo, e ritenersene le persone pe’ beni tolti da’ Romani a’ Tarqninj, senz’ aspettare il fine del giudizio. Ma non permisero gl’ IJdj che succedesse loro secondo il disegno : perché mentre gl’ insidiatori uscivano dal .campo Latino per sopraffarsi a que’ che venivano, il console romano era già passato innanzi colle fanciulle : e già era alle porte degli alloggiamenti Tirreni quando fu sopraggiunte da’ persecutori. Si fe’ qui mischia fra loro, ma ben presto fu nota a’ Tirreni, e ne corsero frettolosissimi in ajuto il figlio del re con de’ cavalieri, e la schiera dei fanti che stava di guardia innanzi del campo. Sdegnatosi di ciò Porsena convocò li Tirreni > e narrò come essendo egli fatto giudice da’ Romani di quello ond’ erano accusati da Tarquinio ; gli espulsi, e bene a diritto, da loro, aveano tentato di violare, le persone sacre degli ambasciadori e degli ostaggi, in tempo di tregua, e prima che si decidesse la causa. Dond’ è che i Tirreni assolvettero su di ogni richiamo i Romani, e togliendosi all amicizia di Manilio e di Tarquinio, intimarono loro cb’ entro il pros rimo giorno si ritirassero. Così lì Tarquinj pieni in principio di belle speranze per 1’ ajuto de Tirreni, o di essere di nuovo i tiranni di Roma, o di ricuperare! loro beni, perderono 1 uno e 1 altro per la offesa degli ostaggi e degli ambasciatori, e partirono con infamia, e con odio dai campo. Il re poi de Tirreni facendosi condurre gli ostaggi dinanzi dei tribunale gli rendette al console, dicendogli che pregiava la fedeltà de' Romani più di ogni ostaggio. R lodando Clelia, che avea persuaso le compagne di passare a nuoto il fiume, come ne suoi pensieri maggiore del sesso e della età, e feli citando Roma perchè allevava non pure de valentuo mini ma delle eroine, regalò la donzella di un cavallo generoso, e magniCcamente bardato. Sciolta radunanza fe’ cogli ambasciatori de Romani gli accordi e li giuramenti di pace e di amicizia, e li onorò come ospiti, e restituì senza prezzo, perchè li recassero in dono alla loro città, tutti li prigionieri, che eran pur molti : ordinò che rimanessero com erano i padiglioni suoi, fatti non come per breve durata su le terre altrui, ma fregiati, quasi una città, con private e pubbliche spese; quantunque i Tirreni dopo avervi alloggiato, usassero di. t noti serbarli. E fu questo, se in danaro si .calcola, non picciolo dono pe Romani, come lo di chiarò la vendita fattane da questori dopo la partenza del re. Tal fu la fine della guerra de’ Tirreni e di Laro Porsena la quale avea ridotto i Romani a tanti Dopo la partenza de’ Tirreni adunatosi il Senato Romano decretò che si mandasse a Porsena.il trono di avorio, lo scettro, il diadema e la veste trionfale colla quale i re si adornavano: e che Muzio, espo stosi alla morte per la patria, e cagione principalissima del termine della guerra, si premiasse a spese del pubblico,> come già Orazio che resistè sul ponte, con tanto terreno; di là dal Tevere, quanto poteane in un giorno solcare intorno coll’ aratro : e questo è il terreno che pur nel mio tempo si chiama il prato di Muzio. Cosi fu decretato su gli uomini. Quanto a Clelia concederono che una statua di metallo se le innalzasse, ed i, padri 'delle donzelle glie la innalzarono nella via sacra,' dove mette al Foro : tifa noi non più ve l’ abbiamo trovata ; e dicesi che mancò per un incendio delle case d’intorno. Fu quest’anno compiuto il tempio di Giove Capitolino, dei quale partitamente abbiamo scritto nel libro antecedente. E Marco Orazio console lo consacrò, e lo intitolò prima che potesse tornare Valerio il compagno, uscito per avventura dalla città coll’ esercito, per difenderne la campagna : perocché Mamilio spedendovi a far preda, assai vi danneggiava li coltivatori éhe vi si erano di fresco l'icondótti, lasciate le fortezze. -E questo è ne’ fasti dèi terzo consolato. Spurio Largio e Tito Erniinio consoli dell’anno' quarto io compierono senza guerra. Morì nel 1 • ; I • • • (i| Plutarco sclibenè poslèriore a Dionigi dice che la statua di Clelia esisteva aucora su la via sacra là donde vasai isf e-asAttrter in palatiwn. Casaub. (3) Ad. 348 secondo Catone, e aSo secondo Vatrone dalla fuudasioue di Roma, e 5o4 avanti Cristo] 149 loro consolato Aruote il 6glio di Porsena re de' Tirreni Assediava già da due anni, la città della Riccia, perché conchiusa appena 1’ alleanza co’ Romani, prese dal padre metà dell’ esercito, e marciò contro quella città per sottoporsela, e dominarvi. Ma essendo ornai per espugnarla, sopravvennero a questa de’soccorsi da Anzio,. dal Tuscolo, e da Cuma della Campania. Egli schierò le milizie sue' minori contro le più numerose: ma dopo respinti, dopo incalzati gli altri 6no alla città, peri finalmente, vinto egli stesso dai CumanI condotti dalr r Aristodemo, che Malaco si chiamava. Fuggi, non sostennesi a tale caduta 1’ armata di lui. Molti ne ^ soccomberono incalzati da’ Cumaui ; ma più ancot^ : sbandati ; ridotti senz' arme, nè più Idonei per le ferite a. fuga più lunga, ripararonsi nel territorio non lontano di Roma. Se li menarono i Romani dalle .campagne' in citté^ nelle proprie case, portandovene i più malconci a cavallo., o su carri, o su cocchi: e ciascuno a proprie spese li nudrirono, e curarono, e ristorarongll con sol-, lecitudine molto affettuosa. Di talché molti di loro legati da tanta benevolenza desiderarono non di tornarsene in patria, ma di rimanersi fra tali benefattori ; ed il Senato assegnò loro perclié vi si fabbricasser le case, la valle tra ’l Palanteo, ed il Campidoglio, lunga presso a quattro stadj. Chiamasi questa anch’ oggi nell’ idioma de' Romani la contrada Tirrena ; e vi si passa venendo dal Foro al circo massimo. E per tali cortesi maniere ebbero dal re di quella gente dono non lieve, e che assai li dilettava, la campagna di là dal fiume, ceduta già da essi quando ne ottenner la pace. Cori iSó trìbuUroao agl’ Iddj li sagnfiz) magoìBci che aveano già promesso co’ voti se ricuperavano mai li sette pagi. Correa nell’ anno quinto dopo la espulsione dei re la Olimpiade sessantesima nona, nella quale Iscomaco Crotoniate vinse allo stadio, Acestoride fa 1 arconte di Atene per la seconda volta, e furono consoli Romani Marco Yalerìo, fratello di Valerio Poplicola, e Publio Postumio, detto Tuberto. Arse nel loro consolato un’ altra guerra co’ vicini, la quale cominciò colle prede, e procedette a numerose e grandi battaglie : finché cessò da indi a quattro consolati, dopo essersi nel tempo intermedio sempre stato fra le arme. Imperocché alcuni Sabini considerando Roma indebolita per gl’ incontri suoi co’ Tirreni, quasi non dovesse mai più ricuperare l’antica dignità, ne assalirono, affin di predarli, e certo molto ne danneggiarono, li coltivatori, i quali calavano di bel nuovo dai luoghi forti alla campagna. I Romani prima di prendere le armi spedi rono ambasciadori a chiedere conto e soddisfazione, tal> ché non più molestassero chi lavorava i terreni. Ma non ricevendone che orgogliose risposte, intimarono ad essi la guerra. Valerio il console il piimo con truppe equestri e con fiore di milizie leggere scorse tu que’ rubatori de’ campi, e grande fu la uccisione de' sorpresi nri pascoli, sbandati, com’ è verisimile, nè provvidi del venir de’ nemici. E spedendo i Sabini contr’essi un An. a49 ài Rom. ucondo Caioae, e aSi secondo Varronr, e &o3 vanii Criaio, esercito sotto un duce perito di guerra, i Romani usci rono di bel nuovo con tutte le forze, dirette da ambi li consoli. Postumio mise il campo nelle alture prossime a Roma, pei'cbi uon vi si facesse una subita irruzione da’ fuorusciti. Ma Valerio marciò di fronte al nemico iu riva all’ Aniene, fiume che nella città di Tivoli casca da rupe altissima, e poi corre, dividendoli fra loro, i campi de’ Romani e de’ Sabini, finché vago in vista e dolce a beverne, scende nel Tevere. Erano i Sabini dall’ altra parte del fiume non lungi dalla corrente su di un colle non molto forte, e che poco a poco degrada. In principio gli uni rispettando gli altri esitavano a passare il fiume e farsi alle mani. Ma poi non per calcolo e previdenza di beni, ma rapiti dfiir ira e dall’ ardor di combattere, furono alle prese. Imperocché venuti ad abbeverare i cavalli e far acqua, inoltraronsi molto entro il fiume, vmile allon nel suo corso, perché non accresciuto dalle acque in vernali : e siccome bagnavali appena, poco più su delle ginocchia ; lo trapassarono. Attaccatisi in su le prime pochi con pochi, ecco accorrere altri a difenderli, ognuno dai proprj alloggiamenti, e via via sopraggiungerne di rinforzo, come questi o quelli erano superati. E quando i Romani respingevano i Sabini dal fiume, e quando i Sabini ne toglievano l’uso ai Romani. E molti uccisi e feritivi, ed eccitativisi tutti a combattere, come avviene nelle scaramucce fortuite, sorse ardore eguale di passare il fiume ne’ duci stessi degli eserciti. E primo passandolo il console Romano e con esso r armata sua, ' piombò su li Sabini. Non eransi questi ancora nè bene armati, uè schierati ; pure non esitarono ad accettar la battaglia, inanimiti molto è spregianti, perchè non arcano a farla nè con ambi li consoli, nè con tutte le milizie Romane, e slanciatisi, combatterono con furia di baldanza e di odj. Ardea rivissi ma la battaglia ; ma se 1’ ala destra, or’ era Postnmio il console, superava gli avversar] ed avanzavasi ; la sinistra ‘era travagliata e respinta al fiume. Or saputo ciò 1’ altro console usci coll’ esercito suo : marciava egli pian piano colla fanteria, ma fe’ precedere in fretta colla cavalleria Spurio Largio Seniore, e console dell’ anno precedente. Andato costui di tutta briglia passò facilmente il fiume, che non era guardato da alcuno, e giratosi attorno l ala destra dei toemici pigliò di fianco la cavalleria de’ Sabini., Or qui sorse battaglia diuturna e grave di cavalleria con cavalleria. Frattanto avvicinatosi anche Postumio co’ suoi fanti a queU’ ala ed investitala, molti ne uccise, e molti ne disordinò : di modo che se non sopravveniva la notte, i Sabini avviluppati da’ Romani che già prevalevano, sarebbero stati del tutto disfatti : ma le ombre occultarono qùei'che fuggivano dalla battaglia come inermi e radi, e salvi si ricondussero alle lor case. Impadronironsi i consoli senza combattervi de’ loro alloggiamenti, abbandonati dalle guardie al veder quella fuga : ed occupatevi molte suppellettili, e datele in preda all’esercito, lo rimenarono in patria. Cosi riavutasi Roma, allora la prima volta, da’ inali suoi co’ Tirreni, senti lo spirito antico, ardi come prima arrogarsi 1’ impero su’ vicini, decretò pe’ due 'consoli insieme un trionfo, e di più che si desse a Valerio che era I’udo di questi, un sito nella partepiù distinta del Pallanteo, dove gli si fondasse una casa a spese del pubblico. Questa è la casa innanzi alla quale sta il toro di bronzo, e questa tra tutti i privati e pubblici ediCzj è la sola che ha le porte che aperte si girano in fuori. XL. Presero dopo questi il consolato Publio Valerio Poplicola per la quarta volta, e Tito Lucrezio, di bel nuovo collega suo (a). Quest’ anno le città Sabine, tenuto un congresso comune, decretarono far guerra ai Romani, quasi fosse finita 1’ alleanza loro, per essere caduto dal trono. Tarquinio a cui 1’ aveano giurata. Aveale indotte a ciò,1’ uno de’ figli di Tarquinio, Sesto di nome, il quale coll’ onorare e supplicarne i cittadini primari di ognuna, metteva in tutte un animo per la guerra : anzi aveva a sé guadagnate, e consociate a queste pur le due città Camcria e Fidene, ribellatele da’ Romani. In contraccambio le città lo elessero generalissimo loro con facoltà di reclutare milizia da ognuna, come quelle che aveano perduta la prima battaglia per la insufficienza delle forze, e del capitano. Ed in ciò si adoperavano questi : ma la fortuna volendo contrappcsare i beni al mali di Roma, le diede in luogo degli alleati che le si eranp tolti, un rinforzo, quale non 1() Tra i Greci era grande onarificenia aver le porte che ai apriaaero au.la pubblica strada; e questa servitù della pubblica strada coiopcravasi a gran presso: come è chiaro da ciò che si legge d’Ificrate presso di Aristotele negli Economici. (a|)'An. di Bom. aSo secondo Catone, e aSa secondo Varrone, e 5oa av. Cristo] imperava dal canto de’ nemici. Tito Claudio, un Sid>mo domiciliato a Regillu, nobile e denaroso, fuggissene in seno di lei menando con sé gran parentado, ed amici e clienti in copia, i quali spatriavano con le famiglie ; tanto che tra, questi ce ne avea cinque mila buoni per le arme. E questa dicesi la cagion cbe lo spinse a tra sferire in Roma la sede. I primar) delle città più cospicue alienatisi da lui -lo aveano incolpato di poca affezione verso il pubblico bene, citandolo qual traditore ; come r unico che mal soffriva la guerra, e che avea ripugnato in consiglio a quei che voleano sciolta 1’ alleanza, nè permise che i suoi cittadini AtiGcassero il decreto degli altri. Or temendo egli un giudizio, ove le non sue città sentenzierebbero della sua sorte, raccolse le sue robe, e gli amici, e si congiunse ai Romani, non senza picciolo sbilancio degli affari ; talché parve a tutti la cagion principale dell’ esito propizio della guerra. Per tanto il Senato ed il popolo lo ascrissero tra’ patrizj, lasciandogli in città quanto sito volle per fabbricarvi ; e gli donarono i terreni pubblici tra Fidene e Picenza perchè li • compartisse co’ suoi compagni, da’ quali risultò poi la tribù Claudia che ancora tiene quel nome. Apparecchiatasi appuntp l’ una e 1’ altra parte, li Sabini i primi cavarono le milizie e fecero due accampamenti, r uno all’ aere aperto non lungi da F idene, r altro in Fidene a difesa del popolo, come in rifugio dell’ esercito esterno in caso di sciagura. I consoli Romani al sapere la venuta de’ Sabini contra loro,• uscirono anch’ essi con floride scltiere, e presero campo, separati T ano dall' altro, Valerio a fronte degli allog ' giatnenti sabini all’ aere aperto, e Lncreaio poco più di sopra, in un altura donde potea vedere l’ armata com. pagna. Era disegno de’ Romani di venire quanto prima a giornata per decidere subitamente, e visibilmente la guerra. Ma' il capitano Sabino temendo di attaccare in pieno giorno la baldanza e la robustezza romana, sempre ferma, contro ai casi anche più duri, deliberò di investirla di notte. Quindi facendo preparare quanto era necessari a riempire le fosse, e trascendere il vailo, quando ebbe pronto tutto, voleva tor seco il 6or deU r esercito, ed assalire nel primo sonno le trincee de’Ro mani. Su tal disegno avea fatto intendere all’ armata di Fidene che quando si avvedessero del giunger suo venissero anch’ essi dalla città, ma con armi leggere : ed avea posto in luoghi opportuni gli agguati con ordine, che se andavano dei rinforzi a Valerio dall’altro campo, uscissero loro alle spalle e gli assaltassero fra strepito di voci e di arme. Sesto con tale risoluzione, istruitine e trovativi pronti li centurioni, non aspettava che la opporiobità. Ma un suo disertore venuto al campo romano disse di quella trama al console. Giunsero non molto dopo i cavalieri con dei Sabini che usciti a far legna furono presi. Interrogati questi separatamente c/te mai preparasse il lor capo, risposero, che scale e ponti : ma che dove, o quando fosse per valersene, non lo sapeano. Valerio ciò udendo spedi Marco alr altra armata per divisare a Lucrezio che vi comandava r animo dei nemici, e come si dovessero questi assalire. Poi chiamando egli stesso tribuni e centurioni, dicendo quanto avea raccolto dal disertore, e da’ prigionieri ; confortandoli ad esser magnanimi, e credere cb’ era giunto alfine il tempo sospirato onde prendere' su’ ne mici una luminosa vendetta ; prescrisse ciocché dovessero fare, diede i segni, e rinviò ciascuno alla sua schiera., XLII. Non era ancora la notte a mezzo, quando il duce Sabino fatti levare i soldati, ne condusse il fiore al campo romano, imponendo, a tutti che, taciti, avanzassero senza strepito di arme ; perchè i nemici non si avvedessero di loro prima che fossero giunti. Or come i primi a procedere furono vicini al campo, nè videro ivi lume di fuochi, nè voci vi udirono di sentinelle, assai riprendeano di stoltezza i Romani, quasi tralasciata ogni gtiardia, se la dormissero : c già riempiute le fosse in gran parte, le passavano senza ostacolo alcuno. I Romani però si teneano, non veduti si per le tenebre, ma schierati nello spazio tra i valli e le fosse, e quando chi le passava era loro alle mani, uccidevanlo. Rimase alcun tempo occulta la rovina di chi precedeva a quei, che seguivano. Ma non si tosto quei eh' erano vicini alle iosse videro col chiarore della luna che nasceva, i mucchi incontro de’ cadaveri de’ compagni, e le schiere valide de’ nemici che resistevano; gettarono le armi, e fuggirono. Allora alzato i Romani un altissimogrido, perchè quel grido era segno all’ altra armata, corsero in folla su loro. Lucrezio a quei clamori, spediti subito 1 cavalieri per ispiare se ci aveàno insidie nemiche, si mosse indi a poco egli stesso col fiore della fanteria. Imbattutisi i cavalieri con gli usciti da Fidene per insidiare, li fugarono: ma la fanteria perseguitava) ed uccidevali, : ornai disordinati e sena’ arme, quelli che erano venuti ad assalire il campo romano^ Morirono in teli òombaltimenti circa tredici mila tra Sabini ed al leali, rimanendone prigionieri! quattro mila dugento: ed il campo loro fu preso nel giorno medesimo. la stoltezza, e chiamandoli degni di morte quanti ve ne erano, giacché nè erano grati pe’ beneGzj, nè faceano senno pe’ mali ; ne batterono alla vista del pubblico culle verghe, e poi vi uccisero i più cospicui per nobiltà. Quanto agli altri lasciarono che albergassero come prima, ponendo a coabitare con. essi la guarnigione che era decretata dal Senato, e dandole parte de' terreni tolti a quelli. Dopo ciò ritirarono le truppe dalle teiTe nemiche, e trionfa• rono secondo il decreto del Senato. E tali furono le geste di, questo consolalo. Creato consolo Publio Postumio Tuberto per la seconda volta, e con esso Menenio Agrippa Lanato , fecesi ma con piu schiere la tersa Irmzione dei Sabini prima che i Romani se n avvedessero, e pro> cedette 6n presso le mura di Roma, Risultarono da questa molte uccisioni non solo di agricoltori romani, colti repentinamente da nembo che non aspettavtno prima di ricoverarsi ne’ castelli vicini, ma di quelli eziandio che in città dimoravano. Imperocché Postumio il console riputando insopportabile quella ingiuria; uscì di tutta fretta, con truppe comunque per soccorrere i suoi, pih animoso in vero che savio. I Sabini, visto con quanto dispregio, disordinati, e sbandati si avanzassero verso loro, e latto disegno di ampliarne ancor più la negligenza, partirono con marcia più che ordir naria, quasi fuggissero addietro, finché giunsero ad una selva profonda ove il resto celavasi delle loro milizie. Or qui voltando faccia contrastettero a chi gl'inseguiva; ^ come pure gli occultati nel bosco ne uscirono, vociferando. Ed essendo essi in buon ordine e molti, prostesero gli altri che combattevano disordinati, sbandati, ansanti per lo viaggio ; e rinchiusero in una pendice deserta quanti ne fuggirono, con preoccupare le vie che menavano a Roma. E perocché già la luce era mancata ; posero le arme presso di quésti invigilandoli tutta la notte, sicché taciti non s’ involassero. Saputosi in città r informnio, vi fu gran turbamento, e concorso ai muri, e. timor comune, che i nemici trasportati, dal successo propizio, si presentassero in quella notte a An. di Rom. aSi secoado CaioDe, a53 secondo Varrone, e Sol av. Crino.. 1 5g Roma: e là com piange vans! i morti; qua i commiseravano li sopra vanzatt, come quelli che 'se nop erano immaniineote soccorsi, caderebbero prigionieri per la penuria. Passatasi con tanto mal' in cuore senza sonno la notte, Menenio, nato il giorno, armò li più floridi per anni, e li guidò ben forniti e con ordine a liberare gli assediali nel monte. I Sabini al vedere che ti avan> cavano non li aspettarono ; e tolto il campo si ritirarono, pensando che bastassero loro i vantaggi presenti: e senza indugiarsi gran tempo, tornarono festeggiando alle patrie, ricchi di bestiami, di schiavi, di danari. XLV. Rattristati i Romani dal danno, e credendolo causato da Postumio il console ; deliberarono di mar> ciane sollecitamente con tutte le forze contro la Sabina, desiderosi di rifarsi della perdita inaspettata ' e turpe j molto più che assaissimo gli aveva esulcerati 1’ ambasceria recente e contumeliosa e superba colla quale i nemici, come già vincitori, e prenditori senza contrasto di Roma se non erano ubbiditi, comandav.vno che rendessero ai Tarqninj la patria, cedessero ai vincitori r imperio, e stabilissero il goverho e le leggi, come sarebbero ordinate da questi. Aveano i Romani replicato a tali messaggi, che annunziassero alle loro comuni che i Romani comandavano ai Sabini, di deporre le armi, di sottomettere le loro città, di ubbidire,come per addietro, e ciò fatto di venir supplichevoli per iscusarsi dalle ingiustizie e da’ mali onde gli aveano violati nelle incursioni passate, se voleano pace ed amicizia : ma se ricusa vansi a tanto, aspettassero tra non molto la guerra su le loro città. Cosi comandando e comandati a vicenda, quando ebbero tutto in pronto ; uscirono per la guerra. Conducevano i Sabini il -fiore de’ giovani di ogni città con arme bellissime : e li Romani tutta la milizia urbana e le guarnigioni, concependo che i domestici e li schiavi, e quanti superavano ^ la età militare, bastassero in difesa di Roma e dei castelli della campagna. Cosi concentrati si accamparono ambedue con breve intervallo fra loro non lungi da Ereto, città de’ Sabini. Come gli uni sepper degli altri o per con~ gettura dall’ampiezza degli alloggiamenti, o per ciò che ne udivano da’ prigionieri ; si eccitò ne’ Sabini confi denza e disprezzo inverso la scarsezza degl' inimici ; ma timore ne’ Romani per la moltitudine di essi. Pur fepero cuo^e, e pigliarono qualche speranza su la vittoria pe’ segni mandati loro dal cielo, e per 1’ ultima visione, quando erano 'per ischierarsi, che fu questa : Su le punte dei lanciotti (sono queste le armi che i Romani scagliano nel farsi alle mani; bastoni grossi che ti empion le mani, e lunghi, con ferrei spuntoni nell’ uno e nell’ altro estremo, diritti, nè minori di tre piedi, tanto che le armi, compresovi il ferro, somigliano ad aste mezzane ) su le ferree ponte di. questi lanciotti, piantati tra padiglioni, brillarono delle fiamme ; talché per tutto il campo fu luce continua come di accesi fanali, gran tempo delia notte. Ora come gli auguri dichiaravano ( nè già era difficile intenderlo ), concepirono che gli Dei con tal visione annunziassero loro una sollecita e luminosa vittoria : imperocché tutto cede al fuoco, nè cosa vi è che per esso non consumisi. E _ Dpercfac le fiamme brillarono su le armi loro; uscirono con assai fiducia dalle trinciere, e nell’ estero di tale fi ducia, attaccatisi combatterono, sebbene di tanto minori, co' Sabini. La sperienza eh’ era in essi col vivo amor dei travagli, elevava li a spregiare ogni pericolo. Postumio il primo ebe guidava 1’ ala sinistra, inteso a riparare la passata disfalla urtò 1’ ala destra de’ nemici, non curando la vita per la vittoria : e come chi rapito è da furore, e fermo per ogni via di morire, si lanciò nel mezzo di essi. Allora i soldati i quali erano nell’ al tr’ ala con Menenio ornai stanchi, ornai cacciati di po sto, al conoscere che que’ di Postumio prevalevano su gli emoli, rimbaldanzirono e turbinaronsi su gli avversar] loro. Cosi piegò 1’ una e 1’ altr’ ala de' Sabini, e diedesi pienamente alla fuga. E dopo la perdita delle ale nemmeno quelli che erano ordinati nel centro per sislerono, ma forzati dalla cavalleria Romana che gli assaliva si misero in volta. Tutti al proprio alloggiamento si riparavano, ma i Romani seguendo e investendo, ne invasero 1’ uno e 1’ altro. C se l’esercito ne mico non fu totalmente distrutto, ne fu cagione la notte ed il luogo della sconfitta, che era nella Sabina. Imperocché per la perizia de’ siti chi fuggiva salvavasi in casa più facilmente di quello che lo potesse, per la imperizia sua, sorprendere chi 1’ inseguiva. Nel prossimo giorno i consoli, bruciati i cadaveri dei loro, e raccolte le spoglie, e tra queste le armi abbandonate dai vivi nel fuggire, e trasportando seco non pochi fatti prigionieri, c le robe invase' (non compresevi quelle tolte da’ soldati ) colla pubblica vendita delle quali cose ogaaao riebbe i prestiti, contri' baiti per la spedizione ; tornarono con una luminosa vittoria nella patria. Quindi per decreto del Senato Tubo e r altro ne trionfarono ; Menenio col trionfo primario sedendo su regio carro, Postumio col secondario, e men grandioso, che chiamano della ovazione, altera'tone il nome che era greco, sicché più non distinguesi. Conciossiaché per quanto io ne concepisco o ne trovo in molli degli storici Romani questo trionfo chiamavasi nelle origini Evezione da ciò che vi si praticava : ed il Senato, come Licinio racconta, ora per la prima volta ne ideò la pompa. Differisce quest’ onor secondario dall’ altro, primieramente perchè chi sei gode, entra la dttà colle schiere a piedi e non sul carro come in quello: e poi, perchè non porta come l’altro la toga contraddistinta pe’ ricami varj e per l’oro ; nè la corona pur di oro; ma la toga candida contornata di porpora, la quale è l’ abito nazionale de’ comandanti e de’ consoli, e la corona di alloro (a) : e se tien le altre cose ; in questo cede al primo trionfante, che noU va collo sceturo. Postumio poi, sebbene più che altri segnalato OTaxione tu detta originalmente evatio ; qnindi % !a voce di Virgilio I. 6. Ea. Evantes orgia circum ducehat Phrygias. Questo ovari era dal greco tva^nt il qnale esprimeva le accismasioni fotte con dire ss lasserò Tarquinio, Mamilio, gli Aricini, e cbiunqae davasi per accusatore di quella, iìuchè uditili tutti, seutenziarono essere stata l’alleanza rotta dai Romani; e fecero intendere a Valerio che col suo tempo discuterebbero come aveano a vendicarsi di loro che aveano i diritti calpestati del sangue. In mezzo a tali vicende congiurarono molti servi d’ invadere i luoghi riguardevoli di Roma, e d’ incendiarla in più parti. Se non che datone indizio da’ complici, ne furono ben tosto chiuse le porte dai consoli, e preoccupati i siti forti dai cavalieri. Allora quaiiU erano denunziati partecipi della congiura presi immantinente tra i domestici, o portati dalla campagna, perirono tutti, battuti, tormentati, crociGssi. E tali sono le cose operate in quel consolato. Sotlentrati a tal dignità Servio ^ Sulpizio Camerino, e Manio Tullio Longo , alcuni di Fidene con vooando de’ soldati dal popolo de’ Tarquiniesi occuparono il castello di essa, e parte uccidendo, parte esi liando quelli che si opponevano, ribellarono di nuovo Fidene ai Romani. Venutivi degli ambasciadori da Roma, erano per malmenarli come nemici: ma contenutine da’ seniori, gii esclusero dalla città senza udir nè rispondere. Il Senato quando seppe tali cose' non voleva ancor far guerra co’ Latini, perchè aveva udito che non a tutti piaceano le risoluzioni del congresso, che i poti) An. di Roma 354 secondo Catone, aS 6 secondo Varrone, a 498 STtnli Cristo] poli ia ogni città vi si ricusavano, e perchè certo diceansi più quelli che voleano mantenere 1’ alleanza, che gli altri i quali sciogliere la voleano. Pertanto decretò che Manio un de’ consoli marciasse con armata poderosa contro Fidene: e questi, depredatane impunissimamente la campagna senza che niuno gli si opponesse, ne andò coir esercito fin sotto le mura, e provvide che non più vettovaglie vi s’ introducessero, nè armi, nè soccorso niuno. Ridottisi i Fidenati a guardare le mura, spedirono alle città de’ Latini per implorarne solleciti ajuti. Convocarono i capi di quelle un congresso comune di tutte : e datavi di bel nuovo facoltà di parlare ai Tarquinj come agli altri che venivano dagli assediati, invitarono i consiglieri, cominciando da’ seniori e più cospicui, a djcbiarare il lor voto, e come aveasi a far guerra ai Romani. Dicendovisi molte cose, e prima su la guerra se dovesse ratificarsi, i più torbidi fra i consiglieri insistevano perchè si riconducesse Tarquìnio al trono, e sì volasse in soccorso di Fidene. Essi miravano con questo ad ottenere cariche di comando militare, e mescersi ai grandi affari ; e quelli vi miravano soprattutto, i quali cercavano in patria preminenza, e tirannide, lusingati che avrebbero ad essi ciò procacciato i Tarquinj se ricuperavano il regno. Ma i più agiati e miti ( ed eran questi i più accreditati nel popolo ) chiedeano che si stesse ai patti, non si corresse ciecamente alle armi. Respinti quei che brigavansi per la guerra dai consiglieri di pace, persuasero all’ adunanza che mandasse almeno oratori a Roma perchè la pregassero, ed esortassero a ricevere i Tarquinj e gli altri fuoruscili senza pena e senza memoria d’ Ingiurie : giurasse que ' sto, e si governasse poi di suo modo. Ritirasse però r armata da Fidene ; non potendo essi guardare con Indifferenza che i parenti ed amici loro si spogliassero della patria.' Ma se ricusasse far 1’ una e l’altra di queste cose, le s’ intimasse, che deciderebbonsi per la guerra. Non ignoravano costoro che Roma non pieghe rebbesi nè all’ una nè all’ altra dimanda : ma cercavano pretesti decorosi onde romperla, sperando Intanto di rendersi col tempo e colla buona grazia benevoli i loro contrarj. Concluso questo, fissarono un anno, ai Romani per deliberarsi, come a sè per apparecchiarsi : e nominati gli ambasciadori come parve ai Tarquinj; sciol sero r adunanza. Separatisi i Latini, ognuno per la sua patria, Mamilio e Tarquinlo vedendo che i popoli propendevano alla pacej deposero le speranze che aveano su loro come istabili in tutto. E cangialo consiglio si rivolsero a mettere in Roma stessa una guerra interna, nè preveduta, svegliandovi sedizione tra’ ricchi e tra’ poveri. Imperocché già disunita vi si era, nè più riguardava al ben pubblico una gran parte del popolo, quella principalmente dei bisognosi e degli oppressi dai debiti; e ciò appunto per 'gli usura) che non usavano moderazione ne’ crediti, ma fin carceravano e malmenavano i debitori come schiavi comperati. Su tale notizia spedì Tarquinio a Roma Insieme co’ messaggeri latini persone non sospette con oro. Intramettendosi questi co’ poveri e coi baldanzosi, e parte dando, e parte promettendo se ivi il re sen tornasse; aveano subornato moltissimi. Àdunque fecesi contro i3e’ potenti una congtnra de’ poveri ingenui, e de’ servi màlvagi, i quali stimolati dal desiderio di esser liberi, e disamoratisi de’ padroni perchè aveano punito nell’ anno antecedente i loro conservi, gl’ insidiavano. Ed essendo malcreduti e sospetti, come se venutone il tempo essi pure gli assalirebbero ; con piacere si diedero a chi gl’ invitava. Il disegno poi della congiura era tale. Doveano i capi di essa occupare in una notte senza luna i luoghi eminenti e forti della città ; gli altri poi come intenderebbero dai gridi che gitteriano, aver loro già preso que’ siti opportuni, doveano uccidere tra ’l sonno i proprj padroni, saccheggiare le case doviziose, e spalancare ai tiranni le porte. Ma la providenaa celeste la quale in ogni tempo ha salvato, e salva tuttavia Roma y fe’ traspirare i disegni al consolo Sulpizio. À lui ne diedero indizio due già propensi a Tarquinio, anzi principalissimi nella con> giura, Publio e Marco fratelli, della città di Laurento necessitati da impulso divino. Imperocché si presentarono loro tra’l sonno visioni spaventevoli, minacciandolt di pena gravissima, se non si chetavano e toglievansi dall’ impresa. E già parca loro che i rei genj gl’ incalsassero, li battessero, e sterpassero loro gli occhi, colmandoli di altri mali terribili. Dond’ è che spaventati e tremanti destaronsi, nè più poterono pel turbamento aver calma nel sonno. E su le prime per togliei'si ai genj rei che li conculcavano, tentarono i sagrifizj di propiziazione co’ quali si allontanano i mali. Non traen> done però niun frutto, si rivolsero alla divinazione : e celando lì disegni, perchè non eran da dirsi, cercarono solamente d’intendere se tempo fosse da compiere cioc' chè volevano. Ma rispondendo l’oracolo eh’ essi teneano via di delitto e di perdizione, e che se non mntavan proposito, ne perirebbero infamissimamente; investiti dal timore che altri non li prevenisse nel portare in luce l’arcano, lo indicarono essi medesimi al consolo che in città si trovava. Costui lodatili, con promessa grande ancora di beneficarli se il dir loro a’ fatti corrispondesse; li ritenne ambedue presso di sè y tacendone con chiunque. Allora introdotti in Senato i deputali latini, tenuti a bada fino a quel giorno per la risposta, disse di concerto co' padri : amici, compagni, andate, riferite al comun dei Latini che il popolo di Roma non condiscese prima il ritorno al tiranno su le istanze dei Tdrguiniesi, nè punto appresso vi si commosse irt forza di tutti i Tirreni che ciò domandavano, e guidati da Porsena ci portavano la pià orribile delle guerre; ma che seppe vedere i suoi campi manomessi, ed arsivi li casolari, e perfino ridursi a difendere le sole sue mura per esser libero, e non comandato a fare ciò che non vuole. Dite, che meravigliati ci sia^ mo che sapendo voi ciò, siale venuti a comandarci che ricevessimo il tiranno, e ci levassimo dall assedio di Fidene, con intimarci la guerra se ricusassimo. Cessino di opporci ornai più tali pretesti, fiacchi, impersuasibili, di nimicitia. Nondimeno se vogliono per questo scindersi dalla nostra alleanza e far guerra, più non s’ indugino. Data tale risposta agli ambasciadori, ed accompagnatili per significazione di onore fuori della città, poi disse in Senato delia occulta cospirazione ciocché aveane appreso dai delatori : ed avutane autorità piena d’ investigare L complici, e trovarli, e punirli, non tenne già mezzi orgogliosi e tirannici, come un altro ridotto a tale necessità gli avrebbe tenuti, ma si rivolse a mezzi ragionati, salutevoli, e convenienti al governo d' allora. Imperocché non deliberò che i satelliti snoi svellessero per le case i cittadini dall’ amplesso delle mogli, de’ figli, e de’ padri, e li traessero a morte ; considerando quanta pietà ne sarebbe tra gli attinenti nel distacco de’ cari lor pegni, e temendo che alcuni, disperatisi, corressero alle arme, e si necessitassero ai male a costo di sangue civile. Non deliberò che si erigessero de’uribunali contro di essi; riflettendo come tutti negherebbero, e come non avrebbero i giudici argomenti incontrastabili e saldi, ma semplici denunzie, e colle quali, se credeansi, dovrebbero sentwaziare la morte de’ cittadini. Ma per sorprendere i novatori ideò tal metodo, per cui li capi si adunassero prima spontaneamente in un luogo, e quindi arrestati vi fossero per argomenti indubitabili, che non lasciavano mezzo a discolpe : ideò che fosse questo luogo di unione non una solitudine, o ritiro, dove pochi osservassero, e convincessero; ma il Foro, talché scoperti alla presenza di tutti ne fossero in proporzione puniti, nè sorgesse in città turbamento nè sollevazione degli altri, come suole ne’ castigi de’ congiurati, massimamente in tempi pericolosi. Forse un altro, quasi poco sia bisogno di precisione in tai cose, penserà che basti dir sommarianieute che arrestò tutti i complici de’ maneggi secreti, e gli uccise; ma io riputando degna che ricordisi la maniera onde furono presi, ho risoluto non tralasciarla; perciocché giudico che non basti all’ utile di chi legge le storie conoscere il termine solo de' fatti, (piando brama piuttosto ognuno che gli si espongane le cagioni, le guise delle operaxioni, i pensieri di chi praticavate, e come i Numi li favorissero ; nè gli si taciano le conseguenze che per natura vi si congiungono. Molto più ch’io vedo essere tali cognizioni necessarie agli uomini di Stato, perchè abbiano d^lì esempj co’ (piali dirigersi ne’ varj casi. Or questa fu la maniera ideata dal console per l’arresto de’ congiurati. Chiamati i più validi de’ senatori ordinò che al segno convenuto occupassero in città con seguito di amici e di parenti i luoghi forti ne’ (piali per avventura abitavano : istruì poi li cavalieri a tenersi armati nelL' case più acconcie intorno del Foro, e compiere ciocché sarebbe lor comandato. E perchè nella presa de’ cittadini i loro fautori non si elevassero, nè ci avessero interne stragi nel tumulto, scrisse al console che assediava Fideoe, perché al far della notte marciasse col fior dell’ esercito alla volta di Roma, e lo accampasse nelle alture intorno de’ muri. Ciò preparato; impose ai delatori che venissero circa la mezza notte nei Foro ai capi de’ congiurati con i compagni loro più fidi come a ricevervi 1’ ordine, il posto, ed il segno, in somma come per udirvi ciascuno ciocché avrebbe egli a fare. Or ciò appunto si fece. E poiché tutti questi si furono accolli nel Foro; immantinente al darsene di un segno arcano per essi, i luoghi foni farooo pieni di uomini, armatisi per la patria ; e r intorno del F oro fu guardato da’ cavalieri, sen.ia che via vi lasciassero per chi volea ritirarsene. Intanto Manio r altro console si presentò coll’ armata in campo Marzo. Nato appena il giorno i consoli, cinti da uomini di arme, recaronsi ai tribunali, e fecero che i banditori ~ invitassero pe’ quadrivi il popolo a parlamento. Concorsa la moltitudine, le rivelano il maneggio sul ritorno del tiranno, e le presentano i delatori. Quindi concedendo che si difendesse chiunque volea per ambigua 1’ accusa, nè volgendosi pur uno a respingerla ; passarono dal Foro in Senato per chiedervene la sentenza dai padri: e presa e scrittavela ; tornati al popolo gliela pubblicarono, e tale ne era il tenore. Si desse ai due denunziatori la cittadinanza, e dieci mila dramme di argento a testa, e venti jugeri de’ terreni del pubblico ^ e se così ne paresse al popolo si prendessero i complici della congiura, e si uccidessero. E ratificando il popolo quel decreto, ordinarono che uscissero dal Foro quanti vi erano per 1’ adunanza : e chiamati i littori colle arme, intimarono che dessero morte a tutti li congiurati : e quelli, circondandoli ; appunto ov’ eran già chiusi, trucidarono li colpevoli. Uccisi questi, non che ammettere le incolpazioni su degli altri partecipi, ne assolvettero qualunque era salvo ancora dal supplizio ; e ciò per togliere ogni turbolenza da Roma. Cosi finirono quei che aveano macchinata la congiura. Appresso il Senato ordinò che tutti si purificassero per essere stati ridotti a sentenziare la morte de’ conci ttadini : nè concedersi loro d’intervenire alle sante cose ed ai sagrifizj, prima di esserne rendati mondi e tersi colle espiazioni consuete. E poiché da quei che dirigono le cose divine, a norma delle leggi della patria fu compiuto quanto ricercavasi per sanliGcarli, decretò che ia rendimento di grazie si facessero sagriGcj e giuochi agonali per tre giorni. In questi giuochi sacri e denominati di Roma Mauio Tullio 1’ uno de’ consoli caduto tra la pompa dal carro sacro nei circo, ne mori da indi a tre giorni : e perchè poco rimaneva dell’ anno, Sulpizio tenne in questo tempo il consolato senza collega. Furono designati consoli per l’anno seguente Publio Veturio, e Publio Ebuzio Elva. E di questi Ebuzio fu incaricato delle cose politiche le quali sembravano abbisognare di cure non tenui, perchè i poveri non facesservi mutamento. Veturio poi menando seco metà dell! esercito, devastò le campagne de’ Fidenati senza che ninno gli ostasse : e postosi all’ assedio della città, davate assalti continui. Ma non potendola espugnare con questi, la cinse di vallo intorno e di fosse per sottometterla colla fame. E già ne eran gli abitanti nelle angustie, quando venne un soccorso di Latini spedito da Sesto Tarquinio, e grano, ed arme, ed altre cose utili per ia guerra. Cosi ringagliarditi osarono uscire dalla città con forze non piccole, e mettersi in campo aperto. Allora non più giovò pe’ Romani la cir convallazione ; ma parve che vi bisognasse una battaglia. Diedesi questa vicino alla città ; pendendone qualche Ad. di Roma aS5 secondo Catone, 357 secondo Varrone, s 4 o 7 av. Cristo.. l'jj tempo dopo l’ esito incerto. Infine, quantunque più copiosi di numero, sopraiTatti i Fidenati dalla fermezza Romana ne’ travagli, acquistata col molto esercizio, fu> rono ridotti alla foga. Non fu la strage loro copiosa, per essersi tra non molt^ ritornati in città mentre gli altri respingevano dalle mura chi gl’ incalzava. Dissipatesi dopo ciò le truppe ausiliarie sen partirono senza avere punto giovato gli assediati ; e la città ricadde ne’ mali e nella penuria di prima. Intanto Sesto Tarquinio marciò con un armata Latina sopra di Segni dominata da’ Romani come per occuparla a prira’ impeto^ Ma resistendogli da entro generosissimamente, tentò di stringerli ad abbandonarla almeno per la fame. Se non che spesovi gran tempo senza opera niuna degna di ricordanza, e giunte vettovaglie e rinforzi dal canto ? dei consoli ; ne perde la speranza ; e ritirandone 1’ armata, ne sciolse l' assedio. > • LIX. Nell’ anno seguente i Romani elessero consoli Tito Largio Flavo e Quinto delio Sicolo. delio, dolce per indole e popolare, fu messo dal Senato con metà dell’ armata su le cose politiche per vegliare contro dei novatori: Largio ordinate milizie e stromenti da imprender gli assedj, parti per la guerra co’ Fidenati ; E spossatili colla diuturnità dell’ assedio, e col disagio di ogni cosa, desolavali ognora più, minando i muri, ei^ gendo terrapieni, avvicinando macchine, nè lasciando di e notte di stringerli, tanto che sen prometteva in breve il t. I i All. >li Roma lS6 secondo Catone, aSR eecondo Varroue, • /Jg6 avanti Cristo] di espugnarli. Né le città Latine, su le quali contando ì Fidenati trovavansi in guerra, potevano ornai più salvarli. Imperocché niuna città bastava sola da sé per liberarli dall' assedio: nè le forze comuni di tutte si erano riunite ancora : ma li capi del|e città Latine a’ frequenti messaggi de’ Fidenati rispondeano sempre di un modo, cioè che presto giungerebbe loro il soccorso: non però mai nino fatto moveasi pronto su le promesse, né le speranze scintillavano più in là delie parole. Nondimeno i Fidenati non diffidavano in tutto de’ Latini: ma persistevano su la espettazione di essi affronte di tutti i mali, sopialtutto della fame, la quale facea senza combattere strazio grande degli uomini. Spedirono, è vero, alfine come stanchi da’ mali a chiedere al console tregua di un numero certo di giorni per deliberare intanto su la pace co’ Romani, e sui modi onde riordinarla. In realtà però ciò non cbiedeano per deliberare, ma per fornirsi di compagni di arme, come alcuni disertati di fresco da essi indicarono, giaoché nella notte innanzi aveano spedito i cittadini loro più cospicui, e più validi tra’ Latini, perchè iu forma di oratori suppbcassero quel popolo. Largio, ciò saputo, ingiunse agli ora tori che deponessero le armi e spalancassero le porte, e poi favellasser di tregua : iu altro modo non pace, non armistizio, non moderazione, non umanità presumessero dai Romani. Frattanto provvide che gli ambasciadori deputati ai Latini. non rientrassero in città ; preoccupando con guardie rigorosissime le vie che vi conducevario. Tal che diffidatisi gli assediati di un ajuto qualunque degli alleali si videro astretti a pregar veramente l’iaimico. B riunitisi, conohiusero di soiTrire la pace, comunque il vincitore la desse. Altronde il console ( tanto i costumi de’ capitani di que’ tempi respiravano 1’ amor della pa> tria, e tanto erano lontani dalle maniere tiranniche che pochi san fuggire de’ capitani presenti, invaniti dal C 0 i mando I ) il console sebbene prendesse la città niente vi permutò di voler suo : ma fattala deporre le armi, e presidiatala, conducendosi a Roma e convocando il 3^ nato, lasciò che esso ne deliberasse. Lieti i Padri del rispetto del valentuomo verso loro dichiararono che i più nobili dj Fidene secondo che il console li giudi casse capi della ribellione, si battessero colle verghe, e ei decapitassero : su gli altri poi disponesse egli stesso come glien parrebbe. Largio divenuto 1’ arbitro di tutti sparse in vista del pubblico il sangue, e confiscò li beni di alcuni pochi accusati dal partito contrarlo; ma concedè che gli altri ritenessero la patria e le robe loro, e solamente ne dimezzò le campagne, poi dispensate a sorte tra’ Romani lasciati in guardia della fortezza. Alfine dopo ciò ricondusse in casa 1’ esercito. LXI. Risaputasi fra’ Latini la espugnazione di Fidene, ogni città ne fu sospesa e tremante, e mal soddisfatta de' capi suoi ; come tradito avessero li confederati. C fattosi consiglio in Ferentino, quei che persuadevano la guerra, assai vi accusarono gli altri che la dissuadevano. Erano de’ primi Tarqulnìo, e Mamilio il genero di lui e li capi tra gli Aricini. Rapiti dal dir loro, quanti erano i Latini, vollero generalmente la guerra contro de' Romani, e diedero scambievole giuramento, che tiiuua l8o città tradirebbe il comune, nè farebbe pace sema il consenso delie altre decretando : che qualunque non os-> servasse i patti decadesse dalla lega alla esecrazione e nimicizia di tutti. Sottoscrissero e giurarono questi patti i deputati degli Àrdeati, degli Aricini, dei Boiaiani, dei Bubentani, dei Coresi, dei Corventani, dei Gabj, dei Lavrentini, de' Laviniesi, dei Labiniani, de' Labicani, de' Nomentani, de' Moreani, de' Prenestini, de' Pedani, dei Querquetulani, de' Satricesi, de' Scaptini, de’ Sezzesi, de' Teliini, de' Tiburtini, de'. Tuscolani, de' Tolerini, de' Trienni, de' Veliterni. Doveansi scegliere tra gl’ idonei alle armi, tanti in ogni città quanti ne parrebbono ad Ottavio Mamilio e Sesto ^ Tarquinio, i quali erano generalissimi nominati. E per giustifìcare ancor più li titoli della guerra spedirono a Roma da ogni città li personaggi più insigni come oratori. Venuti questi in Senato dissero : che quei della Riccia si richiamavan di Roma, perchè qucuido i Tirreni mossero contro loro la guerra, essa non solo die a’ primi libero il passo per le sue terre, ma li coadjuvò su quanto era d' uopo, ricoverandoli mentre poi ne fuggivano e salvandoli tutti, inermi e feriti : eppure non ignorava che quelli portavano guerra al corpo tutto della nazione : e che se avessero domalo Dioaigi nel namerare questi popoli siegue l’ordine dell’ alfabeto latino e non del greco : del resto numera popoli quando nn tal Bruto nel lib. VI. di quest' opera § 74 dice ebe furono trenta i popoli latini concorsi a tal guerra. Dovrebbero dunque additarsene altri sei. Nel codice Vaticano si numerano ancora i Tolerini che noi abbiamo ugualmente allegali nel testo. La nomenclatura per quanto aia stata emendala non par libera ancora da ogni storpiatura.. ' i8r la Riccia; niente pià gli avrebbe impediti, sicché non soggiogassero le altre città. Pertanto annunziavano che se Roma voleva darne conto a quei della Riccia nel tribunale comune de’ Latini, e rimettervisi al giudizio di tutti, non avrebbon essi cagioni di guerra. Ma se tenendosi all alterigia sua consueta ricusava affatto condiscendere sul giusto e su V onesto inverso de’ confederati ; minacciavano che i Latini tutti la moverebbero con tutte le forze la guerra. LXn. A tale invito il Senato alieno di fare cogli Ari cini una causa dov’ essi giudicherebbero, e dove prevedeva che i nemici non sentenzierebbero di questo sola mente, ma vi aggiungerebbero ordinazioni ancora più gravi, decise che accettava la guerra. Argomentava dal valore e dalla sperienza de’ suoi tra le arme che Roma non incorrerebbe in danno ninno: apprendendo però la moltitudine de’ nemici, sollecitò più volte con ambascia tori le città vicine per confederarsele ; se non che spe divano i Latini ancora nelle stesse città legazioni che accusassero a lungo Roma, e la contrariassero. Gli Err nici adunati a consiglio di stato diedero all’ una e alr altra ambasceria risposte sospette nè salutevoli, dicendo che per ora non si vincolavano con alcuno; ma voleano posatamente discutere qual de’ popoli seguisse causa più giusta, e prendeansi per discuterne un anno. I Rutoli in contrario promisero senza arcano mandare soccorsi ai Latini : ma dissero che se Roma volea deporre le inimicizie, essi mansuefar ebbono i Latini, e ne concilierebbono gli accordi. Risposero i Volaci che si stupivano della impudenza de’ Romani ; perciocché sapendo essi quante volle gli avessero offzzl conTenlftnti a pcgnere ^elfa tnrblo ratiBcò; dando t principj certi di una tirannide a norma : Quindi i capi del Senato si fecero a considerare lungamente e providamente il personaggio che avrebbe a comandare. Paiea loro che vi fosse necessità di un nomo espedito negli affari, più che perito nell’ arme, e savio, e temperato, sicché poi non > delirasse per l’ampiezza del comando; insorama di uno il quale oltre le belle doti, quante ai buoni comandanti si convengono, sapesse presieder con fortezza, nè cedere mollemente alle istanze. Di un uomo tale appunto abbisognavasi allora. .Videro concorrere doti siffatte quante seu chiedeano in Tito Largio, uno de’ consoli ; laddove delio il collega, uomo altronde buonissimo, non era nè attivo, nè bellicoso, nè imponente, nè temuto, ma edite troppo in punire chi non ubbidiva. Nondimeno il Senato prendea .verecondia di levare a que^o un’autorità che aveva secondo le leggi, e di concentrare .nell’ altro il potere di ambedue, anzi un poter più che. regio. .Teniea per qualche maniera che delio riflettendovi, non si gravasse della rimozione sua, come disonorato dai Padri ; e camhiale le maniere del vivere, si ponesse alla testa del popolo, c turbasse dal fondo la repubblica. Esitando tutti, e gran tempo, per la verecondia di proporre ciocché ideavano, un seniore, venerabilissimo tra gli uomini consolari, diede un tal suo parere, per cui fu salvo l'onore di ambedue li consoli, scegliendo essi appunto il personaggio più acconcio al comando. Diceva : Poiché il Senato ha risoluto, ed il popolo ha ratificato che il poter del comando si affidi ad un solo, restano ai Padri due cure non picciole : chi debba sottentrare ad una autorità pari alia monarchia, e chi possa legittimamente nomiruuvelo. Or egli suggeriva che l’uno de’ consoli sia per cessione, sia per sorte', eleggesse il romano più idoneo, a far 1’ utile e il bene della patria: giacché trovandosi allora in città magistrati sacrosanti, non vi abbisognavano gl’ interré come nella monarchia, per eleggere di accordo chi succedesse al comando. ' i Applaudivano tutti al partito, quando levatosi un altro disse : Ali sembra o Padri che debbasi alia sentenza aggiungere: che reggendo di presente la repubblica, due valentuomini, de’ quali non trovereste i migliori, V uno 'debba dare la nomina, e l’ altro riceverla, talché scelgati essi fra loro il più idoneo ; e C uno e i altro se ne abbia onore e soddisfazione uguale, quello perchè sceglie nel collega il più degno, c questa perchè scelto sen trova : dolcissime e bonissime cose ambedue. Ben vedo che sebbene io non avessi ciò aggiunto ; pure avrebbono i consoli così DWaiGI, toma II. il praticalo ; egli è meglio^ nondimeno che il facciano eziandio col vostro volere. Parve a tutti ciò detto a proposito, e niuno più notandovi altra cosa, ne decretarono. I consoli ricevuto il potere di eleggere fra loro il più idoneo al comando, fecero una mirabilissima cosa, e ben varia dalle affezioni dell’ uomo. A vicenda r uno dicea 1’ altro, e non sè, degno del comando : così passarono tutto quel giorno, encomiando l’ un l’altro, e insistendo ciascuno per non comandare: tanto che gli astanti in Senato ne furono in grandi perplessità. Sciolto il Senato, i parenti più prossimi di ciascuno, e li Padri più venerabili recatisi a Largio assai lo stimolarono £no a notte avanzata, dichlaraùdogli come il Senato poneva in esso ogni speranza, e dicendo che le sue ritrosie volgevansi in pubblico danno: egli tuttavia ricusava, ora supplicando, ed ora contradicendo. Adunatosi nel prossimo giorno il Senato, mentre colui ripugnava, nè levavasi ancora dal suo parere su le istanze comuni, Clelio sorge, e lo nomina, come gl’interré solevano nominare, e lascia il consolato. Fu questi il primo che, solo, fu reso àrbitro in Roma della guerra, della pace, d’ ogni affare, col nome di Dittatore sia per la podestà di ordinare e dettare leggi su’ diritti e sul bene degli altri, come glien pareva e piaceva, chiamandosi da’ Romani Editti gli ordini e prescrizioni sul giusto e su l’ ingiusto : sia per essere allora un tal. uomo detto e dichiarato da un solo e non dal popolo secondo i riti della Ad. di Roma aS6 socondo Catone, a58 secondo Varrone, • ar. Cristo] patria, perché comandasse. Guardaronsi dal dare al magistrato di una città libera un nome esecrabile e grave per rispetto di quelli che ubbidivano, sicché in odio del titolo non si conturbassero, e per rispetto di chi prendeva il comando, sicché nè fosse costui offeso dagli altri senza saperlo, uè gli offendesse egli co’ modi consueti nel grande potere. E certo il nome di dittatore non bene l’ ampiezza ne significa del potere ; non essendo la dittatura che un Dispotismo elettivo. Sembra che i Romani ne traessero pur da’ Greci la istituzione. Imperocché gli Esimneti che chiamavansi antichissimamente tra loro erano, come dichiara Teofrasto nel libro intorno del regno, despoti elettivi. Li creavano le città non per tempO' indefinito o perpetuo, ma nella circostanza, e fin quando sembrava che giovassero loro, come li Mitilenei già scelsero Pittaco contro gli esuli, compagni di Alceo poeta. Tennero questo metodo I primi che aveano appreso per esperienza ciò che giovava. Imperocché nelle origini era ogni greca città sovraneggiata, non però dispoticamente come tra’ barbari, ma secondo le leggi e le patrie consuetudini : ed un re si avea tanto più per potente quanto era più giusto, e più fido alle leggi, e men schivo de’ patrii costumi : ciocché s’ intende per Omero il quaì nomina i sovrani, vindici del diritto, e de/f onesto. Tennesi lungo tempo la signoria dei re come quella de’ Lacedemoni sotto fisse Mèi testo: intarrtXnt, e SiftttTttrtXuf. cioè che si reruuio sul giusto e su C onesto. costituzioni. Ma cominciando poi taluni di questi a trascendere gli usati poteri, poco concedendo alle leggi e molto ai genj loro ; ne furono i popoli in tutto disgustati, e rovesciarono 1’ autorità de’ monarchi, e le loro maniere : e stabilendo leggi e creando magistrati, assunsero questi come custodi delle città. Ma perciocché non bastavano nè a proteggere il giusto le leggi poste da essi, nè a coadjuvare le leggi li magistrati o li comissarj che avean cura di queste ; e percioccliè il tempo col volger suo mena tanta varietade ; furono astretti a fare stabilimenti non ottimi si, ma certo i più consentanei alle vicende che li sorprendevano o di sciagure abborrite, o di smoderate prosperità. Per le ' quali confondendosi ' lo stato della città, e bisognandovi un pronto riparo ed un arbitro immediato, furono necessitati a rialzare l’autorità dei monarchi e dei re, velandone coi nomi la esistenza. Cosi li Tessali denominarono Tettar' ~ chi questi arbitri, e gli Spartani li chiamarono Armosti per timore d’ intitolarli tiranni o monarchi : aggiungi. che teneano per cosa scellerata rinovare poteri abattuti tra giuramenti ed esecrazioni su 1’ oracolo de’ numi. Quindi, come ho detto, a me sembra che i Romani prendessero da' Greci l’esempio: Licinio però crede che i Romani ideassero un dittatore a norma degli Albani ; scrivendo cbe questi, venuta meno la regia discendenza dopo la morte di Numitore e di Amulio, eleggessero annui presidenti col potere appunto dei re, ma con titolo di dittatori. Io non ho voluto esaminare onde Roma derivasse il nome, ma sibbene onde pigliasse la idea dell’ autorità che in tal nome si ' addita. Se uon che forsb non è pregio dell' opera che scrivasi di ciò più luDgameate. Ora dirò brevemente ciocché Largio il primo dittatore facesse, e con quale apparato decorasse la sua dignità ; persuadendomi che siano più utili ai lettori le materie appunto che porgono in copia esempj splendidi ed opportuni pe’ legislatori, e capi de’ popoli, in somma per quanti vogliono governare e maneggiare il pubblico Imperciocché non io prendo a descrivere le istituzioni > e li modi di una città vite e negletta, né li consigli e le pratiche di uomini ignobili e di niuna espettazione, sicché lo studio mio su tenui e volgari cose paja ad altri frivolezza e molestia : ma di una città legislatrice di tutti, e di capitani che la sollevarono a tanto potere; cose tutte che se un amante della sapienza giunga a non ignorare ; ne sarà per politico ravvisato. Investito Largio appena del suo potere dichiarò maestro de’ cavalieri Spurio Cassio, già console nella olimpiade 70. Osservavasi tal costume da’ Romani fino a’ miei giorni, e ninno mai, scelto per dittatore, ne tenne la dignità senza maestro de’ cavalieri. Quindi a rilevare la potenza di una tal dignità, per imporre piuttosto che per osarne, ordinò che i littori marciassero per la città con fasci e scuri secondo il costume ivi proprio de’ re, tralasciato poscia da’ consoli, e primieramente da Valerio Poplicola per diminuire la odiosità del comando. Spaventati con questo ed altri segni di regia dominazione i turbolenti eà i novatori, comandò a lutti i Romani di adempiere la migliore delle leggi .di Servio Tullio, sovrano popolarissimo, cioè di assegnare per tribù li loro beni, li nomi delle mogli e de’ figli, e la età loro e de’figli. Terminato in breve il registro per la severità de’ castighi, perdendosi da’ contravventori i beni e la cittadinanza ; si rinvennero cento cinquanta mila settecento e più Romani adulti. Poi separando gli uomini di età militare dai provetti, e riducendoli in centurie ; li divise tutti, fanti e cavalieri in quattro parti : e ritenutane una, che era la migliore, per sé, fece che delio già suo collega nel consolato se ne eleggesse un altra qualunque tra le rimanenti : che Spurio Cassio il prefetto de’ cavalieri avesse la terza, e Spurio Largio il fratello la quarta ; la quale fu comandata trattenersi e presidiare insieme co’ vecchi la città. Egli poi, com’ ebbe pronto quanto bisognava per la guerra, menò le milizie in campo aperto; appostando tre armate ne’luoghi appunto donde sospettava che i Latini uscirebbono. E considerando esser proprio de’ savj capitani fortificare le sue cose come debilitare quelle del nemico, e terminare le guerre senza battaglie e stenti, o certo col minimo danno delle milizie ; anzi considerando che sciauratissime e luttuosissime più che tutte sono le guerre tra’ popoli amici e congiunti ; concludeva che si aveau queste a finire con tratti di clemenza piuttosto, che di rigore. Adunque spedendo occultamente persone non sospette ai più riguardevoli de’ Latini, li persuase a rendere la pace alle loro città: e spedendo insieme apertamente ambasciadori ad ogni città, come alla rappresentanfa generale di tutte; ottenne senza difficoltà che non tutti avessero più l’antico ardore per la guerra; alienandoli principalmente cogli ossequiosi modi e co’ benedzj dai duci loro. In opposilo Mamilio e Sesto, che aveano da’ Latini rice TUto il generai comando, riunite nel Tnscolo le forze, si apparecchiavano come per piombare su Roma ; se non che spesero su ciò gran tempo o che aspettassero le città le quali tardavano, o che non buoni apparissero loro gli auguri santi. Intanto alcuni di loro spiccatisi dall' esercito devastavano la campagna romana. Largio, risaputolo, spedi delio su loro col fiore dei cavalieri e de’ soldati leggieri : e costui, presentatosi inaspettatamente, gli assalì, e ne uccise, imprigionandone la più gran parte. Largio curatine li feriti, e guadagnatiseli con altre amorevolezze li rinviò senza offesa o prezzo al Tuscolo ; mandando riguardevolissimi romani ton essi per ambasciadori. Or questi operarono che si sciogliesse l' armata latina, e si facesse tra le città la tregua di un anno. Largio, ciò fatto, ricondusse l’ armata dalla campagna: e designando i consoli depose prima che ne spirasse il tempo la dittatura senz’ avere ucciso, o bandito, o ridotto comunque a gravi mali un romano. Cominciato T invidiabile esempio da un tal uomo si mantenne in quanti ottennero poi quella dignità fino alla terza generazione prima della mia. Imperocché la storia fino a quest’ epoca non presenta ninno il quale non esercitasse quella dignità moderatamente e qual cittadino, quantunque Roma fosse astretta più volte a sospendere le magistrature ordinarie, e concentrare tutto nelle mani di un solo. E non sarebbe gran meraviglia se personaggi ottimi della patria pigliando la dittatura solamente nelle guerre cogli esteri si fossero tenuti incorrotti nella grandezza del potere: ma pigliandola nelle sedizioni interne, grandi e molte, per togliere I sospetti di regni e tirannidi rinascenti, o per altra sciagura, lutti, quanti la ottennero, conservaron sestessi iqiniacolati, e simili al primo dei dittatori. Tanto che tutti unanimemente conclusero che la dittatura era 1’ unico rimedio contro de’ mali intrattabili, e 1’ ultima speranza dii salute quando sparse sono le altre speranze. dalla procella. Quattrocento anni però dopo la dittatura di Tito Largioj a memoria de’ Padri nostri parve tal carica biasimevole ed esecranda per Lucio Cornelio Siila che primo ne abusò, vendicativo e 6ero : talché li Romani allora sentirono a prova, ciocché aveano prima ignorato, che la signoria de' dittatori non era se,, notk liran nide : imperocché costui ordinò un Senato di uomini comunque, infìacchi 1’ autorità del tribunato, devastò città intere, distrusse e creò regni, ed altre cose fece e disfece dispoticamente, le quali lungo sarebbe a raccontare. Oltre i cittadini uccisi in battaglia, ne trucidò nemmeno di quaranta mila, datisi a lui prigionieri, dopo averne prima tormentati alcuni. !Non è questo il tempo di discutere se egli fe’ ciò necessitato o per utile del comune : solamente ho voluto dimostrare che ne divenne abominato c spaventevole il nome di dittatore: ciocché pur succede ad altre cose ammirale e disputate dagli uomini, non che alle sole dominazioni: perciocché tulle le cose appariscono belle e giovevoli se bene si .adoperino, come danncvoli c turpi se mal si dirigano ; di (he ne è causa la natura che in lutti i beni ha sparso i germi dei male ; se noa die di tali cose diremo altrove più propriamente. L’ anno prossimo a questo nella olimpiade 'j i ^ nella quale vinse allo stadio Tisicrate Croloniatejessendo Ipparco F arconte di Ale ne, presero il consolato Aulo Sempronio Atratino e Marco Minucio. Li anno prossimo a questo nella olimpiade 71. nella quale vinse allo stadio Tisicrate Crotoniate essendo Ipparco arconte di Atene, presero il consolato Aulo Sempronio Atralino e Marco Minucio , ma niente vi operarono degno di ricordanza, nè in città nè fra le armi : perciocché la tregua co’ Latini dava loro placida calma cogli esteri, e la legge decretata dal Senato di sospendere la esazione dei prestiti, finché la guerra imminente avesse buon termine, avea sopito le somfi) Àn. di Roma aS7 secondo Catone, 259 secondo Vairone, • 4 recchi per la guerra. Il complesso de’ Romani era vo- lentei'oso e propensissimo a combattere ; ma il più dei Latini eravi disanimato e forzato : dominando per le città uomini quasi tutti corrotti dai doni e dalle prò messe di Tarquinio, e di Mamilio, rimossi dalle cure pubbliche quanti favorivano il popolo e ripudiàvan la guerra. Cosi non più dandosi a chi la volea la facoltà (li discorrere, si ridussero i più corucciati a lasciare in copia la patria, e fuggirsene in Roma. Nè quelli che dominavano ve gl’ impedivano, ma teneansi obbligatissimi ai competitori, dell’ esilio spontaneo. Li riceveano i Romani e compartivano tra le milizie interne, e mescbiavano alle coorti urbane quanti ne venivano con mogli e figli, ma spedivano gli altri a' castelli intorno e per le colonie, sopravvegliando intanto che non facessero' mutamenti. E consentendo tutti che bisognavaci novamente un arbitro assoluto il qual potesse ordinare a suo modo ogni cosa, fu nominato dittatore Aulo Poslumio il console più giovine da Virginio il collega : e costui, come già 1’ altro dittatore scelse per suo maestro de’ cavalieri Tito Ebuzio Elva, e registrati in poco tempo tutti i Romani già puberi, ordinò la milizia in quattro parti, reggendone egli 1’ una, dandone a reggere la seconda a Virginio il compagno nel consolato, la terza ad Ebuzio il maestro de’ cavalieri, c An. di Roma aSS secoado Catone, aCo secondo Varrone, • 4e essi agevolerebbero ossea più le cose loro. Se non che mentre deliberavano ancora giunse coll’ armata sua da Roma Tito iVirgiuio r altro console, marciato improvvisamente nella notte dinanzi : e prese anch’ egli campo in altra altura assai forte. Di modo che i Latini rimasero intracchiusi, nè più idonei ad un assalto, avendo a sinistra il console e a destra il dittatore. Adunque tanto più sen conturbarono tra quelli i capitani i quali non voleano se non partiti sicuri, e temerono che tardando si riducessero a consumare le loro provvigioni, le quali non erano molle. Postumio notando quanta fosse la imperizia loro nel comandare spedi Tito Ebuzio maestro dei cavalieri col nerbo de’ cavalli e de’ soldati leggeri ad .occupare un monte rilevantissimo in su la via, per la quale recavansi i viveri dalle loro terre ai Latini. Andò questa milizia espedita con la cavalleria, e condotta di notte tra selve non frequentate ; prese il monte prima che i nemici se ne avvedessero. V. I capitani nenuci osservando invasi anche i posti forti che erano loro alle spalle, nè più avendo speranze buone sul trasporto indubitato de’ viveri da’ paesi loro, deliberarono respingere i Romani dal monte prima che vi si assicurassero ancora cogli steccati. Adunque Sesto r un d’ essi presa la cavalleria vi si lanciò con impeto ; quasi la cavalleria Romana non si tenesse a ribatterlo : ma tenendosi questa bravissimamente contro gli assalitori, Sesto durò qualche tempo ora dando voi ta, ora tornandole a fronte. Ma perciocché quel luogo riusciva opportunissimo a chi ne avea le alture, e costava assai travagli e ferite a chi vi si recava dabbasso ; e perciocché giungeva ai Romani un soccorso di milizia legionaria mandata appresso da Postumio ; egli ritirò, non potendo altro fare, la cavalleria negli alloggiamenti. I Romani impadronitisi appieno del luogo, si misero a fortificarlo pubblicamente. Dopo ciò parve a Sesto e Mamilio ndn essere più da indugiare gran tempo, ma doversi decidere la sorte con una pronta battaglia : e parve allora anche al dittatore di esporvisi, quantunque avesse ne’ principi ideato di dar fine alla guerra senza combattere, sperando giungere a ciò, specialmente per la imperizia de’ capitani. Imperciocché da’ cavalieri custodi delle strade furono sorpresi de’ messaggeri che andavano dai Yolsci a’ Latini con lettere di avviso che, indi a tre giorni al più, verrebbe milizia copiosa di rinforzo da loro, come altra dagli Eroici. Or ciò ridusse i duci Romani a venire, sebbene contro il proposilo, a pronta giornata. Datosi da ambe le parti il segno della battaglia ; si avanzarono gli uni e gli altri al campo intermedio, e cosi vi ordinarono le armate. Sesto Tarquinio ebbe a reggere 1’ ala sinistra de’ Latini, ed Ottavio Mamilio la destra. Tito 1’ altro figliuolo di Tarquinio comandava il centro óve erano i disertori e fuorusciti Romani. La cavalleria divisa in tre parti fu dispensata alle ale ed al centro. In opposito Tito Ebuzio ebbe 1’ ala sinistra de’ Romani contro di Ottavio Mamilio, e Tito Virginio il console si contrappose colla de stra a Sesto Tarquinio; Empiva de’ genj suoi Postumio stesso il dittatore 1’ armata di mezzo, e moveala contro Tito Tarquinio ^ e gli esuli da Roma j i quali eran con lui. Il complesso delle milizie venute a combattere erano ventiquattro mila fanti e tre mila cavalieri nella parte Romana, e quaranu niila fanti, e tre mila cavalieri nella Latina. VI. Quando erano per andare a combattere i capitani Latini, aringando ognuno i suoi, diedero mille eccitamenti di coraggio, e ricordarono lungamente ciocché bisogna al soldato. Dall' altra parte il Romano vedendo cbe i suoi temeano come quelli che cimentavansi con gente assai più numerosa, e volendoli sollevare da quella paura, fe’ radunarli, e poi tra corona di senatori, onorabili per anni e per credito, cosi concionò : Gli Dei cogli aitgurj, colle viltime, con ogni segno divinatorio promettono alla nosti'a patria Li libertà, ed una propizia vittoria; contraccambiandoci della pietà verso loro, e della giustizia esercitata da noi verso gli altri in tutta la vita : per lo contrario, inìmici sono, come deano, de' nostri nemici, perchè tante volte e tanto da noi beneficali, essi parenti, essi amici nostri ', essi legatisi a noi di giuramento per avere appunto gli amici stessi ^ i nemici, ora spregiato ogni vincolo, ci movono una guerra ingiusta non per decidere qual di noi si abbia la preminenza e il comando, ciocché sarebbe il meno de mali ; ma in favor dei timnni, e per fare la patria nostra che è libera', schiava ai Tarquinj. Ora intendendo voi o centurioni e soldati, che militano con voi gli Dei, quelli stessi che hanno sempre difesa Roma, si con^ viene che rnagnanimi vi dimostriate in questa battaglia : molto più che ben sapete che gli Dei favoriscono i bravi combaltitori, quelli che quanto è da loro fan tutto per vincere, e non quelli che figgono i 'pericoli, md quelli che li sostengono per salvare' sè stessfi Inoltie a voi sono apparecchiati dalla sorte altri mezzi non pochi per la vittoria, e tre soprattutto manifèstissimi. Vn. Il primo è la fedeltà scambievole, requisito principaliss'tmo in chi disegna vincere l’ inimico ; imp^ciocchè non' dee già cominciar • questo giorno a rendervi amici fidi e costanti; ma la patria ha da tanto tempo preparato' a voi tutti un tal bene. V oi allevati in urta terra, educati di una maniera sagrificate agl’ Iddj su di altari medesimi :. e voi avete fin qui partecipato i tanti beni e sperimentato insieme i tanti mali, i quali rinforzano, anzi rendono indissolubili, le amicizie fra gli uomini, quante volte presentasi loro un cimento comune su gravissime cose. In secondo luogo, se voi soggiacerete .ai nemici, già non sarà che alcuni di voi restino immuni, altri subiscano r estrema degl' infortunj ; ma tutti, sì, tutti perderete la gloria vostra, f impero, ' la libertà j noit più padroni delle mogli, non più de' figli, non più _ •' delle sostanze, non più altro bene vostro qualunque. ^ E li vostri capi, li vostri pubblici magistrati ‘ miserandamente moriranno tra flagelli e tormenti. Se già non offesi da voi punto nè poco, fecero a voi tutti ogni maniera cT ingiurie ; e che mai potete aspeltarvene ora se vincano, nella memoria che hanno de’ mali ; che gli avete ridotti fuori della patria, che gli avete spogliati de’ beni, nè consentile che tornino alle case, paterne ? L’ ultimo de’ mezzi indicàtir, nè minore degli altri se rettamente sen giudichi,, è che noi troviamo le cose tra’ nemici men prospere che non pensavamo. E certo vedete voi da voi stessi che tolto gli Anziati, niuno è qui per soccorrerli nella guerra. Noi concepivamo che verrebbero per essi tutti i Eolsci ; e Sabini ed Ernici in copia, e mille altre vane paure ci i fingevamo. Erano questi tutti sogni de’ Latini, immaI ginati su promesse vane, su speranze senza base. Quindi altri nel meglio ne abbandona la causa, spregiando r euUorità de’ sì belli capitani:, altri li terranno ^ anzi a bada che li soccorreranno, temporeggiandoli con lusinghe ; e quelli che or si apparecchiano, come tardi per la battaglia, inutili diverranno. Che se alcuni di voi pensano che giusto sia I ciocché io dico, eppur temono. la quantità de' nemici, j. a I I €onoscanò per una breve iilruzione, o piuttosto ricordo, che essi temono non temibili cose. E prima conside\ tino che il pià di' loro è stato forzato alle arme contro di ìtoi, come ce lo ha con tante opere e detti mànìfestato ; e che gli spontanei, quelli che di lor piacere combattono pe’ tiranni sono ben pochi, e piuttosto una parte insensibile rimpetto di voi. Appresso considerino che le guerre guidale a buon successo non la superiorità' nel numero, ma nella fortezza. E lunghissima opera sarebbe ricordar quanti eserciti di barbari, quanti di Greci, tuttoché preminenti di numero, siano stati disfatti da piccioli corpi e quasi non credibili a dir. Ma tralascio gli esempj altrui : dite ^ quante guerre non avete voi ben guerreggiato con armata minore della presente, e contro apparecchi assai pià potenti di questi ? Dite ; voi fin qui teiribili agli altri che avete combattuti e vinti, siete ora voi dispregeiSbli a questi Latini, ai Folsci loro alleati, perchè non vi han essi mai sperimentato Jra le arme ? Sapete pure voi tutti quante volte i nostri padri gli hanno in campo superati ambedue. E vi par verisimile che la condizione da’ vinti sia dopo tante perdite migliore, e peggiore sia quella de' vincitori dopo tanti bellissimi fatti ? E chi,' se abbia mente, chi mai dirà questo ? Anzi ben io mi 'stupirei se alcuno di voi paventasse questa turba ove si pochi sono li bravi, e spregiasse la milizia nostra si forte e si numerosa ; che nè pai' numerosa nè pià forte mai ne abbiamo finora schierato in battaglia. Che pià : deve, o cittadini ì esservi impulso grandissimo a non temere, nè ricusare i pericoli t ejsere come vedete qui pronti ai pericoli, e correre con voi la sorte stessa delle arme i primarj de’ senatori, quelli che la età o la legge gli esenta dalla milizia. Che^sl; che egli sarebbe vituperoso che -uomini nel fior degli anni temessero i pericoli quando i provetti gli affrontano, Avran cuore i vecchi di ricevere per la patria la morte se dare non là possono ai nemici; e voi li sì. vegeti, voi che ben potete • f una e l’ altra cosa, o salvarvi e vincere senza danno, o certo magnanimamente operare, e soffrire, voi non vorrete nè cimentare la sorte, nè la Jama .procacciarvi de’ valorosi F No, ciò di vói non è degno, o Homani, ai quali sopravvanzan tante mirabilissime gesta degli antenati, le quali niuno loderebbe mai quanto basta : e se voi vincerete questa guerra, i vostri posteri ancora si gioveranno di tante vostre gloriosissime imprese. Ma perchè nè sia senza frutto chi si delibera K alle grandi azioni ; nè si trovi col danno chi ne teme i rischj oltra il debito, udite prima d incorrerla, Indite qual sarà la sorte dell’ uno e delt altro. Chiunque ìlei combattere imprende belle e magnanime gesta ne sarà da chi ’l vede encomiato ; ed io, quando dispenserò li premj che .ciascuno' -dee raccoglierne. secondo il costume della patria j quando. darò insorte le, terre pubbliche, io costui ne appagherv, sicché pià di nulla abbisogni. Al contrario chiunque nel cuor suo vile, offensivo de’ numi, si deciderà per la fuga, costui si troverà per me colla morte che fogge ; chè ben è meglio per esso e per altri che un tale cittadina perisca : e così perendo, non che attere i funebri onori eia tomba ^ si resterà, non emulato' nè pianto, in abbandono agli uccelli e alle fiere. Con ioli previdenze, andate : combattete alacremente ; e V abbiate per guida alle grandi azioni la speranza buona, chè dato a questo cimento un termine generoso, come tutti desideriamo, avrete ottenuto amplissimi beni, avrete liberato voi dal timor dei tiranni, avrete, come doyeasi, corrisposto alla patria, che chiedea la gratitudine vostra per avervi generati e nudriti, avrete operato eh i teneri vostri figli, le vostre mogli non sqffrano oltraggio da nemici, e che ì vecchi vostri genitori vivano in calma il picciolo avanzo di vita. Felici voi d quali riservasi tornare da questa guerra col trionfo, mentre li figli vostri' ve ne aspettano, e le spose, e li genitori. Quanto sarete celebrati, quanto ' invidiati pel coraggio di dare voi stessi per là patria ! Tutti deano morire valentuomini o no] ma il moribe con dignità' e CON GLORIA NON È PROPRIO CHE DE' VALENTUOlilNIAncora egli continuava tali detti magnanimi ; quando ecco spargersi nell’ esercito un ardore divino, e tutti ad una voce gridare : ardisci, e guidaci. E qui Postuniio encomiando la loro prontezza; e votandosi agl’ Iddj, se avea buon successo nella guerra, di fare grandi e sontupsi sagrilìzj, e ^lendidissimi giuochi da rinnovarsi in. Roma ogn’ anno rilasciò le milizie perchè si oi'dimssero. Quindi come i duci diedero il segno e le, trombe l’invito a ^mbattere; lanciaronsij gridando, quinci c quindi prima i soldati leggeri e li oavalietà, e poi le lej^ioni le quali aveano schierameotd ed armi consimili. Fecesi di tutti una mischia vivissima, ^dottasi tutta al dar delle mani. Tennesi questa lungo tempo contraria alla espcttazione di ambedue, sperando gli Ubj e gli altri che non avrebbero nemmeno a combattere, ma che a prim’ impeto forarebbero, ed intimorirebbero rinunieo; i Latini alhdati alla cavalleria loro numerosa quasi i’ urto ne fosse irreparabile alla cavalleria Romana; e li Romani aU’andarne audaci c spregianti ai perìcoli, quasi cosi avessero a soprailare l’ inimico. Non ostanti tali primitivi concetti degli uni su gli altri, vedeano tutti seguire il contrario. Quindi considerando che il mezzo di salvarsi e di vincere era la propria fortezza non la paura de’ nemici ; militarono bravlssimamente anche sopra le forze ; e varie ne furono le vicende e le sorti. XI. Primieramente li Romani del centro dov’ era il fiore de’ cavalli con Postumio dittatore, e'dove combatteva egli stesso tra’ primi, cacciano di posto i loro compettitori dopo ferito con uno strale in una spalla, cd inabilitato a valersene, Tito l’ uno de’ figli di Tarqurnio ; sebbene Licinio c Gellio senza esaminare le cose verisimili e possibili, suppongano esser questo che militando a cavallo restò ferito lo stesso re Tarquinio, uomo più che nonagenario. Caduto Tito, le sue milizie .\nofaa Tito Lhrio i di questo parere, quantunque avesse considerata la difficoltà degli anni : ^li scrìve in Postumiwn prima inacìesuos aiihortantem i/utruentemtfua, Tarquinius super but quamquam jam alate et viribus crai graiùar equnm infestas admitil. Nà SODO mancsti altri re che in quella ^ fornivano tutti gl' incarichi del regno o còmbattevano. Massiuissa fu I’ uno di.questi, cd .àntea re degli 'Setti mori combattendo, vecchio pi4 (he di novant’anni tennero fronte alcun tempo, e sollecite ne raccolsero vivo il corpo, non però fecero altro più di generoso, ma rinculavano incalzate via via da’ Romani, 6nchè soccorse da Sesto l’ altro 6glio di Tarquinio co’ fuorusciti Romani, e da truppa scelta di cavalieri si arrestafono, e tornarono su l’ inimico. Cosi ripigliato Corano combattevano questi nuovamente. Intanto negli altri coi> pi segnalandosi più che tutti i duci Ebuzio e Mamilio, fugando ovunque volgeansi chi resisteva, e rior dinando i loro se scompigliavans! ; vennero a disfida in fra loro : lanciatisi 1’ uno su l’ altro portaronsi colpi gravissimi, ma non mortali, Ebuzio spingendo 1’ asta per la corazza al petto di Mamilio, c Mamilio traforando il braccio destro di Ebuzio: tanto che ne caddero ambedue da cavallo. Portali amedue fuori della battaglia Marco Va lerio che era un’ altra volta luogotenente anzi il più vecchio, prese le veci di Ebuzio maestro de’ cavalieri : ma contrastando colla sua la cavalleria nemica, e contenen dola per breve tempo, infine fu violentato e respinto assai lungi ; perocché gèinsero in ajuto al nemico i fuorusciti Romani a cavallo, o di milizia leggera: e Maiadìo stesso riavutosi dalla percossa era tornato in campo con cavaleon Filippo Macedooe. E Luciioo scrive che Tarqptinio superbo più che nonagenario viveva robustissimo in Coma. Forse Licinio e Gellio non son dà riprendere. Dee poi notarsi, che Tarquinio; anche secondo Dionigi, visse più di novani’anni. Vedi § ai di questo libro. ' Cioù Mamilio nell’ ala destra de’ Latini ed Ebutio nella sinistra de’ Romani, percbù già stavano appunto in queste aie ; uù Diouigi lia (inora dello che avessero cambiato posto. lerla numerosa e col nerbo de’ soldati espeditì ; anai in questa pugna cadde trafìtto da un’ asta Io stesso luogotenente Valerio quegli che il primo avea trionfato de’ Sabini, e rialzato lo spirito di Roma infìacchito pei danni ricevuti da’ Tirreni : e con lui pur caddero altri molti nobili e valorosi Romani. Sorse sul caduto corpo di esso una lotta vivissima facendosi scudo allo zio li due Publio e Marco, fìgli di Poplicola. Or questi consegnandolo intatto colle armi sue, mentre respirava ancora, ai scudieri perchè Io riportassero agli alloggiamenti; lanciarono sestessi in mezzo al nemico spinti dall’onta ricevuta e dall’ardore dell’ animo : ma piombando d’ ogn’ intorno i fuoruscili su loro, alfine carico r uno e r altro di ferite mori (a). Dopo tale infortunio r armala Romana fu cacciala di posto, ed assai malmenata dalla sinistra fino al centro. Il dittatore al conoscere che i suoi fuggivano, ben tosto si staccò per soccorrerli con i cavalieri che aveva d’ intorno : e dato ordine a Tito Erminio di andare coll’ ala della caval Intende il Valerio fratello di Valerio l’oplicola: però il primo Valerio è detto tio de’ fìgli di -Poplicola. Il Valerio del igotliti, li menò contro 1’ armata di IMamilio, ed egli stesso avventandosi addosso di lui die era il più grande e più gagliardo di quanti gli erano a fronte, lo uccise; ma fattosene a spogliare il cadavere, egli ancora vi soccombò trafitto .dal brando di un tale in un lato. Sesto Tarquinio, duce dell’ala sinistra Latina, resistendo tuttavia tra tanti mali, avea cacciata di posto 1’ ala destra de’ Romani : come però vide Postumio venire su lui col uei'bo de’ cavalieri, disperatosi corse in mezzo a’ nemici. E qui circondato da’ fanti e da’ cavalieri ed investito, quasi una fiera d’ ogu’ intorno, mori, ma non senza averne anche egli stesi molti di quelli che lo investivano. Caduti i duci, pienissima fu la fuga de’ Latini, e la presa de’ loro alloggiamenti, abbandonati pur dalle, guardie. Dicchè i Romani se n’ebbero molti e belli vantaggi. Gravissima fu la perdita de’ Latini, tanto che moltissimo ne decaddero : e la strage fu tanta, quanta mai più per addietro ; imperocché di quaranta mila fanti e tre mila cavalli, come ho detto di sopra, nemmeno dieci mila tornarono salvi alle case. XIII. È fama che in questa battaglia si rendesser vi_sibili al dittatore, ed al seguito suo due cavalieri adorni del Gore primo di giovinezza, grandi e belli assai più 2i8 delle antichità.’ romane che la condizione non sostiene dell’ uomo ; e che ponendosi alla testa della cavalleria romana, peKotessero colle aste i Latini che le si avventavano, o' li sospingessero a rapidissima fuga. E fama è similmente che dopo la fuga de’ Latini, e la presa de’ loro alloggiamenti, presso al crepuscolo vespertino, appunto quando la zuffa ebbe fine, si dessero a vedere in abito militare nel F oro romano due giovani altissimi, e vaghissimi ', spirando in volto ancora 1’ ardore della battaglia, dalla quale venivano, e reggendo cavalli, molli di sudore. Dicesi che smontati l’ uno e 1’ altro da’ cavalli, lavavansi nell’onda, la quale sorgendo presso il tempio di Vesta forma una lacuna, picciola si, ni profonda : ma che fattisi molli intorno di loro, e chiedendone se punto recassero di nuovo dall’ esercito, rilevarono ad ei Ciocch’era della battaglia, e come 1’ aveano guadagnata: e che partiti poscia dal Foro non più furono veduti da alcuno, tuttoché seu facesse ricerca grandissima dal comandante lasciato in Roma Come però nel giorno appresso riceverono i capi della città lettere dal dittatore, e conobbero 1’ assistenza dei due numi, e tutti i successi della battaglia ; giudicarono che i .due personaggi apparsi fossero, com’ era verisimile, gl’ Iddii stessi, e conchiusero che erano le immagini di Polluce e di Castore. Attestano la comparigione inaspettata e meravigliosa di questi Numi, molti segni ancora, come il tempio fondalo a Castore e Polluce nel Foro, appunto dove comparvero j e la fonte vicina, chiamati c creduta sacra finora, e li sagrifizj magnifici che il popolo ne celebra ogni aqno per mezzo de’ a fare nè 1’ una nè l’ altra di queste due cose: che. era bensì, da giovine iL trasporto d’ allora per combattere ; ma che assai più biasimevole sarebbe' il fuggirsene a casa : e che qualunque de’ due parliti seguissero, andrebbe a genio de’ nemici. Era il parere di questi, cbe di presenta 'si triucierassero e preparassero quanto bisognava per la battaglia, e clic intanto spedissero ai Volaci per chiedere che inviassero nuove forze onde pareggiare quelle de’ Romani, o che richiamassero le altre già’inviate. La sentenza però sembrata più persuasiva e ratificata da’ capi fu di mandare al campo romano alcuni osservatori col nome di ambasciadori onde preservarli, li quali, complimentandolo, dicessero al capitano, che il comune de' Volsci mandavali per ajuto de'Bomani: si doleano però che giunti tardi per la battaglia non troverebbero uemmen gratitudine di tanto amore, vedendo come l’aveano già vinta a grande lor sorte, anche senza degli alleati. Con tali dolci maniere illudendo, c dandosi per amici, andassero, spiassero, conoscessero la moltitudine de’ nemici, le arme, gli appareccbj, i disegni. Conosciuto ciò, discuterebbesi qual fosse il migliore, lo aspettare nuove truppe, o menare le presenti all’ assalto. Poiché si riunirono tutti in questa sentenza, ne andarono gli oratori eletti da essi al dittatore : e poiché recati nell’ adunanza vi esposero gl’ insidiosi loro discorsi ; Postumio soprastando alcun tempo, alfine rispose: Voi siete o Volsci venuti qua con rei consigli sotto belle parole,: nemici nelle opere, volete presso noi la stima di amici. Voi foste inviati dal vostro comune ai Latini per combatterci. Ora. non essendo voi giunti a tempo per • la bat&iglia ; anzi vedendo questi già vinti, cercale deluderci con dirne cose contrarie a quelle che eravate per Jdré. Ma nè sincera è r amicìzia del parlare che assiunete in vista del tempo presente, nè sincero il titolo della vostra legazione ; ma pieno è di malizia e d’ inganno. Non voi veniste sensibili pe nostri beni, ma per investigare qual sia lo stato tra' noi di debolezza 'e di forza. Messaggeri ne' detti, voi non siete che esploratori nè fatti. E negando questi, ogni cosa, soggiunse che presto li convincerebbe. E qui produsse le lettere dei Volsci intercettate da lui prima delia battaglia, e chi le portava ai duci dei Latini, nelle quali prometteano mandare a questi un soccorso. Riconosciute le lettere, e palesato dai prigionieri il comando che aveano ; arse la moltitudine di manometter que’ Volsci, quali spie sorprese nel delitto. Non però volle Postumio che essi, nomini probi, si diportassero come i malvagi ; dicendo esser meglio serbare permesso a quelli a’, quali solcasi, che die^fes^ i loro pareti ; Tito Largio, il primo de’ dittatoti create già per l’anno antecèdente consigliò che usassero'^ la sorte sobbriamente. Diceva ' essere encomio grahdissimo per una città come per un uomo se rion lasciandosi corrompere dalle prosperità, le sostiene con regola e con dignità : odiarsi tutte le prosperità, quelle principalmente per le quali possono ingiuriarsi, e gravarsi i Vuol dire tre anni addietro: come fu notalo da Silburgio. miseri e li sottomessi. iVon confidassero su la sorte, essi che àveano sperimentato tante volte ne’ beni, e ne' mali proprj, quanto fosse mal ferma e mutabile: nè Kiducessero i nemici 'alla necessità di pericolo estremo per la qualè ipesso gli uomini s’ innalzano, e combattono sopra le forze. Temessero, se prèndeano pene irreparabili e dure su chi avea mancato, di provocarsene f ira comune di ogni popolo sul quale aspiravano di comandare ; imperocché decaduti dalle maniere consuete colle quali eransi rendati chiari di oscuri parrèbbono aver fatto ' della sovranità una tirannide, nqn lìn governo éd un patrocinio. Dieea che mezzana non irremisibile è la colpa, se città già libere,• anzi usate al comando, nOn sanno dall’ antico grado discendere. Se quei che anelano il meglio, siano sé falliscono il colpo, vendicati immedicabilmente ^ niente ipipedirà, che gli uomini, generati tutti con intimo amore della libertà si distravano gli uni cogli altri. ^AggiuDgefra che assai piti nobile, assai piti fenho è il principato^ che amministrasi tenendo i sudditi colld beneficenza ' non co’ supplizf : perciocché dà quella' nasce la benevolenza, e dà questi il timore > e ciocché si teme, ^^si odia vivàmente per necessità di natura. Da ultimo pregayali a pigliar per esempio le opere bellissime pqr le quali gli antenati loro'tajfto erano encomiati'^ ' e qui ridiceva com' èssi aveano niàgnificatò" Bonia ^à piccola, non diroccando le città prese',' nè Spopolandole nè spegnendovi almeno gli adulti, ma riducendqle colonie di Bofna, e concedendo la cittàdLinanza a tutti i yinti che in Jtoina vollero domiciliarsi. Tilo Largib mirava col dir sao principalmente a questo, che si riqovasse co’ Latini l’alleanza, com’ eravi staU,'nè più ingiuria dcun% di qualunque città si ricordasse. Servio Sulpizio punto non contradisse intorno la pace e la rinovazione dell’ alleanza. Siccome di oomini che aveano tr^viatot E costui pigliandone -vesti e cibi per r esercita, ^e. scegliendone trecento .. ostaggi, dalle famiglie più cospicue, _ parti come ^ avesse dissipata la guerra. Non però fu, questo un dissolver!^ 'ma .piuttosto un dlHerirla, e dar causa di apparecclij ad essi, preoccupati dal giungere loro inaspettato. Ritiratosi l'esercito romano, si accinsero i Volaci di bel nuovo alla guerra, e munirono e meglio presidiarono le città, ed ogni luogo acconcio da rifuggirvisi. Si consociarono con essi per l'impresa i Sabini, e gli Ernie! svelatamente ; ma segretamente molti altri ancora. I Latini, essendo venuti ad essi a,mbasciadori per chiederne 1’ alleanza, li legarono e menarono a Roma. Fu sensibile il Senato alla / costanza della lor fede, e più ancora alla prontezza colla quale > solcano spontaneamente per esso cimentarsi, e combattere, ^^iudi restituì loro gratuitamente, ciocché pur vedea di’ essi desideravano, ma vergognavansi dimandare, intorno atbeimila fatti prigionieri nelle guerre eoa essi : e perchè il dono, prendesse una forma degna de’ parenti, -li rivestì tutti con abiti proprj di uomini liberi. Del resto fece intendere che non abbisognavasi di sòccorso latino, dicendo che bastavano a Roma le proprie forze. per vendicarsi de’ ribelli. E cosi risposto ai Latini'^ decretò la guerra contro de’Volsci. Ancorò il 'Senato sedeva nella Curia, ancora considerava quali milizie destinasse a marciare ; quando fu visto nel Foro un uomo che antichissimo di anni, sordido ne’ vestimenti, e ha^'buto ^ capelluto ., gridava ed invocava soccorso dagli uomini, Accorsa la moltitudine Intorno; égli postosi in luogo donde fosse visibile disse: Io. generato libero y dopo. 'èssere finché n era la ptà., marciato in tutte le spedizioni, dopo averi' sostenuto vent’ otto battaglie ^ e riportato pià volte,i premj militari.,' alfine quando sopravvennero i tempi che strinsero Jìonm alle ultime angustie fui necessitato a prendere wi prestilo per supplire al tributo che mi si chiedeva: perchè il mio campicetlo' era desolato da’ nemici, e le' rendite urbane tutte. per la penuria de’ viveri mi si consumavano. Cosi non avendo come più redimere il debito, fui condotto dal prestatore con due miei figliuoli a servire. Comandandomi poi quel padrone non facili cose io contraddissi ; e ne fui con moltissimi talpi battuto^ E così dicendo squarciò la lurida veste ;,e mostrò pieno il petto di ferite, e grondanti le spalle di sangue. E. qui ululando, e piangendone la moltitudine .?' ^1 Serrato si disciolse : e tutta la città fu percorsa da’ poveri che. deploravano la infelice lor swte, ^ cliiedeano soccorso da’ vicini. Uscirono allora dalle Case tutti quelli che erari servi pe’ debiti, abbuffati le chiome, e la maggior parte colle catene alle mani,,' e co’ ceppi nei piedi, senza che alcuno osasse reprimerli: e so altri osava pur toccarli, erane manomesso co’ dU'ittL della, forza. Tanta rabbia in quel punto invase il' popolo ! Nè molto dopo il popolo fu pieno di uomini che fuggivano la forza di chi signoreggiavali.. Appio a, come .autore non ignoto de’ mali, temette coutfa di sè le ffe della moltitudine, e s’involò, fuggendo, dal-Foro. Ma Servilio deposta la veste contornata di porpora, e gettatosi lagrimando appie di ciascuno ; a stento li persnase a contenersi per quel giorno, e tornar; nel seguente, mentre il Serrato provvederebbe iij qualche modo su loto. Cosi dipendo, Ds’ creditori e comandando al banditore di proclamare, die ninno de’ creditori potesse trar seco pe’ debiti alcun cittadino, finché il Senato su ciò deliberasse, e che tutti gli astanti 'ne andassero ove più /deano senza timore ; chetò la turbolenza. Partirono allora dal Foro: ma nel prossimo giorno vi' si riunì non solo la moltitudine della città, ma r altra ancora de’ campi vicini; tanto che sull’ alba già .il Foro ne ribolliva. Adunatosi il Senato per discu te re ciocché era da fare, Appio chiamava il compagno adulatore del popolo e capo' della insolenza de’ poveri : e Servilio rimproverava lui come austero, caparbio, e fabbro de’ mali che pativano: nè ci avea niun fine alla disputa; Intanto latini cavalieri spronando vivissimamente i cavalli si apprésentarono al Foro, annunziando essere già usciti 1 nemici con -.esèrcito poderoso, e già sovrastaìre alle cime -de’ monti loro. Cosi dissero questi : e li cavalieri, e quanti avéano ricchezze e gloria ereditaria, armaronsi in fretta, come.su. pericolo estremo; laddove i poveri ;• sjngolarmenle gravati da’ debiti, nè toccavan armi, né -soccorrevano in alcun modo a’ pubblici bisogni: anzi gioivano, ed accoglievano con desiderio la guerra esterna, come quella che redimerebbe loro dai mali presenti. E se altri, gli' esortava a respingere gli inimici, mòstràvanò a lui le catene é. li ceppi, e lo confondevano addinrtandando, se Cosse mai degno combattere per difendersi tanto benefizio. Anzi taluni osarono perfino dire., esser meglio servire ai -Volsci, che soffrire i vilipendj de’ patrizj. Infine., era tutta la città ripiena di ululàti; di tumulti, e di ogni lutto di femmine. A tale spettacolo i senatori pregarono ii console Servilio, come più autorevole presso del popolo, a soccorrer la patria. E costui convocandolo al Foro, dimostrò la urgenza del tempo presente, e coiùe non ammettesse discordie civili : pregava e supplicava che piombassero unanimi tutti sul nemico, non che tollerassero che rovinasse la patria, ov’ èrano le divinità paterne, e le tombe. degli antenati, cose preziosissime tutte presso i mortali. Sentissero verecondia pe genitori incapaci a difendersi per la vecchiezza ; e pietà delle donne che bentosto sarebbero astretti a subire gravi ed inesplicabili affronti : ioprattiitto commiscrassero che teneri figliuoletti, cèrto non educati a tale speranza, avessero a finir tra' le ingiio'ie e i vilipendj spietati. Quando tutti al paio concordi, tutti al paro infiammati, avessero tolto il rischio presente; allora discutessero comèra da ordinare un governo eguale, comune, salutevole a tulli, e 'tale, che nè i poveri insidiassero ''agli averi, del. ricco,, nè il ricco i poveri ne conculcasse ^ cose tutte in società dannosissime. Allora discutessero con quale pubblica discrezione fosse da provvèdere ai poveri, con quale agli altri li quali dopo dati i prestiti per soccorrere, ora ne erano ingiuriati : nè dalla sola Roma si leverebbe la fede do contralti, bene principalissimo tra gli uopiini e cuslóde dell' armouia nel corpo delle città. Dette queste e slmili cose, quali convenivano al tempo, da ultimo provò com’ era la benevolenza sua stala sempre costante verso del popolo^ e.pregò'che in contragcamblo, almeno di questa, si unissero per la spedizione j essendo a' lui data ^'.amministrazione della guerra, e quella di Ron^a alt compagno. Protestava che la sorte avÉvd così destinate a Ipro le. parti : che il Senato tn>evalo\ assicurato di cpncedere quanto egli prometteva al popolò;,.'eche egli aveva assicurato il Senato cìie\ il .pòpolo non tradirebbe la patria ai nemici. Ciò detto ido^ose al banditore dì pubblicare che hiunof poiesséarrogarsi le case di quelli che rnilitassètó. oon lui. ccfntro.^i Vblshi, nè venderle, nè impegnarle^ nè. rendet .sérVQ' pe' contratti alcuno della stirpe di èostbro, np impedire : veruno a guerreggiare : perwtessero pei^' Sècjondò^ i patti le 'azioni de’ pre^ stamri.'coutre'qaellijche -noli, prendeano le armi. Come i pòveri ódirono tiòj. decisero, e lanciaronsi tutti, pienirdi ardore aUa guerra'; vchi stimolato dalla aperto dì, guadàgnare ; cbi ..dalla benevolenza pel capitano,,^ et gVan'.-p.firte' per. levarsi da ‘Appio e dai vilipendi; ^ersQ q^^rv lllnrra et ! màli : finché, vinsero noRofecero che lungo tempo si 'oppo’neàiercr ai sopravvenendo’ ài ^Rqmani'laVlèro cavalleria vamente 'i, Sabini r ’e fatta'assai' strage, ttfrnaroho a Roma conducendo seéo'in’’cópia li prigidhln.''ETmpnb^oi cei/cati e messi nella 'carcere feSabln^éhefècaùsi a. Roina sul titolo, di veder gli ^spettàcoli, dóveariq’ se^rido Taccordo all’ avvicinàrsi'aéi lóro, prebccuparne ^ T luoghi piu forti : e li sagnfizj ihterrbttK per' (a guerra fiiroho per decreto del Senato raddoppiati ; talché oc fu ^oju e riposo nel popolo. Ancora festeggiavano 1 quand’ ecco ambasciadori dagli Arunci, popolo che occupava i più be’ luoghi della Campania. Presentatisi questi in Senato dimandavano' il territorio tolto dai Romani ai Volsci Eccetrani e dispensato agli nomini mandativi per guardia della nazione : dimandavano insieme che tal guardia si richiamasse; altrimenti verrebbero quanto prima gli Arunci su’ Romani, e vendicherebbero tutti i mali che aveano causato ai loco vicini. Replicarono a ciò li Romani. Ambasciadori, annunziate agli Arunci che noi Tlomani teniamo per ^uslo che altri lasci a’ posteri suoi ciocché ha conquistato per valore su nemici : che la guerra degli Arunci non la temiamo ; giacché non è questa per noi nè la prima nè la più terribile : che noi costumiamo combattere con chi vuóle per t impero e pel bene ; e se la cosa riducasi ora all arme, intrepidamente all arme verremo. Dopo ciò movendosi gli Arunci con esercito poderoso, e li Romani con quello che aveano sotto gli ordini di Servilio ; si scontrarono presso la Riccia città lontana centoventi stadj da Roma. Accamparonsi ambedue su di alture forti, e poco distanti fra loro: e poiché vi ebbero trincierati gli alloggiamenti, scesero al piano per combattere. Avendo Appio cosi detto, ed acclamandovelo strepitosamente i giovani, quasi egli desse il ben della patria ; Servilio ed altri seniori sorsero per contraddirlo : furono però sopraffatti da giovani che erano venuti preparati ed insistevano con forza grande; tantoché prevalse inGne la sentenza di Appio. Dopo ciò li consoli, sebbene i più volessero Appio per dittatore, come l’unico da por freno alle sedizioni, pure lo esclusero di concerto, ed elessero Marco .Valerio frateDo di Pubblio già primo console, uomo anriano e popolarissimo di credito, persuasi che a lui basterebbe la terribilità della sua carica; e che si abbisognasse più che tutto di un uomo placido, perchè non si ^cessero delle innovazioni. ^ XL. Valerio investito della sua dignità, e scelto per maestro de’ cavalieri Quinto Servilio fratello d> Servilio, collega di Appio pel consolato ; ordinò che il po^ polo si radunasse a parlamento. E raduna tovisi albra la prima volta ed in gran moltitudine, da che guidato all’ armata erasi poi scisso manifestamente al dimettersi di Servilio dai magistrato ; Valerio ascese in ringhiera e Qursto Valeria nel § 13 delMibro presente si dice ucciso in baiiaali ; ed ora si desorWe colile diitaiore. Vedi la nota al S 11 ciiaia. disse : Sappiamo o cittadini che sempre di vostro buon grado hanno a voi comandato alcuni della stirpe dei p^alerj, da' quali liberati dalla dura tirannide, non foste mai rigettati nelle' oneste domande^ nè temeste violenza ; affidandovi a quelli che sembravano e sono popolarissimi infra tutti. Pertanto non io qui parlo y quasi voi abbisognate di essere illuminati che noi convalideremo al popolo la libertà la quale gli abbiamo da principio vendicato : io parlo per ammonirvi solo brevemente affinchè siate pur certi che vi manterremo quanto promettiamo. Non ammette che vi deludiamo V età nostra venuta alla perfezione ^e men sostiene che vi ri^riamo, il grado supremo che abbiamo, e finalmente dMbianm pur vivere V avanzo dei nostri giorni tra voi per iscontarvela se parremo di avervi abusati. Io tralascio però queste cose giacché non abbisognano di molto discorso tra voi che le conoscete. Ma ciò che avendo voi sopportato dagli altri, pormi che dobbiate ragionevolmente temerlo da tutti, nel vedere che sempre il console che v’invitava contro i nemici, prometteavi dal innato, senza mantenervele mai, le cose, per voi necessarie ; questo io vi convincerò che non dovete di me sospettarlo, principalmente per tali due argomenti : prima perchè a deludervi in tal modo' mai sarebbesi il Senato abusato di me che amantissimo sono del popolo, avendone altri più. acconci : e poi perchè non mi avrebbe mai condecorato della dittatura per la quale io posso concedervi anche senza di lui ciocché il vostro meglio mi sembra. Digitized by Googli !ì5o delle Antichità’ romane. Non crediate che io dia mano al Senato per ingannarvi f nè che io consultando con esso vinsidii. E se voi così giudicate ; fate ciocché pià volete di me, come del più, scellerato tra’ mortali. Ma liberate, datemi udienza, da tale sospetto gli animi vostri : ripiegate la collera dagli amici su vostri nemici che vengono per levarvi la patria, e per fare voi schiavi di liberi, sollecitandosi a premervi con tutti i mali y riputati gravissimi dagli uomini. Già non lontani si dicono dalle nostre campagne. Sorgete, accingetevi, mostrate loro che la milizia Romana in discordia, tissai pià vale della loro, tutta unanime. Se presi noi tutti da un ardore, piomberemo su loro ; o non ci aspetteranno, o prenderanno le pene degne del^ r audacia loro. Considerate che i nemici che a voi portano la guerra sono i Fblsci, sono i Sabini, quelli che tante volte avete combattuti e vinti: e che non ora han fatto pià grande il corpo nè pià generoso di prima il cuore ; ma che ben altro se lo hanno ; tuttoché ci disprezzino per le patrie gare. Quando avrete punito V inimico, io vi prometto che il Senato darà buon fine alle vostre contese pe’ debiti, ed alle oneste dimando secondo la virtù che mostrerete nella guerra. Intanto libere siano le sostanze, libere le persone, libera la fama de’ cittadini Romani dalle azioni de’ prestiti, e di ogni altro contratto. Per quelli poi che combatterai!, con impegno bellissima corona fia la patria ridiriaata, luminosa la gloria tra compagni, e pari la nostra ricompensa a vivificar le famiglie, c magnificarne cogli onori la stirpe. Siavi aSi esempio, ve n’ esorto, V ardor nùo verso de' pericoli : io stesso come imo combatterò de’ pià robusti tra voi. Udì tali detti, coDsoIandosi il popolo, e come quello che non più sarebbe deluso, promise di arrokrsi per la guerra; e sen fecero dieci corpi militari, ciascuno di quattromila uomini. Prese ogni console tre di questi corpi con quanta cavalleria gli fu compartita. Il dittatore prese gli altri quattro col resto de’ cavalli. Ed apparecchiatisi ben tosto, marciarono a gran fretta Tito Velurio contro gli Equi, Aulo Verginio contro i Volaci, ed il dotatore Valerio contro de’ Sabini; rimanendo a guardia della città Tito Largio co’ più vecchi, e con piccolo corpo di giovani. La guerra co' Volsci ebbe prontissima risoluzione : imperocché necessitati a combattere, pensando gli antichi mali, e come aveano milizia più numerosa, piombarono i primi, anzi pronti che savj, su’ Romani, appena si videro accampati, gli uni dirimpetto degli altri. Attaccatasi vivissima la battaglia, fecero molte magnanime cose ; ma scontramdone ancor più terribili, fuggirono finalmente. Il loro campo fu preso, e Velletri loro città principale fu ridotta per assedio. Lo spirito poi de’ Sabini fu invilito ancor esso in brevissimo tempo, essendosi 1’ una e 1’ altra parte deliberata a campale battaglia. Dopo ciò la campagna fu saccheggiata, e presi alcuni villaggi, ove i soldati acquistarono schiavi e roba in copia. Gli Equi all’udire la fine de’ compagni, riflettendo la propria debolezza An. iti Roma a 6 o secondo Catone, 363 secondo Varrone, a Ì93 av. Cristo. si misero su luoghi forti ; e ritirandosi alia meglio per le cime di monti e balze presero tempo e mantennero alcun poco la guerra. 'Non però poterono ricondurre illeso r esercito, perchè sopravvenendo i Romani arditissimamente su pe’ dirupi ; ne espugnarono a forza il campo. Dond’ è che fuggirono dalle terre de’ Latini, e le città si ridiedero colla facilità, colla quale erano^ già state prese al giungere del nemico. Alcune però furono espugnate, non cedendone le guarnigioni ostinate il comando. Riuscitagli la guerra secondo il disegno, Va lerio trionfò, com’ era 1’ uso, per la vittori^ e congedò la milizia, quantunque non paressene al Senato tempo ancora, afBnchè i poveri non esigessero le promesse. Quindi a diminuire la sedizione in Roma, scelse alquanti di questi, e li mandò nelle terre acquistate colle arme 'e tolte ai Volsci, perchè le possedessero, e le presidiassero. Ciò fatto chiese ai Padri che avendo avuto il popolo tanto pronto a combattere, gli osservassero le promesse. Non però davano questi udienza, ma si opponevano come dianzi all’ intento,; perchè li giovani e più violenti e più numerosi tra loro, fatto partito, brigavano ancora in contrario, e chiamavano con alta voce la prosapia di-^ lui adulatrice del popolo, e conduci trice alle ree leggi, tanto care ai Valer] su le adunanze e su’ tribunali; 'malignando che aveano con queste annientato tutto il potere de’ patrizj. Esacerbatone Allude alla legfi^ falla da Valerio 1’ aano 347 di Roma secondo Catone, colla quale davasi ad un privato il diritto di appellare al popolo dai magistrali che lo aveano condannalo. Vedi 1. 5, S 9molto Valerio, e dolutosi come se calunniato a torto patisse pel popolo, compianse il vicino fin d’ essi cbe cosi consigliavano : e com’ è verìsimile nel suo caso, presagendo loro pi& cose, altre per passione, altre per intendimento maggiore degli altri, s’involò dalla Curia, convocato il popolo disse : Cittadini, dovendovi io piena riconoscenza per la prontezza colla quale mi vi deste per In guerra ; e più. per la virtù la quale dimostraste in combattere ; io molto mi adoperai perchè foste voi ricompensati con ogni modo, principalmente col non essere delusi nelle promesse che io vi feci a nome de’ Padri, quando fui scelto consiglierò ed arbitro di ambe le partì, onde ridurvi allora scissi, a concordia. Nondimeno ora sono impedito di soddisfarvi da uomini che non mirano il bene della 'comune ma solo il proprio, almen di presente. Questi prevalendo di numero prevagliono con una potenza che ad essi la gioventù concede più che la perizia degli affari.' Ed io, sono vecchio come -.vedete e vecchi pur sono i miei compagni buoni solo nel consigliare, ed invalidi per eseguire, e la provvidenza su la repubblica sembra ridotta propriamente a questo, che r una parte pregiudichi V altra. Io sembro al Senato un vostro fautore, e voi mi accusate come benevolo troppo verso del Senato. 5e il popolo innanzi carezzato da me fosse venuto meno alle promesse del Senato, sarebbe la giustif razione mia, che voi. siete i mancatori, e non io. Ora però non mantenendosi i patti dal Senato, mi è necessario dichiarare che è senza mia parte quanto patite, e che io medesimo sono come voi, anzi più, di voi, circonvenuto e deluso. Imperocché. non solo io sono offeso con ingiuria a tutti comune, ma in ispecie con quante mormorazioni di me vanno facendo. Di me si mormora che io per far f utile de’ privati dispensai senza il voto del Senato a’ poveri Va voi le spoglie prese nella guerra ; che io rendei del popolo ciocché era di tutti, e che per impedire che il Senato vi malmenasse, licenziai, ripugnandovi lui, la milizia che dovea tenersi ancora nelle terre nemiche fra le marce, e i Vavagli. Mi si rimprovera la spedizion de’ coloni nella regione de’ V^olsci, perchè ho io comportilo una terra ampia e buona a poveri Va voi, piuttosto che donarla a pcUrizj ed a cavalieri. Soprattutto mi si provoca indignazione moltissima perchè io nel fare la leva ho assunto più che quattrocento do’ vostri tra cavalieri ; don^ è che ricchi ne son divenuti. Se ciò mi avveniva quando fiorivano gli anni, ben avrei insegnato co’ fatti a’ nemici, qual uomo avessero vilipeso. Ora essendo io più che settuagenario, invalido a provedere fino a me stesso, e reggendo che non più la vostra sedizione può da me racchetarsi ; rinunzio la' dittatura : e chi vuole, io gliel concedo, faccia di me come giudica, se crederi comunque da me danneggiato, XLY. Intenerirousi tutti a que’ detti e gli fecero se gulto quando parti dal Foro. Ma questo appunto esasperò contro lui li senatori: e ben tosto ebbe tali conseguenze. I poreri non più celatamente nè di notte, come per addietro, ma pubblicisshnamente riunÌTansi,c trattavano di scindersi da’ patrizj. Il Senato, disegnando impedirneli, diede ordine ai consoli di non dimetter r esercito. Certamente eran questi arbitri ancora delle reclute, come sacre pe’ ligami de’ giuramenti militari. £ per questi vincoli ninno attentavasi di abbondonaroe le insegne ; tanto la riverenza potea de’ giuramenti ! Alle^ gavasi per titolo della ritenzione, che gli Equi e li Sa^ bini eransi convenuti per la guerra contro de’ Romani. Ora essendo i consoli usciti colle schiere, ed essendosi accampati non lontani 1' uno dall’ altro, i soldati radu naronsi tutti in un luogo colle arme, e per istigazione di un tal Sicinio Belluto se ne ribellarono ; appropiandosi le insegne, cose tra’ Romani onoratissime e sante, come simulacri di Numi. E creatisi nuovi centurioni, ed un capo in Sicinio Belluto; occuparono non lontano da Roma presso 1’ Aniene un monte che sacro si chiama 6n da queir epoca. Pregando, sospirando, prornettendo, li richiamavano i consoli ed i centurioni ; ma Sicinio replicò: Qual fare è il vostro o Patrizj che ora vogliate richiamare quelli che avete espulso dalla patria, e che di liberi gli avete schiavi rendati ? Con qual credito mai ci assicurerete le promesse, le quali siete rimproverati di aver tante volte tradito? Piuttosto, poiché volete in città, soli, aver tutto ; andate ; abbialevelo : non vi angustiate pe' bisognosi, e pe miseri. Per noi sarà buona ogni terra; e qualunque ne terremo per patria, solchè vi si abbia la libertà. Annunziatesi tali cose in Roma, tutto vi fu .\n. dì Roma a 6 o tccoudo Catone, 263 secóndo Varrone, e 49 ^ T. Cristo. romore e pianto: e là correva il popolo, intento a la> sciar la città, qua li patrizj cbe voleano alienameli, colla forza ancora, se ricusavano. Soprattutto eravi clamore e pianto alle porte ; ed ingiurie vi si facevano, come tra’ nemici, con parole e con opere, niun più riverendo nè la età, nè l’ amicizia, nè la gloiia della virtù. Non potendo però, come scarsi, i soldati di guardia destinativi dal Senato custodire le uscite, le abbandonarono, sopraffatti dalla moltitudine. Allora versandosene fuora gran popolo ; parca lo spettacolo, còme la città fosse presa. Gemeano, si rimproveravano quelli che ' restavano, vedendo che desolavasi. Dopo ciò si fecero molte consultazioni ; si accusarono gli autori delia separazione; ed intanto correano li nemici, depredando la campagna, 6no a Roma. Li fuorusciti presero i viveri necessarj drile terre intorno, nè punto più le danneggiarono. Tenendosi in campo aperto accoglievano quanti venivano da Roma, o da’ castelli intorno ; tanto che ne divennero numerosi ; perciocché vi concorrevano, non solamente quelli che voleano levarsi dai debiti, dai giudizj, e da altri; angustie imminenti, ma tutti eziandio gl’ inBngardi, gli oziosi, i malcontenti ; quelli che in malfar si emulavano, che Invidiavano l’ altrui ben essere, o che per altri mali, e cause comunque, discordavano dal governo. XLVII. Adunque si eccitò ne’ patrizj turbazione, ed angustia grande, e paura, come se li fuorusciti e li nemici stranieri fossero per venire quanto prima contro di Roma. Poi, quasi tutti ad un segno, prendendo coi loro clienti le armi, altri corsero alle strade donde pensavano clie giungessero gl’ inimici, altri ai castelli per difenderne i posti forti, ed altri ai campi innanzi la città per trincerarvisi, e quei che per la vecchiaja non poterono iàr nulla di ciò, furono distribuiti per le mura. Come però seppero che i fuoruscili nè si univano coi nemici, nè saccheggiavano la campagna, né faceano altro danno considerabile, respirarono dalla paura ; e mutato pensiero, esaminarono come si riconciliassero. Suggerirono i capi del Senato mezzi di ogni genere, diversi per lo più fra loro; ma li più anziani suggerirono i più discreti, e più convenienti ai tempi ; facendo riflettere che il popolo twn ti era separalo da loro per malizia, ma in forza de proprj mali, o delle promesse non mantenutegli, e che auca così risoluto V utile suo piuttosto tra la collera che tra la calma della ragione, vizio consueto nella ignoranza. Aggiungevano che i più di questi conoscevano di avere mal deliberato, e cercavano emendarsene, se il buon punto ne avessero iiche già ne' ei^an le opere come di chi si pente ; e che volentieri tornerebbero nella patria se potessero, augumrvisi un avvenire felice, dando loro il Senato perdono, e pace decorosa. In mezzo a tali consigli supplicavano che essi che erano i gratuli non sentisser la ira più che i minori’, nè differissero stolti a riconciliarsi allora .quando fossero necessitati a far senno, e curare il male più piccolo col più grande, vuol dire, quando' avessero a tedere le armi, e le persone, e togliersi da sè stessi la libertà : cose tutte quasi impossibili a farsi. Usassero moderazione, pròponessero i primi gC ulili consigli, e la riunione, avvertendo che se era proprio de' patriiù] comandare e dirigerò ; era propria ancora de' buoni C amicizia e la pace. Mostravano che la dignità del Senato non minorasi quando provede alla sicuiozza col sopportare pazientemente le perdite necessarie ; ma quando opponesi tanto ostinatamente alla sorte che la repubblica ne rovini : gli stolli trascurare la sicurezza per amor del decoro : ben essere da ceivare ambedue queste cose : ma dove sia da cedere V una o C altra, doversi la salvezza riputare più necessaria. Era l’intento li tali consiglieri che si mandasse a fuorusciti per trattar della pace non altrimente che se la colpa loro non fosse insanabile. Piacque cosi appunto al Senato ; e scelti personaggi accontissimi, li diresse a quelli che erano in campo con ordine d’ intenderne i bisogni e le condi' zioni colle quali volessero in cittlt ritornare ; perciocché se fossero discrete e fattibili, jl Senato non le rigetterebbe : intanto se depenessero le arme, e tornassero in Roma, promettea loro perdono e dimenticanza perpe tua di tutto il passato : come belle ed ntili le ricompense a chi servisse valoroso, ed affrontasse ardentemente i pericoli per la patria. Recarono gli oratori e comunicarono tali voleri al campo, aggiungendovi cose consentanee. Non accettarono' i fuorusciti l’ invito : anzi rimproverarono a’ patrizi T orgoglio, la dnrezza, le simulazioni loro perchè fingevano ignorare i bisogni del popolo, e quelli pe’ quali si era separato. Ci assolvono, diceauo, da ogni pena per la ribellione, come fossero i padroni, essi che abbisognano dell’ ajulo nostro. Quando giunga su loro, e sarà tra non molto, con tutte le forze il nemico ; non potranno alzare nemmen lo sguardo contr esso, e pur ci voglion far credere che non sia bene loro t esser difesi ; ma felicità di chi si unisce a difenderli. Aggiunsero a tal dire che se vedevano già le angustie di Roma ; comprendereb- bero poi meglio con quali nemici avessero a guerreggiare : e qui minacciarono molto e veementemente. Non contraddissero a ciò, ma partirono, e dichiararono i legati a’ patrizj le risposte dei segregati: e Roma, uditele, se ne turbò ; e temette più che per addietro. Il Senato non sapendo come espedirsi o diffenrc, si disciolse, dopo avere più giorni ascoltate le infamazioni e le ac> cose vicendevoli de’ suoi capi fra loro. Il popolo rimasto in Roma per benevolenza verso de’ patrizj, o per desiderio della ..patria più non somigliava sestesso; dileguandosene gran parte nascostamente o in pubblico > nè sembrandone il resto affatto più stabile. Fra tali vicende i consoli, avendo poco più tempo per comandare, fissarono il giorno pe’ comizj. Venuto il tempo nel quale aveansi a riunire nel campo Marzo e scegliere i proprj magistrati; ninno ambiva, nè sostenea di esser consolo. Adunque nella Olimpiade setlantesÌDa seconda nella quale Tisicrate da Crotone vinse allo stadio, essendo arconte in Atene Diogneto ; il popolo rielesse al consolato due vecchi consoli Postumio Gominio e 'Spurio Cassio, uomini cari alla moltitudine ed ar grandi, da' quali già domati i Sabini aveano lasciato di competere dell’ impero con Roma. Or questi riassumendo il loro grado alle calende di settembre, vale a dire prima del tempo consueto ai consoli precedenti, convocarono innanzi tutto il Senato per deliberarvi sul ritorno del popolo. CbieslO' il’ parere di tutti ; invitarono a dire Menenio Agrippa, uomo allora venerabile per età, credulo più che gliaU tri insigne in prudenza, e lodato principlmente' per loi scelta de’ suoi regolamenti, perchè teneasi^al mezzo non fomentando 1’ arroganza de’ nobili, nè lasciando che i| popolo operasse tutto a suo modo. Or questi esortando il Senato alla riconciliazione, disse r Se quanti qui siamo o Padri Coscritti fossimo tutti di un animo; e se niuno si opponesse a far pace col popolo, comtmque la facessimo, per giuste o per ingiuste condizùy^ ni ; e se questo fosse proposto unicamente d diseu^ tere ; dichiarerei, con poche parole dà che ne penso. Ma perciocché alcuni giudicano che sia dà ponderare ancora se forse riesca più utile far guerra a fuorusciti ; non credo che io possa in ^ pocoinsinuare dà che dee farsi: ma sento il bisogno tt istruir ampiamente su la pace quanti tra voi ne discordano. Imperocché questi conducono a cose contraddittorie ; spaventano voi, che già ne temete, su mdli da nulla o lievi a curarsi, e trascurano gl' immedicabili e gravi. Certamente cosi propongono perchè non decidono delr utile colla ragione, ma col furore e coll’ impelo. E come si direbbe che essi provvedono le cose proficue, o fattibili almeno, quando stimano che Roma, una A^oi di Roma a6t ceoodo Catóne, o63 secondo Varrone,e 4{)t arami Critu. a6i città si grande, ed arbitra di tante genti ^ e già in~ yidiata e molestata da’ vicini, possa ritenerle e difenderle facilmente senza il suo popolo, o che possa in luogo del suo sì scellerato introdurre altro popolo che per lei combatta del principato ; che con lei sia di buon accordo su la repubblica, e sempre moderato in pace ed in guerra ? Eppure non altro potrebbono dirvi quei che tentano dissuadervi dalla pace. L. Ma qual sia la più stolta di queste cose, vorrei che voi stessi lo decideste dalle opere. Considerate, che alienatisi da voi li più poveri perchè abusaste della loro infelicità senza modestia e senza politica, e che recatisi appena fuori della città senza farvi o macchinarvi altro mede, col solo intento di averne una pace non ingloriosa, molti de’ vostri nemici abbracciarono con trasporto questa occasione come dono della sorte, e riedzan lo spirito, e credono venuto per loro fitudmente il tempo felice da battere il vostro impero, di Equi, i Eolsci, i Sabini, gli Etnici, questi che mai si alienano eìal farci la guerra, esatperali ora dalle sconfitte recenti, già devastano le nostre campagne. Que’ Campani, que Tirreni die vacillavano nella nostra soggezione ora parte fi abbandonano matdf estàmente, parte in occulto • vi si preparano. E gli stessi LeUirti, quantunque nostri congiunti, a me non semhran procedere di buona fede, costanti neW amicizia; ma odo che guasti sono in gran numero per amore di un cambiamento, che tanto gli uomini alletta. Noi die abbiamo fin qui portato in campo aperto la guerra su gli altri; noi ci stiamo or qui dentro, difensori delle mur^; lasciando senza seminarli i nostri terreni, anzi 1 vedendovi saccheggiali i villaggi, via levale le predo, e fuggirsene di per sestessi gli schiavi, senza che abbiamo rimedj a tanti mali. Non pertanto noi ' tutto soffriamo, perchè speriamo ancora che il popolo ci si riconcilj, ben sapendo che da noi dipende il toglierecon un solo decreto la sedizione. Ma se pessimo è lo stato nostro in campagna;, non è meno funesto e terribile dentro le mura. Noi ' non ci siamo .apparecchiati già da gran tempo, come per un assedio, nè bastiamo di numero contro tanti nemici. La nostra gente è poca, nè da guerra, e plebea, per gran parte, merce nar f, clienti, artefici, custodi tton affatto saldi dello stato turbato degli Ottimali : e le continue loro diserzioni verso de’ fuorusciti ce li hanno rendati tutti sospetti. Soprattutto essendo le nostre campagne dominate da nemici, ed impossibilitato il trasporto de’ viveri ; abbiamo a temer di una fame : e quando a tal disagio saremo; tanto più ci spaventerà la guerra, la quale senza questo ancora non concede mai calma allo spirito. Quello poi che supera tutti i mali è vedere le donne dei segregati, vedere i teneri figli, i padri cadenti, che sqqallidi e miserandi si rigiran pel Foro e per le vie, che piangono e supplicano e stringono a ciascuno la destra e i ginocchi, e deplorano la solitudine loro presente e più ancor la futura, spettacolo in véro desolante ed insopportabile ! Niuno è si barbaro che non s intenerisca a mirarlo, e non si appassioni sul destino degli uomini. Che se abbiamo a diffidar su plebei ; dofremo rimoverne gt individui, altri come inutili nelr assedio, ed altri come amici non saldi. Or se questi rimovansi, quid forza rimane in guardia di Roma ? o da quale soccorso animati ardiremo star contro dei mali ? V unico nostro rifugio, P unica nostra buona speranza è la gioventù patrizia : ma poca come vedete ella è questa, nè bastante a darci i grandiosi disegni. Che dunque impazzano, quei che propongon la guer^ ra, o perchè mai ci deludono, e non consigliano piut~ tosto di cedere fin da ora senz ar^ustie, e senza sangue Roma ai nemici ? Ma forse io ciò dicendo son cieco, e predico per terribili, cose che non son da temere. Roma non corre altro rischio che di un cambiamento, cosa certo non difficile ; potendovisi facilissimamente introdurre mercenarj e ' clienti in copia da ogni gente e luogo, posi van divulgando molli de contrarj al popolo, uomini, viva. Dio y non dispregievolì. A tanta stoltezza vengono alcuni ; che non propongono già consigli salutevoli, ma desideri impossibili I Ora io volentieri dimanderei questi uomini quode tempo mai ne si, dia per far tali cose, essendone tanto vicini i nemici : qtude condiscendenza alt indugio o al ritardo del giugnere degli alleali in mezzo à mali che non temporeggiano, nè aspettano ? Qual uomo, o qual Dio mai vi terrà sicuri, o congreghem da ogni luogo in gran calma, e qui ci porterà de’ sussidj ?. Inoltre e quali tuoi saran. ' quelli che lasceranno la patria per venirsene a noi ? Quelli forse che haruus case e Dii Lari € viveri ed onori tra proprj cittadini per la nobiltà degli antenati, o quelli che per la gloria risplendono de' pnoprj meriti ? E chi mai sosterrebbe di abhemdonare i proprj commodi, e partecipare vergognosa^ mente i mali altrui ? Eppure a noi si verrebbe non per dividere con noi la pace e le delizie, ma la guerra e i pericoli, e questi incerti, se a bene riescano ! Convocheremo forse una -turba, qual fu quella rigettata da noi, plebea e senza lari? Ben è chiaro che pe' disagi suoi, io dico pe’ debiti, per le penalità, c per cause altrettali prenderà volentierissima. dovunque una sede : ma sebbene questa plebe sia utile, c ( per concederle questo ancora ) sebbene sia moderata ; tuttavia ci riuscirà generalmente, assai, meno 'buona della nostra, perchè non è rutta tra nci, nè come noi disciplinata, e perchè ignora i nostri costumi, le nostre leggi, e le nostre maniere. celebrasi la vostra clemenza, il quale nè manda a noi per conciliarcisi esso che à C offensore, nè porge risposte umane e socievoli a quelli che noi stessi gli abbiamo inviati : ma s’ inalbera e minaccia, nè lascia conoscere quello che voglia. Udite voi dunque ciò che iò consiglio che^ facciasi. lo nè penso il popolo irreconciliabile a noi > nè > ohe mai farà quanto mincucip, ; dióchà mi sono buon argomento le opere sue che a’ detti non somigliano. -Dond’ è che io lo credo assai piò che noi sollecito di pacificarsi. Certamente noi abitiamo una patria onoratissima, e teniamo irt poter nostro le sostanze di lui, le case, i genitori, a tutte le cose pià preziose : ed egli si trova senza patria, senza magioni, senza i pegni suoi più, cari, e senta V abbondanza ancora del .^vivere quotidiano. Che se alcuno mi chieda perchè mai fra tanti patimenti egli nè accetti gl inviti nostri, nè mandi a noi per istanza niuna, rispondo s ciò essere manifestamente, perchè Digitized by Google 2G8 delle antichità’ romane fin (jid mn intese dal Senato che parole senza vederne poi le opere o di benevolenza o di moderazione ; e perchè crede di essere stato molte volte ingannato da noi che promettevamo di provvedere su lui, senza avervi mai provveduto. Non ci spedisce ambasciadori perchè son qui tanti che ce lo accusano, e perchè teme non ottenere ciò che dimanda : e forse così gli suggerisce un ambizione non bene considerata; nè già è meraviglia. Imperocché son pure tra noi non pochi, difficili, contenziosi, i quali colle brighe loro non vogliono che cedasi punto ai cóntrarf, e cercano per ogni via di sopraffarli senza mai condiscendere essi i primi, finché loro non sottomettasi chi vuole essere beneficato. Or ciò considerando io penso che debbansi spedire al popolo ambàsciadori, principalmente di stia confidenza : e consiglio che questi ambasciadori siano plenipotenziarj, perchè levino la sedizione coi patti che essi terranno per giusti, senza rimettersene al Senato. Questo popolo che ora vi pare sì spregiante e grave, questo darà loro utlienza, al vedere che voi cercate veramente la concordia, e ridurrassi a condizioni più mitij senza chiederne alcuna vituperosa, o non fattibile. Imperocché tutti, e specialmente i plebei, ne’ dissidj s' irf urtano con chi su loro insolentisce ; ma si ammansano con chi li blandisce. Cosi disse Menenio; e levossene in Senato gran romore, parlandovi ciascnno alia sua volta. I fautori del popolo esortaVansi a vicenda a dar tutta la mano perchè rlpatriasse, avendo per capo di questo consiglio il pii riguardevole de patrizj. Per Topposìto quegli ottimati die cercavano che nulla si alterasse de’ costumi della patria mal sapeàno ciò che avessero a fare, nò voleano condiscendere; nè poteano ostinarsi. Nondimeno uomini integerrimi né caldi per l' uno o 1’ altro partito voleano la pace, intenti a questo di non essere assediati tra le mura. Or qui fattosi da tutti silenzio il più anziano dei 'ìonsoli encomiò Menenio della sua generosità, stimo landò anche gli altri a somigliarlo nella cura della repubblica, a dir francamente ciocché ne sentissero, e compiere senza strepitò ciocché sen decidesse: indi nel modo stesso cercandolo dei suo parere, chiamò per nome Manio Valerio, nomo infra tutti gli ottimati carissimo ài popolo, e fratello all’uno di quelli che aveano liberato Roiòa dai tiranni. Costui levatosi in piede ricordò ai Padri i suoi provvedimenti, e come avendo egli presagito più volte i terribili casi avvenire, ne tennero pochissimo conto : poscia esortò li contrari discutere ornai su la moderazione, ma solo a vedere ( giacché non aveano permesso che si estirpasse quando era ancor piccola ) di racchetare ora, comunque, il pià presto, la sedizione, perchè, trascurata, non procedesse pià oltre, e non divenisse incurabile f o presso che incurabile, e sorgente di mali senta fine. Dichiarò che le dimande del popolo non sarebbero come per r avanti; e pronosticò che non si accorderebbe colle condizioni di prima insistendo per la sola remissione dei debiti, ma che vorrebbe forse un qualche difensore, onde tenersi illeso nell' avvenire : affermava che dopo introdotta la dittatHra era venutameno la le^e tutelare della Uhtrià la quale non per^ metteva a’ patrizj di uccidere alcun cittadino non giudicato, nè di cederlo giudicato reo nelle mani de’ lorocontradditori, e la quale concedeva a chi volea V appelto f di portare le cause al popolo da’ patrizj f tanto che quello si eseguisse che il popolo ne decidesse^ Poco mancarvi che non fosse statà tolta al popolo tutta la potenza esercitela già da esso ne' tempi ad dietro, quando non potè ottenere dal Senato per le imprese rmlitari il trionfo a Pubblio Servilio Prisco, uomo infra tutti degnissimo di quest’ onore. Pertantoben essere verisimile che il popolo cosi ojfeso sconfortisi nè abbia se non triste speranze della sua sicurezzaj Non il console, non il dittatore aver potuto soccorrerà il popolo, quantunque il volessero,; .anzi averne partecipale le incurie e V avvilimento, perchè studia vansi provvedere su lui. Essersi poi cospirati per im pedirli non uomini autorevolissimi fra li patrizj, ma uomini oltraggiosi, avari,. acerrimi ne’ rei guadagni, quali, pe’ grandi prestiti a grandi usure, aveano ridotto schiavi ì pià de’ cittadini ; dicea che questi facendo loro leggi dure, orgogliose. aveano alienata tutta la plebe da patrizj ; e che datosi per capo Appio Claudio, odiatore della plebe, e propizio ai pochi y rimescolavano tulli gli affari di Roma. E se la parte savia del Senato non si contrapponesse, la repubblica pericolerebbe di essere schiava o distrutta. Da ultimo dichiarò ben fatto valersi del parer di Menenio, e chiese che si spedisse al popolo qiumto prima: procurassero i deputati quanto volessero la calma della sedizione : ma se il popolo non accettava le dimando loro, essi quelle accettassero del LIX. Sorse, invitato, dopo lai Appio Claudio, uomo contrario al popolo, e grande estimatore di sestesso, nè senza cagione. Perocché nel vivere suo quotidiano era moderato e santo, nobile nella scelta de' provvedimenti, e tale da conservare la dignità de’ patrizj. Costui pren dendo occasione dell’ aringa di Valerio, disse : Certamente sarebbe Valerio men riprensibile se palesava unicamente il suo parere, senza condannare quello de’ contrarj ; giacché non avrebbe nemmen egli ascoU tato i suoi vizj. Siccome però non fu pago di dar consigli onde renderci schiavi ai cittadini pili vili, ma sferzò pure i suoi contrarj, cimentando anche me ; così vedomi necessitato assai di rispondere, e di respingere primieramente le calunnie a me fatte. Son io rimproverato di una condotta nè' sociale, nè decorosa, quasi io cerchi per ogni via far danari, quasi spogli molti de’ poveri della libertà, e quasi da me sia derivata in gran parte la separazione del popolo. Ben vi è facile però di conoscere che niente di ciò è vero, niente probabile. Or su, dimmi, o Valerio, quali sono quelli che ho io ridotti servi pei debiti, quali i cittadini che ora tengo nella carcere ? (filale dei fuorusciti si è privato della patria per la durezza e per V avarizia mia ? Certo non potrai tu dirlo. .Anzi tanto è lungi che alcuno sia da me riilotto servo pe’ debiti che. io sparsi tra molti V aver mio, nè mi rendei schiavo, nè disonorai niuno di quei che mi hanno defraudato : ma tutù ne son Uberi, e tutti me ne ringraziano, e stansi nel numero degli anici e de clienti miei pià familiari. Nè ciò dico per incolpare chi non opera come me, nè per ingiuriare chi ha faUo cose concedute dalle leggi; nta solo per levas'e da me le calunnie. In ciò poi che mi accusa della durezza e del patrocinio mio sui scellerati, chiamandomi odUpopolo ed oligarca perchè favorisco il comando de’ pochi, in ciò son io da riprendere quanto voi che avete ricusato, come pià riguardevoU, di soggiacere ai men degni, e di lasciarvi togliere il comando dei vostri antenati da una democrazia, pessimo infra tutti i governi. Nè già perchè egli soprannomina oligarchia il comando de’ pochi dovrà questo disciogliersi per le beffe del nome. E pià giustamente e propriamente possiamo noi riprendere lui come un adulatore del popolo, ed un ambizioso di tiranneggiare. Perciocché niuno ignora che la tirannide nasce dalle adulazioni della plebe : e che la via speditissima a rendere le città schiave è quella che mena al comando col mezzo de’ cittadini peggiori. Or egli ha fin qui carezzato costoro, nè tuttavia cessa di carezzarli. Ben vedete che questi abietti, questi miseri, non avrebbero. mai ardito d’ insolentire in tal modo se non fossero stati eccitati' da questo sì riguardevole e bello amatore della patria, come se l’ tali trattare, Abhiam per ostaggi le loro mogli, i loro padri, e tutto il parentado, dei quali non potremmo ckiedtrne altri migliori dd\Numi, Questi, li collocheremo • nói, questi al cospetto dei loro congiunti, minacciando, se tentano assafirti, di ucciderli con estremi supplizj: ina, credetemi, dove ciò sappiano, voi li riceverete inermi', supffikhevoli, piangenti, pronti ad ogni pena. Terribili sono tali necessità, e frangono, ed annientano ogni baldanza.E questi sonod riflessi -^pd quali non dobbiamo la guerra temere degli esuli. Le mirtacce poi di altri popoli rum ora Ut prima volta si trovarono fnire in paroUf; ma 'per ^addietro ancora ci si scoprirono sempre rtùnori delt apparenza quante volte i popoli fecero di noi paragone. M quelli che tengono per insufficienti le intime nostre forze, e però temono appunto la guerra, quelli non bene le han calcolate. Ai citrini da noi separati, se il vogliamo, possiamo contrapporre scegliendoli e liberandoli, il ' fiore de’ servi. Certamente vai meglio donare a questi la libertà, che lasciarsi torre da quelli il comando : tanto più che stati essendo questi tante volte presenti ne’ nostri campi hanno sperienza che basta di guerra. Per combattere poi cogli esteri usciremo ' noi stessi pieni di ardore e meneremo con noi tutti i clienti, e tutto il resto del popolo : e perchè sia questo ' cspedito a cimenti, rilasceremp ciascuno privatamente, e non max per legge, ad esso i suoi debiti. Se dobbiamo in vista de’ tempi cedere in parte e temperarci; non dee mai farsi questo con cittadini che ci s' inimicano, ma cogli amici, perché sappiasi che noi concediamo grar zie, eomthossi e non violentali’, che se queste non bastino, se bisognino altre fòrze, f arem venirne dai presidii e dalle colonie: e quanta siala moltitudine loro, è facile raccoglierlo dalC ultimo censo. 1 .Romani atti (die arme son cento trenta mila, e di questi appena la settima tparte è fuggita ' da noi ( 1 ). Non commentoro qui le' trenta città de’ Latini, le quali come voitre alleate ^ combatteranno di bonissima voglia per voi, sol che decretiate di ammetterle alla vostra cittadinanza che > sempre .vi hanno domandata. Ora vi aggiungo' (.e finisco ) quello che rileva fra le arme assaissimo, e che voi non avete avvertito, o certo niun dice de’ Padri. Chi cerca il buon esito delle guerre, di niente ha tanto bisogno, quanto di egregi capitani. Or di questi la nostra città soprob[Questo ceuso non par quello fatto da T. Largio primo dituiorr, ma l’altro fissato da Sigouio oell’ anno sGu di Roma, ov dice eba furono numerati più che centodieci mila ciuaUini. benda, ma scarsissime ne sono quelle de' nemici. Lè grandi milizie se ricevano duci mal atti alle arme, si svergognano, e rovinano di per sestesse con danno tanto maggiore, quanto sono più numerose: ma i buoni condottieri presto rendono grandi anche picciole armate. Di qua seguita che fiiìchà avrem uomirU buoni al comando, mai avremo penuria di quelli che fac cianci comandare. Or ciò considerati^, e ricordando voi le imprese di Roma ; certo mai non porrete decreti meschini, vili, indegni. Che dunque, se alcuno tnel chiede, ( e già forse bramate da gran tempo saperlo ) che dunque io propongo che facciasi ? Io pro-> pongo che nè spediscansi ambaseiadori d fuorusciti ^ nè sen decida arti, finché raccolto il voto de’ senatori SI dedicassero ai voleri dei più. Se violato 1’ uno e r altro di questi cousigli, faceano di lor voglia la pace ; protestavano che noi permetterebbero, ma vi si opporrebbono di tutto lor animo, colle parole finché dovevasi, o colle arme in ultimo se bisognava. Era que> sto partito J1 più forte, aderendovi quasi tutta la gio ventù palriaia. In opposito piegavano al partito di Me-s uenio e di Valerio tutù quelli che aveano cara la pace, p cbe torneano soprattutto per 1’ età loro, considerando quanti siano .nelle città li mali delle guerre civili. Mossi però dai clamori e dai tumulto dei giovani, adombrati dall’ ambizione loro, e dall’ arroganza contro de’ consoli, e timorosi che indi a poco si venisse alle mani se nou cedevano; si volsero in ultimo a piangere, e supplii care, piangendo, i conirarj. Sopitosi coi tempo lo strepito, e tornato il silenzio, i consoli abboccatisi fra loro, cosi conchiusero. Noi vorremmQ primieramente o Padri Coscritti, che voi tutti foste unanimi d intelligenza e di volere in^ torno la salvezza del comune : se no, che i più gio^ vani almeno cedessero, non ripugnassero d seniori, considerando, che ancK essi giunti alT età di questi avran pari onori dai discendenti. Ora siccome vediamo voi caduti in una discordia, rovinosissima fra i mali umani, e sorgere qui mollo f arroganza de’ giovani ; e siccome poco ornai soprawanza del giorno, nè possono aver fine le discussioni ; ritiratevi dal SeruUo : tornerete in cUtra adunanza più placidi e con sentenze migliori. Che se qui persevera l’ amore delle contese, non più ci varremo de' giovani por giudici, né per consiglieri su ' quello che giova : ma precluderemo il disordine con una legge ; determinando la età che aver dee chi consiglia. Quanto a’ seniori se non si uniscono ne' sentimenti ; torneremo a dar loro la parola, e ne risolveremo le dispute per una via speditissima, la quale è meglio che voi udiate e conosciate precedentemente. Voi sapete che noi abbiamo fin dalla fondazione di Roma, che il Senato è t arbitro, è vero, di ogni cosa, ma non di crearei magistrati, rum di fare le leggi, rum di portare o cesseue la guerra ; le quali tre cose il popolo le difinisce in "ultimo col suo voto. E siccome ora non consultiamo che su la guerra e la pace ; cosi debbe il popolo, liberissittur ne' suoi voti ratificare indispensabilmente i vostri decreti. Quando voi dunque avrete dichiarato i vostri pareri, ru>i scguerulo questa legge, inviteremo la moltitudine al Foro, perchè ne sentenza. Così le' contese avran fine ; mentre ciò che la pluralità dei voti destinavi, quello abhracceremo. Senza dubbio son degni di quest’ onore quelli che si tennero finora henaffetti alla patria, io dico i compartecipi de' nostri beni e de mali. Sciolsero, ciò detto, radunania. Fecera nei giorni appresso annunziare a tutti de’ villaggi e della campagna che si presentassero, e similmente al Senato che si riunisse nel di stabilito ; e qnaudo videro la città riempita di popola, e gli animi de’ patrizj mossi dalle preghiere fatte tra le lagrime, e tra’ lamenti de’ vecchi genitori, e de’ teneri '6gli de’ profughi, recaronsi nel tempo destinato sul finir della notte al Foro, angusto a tutta ia moltitudine. Venuti al tempio di Vulcano donde solcano aringar l' adunanza, lodarono primieramente Il popolo dello zelo e della prontezza nell accorrere in tanta frequenza: quindi lo esortarono che aspettasse in calma la risoluzione del Senato; animando intanto gli attenenti de' profughi a buone speranze, come quelli che riarrebbero tra non molto i loro pegni dolcissimi. Dopo ciò passando in Senato vi tennero benigni e modesti ragionamenti, ed invitarono ancor gli altri a proporre consigli vantaggiosi, ed umani. Chiamarono innanzi tutti Menenio, il quale alzatosi in piede rivenne ai suggerimenti di prima stimolando il Senato alla pace : e riproponendo che si deputassero ai segregati bentosto de’ personaggi, arbitri di concordare. Invitati poi secondo 1’ età sorsero a mano a mano gli uomini consolari: parve a tutti questi che fosse da seguire il parer di Menenio ; finché toccò ad Appio di favellare. Or questi sorgendo t'eggo, disse, o Padri Coscritti che piace ai consoli e poco meno che a tutti di rimpatriareil popolo colle condizioni eh’ ei vuole: che fra tutti i contrarj della pace or io rimangomi solo, esposto aie odio di quello, e niente utile a voi. Ala non per questo rimovomi dalle mie prime deliberazioni : nè ripudio da me stesso ciò che intendo su la repubblica. Quanto piò. restomi derelitto da quelli i quali come me ne sentivano ; tanto piò col volger degli anni ne sarò pregiato tra voi, sarò in vita coronato di gloria, e morto sarò benedetto dalla ricordanza de posteri. Sia pure o Giove Capitolino, o Dei presidenti della nostra città, o eroi e genj, e quanti in guardia avete il suolo Romano, sia pur Diomcj, urna IT. i a8a. hello ed utile a tutti il ritorno de fuorusciti, e delusa resti la espettazione eh’ io ni' avea su 1’ avvenire. Ma se pe’ consigli presenti dee venire (e fia ciò palese tra non molto ) alcun disastro su Roma, deh ! rettyicateli voi prestamente, e fate la nostra salvezza. Deh ! siate benevoli e propizj a me che non avendo mai voluto dir le piacevoli per le utili cose, non tradirò nemmen’’ ora il comune per la mia sicurezza. Io così volgomi a pregare gV Iddj ; perchè non abbisognano più, parole. Ripeto la sentenza di prima : assolvasi IL POPOLO RIMASTO IN CITTa’ DAI DEBITI ; MA COMBATTANSI CON TUTTO L ARDORE I FUORUSCITI TINCBÈ STARANNO SU LE ARMI. E ciò detto Gnl. Poiché le sentenze de’ seniori concordaronsi con quella di Menenio, e poiché venne il discorso ai giovani ; standosi tutti in espettazione, sorse Spurio Nauzio, un rampollo della prosapia nobiliasima originata da quel Mauzio compagno di Enea nel guidar la colonia, e sacerdote di Minerva m'bana, il quale nel trasmigrare aveane portato seco il divin simulacro, dato poi successivamente in custodia a’ suoi discendenti. Ora Nauzio che parea per le sue belle doti più nobile ancora di tutti i giovani, nè lontano mollo dall’ ottenere la dignità consolare, cominciò la difesa comune di questi : diceva che quando nel Senato Anche Virginio fa meniioue di questo Nauxio, che egli chiama Pfautt, nel libro 5. Tum senior PfaMes, unum Triionia Paìlas, Quaeitt docuit, muUaqus insignem reddidit arte, Haec responsa datai precedente avetmo pronunziato in contrco'io de' padri non fu già per amore di contendere o insuperbire con essi, ma solo mancando, se aveano pur mancato, per inesperienza di anni : e qui soggiunse che farebbero fede di ciò col variar sentimento : che lasciavano a loro come più savj decidere co’ voti il ben del comune : essi non contrarierebbono, ma secon' darebbero i seniori. E dichiarando Io stesso ancor gli alni giovani, toltine pochi, legati di parentado con Appio ; i consoli ne lodarono la verecondia ; ed esorta tili ad essere sempre tali ne' maneggi ' pubblici, elessero tra’ seniori piÀ cospicui dieci deputati, uomini consolari tutti, fuori che uno. Furono gli eletti, Manio Valerio, Tito Largio, Agrippa Menenio figlinolo di Gajo, Publio Servilio figliq di Publio, Postutnio Tuberto figlio di Quinto, Tito.Ebuzio Flavio figlio di Tito, Servio Sul picio Camerino figliuolo di Publio, Aulo Postumio Albo prima alle tose loro quei che le aveano lasciate. Presi tali ordini, partirono i deputati nel giorno (1^ Nel testo si omeltoDO Maoio Valerio, Tito Largio, e si nolano altre maacaaxe in questo luogo. Noi alitiamo seguita la lesione di Porlo medesimo. Precedè la fama il giunger loro, divulgando nel campo tutte le cose fatte in città : dond’ è che lasciando tutti le fortificazioni uscirono immantinente incontro a’ deputati che erano in via. Aveaci nel campo un uomo turbolento affatto \ e sedizioso, acuto a preveder da lontano ciocché avverrebbe, nè insufficiente, come parlator lusinghiero, a dirne quanto ne pensava. Chiamavasi questi Lucio Giunio col nome appunto di lui che tolse i tiranni : e voglioso di assumerne il nome per intero, facessi intitolare Bruto ancora. Rideano i più su la cura vana di esso^ e Bruto il chiamavano quando pungere lo volevano. Or questi mise in cuore a Sicinio, duce dell’ esercito, che il bene del popolo non istava nel rendersi troppo facilmente, sicché men degno ne fosse il ritorno per le umili condizioni ; ma nel resistere lungamente, simulando come in tvia tragedia. E profferendosi egli a Sicinio di parlare in favore del popolo, e suggerendogli altre cose che erano da fare o dire, lo persuase. Dopo ciò Sicinio, convocato il popolo, impose a’ legati che dicessero le cagioni per le quali venivano.Recatosi in mezzo Manio Valerio come il più provetto e popolare, e contestatagli dalla moltitudine la sua benevolenza con grida e saluti amichevoli, alfine, fatto silenzio, disse: Niente, o popolo proibisce che vi riconduciate alle vostre case, niente che vi pacifichiate co’ Patrizi. Il Settato ha per voi decretato' un ritorno utile e decoroso j e di non pià ricordare o vendicare il fatto finora. E noi che vedeva propensissimi per voi, come da voi rispettati, ha qui deputato con poteri assoluti di concordare : affinchc noi non opinando nè congetturando su vostri desiderj, ma udendo da voi stessi con quali condizioni chiedete riconciliarvici, ve le accordassimo se moderate, se non impossibili, nè impedite da indecenza insanabile, sene’ aspettare il voto de’ Padri, e senza intristire V affare colle dilazioni, e colla invidia dei contrari. Avendo il complesso de’ Padri così per voi decretato ; ricevetene il dono lieti, pronti, e benevoli s pregiandone degnamente una sorte sì bella, e ringraziando vivamente gV Iddj che Roma, la dominatrice di tanti popoli, che il Senato, regolatore di tutto il bene che è in essa, mentre V usanza della patria non permette che cedasi ad alcuno, cedano alle istanze vostre solamente, nè pretendano come i più. grandi su’ men grandi discutere minutamente quanto conviene ad ambedue, ma primi essi vi spediscano per. la pace : che non piglìasser con ira le risposte imperiose da voi fatte ai primi ambasciadori, ma pazientassero alt orgoglio e fierezza di una ostinazione giovanile, come il buon padre sul figlio non savio : che volessero indirizzarvi una seconda ambasceria, diminuire i loro diritti', e rimettervisi dove la moderazione il consente. Giunti a tanta felicità non esitate a dime ciocché bisognavi, e non esorbitate o cittadini : lasciate le sedizioni : tornatevi giubilando alla terra che vi ha generati e nudriti : Allude ai scDatorì che arrebbono perorato in contrario nei Senato. Già non le deste voi li trofei e le ricompense pià belle, riducendola quanto è da voi solitaria, o come un campo da pascolarvi. Se trascurate questa occasione, forse ne richiamerete pià volte la somigliante. Taciotosi Valerio fècest innanzi Sicinio, e I disse, che chi ben consulta non riguarda V utile da una banda sola, ma lo contempla nel suo rovescio ancora, principalmente in affare di tanta importanza. Pertanto comandò che chi volea rispondesse a ciò, deponendo ogni verecondia e timore. Non permettere la natura delle cose che essi benché ridotti a tante angustie cedessero per paura o per vergogna : E qui, fatto silenzio, e gli uni riguardando su gli altri, e cercando chi perorasse pel comune; ninno si presentò. Ma replicando Sia aio altre volte l’ istanza venne alfine in mezzo secondo gii accordi quel Ludo Ginnio desideroso di essere cognominato Bruto : ed avuto a far dò grandi significazioni dalla moltitudine, tenne questo ragionamento : Il timore che avevate de’ Patrizj o compagni è scolpito ancora per quanto vedo, e triorfa negli animi vostri. Abbattuti da questo timore esitate far qui, udendovi tutti, i discorsi che usavate tra voi. Forse ciascuno confida che il vicino suo aringherà sul comune, e che piuttosto incorrerà tra’ perìcoli ogni altro e non egli : ami che egli tenendosi in salvo, goderà senza perìcoli parte del bene che possa mai nascere dall ardire degli altri : ma stolto è questo concetto. Imperocché se tutti aspettiamo la stessa cosa, la codardia di ciascuno sarà nocevole a tutti; c dove ognuno figurasi la sua sicurezza; ivi insieme con tutti rovinerà la comune. Ma se non avete appreso finora che per le arme ci togliemmo la paura, e per le arme avete consolidata la vostra libertà ; conoscetelo ora almeno, ed i Patrizj, essi stessi ve 10 insegnino. Questi orgogliosi, questi durissimi uo~ mini, non vengono come prima comandando e minacciando, ma supplicandoci, ed esortandoci a tornare alle nostre case : e già cominciano a trattarci come liberi veramente. Che dunque or più vi anneghittite e tacetq ? Che non la Jote da liberi uomini ? c se avete già scosso il freno : che non dite qui ora pubblicamente ciocchò avete sopportato da loro ? O miseri ! e quali patimenti temete ? se io stesso v invito a parlar francamente ? Io dunque, io stesso mi rischierò di dire liberamente per voi ciocché è ffusto, senza niente occultare. E poiché Valerio dice che niente proibisce che vi rendiale alle case vostre concedendovisi dal Senato il ritorno, ed essendosi decretato di non perseguitarvi ; io risponderò a lui cose nemmeno vere che necessarie a dire. Oltre i motivi ben grandi e varj, tre ne sono o Valerio fortissimi e chiarissimi che c impediscono di rimetterci a voi deponendo le armi. Il primo è che venite a noi per esortarci come traviati; e Radicate beneficenza vostra accordarci il ritorno : 11 secondo è che invitando noi a pacificarvici, niente dichiarate le condizioni compiacevoli o giuste su le quali possiamo ciò fare : è poi ! ultimo che niente di quanto ci promettete sarà per essere stabile, giacchè avete continuato a rigirarci e deluderci tante volte. Discorrerò di ciascuna di queste cose, incominciando dai diritti ; giacché sempre dai diritti si vuol cominciare sia che trattinsi le cose private, sia che le pubbliche. Noi dunque se ve ne abbiamo mai fatte, noi non chiediamo nè impunità nè dimenticanza delle ingiurie. E non yorremo piò. rio starci a parte della vostra città, ma dandoci in balia della sorte e dei genj che ci guidino, ci fermeremo là dove .porta il destino. Ma se per colpa vostra noi siamo ridotti alla condizione in cui ci troviamo ; e percpè non confessate che voi li quali foste gli oltraggiatori, voi abbisognate anzi di perdono e di dimenticanza ? Come dite di accordarci voi questa ; quando avreste a dimandarcela ? Come così vi magnificate quasi voi calmiate lo sdegno verso di noi, quando dovreste cercare che noi verso di voi lo placassimo ? Cosi confondete la natura della verità, così la dignità dei diritti pervertite ! Che poi non siate voi gli offesi ma offensori; che voi beneficati tante volte e tanto dal popolo per fondare la libertà e V impero, lo abbiate non bene contraccambiato ; uditelo, e convincetevene. Io non parlerò se non di cose che voi sapete, e se alcuna mai sarà falsa ; reclamate per gli Dei ve ne prego, non che stiate a bada pazientando. Il nostro governo primitivo fu monarchico, e lo abbiamo conservato per sette generazioni. In tutti que’ principati il popolo non fu mai conculcato dai re, specialmente dagli ultimi. Anzi lascio di dire che derivò da quel dominio molti e segnalati vantaggi;. a8g impemcchè per obbligarlo a sestessi e console porgeva al popolo, noi non più memori verso di voi dei mali antichi, noi pieni di lusinghiere speranze per f avvenire, ci dedicammo tutti a voi stessi; e dissipate in poco tempo tutte le guerre, tornammo con seguito folto di schiavi e di prede bellissime. E voi, ne avete voi dato ricompense giuste, o degne de’ pericoli ? ma quando mai ? troppo lungi ne siamo. Anzi ne avete tradito le promesse che imponevate al console di farci a nome del comune. E quest’ uomo bonissimo, del quale abusavate per deluderci, lo avete. questo privato del trionfo, quando degnissimo ne era più che tutti i mortali. Nò già per altra cagione così ancor lo spregiaste, se \ non perchè vi dimandava che adempiste le promesse, e perchè sdegnato mostravasi che ci beffaste. Ultimamente ( vi aggiungo questo solo intorno al diritto, e finisco ) quando gli Equi, i 5abini, i Volsci insorsero di comun voto, e concitarono ancor gli altri, non foste ridotti, voi venerabili e gravi, a ricorrere a noi negletti e vili, colmandoci di promesse per iscamparvela ? e non volendo parer d’ ingannarci come altre volte, trovaste per coprir la impostura questo Mania Falerio, uomo amantissimo della plebe. E noi credendogli come a uomo dal quale non saremnw traditi perchè dittatore, ed amicissimo nostro f ci consociammo novamente a voi per questa guerra, e vincemmo i nemici con ‘ battaglie non poche, nè pieciole, nè ignobili Ridotta la guerra a bellissimo fine prima ancora delle sperante comuni, tanto foste alieni da renderne grazie, e ben copiose al popolo, else cercavate ritenerlo anche senza voglia, sotto le insegne e fra V armi, per trasandar le promesse, come trasandarle destinavate fin dal principio. E non tollerando il valentuomo la beffa, nè la infamia delV opera, e riportando in città le bandiere, e rilasciando tistti per le proprie case ; voi, presone motivo onde non far la giustizia, ingiuriaste lui, nè serbaste a noi veruna delle convenzioni con tre abusi gravissimi, perchè profanaste la maestà del Senato, annientaste il credito di un tal uomo, e rendeste inutile cC vostri benefattori il merito delle fatiche. Omj potendo noi dir queste e simili cose non poche, non abbiamo o Patrizj voluto piegarci (die umiliazioni ed alle preghiere, nè accettare come i rei di gravissime colpe, il ritorno su la obblivion del passato. Sebbene, essendoci noi qui riuniti per concordare ; non dobbiamo ora investigare pià sottilmente queste cose, ma vociamo trascurarle e dimenticarle, • e tenercele. Che non dite voi dunque palesemente a qual fine siete qui deputati, e qual cosa venite per chiederne ? Su quali speranze volete in città ricondurci ? Qual sorte abbiamo a prendere per guida del nostro ritorno ? Qual giubilo, quale benevolenza ci aspetta ? Fin qui non abbiamo punto ascoltate esibizioni umane e benefiche, non onori, non magistrature, non sollevamento dalla indigenza, nè altre cose qualunque, sebbcn tenuissime. Quantunque non dovea già dùcisi ciocché siete per fare, ma ciò che fate, perchè sperimentandovi subito benevoli nelle opere vostre, vi argomentiamo ancor tali per l’ avvenire. Ma io penso che voi risponderete a ciò, che voi siete qui plenipotenziari, e che qualunque^ cosa ci persuaderemo a vicenda, sarà stabilita. Or_ sia ciò vero; e ne sieguano conformi gli effetti ; niente vi contraddico. Bramo però sapere le cose che da loro ci si faranno dopo queste. Vale a dùe, quemdo avremo noi detto su quali condizioni vogliamo il ritorno ; e quando ci saran concedute ; chi ci sarà di esse mallevadore ? Su quale sicurezza deporremo le armi, e metteremo le nostre persone di bel nuovo nelle lor mtmi ? Su quella forse dei decreti che si faran dal Senato, non essendovene ancora ? Ma qual cosa mai impedirà che annullino questi con altri decreti, quando così paja ad Appio e ad altri che pensan com’ egli ? Con^ teremo forse su la dignità dei deputati che ne porgono in pegno la fede loro ? Ma prima ancora ci han deluso colla interposizione di tali uomini. Riposeremo forse ne trattati fatti innanzi agV Iddj, e confermati da loro co' giuraménti? Ma io temo di ogni fede umana consimile, vedendola da quei che comandano vilipesa. E so, nè già ora per la prima volta, che i trattati forzosi tra chi brama esser libero e chi vuol dominare han vigore soltanto finché la necessità così porta. Or quale è queir amicizia e quella fede nella quale siamo costretti ad ossequiarci contro voglia, insidiando t uno il tempo dell' altro ? Allora incessanti i sospetti e le calunnie; allora le invidie e gli od] ed ogni maniera di mali: allora la gara di preoccuparsi a distruggere V emolo ; riuscendo ogn indugio a mal termine. Non vi è, come tutti sanno, guerra più. trista della civile : questa i vinti fa miseri, ed ingiusti li vincitori : e li 'vinti han dagli amici i lor mali, i vincitori agli amici li causano. Or voi dunque o Patrizi vogliate chiamar noi a pari circostanze, a pari bisogno non desiderabile ; e noi o plebei non ci rendiamo loro mai più: ma come la sorte ci ha divisi, così teniamoci in calma. Abbian pur essi tutta Roma, senza noi se la godano, e ne raccolgano soli ogni bene, essi che han ridotto fuor della patria noi miseri, noi disonorati plebei. E noi andiamocene pure dove gt Iddj ei guidano, considerando che non la nostra ma t altrui città lasciamo. Niuno di noi qui lascia non campagne proprie, non abitazioni paterne, non sacerdozi, non ‘ magistrature comuni come in sua patria per t esercizio delle quali siavi ritenuto pur contro voglia ; anzi nemmeno lasciammo qui per noi la libertà, quella che ci avevamo colle arme e con tanti travagli acquistata. Imperocché parte i nemici, parte la miseria quotidiana, parte V alterigia degli usurieri ci han guasto e consunto e tolto ogni cosa : tanto che noimiseri eravamo ridotti a coltivare le terre di questi zappando, piantando, arando, pasturando, divenuti conservi degli schiavi loro da noi presi colle arme; e chi di noi portavamo catene alle mani, chi ne piedi, chi nella cervice finalmente, come fere intrattabili. E qui non ricordo le ferite, gli avvilimenti, le battiture, le fatiche da notte a notte , ed ogni altra sevizia, e non le ingiurie, e non C orgoglio che ne abbiam sostenuto. Liberati, la Dio mercè, da tanti e sì gran nudi, fuggiamo ben contenti quanto possiamo e sappiamo, e prendiamo per. duci della fuga la sorte e gl’ Jddj li quali veglian per noi, considerando come patria nostra la libertà, e la virtù còme nostrà ricchezza. Ogni popolo nè, ammetterà, sì perchè non molesti, come perchè utili a chi ne riceve. E ci siano in ciò' di esenqtio molti Greci, Dal tempo prima dell’alba fiuo a aera. e molti barbari, e principalmente gli antenati tii quelli e di noi. Gli antenati nostri passando con Enea dal£ Asia nelC Europa fondaronsi nel Lazio una patria : e poi spiccandosi da Alba sotto gli au spicj di Romolo che guidava la colonia, pigliarono sede ne' luoghi appunto abbandonati da noi. Abbiamo noi forze non già poco maggiori che essi, ma triplicate, e celione molto più giusta di trasmigrare. Quelli partivan da Ilio perseguitati da nemici, e noi di quà dagli amici : e ben è più misera cosa essere espulsi dai domestici, che dagli estranei. Quei che a Romolo si ligaroho per compagni trascurarono la patria per cercare terre migliori : ma noi lasciamo un vivere senza città, un vivere senza case paterne quando rechiamo la colonia : e certo la rechiamo non odiosa agl Idàj, non molesta agli uomini, nè gravosa a terra niuna ; non rei' del sangue e della strage de’ cittadini che ci han discacciati, non rei del ferro o del fuoco messo ai campi che abbandoniamo, nè di altro monumento qualunque fondatovi di eterna inimicizia; come spinti da necessità sconsigliata rei se ne fanno i popoli traditi nett aUeanza. Noi chiamati in testimonio i genj e gl' Iddj che guidano con giustizia le cose mortali, e lasciandQ'che essi prendano per noi la vendetta, abbiamo chiesto unicamente di riavere i nostri teneri figli, i (secchi Padri, che in città si rimasero, e le mogli in fine, se alcune pur vogliono dividere con noi la nostra sorte. Contenti di ricevere questo, non altro dimandiamo da Roma, E voi tanto impolitici f tanto insocievoli verso de' miseri, vivete felici, e come più desiderate. Appeaa Bruto ebbe ciò '' detto si tacque. Parve agli astanti tutto vero quanto disse intorno ai diritti, e quanto per accusare la superbia de’ senatori, principalmente quando dichiarò che la semplicità dei patti era tutta piena d’ intrico e d’inganni: ma quando infine delineò gli alTronti che aveaoo patito dagli usucierì, e ciascuno ricordò li suoi mali ; niup v ebbe sì fermo di animo, che non si desse a piangere, e lamentare i danni comuni. Nè impietosirono già sol essi, ma fino gl’ inviati dal Senato. Non poteano que’ seniori contenere le lagrime, pensando la calamità per la separazione de' citudini : e rimasero gran tempo tra 1’ afflizione, e tra ’l pianto senza sapere ornai che più dire. Cessali gli alti gemiti, e tornato il silenzio nell’ adunanza, procecedelte per farvi le difese Tito Largio autorevole sopra tutti i citudini per anni, e per dignità, come lui che due volte console, e già rivestito della ditutura, avea con esercitarla bene più che gli altri, renduu venerabile, e sanu una carica altronde odiata. £ datgsi a parlare sopra i diritti, e ulvolta incolpando gli usuraj perchè aveano operate cose durg, e disumàne ; talalira rimproverando i poveri come non giusti nel' chiedere che si rimettessero ad essi i debiti per forza anzi che per grazia, e nell’ esacerbarsi col Senato piuttosto che con quelli che impedivano che si'ccmcedesse loro alcuna cosa anche moderaU; e dippiù tentando mostrare cl^e picciola era la parte del. popolo, .ingiuriosa suo mal grado, e necessiuta a dimandate per la igopia gravissima la condonaeione dei debiti, ma più grande assai la parte la quale esigeva ciò perche viveasi scorretta, insolente, voluttuosa, e preparata a supplire co’ furti alle sue passioni, talché ' doveansi ben distinguere i poveri dai ribaldi, quelli che erano da compatire da quelli che erano da odiare ; ed aggiungendo in (ine discorsi consimili, veri si ma non grati generalmente; non soddisfece tutta la udienza. Dond’ è che sorsene strepito grande di voce, altri sdegnandosi. quasi rincrudisse loro gli affanni, ed altri confessando che dicea pur troppo il vero. Ma perciocché gli ultimi erano assai minori di numero, scomparivano tra la moltitudine degli altri, e prevaleano soprattutto i clamori degli adirati. À queste cose ne aggiugnea Largio poche altre su la partenza e precipitanza loro, quando ripigliando la parola Sicinio il capo del popolo ne riaccese assai più lo sdegno con dire : che ben poleano da un tal parlare, comprendere quali onori e quali ringraziamenti ne avrebbero, se tornassero nella patria. Se quelli che slansi nel colmo de’ pericoli, ed abbisognano del braccio del popolo, e per questo a lui vengono, non san trovare nemmen ora discorsi moderati ed umani; qual animo dee credersi che avranno quando siano .le cose riuscite loro secondo il disegno, e quando chi offendono ora colle parole, sia sottomesso loto ancora nelle opere ? Da quali insolenze mai si conterranno ? da qual; flagelli, o da quali tiranniche sevizie ? Se a voi dà il cuore, ei dicea, di servire tutta la vita incatenati, battuti, straziati col ferro, col fuoco, colla fame, con ogni guisa di maU; su, non perdete tempo, gettate le armi, seguitateli. Ma se V è pure in voi desiderio di libertà ; non pazientate ornai più. Ambasciadori ! o dite su quali cortidizioni ci richiamate ; o partite daW adunanza ; perchè non lasceremo più che vi parliate. E qui tacendosi lui, tutti gli astanti ne strepitarono, acclamandolo, perchè area detto a proposito. Restituitasi quindi la calma Menenio 'Agrippa il quale areva interloquito in Senato sul popolo, e proposto e fatto principalmente che gli s’ inviasse un’ ambasceria plenipotenziaria, fe’ cenno di volere aneli’ egli discorrere. Riuscì la richiesta gratissima ; e parea come r augurio che udirebbe nsi allora Analmente condizioni giuste, e salutevoli ad ambe le parti. E subito esclamarono tutti a gran voce, che parlasse. Poi si chetarono, e si profondamente, quasi fessevi solitudine. Parve uu tal uomo, com’ era verisimile, assai persuasivo nei suoi discorsi, e tutto confacevole ai voleri della udienza: è' fama però che in ultimo proponesse una tal favola sul gusto delle Esopiane espressivissima delle circostanze, e che con questa principalmente li guadagnasse. Dond’ è che la favola fu creduta degna di ricordanza, e rapportasi io tutte le storie antiche. L’, aringa di lui fu questa : Popolo, noi veniamo dal Senato a voi, non per difendere lui, nè per accusarne voi: nè già pormi che il tempo ciò chieda, nè che ciò sia prosperevole per la sorte della .repubbUca. Ma noi veniamo con tutto f ardore e V efficacia per 'levar le discordie, e rimettere la > repubblica nel 'buon ordine primitivo^ rivestiti per ciò fare di^ un potere assoluto. Pertanto non pensiamo che,sian ora da esaminare i diritti > come fece con orazione lunghissima questo Giunio ; pensiamo piuttosto che debbansi con gli amorevoli modi ricongiunger gli spiriti. Qual fede sia poi per garantire le nostre convenzioni, ve lo esporremo, appunto come ne cibiamo deliberato. Considerando noi else le sedizioni si curario in ogni città col to gliere i semi delle discordie, abbiamo giudicato ne cessarlo di conoscere e spegnere le cause produttrici della divisione. Or trovando noi che le esazioni dure de’ presuli sono la origine de’ mali presenti ; così le correggiamo. Decretiamo che quanti soggiacciono a debiti, nè possono estinguerli, ne siano del tutto assoluti. Decretiamo Uberi tutti, quanti son detenuti per aver differite le paghe oltre i tempi legittimi, e decretiamo liberi infine quanti furono in mano consegnati dei creditori per sentenze speciali di giudici^ annullando noi queste totalmente. Cosi ripariamo ai contralti precedenti tenuti come causa della sedizione: ma quanto a centratti avvenire facciasi come ne ordinerà la legge che sarà costituita da voi, da tutto il popolo, dal Senato. Dite, non erano queste le cose che vi alienas>ano da’ Patrizf ? Non giudicavate voi che sareste conienti, e che altro di più non bramereste, se le impetravate Oggi vi si concedono ; andate, tornatevi' gittiilando alla patria. I riti poiche convalideranno ed assicureranno questi trattati saran quelli appunto delle leggi, usati nel depórsi delle inimicizie. Il Senato approverà pur egli questi trattati ^ e darà loro forza di Digilized by Google 3o2 delle Antichità’ romane leggi quando scritti gli avremo. Anzi schiviamoli qui noi come ne piace ; ed il Senato vi sarà sottomesso. E che questi si rimarranno indelebili ; che il Senato non potrà mai sopraggiungervi nulla in contrario, noi qui deputati, noi li primi ne facciam garanzia sul corpo, e vita, e stirpe nostra, e con noi pure ve ne fan garanzìa li senatori che firmeranno il decreto. Imperocché mai, ripugnandovi noi si decreterà cosa niuna contro del popolo ; giacché noi -siamo li primi del Senato, e noi li primi a dichiarare i nostri pareri’. ven farà da ultimo garanzia la fede comune atutti i Greci, e a tutti i Barbari, quella che niun tempo mai potrà cancellare, quella che con giuramenti, e libagióni rende i Numi vindici degli accordi, e su la quale chetaronsi tante, e non picciole nimicizie de’ privati, e tante guerre di repubblica con repubblica. Or questa fede ricevetela ancora voi ; sia che vogliate permettere a noi, pochi si, ma capi del Senato, di giurarvi a nome di questo,^sia che vogliate che tutti i Padri sottoscrivano e giurino con rito santo di serbarvene i patti inviolati. E tu, o Bruto, non incolpare il pegno delle destre, non le libagioni, non la fede data invocandone i Numi, né togliere tali espedienti bellissinii degli uomini: e voi non vogliate tollerare che costui ricordi le promesse tradite dai scellerati e dai tiranni, da quali tanto è lontana la virtà de’ Romani. Or lasciate, che io soggiunga (e terminò) una cosa non ignorata i fiè controversa da rtiun dei/ mortali. Ma quale è mai questa? Essa importa >'t utit colmine,. e saU/a le parti f una colt altra : essa è r unica e sola che ci raccolse già tutti in un corpo, e che mai farà separarci. Abbisogna, nè mai cesserà di abbisognare la moltitudine imperita di sas>j che la dirigano ; come un complesso di savj idonei a dirigere abbisogna di chi lascisi governare. Nè ciò per immaginazioni sappiamo, ma per esperienza. Che dunque ci riduciàmo a tremare brigandoci gli uni con gli altri ; o che ci logoriamo in triste ^parole ; essendoci facilissimo tornare alt utile nostro ? Che dunque non ci espandiamo, ed abbracciamo, e voliamo (dia patria, aUe antiche delizie, agli oggetti di tanti dolcissimi e soavissimi nostri desiderj ? A che cercare impossibili assicw'ozioni? A che fidanze malfide^ come in guerra nemici fierissimi che in tutto sospettano il peggio ? A noi, o plebei, a noi membri del Senato, basta la sola vostra parola, clte non sarete se tornate iniqui con noi: e perchè ? perchè sappiamo il vostro buon allevamento, la istituzione legittima, e le altre virtù che avete in guerra ed in pace dimostrate. E se i contratti oggi ottengono a nome del comune una riforma, così dimandando la fedeltà, così la speranza, degli uni verso degli altri ; teniam certo ancora che siano per corrispondere in voi le altre buone doti : e niente da voi cerchi (uno ^i giuramenti, niente gli ostaggi, nè altro pegno qualunque di sicurezza ; nè però mai contrarieremo le vostre dimande. Ma ciò basti su la fedeltà intorno • la quale Bruto c incolpava. Che se in voi resta aricora alcuna, invidia non degna, che vi àccita a pensar' pravanten^s del Senato •, io dùò pur. di questa : e voi attenti, in calma, ascoltatemi o plebei. 1 ' Somiglia ad un corpo umano una repubblica : perciocché l uno e t cdtra risultano da più parti ; nè ciascuna delle parti in essi ha forze eguali, né porge un uso medesimo. Adunque se le membra del corpo umano ricevessero tutte, come il senso, la voce, e poi nascesse discordia fra loro congiurandosi tutte le altre ad una ad una contro del ventre, e, li piè si dolessero che il corpo intero poggiasu loro, le mani che solo esse traltan le arti, procacciano il necessario, combattono co’ nemici, e pongono molti t^ri beni in comune-, gli omeri perchè p'orVan essi ogni peso, la bocca perchè parla, la testa percitè vede, perchè ode, e perchè comprende tutti i sensi onde il complesso vive del corpo ; e se quindi dicessero, or tu buon ventre fai tu niuna di queste cose ? quale riconoscenza, qual utile tu ci rendi? Anzi tanto sei lontano dal cooperare e dal compiere con nei alcun utile comune ; che ne impedisci e conturbi, e quel che è più intollerabile, ci necessiti a servirti, e portarti di ogn intorno quanto ti sazj negli appetiti tuoi. Orsù; chè non ci rendiamo noi liberi, nè cessiamo dalle cure che .in grazia di lui sosteniamo ? Se così piacesse loro, se nhtna parte più fornisse le proprie funzioni-, or potrebbe il corpo a lungo 'sussisterne ? Anzi in pochi dì consumerebbesi dsdla fame, pessimo fra tutti i mali ; e niuno può dirne il contrario. Or concepite pure altrettanto di una repubblica. Compiono questa molti generi di persone niente, infra li>r,sornigUanti'; e ciaicùno le porge un uso proprio di lui t come le nsembra lo porgono al corpo. Chi coltiva i campi f chi pe' campi combatte co' nemici : chi ne reca assai beni tr^Jicando pe' mari ; e chi travaglia in su le arti necessarie. Se ciascun genere di queste personeinsorga contro il Senato, che è l’ ordine degli ottimali, e dica ; qual cosa, o Senato, tu ci fai di bene ? e per qual causa, non avendone tu alcuna; vuoi, comandare sugii altri? Non ci terremo una volta da questa tirànnide tua ? nè vivremo indipendenti ? Se con tali pensieri si levasse ognuno dalle usate incombente ; cosa impedirà che una tale sconcia repubblica miseramenteperisca per la fame, per la guerra, per ogni male ? Istruiti dunque, o voi del popolo, che come ne' corpi nosU'i il ventre accusata a torto da molti, nudrito nudrisce, conservato conserva ; e quasi uim dispensa universale, porge ad ogmino il' suo bene, e la sussistenza in un tutto ; così nelle repubbliche il Senato che matteria il comune e provvede a ciascuno V utile suo, tutto salva e custodisce e dUrige ; cessate di lanciar contro lui voci ccUunniose, quasi per lui siate fuori della patria, e ne andiate raminghi e mendici. Il Senato non volle mai questo, nè farawelo : anzi vi chiama, evi supplica, e vi stende le mani, e vi spalanca le porte, e raccoglievi. Intanto che Menpnìo concionava, sorgeano ad ora ad ora voci varie e molte da^i astanti. Ma pai> chè sul fine del suo ragionatiteoto si diede a comma veri!, e 'deplorare le disgrazie e la sorte immiucnle su DlOUtai, lomo II. a di ambedue, su quelli rimasi in città e su gli altri che ne erano usciti ; si misero tutti a piangere, ed unanimi ad una voce gridarono che li riconducesse alla patria, né più s’ indugiasse. E poco mancò che partissero tutti a furia dall’ adunanza ; rimettendo ogni cosa ai deputati senea brigarsi più oltre della sicurezza. Se non che Bruto facendosi innanzi ritardò l’ impeto loro, dicendo : che erano pur buone per quei del popolo le promesse del Senato, e chiedendo che grazie appieno gli si rendessero per le cose a loro concedute. Aggiungeva ancora di temere per l’ avvenire che uomini una volta oppressivi, si dessero, venutone il tempo, a ricordare, e punire le cose operate dal popolo. Jtimanervi una sicurezza sola per quelli che temono questo dagli Ottimati, cioè quella di rendere indubitato che, se vogliono, non posson piii offenderli. Finché sta in essi il poter danneggiare, non mancheran de malvagi che il vogliano. Pertanto se il popolo ottenga tal sicurezza ^ -non altro resteragli da chiedere. Ripigliando Menenio, ed invitandolo a dire qual sicurezza pensava che al popolo bisognasse, concedeteci, disse, che noi ci scegliamo ogni anno dall' ordine nostro alcuni magistrati i quali non siano ad altro autorizzati che a proteggere gli oltraggiati, e gli oppressi nel popolo, nè lascino che alcimo sia defraudato de' suoi diritti. Alle^ cose accordateci aggiungete in grazia ancor questa, ve ne preghiamo, ve ne supplichiamo, se la pace esser dee non in parole, ma in fatti.. 11 popolo udendo un tal dire lo accompagnò con grandi e lunghe acclamazioni, raccomaiidau dosi ai deputati che gli concedessero anche questo. I deputati ritirandosi daU’adunanza, e conferendo alquanto in fra loro, vi ritornarono dopo jion molto. Taciutisi tutti, Menenio fattosi iunanzi disse : La dimanda è grande e piena o plebei di enormi sospetti. A noi viene timore ed ansietà che non abbinasi a fare due città di una sola. Quanto è da noi, nemmeno in ciò vi ci opporremo, or voi compiaceteci (tende anche (Questo al ben vostro ) date a tre deputati che tornino in Aonuif e narrino al. Senato la richiesta. Non ci arr roghiamo noi di risolverne > quantunque abbiamo da esso U potere di concordare come ne piace, arbitri in tutto di prafnettere.. Siccome il caso che ci occorre è inaspettato e nuovo ; così ce ne riportiamo ai Padri, quasi in esso V autorità ci si limiti. Ci persuadiamo, pelò ‘ che essi ne sentiran come noi. Frattanto io qui resto >, e con me parte dei deputati. Valerio e gli altri onderanno. Stabilito ciò gl’ incaricati d’ informare il Senato spronarono i cavalli alia volta di Roma. Proponendo i consoli in Senato la richiesta; Valerio opinò che si concedesse. Appio, nimico Gn da principio di ogni, accordo, contraddisse anche allora chiarissimameute, esclamando e rilevando, chiamatine in testimonio i Numi, i germi dei mali che impiantavano alla repubblica. Non però convinse la pluralità, desiderosa, come ho detto, di .spegnere la discordia. Adunque il Senato autorizzò con suo decreto lè promesse dei deputati ai popolo, come pure che gii accordassero la sicurezza che dimandava. Fatto ciò tornando il giorno ap|>resso i deputati nei vi eapoM0a4.";^HH Ieri del Senato. Quindi esortando ' MenenioU'^poii^lD d’inviare alquanti a’ quali il Senato desse la Sull' ftdé ; fu spedito Lucio Giuùo Bruto, del qnale abbiÀtt'i^no di sopra, e Marco Decio, e Spurio Icilio con esso. Andò metà dei deputati compagna di Bruto in Roma. Agrippa, pregatone, si rimase nel campo, per istender la legge a norma delia quale il popolo creerebbe i suoi magistrati. 'Nel di seguente Bruto rìlortiò già fatti i patti col Senato per mezzo de’ Feciali, che cfaia> mano. Divisosi allora il popolo in Fratrie, come ah tri qui nominerebbe quelle che essi dipono Curie, dichiarò suoi, magistrati dell’ anno Lucùr Gìnnio Bruto, Cajo Sicinio Belluto, 6 no a > quel di loro capi, e con essi ancora Ca}o e Publio Licinio ì e Cap Icilio Ruga. Assunsero questi cinquei primi' la^ potestà tribunizia, quattro giorni avanti le idi di ’decembre {%), CO 7 me pur nel mio tempo si pratica. Firttterle ’eiéEÌoni'parve a’ deputati del Senato, adempito l’ intento della loro missione. Ma Bruto, convocata l’ adunanza ' del popolò, consigliò che dichiarassero i suoi magistrati Santi ed: invìo Lìtio, Dionigi, ed altri storirn antichi non ben si accordano sn la nomina di questi magistrati. Livio dice che i due i primi nominati furono Cajo Licinio, e L. Alhiud. e che questi poi si scefaero tre colleglli tra quali fiv Sicinio V autore delia seditìone. -Ma^ Dionigi pone per primi Lucio. _Giunio Bru^o, e C. Sicinio Bellirto : a quindi C. e Fuhiio Liciuro, e C. Icilio Ruga. (3) Anni di Roma 361 secondo Catene, s63 aeeondo Varrona, a 491 avanti Cristo.. 3o9 labili slabilenilone la sicurezza colle leggi e co’giiiramenti. Piacque ciò a tutti, e si fece su lui e su collcghi la legge : che niuno forzaste un tribuno ) come un altro qualunque a far mai cantra sua voglia ; ni lo battette, ni lo uccidesse, né ordinasse ad altri di balte rio, o di ucciderlo. Che te alcuno a dà contravvenga anche in parte ; itane reo capitale ; se ne diano a Cerere -i beni : e chiunque lo uccide, abbiasi coma puro dalla strage. E perchè non si potesse mai più far cessare questa legge, ma restasse immobile iu ogni ar venire ^ si stabili che ì Romani giurassero tutti co’ riti santi dì osservarla ' essi, ed i posteri loro perpetuamente.E si aggiunse ai giuramenti la preghiera, che gli Dei superni, ed inferni fossero propizj a' chiunque favoriva la legge, ma contrarj a quanti la violavano, come cootaminati di delitto gravissimo. Da indi sorse ne’ Romani il-cosWme che persevera pur ne’ miei giorni, di riguai^ dare le persone de’ tribuni come sacrosante. XC. Concordato dò, fecero un aitare su le dme della montagna ovo s’^erano accampati, e lo denomina rono nell’ idioma, loro, l’altare di Giove la cito su la fiducia di respingere i nemici che si avan zavano ; ma costretti bruttamente a fuggire^ prima di dare alcuna nobile prova, nemmen fecero punto di ger nevoso combattendo poi su le mura. Adunque i Ro> mani in un sol gioruo s’ impadronirono sehzà tere dei lor territorio, e, ne presero a forza la citti, nè con molto travaglio. Il comandante Romano concedè '. .. 'V (t) Vuoi' (lire Edile. Era qacsto vócaboìo proprio d’ RoroasK' che le miline si approp lasserò le robe invase; e presi diala la città, ne andò col resto deli’ esercito contro l'altra città de’ Volsci, chiamata Polusca, non molto lontana da Longola. Nè osando alcuno di uscirgli incontro, percorse facilissimamente U campagna, e ne investi le maia. E datisi i soldati, chi a spezzare le porte, chi a scalare le mura ed ascenderle; Polusca anch’essa fu presa nel giorno medesimo. Il console scel-, tivi alcuni pochi, autori della ribellione, li fe’ morire : e multati gli, altri in danari, e spogliatili delle arme; gli astrinse a dipendere in avvenire dai Romani. Lasciato anche in guardia di Digitized by Google 3aa Delle antichità’ romane ni. Volgendo la olimpiade sessantesima quarta, in-' tanto che Milziade 'era arconte di Atene, i Tirreni dei contorni del golfo Jonio, cacciati poscia di là dai Galli, e gli Umbri con essi, e li Dauuj, ed altri barbari in copia tentarono distruggere Cuma, Greca città tra gli Opici fondata dagli Eretrj e da’ Calcidesi , senz’ altra vera cagione, se non che ne odiavano la prosperità. Imperocché Cuma famosissima di quei tempi in tutta r Italia per la ricchezza, per la potenza, e per molti altri beni, avea le terre le più fruttuose della Campania, con porti utilissimi presso al Miseno. Invidiandone i barbari il si gran bene, le mossero incontro con diciotto mila cavalli e con cinquecento mila fanti (a), e non meno. Accampatisi questi non lungi dalla città surse un portento meraviglioso, quale non ricordasi accaduto mai nè tra’ Greci dovunque, nè tra’ barbari. I fiumi che scorreano presso gli alloggiamenti ( Volturno nominavasi 1’ uno, e l' altro il Ciani (3) ) lasciando lo Gli Eretrj ed i Calcidesi erano popoli dell’ Eukea o Ne^o ponte. Elrelrìa era distante venti miglia da Calcide. Vi erano dus altre Eretrie. Vedi tom. i, la not. al S 4^ parla della prima. (a) Par troppo torrente contro di una città : forse vi à d>aglio nei numeri. (3) Vi sono altri lìami di pari nome. Questo à quello additato da Virgilio 1. a, Georg., Vicina Veitvo Ora jugo,el vaeutt Ctanius non aeqmt acervis. Antonio Boudrand: (vedi novum Lexicon Geographic.) chiama questo fiume Agno ; e dice che passa presso di Acerra, di Aversa e Mintomo. Forse il Ciani h quello stesso fiume che ora chiamasi JPatria nelle catte geografiche scendere lor natarale si ripiegarono, rifluendo gran tempo dall’ imboccatura alle fonti. Vista la meraviglia, fecero core i Cnmani di piombare su’ barbari, come se i Numi fossero per deprimere l’altezza di quelli, e per sublimare loro che depressi ornai ne pareano. Pertanto dividendo in tre corpi la gente militare, con uno guaiw darono la città, con altro le navi, e coi terzo, :hieratoio avanti le mura, aspettarono l’ inimico che inoU travasi. Seicento erano i cavalli Cumani, e quattro mila cinquecento i fanti : pure si pochi di numero tennero fronte a tante migliaja I IV. Ck>me i barbari seppero che eransi appareo:hiati per combattere, dato un grido, coisero in barbara for> ma, disordinati e misti, cavalli e fanfl, appunto per annientarli tutti in un colpo. Il luogo, dove innanzi la città si affrontarono, era una valle angusta, rinchiusa da lagune, e da’ monti, propizia al valor de’ Cumani, ma nemica alla fdUa de’ barbari. Dond’ è che, travolgendosi e calcandosi questi, gli uni gli altri in più luoghi, e principalmente su pel fango intorno la palude, si distrussero in gran parte fra loro, senza pur venire aUe mani colia Greca milizia di Cuma : e quell’ esercito appiedi si numeroso, e disfatto, e sbaragliato da sestesso, fini qua e là fuggitivo, senz’ avere operato nulla di generoso. Li cavalieri però si avventarono, e molto travagliarono i Greci : ma non potendo circondar l’ inimico per r angustia del loco, e temendo i destini che combatteano per Cuma colle piogge, co’ tuoni, co’ fulmini, si diedero anch’ essi alla fuga. In questa battaglia i cavalieri Cumani militarono tutti luminosamente, riconoDigiiized by Google 3a4 delle Antichità’ bomane sciutine quindi come autori della vittoria. Si distinse so' pra tutti Aristodemo cTiiamato Màlaco ; imperocché solo opponendosi, uccise il capitano nemico, e molti valorosi. Finita la guerra porgeansi sagriGzj di ringraziamento ai numi, e davasi magnifica sepoltura agli estinti in battaglia : ma quando si ebbe a decidere a chi si dovesse la corona, come al più forte ; assai se ne disputò. Li giudici più ingenui, e con essi anche il popolo, voleano che ad Aristodemo si concedesse ; ma i più potenti, e con loro tutto il Senato, ad Ippo'medonte, duce de’ cavalieri. Di que’ tempi era in Guma il governo degli ottimati, nè molto il popolo vi potea : ma natavi sedizione appunto per tal controversia, i seniori temendo che tanta ambizione finisse colle armi e colle stragi, persuasero ambedue li partiti di dar "pari onore all' uno e all’ altro di que’ valorosi. Da quell’ ora divenne Aristodemo Malaco il protettore del popolo : e poiché ‘si avea procacciato una persuasiva nei discorsi di Stato, commovea con questa la moltitudine, allettando lei con stabilimenti gradevoli, beneficando coll’aver suo molti ' de' poveri, e rimproverando i potenti che si appropiavano ciocché era del comune. Dond’ é che ne divenne ai primi degli ottimati molesto e terribile., V. Venti anni dopo la battaglia co’ barbari vennero ambasciadori dalla Riccia co’ simboli di pace al Cumani per supplicare che li soccorressero nella guerra contro i Tirreni. Imperocché Porsena re di questi dopo la pace con Roma dando metà dell’ esercito, come esposi ne’libri antecedenti, ad Arunte suo figlio, lo aveva inviato, voglioso che n’era, ad acquistarsi un dominio : e costui di quel tempo appunto assediava gli Arieini rifugiatisi tra le ;nura, sulla idea di prenderne tra non molto la città colla fame. A tale ambasceria li primi degli ottimati odiando Aristodemo e temendo che non causasse alcun male al governo ; concepirono di avere il buon punto di levarsel d’ intorno con delicate maniere.v Persuadendo il popolo a spedire due mila per soccorso degli Aricini, e nominandone capitano Aristodemo come il più insigne nelle armi, fecero poi tal maneggio, nde iusingarsi che colui perirebbe o per le battaglie co’ nemici, o per le fortune di mare. Imperocché resi dal Senato arbitri di scegliere quei che dovrebbero andare di rinforzo, non v’ inchiusero alcuno de’ più famosi e più riguardevoli ; ma reclutando i più poveri e più scellerati .da’ quali aveano sospettato sempre delle sommosse, ordinarono con questi l’ armata, e riducendo in mare dieci navi antiche, pessime a correr le acque, e dandone il comando a Cumani poverissimi, ve la soprapposero, con minacciare di morte chiunque ne disertasse. VI. Aristodemo, dicendo unicamente che non ignorava le mire degli avversar) che in apparenza Io mandavano per soccorrere, ma in realtà per farlo soccombere ; assunse il comando dell’ esercito. E facendo ben tosto vela co’ deputati Aricini, e superando a stento e con pericolo il tratto interposte, di mare, approdò sui lidi più prossimi dell’ Aricia. E lasciata guarnigione sufBciente alle navi, e fatto nella prima notte il cammino il quale vi restava, che certo non era lungo, si presentò su 1’ alba inaspettato agli Aricini. Accampatosi presso di loro, e persuasi gli assediati di uscire all’ aperto sfidò ben tosto i Tirreni a battaglia. Schieratisi ed attaccatisi, gli Aricini resisterono piòciolo' teinpo, e piegarono e rifuggironsi in folla tra le mura. Aristodemo però coi pochi scelti Gumani che avea d’ intorno, so~ Bienne tutto il forte della battaglia, ed uccisone di sua Diano il duce, mise in fuga i Tirreni, riportandone una vittoria nobilissima. Ciò fatto, e magnificato dagli Aricini con doni copiosi rinavigò speditamente verso Cuma peressere egli stesso nunzio della vittoria. Teneano dietro a lui molte barche Aricine colle spoglie e coi schiavi presi ai Tirreni. Avvicinatosi a Cuma e messe a proda le navi, concionò tra 1’ armata. E molto accusando i capi della città, e molto encomiando quelli che si erano segnalati nella battaglia, e dispensando argento e parteci pando a ciascuno i doni degli Aricini; pregò che di tali beneficenze si ricordassero, quando sbarcherebbero nella patria, e lo fiancheggiassero se mai gli ottimati gli creavan pericolo. Confessandosi tutti obbligatissimi per la salvezza insperata che aveano da lui ricevuta, come perchè tornavano colle mani non vuote in famiglia ; e protestando che darebbero a' nemici anzi sestessi che lui ; Aristodemo, rirtgrazionneli, e sciolse 1’ adunanza. Quindi chiamandone al suo padiglione i più ma liziosi e prodi, e guadagnandoli tutti co' doni, co' bei discorsi, e colle spc>anze lusinghiere, li fé pronti a mutare il governo che vi era. VII. Presi questi per ministri e per combattitori, istruitili parte a parte su ciò che avessero a fare, e messi in libertà gli schiavi che conduceva per obbligarsi ancor essi, viaggiò piò oltre colle navi coronate 6no ai porti di Cuma. I padri e le madri de’militari, tutto il parentado, i Ogli insieme e le mogli, venutili ad incontrare mentre scendevano a terra, lagrimavano, gli abbracciavano,. li baciavano, li chiamavano con tenerissimi nomi. Tutto il resto della moltitudine urbana ricevette fra tripudj ed acclamazioni il capitano, accompagnandolo fino alla casa. Di che dolenti i capi della cittò, quelli principalmente che gli aveano affidato 1’ armata e ne aveano con altri modi tramato la rovina, facean tristi colloqui su T avvenire. Aristodemo lasciati decorrere alquanti giorni onde rendere agi’ Iddj li suoi voti ^ e ricevute intanto le sue navi da carico rimaste indietro, alfine venutone il tempo, disse voler esporre in Senato le cose operate nella guerra e mostrargli le prede riportatene. Riunitisi in numero i primarj, ed i magistrati nel Senato, egli fattosi innanzi prese a dire e narrare tutte le cose operate nella battaglia : quando gli uomini apparecchiati da lui per 1 impresa, accorsi in folla nel Senato co' pugnali sotto gli ‘ abiti, vi uccisero tutti gli ottimati. Si diedero allora a fuggire e correre, chi alle proprie case, chi fuori delia città, quanti erano al Foro, eccetto i complici del disegno, i qnali avevano occupato la fortezza, il porto, ed ogni luogo monito delia città. Nella notte seguente sprigionando quanti vi erano ( e molti ve ne erano ) dalle pubbliche carceri, destinati alla morte, ed armandoli con altri suoi amici, tra quali (t) In segno della -riltoria riportala. G>si ae’trionfì ai coronavano ancora LI FASCI erano gli Schiavi Tirreni, ne fece un corpo di guardia per la sua persona. Fatto giorno, convocato il popolo a parlamento, ed accusativi a lungo gli uccisi, disse che erano stati meritamente % puniti ; avendo per tante volte insidiata a lui la vita : ma che, quanto agli altri .cittadini, egli darebbe loro la libertà, la eguaglianza .dei diritti, ed altri beni copiosi Vili. Ciò dicendo, ed elevando tutto il popolo a speranze meravigliose, stabili due regolamenti, pessimi tra tutti i regolamenti ^ ed iniziativi di ogni tirannide, io dico la nuova division delle terre e la remissione dei debiti. Figli promettea provvedere su l’una e l’altra cosa, purché fosse eletto comandante assoluto, finché il comune fosse in salvo, e v’ordinassero uno stato popolare. Con piacere ud) la plebe e tutti i peggiori che avrebbonsi a ghermire i beni degli altri: ed egli, avutone un potere indipendente, aggiunse un nuovo decreto col quale deludendo ancor essi, alfine tolse a tutti la libertà. Imperocché fingendo temere torbidi e sedizioni de’ nobili contro dei .plebei per le assoluzioni dai debiti e per le divisioni nuove de’ terreni, disse che a precludere una guerra ed un eccidio civile, trovava un solo rimedio, cioè che, tutti prima di ridursi a tal male, recassero dalle loro case le arme, e le consacrassero agl’ Iddj per averle nel bisogno pronte contro i nemici esterni se ne venivano, e non contro sestessi: pertanto esser bonissima cosa che stessero quelle presso de' Numi. Persuasi di tanto i Cu> mani ; egli nel giorno stesso ebbe le armi di tutti, e negli altri appresso fe’ cercare le case di • ognuno, \iccldendovi molti buoni, sul pretesto che non avessero portate ai Numi tutte le armi. Dopo ciò fortificò la tirannide sua con tre generi di guardie : il primo fu di que’ vilissimi e reissimi cittadini co’ quali tolse 1’ autorità degli ottimati : il secondo fu de’ servi indegnissimi renduti liberi da esso perchè aveano trucidati i loro pa> droni : ed il terzo furono i militari assoldati da’ barbari più inumani. Erano questi nommen di due mila, e validissimi più che gli altri nelle arme. Tolse le immagini degli uccisi da ogni luogo sacro e profano supplendovi in vece loro le sue. Le case, i campi, ogni avere di questi lo donò tutto ai complici suoi nel preparargli la corona, riservando per sè l’ oro e 1’ argento, e quanto altro è base della tirannide. Ma li doni più numerosi e più grandi li profuse tra gli assassini dei loro padroni ; i quali chiesero perfino in moglie le donne e le figlie de’ padroni medesimi. Quantunque però niente avesse in principio curata la stirpe virile degli uccisi, alfine si accinse a sterminarla tutta in un giorno, sia che per un qualche oracolo, sia che per computi verisimili concludesse che perpetuava con questa a sestesso uno spavento non piccolo. Ma perciocché vivamente nel distoglievano quelli presso a’, quali dimoravano i figli e le madri, egli vo-lando concedere loro un tal dono, gli assolvè, sebbene contro sua voglia, dalla morte. Per cautelarsi però da loro sicché congiurandosi non .insorgessero contro il suo regno ; comandò che uscissero tutti dalla città chi verso r uno e chi verso l’ altro luogo : e vivessero per le I Saidliti del tiraoDu alli quali egli stesso le area mariiate campagne senza istruzione e coltura, propria di liberi giovinetti, con pascer le greggi o con altri campestri esercizi, minacciando di morte chiunque di loro in città fosse preso. Cosi quelli, abbandonati I patri > sosteneansi come schiavi per le campagne, servendo agli uccisori medesimi de’ padri loro. E perchè niente) pi& ci avesse di virile o di generoso prese ad effeminare colle Istituzioni sue tutta la gioventù Cumana, togliendole I ginnasi e gli esercizi militai, e variandone le maniere già consuete del vivere. Volle che I giovani come le donzelle nudrisser la chioma, e bionda la riducessero e ricciasserla, e ricciata di reti lievi la cii^ condassero ; e portassero toghe talari e ricamate, e clamidi sottili e molli, vivendosi all’ ombra. Donne, educatrici loro, li accompagnavano, recando parasoli e ventagli ai spettacoli di suono e danza e simiglianti musiche dissolutezze: ed esse li lavavano, esse portavano ai bagni i pettini, e gli alabastri con gli unguenti, e gli specchj. Con tal modo ammorbidiva i giovani fino ai venti anni, concedendo allora che passasser tra gli uomini. Ma egli che avea cosi vituperato e danneggiato i Cumani, egli che non avea risparmiato loro nè impudenze, nè sevizie, egli alfine già vecchio, quando si credea sicuro nella tirannide, Sterminato con tutti, i suoi, ne pagò le giustissime pene ai Numi ed agli uomini. X. I prodi che insorgendo liberarono la patria dalla tirannia di lui furono i figli de’ cittadini uccisi : quelli che egli avea risoluto in principio di trucidare tutti in nn giorno, ma che poi risparmiò, come ho detto, vinto dalle istanze de’ satelliti suoi, maritati da lui colle madri loro, comandando che abitassero per le campagne. Pochi anni appresso viaggiando egli pel contado e vedendoli già adulti e molti e floridi ; temè che non n congiurassero ed assalisserlo : e macchinò di prevenirli ed ucciderli tutti prima che niuno se ne avvedesse. Adunque consultandosene • cogli amici, deliberava con essi le maniere sollecite e piane ma occultamente, onde spegnerli. Sepperlo que’ giovinetti per indizio forse di alcuno che ne era consapevole, e, forse mossi da con getture probabili, fuggironsi ai monti, dando di piglio ai fèrri degli agricoltori. Corsero ben presto in ajuto loro i fuorusciti Cumani rifugiati in Capua, tra’ quali erano i più cospicui, e seguiti in gran parte dagli ospiti loro Campani, i figli d’ Ippomedonte, di quello che nella guerra Tirrena avea comandato la cavalleria. Essi armati recavano a’ compagni le armi con una truppa non picciola di amici e di mercenarj della Campania. Alfine riunitisi scorrevano e turbavano predando i campi nemici, ritoglievano gli schiavi dai padroni, ed ogni altro qualunque dalle carceri, e gli armavano, e quanto, non poteano trasportare o menar seco lo davano alle fiamme, o alla mòrte. Ansio dubitava il tiranno come avesse a combatterli, perchè nè sapeasi quando impren derebbero, nè teneansi fermi sempre in luoghi medesimi, ma regolavano le loro incursioni o colla notte fino all’ aurora, o col giorno fino alla notte. Avendo più volte spedito milizie ma' indarno a guardia delle cani pagne, a lui ne venne un tale degli esuli malconcio di battiture, spedito ad arte da essi quasi un disertore. Costui chiedendo la impunità promise al tiranno di guidare 1’ armata che manderebbe con lui, nel luogo appunto ove quelli sarebbero nella notte imminente. Indotto il tiranno a credergli perchè non chiedea verun premio, e porgea sestesso in ostaggio, spedi li suoi duci più fidi, seguiti da molli cavalieri e da’ mercenari, con ordine di conduire a lui, legati almeno, i più, se non tutti quegli esuli. Il disertore eh’ erasi a ciò posto menò tutta la notte 1’ armata a disagi gravissimi per vie non trite e per boschi, in parti le più lontane dalla città. Come i ribelli e l profughi posti per le insidie intorno all’ Averno, monte vicino alla città, conobbero pe’segnali dati dagli esploratori che l’armata del tiranno era uscita, mandarono circa sessanta i più arditi di loro che cinti da irte pelli portavano fi)sci di sarmehti. Or questi nell’ ora, quando accendonsi i lumi, chi per l’ una e chi per 1’ altra parte entrarono, quasi opera), la città senza essere conosciuti; ed entrali cavarono da’ sarmenti le spade che vi occultavano, e si raccolsero tulli ad un luogo. Donde marciando in schiera alle porte che menano all’Averuo, ne uccisero i custodi che dormivano, e spalancatele, v’ introdussero tutti i loro che v’ eran già prossimi, nè per tanto il fatto ^ ravvisa vasi ancora. Scontravasi per sorte in quella notte una pubblica festa, ond’ è che tutti oziavano per tutto in città tra le bevande ed altri diletti. Or ciò diè loro gran sicurezza di trascorrere tutte le vie che guidavano alla casa del tiranno : e nemineu qui trovando nelle entrate molti, nè .vigilanti, ve gli uccisero senza stento, oppressi dal sonno o dai vino : ed internatisi in folla trucidarono nell’ abitazione, quasi una greggia, tutti gli altri, ornai pei vino non più arbitri de’ corpi nè degli animi loro. Or qni preso Aristodemo, i figli, e tutti i parenti, e battutili gran parte della notte, e torturatili, e devastatili con ogni male, gli uccisero finalmente. Cosi sterminando dalle radici quella stirpe di tiranni fino a non lasciarvi non fanciulli, non donne, non consanguineo ninno ; e rintracciati tutta la notte tutti li cooperatori a fondar la tirannide ; andarono, nato il giorno, nel F oro, e con Tocatovi il popolo, e depostevi le arme, renderono la patria a scstessa. Or questo Aristodemo nel quartodecimo anno della sua tirannide in Cuma, questo vulcano gii esuli compagni di Tarquinio cbe giudicasse tra loro e la patria. Ripugnarono alcun tempo i deputati de’ Romani, come quelli cbe nè erano a tal fine venuti, nè avevano dal Senato i poteri per difendere ivi Roma. Non profittando però niente, anzi vedendo quel despota propendere in contrario per le brighe, e per le istanze degli esuli ; chiesero un tempo per le difese, e depositarono una somma per garanzia di eseguirle essi stessi. Ma poi nel correre di questo tempo, quando niuno più vegliava su loro, fuggirono, ritenendosi il tiranno gli schiavi, li giumenti, e li danari che aveano portalo per comperare de’ viveri. Tali furono gl’ incontri di queste legazioni, e così riuscì loro di tornarsene in patria sebbene senza l’ intento. Ma la legazione spedita neU’Etruria comperatovi miglio e farro lo trasportò su barche fluviali a Roma, e Roma ne fu nudrita sebbene per poco ; fiocbè consumatili, ricadde ne’ disagi medesimi. Non erari genere di alimenti a cui non si rivolgesse. Dond’è che non pochi tra la scarsezza, e la inconve' nienza de’ cibi non soliti, s’ avean male nella persona, o diventavano a tutto impotenti, non soccorsi nella pcvvertà. Come ciò seppero i Yolsci domati di fresco, s’ istigarono con vicendevoli occulti messaggi a riprender le armi, quasi fosse impossibile che i Eomaui resistessero bersagliali dalla guerra e dalla fame. Ma i numi propiz) che vegliavano perchè non rimanessero in preda a’ nemici, ne dimostrarono allora più chiaramente la protezione. Di repente si mise tra^Volsci una tal pestilenza, quanta non leggesi mai stata in Greche o barbare terre, disfacendoli promiscuamente di ogni età, di ogni fortuna, di ogni temperamento, validi o invalidi. Mostrò soprattutto gli eccessi del, male Yelletri, città insigne, de’ Yolsci, e grande allora e popolosa. La peste appena ne rispailniò la decima parte, investendovi e consumandovene le altre. Ond’ è che i superstiti a tanto infortunio, mandati ambasciadori, e dichiarata a' Romani la loro solitudine, sottomisero fa città. E siccome aveano prima ricevuto de’ coloni da essi ; ne chiedeano di presente ancor altri. XIII. Impietoùrono, sapendoli, ai loro mali i Romani ; nè pensarono che si avessero a premere come nemici fra tanta sciagura, dacché pagavano agl’ Iddj le pene per ciò che voleano fare su Roma. Piacque loro, di riammetter Yelletri, e spedirvi numero non picciolo di coloni presagendone sommi vantaggi. Parea che il posto, se presidiavasi acconciamente, sarebbe ostacolo grande e ritardo a chiunqae si voleva rimescolare e sommoversi. E concepivasi che la penuria di Roma non poco si scemerebbe se una parte notabile di popolo altrove si trasferisse. Inducevali soprattutto a spedire una colonia la sedizione che vi si riproduceva, non essendovi ancora sopita in tutto la prima. Imperocché il popolo discordava un altra volta come per addietro, e ne odiava i Patrizj : e molta era 1’ amarezza dei discorsi co' quali accusavano la poca cura, e la scioperatezza di essi perchè non aveano a tempo preveduta nè riparata la penuria futura, dicendo alcuni perfino che ad arte aveano procurato la caresua per astio e desiderio di affliggerne il popolo in memoria della ribellione. Per tali riguardi sollecitissima fu la spedizione della colonia, de slinativi dal Senato tre condottieri. Da principio udiva il popolo con diletto che trarrebbonsi a sorte i coloni, perchè sarebbe cosi levato dalla fame, e perchè viverebbe in terra felice : ma poiché rifletté che la peste ge aeratasi nella città che gli avrebbe a ricevere aveva distrutto i suoi cittadini, e temè che in tal modo ancora maltratterebbe i coloni, variò poco a poco di sentimento. Tantoché non molò, anzi meno assai che il Senato ne permetteva, esibironsi per la colonia : e questi bentosto ne furon pentiti come sconsigliati, e scansavano di uscire. Da tale vincolo erano trattenuti questi e quanti altri non più si acconciavano ad andare. Ma dertretato avendo il Senato che la colonia si ricavasse dal complesso di tutti i Romani secondo le sorti, e stabilendo dure ed irreparabili pene per chi ricusava ; alfine fu per tale necessità condotto il numero conveniente in iVelle tri. Noo raoUi giorni appresso un’ altra colonia fu tra> sferita in Norba, città non ignobile dei Latini -. XrV. Non però segui da ciò ninna delle cose con~ gbietturate da’ patrizj secondo la speranza di spegnerele discordie. Imperocché la plebe rimasta intrisi più ancora, vociferando con assai clamore contro de’ padri nelle adunanze prima di pochi, indi di molti, per la fame divenuta gravissima; e concorrendo al Foro volgeasi lamentosa ai tribuni suoi perchè 1’ aiutassero. Or tenendo questi adunanza, fattosi innanzi Spurio Icilio allora capo di essi perorò lungamente contro de’ padri aumentandone quanto potè la malvolenza. Egli istigò pur altri a dire pubblicamente ciocché sentivano, e principalmente Siccinio e Bruto allora edili, invitandoveli a nome, appunto come capi già del popolo nella prima sedizione, ed inventori, anzi magistrati la prima volta della podestà tribunizia. Presentatisi dissero anch’essi, udendoli il popolo vogliosissimamente, malignissime cose già da molto tempo premeditate, come se la carestia fosse procurata per malizia de’ ricchi, perchè il popoloavea loro malgrado, ricuperata colla sedizione la libertà. Dissero che i ricchi non aveano pur la miaima parte del disagio dei poveri : molta essere la loro non curanza de’ mali, perchè aveano cibi occulti e danari onde comperarli se introducevansi, laddove i plebei mancavano di ognuna di queste due cose: protestarono che mandare i coloni a’ luoghi contagiosi, era un avviarli a rovina visibile e funestissima, aggravando quanto più poteana A tempo di Plinio era nn ammasso di rovine. Restava circa sei miglia lontana da Segni ameasogiomo. con parole il male. Chiedeano qual sarebbe il fine a tante sciagure, e richiamavano loro in memoria gli an> tichi Hagelli, ond’ erano stati malmenati da’ ricchi ; ag> giungendo ancora iinpuuissimamenie cose consimili. Da ultimo Bruto la Gni minacciando, dicendo cioè, che se secondavano, egli necessiterebbe quanto prima a spegner r incendio quelli stessi che eccitato Taveano. E così r adunanza fu sciolta. XV. Intimoriti i consoli su tali innovazioni, e solleciti che le adulazioni di Bruto verso del popolo iiou terminassero in grandi sciagure, intimarono nel prossimo giorno il Senato. Ivi si fecero discorsi molti e varj da essi, come dagli altri seniori. Pensavano alcuni che si dovesse blaudire i plebei con ogni dolcezza di parole e promessa di opere, e renderne i capi più moderali con esporre lo stato delle cose, e convocarli e consultare insieme il bene comune : io opposito altri consigliavano che non cedessero, uè si abbassassero verso del popolo : essere la moltitudine, imperita, e caparbia : insolente, incredibile 1’ ardore dei capi che 1’ adulano : facessero piuttosto costare che non ci avea ne’ patrizj colpa ninna, c promettessero ovviare, quanto potè vasi, al male. Redarguissero e miuacciassero di pene condegne i sommovitori dei [K>polo, se nou si chetavano. .\ppio era il primo in tal sentimento, e prevalse in mezzo alle grandi opposizioni de’ padri. Tanto che il popolo turbalo all’ udirne tanto da lungi i clamori accorse alla curia, e tutta la città fu sospesa nella espeltazione. Dopo ciò li consoli usciti adunarono il popolo, restandovi breve DlOXlGi t Zumo 21.parte del giorno, e tentarono di esporgli i voleri del Senato. Contraddissero i tribuni, nè già fu vicendevole nè ordinato il colloquio. Gridavano, interrompevansi ; tanto che non era facile agli astanti distinguere i loro pensieri, e ciò che volessero. Diceano i consoli cb’essi come di autorità premineute doveano comandare in tutto alla città ; laddove i tribuni replicavano che i consoli avean dritto in Senato, ma su le adunanze del popolo i tribuni : questi aver tutto il potere su quanto si dee discutere e sentenziare da’ voti del popolo. Prendea parte, vociferava per essi la moltitudine, pronta ad assalire se bisognava, chiunque ostasse loro. Altronde i patrizj acclamavano, e davan animo ai consoli, circondandoli. Vivissima era la contesa per non cedere gli uni agli altri ; quasi allora appunto si cedessero i diritti una volta per sempre. Già il sole era per tramontare, e tuttavia concorrea dalle case nuovo popolo al Foro: e se la notte non li troncava, forse i dissidj finivano a colpi, ancora di pietre. Bruto perchè ciò non seguisse, fecesi innanzi, e chiese ai consoli di parlare ; promettendo di sedare il tumulto. Concederono questi che parlasse, parendo loro che si deferisse ai consoli mentre quel capipopolo ciò chiedeva da essi, presenti i trihuui. Fatto silenzio, Bruto senza dir altro interrogò li consoli di tal modo: Ki ricordale voi che lasciando noi le divisioni, ci accordavate per^ diritto che quando i tribuni adunassero sotto qualunque fine il popolo, i patrizj nè intervenissero all’ adunanza, nè la turbassero ? Ce ne ricordiamo, disse Geganio. E Bruto ripigliò : qual male aveste voi dunqué da noi che c impedite, nè permettete che i tribuni dicano ciocché vogliono? E Geganio rispose: perchè non voi, ma noi consoli avevamo chiamato il popolo a parlamento. Se fosse stalo invitalo da voi, non V impediremmo ; anzi nemmeno curiosi ci brigheremmo in ciò che si tratta : ora essendo da noi convocalo, non v' impediamo che Jdvelliale ; ma che noi ne siamo impediti, ciò non è giusto. Allora Bruto, abbiamo vinto, disse, o popolo: concedesi a noi dagli awersarj q> anlo chiedes’amo : ora desistete, chetatevi, ritiratevi : domani promettevi dichiarare quanta forza V abbiale. E voi tribuni cedete ad essi di presente nel Foro : non sempre già qui cederete qiumdo abbiate compreso ( e presto lo comprenderete, io prometto chiarirvene ) il potere del vostro magislialo. Abbasserete cotanta loro preminenza : e se troverete che io V abbia deluso, fate ciocché vi piace di me. XVII. E uiuno più contraddicendo, ritiravausi tutti dall’ adunanza : non però gli uni e gli altri con pari divisaniento. Credeano i poveri che avesse Bruto ideato qualche nobile impresa, e che non indarno la promet' lesse : ma i patrizj trascuravano la leggerezza di lui, pensando che T audacia delle promesse non andasse più in lò delle parole; non essendo conceduta dal Senato ai tribuni altra autorità che di proteggere il popolo, se non facevasi ad esso ragione. Non però la cosa parca spregevole a tutti, specialmente ai seniori, ma che dovesse attendersi che la manìa di un tal uomo non generasse mali insanabili. Bruto la notte appresso svelato il parer suo fra i tribuni, e raccolta una massa non tenue di popolo, ne andò di conserva nel Foro : e prima clie si facesse di chiaro, occupato il tempio di Vulcano donde eglino soleano concionare, invitarono il popolo a parlamento. Empiutosi il Foro di un concorso, quale mai più V era stato, presentasi Icilio il tribuno, e parlavi luughissimamente contro de’padri. Egli commemora quanto han latto in danno del popolo, e come nel giorno addietro aveano impedito lui fin di parlare contro i poteri ancora della sua dignità. E qui disse : e di che altro tarem più padroni se noi siam di parlare ? Come potremo soccorrere voi se ojffesi, quando ci si toglie la libertà di adunarvi ? Son le parole i preludj delle operazioni : nè ignorasi che quelli che non possono dir ciocché pensano, nemmen possono far ciocché vogliono. Pertanto o ripigliatevi, disse, la potestà che ci deste, se non volete mantenercela inviolabile; o proibite con legge che alcuno più ci si opponga. A tal dire provocavalo il popolo che egli stendesse la legge : e siccome teneala già scritta, la lesse. £, dispensati i voti, fe’ che il popolo immantinente ne decidesse ; parendogli non esser questo un affare da esitarne, o differirlo, perchè non avesse altri inciampi dai consoli. La legge era questa : Concionando un tribuno al popolo, niuno aringhi in contrario, nè interrompalo : e se alcwio contravvenga, dia mallevadori ai tribuni di pagare, chiamatone in giudizio, la multa che gl imporranno : e non dandoli, egli sia punito di morte, li beni di lui sien sacri, e tutte le controversie su tali multe spettino al popolo. I tribuni confermata coi voli la legge dimisero 1’ adunanza : ed il popolo si ritì rò, tatto di bu on anirno, e pieno di riconoscenza per Bruto, come per 1’ autore della legge. Dopo ciò li tribuni ripugnavano ai consoli molto, e su molte cose : nè il popolo ratificava i decreti del Senato, nè il Senato approvava decisione niuna della plebe. Cosi teneansi contrapposti e sospetti. Non però r odio loro, come avviene in simili turbolenze, procedette a danni irreparabili. Imperoccbè nè i poveri investirono mai le case de’ ricchi ove concepivano che troverebhon de’ cibi riservali ; nè mai si lanciarono su palesi merci per involarle : ma pazienti comperavano a gran costo il poco, e sostcneansi di radici e di erbe se penuriavan di argento. Nè mai li ricchi per dominare soli nella città violentarono colla forza propria, o de’ clienti, (eh’ era pur molta) la classe indigente, esiliandone o trucidandone ; ma conduceansi come padri savissimi inverso de’ figli, con cuore sempre benevolo e premuroso tra le lor delinquenze. Or tale essendo lo stato di Roma, le città vicine invitavano qual più volealo de’ Romani tt traslatarsi nel seno di esse, allettandoli con dar loro la cittadinanza, ed altre propizie speranze : ma le une invitavano mosse dai bei genj per benevolenza e pietà nei mali altrui, le altre (ed eran le più !) per invidia della prosperità passata della repubblica. E furono ben molli quei che partirono con tutte le famiglie, e posero altrove il soggiorno : ma taluni di questi, riordinato lo stato, ripatrìarono, e tal’ altri mai più. Or ciò vedendo i consoli parve loro, per voler del Senato, che avesse a farsi una iscrizione di soldati, e porre in campo un esercito. Prendeano occasione speciosa a tanto dall’ essere la campagna tante volte danneggiata dalle scorrerie, e saccheggi de’ nemici ; calcolando ancora i beni che nascerebbero dall’ inviare un esercito di là da’ confìni : mentre quei che restavano avrebbero, come diminuiti, le vettovaglie in più copia: e gli altri colle arme vivrebbero io siti più abbondanti a spese dell’ inimico, e la sedizion tacerebbe, almen quanto si tenesse in piedi l’armata. Tanto più poi sembrava che resùiuirebbcsi la calma tra patrizj e plebei, quanto che dovrebbei'o militare insieme, e partecipare i beni e i mali a fronte de’ pericoli. Non però la moltitudine ubbidiva, nè si presentava spontanea, come altre volte, per essere iscritta. Non vollero i consoli foi^ zare secondo le leggi i renitenti : ma alcuni patrizj s’iscrissero volontarj co' loro clienti, congiungendosi ad essi che uscivano, anche picciola parte di popolo per militare. Era duce di quest’ esercito quel Caio Marcio, il quale espugnò la città de’ Coriolani, e riportò la corona dei forti nella pugna cogli Anziati. Or vedendo lui per capitano, i più de’ plebei che aveano piglialo le anni vi si confermarono, altri per benevolenza, altri per la speranza di esserne diretti a buon fine. Imperocché famosissimo egli era quest’ uomo, e grantal esercito fino ad Anzio ; impadronendosi di schiavi ^ e di bestiami in copia, senza dirne il mollo grano che era ne’ campi ; tornandone indi a non molto ricchissimo fatto di viveri : tanto che quei che s’ eran rimasti, eran mesti e dolenti verso de’ tribuni, pe’ quali sembravano privi di un tanto bene : cosi Geganio e Miuucio consoli di queir anno trovatisi in tempeste varie e grandi, e più volte in pericolo di rovinar la cilli, non operarono nulla con troppa efficacia : pur salvarono la repubblica più savj che prosperi nell uso delle circostanze. XX. Marco Minucio Augurino, ed Aulo Sempronio Atraiino eletti consoli dopo loro, presero per la seconda volta quel grado. Non imperiti nell’arme, e nel dire, empierono con assai provvidenza la città di grano e di ogni maniera di viveri, come si ristringesse all’ abbondanza la concordia del popolo. Non però poterono ottenere 1' uno e 1’ altro bene ; ma venne colla sazietà pur l’orgoglio in quelli eh’ eran saziati. E quando meno pareva, allora fu su Roma il pericolo maggiore che mai per addietro. I commìssarj spediti pe’ grani, comperatone negli emporj entro terra o sul mare, lo aveano già trasportato a' pubblici serbato)'. Quand’ ecco i negozianti pure di viveri ne condussero d’ ogn’ intorno in Roma : e Roma comperando a pubbliche spese i lor carichi, li custodiva. Vennero i primi i commissarj spediti in Sicilia, Geganio e Valerio con piene assai barche ; portavano in esse cinquanta mila moggia siciliane di grano, metà procacciato a lievissimo costo, e metà regalato e mandato a spese sue dal tiranno. Nunziatosi in città 1’ arrivo delle navi portatrici de’ grani siciliani ; discussero i patrizj longamente come avesse a disporsene. I più moderati e popolari fra loro, considerata la pubblica calamità, consigliavano che il grano donato dal re si donasse ancora a tutti del popolo, e che 1’ altro Anni iti Roma 263 seconda Catone, 265 secondo Varone, e 469 avanti Cristo. tìet.le Antichità’ hotmane comperato coll’ erario, si vendesse loro a picciol mercato, ricordando clie per tali beneficenze principalmente si ammansano gli onimi de’ poveri verso de’ ricchi. Per r opposito i più arroganti fra loro, ed amici del comando dei pochi, sentenziavano che aveasi con tutto r ardore e l’ ingegno a deprimere il popolo, ed eccitavano a non fargliene se non carissima la vendita, perchè la necessità li rendesse per innanzi più savj e più conformi alle leggi. Fra questi amici del comando de’ pochi era pur quel Marcio, chiamato Coriolano, uè già dicea come gli altri in occulto e con riguardo i proprj sentimenti, ma di proposito, e con ardore, sicché molti del popolo lo udirono. Avea costui non che le cause comuni contro del popolo, motivi privati e recenti onde parer di odiarlo meritamente. Cercando esso ne’ comizj ultimi il consolato, il popolo se. gli oppose, ad onta de’ padri che lo sostenevano, nè permise che lo conseguisse ; perchè sospettava che un tal uomo colla chiarezza ed ardire suo prendesse ad abbattere il tribunato ; e tanto più ne temea che vedeva che tutti i patrizj aderivansi a lui, come a niun altro mai per addietro. Inbammato costui dalla ingiuria, e macchinando riordinar la repubblica su le antiche maniere, adoperavasi, come ho detto, palesemente, incitandovi pur gli altri, aU’annientamento del popolo. Lui cingeva un seguito di molti nobili e ricchissimi giovani, e per lui stavano molti clienti, prosperatine già nella guerra. Esaltato da questi, andavano fastoso, e minaccievole, e fra tutti chiarissimo; non però ne ebbe termine fortunato. Adunatosi pe’ casi presenti il Senato e proponendo, com’ è costume, il proprio parere prima li seniori, tra quali non molti con trariarono manifestamente la plebe ; alfine ridottasi la disputa ai giovani, egli chiese da’ consoli il poter dire ciocché voleva : e tra ’l favor grande, e la grande attenzione di tutti cosi contro del popolo ragionò. Che U popolo non siasi ribellato per necessitA e per disagi, ma sollevalo dalla rea speranza di abbattere il comando de' pochi, e farsi egli stesso l’ arbitro del comune ; credo ornai che lo abbiate o padri compreso voi tutti, considerando la incontentabilità sua nel pacificarcisi. Non era il solo disegno suo di violare la fede de' contratti, e di abolire le leggi che la garantivano, senza passare più oltre. Esso per levare il magistrato de' consoli, ne fondava un altro nuovo, c lo rendeva sacrosanto ed immune per legge, ed ora, e voi non vel conoscete, lo ha con un plebiscito recente immedesimato al poter dei tiranni. E per certo, quando gC incaricati di un tal magistrato col pretestare i bei titoli di proteggci'e i plebei malmenati opereranno con esso e disporranno come a lor piace, quando niuno, non uomo privato, non pubblico, potrà impedirne gli abusi per timor della legge la qual toglie anche il dire non che il fare, minacciando la morte a chi pur lascia fuggirsi una libera voce in contrario ; dite, e qual altro nome dee mettere allora chi ha senno a tal magistrato se non quello di ciò che è veramente, e che voi tutti confesserete, quello cioè di una tirannide ? Siasi un solo che tirantt^ggia, siasi il popolo tutto, e qual divario ? quando uno appunto è l’operar di ambedue? Era ottimissima cosa non lasciare mai che il seme s’ introducesse di un simil potere y e soffrir prima tutto, come il valorosissimo jéppio voleva, antivedendone da lauto tempo le ree conseguenze. Ma giacché ciò non si fece, ora almeno sradichiamolo, gettiamolo dalla città mentre è debole ancora, e facile da superarlo. Certo voi non siete, o padri coscritti, nè i primi, nè i soli a’ quali tocchi ciò fare ; quando molti già tante volte deviando dalle buone risoluzioni su di affari gravissimi ; e ravvoltisi in necessità sconsigliate, tentarono estinguere il mal già cresciuto, se impedito nel nascere non lo avcano. E quantunque la penitenza di chi lardi fa senno sia da meno della previdenza ; tuttavia sott’ altro rispetto apparisce non inferiore, rmnullando V errar già commesso coll’ impedir che si termini. Se alcuni di voi han per gravi le operazioni del popolo, se pensano doversi lui prevenire sicché più non esorbiti, ma vien loro la verecondia di parere i primi a rompere i patti e li giuramenti; sappiano, che se fan ciò, saranno incolpabili innanzi gl’ Iddj, e compiran la giustizia col? utile proprio ; giacché non eomincian essi /’ oltraggio ma lo respingono, non tolgon essi i patti, ma chi prima li tolse puniscono. E grandissimo argomento siavi che non voi cominciate a rompere i patti, non voi l’alleanza, ma il popolo il quale non più soffre le leggi colle quali ottenne il ritorno. Non chiese già egli i tribuni per danneggiare il Senato ; ma per non essere danneggiato. Eppure or ne usa non per ciò che lo dee^ nè per ciò che fu crealo, ma per turbare e confondere lo stalo della repubblica. Ben vi ricorda dell ultima adunanza, e delle cose dettevi dot tribuni, e quanta euroganza e quale disordine vi dimostrassero. Ed ora, niente più savj, quanto fasto non menano al vedere, che tutta la forza della città sta ne’ voti, e ne’ voti ci vincon essi, tanto maggiori di numero ? Se dunque han essi incomincialo a frangere i patti e le leggi; che dobbiamo noi fare se non rispinger la ingiuria p se non ripigliarci giustamente ciocché ingiustamente ci han tolto ? e frena' tante lor pretensioni ognora più grandi? e ringraziare gl Iddj che non han permesso che essi coll acquisto del primo potere divenissero savj per t avvenire ; ma gli han ridotti a tal vituperio e briga per la quale voi di necessità tentaste ricuperare il perduto, e custodir ciocché resta, come si dee? Se volete riavervi; non altra occasione mai fia così buona, quanto la presente. Ora la più parte di essi è vinta dalla fame, e /’ altra non potrà resistere lungamente per l indigenza, se abbia i viveri scarsi e cari. Li più rei, quelli non mai propensi al comando de’ pochi, ridurransi a lasciarci, ma gli altri più miti diverranno ancora più docili, nè mai più vi turberanno. Custodite dunque, non iscemate di prezzo i viveri, e fate che vendansi il più caro che mai. Voi ne avete oneste occasioni, e pretesti lodevoli nella ingratitudine di un popolo che mormora, quasi abbiate voi prodotta la carestia, nata dalla ribellione loro, e dal guasto che diedero alle campagne, levandone e trasportandone ciocché vollero come da terre nemiclie, e nelle spese dell’ erario per la spedizione de’ commissarj in cerca di viveri, e nelle tante altre ingiurie, onde foste oltraggiali. Conoscansi fin da ora quali sono i mali co’ quali ci afliggeranno, se non facciamo tutto a piacere del popolo, come i capi loro dicono per atterrirci. Se vi lasciate fuggir di mano questa occasione ; ne sospirerete le mille volte una simile. E se il popolo sappia una volta che voi macchinavate di abbattere tanta sua forza, ma ne desi-, steste ; tanto più vi si renderà gravoso, tenendovi nei vostri voleri come nemici, e come impotenti ne’vostri timori. Si divisero a tal dire di Marcio i pareri, e molto si romoreggiò nel Senato. Imperocché quelli che da principio contrariavan la plebe, e ne ammisero malgrado loro la pace, tra quali erano i giovani, quasi tutti, e li più ricchi e più riguardevoli de’ seniori ; esasperandosi della impudenza di essa, encomiavan quest’ uomo come generoso, come amico della patria, e che parlava il ben del comune. Ma quelli che propendeano, come prima, verso del popolo, nè stimavano le ricchezze oltre il dovere, nè credevano cosa alcuna necessaria quanto la pace, eransi corucciati a tal dire, non che vi aderissero. Volevano che si vincessero i poveri colle dolci, non colla violenza : essere la dolcezza una cosa non solo conveniente ma necessaria ; principalmente per la benevolenza verso de’ eittadini : e chiamavano que’suoi consigli non libertà di detti, e di opere ; ma delirj : nondimeno questo partito, come picciolo e debole, era sopraffatto dall’ altro più forte. Oi! dò vedendo i tribuni ( eran questi presenti, invitati in Sonato da’ consoli ) gridarono e fremerono, chiamando Marcio peste e rovina della città ; come lui cbe usciva in discorsi si rei contro del popolo. E se i patrizj non lo frenavano coll’ esilio o con la morte, mentre svegliava in Roma una guerra civile, essi, diceano, che lo punirebbero. Or qui nato un tumulto ancora più vivo pei discorsi dei tribuni, principalmente dal cauto dei giovani cbe mal sopportavano quelle minacce ; Marcio animatone parlò più veemente ancora e più risoluto. Io, diceva, io se voi non la finite di far qui turbolenza, e di sommovere i poveri; io da ora innanzi mi farò cantra voi non colle parole, ma colle opere. Or qui riscaldatosi più ancora il Senato, i tribuni vedendo che più erano quelli che volevano richiamare, che serbare i poteri conceduti alla plebe, fuggirono dal Senato gridando, e protestando gl’ Iddj, vin non fate voi parer vere le calunnie che di voi si spar^ gono ? e che savj sono pel pubblico, quanti consigliano che non pià crescer si lasci questa vostra potenza violatrice delle leggi ? A me così par certamente. Afa se vorrete far cose, contrarie a quelle delle quali vi accusano, moderatevi, ve ne consiglio : ricevete a cor placido, e non con ira, i discorsi dai quali siete investiti. F’oi se così fate, ne parrete uomini dabbene, e coloro che vi odiano, ne saran/w pentiti. Avendovi cojè noi fatto ragione amplissima come pensiamo, non siate, ve n esortiamo, indegni di voi. Folendovi noi implacidire non esasperare ; miti, umane furono le opere colle quali vi abbiamo trottato : io dico, per tacere le antiche, quelle fattevi di recente pel vostro ritorno. Certamente sarebbe pur giusto che voi vi ricordaste di queste ; mentre noi vorremmo dimenticarcene. Tuttavia la necessità ci stringe a ricordarvele per chiedervi in contraccambio di tanti e grandi benefizj che noi già concedevamo alle istanze vostre, che nè si uccida, nè bandiscasi Un uomo amantissimo della patria, e nobilissimo infra tutti nella guerra. Non poca sarebbe la perdita, voi lo vedete, se Roma fosse privata di tanta virtà. Egli è giusto che mitighiate lo sdegno verso lui, risgiiardando almeno quanti ne salvò di voi nella guerra, e ripetendone le belle sue gesta, non perseguitandone lé vane parole. Niente vi hanno i detti nociuto di lui, ma moltissimo i fatti vi giovarvno. ' Che se pur siete inflessibili in suo riguarda, donatelo almeno a noi, donatelo al Senato che vel chiede : rendete una volta la stabile calma, e la sua unità primitiva alla patria. E se voi non vi piegherete alle nostre persuasive ; riflettete che neppur noi cederemo alle vostre violenze. Così il popolo messone a prova o sarà cagione a tutti di amicizia sincera e di beni maggiori; o nuovo principio di una guerra civile, e di gravissimi mali. I tribaoi, avendo Minuzio cosi perorato, consideratane la moderazion del dire, e come la plebe mossa dalia dolcezza delle sue promesse, ne furono sdegnati e dolenti, e soprattutti Cajo Sicinio Belluto, quegli che avea suscitato i poveri a ribellarsi da’ patrizj ed erane stato nominato capitano, 6nchè fìiron su Tarmi. Nemicissimo degli ottimati, era perciò stato portato a grande chiarezza da’ cittadini. Ora creato per la seconda volta tribuno giudicava che a ninno giovasse men che a lui che la città fosse appieno concorde, e ripigliasse la forma antica. Imperocché vedeva che se governavano gli ottimati, egli nato e cresciuto ignobile, senza luce alcuna d’ imprese in pace o in guerra, non avrebbe più gli onori, nè la influenza medesima ; anzi che correrebbe pericoli estremi, come sommovitore dei popolo, ed autore di tanti suoi mali. Fissato adunque ciocché avrebbe a dire e fare, e consultatosene co’ tribuni compagni, poiché li ebbe unanimi, sorse, e lamentata brevemente la disgrazia del popolo, lodò li consoli perchè degnati si fossero di rendere ragione ai plebei, senza spregiarne la loro bassezza : e d'sse che rìngraziava i patrizj ancora, perchè nasceva finaluaente in' essi la cura della salate de' poveri ; e che molto più egli ciò contesterebbe 'a nome di tutti i colleghi, quando darebbero pur le operc> simili ai hitti. Cosi proemiando, e parendone anzi sedato, e propenso alla pace, si volse a Marcio presente ai consoli V e disse i E tu o valentuomo niente ti difendi coi tuoi cittadini su quanto hai detto in Senato ? Chè non supplichi piuttosto, e ne plachi lo sdegno, sic’ chò miti sieno nel sentenziartene ? Già non 'vorrei che tu negassi un tale tuo fallo, avendolo tarili ve ; nè che, tu Marcio, tu pià altero in cor tuo che un privato, ti volgessi ad invereconde difese. Sarà parato non indegno ai consoli ed ai patrizj di aringare essi in tuo bene, nè parrà per te degno che tu lo facci su te stesso? Or cosi parlava -costui ; ben conoscendo che quel generoso non soffrirebbe mai di essere T accusator di sestesso, e chiedere come colpevole la esenzion della pena, nè mai contro l’ indole sua ricorrerebbe alle umiliazioni ed alle suppliche: ma che o ricuserebbe fare ogni difesa ; o facendola coll’ innato ardimento suo, niente tempererebbe nè il popolo, nè il dire. E cosi fu ; perchè taciutisi, e presi i plebei, quasi tutti, da bel desiderio di liberarlo, purchéegli ne &vorisse la occasione, manifestò tanta insolenza e dispregio per essi ; che nè, presentatosi, negò le parole da lui dette in Senato, nè come pentitone, si diede ad impietosirli e placarli: ma fin sul principio non li volle, come privi di autorità competente per giudici di cosa ninna, pronto per altro a sottomettersi, com era la legge, al tribunolc de’ consoli, se alcuno volesse ac> cusarvelo, e cbiederoe soddisfazione pe’deui, o per le, opere. Diceva eh’ egli era, colà venuto, giacché vel chiamarono, parte per riprendere le loro prevaricazioni, e la incoutentabiUlà j manifeslala aemprepiù nella separazione y e dopo il riiomo ; e parte per consigliarli, per fiammata, soffiandovi, 1’ ira del popolo, concluse l’ao cosa, che il tribunato ne sentenziava la morte, per r oltraggio fìtto agli edili, che egli percosse e respinse, mentre per ordin suo lo arrestavano il di precedente: non finire che su chi gC incarica, gli oltraggi de’ ministri, E così dicendo ordinò che portassero Marcio al l’altura che sovrasta sul Foro. È questa un dirupo ro> vinoso e vasto donde solcano precipitare i rei condan nati alla morte. Corsero gli edili per prenderlo: ma dato un altissimo strido, si levarono conira loro in folla i patrizj, e quindi contro de’ patrizj il popolo : e molto era in arabe le parti il disordine, molto lo in giuriarsi. Io spingersi, Tassalirsi. Se non che gli autori di un tanto moto furouo rattenuti e necessitati a moderarsi dai consoli i quali, cacciatisi in mezzo, coman darono ai littori di rimover la turba. Tanta era allora negli uomini la riverenza per quel magistrato, e tanto il pregio deir autorità suprema ! Intanto Sicinio non piò saldo, ma perturbato, e timoroso di ridurre i partiti a respingere forza con forza, non volendo lasciare, nè potendo continuare la impresa una volta tentata, era pensierosissimo su >ciò che fosse da fare. Or lui vedendo in tanti dubbj Lucio Gin nio Bruto, quel capipopolo che ideò le condizioni della concordia, uomo acuto specialmente in trovare, ove mancano, gli espedienti, venne, e solo con solo, suggerì che non si ostinasse in una disputa ardente, nè legittima : mirasse tutti i patrizj irritati, e tutti pronti alle armi se vi fossero invitati dai consoli, ma dubbiosa la parte migliore del popolo, nè ben animata a permettere senza previo giudizio la morte dell' uomo più. insigne di Roma : cedesse per allora, egli così consigliava; badasse a non combattere i consoli per non eccitare mali manieri : piuttosto indicesse a un tal uomo, fissandone un tempo qualunque, di perorar la sua causa, i cittadini votassero per tribù su lui: e ciò sen facesse che la pluralità de’ voti dichiarerebbe. Non competere che ai tiranni la violenza che ora minacciavasi, facendosi il tribuno accusatore in un tempo e giudice ed arbitro della pena : ma in una repubblica doversi agli accusati le difese come voglion le leggi, ed il gastigo secondo il voto dei più. Cedette Sicioio a tale consiglio non trovandone altri migliori, e fattosi innanzi disse : Foi vedete o plebei V entusiasmo de’ patrizj per la violenza e le stragi : vedete come tengon voi tutti da meno che un solo caparbio che oltra^a una intera repubblica. Non conviene che noi li somigliamo e corriamo alla nostra rovina, cominciando o respingendo una guerra. Ma perciocché alcuni di loto allegano, come onorevol pretesto, la legge la qual non permette che uccidasi un cittadino ' senza previo giudizio, ed allegandola ci tolgono d infliger le pene ; diasi pur luogo alla legge ; quantunque ne’ nostri disagi abbiamo noi mai sofferto nè cose giuste, nè secondo le leggi da essi. Dimostriamoci anzi probi colle clementi maniere, che del numero de’ vostri of Linno VII. 36 1 Jénsori colla violenza. Ritiratevi ; aspettate, nè già sarà molto, il tempo avvenire. Noi preparando in^ tanto le cose che importano, fisseremo a codest’ uomo un tempo perchè si difenda, e non eseguiremo se non la vostra sentenza. Quando v' avrete in mano i suffragi secondo la legge, votatene allora la pena che merita. E ciò basti su questo proposito : Che poi giustissima facciasi la compra e la distribuzione dèi grani, noi vi provvederemo, se questi (\) ed il Senato non vi provvedono. E ciò detto disciolse i' adunanza. Dopo questo evento i consoli convocando il Senato considerarono posatamente come dar fine alla discordia presente. Sembrò loro primieramente che dovessero cattivarsi il popolo con vendergli i viveri a picciolo e fàcil mercato, e poi persuadere i lor capi a chetarsi in grazia dei Senato, nè astringere più Marcio al giudizio, e temporeggiare in fine lunghissimamente, se non lasciassero persuadersi, finché l’ ira del popolo si diminnissc. Ciò decretato portarono e proclamarono al popolo tra pubblici applausi l’ editto su i viveri cosi concepito che : sarebbero i prezzi de' generi necessari al vitto quotidiano, tenuissimi come innanzi la sedizione. Poi col molto insistere presso de’ tribuni ebbero per Marcio dilazion quanta vollero, se non piena assoluzione. Anzi essi stessi gli procacciarono altro indugio, valendosi di questa occasione. Gli anziati, spedita una banda di pirati, aveano predato non lu ngi dal lido, I CoDsvii.mentre tornavano in casa, le navi e i deputati del re di Sicilia, che aveano recalo i grani in dono ai Romani, e volgendone ogni cosa come di nemici ad olile, ne teneano in carcere le persone. I consoli, ciò saputo, spedirono agli Anziati : ma non potendone per ambasciadori ottener la giustizia, decisero marciare colle armi su loro. Adunque fatto il ruolo di tutti gl’iegli ninna delle cose ordinate dalle leggi su de’ giudizj. Pareva ai consoli, deliberatisi col Senato, che non fosse da permettere che il popolo s’ impadronisse di un tanto potere. Or si diè loro un titolo giusto e legittimo d’impedirneli ; e credeano, usandolo, di renderne vani lutti i disegni ; tanto che invitarono a colloquio tutti i capi del popolo. Congregitisi cou quanti erauo gli opportuni per essi, Minucio disse : Tribuni, ci è piaciuto decretare che bandiscasi la sedizione da Jloma con tutte le forze, nè più nudrasi contesa ninna col popqlo ; vedendo voi principalmente che tornavate dalla violenza alla giustizia ed alla ragione. Or noi lodando voi di questo proposito, abbiamo reputato che il Senato, come è patria usanza, vi precedesse co’ suoi decreti. E potete contestare voi stessi che dalP ora che i nosU'i avi fondarono Roma, il Senato che la ebbe, ritenne sempre questa precedenza : e che il popolo senza la previa risoluzione idi lui mai nò giudicò, nè votò non solo in questi tempi, ma nemmeno in quelli dei re. Tanto che li re non rimettevano al popolo, se non le cose decise in Senato, e così le confermavano. Non vogliate dunque levarci questo diritto, nè abolire tal bella istituzione primitiva. Preanvmonile il Senato, se avete il bisogtto di cose moderate e giuste, e quello che il Senato ne avrà giudicato, quello notificate al popolo, e ne decida. Cosi discorrendola i consoli, Sicinio mal sopportavali, nò volea render aibitro di cosa ninna il Senato. Ma gli altri, eguali a lui di potere, seguendo i suggerimenti di Lucio consentirono che si facesse questo previo decreto. Imperoccbé ancor essi avevano Lucio Bruto: forte come pensa il Ccleoio, dee leggersi Decia in luogo di Imcìo, .Certamente in questi affari elibe parte anche Deciò nominato prima e poi da Dionigi: vedi I. fi, § 8S. Bruto aveva, tt vero il pronome di Lucio ; Ma Dion'gi nou lo ha mai contratte guato ancora col solo pronome. r)ELLr antichità’ romane falla ( nè i consoli la esclusero ) la istanza ragionevole ; Che il Senato desse la parola anche ai tribuni, che sono i procuratori del popolo, come agli altri che volevano aringare favorendo, o contrariando; e che infine, dopo udite le discussioni di tutti, -allóra ciascun padre porgesse il suo voto, premesso il giuramento legittimo, come ne’ giudizj, e dichiarasse ciocché gli paresse il giusto e V utile della repubblica : e quello si tenesse per valido che i più. preferissero. Concedendo i tribuni che si decretasse come i consoli dimandavano ; si divisero. Raccoltisi nel giorno appresso i padri in Senato, i consoli vi esposero le convenzioni: e quindi chiamando i tribuni gl’ invitarono a dire le cause per le quali venivano. £ qui fattosi innanzi Lucio, colui che avea condisceso che si facesse il previo decreto, disse : Potete ravvisare o padri ciocché sia per succedere, vuol dire che noi saremo accusati appresso il popolo dell’ essere qui venuti, e che V accusatore sarà quel nostro collega, per quel previo decreto che V abbiam conceduto. Pensava costui che -non dovessimo noi chiedere da voi quello che ci attribuiscon le leggi, nè prendere per benefizio quanto avevamo per diritto. Chiamali in giudizio correremo in rischio non tenue, che condannati, abbiamo a soffrire bruttissimamente come chi diserta, e tradisce. Ma quantunque ciò sapessimo ; noi siamo qui venuti, superiori a noi stessi j confidando su la rettitudine della causa, e mirando ai giuramenti secondo i quali voi do' 'vete dirigere le vostre sentenze. Noi tenui siamo, e disacconci pià assai che non conviene, a parlar di tali cose, che piccole certamente non sono. Porgeteci non pertanto udienza y e se queste vi parranno giuste ed utili, e vi a^iungo, necessarie ancora pel conw ne, vogliate spontaneamente concedercele. Primieramente dirò sul diritto. Quando o senatori cacciaste i monarchi avendo noi compagni nelr opera, e fondaste il governo nel quale ora siamo, ed il quale noi non riproviamo, voi vedendo i plebei aggravati ne’ giudizj se mai li facevano ( e molti scn facevano ) co’ patrizj, emanaste per suggerimento di Publio Valerio consolo una le^e per la quale permettevasi a tutti i plebei sowerchiati da quelli di appellare al popolo : e per niun altra, quanto per questa legge, procacciaste la concordia di Soma, e respingeste i re che vi tornavano in seno. Jn forza di questa l^ge citiamo codesto Caio Marcio dinanzi al popolo, e gli prescriviamo che risponda su cose nelle quali tutti ci diciamo da lui sowerchiati ed offesi. Nè su questo abbisognavi previo decreto del Senato. Imperocché voi siete gli arbitri di deliberare i primi, ed il popolo di confermare co’ voti quello su cui le le^i non pollano ; ma dove ci han le leggi, sono immobili, e debbono osservarsi, quantunque niente ora voi, perchè si osservino, decretaste. Già non dirà ninno che in caso di aggravio ne’ giudizj un privato appelli validamente al popolo, nè validamente v’ appellino i tribuni. E forti per tale concession della legge, veniamo qui, non senza pericolo, ad esser sotto voi giudici. Pel diritto della natura, diritto che non è scritto, nè introdotto come le altra leggi, noi vogliamo che il popolo non sia nè da pià nè da meno di voi : mentre con questo diritto ha con voi sostenute molte e grandissime guerre, e mostrato ardore vivissimo per compierle, contribuendo non poco perchè Roma le desse, non ricevesse da alwi le leggi. Or voi farete che noi non siamo da meno che voi se frenerete col terror di un giudizio chiunque attenta contro le nostre persone e la libertà. Pensiamo che i magistrati, le precedenze, gli onori debbansi compartire ai primi e pià virtuosi tra voi : ma pensiamo pure ben giusto che essendo tutti sotto un governo, tutti dobbiamo ugualmente e senza riserva o non essere offesi ^ o riceverne pari soddisfazione. Come dunque a voi concediamo que’ gradi sublimi e luminosi, così non vogliamo esser privi dei diritti eguali e comuni. Ma sebbene potrebbero aggiungersi le mille cose, bastino le dette fin qui sul diritto. Or quanto sian utili queste cose, quanto il popolo le apprezzi se faccianst, lasciate che io brevemente ve lo esponga. Su dunque : se alcuno vi dimandi qual pensiate il pià grande de’ mali, quale la cagioH pià pìonta della roiàna delle città ; non di~ reste che sia questa la dissensione? certo che sì. Or chi è si stolido, chi sì fatto a rovescio, chi sì ne“ mico della eguaglianza, il qual non veda, che se concedasi al popola di giudicare le cause che gli spettano, avrem la concordia ; ma se gli si neghi, leverete a noi per fino la libertà ( chè la libertà si toglie, a chi le leggi si tolgono e li giudizj ), e ci ridurrete ad insorgere nuovamente, e combattervi ? Certo che nelle città dalle quali si escludono i giudizj e le leggi, la discordia soUentra e la guerra. Chi non si è trovato in guerre civili non è meraviglia che per la inesperienza non senta ribrezzo de mah antecedenti, nò precluda i futuri. Ma quelli, che caduti come voi tra pericoli estremi, felicemente se ne liberarono, sgombrando i mali come permetlevasi dalle circostanze ; quelli, io dico, se vi ricadono, qual mai scusa aver possono sufficiente e decorosa ? Chi non condannerebbe la stoltezza e delirio vostro grandissimo, considerando che voi li quali per non avere la plebe discorde vi piegaste, non ha gìiari t a tante concessioni, forse non tutte convenevoli ed utili, ora vogliate in discordia tornarvela, tutto che non siate offesi negli averi, nelf onore, o in altre pubbliche cose, e solo per favorir chi la odia ? Se non che voi ciò non farete se savj. Con piacere io V interrogherei quali concetti erano i vostri quando ci concedevate il ritorno colle condizioni che chietlevamo. Ne apprendevate voi forse ragionando un bene ? o fu necessità che vi ridusse a cedere ? Se ne apprendevate il bene di Roma, e perchè ora non vi ci attenete ? se fu necessità, se impossibilità di essere diversamente, or che vi dolete del fatto ? Bisognava, se pur tanto potevate, non cedere forse da principio ; ma ceduto avendo una volta, non dovete più rimproverarvene. A me sembra o padri che voi seguiste il vostro migliore nel paci/icarvici : ma se fu necessità di scendere a condizioni; ella è pure necessità mantenercele. Voi gV Iddj chiamaste vindici degli accordi, imprecando molte e terribili pene a chiunque li violava di voi o de nipoti in perpetuo. Ora io non Pedo perchè dobbiamo tediare pih a lungo voi che tanto bene il sapete, con dire che giuste ed utili sono le nostre dimande, e molta la necessità che vi astringe a corrisponderle, se memori siete de Muramenti. Voi capite, o piuttosto ( giacché io non dico cosa che voi non sappiate ) voi tenete presente che rileva per noi non poco il non desistere dalla impresa per violenza o per inganno, e che un fortissimo stimolo ci ha qui condotti, offesi gravemente, e pià che gravemente, da quest’ uomo. Date dunque su quanto ho detto il vostro voto, ma, dandolo, considerate qual sarebbe il vostro animo verso quel plebeo, se alcuno pur ve ne fosse, il quale tentasse dire o fare centra voi nelle adunanze, ciò che qui codesto Marcio ha pur tentato di dire. Le convenzioni della pace sacrosante al Senato, quelle che munite più -che con vincoli adamantini j ninno di voi, per averle giureUe, nè de’ vostri discendenti può sciogliere, finché Roma fia Roma ; quelle ha il primo codesto Marcio tentato di rovesciarle, non essendo nemmen quattro anni che si conclusero, e tentato ha di rovesciarle non col silenzio, non da oscurissimo luogo, ma qui, pubblicissimamente, al cospetto di voi tutti', sentenziando, che non dovea più lasciarsi, ma ritogliersi a noi la podestà tribunizia, che è la primaria ed unica difesa della libertà, e col mezzo della quale potemmo ri^ congiungersi. Nè qui C ardinsento finì del suo dire, ina vi consigliava a ritorcela ; divulgando come una ingiuria la libertà dei poveri, e tirannide nominando r uguaglianza. Risovvengavi ( era questa la più infame delle istanze sue ) com’ egli disse allora, che era pur venuto il tempo di ricordar tutte le ingiurie del popolo nella prima discordia, e come esortava quindi a mantenere la stessa penuria di viveri, giacché il popolo, logoro dai disagf diuturni si ridurrebbe a cedere in tutto ai patrizj. Non resisterebbero i poveri gran tempo comperando a carissimo prezzo cibi scar-^ sissimi ma parte se ne andrebbero lasciando la cUtà, e parte rimanendovi, perirebbero infelicissimamerUe, E così delirava, così era in ira ogF Iddj ciò persua~ dandovi; che non discerneva che oltre i tanti mali co quali travagliavasi per annientare i trattati del Senato, quando avrebbe ridotto i poveri i quali eran pur tanti, alle angustie de viveri, questi poveri appunto farebbonsi addosso agli autori delle angustie, non più tenendoli per amici. Tanto che se voi pur delirando approvavate il suo parere; non restava più mezzo : ma ne andava la rovina intera del popolo, o de patrizj. Imperocché non ci saremmo già dati quasi schiavi a spatriare o morire : ma chiamando i genj ed i numi in testimonio de' mòli che soffrivamo ; avremmo riempiute, ben lo intendete, le piazze, e le vie di ukdergogne ; sin che tu abbi un altra difesa qua^ Itlnque; scendi da quel tuo enlusiatmo orgoglioso e tirannico, toma, o sciaurato, ai concetti del popolo : renditi simile agli altri', prendi come chi ha peccato e raccomandasi, un abito dismesso, addolorcvole conforme ai disastri, e cerca il tuo scampo ; umiliandoti, non insolentendo dinanzi gli oltraggiali da te. Sianti esempio di bella moderazione^ le opere, le quali se tu avessi ùnitalo, non saresti ora ripreso dai tuoi cittadini, io dico, quelle di tanti buoni, quanti qui ne vedi, segnalati per tante virtù militari e civili, quante non sarebbe facile nemmeno in grati tempo pen.orrere. Li quali quantunque grandi e risspettabili ; niente mai fecero di duro, niente di or^ goglioso contro noi si tenui e bassi, e primi intromiìsero discorsi di pace, primi la pace offerirono, quando la sorte ci avea separati, e concedcron la pace non su le condizioni che essi riputavan migliori, ma su quelle che noi chiedevamo ; dandosi infine premura grandissima di levcu'e i disgusti recenti su la dispenstt de' grani per la quale noi gli accusavamo. Ma tralasciando le altre cose, quali ptcghiere non fecero per te, nel tuo superno accecamento, presso tutti, e presso ciascuno del popolo per involarti alla pena? Appresso i consoli ed il Settato, i> quali invigilano su questa, tanto grande città, crederon bene che al giudizio ti sottomettessi del pòpolo, nè tu o Marcio a bene lo tieni ? Questi tutti non han per un biasimo il pregare per tuo scampo il popolo, e tu per biasimo tei prenderai? JVè ciò li bastava, o magnanimo ; ma quasi fatta una belV o pera, ne vai con fronte altera e magmfìcandoti, e niente adoperandoti a mansuefarli? per non dire che insulti, che rimproveri, che minacci la plebe. E pretendendo lui quanto niuno di voi ; non vi sdegnerete, o Padri, a tanto orgoglio ? Se voi tutti risolveste di accingervi ad una guerra per esso ; egli dovrebbe amarvene, e tenersi tutto pronto per voi, non accettar però mai un tal bene privato col danno comune, ma sottomettersi alle difese, alla sentenza, a tutte infine le pene, se bisognasse. Questosarebbe l’ obbligo di un vero cittadino, di uno che vuole il bene colle opere, non colle parole. Ma le violenze presenti qual ne additano mai C indole sua, quale la inclinazione ? quella appunto di violare i giuramenti, di tradire la fede, di rescinder gli accordi, di far guerra al popolo, di oltraggiare le persone dei magistrati, di non sottometter la propria per niuna mai di queste cause, e di girarsela franchissimamente, non come un eguale di tanti cittadini, ma come uno che niun teme, e di niuno abbisogna, immunissimo in tutto da tribunali e discolpe. Or non è questo un vivere alla tirannica? certo che jì / Eppure a conforto di quest’ uomo spargono aure lievi e suoni dolci, alcuni tra voi che pieni di odio implacabile verso del popolo non san vedere che questo male si termina anzi contro de’ nobili che degl’ ignobili, e credonsi affatto sicuri, sol che deprimano il partito che è loro contrario per natura. Ma non così sta il vero, ingannati che siete. Prendete a maestra la esperienza che Marcio stesso vi somministra, prendetene il corso dei tempi: illuminatevi per gli esempj stranieri insieme e domestici.^ e ravvisale, che la tirannia la qual nudtesi contro i plebei, contro tutta la città si alimene ta: e che la tirannia che ora contea noi s’ incornine eia, fortificatasi, contea tutti ruggirà. Ragionate queste cose da Oecio, e supplite da’ triboni compagni quelle che mancar vi sembravano, quando il Senato nè dovè sentenziare, levaronsi i primi in piedi i seniori tra gii uomini consolari, inviati secondo r ordjne consueto dai consoli, e quindi via via gli altri men riguardevoli per queste qualità : seguirono ultimi i giovani, ma non disser parola ; perocché ci avea di que’ giorni ancora tra’ Romani la verecondia, che niun giovane si arrogava saperne più degli anziani. Pertanto accostaronsi essi alle sentenze de’consolarì. Erasi preordinato che i senatori presenti giurassero prima, come ne’ tribunali, e poi dessero il voto. Appio Claudio il patrizio, come ho detto, più acerbo col popolo, e che mai non aveva approvato che si concordasse con esso, mal soffriva che ora si facesse un pari decreto, e disse : Avi'ei veramente voluto, e più voltf ne ho supplicato i numi, essermi sbagliato io circa il sentimento su la pace col popolo, vede a dire che il ritorno de’ fi frusciti non era nè giusto, nè decoroso, nè utile; tanto che quante volte sen prese a trattare^ tante io primo ed ultimo mi vi opposi, anche abbona donalo da tutti. Anzi avrei voluto o padri, che voi li quali per le speranze concepute del meglio, cora- (UscendesCe ed popolo sul giusto e su t ingiusto, He compariste ora più savi di me. Hiuscitevi però le cose, non come io desiderava, anche pregando_ne i numi, ma come io prevedeva, e cangialevisi le beneficente in vilipendio ed odio ; io lascerò, come estraneo a ciò che dee farsi, di riprendervi e di contristarvi in vano per le vostre mancanze, quantunque sarebbe pur facile, ed è pur questo f uso dei più. Dirò piuttosto ciò che può rettificare le cose passate, quelle almeno che non sono in tutto insanabili, e renderci più savj circa le presenti. Quantunque non ignoro, che dicendo io liberamente i miei sentimenti, parrò farneticare e sagrifìearmi, ad alcuni di voi, li quali considerino quanto sia disastroso il parlar francamente, e riflettano la calamità di Mcuxio, il quale non per altra cagione ora corre perìcolo della vita. Ma io non penso che la cura della propria salvezza sia da pregiarsi più che il pubblico bene. Già questa mia persona è tutta pe’ vostri pericoli, tutta pe' cimenti della patria ; tanto che gl’ incontrerò generosissimamenle, come piace agl’ Iddj, con tutti voi, o con pochi ^ e solo ancora, se bisogna. Nè finché io vivo, mai mi terrà la paura dal dire quello che io penso. E primieramente io voglio elte vi persuadiate una volta senza eccezioni che il popolo è malaffetto, e nemico al governo presente f e che qualunque cosa gli avete, coma deboli, corueduta, £ avete spesa vanissimamente, e vi è stala cagione di vilipendio, quasi conceduta £ abbiate per forza, non a ragion veduta, c per beneplacito. Considerate come il popolo si appartò da voi, pigliando le armi, e come ardi mostrarvìsi palesissimamente per inimico, non o^eso da voi realmente, ma fingendosi offeso : perchè non polca corrispondere a suoi creditori, e dicendo, che se decreten ate la remissione dei debiti, e la condonazione delle colpe commesse per la sedizione, non desidererebbe più oltre. 1 più di voi, non però tutti, sedotti da vani consiglieri ( cosi /atto mai non lo avessero ! ) deliberarono di anntdUire le leggi, mallevadrici della fede pubblica, nè più ricordane, nè perseguitare l’ esorbitanze passate. Egli però non si tenne già contento di questa concessione, pel solo bisogno della quale diceva di essersi ribellato ; ma ben tosto pretese altra prerogativa più grande, e meno legittima : io dico quella di eleggersi ogni anno dalt ordin suo i tribuni, pretestando il troppo nostro potere, peichè fossero scudo e rf i^io d poveri oltraggiati ed oppressi, ma in realtà tendendo insidie alio stato delta repubblica, e volendola ridurre democratica. Adunque vi persuasero questi consiglieri a lasciare che entrasse in repubblica il tr ibunato ; come in fatti vi entrò per isciagura comune, e princìfxdmente in onta del Senato, mentre io, se bene ve ne ricorda, tanto ne schiamazzava, protestando ai numi ed agli uomini, che introdurreste tra voi una guerra interna ed implacabile, e presagendovi tutti i mali, quanti ve ne avvengono. E questo buon popolo che vi ha egli fatto dopo che gli avole conceduto il tribunato? Non ha già valuta’o degnamente tanto dono, anzi nemmeno da voi prese con prudenza, e con verecondia, come so glie lo abbiate accordato, premuti e costernali dalle forze di lui. Ha detto che aveasi a rendere sacro, inviolabile, sicuro pe giuramenti, ed ha pretesa un autorità migliore che rwn quella da voi destinata pei consoli. E voi avete tollerato ancor questo, e là tra le vittime giuravate la roidna di voi e de’ vostri di-scendenti. E dopo questo ancora che vi ha fatto egli mai questo popolo ? In luogo di riconoscervene, dolora per le altrui sciagure, e sa compatire gli uomini costituiti in dignità, se la sorte loro travolgasi. Tuttavia diresse a Marcio la maggior parte del discorso mista di ammonimenti, di esortazioni, e di preghiere che facevano violenza. E giacché egli era la causa. della discordanza del popolo dal Senato, e calunniavasi come tirannica la esuberanza delle sue maniere, e temeasi che per lui si desse principio alle sedizioni e ai mali gravissimi, quanti ne sorgono dalle guerre civili; pregavalo a non verificare, o non confermare almeno le incolpazioni e le paure con quel suo nou gradito contegno : assumesse un abito più umiliato : sottomettesse la sua persona per dar conto a quelli che chiamavausi oltraggiati da lui : si presentasse alle difese contro di un accusa ingiusta si, ma che in giudizio appunto si annullerebbe. Sarebbe un tal fare più sicuro per la salvezza, più splendido per la fama che desiderava, e più consentaneo colie opere antecedenti. Dichiarava che se ostinavasi anziché raddolcirsi, e se riduceva, persuadendoli, i padri a subire ogni pericolo per òsso, misera sarebbe per loro se vinti la perdita, ma turpissima se vincitori, la vittoria. E qui tutto davasi al pianto, riepilogando i mali gravi e non dubbj che straziano nelle discordie le città. LY. Tali cose esponendo con molte lagrime non artificiose 'e noa finte, ina vere, egli venerabillstima per anni e per meriti, come videne commosso tutto il Senato, cosi con più confidenza seguitò, dicendo : Se alcuno di voi conturbasi, o padri, pensando che introducesi un tristo costume nel concedere al popolo di votar su patrizj, e che non produrrà niun bene f autorità de' tribuni che tanto si fortifica, sappiate che voi siete errici, e v ideate il contrario di quel che conviene Imperocché se mai vi sarà metodo salutare, metodo per cui non si tolga né la libertà nè le forze a Romec, e per cui le si conservi in perpetuo la concordia ; senza dubbio il metodo principalissimo sarà quello che assumasi anche il popolo al goverrto, talché non sìa questo nè pretta oligarchia, nè democrazia, ma un tal misto di tutti. E questa la forma che più che tutte ne giovi ; perchè ciascuna delle altre, applicata sola, com è per sestessa, scorre facilissimamente alle insolenze ed alle ingiustizie; laddove quando una forma si abbia ben contemperata da tutte, allora se una parte commovesi ed esce dalr orditi suo, vien contenuta sempre dall altra, che è savia, e tiensi al dovere. La monarchia divenuta dura^ superba, tirannica, suole abbattersi da pochi valenti uomini : la oligarchia, qual voi t avete al presente, se troppo s' innalza per le ricchezze e per le aderenze, nè più tien conto della giustizia e della virtùf si annienta da un popolo savio : un popolo savio e che vive secondo le leggi, se poi volgesi ai disordini ed alle ingiustizie; è sopraffatto dalle arme, e rimesso piomat, tamo II. '. j5 Digìtized by Google 386 DELLE antichità’ ROMANE in dovere dal pià forte. Voi trovaste, o padri, rimedj efficaci perchè il potere di un solo non si mutasse i n tirannide. Voi scegliendo in luogo di un solo due capi della repubblica, e dando loro il comando non per un tempo illimitato, ma per un anno; destinaste oltracciò per invigilarli i trecento patrizf, i più anziani e più grandi, da' quali è composto il Senato. Ma voi, per quanto si vede, non avete fin qui messo per voi niun che vi osservi, e tenga in dovere. CeT’~ tornente io finora non temei che vi corrompeste ancor voi tra t abbondanza, e la grandezza dei beni, per-chè non è molto che avete liberato Roma da una vecchia tirannide ; nè aveste mai comodo di scapricciarvi e cC insolentire per le guerre continue e lunghe. Ma riflettendo io ciocché può succedere dopo voi, e quante mutazioni suol produrre la diuturnità dei tempi ; temo che i potenti del Senato si rimescolino, e riducano per occulte vie finalmente il governo in tirannide. Ma se comunicherete il comando col popolo, non sorgerà quindi alcun male. E se altri ( giacché tutto dee prevedersi da chi consulta su la repubblica) se altri tenti elevarsi più de’ colleghi e del Senato, procacciandosi un seguito di uomini pronti a congiurare e ad offendere ; costui citato dai tribuni al popolo, per quanto egli sia grande e magnifico, renderà conto ai negletti ed ai poveri : e trovatosi reo, ne subirà le pene che merita. Ma perchè il popolo con tal potere non insolentisca nemmen esso, nè guidato da capi rei s’ inalberi contro de' buoni, tiranneggiando che nasce tmcìie nel popolo la tirannide ) ; lo invigilerà, nè pennellerà che ne abusi un uomo distintissimo per saviezza. Un dittatore eletto da voi con potere assoluto, inappellabile, separerà dalla città la parte infetta di popolo, nè lascerà che la sana se ne corrompa. Egli, riordinati i costumi e le preclare maniere del vivere, nominati i magistrali, che giudica savissimi per la cura del pubblico, ed eseguili tali cose in sei mesi, rientri di bel nuovo nella classe de’ privati, conservando per sè t onore, e non più. Pertanto considercutdo vqì questo, e giudicando bonissima tal forma di repubblica, non vogliate da ciò che chiede escludere il popolo. Ala come avete attribuito al popolo che scelga ogni anno i magistrali che regolino, che ratifichi o annulli le leggi, e decida della guerra e della pace, cose tutte rilevantissime e principali tra quante in uno stato sen facciano ; nè avete di niuna di esse lasciato cubitro indipendente il Senato ; cosi chiamale anche il popolo a parte dei giudizj, massimamente se alcuno sia accusato di offendere la stessa repubblica, eccitando sedizioni, preparando la tirannide, convenendosi co’ nemici di tradirci, e macchinando mali consimili. Imperocché quanto più renderete terribile agl indocili ed ai superbi la trasgression delle leggi, e le innovazioni di Stato, mostrando intenti su loro più occhi e più guardie ; tanto più la repubblica starà nel suo fiore. Dette queste e cose consimili, tacque. Convennero nel parere medesimo gli altri senatori sorti dopo lui, eccettuatine pochi. E standosene ornai per formare il decreto ; chiese Marcio la parola e disse : Quale, o padri coscritti, io sia stato verso la repub^ blica, come io sia venuto in tanto pericolo per la benevolenza mia verso di voi, e come ora io ne sia da voi contraccambiato fuori della mia espettazione, voi tutti il vedete, e meglio lo intenderete ancora dopo dato un fine alle mie cose. Ed oh ! se come la sentenza di Valerio prevale ; così vi giovasse, ed io mi sbagliassi nelle mie congetture sul futuro. Almeno però perchè voi che siete per emanare il decreto, conosciate le cause p^r le quali mi consegniate al popolo, nè io ignori su che sarà combattuto nelt adunanza di esso ; intimale ai tribuni che dicano alla presenza vostra la ingiustizia su la quale mi accuseranno, e qual titolo diasi a questo giudizio. LVin. Egli cosi diceva, perchè congetturava che a vrebbe a difendersi appunto pe’ discorsi fatti in Senato, e perchè voleva che i tribuni convenissero che su que sto appunto verserebbe l’azione. Ma i tribuni consultatisi lo accusarono che brigato avesse la tirannide, e su. questa accusa chiedevano che venisse a difendersi. (Schivi di restringere 1’ accusa ad una sola causa, e questa nè valida nè cara ai Senato ; riserbavansi il potere di accusarlo su quanto volevano > pensando che resterebbe così Marcio spogliato di tutto il soccorso del Senato ). Marcio dunque replicò: se io debbo essere giudicato su questa calunnia, mi sottometto ed giudizio del popolo, nò mi oppongo che ne stenda il Senato 'il decreto. Piaceva al più de’ padri che su ciò si rigirasse l’accusa e per due fini: perchè da indi in poi non più sarebbe un senatore incolpato per dire cioc> chè pensava nelle consultazioni ; e perché di leggieri quel valentuomo se ne purgherebbe, sobbriissimo altron de, ed irreprensibile nella vita. F u dunque, secoudo ciò, steso il decreto pel giudizio : e dato a Marcio tem po per preparar le difese da indi al terzo mercato. Tenevasi allora, e tuttavia si tiene da’ Romani il mercato in ogni nono giorno. In questi adunandosi i plebei dalle campagne in città ; vi cambiavan le merci, e vi discutevano le liti private : e ricevendo i voti ; sentenziavano su le cause pubbliche, riservate loro dalle leggi, o dal Senato. Negli otto giorni intermedj a’ mercati viveansi nelle campagne, essendone i più di loro lavoratori e poveri. I tribuni preso il decreto, e recatisi al Foro, v’adunàrono il popolo : e lodatovi con ampj encomj il Senato, e lettavene la sentenza ; intimarono il giorno nel quale si finirebbe quella causa ; raccomandando a tutti d’ intervenire, perchè discuterebbono importantissime cose. LIX. Divulgato ciò ; vivissime furono le cure e i ma neggi de’ plebei e de’ patrizj ; di quelli come per punire un arrogante, e di questi perchè non restasse all’ arbitrio de’ loro avversar] il difensore del comando de’ pochi. Pareva ad ambi che si mettessero in quella causa a pericolo i diritti tutti della vita e della libertà. Giunto il terzo mercato, si ridusse dalle campagne in città tanta moltitudine, quanta mai più per addietro, occupando infino dall’ alba il Foro. I tribuni la invitarono a riunirsi per tribù, separando con funi il sito dove ciascuna si alluogherebbe. L’ adunanza su quest’ uomo fu la prima la quale votasse per tribù , sebbene assai si opponessero i palrizj perchè ciò si facesse ; chiedendo che si tenessero, com’era l’uso della patria, i comizj per centurie. Imperocché ne’ primi ten>pi se il popolo dovea votare su di una causa qualunque rimessagli dal Senato ; i consoli adunavano i comizj per centurie, compiendo prima i sagrifìzj legittimi, che in parte si compiono ancora. Il popolo ordinato come nei tempi di guerra sotto i centurioni e le insegne, adunavasi nel campo di Marte posto innanzi della città. Quivi non prendevano e davano tatti insieme il lor voto ; ma ciascuno nella propria centuria, secondo che eran chiamate dai consoli. Ed essendo le centurie cento novanta tre, e dividendosi queste in sci classi, chiamavasi innanzi tutte, e dava il suo voto la prima classe, la quale formata dei più riguardevoli per sostanze, e primi negli ordini militari, comprendeva diciotto centurie equestri, ed ottanta appiedi. Appressò votava 1’ altra classe la quale men comoda per sostanze, seconda nell’ ordine della battaglia, e men cospicua de' primi per armatura, formava venti centurie; aggiuntene ancor due di artefici, i quali apprestano legni e ierro, ed ogni altra macchina militare. Costituivano i chiamati nella terza classe venti centurie, inferiori tutte nell’ onore, nell’ ordine della battaglia, e nelle armi, non simili a quelle de’ precedenti. Gli altri chiamati appresso, rispettabili anche meno in pregio di sostanze e di armi, ma più sicuri di posto nella battaglia, divideausi ugualmente Anni di Roma a63 secoado Catone, aR5 secondo Varrone, a 4^ aeCristo. ia venti centurie ; alle quali se ne univano altre due y di suonatori di corni e di trombe. Qiiamavasi per quIn-i>. 4 t S'So j ù tratta la materia medesima. I soldati che qui si dicoDo immuni dai cataloghi militari, erano certameule liberi dalle coscrizioni: peraltro potevano militare se volevano. (a) Nella prima classe ci aveano ottanta centnrie appiedi a diciotto a cavallo, ìu lutto novanlollo vedi loco citato. Le altre classi in tutto costituivano novantacinque centurie : perchè la seconda classe comprendeva venlidua centurie: la terza venti: la quarta di nuovo ven lidne : e la quinta trenta; risultaudo la sesta da una sola. Digitized by Google 3q2 delle antichità’ romane bio da ricorrere al voto fioale de’ poveri. Era questo il refìigio estreirio, se mai le cento novantadue centurie scindeansi in parti eguali ; e ne preponderava la parte alla quale quell’ ultimo voto si volgeva. Chiedeano i difensori di Marcio che si adunassero i comizj ordinati secondo gli averi, immaginandosi forse che il valentuomo sarebbe liberato dalle novantotto centurie' della prima classe quando le chiamavano, o dalie altre almeno della seconda o della terza. Ma sospettando eziandio ciò li tribuni, conclusero che si avesse a riunire il popolo per tribù, e così renderlo giudice della contesa ; perchè nè i poveri ci avessero men potere dei ricchi, nè i soldati leggeri men di quelli di grave armatura, nè la moltitudine, differita per 1’ ultima chiamata, fosse impedita a dare egnal voto. Divenuti tutti pari nell’ onore. e nel voto, avrebbero ad una sola chiamata dato i loro suffragi tribù. Or pareano i tribuni più giusti che gli altri, col pensare che il giudizio del popolo fosse veramente del popolo, non della parte fautrice degli ottimati ; e che su le offese di tutti, tutti dovessero sentenziare. Conceduto ciò con stento da’ patrizj, essendosi ornai per disputare la causa, Minucio 1’ altro de' consoli ascese il primo in ringhiera, e disse quanto eragli stato commesso dal Senato. E prima ricordò tutte le beneficenze, quante il popolo ne avea ricevute da’ patrizi : e poi chiese in contraccambio di queste, eh’ eran pur tante, che il popob concedesse una grazia, necessaria ad essi che la domandavano, pel pubblico bene : quindi lodò la concordia e la pace e rilevò di quanti beni Sten causa I’ una e T altra nelle citUi: condannò le sedizioni e le guerre intestine; e mostrò, che ne erano stale distrutte le città con gli abitanti, anzi le • intere nazioni : raccomandò che secondando l’ira non isceglies sero il peggio per lo migliore: che provredessero il futuro con saviezza, non si valessero in consultazioni gra vissime dèi consiglio de cittadini più tristi, ma di quelli che tenean per bonissimi, da’ quali sapeano sere stata tanto giovata in guerra ed in pace la patria, e de’ quali non era giusto che diffidassero, quasi avessero già mutato > natura. Era 1’ intento di tanti discorsi, che non dessero niun voto contro di Marcio, ma in vista prindpal mente di essi assolvessero quel valentuomo ; ricoi> dandosi quale egli era stato per la repubblica, quante guerre avea portato a buon termine per. la libertà e per r impèro di Roma, e come non farebbero cosa nè pia; nè giusta, nè degna di. loro, se ingrati alle opere segnalate di lui ne punissero le vane parole. Esservi bellissima la opportunità di dimetterlo ; giacché egli presen tava la sua pmeona ai nemici, per subirne in pace il giudizio che di lùi formerebbero. E se non che riconciliarsegli, persistevano duri, implacabili con esso, almeno giacché il Senato trecento i: più insigni della città, facevasi a supplioudì, s’ impietosissero e mansuefacessero, ciò considerando ; nè per punire un nemico ributtassero le {ghiere di tanti amici, ma in grazia di tanti valealuomini condonassero la pena di un solo. Dette queste consimili cose, aggiunse in ultimo, che se assolvesserò dopo dati i voti un tal uomo, parrebbouo ril.iaciarlo per non esser stato un ofTeusore del popolo : ma se proibivano di prosegniroe il giudieio, mostrerebbero di donarlo a tanti che per lui supplicavano. E qui taciutosi Minucio, fecesi innanzi Sicinio il tribuno, e disse: che. uè egli tradirebbe la libertà del popolo, nè permetterebbe di buon grado che altri la tradissero. Pertanto se i patiizj sottomettevano realmente un tal uomo al giudizio del pòpolo, iàrebbe che su lui si votasse, nè punto da ciò i si scosterebbe. ^ E; qui subentrando Minucio replicava : Poichésiete o tribuni fermi in tutto eli dare il voto su quest’uomo; almeno non lo accusale di altro che della offesa imputatagli. K poiché lo dinunziaste reo di ambita tirannide di chiarate e convincete, ciò con gli argomenti t ma' non vogliate .nè ricordare nè accusare le parole, le quali 10 incolpavate, di^ carer. detto in Senato.^ Imperocché 11 Senato lo dichiarava immune da que'sta colpa j e sentenziò phe al popolo si. presentasse '..per le cause convenute. E qui lesse la seuteoBa. E pò,bn gli altri più potati de’ tfibutii. Manon eà' tosto' tocoù atMarciu-di perórare, combaciando da capo, numttò quante spedizioni militari avea sostenuto dalla prima età sua>per.^ blica, quante corone trionfali avea' riportate da saoi cc.^^ mandanti, quanti erano i nemici presi da lui prigionieri, quanti li Cittadini salvati nelle battaglie. E ad ogni dir suo mostrava i premj dati al suo valore, e ne profferiva io testimonio I capitani, e ne chiamava a nome i cittadini liberati. E questi si presentavano sospirando e supplicando i cittadini a non uccidere, nè distruggere come nemico chi era la causa della loro salvezza ; chiedendo la vita di un solo per quella di tanti, ed esibendo in luogo di lui sestessi, perchè come più voleano ne disponessero. Erano i più di loro del popolo anzi al popolo utilissimi. E preso il popolo da verecondia all’ aspetto ed alle lagrime di tanti ne impietosi, e ne pianse. Quando Marcio squarciandosi 1’ abito, mostrò pieno il petto, piene le altre membra di cicatrici, e dimandò se credeano poter esser le opere di un uomo stesso salvare il popolo in guerra dà nemici, e saU alo opprimerlo nella pace : e se chi fonda una rannlde, caccia dalla città una porle del popolo, dal (filale principalmente la tirannide si alimenta e corrohora. E lui parlando ancora, tutti i più mansueti, e più umani del popolo esclamavano, che si rilasciasse: e vergognavansi che stesse fio dal principio in giudizio per simil cagione un uomo che avea tante volte spregiata la propria salvezza per quella di tutti. Ma tutti i più invidiosi, tutti i più malevoli ai buoni, e più pronti alle sedizioni, soffrivano di mai in cuore di avere a liberare un tal uomo : tuttavia non sapeano che più fare, non apparendo in esso indizj nè di tirannide, nè di ambizion di tirannide, e su ciò dovessi giudicare. Or ciò vedendo quel Decio che avea ragionato in Senato, e procurato che si stendesse il decreto per la causa, levatosi in piede fece silenzio e disse : Poiché, o popolo, i patrizj hanno assoluto Marcio dalle parole dette in Senato, e da fatti violenti e superbi che le seguirono: nè vi hanno lasciato mezzi onde accusarlo ; udite, non le parole, no, ma la egregia cosa che questo valentuomo vi apparecchiava ; uditene £ orgoglio, la sovverchieria, e conoscete qual vostra legge, egli privatissimo uomo, violasse. Koi tutti sapete che quante spoglie nemiche ci riesce di acquistar col valore, tutte per legge son del comune, e che niuno, nemmeno lo stesso capitano, non che un privato, ne è £ arbitro ; sapete che il questore le prende, le vende, e, fattone danaro, lo versa nel pubblico erario. Or questa legge che niuno da cheRoma è Roma non solo non ha mai violato, ma nemmeno ha ripreso come non buona ; questa già firmala, invalsa, questa ha £ unico Marcio conculcata, appropriando le prede che erano del comune, £ anno scaduto, e non prima. Imperocché essendo noi scorsi su le terre degli Anziati, e pigliato avendovi prigionieri, e bestiami, e frumenti, ed altro in copia ; egli non depositò già tutto' nelle mani del questore: e nemmeno, alienandolo, ne mise il prezzo nel£ erario : ma divise in dono agli amici suoi per cattivarseli, tutta la preda ; or questo io dico eh’ egli è argomento certissimo di tirannide. E come no ? Costui beneficava col tesoro pubblico li suoi adulatori, li custodi della sua persona, li cooperatori della tirannide. E vi affermo che questo fu come un abrogare manifestamente la legge. Or su, facciasi pure innanzi Marcio, e dimostri £ una o £ altra delle due; omelie egli non compartì le belliche prede a’ suoi amici ; o che se bene ciò fece, non ruppe la legge. Ma egli non potrà dire ninna di queste due cose. Imperocché voi sapete ( una e V altra, la legge e t opera : Nè mai potrete coll assolverlo, dar vista di conoscere i diritti ed i giuramenti. Lascia o Marcio le corone ed i premj, lascia le ferite ed ogni ostentazione, e rispondi a questo, su che li concedo ornai che tu parli. Cagionò tale accusa grande mutazione; e li più dolci, e più premurosi per I’ assoluzione di questo uomo si rallentaron ciò udendo. E li più perfidi, quali erano i più della plebe, deliberati allatto di perderlo, vi si ostinarono ancor più, per una occasione si grande, e simanifesta. EU’ era ben vera la distribuzion della preda, non era però fatta per mal genio, nè in vista di una tirannide, come Decio calunniava, ma solo con fine benissimo, con quello cioè di riparare ai mali della repubblica : perchè essendo allora il popolo discorde ed alienato da’patrizj, i nemici dispregiandoli, ne scorrevano e ne predavano di continuo le campagne. E quante volle parve al Senato di spedire una forza che li reprimesse, ninno usciva del popolo, anzi giubbilava contemplando i casi d’ intorno, nè le forze dei patrizj bastavano a contrapporsi. Or ciò vedendo Marcio promise ai consoli, se lo creavano capitano, di portar su' nemici un’armata spontanea, e di pigliarne ben tosto vendetta. Ottenuto Marcio il potere, congregò li clienti, gli amici, e quanti voleano partecipare le sue fortune, e la sua gloria nelle armi. E quando parvegli che si fosse raccolta milizia sufficiente ; la menò su’ nemici che niente ne prevedeano. Scorso in region doviziosissima, ed arbitro divenuto di amplissima preda, permise alle sue milizie che tutta se la dividessero, afUnchè li compagni dell’ impresa, raccoltone il frutto, andassero pronti anche agli altri cimenti : e quelli, che impigrivano in casa, considerando da quanti beni, a’ quali poteano partecipare, gli allontanasse la sedizione; divenissero più savj per le spedizioni seguenti. Tale era su ciò la idea del valentuomo. Ma la turba invida e tenebrosa, considerandone con malvolere le operazioni, credette vedere in esse un predominio, nna largizione tirannica. Dond’ è che il Foro si riempié di clamori e di tumulto : nè più Marcio, nè il consolo, nè alcun altro sapeano che rispondere, riuscendo la incolpazione inaspettata ed improvvisa. Poiché dunque ninno più faceane le difese; i tribuni dispensarono alle tribù li suffragi, proponendo per pena del delitto Y' esilio perpetuo, io credo perchè temevano, che se proponevano la morte, non sarebbevi stato condannato. Dato da tutti il voto, e numeratili, non vi fu gran divario. Imperocché essendo allora ventuna le tribù le quali ottennero il voto, nove si decisero per la liberazione di Marcio, tanto che se altre due vi si aggiungevano, sarebbe stato, còme ordina la legge, liberato per la uguaglianza. Se le trìbCk erano at, e nove si dichiararono per Marcio: dunque dodici lo condannarono; e però ire o non due altre trilnt ci Toleano per uguagliare i Voli della condanna e dell’ assoluzione. Forse Dionigi Tuoi dire che se la tribù condaunaTauo cd undici assolvevano, l’efHcacia de’ voli era la stessa in guisa, che per uu voto di più non cnndannavasi il reo, ma si rilasciava. Se ciò è, nel lesto non vi è discordia, ma la voce dovrà tradursi I Fu questa la prima oitasione di un patrizio al popolo per esserne giudicato : e d’ allora in poi fu stabilito il costume che i tribuni chiamano chi lor piace de’ cittadini a subire il giudizio del popolo. £ dopo tal fatto ancora assai il popolo si elevò, decadendo nomtneno il potere de’ pochi, perché ne furono ridotti ad ammettere > plebei nel Senato, a concedere che aspirassero agli onori, a non vietare che prendessero i sacerdozi, e a dividere con essi per forza e loro malgrado, o per provvidenza e saviezza, i tanti bei pregi, un tempo proprj solo de’ patrizj, come ne’ luoghi opportuni diremo. Del resto l’ uso di citare i cittadini primai'j al giudizio della moltitudine può somministrare materia ben ampia di discorso a chi vuol biasimarlo o lodarlo ; perciocché molli uomini probi ed egregj ne sostennero cose non degne della loro virtù, fatti inglòriosameute uccidere e malvagiamente pe’ tribuni : e per r opposito ne pagarono pnre la debita pena molti uomini aiToganti e tirannici, astretti a dar conto del vivere e procedere loro. Quando dunque vi si faceano con cor buono le discussioni, e vi si reprimevano le esorbitanze dei graudi, quella sembrava mirabilissima cosa, ed erano da tulli lodata : ma quando a torto il merito vi si prostrava de’ valentuomini egregj nel governo del comune ; sembrava orribilissima, e gli autori se he accusavano non per la uguaglianza de' voti come abbiamo (allo ma per la efficacia de’ voti. Sappiasi in fioe che talono de’ critici afferma che le tribù allora erano 3i, e non 3i ; ma il Sigonio de civiiate Rom. G. 3, ed Onofrio Vanvlno al c. 8, sostengono che erano realmente Tcntuna. della coDsnetudtne. Esaminarono, evvero, più volte i Romani se la dovessero annullare, o custodire come r aveano ricevuta dagli antenati ; ma non diedero mai fine all’ esame. E se pur io debbo dirne ciocché ne penso, a me ne sembra la istituzione, se per sé si consideri, vantaggiosa, anzi necessariissima a Roma ; esservi però più o mcn bene riuscita, secondo il carattere dei tribuni. Imperocché se scontravansi savj, giusti, e solleciti del pubblico, più che del proprio lor bene, e se chi offendeva la patria ne era, come dovea, castigato; in tal caso un timor vivo frenava ancor gli altri dai fare altrettanto. E 1’ uomo buono, 1’ uomo avvanzatosi eoo cuore puro ai maneggi pubblici né subiva pene vergognose, né gìudizj, alieni dal procedere suo. Ma quando aveansi il poter tribunizio nomini scellerati, intemperanti, avari, succedeane tutto l’opposito. Tantoché non dovessi rettificar come erronea la consuetudine, ma curar piuttosto come si avesser tribuni probi ed onesti, senza che tanta autorità temerariamente si conferisse. Tali furono le cagioni, e tale il termine della prima sedizione de Romani dopo la espulsione dei re. Io ne parlai lungamente, perché ninno si meravigli come i patrizj permisero che il popolo si attribuisse tanto potere, nè succedessero intanto come in alure città, gli eccidj e le fughe degli ottimati.' Ciascuno brama conoscere delle insolite cose la cagione ; proporzionandosene a questa la credibilità. Dond’è che io conclusi che non sarei stato creduto in gran parte o in tutto, se io diceva nudamente, e senza allegarne le cause, che i patrizj aveano ceduto ai plebei la primazia ; e che polendo dominare come nei comando dei pochi, aveano fenduto il popolo arbitro di affari gravissimi: e cosi concludendo ; volli esprimerle tutte. E poiché ira loro non si violentarono e necessitarono colle armi, ma coocordaronsi colla persuasiva, giudicai portare il pregio dell’ opera, che si esponessero soprattutto i discorsi tenuti allor dai primari ciascun dei partiti. E ben io mi stupirei che taluni pensassero doversi i falli della guerra descrivere minutissimamente, e taivoha consumassero tante parole intorno di una sola battaglia dicendo la natura de’ luoghi, la proprietà delle armi, la forma delle ordinanae, le ammonizioni del capitano, e tatti i motivi, quanti coadiuvarono la vittoria ; nè poi credessero che narrando i movimenti, e le sedizioni civili sen dovessero insieme riferire i discorsi pe quali si operarono impensate e maravigliosissime imprese. Certa-' mente se nel governo de’ Romani vi fu portento degno di encomi, e della emulazione di tutti, fu questo a parer mio, famosissimo più che i tanti, che pur vi furono stupendissimi, vuol dire che i plebei spregiando i patrizi non si avventa sser su loro, uccidendone in copia i più insigni, ed usurpandone i beni, e che quelli che esercitavan le cariche non conquidessero di per sestessi o co’ soccorsi di fuori tutto il popolo, rimanendosene poi liberi da paure in città ; ma che a guisa di fratelli co’ fratelli, e di figli co' padri in una savia famiglia, la discorresser fra loro su’ diritti comuni, e finissero le controversie col dialogo e colia persuasione, senza permettersi gli nni contro degli altri azione alcuna inir DtOSttGl, tomo //• iG qua ed insanabile, come nelle loro sedizioni ne fecero i Corciresi, come gli Argivi, i Milesj, e la Sicilia intera, e tant’aliri. E jier queste cause io volli anzi estenderne che ristringerne la narrazione ; e ciascuno ne pensi come glien pare.. Avuto allora il giudizio un tal esito, il popolo si parti con una vana ghiattauza; concependo aver tolto il comando dei pochi. Altronde i patrizj ne andavano umiliati e mesti, ed incolpavano Valerio per suggerimento del quale avevano rimessa al popolo la sentenza. E quelli che riconducevano Marcio, impietositi, ne sospiravano e ne lagrimavano : non però vedeasi Marcio né piangere, nè lamentare la sorte sua, nè dire o fare cosa qualunque, non degna de’ sublimi suoi genj : anzi dimostrò più ancora la generosità e fortezza deir animo suo, quando giunto in casa ridevi la moglie e la madre che aveansi squarciata la veste, e pesto il petto, e gridavano, come sogliono in simili casi, donne separate dai loro più cari per 1’ esilio, o per la morte : niente invili tra le lagrime, niente tra’ clamori delle donne. Ma dato loro un amplesso, le animava a tollerar virilmente la disgrazia, raccomandando ad esse i suoi figli. Grande era 1’ uno di dieci anni, ma sosteneano l’ altro colle braccia ancora. E senza dare altri pegni della sua benevolenza, e senza tor seco ciocché bisognavagli per 1’ esilio, usci sollecitamente dalle porte, non indicando a ninno, dove si trasferiva.,Venuto pochi giorni appresso il tempo de’comizj, furono dal popolo scelti consoli Quinto Sulpicio Camerino e Spurio Largio Flayo per la seconda volta. Turbarono quest’anno la città molti segni di celesti terrori. Imperocché apparvero a molti visioni insolite, e voci si udirono senza niun che parlasse ; le generazioni degli uomini e delle bestie assai scostandosi dal naturale tendevano al mostruoso ed all’ incredibile: e si udivano m più luoghi risonare gli oracoli, e donne da divino furor sorprese annunziavano alla città lamentevoli e terribili sorti. Si aggiunse a tanto un tal contagio nellamoltitudine. Fece questo assai strage di bestiame, ma non molta fu la mortalità degli uomini, non estendendosi il morbo più in là che a far dei malati. E chi diceva succedere l’ infortunio per disegno de’ numi i quali si vendicavano dell’essere espulso dalla patria il migliore de’ cittadini ; e chi dicea che gli eventi non erano opera divina, ma fortuiti, come tutte le vicende degli uomini. Poi si presentò, portatovi in una lettiga, un infermo, chiamato Tito Latino di nome, vecchissimo d’anni, fornito a sufficienza di beni, e che avea per lo più vivuto nella campagna, lavorandola colie sue mani. Costui venuto in Senato rivelò che avea tra il sonno veduto Giove Capitolino che standogli a fronte, ua, disse ; fa intendere d tuoi cittadini che nelT ultima pompa che mi celebrarono, non mi diedero un buon capo per la danza. Pertanto mi ripetano, e compiano un altra festa di nuovo, non avendo io accett ata la prima. Dicea costui che risvegliatosi non faeea verun caso delia visione, ma teneala come una delle comuni ed illusorie. Quando ecco infine gli si presentò nel sonno Anni di Roma a64 secondo Catone, 66 secondo Varrone, e 48iS av. Cristo. la immagiue stessa, e bieca e sdegnata, che non avesse annunziato i comandi al Senato, e minacciandolo, se non gli annunziava immantinente che apprenderebbe con grave suo danno a non trascurare gt IddJ. Questa seconda visione, egli disse, che la riguardò come la prima, vergognandosi di assumer rincarico, egli vecchio e lavoratore, di portare al Senato i sogni suoi, pieni di augnrio e di terrore, perchè non vi fosse deriso. Or pochi giorni appresso il vago e giovine suo figlio, senza malattia, e senza niuna causa sensibile fu rapito da morte improvvisa. E ben tosto il simulacro stesso del nome apparendogli nel sonno gli dichiarò che egli area già colla perdita del figlio subita la pena della sua trascuraggine, e del dispregio delle celesti voci, ma che ben tosto ne subirebbe ancor altre. Udendo tali cose disse che contentissimo ne accettava Uannuntio, Se avesse a morirsi, non più curando la vita: che non gli diede il nume però questa pena, ma che gl'internò per tutto il corpo dolori acutissimi ed insoffri-^ bili, non potendone movere parte alcuna senza tormento estremo. E che allora infine comunicato ^evento agli amici, venivane per consiglio loro al Senato. Pat^a, ciò dicendo, che poco a poco si riavesse dal dolore. Alfine compiuto il discorso, usci di lettiga, ed invocato il nume, ne andò per la città libero e sano in sua casa. Il Senato ne fu spaventato ed attonito , Questo fatto è riportato aoclie da Livio. Cicerone Io allega nel lib. I de Dininalione. Quanto è facile sognare con chi sogna l Ma il Senato avea bisoguo d’ illudere un popolo superstiiiuso, e ne secoudò li delirj. Per tali vie la verità si confonde, e si allouuna! nè sapeva inf]ovinare ciocché il nume signifìcasse, e qual fosse nella festa antecedente il duce, de’ salti che buono a lui non paresse. Àlfìne un tale, memore delr evento, lo disse ; e tutti se gli accordarono. Qr fu r evento cosi : Un Romano non ignobile consegnando un suo schiavo agli altri conservi perchè lo menassero alla morte, ordinò per renderne più romorosa la pena, che lo traessero, flagellandolo, pel Foro, e per tutti, quanti erano, i luoghi più insigni della città. Precedè costui la festa che la città avea prescritto che si facesse in quei tempi a tal nume. Coloro che lo spingevano al supplizio slargandogli e legandogli ambedue le mani ad un legno, postogli dietro il petto e diretto per le spalle fino agli estremi delle braccia, lo seguivano, e lo battevano nudo co’ flagelli. Stretto costui da tale necessità gridava e con sconce voci, quali il dolore gliele suggeriva, e tra salti indecenti, per le battiture. Or questo giudicarono tutti che fosse il saltatore non buono indicato dai nume. E giacché sono a tal parte d’ istoria penso non dover tralasciare i riti che nella festa si tengono dai Romani: non perchè più bella ne sia la narrazione per giunte teatrali e per fioriti discorsi, ma perchè sia più credibile il proposito rilevantissimo, vuol dire, che greche furono le colonie fondatrici di Roma, e venute da famosissimi luoghi, e non barbare e non prive di case, come alcuni hanno esposto. Imperocché nel fine del primo libro, tessuto da me su la origine sua, promisi convalidarla con mille forti argomenti di leggi, di costumi, d' industrie che vi persistono ancora, quali si ricevette dagli avi ; nè giudico che basti a chi scrive le storie antiche de’ luoghi delioearle come degne di fede perchè tali si odono da’ paesani, ma per l’ opposito giudico che a renderle credibili abbisognino queste di altri documenti invincibili, quali 'sono principalissima mente le cerimonie, ed il cullo usato in ognr città verso i numi e i genj patrj. Certamente li Greci e li barbari custodiscono queste gelosamente per lunghissimo tempo frenati dalla riverenza de’ numi vendicatori. E ciò fanno i barbari soprattutto per molte cagioni da non essere qni ricordate. E ninno ha mai persuaso a dimenticare o corrómpere alcuna delle divine cose gii Egizj, i Lìbj, li Celti j gli Sciti, gl’ Indi # e generalmente tutti i barbari, seppure caduti sotto il comando di altri non furono necessitati ancora di volgersi ai riti loro. Roma però non fu mai ridotta a tal sorte, anzi essa diede agli altri le leggi perpetuamente. Se traeva da’ barbari l’origin sua, dovette pur da’barbari derivare s le istituzioni nazionali, per le quali g[iunse a tanta fortuna : e quindi dovette astringere tutti i sudditi a venerare gl' Iddj con le forme Romane come niigliori. Se dunque i Romani eran barbari, niente poteva ritardare che barbara si rendesse tutta la Grecia che ornai da sette generazioni ne porta il giogo. Alcuno forse crederà che bastino per segno non piccolo delle pratiche antiche, quelle che ancor vi si usano. Ma perchè altri noi prenda come insufhciente per la opinione non giusta, che i Romani quando vinser la Grecia, con piacere ne assunsero i costumi come migliori, ripudiando i proprj ; ho deliberato aiv _ gomentar dal tempo quando essi non ci dominavano ancora, nè avevano olire mare 1’ impero, valendomi deir autorità di Quinto Fabio senza che altra me ne bisogni. Imperocché antichissimo tra quanti scrissero le cose ror.. .u., ce le accredita -non solo perciò che ne ha udito, ma perciò che ne ha veduto ancora. Il Senato, come ho detto di sopra, aveva decretato quella lesta, per adempiere il voto fattone da Aulo Postumio dittatore, quando fu per combattere le cittàribellatesi de’Latini, che tentavano rimettere Tarquinio sul trono: ed aveva decretato che si applicassero ogni anno ptr li sagriGcj e pe’ giuochi cinquecento mine di argento ; e puntualmente ve le applicarono fino alla guerra con i Cartaginesi. In questi sacri giorni si faceano molte cose conformi alle greche usanze circa il concorso, 1’ accoglienza de’ forestieri, e le immunità, cose tutte > ben difficili a descriversi. Le cose poi, che concernono la pompa, i sagrifizj, ed i certami, erano come sieguono, e ben da queste si possono argomentare, quali fossero ancora, le tante cbe sen taciono. Prima cbe si desse principio ai giuochi, le persone che aveano il potere più graude, avviavano dal Campidoglio la pompa, conducendola pel Foro al Circo Massimo : e nella pompa eran primi i lor figli prossimi alla pubertà : ma que’ garzoncelli che poteano per 1’ età far parte della pompa ne andavano a cavallo se fossero di equestre famiglia, o a piedi, se a piedi dovessero mili^'U'e; e .quali nc andavano ad ale e caterve, e quali a corpi ed ordinanze maggiori come per essere istruiti: e ciò ptrcliò fosse visibile ai forestieri la gioventù Romana che era per giungere alla età militare, e quanto ne fosse il numero^ e quanta la bellezza. Venivano appresso loro i guidatori di quadrighe, di bighe, ed altri che pompeggiavano su cavalli non aggiogati. Seguivano quindi i combattitori di certami leggeri o gravi; e nudi si vedevano, se non quanto velavano le parti del sesso. E tal costume conservasi ancor tra' Romani come nei prìncipi aveasi pure tra’ Greci, finché tra’ Greci vi fu tolto dai Spartani: Perchè il primo che prese a nudarsi il corpo e nudo corse ne’ giuochi Olimpici nella olimpiade decimaquinta fu Acanto di Lacedemonia; laddove innanzi lui vergognavansi i Gi'eci di avere tolto nudo il corpo ne’ spettacoli, come certifica Omero scrittore antichissimo e degnissimo più che tutti di fede, il quale introduce gli eroi cinti da una zona. Quindi descrìvendo il certame di Ajace e di Ulisse ne’ funebri onori di Patroclo disse : Sceser cimi di zona ambi alla pugna. E ciò dichiara ancor più nell’ Odissea, narrando il pugilato di Irò e di Ulisse in tal modo : SI disse ; e tulli encomiaro Ulisse, E di una zona circondàndo i lombi, Gli ampi e voghi suoi femori scopria, ' E nude Sen vedean le vaste spalle,, Nudo il petto t e le braccia. Ed introducendo quel misero che non volea combattere, ma ne temea ; scrive : Cosi diceano : ad Irò il cor si scosse .•. Cinserlo i proci di una zona, e tutto Tremante lo sospinsero alla pugna. Tal costume primitivo de’ Gred serbato fino ali’ ultimo tempo dai Romani dimostra che questi non lo appresero ultimamente da noi, anzi che non lo mutaron col • tempo, come abbiamo noi fatto. Teneau dietro agli atleti, cori di saltatori divisi in tre bande : erano i primi adulti, imberbi gli altri, e giovani gli ultimi ; venivano quindi sonatori che davan fiato a tibie di antica forma, e picciole, come costumasi ancora, e citaredi che toccavan col plettro lire eburnee di sette corde, ed altre ancora di più, barbiti nominati. DI questi era mancato l’uso ne’ miei tempi tra’ Greci quantunque fosse lor proprio : ma tra’ Romani conservasi In tutti i sagrifizj 'di antico rito. Erano 1’ apparato de’ saltatori purpuree toniche, cinte con metalliche fasce, e spade che ne pendeano, ed aste anzi corte che giuste : vedeasi negli altri uomini elmo di bronzo con cimieri vaghi, e pcnnacchj che P adornavano. Era di ogni coro il duce un uomo il qual dava agli altri la forma del ballo ; rappresentando moti marziali e vivi, con ritmo per lo più proceleusmatico. Era greca antichissima pratica anche quella di saltare colle armi e Pirrica si chiamava, sia che Minerva cominciasse la prima dopo la disfatta de’ Titani a danzare e saltare colle arme tra cantici trionfali per la vittoria ; sia che prima ancora fosse il Proceleusmatico cbiamaTasi no piè metrico di quattro sillabe brevi : e quiudi si diceauo fttrfi i versi che conteueano que' piedi. Forse furono cosi detti perché soleano premettersi, caulandoli, r7r rttXtvrfitiTt vuol dire alle esortazioni o comandi. Quindi il ritmo proceleusmatico ne’ balli dovrebbe avere allusione a tali piedi o versi, ed esortazioni. rito Introdotto da’ Cureti, quando educando Giova voleano carezzarlo col suono delle arme, e con lièti moti e cadenze, come la favola narra. Omero più volte, e principalmente nella foiDiazione dello' scudo che dice donato da Vulcano ad Achille, mostra l’ antichità • di questo rito, e la nascita sua tra’ Greci. Imperocché rappresentando in esso due città, l' una ornata di pace bella, e l’ altra straziata dalla guerra, delinea, com’era naturale, la felicità di quella con feste, con matrimonj, e conviti, e dice : Faeton la danza i (Rovani, e frattanto Vdiati il suon di tibie, e cetre ; e tutte, Meravigliando ai limitar di casa, Stavan le donne. E di nuovo elogiando con vago ornamento nello scudo un altro coro di giovani e di vergini Cretesi dice : Aveaci espresso V inclito Vulcano Un vario coro somigliante a quello. Che Dedalo formò per Arianna, Che in si bei ricci avea la chioma attorta : Qui giovinetti e ver^nelle vaghe. Tenendosi per man, facean lor dama. Ed esponendo 1’ ornamento di questo coro per dichiarare che i giovani saltavano colle arme, scrive ' E quelle 'avean vaghe ghirlande, e questi Aurate spade a cinti argentei appese. E parlando dei duci del salto loro, di quelli che davano agli altri le prime mosse, dice :. Il popolo prendea dolce diletto Intorno al coro; e due de' saltatori Clan cantando e danzando a tutti in mezzo, Nè solo potrem yedere la somiglianza co’ greci riti da qnfsie danze marziali ed ordinale, usate da' Romani ne’sagrifìcj e nelle pompe, ma dalle danze ancora sati ricFie e derisorie. Dopo i cori armati vedeansi in mostra cori imitatori de’ satiri, non dissimili dalla greca Sicinne. L’abito in chi Vappresentava un Sileno erano ispide vesti, chiamale da alcuni Cortee ; e manti con ogni varietà di fiori: in quelli poi che somigliavano un satiro erano perizomi e pelli caprine, e sui capo criniere irte di lioni, e cose altrettali. Or questi beffavano e contraffaceano serj moti, spargendovi del ridicolo : e gli andamenti de’ trionfi assai palesano che era antico e proprio de’ Romani il motteggio e la satira. Imperocché permettevasi u quelli che segui van la pompa lanciar beffe e giambi so gli uomini più riguardevoli, c fino su’ comandanti ; siccome un tempo in Alene era^ permesso che nè lanciasser quelli che sul carro se^itavau la pompa, e che ora cantan versi improvvisi. Eid io ne’ funerali di personaggi cospicui, specialmente se già fortunati, vidi tra le altre pompe cori in forma di satiri che precedevano il feretro, e saltavano come nella Sicinne. Che poi il gioco e la danza alla guisa de’ satiri non fu ritrovamento de’ Liguri nè degli Umbri nè di altri barbari, abitanti dell’ Italia, ma de’ Greci ; temo di sembrare molesto, volendo a lungo convincere una cosa della quale già si conviene. Dopo questi cori pasA Vossio scrive più cose intorno a qeeslo genere di saltasione nel I. a c. 19. lusiiiul. Poei. (a) Cortee proviene questa voce da ^cfTts r:hc siguitica Jìeno, erba CC. ’ e savano molti sonatori di tìbie e di cetere : e poi quelli che portavano profumi di aromi e d’ Incensi, e quelli che portavano lavori meravigliosi di oro e di argento sia de’templi, sia del comune. Venivano In ukimo della pompa recati su le spalle di nomini I simulacri divini foggiati come quelli de’ Greci quanto alla forma, agli, abiti, al simboli ed al doni, secondo che que’ numi es-‘ sendooe stati I trovatori, gli aveano, ciascuno., donati ai mortali, nè solo v’ erano I simulacri di Giove, di Giunone, di Minerva, di Nettuno, e degli altri che li Greci contano tra I dodici numi ; ma di altri più antichi da’ quali la favola origina i dodici ; io dico i simulacri di Saturno, di Rea, di Temide, di Làlona, delle Parche, di Miiemosine, in somma di lotti, quanti hao templi, ed are fra i Greci, come quelli de’ numi che favoleggiansi nati dopo che Giove ottenne l’impero, vuol dire quelli di Proserpina, di Lucina, delle Ninfe, delle Muse, delle Ore, delle Grazie, di Bacco, e quelli de’ semidei, l’ anime de' quali spogliate de.l corporeo frale diceansi andate in cielo, e goilervi onori simili ai divini, cioè quelli di Ercole, di Esculapio, di Castore e Poi luce, di Elena, di Pane, e di altri mille. Se dunque i fondatori di Roma eran barbari, e se v’istituiron tal festa; com’era possibile mai che adorassero tutti I numi e genj della Grecia, negligentando I propr) ? Almeno mi si dimostri un altra gente non greca, la quale avesse Erodoto narra nel libro seconda che: i Greci derivarono questi dodici Numi dagli Egiij. L’interprete di Apollonio scrive die questi erano : Giove, Apollo, Mercurio, Nettuno, Marte, Vulcano, Giunone, Diana, Pallade, Cerere, Venere, e Vesta. tali sante cose come nazionali ; ed allora si condanni la mia dimostrazione come non buona. Terminata la pompa facean sagri Gzio i consoli e que’ sacerdoti a’ quali spettavasi, e la forma del santo rito era quale appunto tra noi. Lavatesi le mani, lustrate le vittime con acqua pura, sparsi i frutti di Cerere sul capo di esse, e poi fatti de’ voti, comandavano infine ai loro ministri d’ immolarle. E quale di questi mentre la vittima era in piede ancora ne percotea le tempia colla mazza, e quale nel cadere la trafiggeva colle coltella. E poi scorticandola c squartandola prendean le primiziedi ciascuno de’ visceri e di ogni membro : e sparsele con farina di fiiTo, le portavano ne’ bacini a quelli che sagrilìcavano : e questi soprappostele all’ altare, le arde-^ vano, e spruzzavano intanto di vino. E poi facile intendere dalle poesie di Omero essersi ciascuna di queste cose fatta secondo le leggi istituite da’ Greci pe’sagrifizj: perciocché descrive gli eroi che si lavan le mani ed usano farina di farro con sale dicendo : E lavaron le mani, e sparser farro : E che ne tagliano i capelli e li gittano al foco in quei detti : Ma cominciando il santo rito getta 1 capelli sul foco ; E li descrive che colpiscono colle mazze in fronte le vittime, e che cadute le immolano come fa nel sagrifizio di Emeo. Percotela, di quercia alzando un tronco, Cui rapido poi lascia ; e lascia insieme Lo spirito la vittima, e qui gli altri Miseria in inani, e ne arrostino. E descriveli che pigliano le primizie delle viscere, e di altri membri, e le infarinano, e le bruciano su gli altari: come fa nel sagri fì ciò medesimo. E da ogni parie le primìzie piglia Be’ membri tutù, e crudi ancor li copre Di grasso, e di farina ; e dagli al foco. Ora io so per averlo veduto, che i Romani osservano ancora tali riti ne' loro sagrificj : e su questo argomento, anche solo, mi rendei certo, clie i fondatori di Roma non furono barbari, ma grecivenuti da tutte le parti. Ben può essere che alcuni baiiiari somiglino in pane ai Greci nelle istituzioni de’ sagriliz), e delle feste ; ma che in tutto somiglino loro, ciò non è verisimile. Mi resta ora di dir brevemente de’ giuochi che faceano dopo la pompa. Era prima la corsa delie quadrighe, delle bighe, e dei cavalli sciolti, come nei giuochi Olimpiaci e Pitiaci de’ Greci in antico, e fiu di presente. Ne’ certami equestri si conservano ancora tra’ Romani due istituzioni antiche, come furono fondate in principio, quella cioè de’ carri a tre cavalli, la quale ora in Grecia è cessata ; sebben vi fosse anticbissima e già ne’ tempi eroici ; introducendo Omero de’ Greci che ne usarono nelle battaglie. Imperocché essendo due cavalli congiunti come nelle bighe un terzo accompagnavali contenuto e tratto colle redini, e chiamato parioron appunto dall’ esser più libero ; e non come gli altri in biga. L’ altra cosa di cui restano ancor le vesiigie ne’ riti aniichi di alcune poche città di Grecia è la corsa di quelli che anduvau su’ Carri ; peroccliè finite le gare a cavallo, smontati dal carro quelli clt e sedere presso del focolare in silensio era un aulichissioia maniera di supplicare. Addita anche ciò Tucidide nel t libro, discorrendo di Temistocle: e si vede un tal rito piò chiaramente io Plutarco nella vita di Coriolano, appunto iu questo luogo. le calamità che lo (lageilavaDO, e lo ìnchinaTano a ricorrere perfino ai nemici, pregavalo ad avere idee miti e benevole verso chi rivolgevasi a lui, non a tenerlo, mentre davaglisi nelle mani, come avvemrio, nè a mostrar la sua forza contro gl' infelici e depressi, e ri flettere piuttosto quanto istabili fossero le sorti degli uomini. £ ciò puoi, disse, apprendere principidmente da me, che già potentissimo fra tutti in città grandissima, ora derelitto, infelice, bandito, senza patria, debbo correr la sorte che vuoi tu destinarmi. Io, se tu amico me ne rendi, io ti prometto far tanto bene ai Volsci, quanto male ad essi cagionai, mentre ne era nemico. Ala se prevedi tuU' altro di me, siegui r ira tua, dammi in sulC atto la morte, immolando colle stesse tue mani il supplichevole tuo, presso a’ tuoi focolari. IL Or lui cosi dicendo, Tulio gli stese la destra, e sollevandolo, animavaio a confidare ; perocché non sof^ frirebbe cose indegne della sua virtù : professavasi insieme obbligatissimo che avesse ricorso a lui, per essere questa non picciola significazione di onore : promise che renderebbegli amici tutti i Volsci, cominciando dalla patria sua, nè mentite ne furono le parole. Dopo non molto tempo deliberandone da solo a solo, Marcio e Tulio, conchiuscro di movere la guerra, Tulio, concentrando tutte le forze de' Volsci, voleva marciare immantinente su Roma, mentre era agitata ancora dalla sedizione, e sotto consoli imbelli. Marcio in opposito pensava che vi abbisognasse prima un titolo onesto e giusto di guerra ; dicendo che gl’ Iddj mcschiavansi a tulle le cose, e panico Urmenle a quelle della guerra quanto sono più rilevanti, ed oscure nell’ esito. Aveaci allora tra’ Volsci e tra' Romani sospension d’arme, e tregua ed amicizia, conchiusa poco innanzi per due anni. Se tnovi, disse, inconsideratamente e precipitosamente la guerra, tu sarai colpevole di aver rotti gli accordi, nè te ne avrai propizj gVIddj ; ma se aspetti che i Eomani ciò facciano ; si giudicherà che tu risospingali, e protegga la confederazione che violano. Ben ho io con assai provvidenza trovato come ciò facciasi, e come essi i primi volgansi alle arme, e noi siam giudicati et imprendere una guerra giusta e santa. Bisogna che per maneggio nostro essi i primi offendano il giusto : e tale è questo maneggio che io finora ho celato profondamente, aspettandone il tempo, e che ora di necessità, sollecitissimo, ti svelo, procurandone tu la esecuzione. Debbono i Romani far sagrifizj e giuochi assai sontuosi e magnifici, e molti accorreranno di fuori agli spettacoli. Attendi la occasione, ed accorri tu pure a tanto apparato, dando opera insieme, che vi accorra, il più che per te si possa de’ Volsci. Come tu sia in città, fa che alcuno degli intimi tuoi vadane ai consoli, e dica loro secretissimamente, che i Volsci tra la notte assaliranno Roma, e che perciò vengono in tanta moltitudine. Tu ben sai quanto apprezzeranno la nuova : vi cacceran senza indugio da Roma, e vi porgeranno un titolo giusto di risentimento. HI. Esultò Tulio meravigliosamente, ciò udendo : e differito il tempo d’ imprendere ; diedesi ad apparecchiare la gnerra. Approssimatisi poi gli spettacoli, ed essendo già consoli Giulio e' Pinario ; am>rsevi da tutte le città la gioventà più florida dei Yolsei, come Tulio bramava. La maggior parte non avendo ricetto ndle case e preo degli ospiti, presero alloggio in sacri e pubblici luoghi; e quando giravansi per le strade, ne andavano a crocchi e moltitudini : tantoché già su loro in città si faceauo discorsi e sospetti non buoni. In questo mezzo venne ai consoli un delatore apparecchiato da Tulio, come avea Marcio suggerito : e quasi avesse a svelare a' nemici una pratirà arcana in danno degli amici suoi, strinse ’i consoli a giurare di salvar lui, né mai dire ad alcuno de’ Yolsei chi avesse ciò palesato, e poi dinuneiò gli assalti mentiti. Parve ai consoli vero il racconto, e ben tosto invitati i senatori ad uno ad uno, si congregarono. Presentatovi il delatore, ed avutene le eguali promesse, replicò la dinunzia medesima. Coloro a’ quali parea già cosa piena di sospetto che venuta fosse agii spettacoli tanta gioventù di una sola nazione nemica, assai più ne temerono, aggiungendovisi ora una dinunzia della quale ignoravano la frodolenza. Parve a tutti che si cacciasser di città quei forestieri prima che il di tramontasse con bando di morte a chi non ubbidisse; e che li consoli invigilassero sicché tranquilla ne fosse la uscita, e senza offese. lY. Decretato ciò dal Senato, altri scorrendo le strade intimavano ai Yolsei di partire immantinente tutti per la porta detta Capena, ed altri con i consoli li scortavano, mentre partivano. Or qui più che altrove si conobbe quanta mai fosse, e quanta vigorosa quella moltiiadine ; uscendo In un tempo tutu per una porU. Usci sollecitissimo Tulio prima che tutti, e prese non lungi da Roma un tal posto, dove raccogliere gli altri che seguitavano. E quando tutti furono giunti, convo> catane l' adunanza, assai v’ incolpò li Romani, dichia> rando grave ed indicibile 1’ affronto de Volsci, unici ad essere espulsi fra tanti forestieri : ed eccitandoli tulli perchè ciascuno lo raccontasse in sua patria, e vi trattassero le maniere di vendicarsene e reprimere per l’avvenire tanta insolenza ne’ Romani. Cosi dicendo ed infiammandoli, dolenti già per 1’ oltraggio, sciolse 1’ udienza. Ricondottisi in patria, ridissero ciascuno ai compagni la ingiuria, esaggerandola, unto che ne furono tutti esacerbali, nè poleano rattemperarne lo sdegno. E spedendo una città all’ altra degli ambasciadori, chiesero un congresso generale, per concordarvisi intorno la guerra. Succedeva tutto ciò per briga di Tulio principalmente. Cosi li magistrati di tutte le città, e moltitudine grande ancora di altri adunaronsi nella città di Eccetra, ripuUU la più acconcia per congregarvisi. Dettevi assai cose dai capi di ogni città, si dispensarono i voli finalmente, e prevalse il partito di mover la guerra, avendo primi i Romani conculcato gli accordi. Y. E qui proponendo i magistrati varj che si discutesse la maniera di fare la guerra, presentatosi Tulio consigliò che si chiamasse Marcio, e da lui si udissero i metodi di abbattere la potenza Romana ; giacché ninno più di lui conoscea da qual lato questa fosse inferma, e da quale vigorosa. Il consiglio piacque e tutti cscla I I tnarono che si chiamasse immantinente il valentuomo. Marcio ottenuta l’ occasion che volea, presentatosi mesto e piangente soprastette alcun tempo e poi disse: Se 10 vedessi che tutti pensaste ad un modo su la mia disgrazia, giudicherei non essere necessario difendermene. Ma considerando che Ira indoli tante e varie evvene forse alcuna che forma concetti né veri nè degni sopra di me, quasi il popolo m' abbia per cagioni solide e giuste espulso di patria ; debbo innanzi tutto dir qui tra voi circa il mio esigilo. E voi che ben sapete P infortunio che io m’ ho da' nemici, e come indegnamente io sia perseguitalo dalla sorte, voi, mentre qui lo espongo, contenetevi, prego, nè vogliate desiderare d intendere ciocché dee farsi, prima che ne abbiate compreso chi sia che i^i consiglia. Breve ne sarà il discorso quantunque pigliato dalle origini. Era 11 governo Romano da principio un tal misto del comando di un solo e dei pochi ; fnchè Tarquinio, r ultimo de' monarchi, tentò volgerlo tutto in tirannide. Adunque i capi nel comando de’ pochi insorgendone, lo espulsero : e subentrando essi al maneggio del pubblico, basai orto una reggenza più savia per confessione di tutti, e più buona. Ma da ora in dietro non più che Ire o quattf anni, i più miseri, e li più oziosi de' cittadini, dandosi capi scelerati, ne coperser d ingiurie ; tentando infine di abbattere l' aulì] Queste lagrime forse le TÌile più Io storico che Marcio. It contegno Ji >{uesto valoroso era stalo hen altro coi tribuni e col popolo li Roma come apparisce dal libro antecclcnte j e 'come può coucloJersi dal $ del presente. /oriUÌ de pochi. I capi del Senato ne incollerirono tutti, e cercarono come reprimere la insolenza de' rivoltosi. Di mezzo a c/uegli ottimati udppio C uno dei seniori, degnissimo di lode per tanti titoli, ed io V uno de’ giovani, parlammo sempre liberissimamente non per combattere il popolo, ma perchè sospetta ci era la prepotenza de' ribaldi; non per rendere schiavo niuno, ma per garantire a tutti la libertà, come ai migliori il comando sul pubblico. VI. Or ciò vedendo que’ tristissimi capipopolo vollero in priruipio tor di mezzo noi franchissimi oppositori : e gittarono le mani, non già su tutti due in un tempo perchè il fatto non fosse grave troppo ed esoso, ma su me primieramente che era il più giovane, e men dijfcile da opprimere. Cosi tentarono di perdere me prima senz' (uUorità di giudizio, e poi mi chiesero dal Senato per la morte. Ala venuti lor meno ambedue que tentativi ; mi citarono ad un giudizio ( ed essi aveano ad esserne i giudici ) per incolpazioni di bramala tirannide ; nè videro che rùun tiranno tenendosela co’ pochi combatte il popolo, e che piuttosto egli col popolo conquide il partito più valido nella città. Un giudizio mi destinarono non per centurie, com’ era C uso della patria, ma un giudizio come tutti consentono, iniquissimo, e, la prima e f unica volta, su me praticato, un giudizio dove i merccnarj, li vagabondi, e quanti insidiano gli averi altrui, preponderavano su' boni che voleano salvi i diritti ed il pubblico. E tante erano in me le ragioni per non esserne condannato, che sottomesso ai giu 1.3 ditj di una turba, odiatrice in gran parte de' buoni, e però mia nemica^ non fui sopraffatto che per due voti: sebbene i tribuni divulgassero che assai sarebbero disonorali nel loro comando, e patirebbono da me l estremo de mali se io fossi assoluto, ed insi^ stessero intanto contro me con tutto F ardore e la sollecitudine nella causa. Così malmenato damici cit^ ladini, reputai che più non sarebbe vita la mia, se non prendessi di loro vendetta. Quindi sebbene il potessi, ricusai vivere senza cure, o tra’ parenti nelle città de’ Latini, o nelle colonie fondale di recente dà miei maggiori : e tra voi mi ricorsi, che io ben sapeva essere tanto -offesi da’ Romani e nemicissimi loro, per farne con voi quanto -potessi le vendette colle parole, se le parole vi bisognavano ; o colle opere, se le opere. Intanto io vi rendo amplissime grazie ; perchè mi avete voi ricevuto, e perchè mi date tali significazioni di onore, niente ricordando, nò contando i mali che un tempo voi rtemici miei, avete da me sostenuto fra le arme. VU. Or dite, e qual genio sarei io mai se spogliato da uomini per me beneficati, della riputazione e degli onori quali tra miei mi si competevano, e privato della patria, della famiglia, degli amici, dei numi patemi, delle tombe avite e di ogni altro bene; se ritrovate tra voi tutte queste cose per le quali già in grazia ài essi v infestai colia guerra ; ora terribile non mi dimostrassi con quelli che nemici mi furono in luogo di cittadini, e propizio agli altri che amici mi si rerìdono di nemici ? Io sicuramente non terrei nemmeno per uomo chiunque nè ax>esse nitnicizia per chicli fa guerra, nè benevolenza per chi lo ha salitilo :non iilitno mia patria una città che mi ha ripntliato, ma quella, dove sehben forestiero divengovi cittadino : nè già reputo amica la terra ove sono oltraggiato, ma quella ove trovo la sicurezza. E se Dio ne porga il favor suo, e voi pronta, com’ è giusto, C opera vostra ; seguiranno, spero, grandi e subiti cambiamenti, foi ben sapete che i Romani cimentatisi con tanti nemici non han temuto niun più che voi ; e che niente cercati più attenti quanto indebolire Ya vostra nazione. E pigliandole colle arme, e devUmdovele colle speranze di amicizia, ritengonsi le vostre città per questo, appunto, perchè unendovi tutti in un corpo non portiate su loro la guerra. Se voi dunque a vicenda persevererete procurando il contrario ; e se avrete come ora, tutti un animo per la guerra ; Jacìlmente abbcUterete la loro potenza. Vili. E poiché ricercale il parer mio sul modo di entrate in campo e dirigervi, sia per attestato della esperienza mia, sia della vostra benevolenza, sia per [ uno e { altro ; io dirò tutto, e senza velo. Primieramente vi esorto a vedere che vi abbiate una causa religiosa e giusta di guerra. E come religiosa, come giusta, come utile insieme ve l’ abbiate ( in udite. Picciolo, sterile, aveano da principio i Romani il lor territorio, ma vasto, e buono è quel che vi aggiunseio, togliendolo a’ vicini ; e se ciascuno dei derubati tipela il suo, tiiutia città diverrà quanto Roma picciola, debole, bisognosa. Or io penso che voi doiHate i primi cominciare. Spedite ambasciadori che richiedano le vostre città, quante ne tengono, e che intimino loro di abbandonare, quanto han fabbricato per le vostre campagne, e li premano a rendervi, quanto si hanno di vostro appropriato colle armi: nè vogliate prima che vi rispondano, romper la guerra. Cosi facendo otterrete V una o t altra delle cose che più bramate. Vuol dire, o ricupererete le cose vostre, senza pericoli e spese ; o rinvenuto avrete il titolo onesto e giusto di prender le arme : giacché tutti confesseran per bellissima la condotta di non chieder r altrui, ma il proprio; e di combattere in fine se non ottengasi. Or su, qual cosa pensate, faranno i Eomani a tali vostre proposte ? che renderanno forse le vosUe regioni ? ma qual cosa impedirebbe più mai che lasciasser tutto t altrui? se verrebbero poi gli Equi e gli Albani, se i Tirreni e tanti altri a ripetere ognun le sue terre. O pensate che riterranno le vostre cose, nè vorranno affatto la giustizia ? Così appunto io ne penso. Voi dunque protestandovi, i primi, offesi da loro; e volgervi per sola necessità alla guerra ; avrete compagni, quanti spogliati de’ beni hanno fin qui disperalo ricuperarli altrimenti, che per le arme. Bellissima è poi la occasione, e di cui non avrete mai più la simile per andar su Bomani, preparata fuori di ogni speranza dalla sorte propizia agli offesi; perciocché li Romani, discordi e sospetti fra loro a vicenda, nemmeno luin capi idonei per la guerra. E questo è quanto io poteva suggerire e raccomandar con parole agli amici, detto lutto con cuor sincero e benevolo : quanto poi si dovrà provvedere e compier colle opere, lasciate che i duci deli armata lo curino. RispeUo a me son per voi, comunque di me disponiate; e mi sforzerò di non riuscirvi U pm ignobile sia de’ soldati sia de’ centurioni, sia de' capitani. Spendetemi dove pià vi son uUle, e tenetevi cerio, che io, che già contro voi guerreggiando, tanto vi ho danneggiato; ora, per voi combattendo altrettanto vi gioverò. IX. Marcio cosi disse, e U Volsci, menlre parlata ancora, davan segno di gradirne i discorsi : ma poi che ucque, miti a gran voce allesUrono che benissimo consigliava ; e senza concedere che altri più disputasse, ratificarono il parer suo. Quindi stesone il decreto, e scelti immantinente i personaggi più riguardevoli di ogni cillA, gl’ inviarono ambasciadori a Roma : dichiararono Marcio membro de’ consigli in ogni città, e lo auumzzarono a conseguire in ciascuna le magistrature e gli onori più grandi che vi erano. Per altro anche innanzi le risposte de’ Romani, si diedero agli apparecchi di guerra. E quanti erano ancora disaaimali per le perdite nelle battaglie antecedenti, tutù si rincorarono quasi fossero per abbattere la potenza Romana. Gli oratori spediti a Roma, presentali al Senato, dissero, che sarebbe a’ FoLsci carissimo cessare le controversie coi Romani, e viverne da ora innanzi alleati ed amici senz artifici ed inganni : e dichiarano che stabile sarà questa fede e quest' amicizia, se riabbiano le terre e le città che furono tolta loro da’ Romani : laddove in altro modo nò pace mai vi sarà, né amicizia coslan. 1-j te ; giacché V offeso è naturalmente in guerra perpetua colf offensore. Cliiecleaao pertanto di non essere colla esclusione delle giuste dimcuide necessitati alla guerra. X. Detto dò, fecero i padri ritirar gli oratori, e consullaron fra loro. E cónchiusa la risposta ^ li riobia> maroQO in Senato, e dissero : Conosciamo o Fólsci che voi non f amicizia cercate ; ma pretesti splendidi di guerra : perocché ben vedete che mai vi saran concedute le dimande, per le quali venite, indegne, inammissibili. Se voi date ci aveste da voi stessi e pentitine' poi ci raddomandaste le vostre terre ; non sareste affatto oltraggiati, non riavendole. Ora però voi oltraggiate noi, pretendendo ciocché è degli altri: giacché non eravate voi gli arbitri delle terre, se la légge delle armi ve le toglieva. ^ noi teniam per giustissimo quanto possediamo. per le vittorie : nè primi noi abbiamo fondata questa legge, nè la crediamo degli uomini, anziché degli Dei. E se i Greci, se i barbari tutti se ne valgono ; noi non tlaremo già in ciò segrà di debolezza, nè renderemo punto delle nostre conquiste. Imperocché ben sarebbe vituperosissima cosa lasciarsi per timore e per stoltezza ritogliere ciò che per senno e per nuignanimità si possiede. Noi nè a combattere vi necessitiamo, se non volete ; nè se volete, ve ne ritiriamo. La rispingeremo, se ce la incominciate, la guerra. Riportate ai Folsci queste risposte, e dite, che se pigliano essi i primi le arme, noi gli ultimi lo deporremo, Diomai, tomo ut. Prese qpeste risposle Je riferirono gli tmibascia dori al Comune de Volaci. E convocato di bel nuovo U Consiglio, si concbiuse in fine d’ intimare a nome di tutta la nazione la guerra ai Romani. Quindi scelsero Tulio e Marcio con assoluto potere capitani di tutta 1’ armata, e decretarono che si ascrivesser milizie, si contribuisser danari, c si facessero altri apparecchi, quanti ne vedean necessarj per la impresa. 'E già essendo per isciogliersi l’ adunanza ; Mar.io levatosi in piè disse e Bonissimo è quanto si è qui decretato dal vostro Comune ; e facciasi pur tutto a suo tempo. Intanto però che qui scrivonsi le milizie, e preparansi le altre cose che dimandano cura e tempo ; io e Tulio ci porremo in su r opera.. Seguite noi, quanti volete, saccheggiando le campagne nemiche, partecipare a gran prede. Io vi prometto, se il del ne ajuta, molti e grandi vantaggi. Li Romani non sonasi ancora apparecchiati, vedendo che noi non abbiamo riunito le forze; sicché potremo senza paura scorrere a nostro bell agio tutte le loro campagne. Accettato da’ Volsci anche questo partito, j duci uscirono immantinente, e prima che in Roma se ne sapesse, con molta soldatesca volontaria. Tulio si gettò con parte di essa nel territorio latino per impedire i soccorsi che di là ne andrebbero al nemici, e Marcio guidò le altre aUe campagne di Roma. 11 male giunse improvviso a quelli che vi erano ; e. caddero in poter de' nemici molti ingenui Romani e molti schiavi; e bovi e giumenti’, ed altro bestiame non poco. Quanto era derelitto di grano, di ferramenti, o di altro onde la terra cohirasi, tutto fu predato, o disfatto. Dii uU timo recando 'fino il fuoco, lo gettarono i Volscl pe’ca sali ; tanto che quelli che ne furono spogliati, non po3 secondo Varrone c 486 aranii Cristo. perocché ne andarono ai Volsci appena si ebbe la guep. ra, e concordarono, e giurarono T alleanza. Or questi spedirono a Marcio la milizia più numerosa e più risolutai. Dato da questi un principio, molti altri ancora favorivano occultamente i Volsci ; mandando loro dei sussidi non però per decreto o pubblica approvazione. E se taluno de’ loro voleva a quelli coogiungersi', 've gl’ incitavano, non che gl’ impedissero. Dond’ è che i Volsci accozzarono in breve tempo tanta milizia, quanta mai più per addietro, nemmen quando le loro città più 6orìvano. Marcio che ne era il duce la gittò di bel nuovo su le campagne di Roma ; e tenendovisi molti giorni, devastò quanto crasi lasciato nella prima incursione. Non prése però questa volta prigionieri molti ingenui uomini, giacché, raccolte le cose più pregévoli, ransl questi ritirati^ in Roma o ne’ castelli più vicini, e meglio fortiGcalj. Ma depredò il bestiame che non arcano potpto ridurre altrove, e gli uomini che lo pasturavano, come il grano tenuto ancora nelle aje ed altri prodotti che raccoglie vanSi o che erano già pe’ grana). Cosi derubata 6' guastata ogni cosa, non osando alcuno di conlrapporglisi, riportò nuovamente in patria 1’ esercito, carico di grandi acquisti, e quindi lento in sua marcia. I Volsci veduto'!’ ampio guadagno, e convintisi dell’ abbattimento de’ Romani, che predatori già delle robbe altrui, miravano ora devastarsi impunemente le proprie; ne imbaldanzirono soprammodo, e concepirono pur la speranza di dominare, quasi fosse per loro facilissima e vicinissima cosa annientare il potere degli avversar]. Adunque facaano agl’ Iddj sacriBzj di nngrauamento, oraavapo i templi ed i pubblici fori di spoglie che dedicavano. E tutti iu feste, in sollazzi, ammiravano e celebravano Marcio, qual uomo ipsignitaimo fra gli altri nella guerra, e qual duce cui ntun pareggiava non Romano, non Greco, non barbaro cajiitano.. Soprattutto lo felicitavano della sua prosperità ; vedendo che quanto intraprendeva, riuscivagji tutto speditissimamenle, secondo i disegni. Tanto che ninn v’era di età militare il qual, volesse non esser con lui; ma spiccavansi, e venivano da tutte le città per aver parte nelle sue gesta. Il duce, corroborato ]’ ardore dei Volici, e depresso il coor de’ nemici, e ridottolo ad irrisolutezza indegna de’ valentuomini, marciò coll’ esereito contro le città che alleate di essi teneansi ajncora fedeli:. ed avendo ben tosto apparecchiato quanto ricercavasi per gli assedj, piombò su’ Tolerini, gente del, Lazio. I Tolerini, preparatisi molto prima per la gueiv ra, e portalo in dllà, quanto^ bisognavacl della campagna, ne scontraron l’ assalto. Ben resisterono alcup tempo, combattendo e ferendo ip copia i nemici, dalle mura, ma risospinti è travagliati poi fino a sera dai feombolierì, le abbandonarono in gran parte. Marcio, compreso ciò, diede ordine ad altri che applicasser le scalchila parte derelitta del ricinto: ed egli ne àndò col fior de’ bravi alle porte ; sebbene infestato cogli strali dalle torri : e là ^^zzali i serragli, il primo si mise in città: ma perciocché si era disposta alle porte una schiera folla e poderosa di nemici; questi lo riceverono virilmente ; disputandogli lungo tempo intrepidi r intento, finché perdutine molti, dieder volta, e sbanduiì fuj^ronsi jier le vie. Gl insegoi Marno, acciden(Ione c|uanli ne sopraggiangeva ; se 'gettate le anni non volgeansi alle preghiera. lolanto gli asc^i per le scale impadronironsi delle mura. Cosi la città fu presa, e Marcio separò dalle prede quanto era donativo pe' numi, o decorazione per le città de’ Yolsci, abbandonando il rea’ soldati, Aveanci nell’acquisto uomini, danari, grani; tanto cUe non riuKl facil cosa a vincitori tor via tutto in un giorno. Adunque menandoselo, o trasportandolo successivamente di per seslessi, assalto, prese ad investirne in gran parte le mura. I Bolani, aspettatane 1’ ora conveniente, spalancano le mura ; e sboccandone in numero, a schiera, e con ordine ; si avventano su quelli che stavano a fronte: ed uccisone molti, e più antera feritine, e ridotti gli altri a turpissima fuga, cioulraron le mura. Marcio, che non era presente al sito dell’ inforinnio, conosciuta la fuga de Volsci accorse di tutta fretta con pochi : e raccogliendo quei che vagavan dispersi, li ticongiun^ e rìaoimò : poi riordinatili, edimostrato ciocch’ era da fare; comandò loro di attaccar la città verso le porte appunto. Ricorsero i Bedani a’ tentativi medesimi, emergendo in gran mollitudine dalie porte. Non gli aspettarono i Volsci, ma ripiegandosi fuggirono giù pel declivio come il duce avea già suggerito. Non videro i Bolani l’ inganno, e tnoltissime li seguitarono : quando slontanatisi già dalle mura ; Marcio che avea seco il fiore de’ giovani, diede su loro : e qui molta ne fu la uccisione ; fuggissero o resistessero. Seguitando poi li respinti fino alle porte, li prevenne; internandovisi a 'forza, prima che si richiudessero. Impadronito^si il duce appeua delle porte ; ecco giugnere altra moltitudine di Volaci. Li Bolani abbandonate le mura, rìpararonsi nelle case. Divenuto in tal modo r arbitro anche di questa città, concedette a’ soldati di farne schiavi gli uomini, e di porne a sacco le robe. E trasportatane, come altre volte, successivamente, a grand’ agio, tutta la preda, abbandonò la città finalmente alle fiamme. Pigliando quindi 1’ esercite, ne andò su’ Labicàni. Eran questi, come altri, 'Colonia già degli Albani, ma popolo allora ancb’ esso dei Latini. Or egli per atterrirli fin dentio le mura, sparse, giuntovi appena, su’Joro campi il fuoco, principalmente in quelli donde era .per essere più visibile. Ma i Labicani, avendo ben fortificate le mora nè sbigottirono p?r 1’ arrivo di lui, nè diedero segno alcuno di debolezza : ma si opposero e pugnarono generosamente; trabalzandoli piùjvolte fin da sopra le mura. Non però resisterono ' con successo; combattendo pochi contro di molli, e senza requie mai, nemmen picciolissima i giacché 'frequenti erano intorno la città gli assalti successivi de’ Volsci ; ritirandosene via via gli stanchi, e cimentandosi altri l'ecpnti. Adunque data per un intero giorno battaglia, nè fattasi pausa emmen su la notte-, furono dalla stanchezza astretti a lasciare in fine le mura. Marcio, espugnatele, ne rendè é schiavi li cittadini, e dté tutto in preda a’ soldati. Di là trasferendo 1’ esèrcito io ordinanza contro la città' de’ Pedani, Latina anch’ essa di popolo, la pigliò di forza, giuntovi appena. E trattatala come le' altre già prese, levandone in su 1’ alba le truppe, le menò béntotfto sa Corbione. Ma nell' approssirharvisi gli abitanti 1’ apersero, ed uscirongli incontro, presentando simboli di pace, e la ' resa loro senza combattcrè. Ed egli, encomiatili come savj nel provvedere a séslessi, comandò che gli portassero grano ed argento, come l’ esercito ne bisognava ; e ricevuto tutto secondo i comandi, marciò co snoi contro Coriolo. Gederonò gli abitanti pur questa senza resistenza ; ma perciocché con pienissima propensione supplirono viveri, danari, e quanto Kn chiese, nè ritirò 1 armata ; come su territorio àmico. E per fermo ; egli procurava! con ogni sollecitudine che quelli che si rendevano non subissero i mali causati dalla guerra ; ma riacquistassero, intatte le loro terre, e li bestiami, e gli schiavi che aveano lasciati ne’ loro poderi : nè permetteva che le truppe alloggiassero belle città di essi ; perchè non fossevi danno di furti o prede, ma le accampava presso' le mura. XX. Di 'qua mosse l’esercito verso Bovilla città cospicua allora è contata tra le primarie de’ Ladini, che Nel lesto dice Boia: ma forse dee leggersi Bovilta \ percbl;' Coriolgoo già era stato ai Toleriai, a Bota, a Labico, a Pedo, a Corbipne, ed a Coriolo. -Potrebbe dubiigrsi se sia scritto Bovilla nel $180 nel presente di questo libro : Si descrivono tulle due come so r alture ; parlandovisi di declivj ; e Boriila eia nella via Appia in piano, secondo Cloretio. erair pochissime. Nod Io accolsero già quei che v’ erano dentro,' confidati nelle fortificazioni 'assai vàlide, e nel numero dei difensori. Adunque egli eccitando le trupper a combattere generosanaente, e proponendo amplissimi premj. a’ primi che ne salisser le mura; si accinse all’as^ salto. Or qui vivissima sava ; n^i perchè, spalancate le porte ne uscirono in furia ed in copia, e ne incalzarono' abbasso quanti ne erano a fronte. Assai perirono di Voisci in quella sortita, e diuturna fu la zuffa sopra le mura ; sicché mai più speravano d’ invaderle. Ma il duce supplendo nuovi soldati non fe’ conoscere la perdita degli altri: e raccese l’ardore dei vacillanti; portandosi egli ‘stesso alla parte di esercito che pericolava : Nè spiravano coraggio i delti soli, ma i fatti ancora 'di lui : corse a tutti I pericoli, nè lasciò tebtativo, finché non si preser le mura. Irilpadronitosi poi della città, messa parte dei vinti a 61 di spada per. le leggi dei forti, e parte rendulala schiava, ricotadusse f esercito. E^Ii rimenavalo dopo una segnalala vittoria c^'co di spoglie bellissime, e ricco de’ tanti danari, ivi presi, quanti in ninna delle città coqquistate. Dopo ciò tutta la regione percorsa 'Era in po ter sùo, nè più gli resisteva ninna 'città se non Lavinia, la -prima delle città fondate da’ Trojani approdati con Enea nell’ Italia, dalla quale dm vano i Romani come di sopra fu dichiarato. Gli abitanti pensavano dover prima incontrare ogni male, che 'mancar di fede ai discendenti loro. Adunque vi ebbero attacchi terribili su le mura, e battaglie veementi per le forltficazioiu:^non però sì espugnarono a prini impeto ; ma parve abbisògnarvt assedio, e tempo. Postosene Marcio all’ assedio cinse intorno la dtià di vailo e fossa, e guardò le strade, perché non le si recassero esterni soccorsi e viveri. I Romani udita la rovina delle città vinte, compresa la necessità delle Fendutesi a Marcio, pressati da’ messaggi quoiidiaid delle altre, fedeli ancora, che imploravano ajulo,, spaventati insieme dalla circonvallazione che tiravasi intorno Lavinia, e convinti che se cadea questo iurte > la guerra verrebbe addirittura su loro, crederono uno solo il rimedio a tanti mali, decretare il ritorno di Marcio. Tutto il popolo, gridava questo, e li tribuni voleano lare. una legge per annullarne la condanna : ma^ li patrizj si opposero, ricusando che si ' annullassé alcuna sentenza enianàta. E petuo. Che dunque impedisce che rivenghi alla dolce, alla carissima vista de' tuoi pià congiunti, e ricuperi t amatissima patria, e comandi, come ti si conviene, a chi comanda, e sii duce de' duci, e ne lasci C amplissima gloria a' tuoi figli e nipoti ? E che tali e tante promesse avran prontissimo effetto, noi, quanti qui vedi, noi tutti ne siamo i mallevadori. Finché nè stai di fronte col campo e colla guerra, non parve al Senato nè al popolo far su te decisione ninna di clemenza e di moderazione ; ma se ti levi dalle arme, avrai, né tardi, e noi lo porteremo, il decreto del tuo ritorno. Tali sono i beni se alla patria ti riconcilii: ma se ti ostini, se t odio non deponi verso noi ; dure e molte ne saranno le conseguenze : ed io due le pià manifeste te ne addito ; vuol dire : la prima che avresti il barbaro amore di un'ardua anzi impossibile cosa, di abbattere cioè la potenza di Roma, e colle arme de' Volsci : C altra che quando pure tu ben ^ indirizzi e riesca alf intento, ne sarai creduto il pià sciaurato de' mortali. E perchè io così congetturi su te ; lo ascolta o Marcio, nè t’ inacerbare sul franco mio dire. E prima ne intendi la impossibilità. Molta è in Roma, e tu U> sai, la gioventìi paesana : e se le si tolga ( e torrassele per la necessità presente in tal guerra ) la sedizione, racchetando il timore comune tutti i dissidj, non pià li V jIscì, ma niuna gente d’ Italia ci abbatterrà. Molte sono le milizie de Latirù, molte quelle degli alleati, coloni di Roma, le quali aspettati che in breve giungano per soccorrerci. 1 capitani, come te, seniori o giovani, tand sono di moltitudine, quanti in tutte lo altre città non sono. Ma t ajuto pià grande di tutti, quello che non ei ha mai deluso ne’ grandi accidenti, e che pili vale di tutte le forze degli uomini, è la beneifolenza de’ numi, per la quale teniamo questa città già da otto generazioni non pur libera, ma felice, ed arbitra di tante nazioni, JVon pareggiarci ai Pedani, ai Tollerim, agli altri popoletti, de’ quali sormontasti le cittadelle. Anche un altro duce minore di te, e con esercita minore che questa tuo, violentato avrebbe tali fiacche e poco presidiate munizioni. Ma considera la grandezza della nostra città, la luce sua per tante imprese guerriere, e C ajuto divino pel quale, già picchia, tanto s’ inff-andì : nè concepire che si diversifichi codesta tua forza colla quale vieni a tanta cimenta : anzi ricordati che un esercita meni di Folsci e di Equi che noi stessi abbiam vinta in tanto battaglie in quante osarono di affrontarci : Talché ben vedi che porti a combattere i men forti contro i pià valorosi, e chi sempre perdette contro vincitori costanti, E quand’ anche fosse il contrario ; pur sarebbe da meravigliare, che tu perita di guerra non sappi, che ne' pericoli non è pari r artlire in ehi difende i suoi beni, ed in chi cerca gli altrui ; che questi se non vincono, niente vi scapitano; ma niente agli altri pià resta, se perdonoE questa principalmente è la causa che le grandi armate svaniscono contro le piccole, e le migliori. contro le men buone. Chè può la terribile necessità, ponno i pericoli estremi spirare' corono anche ad indoli che non ne abbiano. E quanto alC arduità deb r impresa potrei dire piò cose, ma bastino queste. Mi resta a fare un solo discorso, cui se accompagnerai colla ragione non colf ira, vedrai che esso è giusto, e ti verrà pentimento del procedere tuo : ma quat è mai questo discorso ? Gli Dei non concessero a niuno che nasce mortale solida scienza delt avvenire : nè troverai da tutti i secoli alcuno cui tutto riuscisse propizio senza mai contrarietà della sorte. Perciò li piò awanzati in prudenza, quale il vivere lungo e la molta esperienza la recano, deano prima di accingersi ad una impresa considerarne il termine, non solo se riesca come pur lo vorrebbono, ma nel caso ancora che devii dai disegni: e ciò deano i comandanti principalmente delle ‘ guerre, a' quali, quanto piò essi dispongono gravissimi affari, tanto piò tutti ascrivon la origine de' buoni o tristi successi ; tal che se vedono esser niuno, o ristretto e piccolo il danno dell' azione se la sbagliano, allora la intraprendono, ma se vario e grande lo vedono, la tralasciano. Or fa tu similmente ; prevedi avanti di operare ciocché sia per incontrarti, se manchi, o se tutto non ti viene a seconda nella guerra. Tu sarai colpevole presso gli ospiti tuoi di aver tentato imprese, grandi piò che eseguibili. Concepisci ( nè già lasceremo impuniti quelli che han preso ad offenderci ) che r esercito nostro vengavi novamente ^ e devasti le loro campagne : non potrai evitare, 0 di essere obbrobriosamente trucidato da quelli a’ quali sei causa di mali sì grandi, o da noi che ora vieni per uccidere e per soggiogare. Forse essi stessi innanzi di patirne alcun male, tentando far pace con noi dovran consegnarti alla patria che ti punisca : e già Greci e barbari assai, ridotti a pari vicende, dm'ettero ciò sopportare. Or ti pajono queste picciolo cose, non degne a discorrerle, o tali che debbansi trascurare, o non piuttosto mali estremi a patirsi ^ fra tutti i mali? XXVni. Ma via; n abbi tu pure il buon termine; e qual frutto allora ne avrai così desiderabile, così meraviglioso ? qual mai gloria ne avrai ? Deh ! considera questo ancora. Ti succederà primieramente di esser privo degli obbietti che piò, ami, e piò ti appartengono ; io dico della madre alla quale porgi amara la ricompensa di averti generato e nudrito, e de' tanti travagli che sostenne per te : dico della savia consorte la qual vedova e solitaria sta desiderandoti, e deplorando dì e notte il tuo esilio : e finalmente de' due tuoi figli a quali aspettavasi, come ai posteri di egregj progenitori, che ne percepissero pieni di fama buona gli onori se la patria fosse felice. Di questi tutti sarai costretto a vedere le dolorose e sfortunate catastrofi, se ardirai sospingere fino alle mura la guerra ; giacché a ninno de' tuoi perdoneranno gli altri che temono pe' ctai loro, e che patiscono disastri eguali da te. Concitati dalla propria calamità doranti terribilmente e spietatamente a balterli, ad ingiuriarli, e far loro ogni specie di vilipendj : e di ciò non questi che il fanno ma tu ne sei r autore, che ve gli astringi. Tali i frutti sono che gusterai, se ti giunge V intento. Or su contempla la lode che te ne avrai, la emulazione, gli onori, cose tutte desiderevoli a buoni: Z’ uccisore sarai nominato della madre, C uccisore de' figli, il traditore della consorte y la rovina della patria. £ ninno buono, niun giusto vorrà, dovunque tu capiti, partecipare ai tuoi sagrifizj, alle tue libagiorU, al tuo consorzio : nè sarai caro a quelli nemmeno per la benevolenza de’ quali ciò fai : ma godendo dascun d'essi il frutto della tua empietà, detesteranno la ostinazion del tuo cuore. Lascio di dire come senza /’ odio che avrai fin da piò miti, ti sarà intorno la invidia [non piccola degli eguali, il sospetto degl’ inferiori, e per queste due emise, le insidie, c ta/ui altri infortunj, quanti è verisimile che sopravvengano ad un uomo, privo di amici in terra di estranei. Lascio di dire le furie che ispiransi da’ numi e da’ genj negli empj e ne’ facinorosi, dalle quali, straziati ne’ corpi e nelC anima, vivono sciaurata la vita, aspettandone misera ancora la fine. Tali cose considerando o Marcio ' correggiti ; e cessa d’ inseguir la tua patria. Riguardando la sorte come autrice de’ mali che hai da noi tollerato, o fatto a noi, toma felicissimo a' tuoi, ricevi gli empiessi carissimi della tua madre, le amorevolezze soavissime della tua sposa, ed i baci dolcissimi dei • tuoi figli : almen simili cose di sè. Ma qual altro può gloriarsi o centurione, o comandante d aver presa come io la città de’ Coriolani f O qual altro in un giorno stesso ruppe f annetta nemica come io ruppi quella degli .daziati, che veniva per soccorrere gli assediati 7 Lascio di ricordare che dopo tesi pegni di tnrtà potendo io prendere in copia dalle prede oro, argettto, schiavi, giumenti, gceggie, e terre vaste, e feconde, non volli : ma intento a serbarmi principalmente senza invidia, pigliai per me solamente dalle prede un cavallo militare, e da prigionieri t ospite mio, ponendo tutto il resto ad util comune. Dite : era io per tanto degno di premj o di pene ? Dovea subire la legge da’ vilissimi cittadini, o darla io loro ? O non mi espulse il popolo pcf questo, ma per La lode h, perebt Coriolano prese con pochi la città, sema essere ni ooniaodanle, nà tribuno, a' qMii sarebbe alato unto piti facile invaderla colle milisie dipendenti. chè io era nel retto della vita, un intemperante, un suntuoso, un senza leggi? Ma chi potrà dimostrarmi un solo, pe miei piacer non legittimi esule dalla pa^ trio, spogliato dalla libertà, privato degli averi, o ridotto ad altra sciagura qualunque ? se nemmeno i nemici mai di tali cose m’ incolparono o calunniarono, contestando anzi tutti come irreprensibile la vita mia quotidiana? La scelta, dirà taluno, abbonila de tuoi governamenti ti procacciò questo male ; Ut polendo eleggere il meglio ti appigliavi al peggiore : e dicesti e facesti tutto perchè in patria cadesse il comando degli Ottimati, e s' impadronisse del comune la moltitudine imperita, e scellerata, O Minucio ! Ben io mi adoperava in contrario, e provvedeva che il Senato, maneggiasse in perpetuo il comune, e restasse la patria forma di governo. Per tali belli stabilimenti, creduti sì pregievoli da’ nostri antenati, io me n ebbi dalla patria la si fausta e beata ricompensa, cacciatone non solo dal popolo, o Minucio, ma molto innanzi pur dal Senato, il quale, quando io mi opposi a' tribuni che m incolpavano di tirannide, mi animò da principio con vane speranze, quasi osso fosse per operare la mia sicurezza, ma poi temendo de’ plebei mi si distolse, e mi cedette a’ nemici. O Minucio ! tu eri console quando faceveui il previo decreto pel giudizio, e quando Falerio, cita tanto ne fu lodato, esortava col dir suo, che io fossi al popolo consegnato. Ed io temendo dal Senato un decreto che mi consegnasse ; condiscesi, e promisi di andare f e presentarmi io stesso in giudizio. Ma dP Minucio, rispondi : parvi al popolo solo, o pure al Senato ancora io parvi degno di castigo per lo buon inaneggio e condotta mia pubblica ? Se così edlora a tutti ne parve ; e tutti mi scacciavate; egli è chiaro che quanti così deliberavate, odiavate allora la giustizia, nò restava in Roma alcun luogo che sostenesse il bene. Che se il Senato, violentato, si rendette al popolo, e quella fu /’ opera della necessità non del cuore ; confessate che siete il gioco degli scellerati, nè resta al Senato podestà niuna su qurmto mai scelga, E ciò stando, mi chiederete che io men venga ad una città dove i buoni son vittima dei ribaldi? Troppo di stolidità mi condannate ! Or su: diamo che io persuadami, e che deposta, come chiedete, la guerra, ne andiamo ; qual sarà dopo ciò f animo mio ? quale la vita ? Sebbene eletto il partito piò sicuro e meno pericoloso t cercando io poi li magistrati, gli onori, ed altro che io credo competermi, soffrirò di adulare la turba che li dispensa? vilissimo diventerei di magnanimo, e niente più V antica virtù mi gioverebbe. O restando ne’ miei costumi, e serbando le istituzioni mie del viver civile mi opporrò a quelli che diverse ne sieguono ? Or non è manifesto che il popolo di nuovo mi combatterebbe, che a nuove pene mi citerebbe, cominciando l'accusa da questo, che io ridonato da esso alla patria, pure ai piaceri di lui non mi conformo ? Certo non dee dirsi cdtrimente. E qui sorgerà tal altro insolente tribuno che simile agl'Icilj ed ai Decj m incolpi di scindere i cittadini fra lorOf d insidiare il popolo, di tradire la patria a' nemici, di tentare, come Decio me ne imputava, la tirannide, o taC altra ingiustizia, come ad esso ne paja; giacché non mancano a chi ti odia i pretesti. Pro durransi dopo queste, nè già tardi, le imputazioni ancora su le cose da me fatte in tal guerra, che io percossi la vostra regione, che rapii prede, che espugnai città, che di quelli che le difendevano parte ne uccisi, e parte a’ nemici li consegnai. E se gli accusatori allegheran tali cause ; che dirò io per ispedirmene ? o con quale soccorso sosterrommi ? Non è dunque chiaro o. Minucio che belle v' avete, ma pur finte le parole, e che un bel velo date ad un impuro disegno ? Non a me concedete il ritorno ; ma vittima al popolo me portate ; e forse ( giacché buone idee su voi non mi vengono ) vi siete concertali a ciò fare, seppure ciò non voleste, senza prevedere ( e vi si accordi ) i mali che ne avrei da soffrire. Or che varrebbemi la vostra ignoranza ? che la vostra stoltezza ? se non potreste, anche volendo, niente impedire, necessitati di concedere anche questa colle altre cose alla plebe. Se non che non piti bisognan parole a mostrare che questa, che io chiamo via prontissima di rovina : niente, sebben voi la chiamate ritorno, gioverammi per la salvezza. Che poi ( giacche m' invitavi a riguardare ancor questo ) niente o Minucio mi giovi per la buona fama, niente per P onore, niente per la pietade, anzi che io opererei turpissimamente ed empiiss imamente se a voi mi rendessi; ascoltalo dalla mia parte. Io militai già contro questi Folsci, e molto nel militare li danneggiai ; procacciando alla patria impero, forza, chiarezza. Non convenivasi thè io fossi onorato dai beneficati, ed abborrito dagli offesi ? jdppunto ; se a ragion si operava. Ma la sorte perverti tutto, e rivolse ciocché t uno e C altro mi doveano in contrario. Voi per le cose onde io era a questi nemico, mi spogliaste di tutto il mio, e, quasi ciò fosse nulla, mi bandiste : laddove, questi che avean tanto infortunio da me, mi raccolsero questi nelle proprie città povero, abbietto, senta casa e senza patriaNè bastando loro questo splendido, questo generosissimo tratto ; mi han conceduto cittadinanza, magistrature y onori, quanti ven sono piti grandi in tutte le loro città. Ma lasciamo questo : ora mi han fatto comandante assoluto delV esercito posto oltra iete a chiedere, e non 4^ me, la pace o la tregua. Tuttavìa non vi do questa risposta : ma venerando gl’ Jddj patenti, rispettando le tombe avite, commiserando la terra ove nacqui, le femmine, i fanciulli non degni che su di essi ricadano le colpe de’ genitori e degli altri ; e j nommen che per questo o Minucio, in grazia di voi che foste qua deputati dalla città ; vi rispondo, che se i Romani rendono ai folsci le terre tolte loro, e le città che ne tengono, richiamandone i proprj coloni; se fanno pace con essi comunanza perpetua di diritti, come co’ Latini, e giuramenti ed esecrazioni contro de’ violatori de’ patti; io do fine alla guerra. Annunziate primieramente ad essi questo, poi, come avete presso me perorato, aringate presso loro sul giusto : e quanto è bella cosa che ognun s’ abbia il suo, e vivasi in pace : quanto pregevole che niun tema nè i nemici, nè i tempi : e come è biasimevole che chi ritiene l’ altrui si esponga senza necessità alla guerra con pericolo delle cose anche proprie. Dimostrale loro che non eguali sono i premj vincendo o perdendo per chi appetisce r altrui : e se vi piace aggiungete, che quelli che han voluto prendere le città degli oltraggixti, se infine poi non prevalgono, perdono pur la terra, e la città loro, e vedono malmenate obbrobriosamente le mogli, portati i figli agli affronti, e li padri lorOj fatti schiavi di liberi, nelC estrema vecchiezza ; Persuadete insieme il Senato che dovrà tanti mali alla stoltezza sua non a Marcio. Terocchè potendo fcàre il giusto ; potendo non incorrer ne’ mali ; corrono agli ultimi rischi, aspirando sentpre alC altrui. Questa è la risposta; nè potreste altra averne dame: andate, ponderate ciocché a fare v abbiate : io vi do trenta giorni per decidervi. In questo tempo ritiro o Minwciò in riguardo tuo e degli altri t esercito da questi campi, che asscù se vi rinuuiesse, ne sarebbero danneggiati, Al ventesimo giorno mi ci aspettate a pigliarne la risposta. Ciò detto sorse, e sciolse 1’ adunanza : e nella notte seguente presso 1’ ultima vigilia levò l' esercito, e lo condusse OMilro le altre città Latine, sia ebe realmente fosse persuaso che di là verrebbono de’ sussid) a’ Romani, come 1’ ambasciadore avea detto, sia che egli ne spargesse la voce per non sembrare d interromper la guerra in grazia de’ nemici. E piombando sopra Longola, ed impadronitosene senza fatica, e fattovi come nelle altre, dei schiavi, e delle prede; venne alla città de’ Satrìcani. Presala, e tenutovisi pitxiolo tempo, ordinò che parte dell’ esercito recasse le spoglie raccolte da ambedue queste città in Eccetra, ed egli marciando coir altra parte venne a Ceda, che chiamano. Otte nutala, e derubatala -, si gittò nel teiritono de’ Polu scani . Non valsero nemmen questi a resistere ; ed espugnatili, si avanzò verso le altre città : prese di as Questa Toce è aiqbigaa. Lirio nooiioa Tiebbia ; ed altri ia questo luogo di Oiooigi vorrebbe por Silia Seste : ma questa par troppo lootaaa pel viaggio di Marcio. (ij Lapo parve leggere Ttuelarù. salto gli Albieti ed i MugiUaui ; e ricevette a patti i Corani. Divenuto in trenta giorni padrone di sette citti ; si rivolse a Roma con più milizie che prima : e fermandosene lontano poco più che trenta stadj, si accampò presso la via Tuscoiana. Intanto che prendeva ed univa a sé le città de’ Latini, parve ai Romani, consultale lungamente le proposte di lai, di non far cosa indegna della repubblica. Pertanto, se i Yolsci partissero dal territorio loro, degli alleati e de’ sudditi, e lasciasser la guerra e spedissero ambasciadori per trattare la pace ; il Senato decidesse allora e ne riferisse al popolo le condizioni : non decidesse però mai nulla di umauo su loro, finché stavano con ostili maniere su le campagne di Roma e degli alleati. Couciossiachè li Romani (Muervarono sempre altamente di non far mai nulla pe comandi, nè pel terror de’ nemici ; ma di compiacere, e contentare gli avversar] pacificatisi, e rendutisi, nelle dimande se fosser discrete. E Roma ha mantenuto tale sublimità di carattere in molti e grandi pericoli, nelle guerre co cittadini e cogli esteri, e tuttavia lo mantiene. Deliberate tali cose, il Senato scelse am)>asciadori altri dieci tra’ consolari, perchè dimandassero a Marcio che non desse ordini duri nè indegni di Ro Silbnrgio sospetta ebe io luogo di Albiètì debba leggersi Lahitiiati ciot Laviniaui di Lauinio, la presa del quale era stata tralasciata, come si t veduto di sopra. Il cognome di Lucio l'apirio Mugillaoo prova che vi ebbe una città Multila di nome, donde tono i MugiUani. montai. ama Ili. t Digitized by Google 5o DELLE Antichità’ romane ma, ma deponessc le nimicizie, ritirasse le truppe dal territorio, e cercasse di trattare con modi persuasivi e conciliativi, se voleva che gli accordi tra due popoli fossero permanenti ed eterni ; giacché gli accordi sia privati, sia pubblici, conceduti per la necessità e pei tempi, finiscono appunto co’ tempi e colla necessità. Or questi, eletti ambasciadori, non si tosto. udirono l’ arrivo di Marcio, andatine a lui, dissero assai cose atte a guadagnarlo, badando di non offendere co' discorsi la maestà della repubblica. Marcio però non rispose altro se non che consigliavali ( e questa era 1’ unica tregua che dava ) a tornar fra tre giorni con deliberazioni migliori. E volendo essi replicare ; non lo permise : ma impose che partissero immantinente dal campo. E minacciando che li tratterebbe come spie se non ubbidivano ; quelli ammutoliti partirono incontanente. I senatori quantunque udite le risposte ostinate e le minacce di Marcio, pnre non decretarono di portare 1’ esercito di là dai confini, sia che ne temessero, come raccolto in gran parte di fresco, la inesperienza, sia che 1’ abbattimento temessero dei consoli, poco intraprendenti per sestessi, e giudicassero pericoloso il cimento ; sia che i segni celesti interdicessero loro quella uscita per mezzo degli uccelli, degli oracoli Sibillini, o di altra visione : cose che non sapeano gli uomini di allora, come i presenti, trascendere. Adunque deliberarono di guardare la città con vigilantissima cura, e di respingere dalle fortificazioni gli aggressori. Ciò fatto e preparato ; nè tuttavia disperando di piegar Marcio, se lo pressassero con deputazione più augusta e più grande, decretarono che pontefici ed auguri, e quanti arcano sacri onori e ministeri nelle pubbliche divine cose ( e molti sono fra loro e sacerdoti e santi ministri, e questi i più cospicui pel sangue paterno, o pel merito proprio) andassero in copia co’ simboli delle divinità riverite e festeggiate in Roma, e cinti di sacre vesti, al campo nemico, e vi replicassero gli stessi discorsi. Giunti questi, e dettovi quanto aveano dal Senato, Marcio non rispose nemmeno ad essi per ciò che chiedevano; ma consigliò che partendo adempissero gli ordini se volevan la pace; o la guerra in città si aspettassero : del resto intimò che non più ritornassero a lui per far parlamento. Caduti ancora di questo tentativo, e deposta ogni speranza di pace, si apparecchiavano i Romani per 1’ assedio ;, collocando i giovani più vigorosi alle fosse ed alle porte, e li veterani già licenziati ma pur buoni ancor per le armi, alle murai Le mogli loro, quasi approssimatasi già la tempesta, lasciato il decoro col quale si tenevano in casa, correano ai templi piangendo ed abbracciandosi a’ simulacri de’ numi. Ed ogni sacra magione, specialmente quella di Giove in Campidoglio, risonava di ie minei ululati e di suppliche : in questa una matrona preminente per lignaggio e per dignità trovandosi allora nei meglio degli anni, attissima a provveder ciocché deesi (Valeria ne era il nome) sorella di quel Poplicola il quale aveali già liberati dai tiranni', eccitata da istinto divino, si fermò nel grado più alto del tempio, convocate le donne compagne, primieramente le consolò ed animò a non smarrini ne’ mali, poi diede a vedere che restavaci una speranza di scampo, riposta in loro nniramente, se faceano quanto era d'uopo. Allora r una di esse ripigliò : Con quale opera nostra mai potremo noi donne salvcwe la patria, non sapendo più fare ciò gli uomini ? E qual forza ahhiam noi, deboli, sciaurate F E Valeria, non le arme, disse, abbisognano, non le mani ; dispensandoci da ciò la natura, ma le arnorevolezze e la persuasiva. Or qui, fàltusi clamore, e pregandola tutte a svelarlo se pur ci avea rimedio alcuno, disse : In questo lutto, in questo disordine di vestimenti prendete compagne anche altre donne, e menando con voi li vostri figli, ne andiamo in casa di Veturia la madre di Marcio. E ponendo i nostri figli dinanzi le ginocchia di essa, e lagrimando ; scongiuriamola che impietosita di noi non colpevoli di male ninno, e della patria ridotta in pericolo estremo, vada al campo nemico ; e vi meni i suoi nipoti, la madre loro e noi tutte, le quali la seguiremo co' nostri figlioletti : e che interceditrice presso del figlio, lo dimandi, lo supplichi a non fare la calamità della patria. Lei piangendo e rimovendolo; nascerà forse alcuna compassione o mite pensiero in quesF uomo, che già non ha si duro ed impenetrabile il cuore da respingere fin la madre che abbraccigli le giruscchia. Poiché le astanti ne approvarono il dire; ella supplicando i numi di dare persuasiva e grazia alle istanze, loro pari) dal tempio. La seguitarono le altre ; e prese dopo ciò per comp-igne alti’e donne, ne andarono in fòlla alla casa della madre di Marcio. Volannia la mo glie di Marcio seduta presso la suocera si meravigliò nel vederle, e disse : E che possiamo noi farvi, o donne, cito in tanta moltitudine venite ad una casa di sciagura e di aflizione? E Valeria soggiunse: i?tdoUe a pericoli estremi noi, con questi fanciullelli, veniamo a te supplichevoli, o Feturia, per implorare^ tonico e solo ajulo, e primieramente che abbi pietà della patria non mai fin qui stata in man de' nemici, eicchè non vegli soffrire che ora la libertà le si tolga dai Folsci; seppur conquistando la patria la rispar~ mieranno, non la struggeranno dai Jondamenti. Dipoi per noi preghiamo e per questi miseri fgU, sicché non veniamo tra gli strazj degf inimici, noi niente ree de mali accaduti. Se un cuor ti resta in parte almeno, clemente ed umano; deh! tu ne compassiona, o F fluria, tu donna, e tu partecipe de' diritti sacri, inviolati delle donne : prendi teco Folunnia, questa ottima donna, e con essa i suoi figli, prendi coi figli nostri pur noi supplichevoli a un tempo e magnanime, e vieni al tuo figlio, persuadi, insisti, ni dar fine alle suppliche, finché pe' tanti benefizj tuoi non ottieni da lui che si rappacifichi co’ suoi cittadini, e rendasi alla patria che lo ridomanda'. Ut, ben 10 sai, trionferai di lui, che pietoso, certo te non dispregierà prostrata a’ suoi piedi. E tu riconducendo 11 figlio tuo alta patria, ne avrai, corni è giusto, splendore sempiterno, perchè C avrai liberala da tale ()) Meli’ uso della Religione comune rischio e terrore: e sarai cagione a noi di essere oHo~ rate presso degli uomini ; perchè avremo sciolta la guerra che non potè da essi dissiparsi. Parremo cojI le discendenti veramente delle femmine che mediatrici terminarono la guerra di Romolo co’ Sabini ; e conm giunsero duci e nazioni, e grande renderono di piedola la città . Magnìfica sarà t impresa, o Feturia, d' aver seco riportato il figlio, d’aver liberata la patria > salvate le sue concittadine ; e di lasciare ai posteri suoi luce indelebile di virtù. Dacci, o Fetum ria, con cuore spontaneo e vivido questa grazia ; vieni, ti accelera ; poiché grande, imminente il pericolo non ammette più indugio, o consiglio. XLI. Giù detto, tutta in pianto, si tacque. E piangendo pur esse, e pregando vivamente le compagne; iVeturia, vinta dalle lagrime, dopo breve silenzio, disse: Foi seguite, o Falena, leggera e fiacca speranza ; promettendovi un ajulo da noi ; donne infelici. Ben abbiamo tenerezza per la patria, e volontà di saL'ore I cittadini, qualunque mai siano; ma la potenza e la efficacia ne mancano per compiere ciocché vogliamo. Marcio, o F ileria, ne rifugge da che il popolo fe’ di lui r amara condanna, ed odia tutta la casa insieme colla patria. E ciò diciamo, sapendolo da Marcio stesso', non da altri; perocché quando soggiaciuto alla condanna venne in casa in mezzo agli amici, trovando noi addolorate, abbattute, co’ figli suoi su le ginocchia, e che piangevamo, corri era giusto, e Vedi 1. a, $ 4^ espone disicsantenle tale storia deploravamo la sorte che ci soprastava nel perderlo ; egli fermatosi alquanto da noi lontano, insensibile come una pietra, e co’ sguardi fissi, partesi, disse ^ Marcio da voi, o madre, o Volunnia donna bonissima, cacciato dai suoi cittadini perchè prode, perchè amico della repubblica, e perchè subito ha tanti travagli per la patria. Voi sostenete, come si conviene a femmine virtuose, tanta calamità, non facendo mai nulla d’ indegno, mai nulla di vile: consolandovi in questi fanciulli sulla mia privazione, educateli degni di noi, e della stirpe. Gli Dei concedano ad essi, uomini divenuti, sorte più buona ; ma virtù non minore. Addio. Io vado, e lascio questa città che più non cape gli onesti uomini. Addio numi tutelari, e tu Vesta, paterna divinità, e voi quanti siete Dei di questo luogo. Appena ciò disse, noi misere, noi dal dolore impedite, scoppiando in gemiti, e per^ cotendoci il petto portai'amo a lui, per riceverli an~ cara, gli amplessi estremi : ed io menava meco il maggiore de’ figli, e la madre avevasi in braccio il minore. Quando egli, ritirandosi e rispingendoci, disse: Da ora innanzi Marcio non più sarà tuo figlio, o madre, togliendoti la patria in esso il sostenitore della tua cadente età, nè più sarà da questo giorno il tuo sposo, o Volunnia: ma sii pur felice, un altro cercandotene più di me fortunato : nè più sarà padre vostro o figli carissimi: ma orfani e solitarj presso queste crescete fino agli anni virili. Ciò detto, nè soggiungendo altro, nè comandando, e non significando nemmeno ove andasse, uscì di casa, o donne, solo, senza servi, in disagio, senza portare seco delC aver suo neppure il vitto di un giorno. E già volge t anno quarto eh’ egli fuggì dalla patria, e riguarda noi tutto come straniere, niente scrivendo, niente mandandoci a dire, e niente volendo di noi risapere. Or presso un cuore si duro, si impenetrabile, o Troieria, qual forza avranno le preghiere di noi alle quali non dava, partendo £ ultima volta, non un amplesso, non un bacio, non significazione niuna dì affetto? Che se tuttavia domandate voi questo, e volete in tutto vederne wniliate ; concepite, che io e Volunnia a lui ci presentiamo co’ figli. Quali discorsi io madre, dirìgo la prima, quali preghiere porgo al mio figlio ? Dite, ammaestratemi. Chiederò che per^ doni a suoi cittadini da quali ( e senza che offesi gli Oi’esse ) fu privato della patria F Chiederò che inteneriscasi o compassioni la plebe, che su lui non seppe intenerirsi, tré compassionarlo? Che abbandoni e tradisca quelli che esule lo hanno raccolto, i quali sebbene malmenati già un tempo da lui tanto e sì feralmente, pur non £ odio gli mostrarono di nemici, ma la benevolenza di amici e di congiunti ? E con qual cuore pregherei io mai questo mio figlio che amasse chi lo sterminava, ed oltraggiasse chi lo salvava ? Non sono questi i discorsi di una madre savia al suo figlio, non di una moglie al marito : nè voi ci astringete, o donne, che imploriamo da lui cose non giuste presso degli uomini, nè pietose presso gli Iddii: piuttosto lasciate noi misere nella umiliamone ove siamo per la sorte, senza che noi pure svergfsgniamo piu ancora noi stesse. Taciutasi lei, surse un tanto lamentarsi di femmine, e tale un pianto ne riinbotnbò, che udendosene i • clamori per gran parte della cUlà, si empierono di popolo le vie d’ intorno la casa. Poi rinovando Valeria più lunghe e più commoventi preghiere, le altre donne, com’ erano congiunte di amicizia o di sangue con r una o l’ altra di loro, supplicavano ancora in atto di stringerne le ginocchia. Tantoché non più restendo per l’ afflizione fra tanto piangere e supplicare; cedette infine Vetutla, e promise di andarne oratrice per la patria co' figli e colla moglie di Marcio, 'e^ con quante cittadine voleano. Racconsolatesi allora vivaiùeuté, ed invocati i numi a favorire le loro speranze, partirono dàlia casa, e nunziarono ai consoli il fatto. E questi, lodandone là buona volontà, convocarono ed interrogarono i padri, se fosse da concedere che le femmine ^uscissero. Or molto, e da molti se ue disputò; tanto che giunti a sera dubitavano ancora ciocché fosse da fare. Dicevano molti non essere piccolo cimento permettere che le donne andassero co’ figli al campo dei nemici; imperocché se questi, spregiando le leggi sacre degli ambasciadori e de’ supplichevoli, volessero che le femmine non più 'rìtornassero, prenderebbono Roma senza combattere. Pertanto consigliavano che si lasciassero andare a Marcio solamente le donne che a lui si appartenevano insieme cu’ figli. Altri però giudicavano che non si concedesse che andassero nemmeno rpieste; anzi esortavano di custodirle gelosamente, e di considerai le come ostaggi sicuiissimi, perchè la città nou subuse grave disastro. Per l’ opposito altri proponevano che si accordasse a quante donne volevano, di uscire, perchè^ le donne congiunte a Marcio, fornissero con ' più dignità la mediazion per la patria. Dicevano che non succederebbe ad esse niente di sinistro; giacché ne sarebbero mallevadori primieramente i numi col favore santo de’ quali si moveàno ad intercedere ; e poscia il duce stesso al quale ne andavano, come uomo puro ed inviolato in sua vita da ogni ingiusto ed empio attentato. Vinse finalmente il partito che accordava alle dònne di andare, e còn decoro amplissimo di ambedue; del Senato come savio, perchè vide ciocché era a farsi il migliore, senza punto turbarsi al grande perìcolo ; e di Marcio finalmente per la sua pietà, perché fh confidato, che niènte oliraggerebbe tal parte imbelle, espostasi a lui quantunque egli fosse nemico. Steso il decreto, e recausi l consoli al Foro, e raccoltovi il popolo, essendo già notte, vi palesarouò il voler del Senato, e preordinarono, che tutti al nuovo giorno accorresserò alle porte per accompagnarvi le donne che uscireld)ero. Busi frattanto, diceano, che curerebbero quanto era d'uopo. Era ornai l’alba vicina;, quando le donne portando i figli loro, andarono colle faci, e presa in sua casa Vcinrìa, la condussero alle porte. I consoli idlesUte mule da tiro, e carri, ed altri trasporti moltissimi, ve le acconciarono, e seguironle per, lungo tratto: le accommiatavano intanto i senatori ed altri in buon numero con auguri, con preghiere, con eocomj, rendendone cosi più dignitoso il viaggio. Come si potè dal campo distinguere, che donne, lontane ancora, si àvanzavano, Marcio spedi de’ cavalieri per apprendere che fosse quella moltitudine, e perehé dalla catti ne veoisse. E risapendo da loro che venivano le donne Romane oo 6gli, e che innanzi -di tutte era la madre di lui, e la moglie co’ figli suoi; stupì da principio che femmine potessero aver cuore di avanzarsi co’ Ggli senza guardie al campo nemico, e darsi a vederè ad uomini insoliti, lasciata la verecondia conveniente a matrone ingenue e pudiche, e la paura del pericolo nel quale incorrerebbero, se questi volgendosi airutile più che al giusto, volessero acquistarle,. e giovarsene. Ma posciacbè furono vicine, deliberò di uscire dal campo con alquanti ' verso la madre, comandando ai littori che quapdo le fossero dappresso deponessero le scuri, e le abbassassero i fasci. Usavano i Romani questo rito quando i magistrati minori s’ incontravano co’ maggiori ; ed il rito persevera ancora. Osservò Marcio allora tal pratica, e rimosse tutti i segnali dell’ autorità sua ; quasi egli dovesse presentarsi ad una autorità maggiore : tanta fa la riverenza, tanta' la sollecitudine sua per la pietà verso la madre. Fattisi ornai vicini, si avanzò la prima per riceverlo la madre, ahi ! quanto miseranda, squallida vestunenti, e logora gli occhi dal piatito. Come la vide, Marcio, duro, imperturbabile fin’ allóra contro tutti gli assalti, non più valse a persistere nel proposito suo: ma vinto dagli affetti del cuore umano corse, la strinse, la baciò, la chiamò con tenerissimi nomi: e molto lagrimandone, e curandone ; la sostenne, mentre venuta meno abbandonavasi a terra. Soddisfiitta la tenerezza sna verso la madre, ricevendo la donna sna che sea veniva co’ figli disse ^ Fornisti o Koluimia gli offizj di ottima donna, > uh’endoli presso la mia genitrice: ed io godo come su dono dolcissimo infia tutti, che non t qhbandonasli nella sua solitudine. Dopo ciò chiamato a sé 1’ uno e l’altro de’ figli, e carezzatili come si conveniva ; si rivolse noVamente alla madre, invitandola a dire per qual fine veniva: ed ella soggiunse che il direbbe, udendola tutti ; giacché non chiederebbe se non giustissime cose. Lo esortava dunque che sedesse nel luogo appunto dal quale solea far giustizia a’ suoi militari. Con piacere udì Marcio la proposta, pen hé varrebbesi di assai più regioni per rispondere alle istanze .di essa, e darebbe dv opportunissimo luogo fra la turba la risposta . Adunque recatosi al tribunal militare fe da indi rimovere e calarne al pianteiTeno la sedia, giudicando non dover lui tenersi p’ù alto che la madre, nè còn maestà niuna contro di lei. Poi fatti sedere presso di sé li più cospicui de’ capitani e dei centurioni, e lasciando che intervenissero quanti volevano ; significò alla madre che incominciasse. Veluria, poste innanzi del tribunale la donna di Marcio co’ figli e le altre più ragguardevoli tra le Romane, ' pHmieramente rivolti gli occhi alla terra, pianse lungamente, p mosse tenera compassione negli astanti : poi raccogliendo sé stessa disse : Le donne, o Perché sarebbe siala risposta pubblica; udendolo cbi Tclcea ; e perché cjuel luogo stesso, di dignità e di comando aerebbé ricordalo Ila madre le ubbligaiionf Che egli arcTa co' Votaci. (a) Anni di Roma a06 sccoodu Calorie, a63 secondo Varoue, e 4^ arami Criaio. Marcio figlio, considerando gC info rtunj che su di esse piomberebbero se la città divenisse de nemici, diffidatesi di ogn altro soccorso, poiché tu davi le sì dure, le jì ostinate risposte agU uomini che chiedeano un fine alla guerra ; queste donne, o Marcio ^co’ /?glioletti, in questo lugubre apparato ricorsero a me tuà madre, ed a V olunnia tua sposa per supplicarci 'a non permettere che avessero tanto male ‘da te, più che da ogn altro, esse cfie non ci aveano offeso punto nè pocO', e che grande ci aveano dimostrata la benevolenza nella nostra sorte felice, e viva nommeno la compassione quando ne dec'ademmo. Noi ben possiamo testificarti che dalf ora che tu lasciavi la patria, daW ora che noi restavamo derelitte nella solitudine, e nel nulla, esse di continuo ci visitarono, ci consoletrono, e piansero al pianto nostro. Memori di tanto io e questa tua donna, coabilatHce mia, non abbiamo già ripudiato le loro preghiere, ma preso abbiam cuore di cercarti ; e pregarti, corno ci atìdimandavano, per la patria. E lei parlan(h> ancord, Marcio ripigliava : rnadre ! se' tu venuta per un impossibile, venendomi a chiedere, che io Iralisca quelli che mi hanno ricettato a quelli che mi bandivano, quelli che mi donavann i beni, più grandi fra gli uomini a quelli che tutto il mio rn involavano. Io pigliando questo cofnando, dos a malle\'adori i genj ed i numi,, che non avrei tiadito gU ospiti miei, nè finita la guerra se cosi non fosse piaciuto a tutti i Volsci. Pertanto adorando gt Iddìi su quali giurai, riverendò gli uomini a quali vincolai la mia fede, guerreggieiò fino alla decisione co' Romani. Se renderanno mì f^olsci le terre che" ne possiedono colla forza ; e se amici se ne fwanno, accomunando ad essi tutto, come co' Latini ; deporrò ' le armi : altrimente mai contro di essi le deporrò / Voi dunque andatene., o donne, riferite ai vostri un tal dire, e persuadeteli a non pretendere ingiustamente [ altrui, ma contentarsi del prpprio, quando altri lascia che lo abbiano. Non aspettino che si ritolga loro colla guerra, quanto colla guerra usurparono ai. Volsci; perocché li vincitori non saranno già paghi di ricuperate i lor beni, ma vorranno quelli ancora de’, vinti. Se ritenendosi, e difendendo ostinatamente ciocché lor uon si spetta, vanno incontro m pericoli, accusino sestessi, e non Marcio, e non altri de' mali che piomberanno su loro. E tu -daW altra parte', o madre, io figlio tuo le ne prego, non mi sollecitare a cose non degne, nè giuste; nè, unendoti d miei e tuoi malevolissimi, volete credere a te contrarj quelli che 'ti sono per natura amicissimi : ma standoti, coni è ragìc^nevole, presso me, vegli riguardare per patria quella che io riguardo', e possedere per' casa quella che io possiedo, e godere con me gli onori miei, e la mia riputazióne, presi per parenti, per amici e nemici tuoi,, quelli appunto cK io prendami. Bandisci, o misera, f afiìanno sostenuto finora per la mia fuga, e pesfa in tale tua forma .di afliggermi. Gli altri beni, o madre, più belli della speranza, più grandi del desiderio mi son dati da mimi, e dagli ùomini. L’affanno che io prendea su te, non contraccambiandoti col nudrirli ne' senili tuoi giorni, diffuso per le mie viscere, amareggiava e levava la mia vita da ogni bene. Se meco ti rimani, se partecipe ti fai di ogni mia cosa; più non mi mancherà alcuno -tra L mortali. E qui taciutosi lui, Veturia sopraslando breve tempo &nchè, cessassero le lodi cbe molte e grandi gli si fecero da’ circostanti, soggiunse: Non io. Marcio figlio, ti voglio il traditore de' Volsci, che ricevitori tuoi nelC esìlio, ti onorarono in iMtte guise, e ti affidarono il comando di ses tessi ; nè voglio che. tu da te solo finisca senza il voto comune, la guerra contro i patti e i giuramenti, chè facevi loro, quando prendevi armata : nè temere che la madre tua siasi di tanta malvagità riempiuta ; ‘ che inviti C unigenito e carissimo figlio a cose vituperose e non giuste: ma cJtiedo che tu levi col pubblico voto la guerra, ridu^ cendo i V ytsci a temperanza, e ponendo tra le due genti pace ì>ella e decorosa. E ciò sarà fatto, se al presente movi t armata e la ritiri, e fai tregua per un anno ; perocché spedendo e ricevendo in questo tempo ambasciadori, procaccerai pace stabile, e vera amicizia. Tu ben sai che f Romani, se il disonore, o la impossibilità non lo vieta ; faranno vinti dalle persuasive ogni cpsa : laddove violentali, come ora vuoi tu violentarli, non concederanno mai cosa picciola o grande, come puoi tu conviruertene da tanti esempj, ed ultimamente dalle cose concedute ai Latini che deposeco le ormL 1 Volsci, dirai, sono assai ' più pertinaci, come avviene ai gran fortunati. Ma se ricordi loro che ogni pace vai più della guerra: e che più stabile è quella che si fa per amicizia la quale rende i cuori propizj, che non, f altra la quila per necessità si riceve: esser proprio de’ sa>’i moderare la sorte, quando stimano averla; non però mai ft^ cosa indegna nelle vicende infelici e meste ; se dirai loro gli altri documenti quanti sen trovano ( notissimi a voi che il pubblico maneggiate ) per indurre a dolcezza a mansuetudine ; scenderanno dalt eUterigia ove sono, e concederanno che facci quanto credi a loro giovevole, Ma se resister^anno, se non ammetteranno il dir tuo, sollevati dalle belle Jbrluna provenute da te e dal tuo comandare, cqme siati quéste immutabili ; rendi loro palesemente co lesto tuo capitanato, nè il traditore sii di chi te lo afJidcR>a, nè il combattitore de’ congiuntissimi tuoi ; cose, T una e t altra indegnissimo. Queste soao, o Marcio figlio, le cose che io vengo a supplicarti che sian fatte da te, non impossibili come tu dici, ma pure da ogni '' rimorso di ingiustizia, e di malvagità. Tu temi '( sono questi i titoli che vai magn'ficanio col discorso ) tu temi d’ incorrere sé fai quanto consiglioU, la taccia rea come d’ ingrato versa i tuoi benefaUori, i quali ti accolser nimico, e ti a nmisero a tutti i-loro beni, quali se gli hanno co^ loro che nacquero cittadini. Ma dì j non hai tu lendulo toro il molliplice e bel contraccambio ? non hai suj'ferato i benefizj loro colt amplitudine immensa dei tuoi? Costoro che leneano pel sommo e pel più amabil de beni viversi liberi usila patria ; gli hai tu ridutU (fuesti non solo arbitri stabilmente di sestessi, ma tali infine da bilanciare, se tornasse lor megliò, di abbattere la potenza de' Romani, o di partecipare, ugualmente alla repubblica che Roma ha fondato. Lascio' di dire con quante spoglie abbi ornalo le loro città per la guerra, e con quanta ricchezza premiato quelli che vi militav vedo che^ gU orgogliosi che quei che' spregiano le preghiere -de supplichevoli, corrono all ira de' numi ed alia sciagura finalmente. Certo gl' Jddii • istituirono e ne dierono tale costume,essi i pruni ptrdanano s e fqcili si rappaciane';, e molti si. placarono già pe’ voti j e' pe' sagrifizj verso di uomini, lontani per grandi reità da loro". Quando o A/arcio tu tioti vagli che. l’ irà de’ celesti sia mor-^ tale, ma immortale quella, degli 'uoniini ; • forai con rettitudine f e con dignità tua o della patria, se ne condoni gli errori, essa già correggendosene, e placandotisi, e rendendoti quanto prima ti levava. Che se implacabile ti rimani, rendimi questo deposito, questo benefizio y i quali niun altro può ripeterti i e pe’ quùli hai tu non le minime, ma le auiplissinte è pregiatissime doti,' onde tutto ottenesti,, rendimi il corpo tuò e l’ànima. Derivate le hai queste da ma; ; nè luogo o tempo, nè beneficenze, nè • grazie di Fblsci o di altri mai tanto ' eccederanno e saliran fino^ ai cieli ;. che tu possi csmcellar la natura,,nò pù't udirne i diritti. Mio sarai pur tu semproj e sempre il bene del vivere a me dovrai perla prima, e 'farai senza scusartend quanto ti additnandoCiò prescrive la natura ai viventi che sentono e che ragionano { >e di ciò confidata puf io, ti supplico o Marcio figlio a non portaré guerra alla patria;, o qui sto per oppormiti se le fai violenza. O me tua madre che mi ti oppongo sagrijicherai prjma di tua mano alle furie, e cosi darai principio alla guerra; o, se temi la infamia di matricida, cedi o figlio alla madrfi tua ; dammi, flie il puoi, questa grazia. Se questa leg^e che niun tempo ha mai tolto, mi assiste, mi protegge > non è giusto o Marcio che io sola sia da te priva degli onori che essà mi concede. Ma Icssciando questa legge, ricordati la tanta e gran sc^ie de'miei benefizj. Io prendendo a curar te fanciulletto, orfano del padre tuo védova me ne rimasi, e gli stenti tutti soffersi onde allevasi, madre tua non solo, ma padre in ur[ tempo, educatore é sorella dimoetrandomiti, ed ogni altra spficie . di teneri .oggetti. Divenuto tu grande, potendo io liberarmi dalle • cure, nutritandomi ad •altri, e darmi nuovi figli e nuove speranze sostenitrici della vecchiezza; non volli, hià restài ne' tuoi lari 'domestici, contenta della vita medésima, e ristringendo a 'te sólo ogni mia consolazione, ogni bene. Di questi ine. ne privasti tu, parte di voler tuo, parte senza volerlo, rendendomi infelicissima tra le madri. ^ qual tempo, da che toccasti l' età •virile, qual tempo io pissr mai sene’ agitazioni e terrori? e quando ebbi, mai l' anintà tranquilla so' pra di te, vedendo che acciimolavi guerra a guerra, che passavi da battaglia a battaglia, e ricevevi ferite su ferite ?. . Lll. E quando ti desti alla repubblica cd al maDigilized by Google ’ Lifino vm. 69 ncggìo de' pubblici affari, gustai forse io tua madre diletto alcuno ? Eh ! Che ne divenni allora più misera, mirandoti in mezzo alla civil sedizione. Imperocché le uìe provvidenze pér le quali più sembravi valere, e per le quali sostenendo i patrizj, spiravi indignazione contro del popolo, queste mi spaventavano tutta, considerando, per quanto tenui motivi tramutasi la sorte degli uomini: e sapendo dai tanti casi uditi che qualche ira, divina traversa i valentuomini, e la invidia umana li perseguita. E_ così non fossi stata, come io ' m' era troppo vera indovina degli eventi! fa civile, invidia t' assalì, ti sopraf/kee, ti sifclse dalla patria,. Il refto della vita mia, se vita può dirsi da che partendoti ' mi lasciasti co' figli tui, passò tra questa desolazione., Va questo apparato di lutto. Per tutto questo io che molèsta mai non ti fui, nè ti sarò finché vivo, ti prego che vagli serenarti una volta co' tuoi cittadini f' c finir C Ira acerbissima che nudri contro la paù'kt. E con ciò di cosa io ti prego non buona per me solq, ma per ambedue. Per le Se tea persuadi, nè scorri ad azioni non degne ; perchè avrai C anima immacolata e libera da ogn’ ira, da ogni^ terrore di furie persecutrici, e p6r me poi, perchè la fama che men yetrà, mentre vivo, dai cittadini, e dalle cittadine. Tenderà beati i miei .giorni f e quella che mi sarà dispensata come io presagisco, dopo^ morte, renderà sempiterno il mio nome. E se 'dopo morte riceve alcun luogo le anime sciolte da corpi; riOn riceverà già la mia quel sotterràneo rp tenebroso ove dicono che i detnoni soggiornano ; nq 1 il ampo che chianìdn di Lete; ma C etere sublime e puro, ove dicono che albergano con prospera e beata sorte i JigUifoli de’ numi. JB’ià divulgando anima min la pietà e le grazie onde m’hai riverita, ten chiederà per sempre dagt Iddii la degna ricompensa. Ma se dispregi la madre tua, se inonorata la' rimandi n per me fortunata nò per le, la quale hai salvato la patria, e perduto insieme il pietoso ed amantissimo tuo figliuolo. Cosi detto, si ritirò ne' siioi padiglioni ; comandando che lo seguitassero la inoglie; la madre -,, i fi^i : é vi si. tenne tutto il resto dei giorno, eonsultaudo, con esse ciocché era da fare. Enrono le risoluzioni : che nè il Senato proponetse al popolo, nè il popolo decretasse nulla del suo ritorno, prima che .si persuadesse aWolsci r amicizia e la cessaziofs della guèrra. Egli leverebbe e ritirerebbe /' esercito, marciando cofne tu terre di amici: Dato conto del suo capitanato, e dimostratina i beni; pregherebbe quelli. che glie lo aveano càtfi flato, a’ volersi ricongiungere per giuste condizioni ai nemici,. ed incarieore lui pefchè vi fosse ne patti t ofpùtà, senza niuna fmdolenza. Che se protervi pei successi filici non aecettósser la. pace; egli si spoglie rebì>e del comando. In. tal caso o non sosterrebbero essi di ^leggete un altro per ^mancanza di buoni capi ioni ; o cimentandosi di 'affidare le forze ad un altro qualunque, imparerebbero a grande lor danno, ciocchi era V utile a Jare. Tali sono le deliberazioni ira loro tenute, e riconosciute per eque e giuste, e capaci presso tutti di buona faina, oggetto principalissimo delle cure del valenluomo. Ben erano essi agitati da un timido sospetto che la turba irragionevole speraozala di debellar riiiinii co, delusane, alfìne infuriasse; e setiz’amihctter discorso trucidasse come traditore' quel suo capitarlo; tuttavia deliberarono d’inedutrere non pur questo ma ogn^allro più tetro pericolo, e serbare vh-tuosameule la fede. E poiché il giorno piegava a sera; datesi vicendevoli signiflcaziout di affetto, uscirono da' padiglioni, e quindi le donne tornarono a Rema. Esitose Marcio agli astanti le cause che lo inducevano a scioglier là,guerra, e pregò lungamente t sòldan che'gb'el condqnassero, e che tornati in patria, ricordevoli de’ suoi beneQzj,. non'' permettessero essi compagni suoi, che subisse alcun reo trattamento dagli altri. Ej ragionate altre cose, tutte persuasive, t:omandò che iaces^erq le b^gagHe, oude partire la notte 'seguentPi LVi Coinè seppero dalla fama,' percorsa alle, donne, die Icvavasi il pericolo loro, uscirono lietissimi i Romani dalia dtlà per incohlcarle; dicendo e fàcendo ora a cori, ora ad uno ad uno, salutazioni e' cantici e tripudj, quali gli latino e li dicono quelli che' da rischio terribile passano prosperità non pensata. Si menò poi Ja notte tutta' In feste e conviti : nel giórno appresso il Senato adunato da consoli su Marcio dichiarò che si differisse in tempo più acconcio a risolver gli onori da farseglt : ma. che per lo zelo ditnostrato sì desse alle donne nc’ pubblici antichi registri un elogio che ne'portasse eterna la memoria, tra’ posteri, ed un donativo, qual sarebbe il pti\ car ed ' ' i Romani -colende ; giorno appunto che disciolse la 1 “ ^, Cotiolano si approssioiò.due volte a Roma j 'la prima volU ai accampò preaso le fosse delle Cluvìlie.-io distaosa di ciitipie miglia, e la seconda io luogo anche piò vicino a Roma, iiitburgio scrive, che io questo secondò luogo appunlo fu eretto il tempio delta Fortiuia Mulirhrc. A questa sci\tei]sa sembra corritpondero ricchezze, noh ricéVò con dispiacere la iùtérro zvon della guerra, e^ favorendo il valentuomo, escusavàlo se non la dltlmava, mosso daUe prègbieve e dalla compassion della madre. Ma la gioveUtù rimaka nelle città,, tocca da invidia per. le grandi prede fatte dalFe scrci'to, e’ delusa delle speranze che aveva, se prendei^ dosi Roma ne era Oaccàto l’orgoglio; ne fremette, e fi esulcerò contrd'del capitano. £ finalmente assunti, per ca|)i della scellcrsgginc uomini .potentissimi tra quelle genti, imbarbarì, e commise nn indégnissimo fatto. Istigavala aoprattattO Azzio Tulio circondato da non pochi di ogni città. Costui non polendo più la invidia sua contro ‘Marcio; aveva già da uii tempo risolato di ucciderlo occultamente e frt^dolentemeote, se quel duce xiuscendo ne’ disegni e 6accando Roma tort^Va dal sottometterla ai Volsci, o di darlo manifestamente ai suoi partigiani ^d ucciderlo come traditore, se falliva nella impresa, è tornavane senza l’ intento. Ora ciò fece appunto. Imperocché ' convocando gente non poca; le accusò quel .valentuomo argomentando dal vero il falso, e conghietturando dalle cose già' state, quelle -che non sarebbero mai t poi comandò che deponesse il comando, e desse conto del suo capitanato. Once costui delle truppe rimaste nelle città, come ho detto di sopra, ‘era l’arbitro di raccogliere le adunanze, e di chiaipare chi voleva in giudizio. Marcio giudicava non dover contrapporsi a ninna delle dué intimazio.ni ; solamente discordava nel metodo di soddisfarvi ; 'credendo che égli dovesse prima dar conto de’ fatti della ' guerra, e pqi deporre, se così paresse a tutti i 'Volséi, il comando. Affermava che non dovesse di tanto esser arbitra una sola città corrotta in gran, parte 'da Tulio; ma tutta la nazione, raccolta in comizj legittimi, ove fossero spediti deputati da 'ogni . città, come portava il 'costucrie, quando aveansi a discutere i grandi jeffari. Opponevasi a ciò Tulio,' ben vedendo cbe se Marcio, ahroòde parlatore, facciasi tra la pompa di capitano a dar conto delle 'tante e belle sue gesta trionferebbe^ della moltitudine ; c non' cbe suhire le pene • de’ traditori, ne diverrebbe più onorato e )>iù grande. Impe^occbé ’ sarebbero per concedergli tutti che solo finisse a piacer suo la guerra, ed arbitro re stereljbe di ogni cosa. Adunque per molto tetnpo se no suscitarono ogni giorno dicerie vicendevoli, e reclami in Senato, éd altercazioni vive nel Foro ; uou essendo lecito a niun di essi 'far violenza all’ altro, garautito dalla dignità pari della magistratura,. Or poiché non dovasi fine, alla disputa ; Tulio comandò a Marcio di venire in dato giorno a deporre il suo gradò, e sottomettersi ai proressi di tradimento, E sollevati eon lusinghe' di benefizi > uomini audacissimi, e messili per capi della scellcraggiuc indegna; si portò nel Foro destinato. 'Asceso ' nel tribunale accusò Marcio con tòòlte incolpazioni ; ed istigò la moltitudine a' degradarlo a fo4'za, se spontaneo non lasciava il comando. ' LIX, Accese Marcio anch’ esso per;, far le difese ; ma ì grandi clamori de’ seguaci di Tulio gli tolsero di parlare. Dopo ciò gridandosi: {ira, ferisci, lo efreonJa' rouo, e con .nembo di sassi lo, uccisero uomini inso-, lentissimi. Ed essendo lui strascinato Foro, quelli che erano presenti allo spettacolo, e quelli che Vi sopravvennero dopo eh’ egli erst spirato, deplorarono il valeniaoiiio ; perchè' non degna avea da loro la ricatupensa. E Hdiceano quanto bene avea fatto al comune, e r arresto' .voleanO degli uccisoci, perchè dato.aveano esempio di opèra. ingiusta, e lesiva delle '.città, spegnendo senz’iimmelterne le difese violentemente un di loro, c questo,, comaudante. Ne fremeauo soprattutto i compagni di lui uclle spedizioni. Epoiché non erano stati da tanto d’ impedirne i mali mentre viveva ; delU berarono riconoscerlo de’benefizj, almeno dopo la morte; recando al Foro quanto alla deliha onorificenza ricluedesT de’'valentoomini. Quando lutto fu pronto > collocarono lui con veste di capitano, su letto vaghissimamente ornato : poi facendo precedere quelli che recavano le prede, le spoglie, le cotone, le immagini delle citli prese da lui ; ne sollevarono il feretro i giovani più segnalati fra le armi. Lo portarono al sobborgo più ragguardevole, accompagnandone il cadavere i 'cittadini tutti con gemiti e la^inDe. uomo il. più grande di tutti 'al suo tgmpo' nelle armi. Continente da lutti i pacetri che traspòrUmo i giovani, seguiva 'la giustizia ifon involontario per le leggi che forzano col timore de’ supplizi', ma spontaneo, come per inclinazione d’indole bennata. Non tenea per virtù non offendere ; e bramava non solo di esser puro egli stestd da ogni malfare, ma credea giusto di astringervi -anche gli '^allri. Magnanimo', liberale, intentissimo a soccorrere quando cpnoscevalo, il bisogno degli amici, npn era inferiore a ninno de’ patrizj nel roaneggio.del pnbblico. C se fa sedizione della città non lo avesse impedito da' pubblici .•(Tari, forse' Roma preso avrebbe da' regolamenti suoi grande aògumeolo d’iiQpero. Ma'già. non può farsi cbe tuKe le virtù si uniscanó nella natura di un nomò ; nè da seme mortala e caduco sorgerà mai niutlo per ogni parte peidetto. LXI. Il ‘destino che ' propizio area sparso in esso i germi di tali virtù^ vé ne mise alfiri ancora di sciagure e dì mali. Non era dolcezza nè illarità ne’ suoi modi, non degnevolezza ne salmi e ne’ colloqui, .. non' facilità di placarsi, non moderazione nell’ ira se contro alcnno la concepisse, grazia in6ne, quella die adorna tmte le nmane cose. ¥élnto lo avresti sempre difficile, e sempre acerbo, f^ocquero a lui mólto tali maniere, e soprattutto la severità sua ^moderata,' incredibile, e senza scintilla mai di chnuenza ne|)ar custodia dei giusto e delle leggi. Ma ben sembra vero il detto^d^ filosofi antichi, che le virtù specialmente quelle delia giustizia,. sono moderàzioni, e non estremità de costumi : perocché sia che la ginstizia manchi dal mezzo, sia 'che lo ecceda ; non più giova i mortali, cagionando talvolta gran danni, e ridùcendo a stragi > miserande, ed immedicabili inali. Nè fu cbe la troppo sollecita e troppo austera esigenza del giusto la quale ridusse Marcio fuori della patria, e senza il frutto delle altre belle sue doti. Potendopiegarsi per atòunà maniera al popolo, e lasciare qualche cosa af loro desiderj e divenire il primo fra loro ; non volle : ma contrariandoli in qualunque cosà ' la quale ad essi non si dovea, se ne concilò l’ odio, c fu cacciato dalla -patria. Potendo, appena ^ sciolse la guerra, lasciare il comando deifarmata, e trasferire alet 8o trove la sua dirnora, Gncbè gli fossi! conceduto il ri torno alU patria, anzi 'che esporre ^ stesso à nemici, ed alle stoltezze della moltitudine ; ne vide la necessità di ‘farlo, e non volle. Ma giudicando 'dovere affidare sè stesso a chi gli aveva affidata T armata, .c conto del suo capitanalo, e se irovavasi. reo di co.sa alcuna subirne le pene secondo le leggi; raccolse amaro U frano di tanta giustizia. Pertanto sé col disciogìiersi de’ corpi aiicUo l’anima, qualunque' cosa ella sia, si discioglic, né punto ne so^ravvanza; io non vedo come.chiamare beati quelli elle non goderono della loro virtù niun frutto, anzi pci^ essa perirono. M.i se le anime nostre ’Soprav- vivono Immortali affatto come pensano alcuni ;'0 qùalebe tempo almeno dopo la .-partenza' loro dal corpo, il più lungo quelle do’, buon;, ed .il più breye quelle dei malvagi (it; certo parrà beq grande ai. virtuosi l’ onore che li seguita, loipérocclié sebbene la fortuo' stasi loro contrapposta; avranno buona fama e langbissima la ri cordanza tra’ vi vanti, come appunto ' accadde a questo uomo. Perocché non solaincute ’mofto io piansero e Io onorarono, i Yolsci come virtuosissimo; ma li Romaui, conosciutone appena il caso, riputandolo sciagura altissima di Roma, ne fecero pnvalo e pultbJ/co lutto. Le donne come usano in morie dei domestici loro amaiiss.ifni, lasciarono da un canto l’ oro, la porpora, ei • V. [1 Vossio nel lil> i ^ de IJoloturia dctltice d f|iicslo passo ch^ Diouigi crcdctle che le auhne esùtono Jpu !a tnofie del colpo ma solo -per un tempo limitalo ; e per ciò lo ridice nella classe dt (|iicl!i che pensavano quaulu alla durazioue delle anime come gU Stoici \ 8 I atterono fra loro senza regola, senza comando, misti e confusi: tanto che grande ne fu la strage in ambe le parti ; e forse totale ne sarebbe stata la rovina, se il sole non tramontava. Ma cedendo, loro malgrado, alla notte, che inipedivali di contendere, separaronsi, ed alloggiaronsi ciascuno nel Aa. di Ruma aGG secondu Catoue, aGS secoudu V'arrooe, e 48G 8T. Cristo.DJONICI. tomo Iti. fi proprio campo. La maltina i duci lerando le truppe si ricondussero alle loro case. Udirono i consoli dai diser.tori e da altri divenuti prigionieri col fuggire dalla battaglia, qual furia e quale flagello divino fosse nell’esercito; non però colsero la occasione tanto a proposito per essi non lontani più di trenta stadi, nè gl’ incalzarono nella ritirata : nel qual tempo se essi freschi, in buon ordine, avessero perseguitato gli emoli stanchi, feriti, confusi, e già pochi di molti, di leggieri gli avrebbero totalmente distmtu. Sciogliendo aneli’ essi il campo, tornarono in patria sia che fossero paghi del bene dato loro dalla fortuna, sia che non fidassero su r annata loro non disciplinata, sia che assai valutassero il perdere anche pochi soldati. Ma giunti in città vi furono vituperati, riportandovi fama di pusillanimi per tale condotta. Mè facendo altra spedizione, rassegnarono il poter loro a’ consoli susseguenti. Presero l’ anno appresso il consolato Cajo i^quilio e Tito Siccio, uomini periti di guerra . E facendo questi proposizioni di guerra; il Senato decretò che si spedisse un’ ambasceria per chiedere soddisfazione secondo le leggi dagli Ernici, popolo amico e confederato, il quale aveva offesa Roma nel tempo della guerra de’ Volsci e degli Equi con prede e scorrerie su le terre contigue : e decretò che intanto che ne avessero la risposta i consoli iscrivessero milizie quante ne potevano, convocassero con messaggi gli alleati, ed apparecchiassero sollecitamente col mezzo di molti ministri Roma Catone Varrooe LiDno vili. 83 armi, grano, (lanari, e quanto è necessario ()cr la guerra. Tornali, cspcKero gli ambasciadori le risposte degli Ernia, i quali diceano non esservi pubbliche convenzioni tra loro e tra’ Romani, e che pensavano già sciolte quelle che vi furono tra loro e tra Tarquinio, come detronizzato, e morto in terra straniera : che le prede e le incursioni non furono ingiustizie del pubblico, ma di privati intesi al guadagno: e che non doveano però nemmeno gii autori di quelle consegnarsi al supplizio: e lamentandosi che avessero anche gli Eroici patito altrettanto ; signiQcavano che volentieri accetterebbero la guerra. Il Senato, ciò udendo, decretò che si dividessero in tre parti le nuove reclute descritte: che il console Cajo Aquilio marciasse coll’ una sugli Eruict già in arme aneli’ essi: che Tito Siccio, l’altro console, ne andasse coll’ altra su i Volsci : che Spurio Largio, nominato da’ consoli comandante della città, prend cero ciò primi li Volsci ; e ben tosto la ottennero ; dando l' argento multato dal console, e somministrando quani’ altro bisognava all’ esercito ; dopo avere promesso che sarebbero ì sudditi de’ Romani, né più da tali ao> cordi si leverebbono. In ultimo gli Eroici vedutisi rimasti soli, trattarono coi console di amicizia e di pace. Ma Cassio assai richiamandosi di essi con gli ambasciadori, disse, che prima doyeano far quanto conviene ai vinti ed ai sudditi, e poi discorrer di pace; e soggiungendo gli ambasciadori che lo farehhono se moderata e possibile ne fosse la esecuzione, comandò loro che gli portassero in grasce i viveri di un mese, ed in argento la somma onde stipeudiarue t soldati secondo il solito per sei mesi: e definendo un numero di giorni entro cui potessero tutto apprestatali ; concedette intanto ad essi una tregua. Presentarono gli Ernici ogni cosa con prestezza ed impegno, e spedirono di bel nuovo i parlamentar] di pace. Li lodò Cassio c li rimise al Senato. Ne deliberarono i padri a lungo; e piacque loro che si ammettessero questi all’ amicizia, c Cassio il console esaminasse, e decidesse le condizioni de’ trattati da conchiudersi. Approverebbero i padri ciooch’ egli ne stabiliva. Prescritto ciò dal Senato; Cassio tornando in città chiedeva un secondo trionfo per aver sottomesso i popoli più riguardevoli : ant>gavasi però quest’ onore per le aderenze, piuttosto che di giustizia lo ricevesse tinperocchc non avendo nè prese città per assalto, nè disfatti eserciti in campo aperto ; non potca menar seco in spettacolo i prigionieri e le spoglie che sono gli ornamenti dei trionfi. Ma lo amare il piacer suo ; non le risoluzioni simili a quelle degli altri, gli concitò subitissima invidia. Impetrato il trionfo pubblicò la concordia, com’ aveala firmala con gli Eroici. Erano le condizioni trascritte da quella conchiusa già co’ Latini. Dicchè mollo si dolsero i più provetti ed autorevoli, e tennero lui per sospetto, sdegnati che gli Eroici, estraneo popolo, fossero pareggiati di onore ai Latini loro congiunti ; e quelli che dato non aveano neppur minimo segno di benevolenza partecipassero le cortesi retribuzioni di chi tanti dati ne avea. Soffrivano ancora di mal' animo la superbia di quest’ uomo, perché onorato dal Senato non aveali a vicenda onorati, fissando e pultblicando i patti come glie ne parve ; non di concerto comune coi padri. Così la troppa felicità nuoce, non giova ; divenendo insensiòilmente per molli cagione di orgoglio incredibile, e stimolo di desiderj superiori alla natura; come avvenne a costui. Condecorato allora dalla città egli solo fra tutti con tre consolati e due trionfi ampliava l’ onorificenza sua, ambizioso del regio potere. Considerando però che la via più sicura per chi ambisce il regno e la tirannide è quella di guadagnare il popolo co’benefizj, e di costumarlo ad essere alinien tato da chi dispensa le pubbliche cose ; a questa si rivolse, e senza manifestarsene ad alcuno. E perocché ci aveva un terreno amplissimo del comune ma trascurato e goduto da^ ricchi ; deliberò di compartire questo tra’l popolo. E se contentato si fosse di procedere fin qui ; forse riuscito sarebbe ue’ disegni. Ma trasportatosi a troppo ; cagionò sedizione nou picciola, e fine sciaurato a sestesso. Imperocché presunse congiungere alla divisioa del terreno non pure i Latini ; ma gli Ernici, ricevuti ultimamente per cittadini. Tali cose ideando a conciliarsi quelle nazioni, convocò nel glotoo dopo il trionfo il popolo a parlamento. Quindi asceso in tribuna com’ è 1’ uso de’ trionfatori, prima dié conto delle opere sue, delle quali era la sostanza : che fatto console Ut prima %>oUa vinse i Sabini, e li rendè sudditi a Roma alla quale disputavano il comando : che fatto console per la seconda, racchetò la civil sedizione, e restituì la plebe alla patria : e ridusse amici e (compartecipi della cittadinanza di Roma, i Latini che erano consanguinei, ed emoli eterni delt impero e della gloria di lei; tantoché non più la contrariarono, ma riguardarono Roma come patria loro. Chiamato la terza volta al consolato necessitò li V ilsci ad essere amici, di nemici che erano, colle armi, e sottomise spontanei gli Ernici, popolo vicino, grande, potente, ed attissimo a nuocer molto, o giovare. Eisponendo queste e simili cose chiedeva al popolo che attendesse a lui, provido soprattutti ora e per sempre della repubblica, e chiudendo il discorso disse che farebbe e tra non molto tali e tante beneficenze che supererebbe quanti erano encomiati di aver amato e salvato il popolo. Oisciolta 1' adunanza invitò nel giorno appresso a raccogliersi il Senato sospeso e timoroso pe’ delti antecedenti di lui. Prima di ogni altra cosa propose un tal suo sentimento tenuto occulto alla plebe, e chiese ai padri che giacché questa era stata si utile per la libertà dando mano a farli dominare su gli altri, prendessero cura di lei e le dispensassero il terreno, pubblico in sestesso per essere acquistalo colle armi, ma goduto in fatti senza niun dritto da patrizj impudentissimi : e poi chiese che si rendesse dal pubiuale fu sopraimominaiu Poplicola. potenti per aderenze e ricchezze, e tutto che giovani, non inferiori a niun pari loro nei trattare le pubbliche cose esercitavano la questura. Ed arbitri per questo -di intimar le adunanze accusarono al popolo con incolpa zioni di tirannide Spurio Cassio il console dell’ anno precedente, che osò d’introdurre le leggi su la partizione delle campagne ; e • preGggendogli il giorno, lo citarono a giustiCcarsene presso del popolo. Adunatasi nei giorno prescritto gran gente essi invitandola ad ascoltare dimostrarono che le opere manifeste di quest’ uomo non comprendeano nulla di buono : primieramente perchè mentre i Latini appagavansi di essere ammessi alla cittadinanza, e riputavano sommo il favore se la ottenevano; egli console non solamente concedè la cittadinanza che dimandavano, ma decretò che si desse loco il terzo delie spoglie della guerra, se in comune la sostenessero: secondariamente perché rendette amici in luogo di sudditi, concittadini in luogo di tributar) gli Eroici che, vinti, doveano ben esser contenti se non erano danneggiati collo smembramento delle lor terre; anzi ordinò che si desse loro pur la terza parte delle prede e 'Tlelle campagne che fossero mai per conquisure. Tanto che divisa la preda in tre parti doveano i sudditi e foresuerì pigliarne due parli, ed i paesani e padroni una sola. Dimostravano che da questi due assurdi ne segnirebbe r uno o altro, se volessero pe’ molti e segnalati servigi condecorare un altro popolo come i Latini, o come gli Eroici che ninno prestato ne aveano, vuol dire: o che non avrebbero che dar loro , o se volessero pareg Il lesto di Rciske si togUmero e confiscassero i beni del padre che ne avea svelato le brighe per la tirannide ; e per questo io decidomi piuttosto per la prima narrazione. Le ho nondimeno riferite ambedue, perchè coloro che leggono aderiscano a quale più vogliono. Insistendo poscia alcuni perché si uccidessero i figli ancora di Cassio; parve al Senato aspra la inchiesta nè utile. E congregatosi decretò che si rilasciassero, c vivessero sicurissimi da esilj, da infamie, da ogni sciagura. Da quel fatto si stabili tra’ Romani r uso, custoditovi fino a’ miei giorni, che vadano immuni da ogni pena i figli di padri delinquenti, sian essi figli di tiranni, di parricidi o di traditori, che tra loro è il massimo dei delitti. E quelli che vicini al nostro tempo, circa il fine della guerra Marsia, e della guerra civile dandosi ad abolire quest’ uso, impedirono finché dominarono che i figli dei proscritti da Siila giungessero agli onori paterni e prendessero posto in Senato, sembrarono far opera degna della esecrazione degli uomini, e della vendetta de’ numi. Perocché col volger degli anni raggiunse loro la giustizia, vendicatrice non riprovata, per la quale furono dal colmo della gloria precipitati ai fondo delia miseria; non lasciandosi del lignaggio loro se non la prole nata di femmine. E colui che li distrusse riordinò quei costume com’era ne’ prìncipi. Pfeaso di alquanti greci però non è così mite il costume; perchè alcuni credono giusto che i gli de’ tiranni co’ tiranni finiscano; ed altri con perpetuo esilio li punistxtno; quasi non consenta la natura che sorgano figli buoni da’ padri rei ; nè figli rei da buoni padri. Ma su ciò lascio che altri discuta, se migliore è l’uso; de’ Greci o migliore quel de’ Romani : ed io prosieguo la storia. Dopo la morte di Cassio i fautori del comando de’ pochi divennero più baldanzosi, e spregiatori del popolo. Laonde gl’ ignobili per nome e sostanze se ne abbatterono ; accusando molto sestessi di stoltezza, perchè aveano colla condanna' di lui distmito il custode fidissimo della fazion popolare. Era questa la causa per la quale i consoli non eseguivano il decreto de’ senatori pel quale doveano eleggere i dieci che determinassero la terra pubblica, e riferire in Senato quanta parte ne fosse da dividere, ed a quali persone. Adunque si tenean de’ crocchi mormorandovisi in ciascuno so l’ inganno, ed incolpandovisi più che tutti i tribuni precedenti come traditori del comune ; slmilmente faceansi dai tribuni d’ allora continue le adunanze e le richieste della promessa. Or ciò vedendo i consoli deliberarono rimovere col pretesto di guerra la parte sediziosa della Aagatto. città ; percccbé di qae tempi il territorio era iofesiato da’ ladronecci, e dalle scorrerie de popoli circonvicini. Adunque per far la vendetta degli aggressori aveano inalberato i segnali di guerra, ed iscriveano le milizie della città. Ma, non dando i poveri il nome loro, non potevano astringervi a nonna delle leggi gl indocili, {jerocchè li tribuni proteggevano la moltitudine, e lo avrebbero impedito, se altri tentava portar la violenza su le persone, o le robe di chi ricusava. Adunque lanciarono i consoli molte minacce, che non permette rebbero che alcuno rivoltasse la moltitudine ; e svegliarono ne’ cuori un secreto sospetto che nominerebbero un dittatore il quale sospendesse tutti gli altri magistrati, ed avesse egli solo un potere supremo ed irrefragabile. In tale apprensione i plebei temendo che il dittatore fosse Appio, uomo duro e dlflìcile, piegaronsi a soffrire ogni cosa, piuttosto che questa. Descrittone il molo, i consoli presero le milizie, e marciarono su l’ inimico. Gettatosi Cornelio nel territorio de’Vejenti ne portò via la preda sorpresavi. Allora i Yejenti spedirono ambasciadori, ed egli rilasciò loro i prigionieri per date somme, e concedè la tregua di un anno. Fabio coU’altr armata piombò su la terra degli Equi, e quindi su quella de’ Volsci. Pazientarouo i Yolsci alcun tempo, ma non molto, che fossero i campi loro predati e devastati: poi spregiando i Romani come venuti con armata non grande impugnarono in buon numero le armi, ed uscirono su le terre degli Anziati per Incontrarli : se non che ne andarono anzi precipitosi che savj : perocché se giungevano inaspettati, e K>rprendeano i Romani mentre erano qua e là dispersi; ne avrebbero assai variato le vicende; ma il console istruito del giunger loro dagli esploratori, richiamò bentosto i suoi, sbandati com’ erano, da’ foraggi, e dié loro la ordinanza conveniente alla guerra. Come i Volaci che .-venivano confidando e spregiando, videro fuori dell’ imaginazione tutte le forze nemiche ordinate e raccolte, sbalordirono alio spettacolo inopinato : nè più curando la salvezza comune, provvide ognuno alla sua, e dando volta, con quanto aveàno di velocità, fuggirono tutti chi per una e chi per altra via; salvandosene la maggior parte nella città . Solamente nu picciolo corpo il quale era più che gli altri ordinato ritirandosi alla cima di un monte, quivi pose le armi e vi pernottò. Ma ne’ giorni seguenti essendo dal console circondala 1’ altura e chiusene tutte le uscite, necessitato dalla fame si sottomise, e cedette le arme. 11 I console fe’ vendere pe’ questori quanto vi era, prede, spoglie, prigionieri, onde riportarne danaro alla patria. Non molto dopo levò 1’ esercito dalle terre nemiche e a suoi lo ricondusse, ornai standosi 1’ anno per terminare. Giunto il tempo da creare i magistrati, i patrizj che vedevano il popolo irritato e pentito della condanna di Cassio, deliberarono di sopravvegliare perchè non facesse movimenti elevato di nuovo a speranze di donativi e di divisioni di terre da taluno che prendesse gli onori consolari pieno della facondia per aringarlo e travolgerlo. Parve loro che se il popolo desiderasse ponto di ciò, potesse impedirsegli con eleggere un console ad esso non £tvorevole. Ck>nchiuso ciò confortano perchè aspirino al consolato Fabio Cesone 1’ uno degli accusatori di Cassio fratello di Quinto, console attuale^ e Lucio Emilio altro patrizio propensi^mo agli Otti mali. Non potendo il popolo impedir questi due che aspirassero al consolato, usci dal campo e si levò dai comizj. Perciocché ne’comizj centuriati tutto il poter de’snfiragj assorbivasi da’ cittadini più illustri e primi di ordine ; e di raro cosa alcuna si decideva col voto ancora delle centurie intermedie di ordine: la classe estrema poi nrila quale votava la parte più misera e più numerosa non avea, come innanzi fii detto, se non un voto solo, il quale era 1’ ultimo. Adunque negli anni dugento settanta dalla fondazione di Roma essendo Nicodemo 1’ arconte di Atene divennero consoli Lucio Emilio figliuolo di Mamerco, e Fabio Cesone figliuolo 'di Cesone. Ora succedette loro secondo il desiderio di non essere pertui> bati da sedizioni civili; per essere la repubblica investita di fuori. E le cessazioni delle guerre esterne sogliono rieccitare le nazionali, e dimestiche tra’ Greci, tra’ bar bari, e dovunque, principalmente tra’ popoli che vivono Ira le armi e i travagli per amore della bbertà e del comando ; perchè gli animi avvezzi a bramare ognora più, ridotti senza gli esercizj consueti difficilmente si contengono. Su tal vista comandanti savissimi fomentano sempre alcuna discordia cogli esteri; giudicando migliori le guerre nelle regioni altrui che nella propria. Allora Roma Giatonc Varrone] I 1 I fecondo il genio appunto de’ consoli, occorsero come bo detto, le insurrezioni de’ sudditi. Imperocché li Volsci sia che hdassero ne’juoti interni di Roma, contendendo il popolo co’ magistrati ; sia che fremessero per la infamia della precedente disfatta, ricevuta senza combattere; sia che insuperbissero per le forze loro che eran grandissime; sia che seguissero tutte insieme queste cagioni; aveano deliberato ikr guerra ai Romani. E raccogliendo i giovani da tutte le dtté marciarono con parte dell’esercito contro le città de’ Latini e degli Ernici, e coll’ altra che era la più numerosa e più forte teneansi pronti a ribattere chiunque si avanzasse contro le loro. 1 Romani ciò saputo deliberarono dividere 1’ armata in due corpi, e guardare con uno le terre degli Ernici e de’ Latini, e correre coll’ altro a depredare quelle dei iVolsd. Avendo i consoli, com’ è loro costume, tirato a sorte le milizie ; Fabio Cesone assunse il comando di quelle che andavano a soccorrere gli alleati, e Lucio marciò colle altre contro la città degli Anxiati. Avvicinatosene ai confini, e vedutevi le armi nemiche, si accampò su di un colle a fronte di ^e. Ma uscendo i nemici ne’ giorni consecutivi più volte in campo, e sfidando alia battaglia; egli credette avere il buon punto, e cavò le sue schiere. Ed ammonitele, e riammonitele prima del cimento ; alfine diedene il^egno e le avventò. Bentosto i soldati alzato il grido consueto della battaglia pugnarono folli, a schiere e coorti. Esaurite poi le lance, i dac;di cd ogni arme da tiro si scagliarono, rotando le spade, gli uni su gli altri con ardire e desiderio eguale di misurarsi. Era iu ambedue simi lissima la maniera di combattere : nè maggiore tra Ro mani la saviezza e la sperieuza che gli aveva rendati già più volte vincitori, nè maggiore la costanza e la sofferenza per 1 esercizio di tante battaglie ; ma le doti stessissime brillavano pur tra’ nemici 6n dall’ ora, che fu duce loro Marcio, famosissimo duce romano. Adun(jne gii uni resistevano agli altri senza cedere il posto preso in principio. Ma dopo alquanto i Volaci a poco a poco si ritirano, schierati, e con ordine, tenendo fronte ai Romani. Tendea quel movimento a dividere le milizie di questi e combatterle da lut^o elevato. In opposito i Romani credendo che questi principiasser la fuga tennero anch’ essi a passo a passo in buon ordine dietro loro che si ritiravano. Ma poiché videro che a rilancio conevano agli alloggiamenti anch’ essi rapidissimi, in disordine li seguitarono. Intanto le centurie estreme e la retroguardia, quasi già vincitrici, spogliavano i morti, e davansi a predare la regione. Vedendo ciò li Voisci che facean credere di fuggire, giunti appena alle Urincee, voltata faccia, si contrapposero : e quelli che erano negli alloggiamenti, spalancate le porle, accorsero numerosi da più parti. Or qui cambiarono le vicende della battaglia : chi perseguitava fugge, e chi fuggiva perseguita. Perirono, com’ è naturale, molti bravi Romani incalzati giù pel declivio, e circondati ; essi pochi, dai molti. Non dissimile sorte incontrarono quanti eransi dati a spogliare e predare, impediti di retrocedere schierati e con oi^ dine ; imperocché sopraHatti ancor essi da' nemici restavano iracidali o prìgiooierì. Quanti però di questi o di quelli respinti giù pel monte fuggivano in salvo ; soccorsi, benché tardi, dalia cavalleria, tornavano al6ne a’ proprj alloggiamenti : e parve che a non essere intc-ramenie distratti giovasse loro un’acqua dirottissima dal cielo, ed un bujo qual formasi per nebbia profondissima ; perocché non potendo i nemici vedere più di lon tano, infkslidirottsi a seguitarli più oltre. La noue appresso il console movendo l’ armata la ritirò cheta, in buon ordine, sicché 1’ inimico noi comprendesse. Al tornar della sera mise il campo presso la ciué di Longòla t scegliendo un’altura idonea, onde. respingerne gli assalitori. E qui fermatosi curava gli egri .dalle ferite, e rianimava gli aiHitti dalla vergogna delia disfatta impensata. Tale er^ lo stato de’ Romani. Li Volacipoi come al nascere dei giorno conobbero che quelli eransi di loggiati; portarono più da vicino il campo loro. Quindi spogliato avendo i cadaveri de’ nemici, raccolto i semivivi che davano speransa di guarigione, e seppellito gli estinti loro compagni, rientrarono la città di Anzio che prossima rimaneva. Qui cantando inni e porgendo in ogni tempio sagrifìzi per la vittoria, si diedero ne’ giorni seguenti ai conviti e piaceri. E se teneansi a quella vittoria, né intraprendevano altra cosa; la guerra avrebbe avuto per essi nn esito fortunato. Imperocché li Romani non aveano cuore di uscire dagli alloggiamenti per combattere ; anzi desideravano di lasciare le terre nemiche, anteponendo nna fuga ingloriosa ad una morte DIOIfJGI, tomo ut. manifesu. Infiammati però da speranae maggiori, perderoDO la gloria ancora della prima vittoria. Udendo dagli eipioratori e dai disertori che i Rbmani andati salvi eran pochi, e per lo più feriti ; ne concepirono disprezzo grandissimo, ed impugnate le armi marciaron sa loroi Li seguitarono senza 1’ armi moiri della città per vedor la batuglia, e per fare insieme prede e guadagni. Ma quando giunti all altura circondarono gli alloggiamenti, e presero a svellerne gli steccati ; proruppero prima su di essi i oivalieri Romani, postiti a piede per la condizione del luogo, e poi li triarj, schieratisi strettissimi. Sono questi i veterani a’ quali si dà la guardia degli alloggiamenti, se le milizie escono per combattere, ed a’ quali per mancanza di altri ripari si ha restrerao indispensahil ricorso quando avviene strage funesta de’ giovani. Ne sostennero i iVolsci la irruzione e pugnarono gran tempo pieni di valore. Ma non favoriti poi dalla natura del aito se ne rimossero : e fatto a’ nemici danno tenue, nè degno di memoria, e ricevutolo essi più grande ancora; calarono alia pianura. Messi quivi gli alloggiamenti, schierarono ne’ giorni appresso 1’ armata, e provocarono i Romani alla battaglia : nè pertanto uscirono questi al paragone. 1 Volsci vedendo ciò li spregiarono : e convocate le milizie dalle loro città ; si ap pareccbiarono per espugnarne le trincee colla moltitudine. E ben erano per fare alcuna cosa di grande riducendo per patri e colla forza il console e i suoi che già penuriavano ; ma giunse prima di loro il soccorso Romano, e furono traversati da compiere con bellissimo (ìpe la guerra. Imperocché Fabio Cesoue l’altro console,. I I 5 Mpen rono compartiti pe’ corpi varj. I consoli dopo avere sup> plite le coorti mancanti, tirarono a sorte il comando degli eserciti. Prese F abio l’ esercito sostenitore degli alleati, e Valerio 1’ altro che accampava tra’Yolsci ; recandovi le nuove reclute. I nemici saputo il giugner di lui, deliberarono far venir nuove troppe, trinderarsi in luogo più forte, nè coìrere, come prima, per lo dispregio rovinose vicende. F orqirono i duci tutto ciò speditissimàmente, intenti l’ uno, e l’ altro a guardare le trincere sue dagli assalti, non ad assalir le inimiche, per espugnarle. Cosi decorse non poco tempo fra terror vicendevole che 1’ ano 1’ altro investisse. Non poterono però l’uno e l’altro osservare sino al fine il proposito. Imperocché quante volte spedivasi alcuna parte di esercito pe’ frumenti o per altro bisogno ; davansi attacchi e percosse, con esito non sempre vittorioso per ' Cesare (a) Altenlare so’ Iribaoi era delitto graTÌssimo, perchè le persone loro si riguardavano come sacre ed inviolabili : Quindi Cicerone nel lib. 3 de legibns scrive: quodque ii prohibessint, quodque plcbem rogaisint ralitm està ^ taneiique turno. vin. I ig UD de' partiti. Ne perirono in tante scaramacce non pochi ; restandone feriti ancor più. Non riparava le perdite Romane alcun nuovo rinforzo venuto altronde ; mentre i Volsci, sopravvenendo ad essi schiere su schiere, si erano moltissimo ampliati. Dond’è che animatine i duci loro, cavarono dalle trincee 1’ esercito per la battaglia. Usciti i Romani nommeno e schieratisi a fronte, insorse una mischia grandissima di cavalli, di fanti, di soldati leggeri, pieni tutti di ardore e di > sperienza e ciascuno col disegno che dipendesse da lui solamente la vittoria. Cadutine dall’ una e dall’ altra parte molti estinti, e piò ancor semivivi ; si ridussero a pochi quelli che tuttavia rimanevano tra la mischia e il pericolo. Or non potendo questi fare le azioni di guerra perchè gli scodi destinati a difendere, pieni di dardi conGccativi ^ aggravavano la sinistra, né permettevano che si tenesse ferma in atto di ripercotere i colpi, e perchè le spade erano ornai spuntate, rotte, inutili ; tanto più che il combattere di tutto il giorno gli aveva stancati, mer^ vati, illanguiditi a ferire, e la sete, il sudore, l’aiTanno travagliavali come chi combatte a lungo nelle ardentissime ore di estate; la battaglia non prese termine me morando, ma 1’ nnò e l’ altro duce ritirarono ben vo lentieri le armate : e tornarono a’ proprj alloggiamenti^ Non uscivano più gli uni o gli altri a combattere, ma standosi dirimpetto spiavano a vicenda le sortite degli emoli pe’ bisogni di guerra. Parve nondimeno, e molto in Roma se ne discorse, che la milizia Romana, potendolo, non facesse nulla di luminoso per odio contro del console, e per indignazione su’ patrizj, mentitori nella dÌTÌsione delle terre. In opposito i soldati acctisa vano il console come insulficiente ; scrìvendone ognuno lettere ai suoi. Tali furono gli eventi nel campo in Roma intanto molti segni celesti annunziarono l’ira divina con voci, e viste inusitate. E tutti i segni concorrevano a questo, come i vati e gli spositorì delle sante cose, te nutone consiglio, interpretavano, che alcuni de’ numi erano esacerbati, perché non riceveano gli onori legit timi, o riceveano sagrifizj non puri, nè pii. Faceasi dunque grande ricerca, 6nchè diedesi indizio a’ sacerdoti che l’ una delie vergini, custodi del fuoco sacro ( Opimia n’ era il nome) avea la verginità contaminato, e con la virginità le sante cose. Or questi con indagini e discussioni chiarìtlsi .esser vero pur troppo il fello indicato, spogliarono quella delie sacre bende, e condottala di su |1 foro, la seppellirono viva tra sotterranee pareti. Flagellarono poi nella pubblica luce ed uccisero due convinti del fello con essa. E ben tosto favorevoli le sante cose, e favorevoli si ebbero le risposte degl’indovini, come per la pace venduta da’ numi. XC; Giunto il tempo de’comizj, e venutivi i consoli, ebberì briga e contenzione assai viva tra’ patrìzj e tra ’l popolo su’ personaggi che avrebbero da pigiare il comando. Voleano quelli promovere al consolalo giovani intraprendenti né amici della plebe ; e per insinuazione loro chiedevalo il figlio di Appio Claudio, di quello riputato già si contrario al popolo ; ed era questo figlio pieno di orgoglio e di audacia, e potente per amicizie e clientele più che lutti dell’ età sua. Per l’ opposito il popolo nominava a far l’ utile pubblico e volea per con vm: 1 3 1 soli personaggi anziani, notissimi per le d^ci maniete sole vi marciasse colle armate. Fu tal decreto un sub> bjetto di contraddizioni : perocché molti non lasciavano che la guerra uscisse, ricordando a’ plebei la partizion delle terre decisa già da cinque anni dal Senato, e come tra le belle speranze furono defraudati, e protestando che non particolare ma comune sarebbe quella guerra, se la Etruria tutta levavasi unanime a soccorrere ì suoi nazionali. Non poterono però nulla tali sediziosi discorsi; imperocché per le insinuazioni di Spurio Largio anche il popolo ratiScò la sentenza de’ padri : pertanto i consoh cavarono gli eserciti, e gli accamparono separati r uno dall’ altro, non lungi da Yejo. Si tennero in tal modo più giorni: non uscendone però l’inimico coll’armata ; datisi a saccheggiarne i campi, sen tornarono con quanta poteano più preda in patria. Or ciò e non altro vi ebbe di memorabile sotto questi consoli. L JLj anno appresso nacque disparere tra ’l popolo e tra i senatori su la scelta de' consoli : imperocché questi voleano promovere al consolato due di cuore patrizio, laddove la moltitudine due ne volea popolareschi. Arse la disputa finché tra loro si persuasero, che ambedue le parti dovessero nominare, ciascuna, un console. Pertanto il Senato elesse Fabio Cesene per la seconda volta, quello appunto che aveva accusato Cassio come reo di tirannide, ed il popolo creò Spurio Furio Roma Catone Vairone. laS nella olimpiade settantesima quinta ; essendo Calliade Arconte in Atene, al tempo appunto che Serse fece la sua spedizione contro della Grecia. Or avendo questi preso appena il comando, yennero in Senato gli ambasciadori Latini per supplicarvi, che si mandasse loro coir esercito l’ uno de’ consoli, il quale non permettesse che la insolenza degli Equi procedesse più oltre. Annunziavasì insieme che la Etruria tutta era in moto, e che tra non molto uscirebbe colle armi per essersi già riunita in (x>mizj generali : come pure che avendo i Vejenti insistito per congiungersele contro i Romani, ne aveano Gnalmente ottenuto, che potesse ogni Tirreno parucipare alla impresa: dond’ è che fatto, si era un corpo riguardevole di Vejenti volontari, per militarvi. Or ciò vedendo i magistrati Romani deliberarono che si recintasser le armate, e che li consoli uscissero con esse r uno per combattere gli Equi, ed esser il vindice dei Latini ; e l' altro per marciare contro l’ Etruria. Opponessi a ciò Spurio Sidnio l’uno de’tribnoi, è con gregando ogni giorno il popolo a conclone raddomandava le promesse dal Senato, e protestava che non pen> metterebbe, che si eseguisse niuna delle cose decretate da’ padri su’ nemid o su la dttà, se prima non creavano i Died, per deBnire le terre del pubblico, e non le compartivano, come eransi obbligati in verso dd popolo. Implicavasi, nè sapeva che fare il Senato ; quando Ap> In atconì codici ti legge Icilio: e Lirio stesso nel lib. 4, dice : auetoret fuitte tam Uberi popolo mffrayì leitios accipio, ex famitia i/ifeetUtima patribue Irei in eam antuun Uibunot plebù ereaioi. e pio Claudio suggerì che si procurasse la dissensione tra questo e gli altri Tribuni ; perciocché vedea, eh' essendo r oppositore inviolabile, ed impedendo col poter dei^ leggi i decreti de’ padri, non rimaneva altra via da rintuzuraelo, se non quella che un altro di eguale onore e potenza operasse in conurario, e proibisse ciocch’ egli proibiva: consigliava inoltre che quanti prenderebbero successivamente il consolato si adoperassero, e mirassero sempre ad avere iàmigliari ed amici de’' tribuni, ripe tendo non esservi altr’ arte da iuvalidame il potere, se non quella di ridurli discordi. II. Parve ai consoli che Appio ben consigliasse, ed essi, e gii altri de’più potenti si afiàticarono vivamente, perchè quattro de’ tribuni si dessero ai voleri del Se> nato. Or questi cercarono alcun tempo persuadere colle parole Sicinio a desistere dalla mira che i terreni si' dividessero innanzi la fin della guerra. Ripugnando e giurando, e dicendo però costui protervissimamente, che vorrebbe piuttosto vedere la città caduta in poter dei Tirreni e di altri nemici, che lasciare placidi a sestessi que’ che godeansi le terre del pubblico, pensarono di prender quindi la bella occasione di parlare, e di operare contro tanta arroganza, non udita con piacere, nemmeno dal popolo. Adunque dichiararono che gliel proibivano ; e fecero svelatamente, quanto piacque al Senato, ed ai consoli. Dond’ é che Sicinio rimasto solo non era più 1’ arbitro di cosa niuna. Fecesi dopo ciò la iscrizion dell’ annata, e si apparecchiarono dai privati, e dal pubblico con ogni diligenza le cose tutte necessarie per la guerra. I consoli, tirata a sorte la spe. 127 dÌEioQ loro, uscirono ben (osto all'aperto, Spurio Furio contro le città degli Equi, e Fabio Casone contro i Tirreni. Corrispondevano i successi appunto ai disegni di Spurio ; non avendo i nemici nemmen cuore di venire alle mani : e potè di quella spedizione raccogliere danari e prigionieri in buon numero ; imperocché per poco non scorse tutto il territorio nemico, menando o portando via. Concedè tutte le prede in dono ai soldati : e se parea già da gran tempo l’amico del popolo; più che mai se lo accarezzò con tal suo capitanato. Del quale, finito il tempo, ricondusse l’ esercito intero, inviolato, ricchissimo divenuto, alla patria. IIL Fabio Cesone diresse nemmeno bene il comando deir armata, por andò privo delle lodi delle opere, non per colpa sua, ma perchè fin d’ allora che fe’ giudicare, e dare a morte Cassio il console, come intento alla tirannide, non avea più lafiètto del popolo. Donde che li soldati suoi non erano disposti nè ad ubbidire colla prestezza la quale abbisogna al duce, che ordina, nè ad espugnare con ardore quantunque muniti di fòrze convenienti, nè a guadagnare colle insidie i posti opportuni al buon successo, nè a fare cosa niuna dalla quale raccogliesse onore e fama buona pe’ comandi che dava. Le altre iocongruenze poi colle quali spregiavano esso capitano erano per lui meno gravi, nè di tanta rovina per la patria. Se non che quel che fecero in ultimo creò pericolo non lieve, e grande ignominia per ambe> due. Imperocché scesi a battaglia campale fra i due colli su quali alloggiavano diedero molte e splendide prove di valore, fin a scingere i nemici a dar volta ; non però gl' inseguirono nella fuga, sebbene il capitano ve gli scongiurasse, né vollero con fermezza asserliame gli alloggiamenli ; ma lasciata la bell opera imperfetta, si ritirarono alle proprie trincee. Anzi tentando il console capitano dire alcune cose : molti a gran voce ne lo beffarono, e redarguironlo che avesse per la im> perizia sua nei comandare, fatto tra lor la rovina di tanti valentuommi: ed aggiungendo altre maldicenze e querele, esigerono che sciogliesse il campo, e li riconducesse a Roma, come insufficienti ad una seconda battaglia, se il nemico su loro tornasse. Nè puntò si pie garouo per le ammonizioni, nè si commossero pe’ g> miti, e per le suppliche di lui, nè le grandi minaccie ne riverirono { ma sd^nandosene ognora più si ostinarono. Per le quali cose tanta, e tanto universale fu la insubordinazione, e il dispregio pel capitano; che le-vatisi intorno la mezza notte, dismisero le tende, e raccolsero le armi ; trasportandone li feriti, senza comando ninno. ly. Il duce vedendo ciò fu costretto dare il segno per tutti della partenza ; temendo 1 audacia e l’ anarchia loro : ed essi come salvatisi colla fuga, pervennero in gran fretta su 1’ alba presso di Roma. Le guardie delle mura ignorando che fossero amici, brandirono le armi, e chiamaronsi a vicenda ; e tutto il resto della ciltè si empiè di confusione e tumulto, come per grande sciagura : nè si aprirono le porte, se non a di luminoso, quando si ravvisò eh’ era 1’ esercito loro. Questo poi, Secondo ua’ altra leiione il teaio Mrebbe : ami tentando aieuni dare ai cotuoU nome d' Imptradore ec. per tacere la infamia deli' abbandono del campo, corse a riscbio non lieve, traversando disordinatamente di notte le terre nemiche. Imperocché se gli emoli se ne avvedevano, e lo inseguivano, niente impediva che lo sterminassero. Cagione, come ho detto, di questa irragionevol partenza, o fuga, fu l’odio del popolo contr dei capitano, e la invidia su la onoriBcenza di lui, af> finché più autorevole non divenisse per la gloria del trionfo. I Tirreni conosciutane al quovo di la rimozione, spogliarono i cadaveri de’ Romani, presero e trasportarono i feriti, e saccheggiarono nelle trincee tutti gli apparecchi, certamente ben grandi, come per guerra diuturna. Alfine dopo avere, quasi vincitori, depredate le terre nemiche più prossime, ricondussero in patria 1’ armata. V. Creati consoli dopo questi Cajo Malllo, e Marco F abio per la seconda volta, siccome il Senato decretò, che marciassero contro Vejo con armata quanta po> teano numerosa, intimarono il giorno per la iscrizioa dei soldati. Ben pose loro Impedimento per questa Til>erio Pontificio T uno dei tribuni con reclamare il de-creto su la partizione delle terre : ma essi, come aveano fatto i consoli antecedenti, guadagnando altri de’ tribuni, disunirono que' magistrati, e cosi diedero esecnzlone pienissima ai voleri del Senato. Finita in pochi di la coscrizion militare, uscirono contro de’ nemici ; conducendo ciascuno due legioni, reclutate dalf interno di Roma Catone Varrons] Roma, e milizia non minore ; spedita dalle colonie e da’ sudditi. Giunse dai Latini e dagli Emici il doppio del soccorso intimato, non però li consoli lo usarono tutto, ma rimandandone la metà, li ringraziarono amplissimamente di tanto buon animo. Accamparono innanzi di Roma una terza armata floridissima di due legioni, per guardia del territorio, se mai vi si presentasse altro esercito nemico improvviso ; e lasciarono a difenderne le fortezze e le mura gli altri non più compresi nella iscrizion militare, ma validi ancora per le armi. Quindi guidando gli eserciti fin presso di Vejo ne misero il campo su due colli non molto lontani fra loro. Accampavasi davanti la città l’armata nemica, numerosa e buona pur essa ; anzi maggiore non poco della Romana per esservi accorsi i primarj di tutta la Etmria co'lor dipendenti. All’aspetto di tanta moltitudine, allo splendore delle armi, assai temerono i consoli di non listare a vincere, se metteano l’ esercito loro non bene concorde a fronte dell’ esercito unanime de’ nemici. Adunque deliberarono i consoli fortificare il campo, e prender tempo, finché l’ audacia nemica, elevata da un irragionevol disprezzo, desse loro la opportunità di ben fare. Seguivano dopo ciò preludj continui di battaglie, e brevi scaramucce di soldati leggeri ; non però mai nulla di grande o di lumino). VI. Mal soffrendo t Tirreni la dilazion della guerra accusavano i Romani di viltà perchè non uscivano a battaglia, e magnifica vansi, quasi avessero questi ceduta loro r aperta campagna. Anzi tanto più si elevavano a spregiare le milizie nemiche e vilipenderne i consoli ;. 1 3 I quanto che credeano gl’ Iddj combattere pc’ Tirreni. E certo caduto un fulmine nel quartiere di Cajo Mallio ]' uno de’ consoli, ne abbattè la tenda, ne mandò sosso pra i focolari, ne macchiò le arme, le bruciò d’ intor no, o in tutto glie le distrusse ; e ne uccise il più co spicuo de’ cavalli dei quali valessi nel combattere, ed alquanti de’ servi. E condossiacbè gl’ indovini diceano che i numi annunziavano la presa del suo campo, e la rovina de’ personaggi più riguardevoli ; Mallio levò l’ e centrò nel campo stesso del compagno. I Tirreni conosciuta la traslazione, ed uditane la causa da’ prigionieri, s’ ingrandirono tanto più nel cuor loro, quasi il cielo ancora guerreggiasse i Romani; e moltissimo confidarono di vincerli. E gl’indovini loro i quali sembrano aver meglio che quelli di altri popoli esaminato i segni superni, e d’onde scoppino i fulmini, e dove finiscano dopo il colpo, da qual Dio vengano, e con quale presagio di bene o dì male; esortavano che si andasse al nemico, inlerpetrando il segno avvenuto a’ Romani in tal modo : poiché il fulmine cadde nella tenda consolare ov' è il centro del comando, e disfecevi tutto insino ai focolari ; egli è indizio divino a tutto l’ esercilo deir abbandono del campo espugnato a forza, e della rovina de' più riguardevoli. Se dunque, diceano, coloro che ebbero U fulmine restavansi nel luogo fulminato, nè trasportavano ciocci erano significato infra gli altri ; la presa di un campo, e la distruzione di un’armata sola avrebbe appagato lo sdegno del nume cite U contrariava. Ma perciocché cercando precedere col senno gli Dei si trassero aiì aluo campo, lasciato deserto il proprio, quasi il segno celeste fosse pel luogo non per gli uomini ; quindi è che [ ira ' dà' ina fulminerà lutti e chi trasmutatasi, e chi li raccolse. E siccome mentre la necessità divina prenunziava la presa del campo essi non aspettarono, ma lo cederono di per sestessi a nemici, così non il campo abbandonato sarà preso di forza, ma quello che ricettò chi lo abbandonava. I Tirreni, udite tali cose dagl’indovini, invasero con parte dell’ esercito il campo derelitto da’ Romani, per valersene, contro dell’ altro. Erane il luogo ben forte, e mollo accomodato per impedire chi da Roma andava all’ esercito. Fatte poi diligentemente altre cose colle quali superar l’ inimico, recarono in campo 1’ armata. Ma standosene i Romani in calma, i più audaci fra loro scorsi e fermatisi a cavallo presso le trincee, rampognarono tutti, quasi femmine : e dicendo simili i duci loro agli animali più timidi, gli sbeffavano, e chiedeano l’ una delle due, vuol dire ; che se disputavano altrui la gloria delle armi ; scendessero in campo, e ne decidessero con una sola battaglia : ma se riconosceansi per codardi ; cedessero le arme ai più forti, subissero la pena delle opere, nè più aspirassero a nulla di grande. Replicavano altrettanto ogni giorno: ma per ciocché niente ne proGttavano ; deliberarono rinserrarli intorno intorno con muro, per astringerli, almeno colla fame, alla resa. consoli lungo tempo guardarono solamente ciocché facevasi non per codardia nè per molIcsza, essendo Tuno e l’ altro animoso e guerriero; ma perchè temevano il mal talento, e la ritrosia nata e perpetuatasi ne’ soldati plebei fin d’ allora che il popolo tumultuò per la division delle terre. Ancora stavano loro su gli orecchi, e su gli occhi le cose che avea fatte nell’ anno precedente per astio sul console, vituperose né degne di Roma, cedendo la vittoria ai vinti, e sostenendo fin gli obbrobrj di una fuga non vera, affinchè colui non trionfasse. Vili. Volendo tor vii finalmente dall’ esercito la sedizione e richiamare alla concordia primitiva la moltitudine ; e dirigendo a ciò tutti i disegni e le providenEe ; poiché non poteano ravvederla uè co’ supplizj parEÌali come protervissima ed armata, nè co’ discorsi come insofferente di essere persuasa, concepirono che due vie rimarrebbero per la riconciliazione; vuol dire; la infamia di essere vilipeso da’ nemici per gli uomini (che pur ce ne avea ) d’ indole moderata, e la necessitò, coi tutti paventano, per gl’ indocili al bene. Adunque per effettuare ambedue queste cose, lasciarono che i nemici li disonorassero colle parole, biasimando la calma loro come la calma de’ vili ; e li necessitassero coi fatti pieni di arroganza e disprezzo a tornar valentuomini, se tali non dimostravansi per sestessi. Speravano, se ciò faceasi, grandemente che accorrerebbero tutti al quarlier generale fremendo, gridando, ed istando di esser condotti al nemico. Or ciò appunto addivenne ; imperocché non si tosto prese il nemico a rinchiudere con fossa e steccalo le uscite dal campo, i Romani considerata la indegnità dell’ opera, ne andarono prima in pochi, indi in folla alle tende dui consoli, c vi schiamazzarono, e come di tradimento li redarguirono; protestando infine die se niun de’ due li guidava, essi di per sestessi volerebbero colle armi alla roano su gli avversar). Ciò fatto da tutti, giudicando i consoli venuta alfine la opportunità che aspettavano, imposero agli araldi di chiamarli a parlamento. Allora Fabio recatosi innanzi disse : Sohìati, capitani, tarda è la vostra indignazione su vilipendj che vi si Jan da’ nemici ; nè più in tempo è la volontà che at'ete di combatterli, pei'che m annestatasi troppo dopo il bisogno. Allora doveasi ciò fare quaruìo li vedeste la prima volta scendete dalle trincee, e cercar la batiaglia: jdllora bello era il combattere pel comando, e degno della sublimità de’ Romani. Ora necessario ne si è reso, e certo non di egtuile decoro, quatulo ancora vincessimo. Nondimeno sta pur bene che vogliate una volta ri' scuotervi, e riavervi delle occasioni tralasciate, E molto siete lodevoli per tale ardore verso le nobili gesta ; imperocché procede da virtù, e vai meglio cominciar ciocché deesi aruhe tardi, che mai. Ed oh! cosi tutti V abbiate sentimenti consimili per t util vostro, e vi animi tutti uno zelo medesimo per combattere. Paventiamo noi però che i trasporti de’ plebei contro de’ magist rati per la division delle terre, siano cagione al pubblico di sciagure, E ciò noi paventiamo, perché i clamori, e le istanze, e la insofferenza per uscire, non è forse in tutti t ejffctto di un disegno medesimo. Ma quali di voi anelale uscir dai campo per punir f inimico ; e quali per fuggirvenc. E cagione del tintor nostro non sono già gl’indovini, non le congetture; ma fetui più che notorj e non antichi, anzi freschi delt anno precedente, come tutti sapete, quando uscendo contro questi nemici medesimi un esercito nostro numeroso e forte, e pigliando fn la prima battaglia un esito propizio per noi, mentre Cesane mio fratello, console condottiero poteva espugnare gli alloggiamenti loro e riportare alla patria una vittoria luminosa, alquanti presi da invidia della gloria di lui perchè nè era popolare nè mirava nel suo governo a far le voglie de’ poveri, levarono le tende la notte stessa dopo la battaglia, e fuggirono fuori di ogni comando, senza valutare il pericolo che comprendevali nelf andare privi di ordine e di capitano per le terre nemiche, e fra la notte, e senza riguardare quanta vergogna ri avrebbero, perchè quanto era in loro, cedevano C impero a nemici, essi già vincitori ai viziti. Tribuni, centurioni, soldati ! in vista di tali uomini, non buoni nè per dominare, nè per farsi dominare, che pur sono molti e caparbii, e colle armi, non abbiamo noi fin qui voluto la battaglia, nè osiamo ancora per tali compagni decidere in campo la somma delle cose, perchè non sian essi tT impedimento e di danno a chi presenta tutto il buon animo. Ma se la divinità richiami ancor essi a buon senno, se, lasciate da parte le discordie per le quali ha il nostro comune tanti mali e sì gravi, e differitele ai tempi di pace, vorranno redimere ora col valore { obbmbrio passalo: niente impedisce che ne andiamo caldi di belle speranze al nemico. Oltre le tante opportunità di vinrere, le più. grandi e più solide ce le porge la stoli^ dità degli avversar] medesimi. Costoro superiori a noi di molto nel n limerò, ed atti con ciò solo a contrahhilanciare t animosità e perizia nostra, han privato sestessi fin di quest’ unico vantaggio, consumando il più delle milizie in guardia delle loro fortezze. Ap-presso, quantunque dovrebbero fare ogni cosa con diligenza e saviezza considerando con quali e quanti grand uomini abbiano a misurarsi, pur vanno conarroganza ed incuria al cimento, come sian essi invincibili, e noi sopraffatti dal terrore di essi. E le fosse con che ci cingevano, e le corse a cavallo fin sotto ai nostri alloggiamenti, e tan^ altre ingiurie colle parole e colle opere, questo appunto dimostrano. Or via dunque, ciò riguardando e le tante e sì belle antiche battaglie nelle quali gli avete vinti : andatene con ardore a questa ancora. E quel luogo dove ciascuno sarà collocato, quello concepisca essere la casa, i poderi, la patria sua : concepisca che chi salva il vicino in battaglia salva sè ancora: e che abbandona sestesso a nemici chi abbandona il compagno. Ilammentatevi soprattutto che di quelli che persistono valorosi e combattono, pochi no soccombono ; laddove pochi ne scampano, e a stento, di quelli che piegano, e figgano. X. Egli seguitava ancora, in mezzo a lagrime copiose, tal discorso animatore, e chiamava a nome ciascuno de’ tribuni, de’ centurioni, e de’ soldati, nolo a lui per le belle prove di valore date nel combattere, e prometteva a chi più segnalato sarebbesi nella batlaglia molti e gran pegni di benevolenza, onori, r;c> cliezze, soccorsi d’ ogni guisa in parità delle imprese ; quando proruppe da tutti una voce che inviuvalo a con6dare, e portarli al nemico. Cessata questa, gli si fece innanzi dalla moltitudine Marco Flavoleio, plebeo di condizione ed arteGcc, non vile però, ma per le sue virtù pregiato, e prode in guerra ; e per tali due rispetti condecorato in campo di una presidenza luminosa, cui sieguono ed ubbidiscano per legge sessanta centurie. I Romani chiamano primipili nel patrio idioma tali condottieri. Or quest’ uomo, altronde grande e bello, postosi in parte, donde fosse a lutti visibile, alfine disse: K oi temete, o consoli, che le opere nostre non corrispondano alle parole ? Io per il primo vi darò su mestesso le assicurazioni meno equivoche della mia promessa. E voi cittadini, voi compagni della sorte medesima, voi che avete risoluto di pareggiare ai detti le opere, non sbaglierete facendo quanto io fo. E qui, sollevando la spada, giurò con formola sacra e solenne ai Romani, per la sua buona fede, di non tornare, se non dopo vinti i nemici, alla patria. Sorsero al giuramento di Flavoleio lodi amplissime d’ogn’intorno. Fecero bentosto altrettanto i consoli e mano a mano i duci minori, tribuni e centurioni ; e la moltitudine finalmente. Yidesi dopo ciò molto buon animo in tutti, molta benevolenza fra loro, molta confidenza, e fermezza. Partiti dall’ adunanza, chi metteva il freno ai cavalli, chi le spade aguzzava e le lance ; e chi riforbiva gli scudi ; ond’ è che tra poco tutta 1’ armala fu in pronto per la battaglia. I consoli, invocali gl' Iddìi con voti, con ugrifizj, con suppliche, perchè fossero i duci essi stessi di quella uscita, portavano fuori degli steccati l’esercito, schierato in buon ordine. I Tirreni vedutili scendere dalle loro trincee, ne stupirono, e vennero ad incontrarli con tutte le forze, XI. Come furono gli uni e gli altri sul campo, e le trombe annunziarono il seguo delta battaglia, corsero quinci e quindi con alti clamori. E fattisi i cavalieri su i cavalieri, ed i fanti so i fanti; pugnarono, e molu fu la occisione in ambe le parti. I Bomani dell’ala destra comandati dal console Mallìo malmenavano il corpo che li contrastava, e smontati da cavallo combattevano appiedo: ma quelli dell’ala sinistra erano circondali dal corno destro de’ nemici. Imperocdiè essendo ivi la milizia tirrena più elevata e più numerosa, i Romani ne erano battuti, e coperti di ferite. Comandava in questo corno Quinto Fabio luogotenente e già due volte console. Egli resistè lungo tempo, ricevendovi ferite sopra ferite ; ma poi trafitto da una lancia nel petto fino alle viscere, esangue ne stramazzù. Come ciò udì Marco Fabio il console che crasi ordinalo nel centro, pigliò seco i più bravi, e, chiamato Fabio Cesone l’uno dei fratelli, marciò verso 1’ altro Fabio . E proceduto buon tratto, e trascorso all’ala destra de’ nemici, venne a quelli che circoudavano i suoi. Dato l'assalto, causò strage cupa a quanti avea tra le mani, e fuga ad altri che erano da lontano. Trovato il fratello che respirava Il ferito. Par questo il senso migliore. Nel testo si legge in luogo di Fabio. Qui dunque si hanno tre Fabj, Marco, Quinto, c Cesone, fiaiclli lutti tre. ancora, lo soUcTÒ; ma questi non molto sopravvivendo, morì. Crebbe qui l’ira a’ vendicatori suoi su’ nemici. Nè più riguardando la propria salvezza lanciatisi in piccieda sebiera nel mezzo di essi, dove erano più folti, vi alzarono monti di cadaveri. Pericolò da questa |>arte la milizia toscana, ed essa che prima incalzava en incalzata dai vinti. Per l’ opposto c|oelli dell’ala sinistra che gii crollavano, e gii meticvansi in piega li dove era Mallio, quelli fugarono i Romani contrapposti. Imperoo cbè trafitto Mallio con una lancia da banda a banda in un ginocchi o, c riportato da’ suoi che lo circondavano agli alloggiamenti ; i nemici lo credettero estinto, e se ne animarono ; ed assistiti pur da altri forzavano i Romani, ridotti senza duce. I Fal^ dunque lasdalo il corno sinistro furono di nuovo astretti a soccorrere il destro. I Tirreni, vistfli che venivano con esercito poderoso, desisterono dall’ inseguire : e strettisi fra loro, combatterono io ordinanza, perdendovi molti de’ loro ; e molti nocidendovi de’ Romani. XII. Intanto i Tirreni ebe avevano invaso gli alloggia menti lasciati da Mallio, aizaione il segnale dal capitano, marciarono con gran fretta ed ardore verso gli altri alloggiamenti Romani perchè non bene forniti di guardie. Era il loro concetto verissimo ; perché tolti i triarj e pochi giovani, non v’ erano se non mercadanii, e servi, ed artefici. Ma ristringendosi molti in picciolo spazio presso le porte, ebbevi una viva e terribile zuffa con strage copiosa e vicendevole. Accotzo con i cavalieri Mallio il console per ajuto ; cadde col cavallo, nò potendo risorgere per le molle ferite vi morì. Perirono ancora intorno a lui molti giovani valorosi : e per tale infortunio gli alloggiamenti furono espugnati ; vcriGcan dosi cosi li vaticini fatti ai Tirreni. E se avessero ben usato la sorte presente, e guardato quegli alloggiamenti; sarebbero stati gli arbitri delle provvigioni de’ Romani e gli avrebbero costretti a partire obbrobriosamente : ma datisi a predare le cose rimastevi, e li più a ristorarsi ancora, lasciaronsi fuggir di roano una bella occasione. Imperocché nunziatasi appena all’ altro console la presa del campo, accorsevi co' fanti e cavalieri migliori. Li Tirreni saputo che veniva cinsero le trincee ; e fecesi battaglia ardentissima tra chi voleva ricuperar le sue cose, e chi temea, se ricuperavansi, 1’ ultimo eccidio. Ma traendosi in lungo, e riuscendovi migliore assai la condizione de' Tirreni, perchè combatteano da luogo elevato contra uomini stanchi dal 'combattere di tutto il giorno; Tito Siccio legato e propretore, consigliatosene con il console, intimò la ritirata ; e che si riunissero ed attaccassero tutti le trincee dal canto più facile. Trascurò la banda verso le porte per un discorso plausibile che non lo ingannò; per questo cioè, che i Tirreni sperando salvaf&i, ne uscirebbero : laddove se di ciò disperavano circondati da nemici senza uscita niuna; sarebbero necessitati a far cuore. Portatosi in una sola parte l’assalto; non più si diedero i Tirreni a resistere; ma spalancate le porte, salvaronsi ne’ proprj alloggiamenti. II console, rimosso il pericolo, scese di nuovo a dar soccorso nel piano. Dicesi che questa battaglia de’ Romani fu maggiore di tutte le antecedenti per la mollltudine degli uomini, per la durazione del tempo, e per l’ alleraarvi della sorte ; imperocché venti mila erano i fanti, tutti di Roma, floridi e scelti, oltre mille dugento cavalli che univansi alle quattro legioni ; ed aU trettanta era la milizia de’ coloni, e degli alleati. La }>attaglia conunciaia poco prima del mezzogiorno si estese 6no air occaso, e la sorte ondeggiò quinci e quindi gran tempo tra vittorie e tra perdite. Occorsevi la morte di un console, di un legato, stato due volte console, e di tanti altri capitani, tribuni, e centurioni, quanti mai piu per addietro. Il buon esito della giornata fu creduto de’ Romani non per altro, se non perché li Tirreni fra la notte lasciarono il proprio campo, e passarono altrove. Il giorno appresso fattisi i Romani a saccheggiare il campo Tirreno abbandonato, e seppellire le morte spoglie dei loro,tornarono agli alloggiamenti. Dove riunitisi a parlamento diedero i premj di onore a quelli che avevano combattuto da valorosi, e primieramente a Fabio Gesone fratello del console, che avea fatto grandi, e meravigliose gesta : in secondo luogo a Siedo, cagione che gli alloggiamenti si ricuperassero ; ed in terzo a Marco Flavoleio duce di una legione, si pel giuramento, che per la magnanimità sua tra pericoli. Rimasero dopo ciò per alquanti giorni nel campo ; ma ninno più dimostrandosi per combatterli tornarono alla patria. In Roma per battaglia si grande laquale prendea fine bellissimo, voleano tutti aggiungere r onor del trionfo al console che tornava : ma il console stesso noi consentì, dicendo, non essere pia cosa, nè giusta, che egli s’ avesse pompa e corona trionfale per la morte del fratello e del collega. E qui lasciate le insegne, e congedalo 1’ esercito, depose ancora i) consolato due mesi prima del termine suo, non po> tendo ornai più sostenerlo per la grande finta che lo travagliava e riduoevalo in letto. Il Senato scelse gl’ interré pe’ comizj, e convocando il secondo interré la moltitudine nel campo Marzo, vi fu nominato console Tito Yerginio, e per la terza volta Fabio Cesone, colui che ebbe i primi premj della battaglia ed era fratello insieme del console, che avea deposto il comando. Questi, decidendo ciascuno per sé l’esercito col mezzo ddle sorti, uscirono in campo, Yerginio per combattere i Yejenti e Fabio gli Equi che scorrevano, depredando, le campagne Latine . Gli Equi all’ udire che i Romani venivano, si levarono iu fretta dalle terre nemiche, e ritiraronsi alle proprie città, sopportando che si derubassero le terre loro : tanto che il console col subito venir suo s impadroni di danari, di persone, e di altre prede in copia. Si tennero i Vejenti in principio tra le mura ; ma quando parve loro di avere il buon ponto, usarono su’ Romani sbandati, ed intenti alla rapina delie campagne. E perciocché piombarono numerosi, in buon ordine contro di essi, non sedo ue ritolser le prede; ma uccisero, o fugarono quanti si opposero. E se Tito Siccio legato non accorreva, e li frenava, con soldatesca ordinata appiedi e a cavallo, niente .impediva che I’ esercito in tutto si distruggesse. Ma giunto lui per impedir ciò, si affrettaci) Adoo di Room 37S aecaudo Catone, 377 secondo Marrone e 479 av. Cristo] I 43 rono a rlunirsegli, senza eccettuarne alcuno, tutti i dispersi. Coocenlralisi tutti occuparono a sera un colle, e vi pernottarono. Animati dalla prosperità li Vejenti accamparonsi presso del colle e chiamarono altri dalla città, quasi avessero addotti i Romani in luogo, privo in tutto de’ viveri, e poiessero tra non molto necessitarli ad arrendersi. Accorsavi gran moltitudine, si misero due campi ne’ lati possibili ad espugnarsi del colle ; ed altre picciole guarnigioni in siti men facili ; tanto che tutto ribbolliva di armati. Fabio l’ altro console intendendo per le lettere del compagno che gli assediati nel colle erano agli estremi, e sul punto ornai di rendersi per la fame, se alcuno non li soccorreva ; raccolse 1’ esercito, e corse su’ Vejenti. E se giungeva un giorno più tardi; niente gli sarebbe valuto, ma trovato avrebbe l’ esercito rovinato. Imperocché quei del colle costretti dalla penuria ne uscirono per correre a morte più onorata ; e fattisi alle prese co’ nemici, combattevano esausti dalla fame, dalla sete, dalla veglia, da ogni disagio. Ma dopo non molto, quando videsi l’esercito di Fabio che giungeva numeroso, in buon ordine, tornò la conBdenza ne’ Romani, e la paura negli avversar). Dond’ è che i Tirreni più non estimandosi acconci per fare giornata cx>ntro di un esercito fresco e potente, abbandonarono l’ impresa, e partirono. Ma non si tosto le due armate Romane si ricongiunsero, fecero un amplisnmo campo in luogo munito presso della città. Trattenutisi quivi più giorni, e saccheggiatone il meglio del territorio di Vejo; rimenarono in ‘patria gli eserciti. Avvedutisi i Vejenti che le milizie Romane eransi levate dalle insegne, presa ia gioventù più spedita che essi tenevano ia arme, e quanta ne era presente de’ loro vicini, si gettarono su campi confinanti, e li depredarono pieni di fratti, di bestiami, di uomini ; per essere i contadini calati da’ castelli a pascere i bestiami c lavorare le terre su la fiducia che aveano nell’ esercito Romano trincierato innanzi di loro. Non eransi questi ai partir dell’esercito affrettati a ritirarsi colle cose loro, non temendo che i Vejenti, tanto danneggiati, dessero cosi pronta la ripercossa a’ nemici. Fu la irruzione de’ Vejepti piccola se se ne guardi il tempo ; ma grandissima per la quantità de’ campi saccheggiati : ed avanzatasi fino al Tevere verso il monte Gianicolo a meno di venti stadj da Roma ; le recò dolore e vergogna insolita ; non essendovi sotto le insegne milizie che impedissero a quella di estendersi. Cosi l’esercito de’ Vejenti prima che queste si riunissero ed ordinassero, corse desolando, e parti. XV. Adunatisi quindi il Senato e i consoli, c datisi a considerare in qual modo fosse da far guerra a’ Vcjenti ; prevalse il partito di tener ne’ conOni milizie di osservazione pronte sempre in campo per la difesa del territorio. Couturbavali che grande ne diverrebbe il dispendio, laddove l’ erario era esausto per le imprese continue, nè più bastavano i beni ai tributi ; e molto più contnrbavali la recluta di tali presidj da spedirsi perocché ninno voleva star in guardia per tutti: dovendosi travagliare non a volta a volta, ma sempre. Essendo per tali due cause mesto il Senato; i due Fabj (a) 1 due Fabj sono Marco Fabio, e Fabio Cesoue nomiaati di topna.; 145 convocarono qnanti partecipavano il loro lignaggio. Con saltatisi, promisero al Senato di andare spontaneamente essi per tutti a tal rischio, conducendo seco amici e clienti, e militandovi a proprie spese ; finché durerebbe la guerra. Ed esaltandoli per la disposizion generosa, e contando tutti di vincere anche per (jnesta opera sola, pigliarono essi famosi in città le aripe tra’sagrifizj e tra i voti, e ne uscirono. Era duce loro Marco Fabio il console dell’ anno precedente, quegli che vinse i Tirreni in batuglia. Esso menava presso a poco quattro mila, clienti per la maggior parte ed, amici, ma trecento sei ve n’ erano delia stirpe de’Fabj. Usci non molto dopo su le orme loro l’armata Romana, comandata da Fabio Cesone, Tuno de’ consoli. Avvicinatisi al Cremerà, fiume non molto discosto da Vejo, fordficaroiio su di una balza precipitosa e dirotta un castello opportuno a difendere tante milizie, e vi scavarono intorno doppie fosse, e vi elevarono torri froquenti. Cremerà fu nominato ancor esso il castello dal fiume. E conciosnachè molti esercitavano, ed il console stesso coadiuvava quel lavoro, fu terminato prima che noi pensassero. Allora cavò r esercito, e marciò su 1’ altra parte alle terre dei yejenti, poste incontra al resto della Etruria, dove quelli tenevano i bestiami, non aspettandovi mai l’arme Romane. Fattavi gran preda se la recò nel nuovo castello, esultandone per due cause, cioè per la vendetta non tarda pigliata su’ nemici, e per 1’ abbondanza che dava copiosissima ai soldati che lo presidiavano, percioc chè niente ne riservò per l’ erario, o ne dispensò tra lo DIONIGZ, tomo in. 1 sue milizie, ma tulio concedette a quelli che guarda^ vano la regione, greggi, giumenti, gioghi di buoi, ferramenti, e quanto era utile per la coltura. E dopo ciò rlmenò 1’ esercito a Roma. Erano dopo fondato il cartello i Vejenti a mal termine ; non polendo nè lavo t^re con sicurezza le terre, nè ricevere esterne vetto> vaglie. Imperocché li Fabj diviso in quattro parti la gente loro, con una difendevano il castello, e le tre altre scorrevano la regione nemica pigliando, e traspor> landò. E quantunque molte volte i Vejenti gli assalirono con truppe non poche nell’ aperto, e se li tirarono dietro in terre piene d' insidie ; essi nondimeno vinsero r uno e r altro pericolo ; e fatta glande uccisione, n ricondussero salvi al castello. Pertanto non osavano più li nemici d’ investirli, ma tenendosi per Ib più tra le mura, np faceano furtive sortite. E cosi ne andò quel r inverno. XVI. Entrati l’anno appresso (a) in consolato Lucio Emilio, e Cajo Servilio, fu nunziato a’ Romani, che i Volsci e gli Equi eransi convenuti di portare su loro la guerra, e d’ invaderne tra non molto le terre; e verissimo ne era 1’ annunzio. Imperocché, armatisi gli uni e gli altri prima dell’ aspettazione, corsero, e devastarono, ciascuno, la regione vicina a sestesso, persuasi che non potrebbono i Romani combattere in un tempo i Tirreni, e rispiiigere altri che gli assalissero. Poi so Cioè quelli i quali prcaidiavauo il casiello aoUo gli auspicj di Marco Fabio. Roma Catone Varroae] {iravveiiendo altri ridicevano che I’ Elriiiia tutta levavasi in guerra coulro i Romani, e preparavasi di s[>edire ia comune un soccorso a’ Vejenti. Or lo avevano i Ve> jenti f incapaci di espugnare il castello, imploralo qu> sto soccorso ; commemorando la unità del sangue, 1’ amicizia, e le tante guerre che aveano insieme combattute. Anzi aVeano dimandata l’ alleanza loro nella guerra co’ Romani non si per questi riflessi, come per quello ancora, che i Vejenti erano su la frontiera dell’ Etraria ; e frenavano una guerra, che versavasi da Roma su tutta la nazione. Convinti di tanto i Tirreni promisero mandare tutti i sussidj che richiedevano. Per 1’opposto il Senato, informatone, risolvette spedire tre eserciti. Ed arrolate in fretta le milizie; fu spedito Lucio Emilio sa i Tirreni. Usci pur con esso Fabio Ceso ne, colui che avea di fresco deposto il comando, ottenuta dal .Senato la facoltà di ricongiungersi in Cremerà, e partecipare t pericoli della guerra colle genti Fabie che il fratello aveaci condotte in difesa del luogo : ma egli v’ andava co’ suoi compagni ornato di autorità proconsolare. Cajo Srrvilio l'altro console marciò contro i Volsci, e Servio Furio proconsole contro gli Equi. Seguivano ciascun di essi due legioni Romane, e truppe alleate non minori di Eroici, di Latini, e di altri. Servio il proconsole espedì la guerra con termine rapido e lieto ; perciocché fugò gli Equi con una battaglia, e senza stento ; impaurendoli al primo investirli : e poi rifuggitisi questi ne’ luoghi forti ; ne devastò le campagne. Ma Serviliu il console fattosi a combattere con fretta ed orgoglio, incontrò ben altra sorte da quella che ne aspettava: Opposiiglisi i Volsci bravissimameote, vi perdette molti va lentuomini: tanto che si fidasse a non far più battaglia: ma standosi negli alloggiamenti, deliberò di mantenere la guerra con tenui mosse e scaramuccie de’ soldati leggeri. Lucio Emilio mandato nell’ Etruria, trovando accampati innanzi della città li Yefenti con grandi rinforzi di quella nazione, non indugiò per imprendere : ma dopo un giorno da che erasi trincerato, presentò le schiere in battaglia. Vi si lanciarono' i Vejenti arditissimamente: ma divenuta questa eguale in ambe le parti; prese i cavalieri, e. gli avventò su 1’ ala destra de’ nemici ; e perturbatala; corse su la sinistra, combattendo a cavallo dov’era luogo da cavalcarvi, e dove no, smontando, e combattendo a piede. Venute in travaglio ambedue le ale, nemmeno ' il centro potè più sostenersi, forzato dalla fanteria : e fuggirono tutti verso gli alloggitrmenti. Emilio allora gl’ inseguì con le milizie ordinate, e molti ne uccise. Giunto presso gli alloggiamenti diedevi con mute continue 1’ assalto, ostinandovisi tutto quel giorno e la notte seguente : finché nel giorno appresso languendo i nemici pel travaglio, per le ferite, e per la veglia, se ne impadronì. Quando i Tirreni videro i Romani trascendere le trincee, le abbandonarono, e fuggirono quali in città, e quali a’ monti vicini. Tennesì il console per quel di negli alloggiamenti nemici ; ma nel giorno prossimo onorò con doni convenienti i più segnalati in combattere, e concedette a’ soldati quanto era ivi stato lasciato, giumenti, schiavi, c tende piene di ogni ricchezza. E 1’ esercito Romano se ne ricolmò quanto non mai per altra battaglia; impe 1 4p rDcclièJi Tirreni vivono vita delicata e sontuosa in patria, ed in campo ; e portan seco, non che le cose necessarie, suppelletlili ancora di pregio e di artifizio, ond’ esserne in piaceri e delizie. Ne’ giorni appresso stanchi da’ mali i Vejenti spedirono ambasciadorì i più anziani della città cq^ modi de’ supplichevoli per trattare intorno la pace col console. Or questi sospirando, prostrandosi^ e dicendo,^ tra molte lagrime, quante cose mai sogliono impietosire; indussero il console a questo, che permettesse loro d’inviare oratori a Roma per dar fine in Senato alla guerra : e che non danneggiasse in tanto la terra loro, finché ne tornassero colie risposte. Ad ottenerne però questo, promisero, come volle il vincitore, dar grano per due mesi, e danari per sei pe’ stipeudj di tutta V armata. E portate, e ricevute, e dispensate tra' suoi tali cose, il console conchìuse con essi la tregua. Il Senato, uditi gii ambasciadori, viste le lettere del console che molto pregava, e raccomandava che si finisse il più presto la guerra co’ Tirreni ; deliberò dar la pace che dimandavasi : e che nel darla il console Lucio Emilio stabilisse le condizioni che gli sembrasser migliori. Il console a tale risposta si concordò co’ Vejenti, facendo una pace anzi umana, che utile pe’ vincitori, senza riserbare per essi delle terre, senza impor nuòve multe, nè garantire i patti cogli ostaggi. Or ciò lo mise in grand’ odio, e fu causa che non avesse dal Senato ringraziamenti, come savio nel procedere suo. Imperocché chiese il trionfo; ed i padri si opposero ; incolpando 1' arbitrio de' suoi trattati, definiti senza il pubblico voto. AlìGaché però nou sei prendesse ad ingiuria, nè sen corucciasse ; lo destinarono a portare le armi contro de’ Volaci in soccorso dell’altro console, perchè, come fortissimo nomo eh’ egli era, desse ivi, se poteasi, buon fine alla guerra, e dissipasse 1’ odio dell’ azion precedente. Ma costui sdegnato sa la negazion degli onori fece presso del popolo lunga accasa de’ senatori, cpiasi dolesse loro che spenta fosse la 'guerra co’ Tirreni. Diceva, che ciò facevano ad arte in conculcaménto de poveri, perchè i poveri, delusine già tanto tempo, non insistessero per la division delle terre, se tornavano dalle guerre di fuori. Queste e simili contumelie lanciò con indignazione vivissima su’ patrizj, e sciolse 1 armata che avea con lui combattuto, e richiamò, e congedò 1’ altra che era tra gii Eqni sotto Furio proconsole. Con die renelle conti ricchi i poveri. Presero quindi il consolato Cajo Orazio, e Tito Menenio nella olimpiade settantesima sesta, quando vinse allo stadio Scamandro da Mitilene, essendo in Atene Fedone P arconte^ Il torbido interno impedì questi a principio ne fatti del comune, fremendo la moltitudine, nè tollerando che si fornisse niuna pubblica cosa innanzi la divisione delle terre. Ma poi, vinto il popolo dalla necessità, lasciò quanto facea sommossa e tumulto, e ne andò spontaneo in sul campo. Imperocché le undici popolazioni Tirrene non comprese nella Roma Catone Varrone. stimi molto potere ai tribuni di malignare doni contro del Senato,, e di alienare n ciò principio alla guerra. Levaronsi, ciò convenuto, dal par- lamento. Indi a non mollo spedirono i Yejenti a raddo mandare' da’ F abj il castello, e già tutta 1' Etruria era sa r arme.I Romani, conosciuto ciò per lettere spedite da’ F abj, decretarono che uscissero ambedue i consoli r uno alla guerra che sorgea dall’ Etruria, e 1’ altro a quella che ardeva già co’ Yolsci. Orazio marciò con due legioni e con truppe alleate ben forti contro de’ Yolsci, Menenio dovea con altrettanta soldatesca incamminarsi contro r Etraria. Ma intanto che si apparecchia, e s’in> dogia ; il castello di Cremerà fu preso, e distratta la stirpe de’ F abj. La sciagura de’ quali si narra a due modi r uno non persUadevole, 1’ altro piò prossimo al vero. Io gli esporrò tutti due, come gli ebbi. XIX. Narraoo alcuni che sovrastando no patno sagrideio che doveasi porger da’Fabj, uscirono gli uomini con pochi clienti per compierlo, ed andarono, senza esplorare le strade, non ordinati sotto le insegne, ma incauti e negligenti, quasi passassero terre amiche, nei giorni lieti della pace. I Tirreni, saputane anzi tempo r andata, disposero tra via le insidie con parte dell e> sercito, mentre 1’ altra parte veniva in ordinanza non molto addietro. Approssimatisi i Fabj, sorsero i Tirreni dalle insidie, e gl’ invasero di fronte, e di fianco ; assalendogli non molto dopo da tergo il resto de’ Tirreni. Circondatili d’ ogn’ intorno con fionde, con archi, e dardi, e lance ; gli uccisero tutti colla moltitudine dei colpi. Or tale racconto a me sembra poco persuasivo. Imperocché non par verisimile, che tali uomini, addetti com’ erano alla milizia, ne andassero dal campo in città senza il voto del Senato per sagrìficarvi ; potendo il santo rito fornirsi per altri del lignaggio medesimo, già provetti negli anni. Che se tutti erano partiti d Roma senza che stesse ne’patrj lari alcuno de’ Fabj; nemmeno può credersi, che uscissero dal castello quanti di questi il guardavano; imperciocché se ne andavano tre o quat tro, bastavano a compiere il santo rito per tutta la prosapia. Per tali cagioni a me non sembra credibile questo racconto. L’ altro che io reputo piò verisimile su la distruzione di essi, come su la presa del cartello, così procede. Andando questi di tempo in tempo per foraggiare, e. spandendosi ognora più da largo, come quelli che prosperavano ne' tentativi ; i Tirreni, raccolte gran forze,, si accamparono, senza che il nemico ne sapesse, in luoghi vicini : poi facendo uscire da’ castelli masse di pecore, di buoi, di cavalli, come per pascere, accendevano i Fabj ad invaderli: ond’ è che venendo questi predavano i pastori, e menavano seco i bestiami. Davano i Tirreni di continuo tal ca, traendo i nemici sempre piii lontani dal campo : or quando ebbero con gli allstlameoti perpetui dell’ utile rallentate le provvidenze loro per la sicurezza; misero di notte gli agguati in luoghi opportuni, intanto che altri stavano su le allure per esplorare. Nel giorno appresso mandali innanzi alcuni soldati, come per difesa de’ pastori, cavarono mollo bestiame da’ castelli. Come fu nunziato ai Fabj, che se andavano di ià dai colli vicini, troverebbero ben tosto il piano ripieno d ogni bestiame senza valida guardia : lasciarono nel castello un idoneo presidio, e vi si diressero. E trascorrendo frettolosi, ardenti veri, e dicendo opera loro, quanto è l’opera di 'una sorte improvveduta, ed inevitabile ; li renderono insolenti, se già erano esasperati. Fra tanti mali i consoli spedirono con molti danari chi comperasse grano dai luoghi vicini : e comandarono che chi teneane in casa oltre i bisogni moderati della vita, lo recasse al pubblico: e destinatone i prezzi convenienti, e fatte queste e cose altrettali, ammansarono i poveri che si sfrenavano, e si rivobero di bel nuovo agli apparecchiamenti delia guerra. E certo tardando a giugnere le vettovaglie di fuori, e finite in breve le interne, non aveaci altro scampo da’ mali: ma doveasi neceariamente o rischiare tntte le forze e snidare i nemici dai territorio, o morire tra le mura per le discordie e la fame. Adunque elessero farsi incontro ai nemici, come al meno dei mali. E levatbi di città coll'esercito valicarono circa la mezza notte su picciole barche il fiume, e prima che il giorno fosse luminoso, già teneano il campo presso a’ nemici. Donde cavato nel giorno appresso 1’ esercito, 1’ ordiua Di ani illiberali • sordide. Silbtirgio inleade (|r. Quindi è che se dividasi 390U per laS risulta -i6. Casaub. le trasmutarono in, àlire di pecore e’ buoi, tassato anche il numero di questi per le ammende avveniife, che i magistrati imporrebbero su’ privati. La condanna di Menenio fa causa che i patriaj si sdegoas'sero col ppolo, nè più gli permettevano di fare la divisione delle terre, nè voleano in cosa ninna condiscendergli. Ma tra non' molto lu potilo il pplo de’ suoi giudizj, appunto nell’ udire la morte di Menenio.. Imperocché non crasi questi mal p(ù veduto nelle adunanze, o" ne’ pubblici luoghi: e polendo pagare l'ammenda (giacché non pochi de’ suoi eran pronti a soddisfarla pr esso ), e con ciò non perdere' niun pubblico diritto j non volle : ma giudicando pri la ingiuria alla morte; si tenne in casa, nè più ammise prsona, e rifinito dal dolore e dalla ’ fame ' abbandonò la vita. E tali sono le Operazioni di quest’ anno. Divenuti consoli Pulsilo Valerio Poplicòla e Cajo Nauzio, fa condotto a giudizio capitale anche un altro patrizio Servio Servilio, console dell’anno precedente, non laokò -dopo che aveva lasciato il coma'udo. Due tribuni Ludo Cedicio, e.Tito Stazk) erano quelli che lo accusavano’ al popolo chiedendo ragione non d' ingiustizia alcuna, ma degl’ infortuni suoi, perchè nella ballagUa co’ Tirreni spintosi egU fin sotto alle trincee nemiche con più ardirò che prudenza, e rincalzatone da quei d’ entro' che ne uscirono in copia, vi prJetle il meglio de’ giovani. Questo giudizio parve ai patrizi il più duro di tutti.' E congregavansì, e doleansi, Abdo di Roma 979 Mcoado Catoast aSi secondo Varrone, e 473 >r. Cristo] lG5 è teneano per gran male se il bell’ ardire, e il non ri cu sarsi ai pericoli accusarasi ne’ capitani che non tro vavan propizia la. sorte, e da quelli che non erano nemmeno stati ne’ perìcoli : dicevano, che qne’ giudizj aarebbero, coni’ era verìsimile, cagione di timori e di ignavia ne’ comandanti, e di non &r loro mai piu con cepire nuovi trovameoti : che perita ne sa.rebbe la libertà, come annientata.!’ antorità del capitano. Ed insistevano caldamente presso la plebe >. perchè non conrebbe il . danno se puoi vanti i dttci > pe’ successi non buoni. Venuto il tempo del giudizio, fattosi innanzi Lneio Cedicio, uno de’ tribuni, accusò Servilio di avere per imprudenza ed imperizia di comando menata i’ armata incontro a pericoli manifesti, e rovinato il Bore della repubbnca : tanto ohe se informalo beo tosto il console ' compagno della sciagura volando a lui coll’esercito, non respingeva i nemici, e salvava i suoi; niente impediva che non fosse disfatta anche tutta 1’ altra milizia, e che in avvenire per metà decadesse, non che si ampliasse la'' potenza di Ronìa. E cosi dicendo presentava per testimOnj i centurioni, quanti ve n’ erano, èd alcuni soldati, i quali, volendo rilevare sestessi dall’ infamia della disfatta e della foga, d’ allora, versavano sul capitano là colpa degl’ infortito) del combattimetnto. Quindi inspirando viva compassione, verso gli estinti in quella giornata, exl esagerando quel male, ne ricordò con. molto .disprezzo ancor altri, i quali detti in comune contro i ' patrìzj, scoraggiavano chiunque di loro volesse intercedere per Servilla ; é dopo ciò gli concedè la diiE Servilio pigliando a difendersi disse ^ Ciftadini, se mi chiamale al giudizio, e cìuedete ragione del "mio capitanalo ; san pronto, a renderla : ma se mi oliiàmate ad una pena già risoluta, e' mente pift giova eh’ io dimostri che non v oJ[esi; prendete fusa-, temi come avete già stabilito. .Egli'è pur meglio eh’ io mora non giudicato cK ottener le difese, nè persua-, dervele ; perciocché sembrerei patir con giustizia ogni cosa che su me sentenziaste. Altronde voi meno sa~ rete colpevoli, se togliendomi le difese, jnentre oscura ancora c la mia colpa, se colpa ho mai fatta ; secondate 1 vostri risentimenti. Il pensier vostro' dalla vostra udienza mi -sarà chiaro : il silenzio o' il tumulto mi saran d argomento se m’ avete alle ^scolpo chiamato, o alla pena. E biò detto si tacque. E fatto silenzio, e gridando ben molli che facesse, cuore, e dicesse ciocché voleva, cosi ripigliò: Cittadini, se .voi siete i‘ giudici, non i nemici miei ; di leggeri spero XOftVincervi, che non v’ oj^esì ; e comincio da ciò cito' tutti sapete. Io fui scelto console ’coll ottimo V-erginio, quando i Tir^ reni fortificatisi nel colle imminente a Ronìà, domi navano, tutta intorno la campagna, sperandosi di abolire ben tosto, ambe il vostro f principato. Eravi in città fante, discordia, defeienza onde risolvette. Incontratomi in tempi così. turbati e terribili ruppi, unito al collega, due volte in battaglia i nemici, e gli astrinsi a lasciare, il castello, 'che guardavano. Feci dopo non molto cessare la fame, ricondotta t abbondanza npl Foro, e consegnai d consoli susseguenti sgombro da’ nemici il territorio che n’ era pie-HO, e Roma sana da tutti i mali politici, i cot pipopoU l’ avea/io inabissata. So dunque non è de^ litio vincere gt inimici, e di che mai son io ’^lpevole presso vai ? O conte ha Servilio offeso il popolo', se alcuni bravi incontraron la morte col, maU:hio combai tere ? Già non v’ è niun Dio che asiicuri ai capitani la vita de suoi militari ; nè prendiamo, d, comando con patti e formale di vincer lutti i nemici ^ e non perdervi aldino de' nostri. E chi mai, s egli è uomo^ chi si offrirebbe di riunire in sè tutti i bei tratti di consiglio buono, e di sorte ? Anzi i grandi risuUad con pericoli grandi s' ottengono. Nè già io sono il primo éte m’ avessi tale ÒKonlro in combattere, ma se l ebbero, dOei, quanti fecero pericolose battaglie con poche schiere contro lè molte nemiche. Incalzarono alctzni i nemici, e poi furono incalzati: ne uccisero, e ne furono decisi, anche in più nurhero.siri capitani, riuscitici altri con termine buotto, ‘altri con doloroso ? E perchè dunque^ lasciate gli altri, e me 'giudicale ; se a norma ponderale delle leggi le opere, non degne della sapienma e del capitanato ? Quante imprese più audaci ancor della' mia cadde in pensiero capitani^ di compierle, quando la circostanza non ammetteva consigli sicuri,' é già maturati^ Chi strappando le insegne dalle. mgni de' soldati, le gittò fra nemici, perchè i suoi scoraggiati ed intimoriti d -rìànimassero a forza, istruiti, che chi non salvatale ne avrebbe morte ingloriosa dal comandante, jiltri scorrendo sul territorio nemico, ucdicarono e ruppero i ponti de' fiumi valicati, perchè i soldati non. vedessero scampo nella fuga, se la tramavano, e com^battessero coji ardore e ferrnezza. Altri dando alle fiamme le bagagUe e le tende, necessitarono ' i suoi a ritrovare nelle terre nemiche quanto lor bisognava. 'Lascio' mille altre imprese', audaci tutte, ed ideate da capitani, che ió .potrei pur dire 'su la storia, e su la sperienza, e per le quali ninno mai, faUilagli .la prova, soggiacque alle pena E già niuno può redarguirmi che mettendo i compagni ad aperto pericolo, io xnen tenessi lontano. Se io mi vi esposi cogli .altri, se ultimo me ne ritolsi, se vi 'corsi la sorte comune di tutti ; e diche • sono io reo ? Ma basti il fin qui detto su me. Voglio ora dirvi alóune poche cose intorno del Senato e de’ patrizj, perocché f odio pubblico contro di loro per la division sospesa àeUe terre deot neggìa eutcora a me, nè l accusatore mio occultò que-^ sto facendomene parte non piccola delt accusa. E questo dir mio sarà libero ; giacché diversamente nè io saprei parlarvi, né > voi profittarne Popolo! voi nè giusti siete nè retti non rendendo grazie al Senato de' tanti e 'grandi benefit j che ne aveste ; e sdegnandovi che non 'per invidia ma per calcolo di ben pubblico, vi si oppone .in cosa che' dimandate, la quid conceduta tusai nocerebbe '.al comune. Piuttosto dovevate accettarne i consigli pome' nati -da principj sol dissimi, pel bene di', tutti, e tenervi dalle sedizioni'} 0 se non potevate con tal sano discorso frenar gli appetiti, t non sani, dovevate implorar te dimande, persuadendo, non violentando, Imfièroechè li doni spontanei titnpettp de’ violenti son più cari per chi li dona y e più stabilì per . chi. H riceve.. Or • voi, viva Dio, non ' avete ciò cónsiderato : nia commossi ed inaspriti dai capipopolo,. come il mare dai venti che insorgano, F un. dopo F altro, non avete lasciato che la patria riposasse, nemmen picciolotempo.,, tra la xoima, 'e il sereno. Dondt è che. noi. dobbiam pensare migliore per noi la guerra, che la pace ;^iacchà nella guerra maltrattiamo i nemici, ma gli amici nella pace. Se voi lipulate tutti burnii e lutti utili, come sono, 1 decreti del Senato ; perchè, non avete riputato tale anche questo ? E se credete che il Senato non provveda con semplicità, mq che male, e vituperosamente amministri, 'perché noi degradate / voi tutto, e ven prendete le cariche, e consultate e guerreggiale voi per la potenza di Roma, ma, lo stuzzicate, e lo indebolite poco a poco, chiamandone i personaggi più illustri in giudizio? Certo sarebbe pur meglio che fos situo tutti insieme combattuti, che càìunmati ad -uno ad uno. Sebbene, non siete voi, con’ io diceva, la cagione di ciò, ma i capi del popolo che vi sommovano, non sapet^o essi nè ubbidire y nè comandare. E per ciò che spetta alla loro imprudenza ed impe^ rizia', già più volte sarebbefi la nave rove^aicita. Eppure il Senato che ha riparato tante volle i loro sbache. fa che la vostra repubblica navighi rettamente, ' ascolta ^ peggio della maldicenza da loro. Or queste cose, vi piacciano o no-, le ardisca io dire con ogni verità: e vorrei piuttosto morire;, videndorm di una libertà 'profittevole ab pubblico {. che salvarmi adulandovi. G}si, dicendo,, senza volgei^i a lamentare o deplorar la sciagura, senza uniilianti a suppliche, e proslrai^ioni non degne y e senza' ..palesai^ affezione alcuna men che generosa, lasciò che parlassero gli altri, 'dogliosi di ' coadiuvarlo arringando, o testificando: Lui di scolpavano, molti che eran presenti, singoK\rmente Ver giuio, gii cpnsòle. co'n euo lui, riputato l’autore della vittoria! Coitui non solamente dimostrò Servilio irreprensibile, ma degno che si encomiasse ‘ed otiofasse come peritissimo in guerra, e savissimo tra’ capitani. Diceva che se credeano buono iì termine della gaerra dovevano ringraziar lutti due ; o tutti dile punirli se sci aurato ; giacché avevano .tntti;.dne avuto 'doiiiu ni i consìgli, le opere, la fortuna. Commovea non solo il discorso di lui ma la vita intera, speriménUtta in tutte le belle ationi. A^iungevasi, ciocché ispirò piò compassione, la forma addoloievole, (piai suoL essere in qiielli che han sofferto, o siano per soffrire tamii terribilL Tanto che li' congiunti degU uccisi, quelli che pareano più. implacabili contro 1 autore tl^l danuo, Ia sciaronsi vincere-, e deposer lo sdegno che ne aveano manifestato ; imperocché qinna tribù nel dare il voto ló diede per la condanna. E tal fu la fine de’ pericoli di Servilio. Marciò non mólto dòpo contro i Tirreni r armata Romana sotto gli auspicj dei console Pubfio Valerio, perocché si era d^ bei nuovo levau in arme la città di Vejo, ubendpsde i Sabini, alieni fino a quei giorno di unirsele, quasi aspirasse cose impossibili : quando però vider(> Menenio in fuga e presidiato il monte prossimo a Roma, giudicando ^ scadute le forze Romane, e sbaldanzito 1’ animo di quella 'repuUilica, eoncertaronsi co’ Tirreni, spedendo loro milizie numerose. I Vejenti confidati su le schiere proprie e su quelle giunte di fresco^ da’ Sabini frattanto che aspettavano le ausiliarie degli altri Tirreni anelavtino, di volarsene a Roma col più dell’ esercito, quasi ninno, ne uscirebbe a combattere, ma dovessero per assalto espugnarla, o ridurla con la fame. Indugiandosi però essi ed aspettando i confederati, lehti a ingiungersi, Valerio ne prevenne i disegni, guidato contra loro il fiore de’ Romani, .e gli alleati, con sortita non manifesta, ma occulta quanto polevasi. Imperocché .uscito da Roma sul far della sera, e valicato il Tevere ; si accampò non lontano dalla città. Poi levando F esercito su la mezza notte, si avanzò con marcia oi-dinata; e prima che fosse il giorno, investi r nna de’ campi nemici. Erano due questi campi ; di^ sgiunti, ma non molto, fra loro, l’ uno de’ Tirreni, r altro, de’ Sabini. Fattosi primieramente stil campo Sa bino, assalirlo fb prenderlo ; ''dormendovi i più senza' guardia sufficiente, 'come in terra amica, e liberi da ogni sospetto, nwntre non si annoqziavano in parte ai cuna i nemici.Preso il campo, quali furono uccisi tra il sonno, quali ^orti appena’, o mentre si armavano, e quali armati già, mal resistendo disordinati e dispersi: la -più parte peri, fuggendo verso .1’ altro campo,' sorpresa dalla cavalleria. Valerio', invaso' il 'campo Sabino, marciò su r altro de’ Vejenti, postisi in luogo non abbastanza sicuro: ma non poteano più gli assalitori ghingeM oc-' culti, per essere il giorno già chiaro ; e datoyi da fnggitivi r avviso della strage Sabina, e di quella imminente ai Tirreni. Pertanto eca necemario andar con fortezza al nemico. 'Ecco dunque resistere con ardore sommo i. Tirreni avanti j^i alleggia'menti, e fervisi' aspra tenzone e strage vicendevole.; stando 'lungo tempo incert^ e pendendo or quinci Or quindi la sorte della guerra. Alfine dan volta i Tirreni, sospinti dalla cavalleria Rpmana, e ricacciansi tra le uincee.. Segueli il consolé, ed approssimatosi alle trinclere nè ben formate, nè in. luogo, come ho detto, abbastanza sicuro, le assaU da più parti ; travagliandovi tutto il resto del giorno, nè desistendone por nella notte appresso. I Tirrenivinti da’ mali incessanti / a'bbandonano su l’ alba il CAmpo ; altri in città iuggeo4o$i, altri dispergendosi pei boschi vicini. Il console, invaso par questo campo, diè riposo ; in quel giorno all’ esercito : e net seguènte com> parti la preda copiosa de’ due alloggiameuti tra le Site milizie, coronando co premi ^ usati chiunque s’ era più segnalato nel 'combattere. SenrUio il console dell’ anno precedente, quegli che sfuggi le ^ne popolari, mandato ora luogdtenente di Valerio, parsé aver pià che tatti risplenduto fra le arme, e sospinto i Vejeqti alla fuga; è per tale SUO merito ne ebbe il primo i premj, riputati' più grandi tra' Roiliani. 'Fatti quindi spogliare i cadaveri nemici, e> seppellire quelli de’suoi, marciando, e venendo il console coll’ esercito ne’ campi prosskni a Vejo; sfidò quelli d’ entro per la battaglia. Ma non presentandovisi alcono, e conoscendo altronde esser cosa ben ardua pigliarli di assalto, come chiusi in città fortissima, scorse ingran parte il lor territorio, e si glttò su s quello dé’ Sabini. E saccfaeggikto pei^., più giorni', pur questo, ^ che era ancora intatto ; ricondusse l’ esercito carico di prede àmplissimi in patria. ‘ Usci di città molto a dilungo per incontrarlo ' il popolo cintp di ghir ciò Furio ; il Senalo decretò che Tnino de’due mar, classe ^contro di Vejo, ed essi decisero, come u$ayasi, colle sortì, chi andasse. E 'toccato a Malliq, vdlò colr armata, e mise il campo presso a’ nemici. I Vejenti ristrettisi fra le mora, resisteroùO intanto,. e spedirono alle città Tirrene, _ ed ai Sabini,' recenti loro ' alleati, chiedendone che mandassero sollecito ajuto, .Ma perciocché non furono secondati -e consumarono .tra poco i viveri ; alfine ^ necessitati dalla fame, uscirono, i personaggi più provetti e 'più veóer;iodi e co’ simboli di. pace, ne andarono ambasaiadori ai console per intercedere ' da esso il fin della guerra. M^o comandò che poetassero a lui li viveri di due mesi per'.tulta.rarmsui). o tanto di argento da stipendiamela per un’anno, e ciò.Roma fatoae Vacroae. fatto, perirebbero al Senato per trattarvi la pace. Ac> cattarono i Vejenti le condiaioai, e dati beu^tosl gli stipendi, e per concession del console, anche in luogo del grano il suo prezzo, ne andarono a Roma. Introdotti in Senato cercarono perdono t delle cose operate fin’ allora, e requie dalla guerra in tu.tio. l’ avvenire. Disputate più cose per l’una e l'atra sentenza, al line prevalse quella che insinuava la riconciliazione, e vennesi ad Una tregua di quaraot anni., Gli oratori, avuta la pace, assai de ringraziarono Roofa, e partirono. In opposito Mallio vi tornò finita la guerra, e vi chiese, e n’ebbe il trionfo a piede . Fecesi, reggendo questi consoli, il censo ; ed i cittadini che assegnarono sè Stessi, i beni, e li figli '^ià puberi, fotono, poco più. che cento fneUta' mila; Giunti dbpo quesU al consolato . Lucio Emilio Mamertx) per la terza volta e Giulio Yopisco nella olimpiade settantesima settima (a), nella quale vinsè allo stadio Date Argivo, mentre Caritè era l’a ' contedi Atene ; ebbero assai travaglioso e turbato il comando, sebben tacesse. la guerra di fuori. Standosi ogni nemico in calma ; ineprsero per le se4izìoni interne, in pbricoti, prossimi a rovinar la repubblica. Sciolto il popolo dalia otilizia insistè ben tosto per la division delle' lem. 'Imperocché fra i tribuni aveacene uno baldanzoso, nè disacconcio alle arringhe. Gneo Genuzib.eia deiso, l’ istigatore dei popolo. Egli ad ora L’ovatiooe. Roma Catone Varrauc]. 177 nJ ora adunauJolo, per conciliarsi i poveri ; pressava i consoli all eseguire il decreto del Senato sa la divi sion delle terre. E questi ricusavano dicendo, non esserne la esecuzione stabilita pel consolato loro, ma per quello di Vergiiiio, e di Cassio a’ quali era diretto il decreto : similmente che gli ordini del Senato non erau leggi perpetue, ma previdenze, valide per un anno. In mezzo a tali pretesti non potendo costringere i consoli che aveano autorità più grande della sua ; diedesi a protervi consigli. Mise in pubblica accasa Mallio e Lucio, consoli dell’ anno precedente, e prescrisse loro il giorno nel quale dovésse giudicarsene, pronunziando svelatamente per titolo dell' accasa, ch’essi aveano offeso il popolo col non avere nominati i decemviri, com'era il decreto del Senato, per dividere finalmente i terreni. Che se non menava in giudizio altri consoli quando dodici erano i consolati dalla emanazione del decreto, ma faceva rei, questi due soli, della promessa tradita; davano per cagione la mansuetudine sua. In ultimo disse; che i consoli attuali allora unicamente ridurrebbonsi a divìder le terre, quando vedessero alcuni de’ trasgressori puniti dal popolo, considerando che avverrebbe anche ad essi altrettanto. Ciò detto, esortati tutti a venir pel giudizio, giurò per le sante cose, che egli osserverebbe il proposito, ed insisterebbe con tutto l’ardore su la condanna di quelli, e prefisse il giorno in cui sen farebbe la causa. I patrizj, ciò udito, caddero in molto timore e sollecitudine, come dovessero liberare que’ due, e reprimere 1’ audacia del tribuno. Deliberarono resistere DIOXIGI . tomt Iti. i> al popolo fortissimameote, e bisogoandovi, colie armi ancora, né permettergli cosa ninna, se mai la decretasse contro la dignità consolare. Non però vi bisognò violenza ninna, cessando il pericolo con risoluzione inaspettata e repentina. Imperocché quando mancava al giudizio un giorno solo; Genuzio fu rinvenuto morto nel suo letto p senza indizio niuno di uccisione non per isu-azio, o capestro, o veleno, nè per altre insidiose maniere. Risaputosi il caso, e portatone il cadavere nel Foro, parve questo come un impedimento divino, e ben tostò il giudizio fu tolto. Imperocché niun tribuno osò di riaccendere la sedizione, anzi molto condannò le lune di Genuzio. ' Se dunque i consoli quando il cielo chetò la discordia avessero ceduto, non insistito in contrario ; non sarebbero incorsi in altro pericolo. Ma datisi ad insolentire e spregiare il popolo, e fatti vogliosi di mostrargli quanto era il potere del loro comando ; causarono mali gravissimi. Intimata una iscrizioa militare, e forzandovi chi ricusava, con multe e verghe : ridussero il più del popolo alla disperazione, principalmente per tali motivi. Publio Valerone, un plebeo, d’ altronde illustre fra le arme, e già capitano di centurie nelle guerre precedenti, fu segnato da essi per semplice legionario. Or lui reclamando, e ricusando un posto che lo disonorava quando non aveva demeriti anteriori, sdegnaronsi i consoli de’ liberi modi, e comandarono ai Kttori di nudarlo a forza, e di batterlo. Il giovine invocava i tribuni, e chiedeva, se era colpevole, di essere giudicato dal popolo. Ma non udendolo, ed insistendo i consoli perchè i latori sei menassero, e lo bal^ lessero; egli riguardò la ingiuria come insoffribile, e divenne appunto il vindice di sè stesso. Imperocché, fortissimo eh’ egli era, trae de’ pugni in faccia, ed atterra il littore che primo lo investe, e poi l’ altro. Esasperandosene iconsoli, e comandando a tutti insieme i satelliti di avventarsegli ; parve raiion superbissima ai plebei ebe eran presenti. E congregandosi ; e schiamazzando per istigarsi 1’ uno V altro alla vendetta; ritolsero il govane, e respinsero colle percosse i littori. Alfine si spiccavan su i consoli, e se questi non isparivan dai F oro ; sarebbevisi fatto male gravissimo. Per tale evento tutta la città se ne scinde ; ed i tribuni placidi fin’ allora, fremendo ne accusano i consoli : e le contese per la ditnsion de’ terreni cangiaronsi in altra più grave su la forma del governo. Imperocché irritandosi i paU-isj come i consoli, quasi fosse l’ antorilà conculcata di questi ; voleano precipiur dalla rupe l’ audace che insorse su i littori. Per 1’ opposi to i plebei riuni vansi, e vociferavano e conciUvansi a non tradire la libertà. Si rimettesse la causa al Senato, vi si accusassero i consoli, e se n esigesse un castigo, perchè non lasciarono goder de’ suoi dritti, e traturono come uno schiavo, e diedero a battere un uomo libero, un cittadino, che chiedeva l’ ajuto de’ tribuni, e di essere, se fosse reo, giudicato dai popolo. Fra tali contrasti e ritrosie di cedere gli uni agli altri, decorse tutto il tempo di quel consolato senza fatti di guerra, o di governo, belli e memorandi. Xh. Venuto il tempo de’comizj furono dichiarati consoli Lucio Pina rio e Publio Furio . In principio di quest’ anno la cilià fu piena ben tosto di religiosi e divini terrori pe’ molli portenti e segni che apparvero. £ li vali, e gl' interpreti delle sante cose, dichiaravano tutti, esser questi gl’ indizj dello sdegno celeste per alcuna sacra cosa, fatta con ministero non pio, nè puro. E dopo non mollo ne venne su le donne un morbo, chiamato contagioso, e tanta moruliià per le gravide principalmente, quanta mai più per addietro. Imperocché partorendo prole immatura e già morta, perivan con essa. IVè le suppliche ne’ templi e nelle are de’numi, nè i sagrifizj di espiazione fatti a scampo della patria o delle famiglie, portarono un fine ai mali. In tal rio stato un servo diè cenno a’ pontefici, che una delle vergini sacre, custodi del foco inestinguibile, ( Orbilia ne era il nome ) avea la sua verginità estinta, e che non pura sagrificava ; ed essi traendola dai Santiìario, e dandola a giudicare ; poiché per gli argomenti fu rea manifesta, la batterono, e condottala con pompa lugubre per la città, la seppellirono viva. Di quelli poi che ebbero il mal' affar colla vergine, 1’ uno si diè la morte di per sè stesso; l’altro fu preso nel Foro pe’ soprastanti delle sante case, e flagellato come uno schiavo, ed ucciso. Dopo ciò fini ben tosto la infermità sopravvenuta alle femmine, e la tanto lor perdita. La sedizione già si diuturna in Roma de’plebet co’ patrizii, vi ribolli per opera di Publio Valerone tribuno, quello che ntll' anno precedente aveva disubbi|i) Anno di Roma aSa secoudo Catone, aS; secondo Varrone, e 4^0 av. Cristo] dito i consoli Emilio e Giulio quando il segnavano per legionario, di centurione che era. Costui nato di stirpe vilissima, e cresciuto in grande oscurità e disagio, fu creato tribuno dal ceto de' poveri, appunto perchè sembrava che avesse il primo tra’ privati umiliato il grado consolare, autorevole Gu’ allora come quello dei monarchi, 'e molto più per le promesse che dava di togliere, giurilo al tribunato, la potenza de’ patrizj. Costai quando l' ira del cielo era cheta, convocando il popolo, fece uba legge su le elezioni popolari trasmutando i comizj che i Romani chiamano per curie in quelli per tribù. Io sporrò qual sia la differenza degli uni e degli altrL Li comizj curiati perchè fossero va^ lidi, conveniva che precedesseli il decreto del Senato, che il popolo vi desse il voto di curia in curia ; e che oltre questi due requisiti, niun segno, nè augurio celeste vi si opponesse : laddove gii altri comizj compivansi dalle tribù con un giorno solo senza decreti anteriori del Senato, senza sagriGzj, e senza le divinazioni degli auguri. Due degli altri quattro tribuni volean com’ egli la legge ; ed esso tenendosi amici que’ due ; ne andava superiore a fronte degli altri che la ricusavano i quali eran meno. I consoli, il Senato, i patrizj intendeano tutti a distoglierla e renderla vana. E recatisi in folla al Foro nel giorno preGsso dai tribuni per fondare la legge, vi furono aringhe di consoli, di senatori provetti, e di chiunque il volle, per dimostrare gli assurdi di essa. Risposero i tribuni, e di bel nuovo i consoli ; e prolungandosi mollo le altercazioni, fecesi notte, e l’ adunanza fu sciolta. Proposero nuovamente i tribuni pel terzo mercato la diacussion su la legge ; ma concorsavi gente anche in pi et copia, se n’ebbe un fine simile al precedente. Or ciò vedendo Publio, deliberò di non permettere ai consoli di accasare la legge, nè al patrizj di trovarsi al dar de’ sufiì'agj. Perocché questi co’ loro amici e clienti non pochi, ingombravano gran parte del F oro, facendo animo a chi denigrava la legge, e remore a chi difendevala, e cose altrettali che nel dar dei voti sono indizio di violenza e disordine. XLII. Se non che ne interruppe i disegni tirannici nn’ altra calamhé mandata dal cielo. Imperocché sorse in città nn morbo pestilente che infuriò pnr nel resto d’ Italia ; non però quanto in Roma. Nè valeva per gii infermi soccorso umano, morendovi del pari e chi era con ogni diligenza curato, e chi non lo era. Nemmeno giovarono allora suppliche, sagrifizj, espiazioni private o pubbliche, alle quali necessitati si rivolgono gli uomini io tali casi per estremo rimedio. Il male non distinse non età, non sesso, non vigore, non debolezza, non arte, non cosa ninna di quelle che pajono renderlo più leggero; ma comprendea del paro Uomini e donne, giovani e vecchi. Non però durò gran tempo, e questo impedì che la città ne perisse totalmente. Si gettò come torrente o incendio su gli nomini con impeto furibondo, ma passeggero. Quando il male diè requie ; Publio era per uscire di carica. E siccome non potea stabilire in quel, resto di tempo la legge ; soprastando i comizj j chiese di nuovo il tribunato per l’anno seguente, fatte molte e grandi promesse al popolo: e di nuovo se lo ebbe egli, e due de’ compagni. Per Topposito i patrizj tentarono far console un uomo aspro, odiatore del popolo, e che non lascerebbe punto diminuire l’ autorità de’ pochi : io dico Àppio Claudio, 6glio di queir Appio eh’ crasi tanto opposto al ritorno del popolo. Or quest’uomo che moltissimo contraddiceva alla scelta dei tribuni, questo che non avea nemmeno voluto venire al campo p’ comic], sei crearono con- sole, quantunque assente, avutone precedentemente il decreto del Senato. Terminati ben tosto i comic] > per esserne partiti i poveri appena udito il nome di Appio ; pre^ sero il consolalo Tito Qninuo Capitolino ed Appio Claudio Sabino, nomini non simili di caratteri e di voglie . Perocché Appio voleva distrarre tra le milizie di fuori il popolo ozioso e povero, afGnchè coi suoi travagli guadagnasse dai beni ' del nemico il vitto giornaliero, di cui tanto penuriava, e rendendo UliK servigi alla patria, non fosse malafFelto e molesto a’ padri che governano il comune. Dicea che avrebbe puiv le cagioni plausibili di guerra una città che si procacciava il comando, e che era da tutti invidiata : chiedeva che argomentassero dalle cose passate le future, esponendo quanti moti erano stati' in città, e come sempre nella cessazion della guerra. Quinzio però non pensava di portare ad altri guerra : dichiarando che dovea bastar loro quando il popolo ubbidiva chiamato contro ai pericoli esterni, che sopravvengono e stringono, e dimostrando, che se forzassero nel caso preti) Anno di Roma a83 secondo Catone, aSS secondo Varrone, av. Cristo] sente gl' indocili, indurrebbero la disperazione come i consoli precedenti 1’ avevano indotta. Dont} è che porrebbonsi essi a repentaglio o di opprimere la sedizione col sangue e colle stragi, o di scendere con vitupero ad appiacevolire la plebe. Comandava Quinzio in quel mese ; tantoché non potea 1’ altro console far nulla senza il consenso di esso.. Ma Publio e li compagni ripigliarono senza indugio la legge, che non aveano potuto stabilire nell' anno precedente, aggiungendo a questa, che si creassero ne' comizj stessi ancora gli edili: o che tutto in fine, quanto si trattava o risolveva dal popolo, si trattasse e risolvesse nel modo medesimo con i comizj per trìbùr Or ciò era l’ annientamento manifesto del Senato, e l’ inalzamento del popolo. A tale notizia mpensierirono, e discussero i consoli, come togliere pronti e sicuri la sommossa e la sedizione. Appio consigliava che si chiamassero alr armi quanti volean salva la forma della repubblica ; e che si numerassero tra’ nemici quanti si opporrebbero ad essi che le impugnavano. Ma Quinzio giudicava che si dovesse prendere il po[x>lo colla persuasiva, e con.vincerlo die per ignoranza de’ -veri interessi sla nciavansi a rovinose risoluzioni. Dicea esser t estremo 'della de^ menta estorcere colla forza da’ cittadini ritrosi ciocché aver ne poteano di buorr grado. Ora approvando pur gli altri senatori il parere di Quinzio ; i consoli ne andarono al Foro, e chiesero da’ tribuni un’aringa, ed il giorno in cui farla. Ottenuta a stento l’una e l’altra istanza, venuto il giorno richiesto, e concorsa al Poro moltitudine d’ ogni genere preparata per opera de’ due magistrati in favor loro, presenlaronsì i consoli per censurarvi la legge. Quinzio, uomo altronde discreto, e persuaso che il popolo avessi a guadagnar col discorrere, chiese il primo udienza, e ragionò cose a propo sito, e con piacere di tutti ; cosicché li fautori delia legge impotenti a dir cose pii^ giuste o benigne, assai ne furono imbarazzati. B se il console collega non lavasi ancora troppo gran moto ; forse i plebei riconoscendo che non cercavano nè il giusto, nò il bene ripudiavan la legge. Ma perciocché colui tenne un discorso superbo, e grave ad udirsi da’poveri ; il popolo ne fu crocciato, implacabile, e discorde, quanto mai piò per addietro. Non parlò costui come a uomini liberi, a cittadini arbìtri di fare e disfare le leggi : ma quasi parlasse con nomini vili, forestieri, né liberi solidamente; vi lanciò detti amari, insoffribili: vi lamentò le assoluzioni dei debiti, e ricordò la separazione dai consoli ; quando dato di piglio alle insegne, che pur sono, santissima cosa, abbandonarono il campo, volgendosi ad un esilio volontario. Richiamò li giuramenti che avean fatti, quando presero per la patria le armi, che poi contro lei sollevarono. Pertanto diceva che non sarebbe meraviglia se essi che avevano spergiurato gl’iddj, lasciato i capitani, e diserta, quanto era in loro, la p^ttria, e che vi erano tornati, confusavi la buona fede, e sovvertitevi le leggi ed il governo, ora non si dimostrassero moderali ed utili cittadini : mai incitati da nuòvi desideri ed eccessi, talvolta chiedessero magistrati proprj, scelti dall’ordin loro, e questi iudipendentì, inviolabih ; tal’ altra chiamassero in giudizio per cagioni turpissime que’palrizj che loro paressero, trasferendo dal celo più puro al più sordido i poteri con cui Roma faceva un tempo giudicare sull’ esilio e la morte; e talora i mercenari e privi de’ palrj lari com’ erano, fissassero leggi ingiuste ed oppressive contea i bennati, senza lasciare al Senato la facoltà di proporle prima col sno decreto, tolta ad esso una prerogativa che aveva V sempre avuta senza contrasto, fin sotto de’monarchi, e de' tiranni. E dette molte altre cose consimili, senza lasciare indietro memorie amare, nè risparmiare nomi ingiuriosi ; alfine pronunziò questo ancora per cni tntto il popolo ne infuriò, vale a dire che mai la città che terebbesi totalmente dalle sedizioni ma che sempre infermerebbesi per nuovi mali, finché fossevi il poter dei tribuni ; affermando che negli affari politici si dee vedere che i principi sian buoni e giusti, giacché da buon seme si ha frutto buono e felice, ma infelice e reo da reo seme. Diceva : se questo potere fosse erttraio in città di buon accordo per ulil comune; venutovi col favor degli augurj e della religione, sarebbe stalo a noi causa di molti e gran beni, di unione, di leggi savie,di speranze belle dal ctmto dé’ numi, e di mille altre cose. Avendovelo però introdotto la violenza, la prevaricazione, la discordia, il timore di una guerra interna, e tutti i mali più odiati fra gli uomimf come con tali principii ne sarà mai fausto e salutare? Ben è superfìua cosa cercar farmachi e cure quante sen possono ai mali che ne germogliano finché restavi la radice viziata. Nè mai vi sarà termine, mai requie alcuna dallo sdegno celeste, finché ques^ invìdia, in saziabile furia in città s’ annida, e lorda, ed infracida tutto. Ma per tali cose vi sarà discorso, e tempo più acconcio. Ora, poiché si vuole rimediare alle còse presenti ; io lasciando ogni acerbità, vi dico : N& questa legge, nè altra qualunque non approvata prima dal Senato sarà mai valida nei mio consolato. Ma so> n Sterrò con parole gli ottimati, e quaudo anche 1’ o pere vi bisognino, nemmeno in queste sarò vinto dagli avversar). E se non prima ayete saputo quanta sia r /lutorità de' consoli, nel mio consolato lo saa prete, a Àppio cosi disse, quando Cajo Lettorio il piò provetto e più venerabile de’ tribuni, uomo riconosciuto non ignobile in guerra, e buono al maneggio degli affari, sorse e replicò, cominciando da alto, e ragionando a luogo sul popolo, quante diftìcili spedizioni avessero intrapreso i poveri, da lui vilipesi, nonsolo nel tempo dei re, quando forse era necesiiià, ma dopo la espulsione loro per acquistare alla patria la libertà e il comando. Pur non ebbero, dicea, ricompensa ninna da palrizj, né goderono alcuno de' pubblici beni; ma quasi presi in guerra, furono privati injino della libertà : e se volevano conservarsela dovettero. abbandonare la patria, cercando una terra ove non fossero, essi liberi uomini, insultati^ Senza violentare, senza obbligare colle arme il Senato, ebbero nella patria il ritorno, condiscendendo a lui che chiedeva e pregava che si rendessero alle abbandonate lor cose, fi qui spose i giuramenti, e rammentò gii accordi fatti per questo ritorno; tra’ quali v’era I amnistia di tutto il passato, e la concessione a’ poveri di eleggersi magistrati i quali proteggessero loro, e resistessero a chiunque volesse mai conculcarli. Scorrendo su ^li subjetd, aunoverò le leggi fondate poco prima dal popolo ; come quella su la iraslasion dei giudizj per la quale il Senato cedeva ài popolo che chiamasse in giudizio qual più volesse de’ patrizj ; e 1’ altra sul dar dei suffragi, la qual rendeva arbitri de’ voti i comìzj per tribù, non quelli per centurie. E così ragionato Sul popolo ; rivolgendosi ad Appio disse : E tu ardisci et insultar quelli pe’ quali la repubblica divenne di piccola grande, e luminosa d' ignobile ? tu chiami sediziosi gli altri ^ e rimproveri loro tome fuorusciti ? Quasi non tutti rammentino ancora ciocché avvenne tra noi, vuol dire che gli avi tuoi levarono il capo contro de’ magistrati, abbandonaron Ut patria, e supplichevoli qui s' alloggiarono. Se non forse voi che avete abbandonala la patria per amore della libertà, voi v avete fatto un opera belìa^ fié ^ella è quella de’ Romani che han fatto altrettanto, Tu ardisci calunniare l’ autorità de’ tribuni conte introdotta a mal fatto ; e persuadi qui noi che c involiamo questo sacro, questo immobile rifugio de’ poveri, confermatoci da numi a dagli uomini per tanto grandi cagioni ? Ta tirannissimo, ninUcissimo che sei del popolo ! E non giungi nemmeno dunque a vedere, che ciò dicendo, oltraggi il Senato, oltraggi la tua mùgislratura ? Insorse pure ' tutto il Senato contro dei re, più non potendo so ferirne la superbia c gli affronti ; e fondò il consolalo, e prima di bandirli da Rema f coesi altri ministri del regio potere. 2'antochè ciò che dici contro del tribunato come introdotto mal fato, per la origine sediziosa, ciò dici ancora contro del consolato ; giacché non altra causa il fé nascere se rwri lo scuotersi de’ patrie j contro dei re. Ma che parlo io di queste cose con te quasi con cittadino buono e Moderato, quando tutti sanno che tu sei di^ stirpe mal grazioso, anzi acerbo, anzi infesto al popolo, nè buono da ingentilire la salvatichezea tua ? X) perchè non pospongo i detti, e ^ investo co’ fatti, e ti mostro che tu che non ti vergogni di chiamare il popolo un sordido, e senza casa, tu non sai quanta sia la forza di lui ? quanta quella del suo magistrato a cui le leggi ti obbligano di dar luogo e di cedere ? ma già lasciati 1 rammaricìd delle parole, comìncio le opere. E ciò detto giurò col giuramealo, più rive reado infra loro, di sostenere la legge; o di morire. E qui taciutisi lutti, e latti empiutisi di ansietà su ciò che farebbe : comandò che Appio ne andasse dall adunanza. E perciocché non ubbidiva, ma cingendosi coi littori e colia turba che aveasì perciò condotto di casa, ripugnava ad andare ; Lettorio, intimato pe’ banditori silenzio, consigliò che i tribuni facessero portare il console nella carcere. E qui la guardia di lui si avanzò, comandata, come ad arrestarlo ; ma il littore, che il primo se la ebbe innanzi, la battè e respinse. E levatosi romor grande e rammarico; v’accorse lo stesso Lettorìo, eccitando la turba in ' suo ajulo. Se gli oppose Appio con giovani bravi e numerosi; ed eccone quinci e quindi viluperauoni, grida, spinte ; talché la contesa divenivane zuflà, ornai cominciandovisi il trar delle pietre. Se non che ripresse tali colpi, e fece chn il male non procedesse più oltre Quinzio l’ altro console, cacciandosi egli c li più anziani de’ senatori, tra le minacce, e supplicando e scongiurando tutti a desistere. Non avanzava allora se non picciola parte del giorno, e però si divisero finalmente, ma di mal’ animo. Incoiparonsi i magistrati a vicenda ne’ giorni appresso : il console accusava i tribuni che tentassero di annientare il suo grado col volere in carcere chi lo rappresentava ; ed i tribuui il console, pe’ colpi portati su persone, sacre ed inviolabili per la legge ; e de’ colpi avea Lettorio i segni manifesti nel' sembiante. Intanto stavasi la città scissa e fremente. I tribuni ed il popolo occuparono il Campidoglio, non tralasciandone mai la guardia, giorno' e notte : il Senato adunatosi tenne lunga e travagliosa discussione intorno ai modi di chetar la discordia, considerando la gravezza del pericolo, e come nemmeno i consoli fossero uniti fra loo); giacché volea Quinzio conr^dere al popolo le istanze • moderate, ed Appio vi ripugnava, a costo ancora della vita. E poiché ninna cosa avea termine, Quinzio presi nn per uno i tribuni ed Appio, orando, scongiurando, raccomandava loro di antepoiTe il ben pubblico al proprio. E vedendo alfine ornai rimplacidili quelli, ma duro in sua caparbietà il console compagno; persuase Leitòrio e i seguaci di lui, sicché rimettessero al Senato l’esame de’ privati e pubblici risentimenti. ConTocato quindi il Senato, lodativi ampiamente i tribuni, e scongiurato il compagno a non contrastare la salvezza pubblica, invitò tutti, secondo il solito, a dirne il parer suo. Invitato per il primo Publio Valerio Poplicola, disse: che doveansi dal pubblico condonare, non portare in giudizio le incolpazioni vicendevoli de' tribuni e del console su quanto s’ avean fatto o sofferto nel tumulto; perchè non erosi fatto per mal animo, nè per ben propiro, ma per gara di preminenza in repubblica: quanto alla legge poi sen facesse previo decreto in Senato ; giacché Appio console non voleva che senza questo al popolo si proponesse. Del resto provvedessero tribuni e cofisoli insieme il buon ordino, e C armonia de' cittadini nel dar de' suffragi. Approvarono lutti quel dire ; e ben tosto Quinzio fe’ dare il volo a’ senatori su la legge. AcCusolla Appio per più capi, e -molto i tribuni se gli opposero, ma vinse (ìnalmente di gran lunga il partito per introdurla ì stesone il decreto del Senato, ne tacquero le gare de’ magistrati, il popplo di buon grado lo accolse, e fece co’ sufTragj suoi la legge. Da>quelip fino a miei tempi i comizj per tribù decidono col volo loro la scelta de’ tribuni e degli edili ^enza dipendenza ninna dagli augurj^e dalle cose di religione. E tal fu la soluzione de’ dissidj che di que’ giorni conturbarono Roma. L. Piacque dopo non molto ai Romani di arrolar le milizie, e spedire ambedue ^ consoli contro gli Equi e li Volsci: perocché nunziavasi loro eh’ erano uscite truppe Roma Catone Varrone] in gran numero deli’ uno e dell’ altro popolo e depredavano gli alleati Romani. Apparecchiati dunque in fretta gli eserciti, e sceltone colle sorti il comando ; Quinzio marciò contro gli Equi, ed Appio contro de’Volsci. Ma ciascun dei due consoli v’ ebbe le vicende che meritava. Imperocché l’armata di Quinzio benevola al vaientQomo per la moderazione, e per la dolcezza di lui, ne ubbidiva pronta i comandi, e le più volte anche senza comandi affrontava i pericoli, per acquistargli fama ed onore. Dond’è che scorse in gran parte, saccheggiando, la region de’ nemici ; senza eh’ ardissero questi venirne alle mani : e raccoltevi amplissime prede, e vantaggi, e dimoratavi alcun tempo scevra in tutto da mali; si presentò di bel nuovo in patria, rimenandovi il suo capitano luminóso per le belle azioni. Ma 1’ arntata, andatane con Appio, lasciò per odio di lui ipulti patrj dovéri; perocché fu mal animata in ogni spedizione e poco curante il suo duce: e quando le bisognò far battaglia co’ Volscl, schieratavi da . esso, ricusò di venire alle mani. Centurioni ed antesignani, chi lasciò la schiera sua, chi gettò 1’ insegna, e rifuggironsi agli alloggiamenti. E se gl’inimict, sorpresi dalla stranissima fuga, ed' intimoriti per essa di un qualche inganno, non desistevano dall’ incalzarli ; perivane il più de’Romani. Or ciò faceauo a mal cuore del capitano, sicché egli sulr esito di fauste battaglie, non crescesse col trionfo, e con altri onori. Nel giorno appresso ora il console redarguendoli per la fuga -ingloriosa, ora esortandoli a cancellarne la infamia con un generoso combattimento, ora minacciandoli che varrebbesi del rigor delle leggi se ig3 non teneansi fermi contro a’ pericoK, essi ìadociii tut>' lavia Io intronarono colle grida, e cltiesero che li ri> tirasse dalla guerra, come invalidi a pi& resistervi per le ferite. E quasi feriti davvero, ' aveansi alcuni fasciate membra sanissime. Appio adunque, necessitatovi, ritirò r esercito dalle terre nemiche; ed i Volaci tenendogli dietro, ne ticoisero'non pochi. Giunti in terre amiche, il cònsole convocatili, e fintine i grandi lamenti, annnnrìò che. punirebbeli come i disertori. E quantunque seniori e magistrati militari assai lo pregassero a temperarsi, nè volgere la patria di danno in danno ; egli non tenne conto di alcnno, e stabili la pena. Quindi i centarìoni le cui centurie fuggirono 'e li portatori delie bandiere, che le aveano peivlute, gli nm furono decapitati colle scuri, e gli altri Colle verghe battuti e morti. Del resto della diilizia ne peri, tirata a sorte, la decima parte per tatti. Tale fra Romani è il castigo per chi lascia l’ ordinanza, o getta la insegna. .Dopo ciò egli, duce odióso, condocendo 1’ avanzo dell’ esercito mesto è disonoralo ; ornai sovrastando i oomiz), si rimise in patria. Dichiarati consoli, dopo questi, Lncio Valerio per la seconda volta, e Tiberio Emilio ; i Tribuni contenutisi già per qualche tempo, introdussero di bel nuovo il discorso su la division de’ terreni. £d andatine ai consoli, chiesero supplichevoli ed insistenti che si mantenessero al popolo le proihesse fattegli dal Senato Addo di Roma 384 , piacciavi udirle o no, vi dico,, veracissimo e libero, come utili di presente, e sicure per P avvenire, se lascerete mai persuadervene ; quantunque per. me che affronto pel pubblico bene l'odio altrui saran causa di mali non pochi. Imperocché ragionando antivedo, e presentami i casi altrui come norma de'miei. Appio cosi disse, e consenlendo con lui quasi tutti, fu sciolto il Senato. Irriuronsi i tribuni per la ripulsa : e partitisi, considerarono come punirne un tal uomo. In mezEO al molto discutere piacque loro di sottoporre Appio ad un giudizio capitale. Pertanto accu sandolo .nell’ adunanza del popolo, invitarono tutti a venire in giorno determinato, per sentenziare su lui. Sarebbero queste le incolpazioni, vuol dire che stabiliva massime ree cofilro il popolo ; che riaccese in città la sedizione ; che alzò viqlento le mani sul tribuno ad onta delle leggi sacrosante ; e che duce delC esercito, sen tornò pieno di sciagura, e (T infamia. Annunziate tali cose al popolo, e destinato il giorno in cui di(^ vano che ne farebber la causa, intimarono ad Appio di comparire a difendersi. Sen dolsero e prepararonsi i padri Con tutto l’ ardore a salvarlo. Eid esortandolo a cedere al tempo, e prender abito conveniente alle cir> costanze ; replicò che mai non farebbe azione vile, nè degna delle precedenti; e che sosterrebbe anzi mille morti che prostrarsi supplichevole ad alcuno. Rimosse alquanti ‘che eran pronti d’ Intercedere per lui, dicendo: die sarebbegli stata doppia vergogna, se vedesse altri fare per lui ciocché non' dovea fare nemmeno per sè stesso. Dette queste, e cose consimili, senza cambiar vestimenti, nè tener di sembiante, nè llul fìnsero che per una Infermità morisse. Portatone quindi il cadavere nel Foro, -il Gglio di lui fattosi innanzi ai tribuni ed ai consoli dimandò che convocassero Tadananza legittima; e ^mettessero a lui di lare sul padre suo la -funebre laudazione, usala in morte de’ Valentuomini. Intimarono ai consoli l’adu nanzB ; ina vi ripugnarono itribuni, ed imposero al giovine di tor via quei cadavere. Non sofferse il popolo né guardò con indifferenza clte inonorato il cadavere si rimovesse ; ma concedette al > 6glU> di rendere i consueti onori al padre : £ tale fu la fine di Appio. I consoli arrotarono, e cavarono di città le milizie ; Lucio Valerio per combattere gli Equi e Tiberio Valerio i Sabini ; perciocché gli ultimi ne’ tempi della sedizione entrarono il territorio romano, e danneggiatane gran parte, ne partirono con amplissima preda : gli Equi poi venuti più volte alle mani, e presevi molte ferite, eransi riparati in luogo fortissimo, nè più ne scendevano per combattere. Ben tec^ò Valerio di assediare quelle trincee, ma ne fu proibito dal cielo. Imperòcclié mentre v’andava e ponessi all’opera; si mise il cielo in caligine, in pioggie, in fulgori, e tuoni spaventevoli. Se ne sbandò l’ esercito, ma sbandatosi appena cessò la procella : e fecesi grande serenità. Prese il console come cosa di religione un tal fatto : e perciocché gl’ indovini diceano non essere da por quell’assedio ; egli diè volta, e saccheggiò la terra; e lasciata in utile de soldati la preda, ricondusse in patria l’eser cito. Tiberio Emilio però scOrrea fin dal principio con assai negligenza le regioni" de’ nemici, nè aspettavano ornai più le milizie; quando uscirono a fronte i Saliini, e sen fece battaglia ordinata, quasi dal mezzodì fino a sera. Sorprese dalla notte ritiraronsi le armate ciascuna aoi al suo campo, nè vincitori nè vinte. Ne’giorai appresso i duci presero cura de’ loro estinti, e munirono di fossa gli alloggiamenti ; ambedue con proposito di difender' visi, non di uscirne per offendere. Poi col volger del tempo levarono le tende, e partironsi cogli eserciti. L’ anno dopo nella olimpiade settantesima ottava in cui vinse nello stadio Parmenide di Possido> nia, mentre Teagene vea l’ annuo magistrato di Atene, furono in Roma consoli Aulo Verginio Cclimoutano e Tito Numicio Prisco. Ascesi appena questi al comando, ridicevasi che giungevano i Volsci con esercito poderoso. Nè mólto dopo fu invaso da essi, e dato alle Gamme un posto ne’ dintorni di Roma : e non essendo questo mollo lontano ; il fumo stesso annunziava alia città l’in ibrtunio. Immantinente, essendo ancor notte, inviarono i consoli de’ cavalieri per osservare, e misero guardie su le mura; ed essi stessi schieratisi fuori delle pqrte co’ soldati più spediti, v’ a^ettavano i ' rapporti de’ cavalieri. Fatto giorno raccolta la milizia che avevasi iu Roma, andarono contro a’ nemici: ma questi, derubato il luogo' ed incendiatolo, ne erano ben tosto partiti. Liberarono r consoli )e cose che ardevano ancora, e lasciatovi un presidio sen tornarono a Roma. Pochi giorni appresso usci coll’ armata propria, e con quella degli alleati l’ uno e 1’ altro console : Yergiulo contro degli Equi e Numicio contro de Volsci : e ciascuno se n’ ebbe fra le armi il successo che desiderava. Devastando Verginio le terre degli Equi non ardirono questi Attuo di Roma z85 tecondo Calotte, >87 secondo Varroac, e 4^ av. Cristo. di venire alle mani. Ben posero nna imboscata di uomini scelti ove speravano di piombare su l’inimico sban> dato; ma vanissima ne fu la speranza. Imperocché saputosi ben tosto pe’ Romani, fecevisi vigorosa battaglia: ove gli Equi tanto perderon de’ suoi die più allora non vennero al paragone delle armi. Numicio marciò su la città degli Anziati, 1’ uua allora delle primarie tra’VoIsci, ma non se gii oppose armata niuna, riducendosi tutti a rispingerlo da entro le mura. Fu dunque saccheggiato gran tratto della lor terra, e presa una cittadella in sui lido, la quale era per essi come arsenale ed emporio, ove concentravano il molto che andavano depredando sul mare. L’ esercito si attribuì per concessione dei console gli schiavi, i danari, i bestiami, le merci : ma gli uomini liberi che non erano periti tra la guerra furono presentati all’ incanto. Si acquistarono nommeno su gli Anziati ventidue navi lunghe, ed apparecchi ed armi di navi. Alfine per comando del console i Romani ne bruciarono le case, ne devastarono l’ arsenale, e ne distrussero da’ fondamenti le mura; perchè, ritirandosene essi, quel luogo non fosse un castello vantaggioso per gli Anziati. Tali furono le azioni separate de’ consoli ; poi. gettatisi insieme sui territorio dei Sabini, e depredatolo, rimenarono a Roma gli eserciti; e r anno finì. L’anno appresso fatti appena consoli Tito Quinzio Capitolino, e Quinto Servilio Prisco, tutta la milizia romana fu in arme, e spontanea si presentò Auno di Roma aS6, secondo Catone, aS8 secondo Varrone, e 4^ av Cristo.. ao3 quella degli alleati, prima che richiesti ne fossero. Dopo ciò fatte suppliche ai nami, ed espiato l’esercito, mar> ciarono i consoli contro a nemici. Li Sabini contro ai quali era andato Servilio, non che schierarsi in batta> glia, non nscirono nemmenoall’ aperto: ma tenendoM dentro del chiuso, lascravano che si devastassero loro le terre, s’ incendiasser ’ le case, e gli schiavi se ne fuggis . sero. Dond’ i che i Romani tornarono a grand’ agio dalle lor terre, carichi di preda, e risplendenti di glo ria. E cosi terminò la spedizion di Servilio. Quinzio, ed il seguito suo, movendosi con marcia più che mili tare contro gli Equi, ed i Volsci, venuti ambedue dalle regioni loro in un sito stesso a combattere per gli altri, ed accampatisi davanti di • Anzio : diedesi a vedere improvviso. E fermatosi non lungi dal campo loro in tm luogo, basso per sé medesimo, che era quello ap> punto dove prima fa veduto e vide gli avversar), posevi le bagaglie per far mostra di non temere i nemici, quantunque superiori di numero. Or com’ ebbero ambedue tutto in punto per la battaglia, uscirono in campo, cd avventatisi pugnarono infino al mezzogiorno. Non cedevano, non superavano, quésti o quelli, ristorando sempre la parte che vacillava, co’sussidj ordinàli per questo. Allora quando come superiori di nnmero, cominciarono i Yolsci e gli Equi a vantaggiare ^ e pre> valerne; non avendo i Romani moltitudine, pari all’ardore, Quinzio veduti estinti molti de’ suoi, e ferito il più de’ superstiti, era per intima ve la ritirata : ma temendo poi di dar vista ài nemici di fuggire; concluse, ch’egli dovea cimentarsi. E scelto il nerbo de’cavalieri. Digitized by Google 2o4 delle antichità’ bomane vola in soccorso de' laoi nell' ala destra, dove principalmente perìcclavaoOi Ed ora sgridando di codardia li duci stessi, ora ricordando le passale battaglie, e dipingendo la infamia ed il pericolo loro se fuggivano; alfine disse una cosa Gota sì, ma cbe rincorò li suoi più che tutto, e sbigottì F ibiiuico. Egli divulgò che r allr ala sua incalsava già gli avversar}, e già stava prossima agli alloggiamenti r e divulgandolo, spronò sui nemici ; e sceso di cavallo co’ bravi suoi cavalieri, prese a combattere di piè fermo. Tornò l’ audacia aUora nei suoi che ornai si abbandonavano, e divenuti quasi altri da quelli cbe erano, fulminaronsi tutti sul nemico. Talché li Volsci contrapposti -appunto in quella parte, dopo aver luogo tempo résislito, piegarono finalmente. Quinzio fiigaiili appena, rimonta il cavallo e corre all’ altr’ala, e mostravi a’ fanti suoi disfatta l’ala nemica, e raccomanda che non sieno per virtù minori de’compagni. Dopo ciò niono più de' nemici 'tenne fronte, ma fuggirono tutti alle trincee. Non gl’ inseguirono lungo tempo i Romani, ma beutoste se he rivolsero forzali dalla stanchezza, nè più 'avendo ornai l’arme, pari al bisogno. Decorsi alquanti giorni, convenuti per seppellire gli estinti e curare i mal conci, avendo già riparato quanto mancava loro per combattere, fecero nuovo conflitto intorno gli alloggiamenti romani. Imperoccliè venute nuove reclute ai Volsci e agli Equi dalle terre circonvicine, inanimito il capitano perchè i suoi erano il quintuplo de’ Romani, e perchè vedeva le trincee di questi su luogo non abbastanza munito, credette il buon punto d’ assalirvegli. Con tal disegno guidò. . ao5 su la mezza notte 1’ esercito intorno al vallo de’ Romani, e cinseli, e tineli in guardia, percbè inosservati non s’ involassero. Quinzio saputa la moltitudine de’ nemici, ebbe caro di accoglierla. Ed aspettaudo che fosse • giorno, e principalmente Tura nella quale il Foro suol riempirsi, quando vide > che i nemici venivano ornai stanchi dalla vigilia e dalle scaramucce, non per centurie, nè in schiera, ma confasi e sparsi; immantinente, spalancale le porte, precipita su loro col nerbo de’ cavalieri, mentre i fanti lo seguitavano serrati e stretti. Sbalorditi i Yolsci dall’ audacia, dopo aver sostenuta bteve tempo la furia della irruzione, rinculano, e lasciano gli alloggiamenti. E percbè non lungi da questi aveasi un colle alquanto elevato ; vi accorrono, come a riprendervi requie ed órdine. 'Non riuscì però loro di fermarsi e di riaversi, giungendo ben tosto i nemici, stretti quanto poteano colle coorti, per non esserne trabalzali, nell’ ascendere a forza la pendice. Fattasi azione vivissima per gran parte del giorno, ne perirono molti diagli ani e degli altri. I Volaci, 'tuttoché superiori nel numero,. e rassicurati dal posto occupalo, nou goderono alcuno de’ dué vantaggi : ma violentati dall’ardore e dalla virtù de’ Romani, abbandonarono il colle. F uggendo però verso le trincee, molti ne soccomberono. Imperocché non cessarono i Romani d’inseguirli, ma tennero immantinente .dietro loro, senza desisterne, finché ne presero a forza il campo. Impadronilivisi dei prigionieri e di ogni cosa lasciatavi cavalli, armi, danari, che erau pur molli, passarono ivi la notte. Nel giorno appresso il console, apparecchialo ciocché bisoDigitized by Google 2o6 delle antichità’ romane goava per un assedio, diresse 1’ esercito alla città degli Ansiati, uon lontana più di trenu stadj. Per avvenlora ivi slavan di guardia alquanti Equi ausiliarj e custodivan le mura, e questi per terrore della baldanza romana naacchinavan fuggirsene. Saputo dagli Anziati, ed impediti partirne, congiurarono dar la cittade a’Roraani che si appressavano. Gli Anziati avuto sentore pur di questo, cedettero al tempo : E imnvenutisi cpn loro ; si diedero a Quinzio, in modo che gli Equi pe^ patto si dimettessero, accettassero gli Anziati in città la guarnigione, e seguissero i comandi de’ Romani. Divenuto pertanto il console arbitro della città, pigliatine stipendi ed altri bisogni dell’ esercito, e presidiatala, se ne ritirò. Uscitogli per tal gesta incontra il Senato, lo accolse gratissimamente, e lo onorò del trionfo. L’anno -appresso furono consoli Tiberio Emilio per la seconda volu, e Quinto Fabio Ggliuolo dell’ uno dei tre fratelli, duci già della guarnigione spedita in Cremerà^ ed 'ivi periti co’ loro clienti. Ora. favorendo Emilio console ai tribuni, e rimescendo qu^ti di bel nuovo il popolo intorao la divisione de’ campi ; il Senato voglioso di cattivarselo, e sollevarne i poveri, stabili di compartir loro uu tratto del territoifio conquistato r anno avanti su gli Anziati. Furono deputati per la divisione Tito Quinzio Capitolino, quello appunto a cui si erano gli Anziati venduti, e Lucio Furio ed Àulo Verginio. Non stumio Albino per la prima volta, e Quinto Servilio Prisco per la seconda. Nei lor giorni gli Equi risolvei Roma Catone Vsrrone e tero vioiai-e i patti, recenti co’ Romani, per questa cagrane. Gli Aoziati che avevano case e campi, rimasero nella lor patria, coltivando le terre ad essi concedute, come quelle attribuite ai coloni, a’ quali davano con regole Gsse parte del frutto :quelli perd che unila più avevan di questo, si trasmigrarono. Gli accolsero di buon grado gli Equi fra loro ; ma uscendone, d^>redavx> le terre latine : dond’ è cbe 'i più audaci, e più poveri ancora degli Equi, fecero causa con essi. Lamentarono i' Latini r insulto in Senato, e'tdiiesero che mandasse loro un esercito, o loro concedesse di ribattere gli autori delia guerra. Il Senato, udito eiò, nè inviare un esercito, né permise ai Latini che lo menassero : ma scelti tre ambasciadori, capo de quali era Fa-,bio, quegli che l' anno avanti avea conchiuso il trattato, ordinò loro di chiedere dai primarj della nazione, se mandava il pdbtdico per qite’ latrocini ne’campi degli alleati di Roma, anzi di Roma stessa, ne’ quali eransi anche fatte alcune scorrerie da, quegli esuli : o se il pubblico non avea di ciò colpa ninna : E se diceano che r opera era de’ privati senza volere del popolo ; chiedessero nelle mani le predé nomuMno ohe i predatori. Venuti gli oratori, ed ascoltatili ; gli Equi diedero oblique risposte, dicendo, che 1’ opera non era certo fatta per pubblico voto, ma che non istimavano bene consegnarne gli autori, perché, ridotti già senza patria, e vaganti, erano come supplichevoli stati ricevuti nelle campagne (t). AddoloravaSi Fabio, e reclamava i patti Vuol c^ita pareva loro come tradire la fede oepiiale, $e ti conergnaTeoo. Linno IX. 209 traditi, pur vedendo che gli Equi s’inGngevano, e dimandavano tempo a consultarsi, e lo intrattenevano come pe’ doveri ospitali ; si rimase infra loro con di> segno di esplorare le cose della città. E visitando ogni luogo sul titolo di vagheggiarvi le cose dei templi e del popolo, gli opifizj delle arme da guerra o Gnite o che si lavoravano, comprese i loro disegni. Tornato n Roma disse in Senato quanto aveva udito, e veduto. Ed il Senato, non più dubbioso, decretò che si mandassero i F eciali per intimare agli Equi la guerra, se non cacciavan da loro i fuorusciti di Anzio, nè promettevano rintegrare i danneggiati. Replicarono gli Equi baldanzosi, Gno a dir che accettavano, nè già di mala ' voglia, la guerra. Li nigione su’ turbolenti di Anzio, onde rassicurarsene, e Spurio Furio l’altro de’consoli coll'esercito contro degli Equi. Marciò ben tosto 1’ uno e 1’ altro ; nfa gli Equi udendo uscita già l’armata romana si mq^sero da’ campi degli Ernici per incontrarla. Vedutisi appena fra loro, tutto che non fossero molto distanti, per quel giorno si trìncierarono. Nel giorno appresso i nemici vennero quasi alle trincee de’Romani per. esplorarvenè gli animi. E poiché questi non uscivano alla battaglia, fattevi delle scaramucce, e niente di memorando, sen partirono assai Allude ai Romaui' portali non molto prima iif Aniio, come coloni pcrchi nel tempo slesto invigilassero e lenestero iit soggeunn^ Ig città proclive alla ribellione magnificandosene. Il cohsole lasciate nel giorno seguente quelle trincee, come non molto, sicure, trasposele in sito più acconcio, e vi scavò fossa più profonda ^ e vi piantò steccati più alti. Crebbe a tal vista il cuor dei nemici, e molto più quando ad essi pervennero altri snssidj de’ Volaci e degli Equi ; tanto che senza più indugi marciarono al campo romano. Il console considerando che a lui. non bastava r>esercito contro le dpe nazioni, spedisce alcuni cavalieri con lettere' in Roma perchè mandisi a lui pronto soccorso, pericolandogli tutta l’ armata. Giuntivi questi su la mezza notte, Postumio il collega di lui ricevendole, fe’ convocare per via di molti araldi i padri in Senato: e prima che il di si chiarisse, crasi decretato che Tito Quinzio già console per la terza volta portasse bentosto con autorità proconsolare il fior de’ giovani a piedi ed a cavallo sul nemico, c che Aulo Postumio il console raccolte il più presto le altre milizie, a raccoglier le quali vi abbisognava più tempo, li soccorresse. Quinzio riuniti sul principio del giorno presso a cinque mila volontari, dopo non molto marciò. Gli Equi ciò sospettando non istavansi a bada : ma deliberati d’ assalir le trincee de’ Romani prima che vi giungesse il soccorso, si divisero in 'due corpi, e t’ andarono per espugnarle colla forza, e col numero. Fecesi per tutto il giorno calda battaglia, spingendosi questi audacemente in più parti su’ ripari, nè reprimendosene pe’ tiri continui delle lance, degli archi, e delle fionde. Adunque, confortativisi a vicenda, il console ed il legato spalancando in uri tempo le porte, ne sboccano, e piombando co’soldati più validi da ambedue le parti del campo su i ne mici, ne rispingono quanti vi salivano. Messili in fuga, il console insegai breve tempo i soldati a lui coatraposti, e poi si ripiegò: ma il fratello suo e Publio F urio il legato trasportati dalla impresa e dall’ ardore corsero incalzando e uccidendo fino al campo nemico ; e non avean seco se non due coorti, numerose in .tutto di mille uomini. Gli avversar) loro be erano intorno a cinque mila, osservato ciò, si avventano dagli steccati.. E mentre questi vengon di fronte, la cavalleria, fatto un giro, prende alle spalle i Romani. Publio ed il seguito suo cosi circondato e disunito dal resto de suoi ben potea salvarsi se cedeva le arme, esibendogli questo i nemici, cbe assai valutavano far prigionierì que’mille bravi, quasi potessero in vista di essi ottener pace ono rata: ma i Romani spregiato l’invito ed animatisi a non far cosa indegna della patria, combatterono e spirarono tutti Ira’ cadaveri de’ nemici. Morti questi, gli Equi inebbriati dal buon successo presentaronsi alle trincee romane elevando confitto alle aste il capo di Publio e di altri cospicui, per iscoraggirne quei d’ entro, e necessitarli a ceder le arme. Ma se venne ad essi pietà per la sciagura degli estinti compagni, e se ne pianser la sorte, si moltiplicò ben anche lo spirito per combattere e l’ onorato amore di vincere o di morir come quelli prima che andar prigionieri. Circondati dunque, com’erano de’ nemici, passarono i Romani senza' sonno là notte, riordinando le parli che aveano soiferto nelle trincee, e quant’ altro mai potea respingere gl’ inimici se tentavano un altra volta investirveli. F ecest nel giorno appresso di bel nuovo r assalto, schiaotandovisi lo steccalo in più parti. Più volte furono gli Equi respinti da quei d entro che ne uscivano a schiere, e più volte nell’ audacia delle soi> lite, lo furono questi dagli Equi. Durò tutto il di la vicenda: quando fu il console romano ferito nel femore da uno strale a traverso dello scudo, e feriti pur furono ^ molti de’ più rignardevoli, quanti li combattevano infoiano. Ornai vacillavano t Romani, quando su l’ imbrunir della sera ecco inopinatamente apparire Quinzio per soccorrerli col corpo de’ prodi volontarj. I nemici, vedutili che avanzavano, diedero di volta, lasciando l’assedio imperfetto: ma quei d’ entro incalzandoli nella ritirata facean strazio della retroguardia : se non che indeboliti per la più parte dalle ferite, non gl’ inseguirono a lungo ; ma presto si ripiegarono verso il lor campo. Dopo ciò si tennero gli uhi e gli altri lungo tempo fra le trincee, guardando sestessi. Quindi mentre il nerbo de’ Romani era impegnato in campo, altre milizie di Equi e di Volaci credendo il buon punto d’ ime depredando la regione, uscirono tra la notte ; ed invasala in parte lontanissima dove gli agricoltori viveano scevri d’ogni paura, occuparono non poco di robe e di nomini. Non però ne ebbero bella in,dné né facile la ritirata, imperocché Postumio il console mepaudo agli assediati nel campo i soccorsi adunati, appena udì le operazioni de' nemici, si presentò loro contro la espettazione. Non sbalordironsi essi, nè tremarono, ma ponendo a bell’agio le bagaglio e le prede in luogo sicuro, e lasciandovi guarnigione delle antichità’ romane che bastasse, marciarono ordinali al nemico. Venuti alle mani, sebben pochi contro molli, fecero memorabili prove. Imperocché precipitandosi giù dalle campagne uomini in copia cinti di lieve armatura conir’ essi che eran tutto arme il corpo, fecero grande uccision dei Romani ; e per poco non si ritirarono, lasciando nell’altrui territorio un trofeo su gli assalitori. Ma il console e con esso i cavalieri più scelti spronandosi a redini abbandonate su’ loro, dov^ erano il forte, e combattevano ; ve li sbaragliarono e prostrarono in copia. Battuti que’ pnmi, anche il resto dell’ armata respinto fuggì : e la guaniigìone delle bagaglie, lasciatele, s involò di su pe’ monti vicini. Cosi pochi moriron di essi nella battaglia ; ma moltissimi nella fuga, perchè ignari de’ luoghi ed inseguiti dalla cavalleria de’ Romani. Intanto Servio 1’ altro console persuaso che il collega ne veniva a lui per soccorrerlo, e temendo che 1 nemici ^non gli uscissero incontra e glien traversasser la strada ; risolvè frastornameli, con assalirli negli aU loggiamenti. Questi però lo prevennero; perciocché sapuu la sciagura de’ compagni dai predatori salvatisi, levarono il campoj e nella notte, che fu la prima dopo la battaglia, rientrarono in città, senza che avesser potuto tptanto aveano disegnato. Ma se ne periron di loro tra le battaglie e i foraggi ; ne soggiacquero nella fuga d’ allora assai più di prima (ra quelli che restavano addietro. Aggravati questi dal travaglio e dalle ferite, Iraendosi a stento innanzi, perchè non .prestavansi ad essi i lor membri, stramazzavano, vinti principalmente dalla sete, presso de’ ruscelli e de’ dumi : e raggiunti da’cavallert romani, erano trncidali. Netnraeno i Romani tornarono felici in tutto da quella f guerra ; perdutivi molti valentuomini, ed il legato che vi si .era segnalato, più che tutti, nel combattere. Non pertanto rivennero in patria con una vittoria non inferiore a ninna. E ciù fecesi in quel consolato. Sacceduti consoli Lucio Ebusio, e Pnblio Servilio Prisco ; k Romani plinti da mori>o contagioso, quanto mai più per addietro, non fecero in queir anno cosa ninna degna di rimembranza nè in guerra nè in pace. Gettatosi quel morbo in prima tra gli armenti de’ cavalli, e de’ bovi, e poi delle capre e delle pecore, disfece quasi tutti i quadrupedi. Quindi serpeggiando tra' pastori e tra’ coloni via via per tutta la regione, in ultimo invase anche Roma. Non è facile ridire quanti servi, quanti mercenàrj, quanti della, classe indigente perissero. Da principio se ne trasportavano i cadaveri a mucchi su’ carri : ma poi quelli. de’, men riguardevoli si gettarono nella corrente del fiume. Contasene perito il quarto de’ senatori, e con essi i due consoli, ed il più de’ tribuni. Cominciò quel morbo intorno a’ primi di settembre, e prosegui per un anno in^ro, investendo e consumandone di ogni, sesso e di ogni età. Saputosi tra’ vicini il disastro romano, gli Equi ed i Yolsci lo riputarono occasione bonissima da levare sene il giogo, e fecero patti, e giuramenti, di alleanza fra loro. Quindi preparato quant’ era d' uopo per 1’ assedio, uscirono gli uni e gli altri il più presto colle Roma Catone Vartoae milizie; inondando su le prime il territorio de Latini e degli Emici, onde precludere a Roma il soccorso degli alleati. E nel giorno che giunsero ai Senato gli oratori de’ due popoli assaliti per ottenerne ajuto, in quei giorno appunto era morto Ebuzio 1’ uno de consoli standosi già Servilio, eh era 1’ altro, per morire. Or questo, sopravvivendo anche un poco, convocò il Sepa to. Portativi i più de’ padri malvivi su le lettighe dichiararono ai legati di annunziare a lor popoli ^ che U Senato concedeva ad essi di respingere col proprio valore i nemici, finché il consolo si risanasse, e fosse raccolto un esercito per soccorrerli. A tali risposte i Latini concentrato ciocché poteano dalie campagne, guardavano le mura, trascurando ogni altro danno. Ma gli Eroici non reggendo al guasto ed al sacco de’ campi, diedero all’ armi, ed uscirono. Infine dopo fatte luminose battaglie con perdervi molti ^de’ loro ed uccidervi molto più de nemici, fuggirono, necessitati, fra le mura, né tentarono più di combattere. Pertanto gli Equi ed i Volsci, depredatone il territorio, si avvanzarono impunemente ai campi Tuscolani. E derubati pur questi senza che ninno li respingesse, scorsero fino ai Sabini ; e giratisi impunemente anche su le terre loro, avviaronsi a Roma. Ben poterono essi turbarla; non però conquistarla. Quanlun que languidi nella persona, e perduta 1 uno e F altro console, mortone di fresco ancora Servilio, armatisi oltre le forze i Romani, si misero su le mura. Estese allora per circuito quanto quelle di Atene, sorgeano queste parte su i colli e su. scogli dirotti, fortissimi per, a 19 natura, e bisogoevoli appena di difesa, e parte assicurate dall’ alveo del Tevere, fiume largo quattrocento piedi , profondo da navigarvisi con legni grandi; rapido quant altri e vorticoso nel corso. Non passasi questo appiedi se non per vìa de’ ponti, de’ quali ve n era allora sol uno, e di legno, cui disfacevano nei tempi di guerra. Il lato di Roma men arduo ad espu gnarsi dalla porta chiamata Esquilina fino alla Collina era fortificalo eoli’ arte; imperocché scavata innanzi ci avevano una fossa, larga, dove' eralo il meno, più di cento piedi, e cupa di trenta, è quinci e quindi su la fossa elevavasi un moro, cinto da argine interno ampio ed alto, talché né battere quello si potrebbe cogli arieti, né rovesciar sbucandone le fondamenta. Lungo questo lato circa sette stadj spandesi cinquanta piedi per largo. Or qui schieratisi in folla i Romani respingevano 1’ as salto nemico :perocché noù sapevano allora i mortali né far testuggini sotterranee, né macchine espugnatrict delle mura. Diffidatisi gli assalitori di prendere la città ritiraronsi dalle mura, e devastandone, ovunque passavano la campagna, sea tornarono in>patria. I Romani come sogliono quando restano senza chi comandi, scelsero gl’ interré per tenere i comizj, e vi crearono consoli .Lucio Lucrezio e Tito Veturio Gemino (z). Sotto questi ebbe requie la pestilenza; puc 'Wel testo: ntritfit rìkirftr : la toco rXtrftr ’ interpreta da altri per jugero : Svida la interpreta per cesto piedi. Ma tale cspoiisione noa corrisponde. ' (a) Aano di Roma aga secondo Catone, 394 secondo Varrone, e 46a av. Qrisio. 1 furono diflerite le controversie civili private o pubbliche: e tentando Sesto Tito T uno dé’ tribuni >, riaccendere quella su la division de’ terreni; il popolo gli si oppose, e rimisela a tempi più acconci. Eccitossi in tutti in vece I un desiderio di punire quanti aveano dato guerra alla repubblica ne’ giorni del morbo. Cosi decretata la guerra dal Senato, e ratiScata ' dal popolo, si arrolarono le soldatesche : e ninno di anni militari, quantunque pri> vilegiatone per le leggi, cercò sottrarsi da quell’ impresa. Diviso r esercito in tre parti 1 una fu lasciata in guardia di Roma sotto gli auspicj di Quinto Fabio, uomo consolare ; e le altre seguirono i consoli contro i Yolsci e gli Equi. Aveano gii' fatto altrettanto i nemici. Riunitesi le milizie migliori d’ ambedue quelle nazioni, teneano il campo aperto sotto due capitani per cominciare dalla terra degli Ernici, dove ' allor si trovavano, a devastarne quanta ne soggiaceva ai Romani : la parte men atta delle ipilizie crasi lasciata in custodia delle città, perchè su di esse' ngn venisse irruzione improvvisa dagli emoli. Avuto infra loro consiglio, crederono i consoli il meglio d’ investire innanzi tutto le lorp città sul riflesso che la unione delle armate si scioglierebbe, se ciascuno udisse ridotta in pericolo estremo la sua patria ; giacché riputerebbero assai meglio salivare le proprie cose che guastar le ini miche. G)sl Lucrezio piotnbò su gli Equi, e Yeturio su i Yolsci. Gli Equi trascurando ogni rovina di fuòri guardavano la città e li castelli. In opposito i Yolsci ardimentosi, arroganti, spregiando 1’ armata Romana come diseguale contro la Lisno IX. 221 lor ffloltitudiae, uscirooo 4 combattere pel territorio proprio, e misero il campo presso di Yeturio Ma come accade a milizie receuti, raccolte per la circostanza alla rinfusa di mezzo a villani e cittadini, privi in gran parte di arme o di sperienza, non ebbero cuore nemmen di venire alle mani : e perturbatine i più fin dal primo avventarsi de’ Romani, non reggendo nè al suono delle arme percosse, nè ai gridi, preludio della battaglia, tornarono con dirottissima fuga in città. Dond’ è che incalzati dalia cavallwia ne perirono molti nello stretto de’ sentieri, e più ancora mentre a gara si cacciano tra le porte. A tale disastro accusarono i Yolsct sestessi d’ imprudenza, nè più tentarono di cimenUrsi. Li capitani però che tenevano in campo aperto le milizie dei Yolsci e degli Equi all’ udire, com’ erano investite le loro città, deliberano di fare ancor essi alcuna magnanima impresa, levandosi dalle terre de’ Latini e degli Eroici, e marciando on quanta avean furia e prestezza su Roma. .Ancor essi avean mira che rinscisse loro r uno o 1’ altro de’ due belli disegni, cioè d’ invadere Roma,improvvista, o di richiamarvene le armate di lei dai loro territori, necessitando ti consoli a soccorrer la patria. Su tale pensiero marciarono a gran fretta per essere inaspettati su Rotna, coll’ effetto delr opera. Avvicinatisi di nuovo al Tuscolo, udendo che le mura di Roma erano tutte piene di arme, e che in antecedente aveva tentalo il primo d’ iikrodiuTe tale eguaglianza ; ma dovette lasciar I opera imperfetta, tro-; vandosi U gran numero del popolo nell' armata in sai' campi nemici, tenutovi ad arte.,da’ consoli, finché il tempo finisse del loro governo. IL Postisi quindi a tale impresa il uibubo Aulo Veoginio’e li colleghi, t voleano consumarla: ma i consoli, col Senato, e. con altri in città. più potenti adoperavansi costantemente per ogni maniera,, affinchè ciò non seguisse, nè dovessero governare secondo le leggi : e. più volle sen tenne 1’ adunanza del Senato, piA volte quella del popolo ; facendo i lor magistrati ogni sforzo gli uni contro degli altri ; doiid’ era a tutti viàbile che verreb!>e da' tanto Jisàdio alla città disastro insanabile e grande. A tali |>resagj. dai canto degli uomini agglongevansi i terrori dal canto del cielo, d’ alcuni de' quali non Irovavansi L àmili ne’ pubblici scritti, né, par monumento qualunque. Ben trovavanà occorse ancora in antico e coiTuacazioni soorrenti pelcielo ed. accensioni fissa in un luogo, muggiti e scosse continue delia terra,. e larve qua e là vaganti per l’aere, e voci desolatrioi, e cose alirallali: ma ciò che non erasi mai nè sperimentalo nà udito, e che più che lutti perturbava., era che il cielo navigò. dirottamente pQngià con nembo, dii neve, ma con brani, più o men grandi di carne; che tali cairn momot, ltrio di ''contndirla fino al ritorno del terso mercato. Or molti, d^l Seoatè giovani e vecch), nè giè de’ più dispregevoli, la contraddissero per più giorni cou as^ai studiati discorsi. Stanchi poscia 1 tribuoi per tanto consumarsi di tempo, più non per> misero che altri aringasse in contrario: ma predesti Dando il giorno nel quale espedire la legge, invitarono i plebei a raccogliersi appunto in quello, giacché non sarebbero più conturbati dalle lunghe concioni, ma voterebbero su di essa per tribù. Cosi promisero, e sciolsero 4’ adunanza. Dopo ciò li consoli e li patrizj più potenti andatine più esasperali ad essi reclamarono, e dissero che non permetterebbero che introducessero leggi senza previo decreto del Senato : SSSMUS IM lecci t patti DELLE ANTICHITÀ’ ROMANE DSL COMVNS DELLB ClTtjC IfOTf DI ONA PARTE DS~. GLI ABlTAafl DI QUESTE : CHE QUAWDO LA PARTE-, MEIf SANA VI da' leggi ALLA MIGLIORE A PRSf.UDlO MANIFESTO DI DANNO TRISTO, INSANABILE, SCON GISSIMO. Quale., aggiuDgevaQO qtuU potere avete voi o. tribuni di far leggi o distruggerle ? Voi non avete con questi diritti ricevuta dal Senato là magistratura: voi chiedeste il tribunato in difesa de' poveri offesi o soverchiati, non per altra briga niuna. Che se aveste già prima tal potenza cedendo il Senato ad ogni vostra pretensione ; non C avete voi questa, perduta col mutar dei comizj ? perciocché non i Pereti, del Sornald', non i voti dati per centurie destinano voi per tiibuni: voi non premettete ai comizj per la vostra creazione nè i sagfijicj dovuti per legge, né altri ossequj verso de' numi, nè pietose -opere verso degli uomini. Come a voi si appartiene far cose ( quali appunto sono le leggi) che ahbisognavtmo' di culto e di sagrifizj di un dato rito, se i riti tutti violate f Coai lissero ai tribuni i patrixj seniori, cosi li giovani, .che andarono cinti da un seguito per la città : e rìcuperà^ rono colle dolci i cittadini più miti spaventando i ca-, parbj e K turbolenti se non faceano, senno, col terroc de’ pericoli : anzi battendo come schiavi, ed^ escludendo dal Foro alcuni de’ più bisognosi ed abjelti, i qualt non curavano se non l’ utile proprio. • V. L’ uno di quelli ebe ebbe maggior seguilo, e che poteva aUora più di lutti i giovani fu Quinzio Cesone, figlio di Lucio Quinzio chiamato Cincinnato, nobile, Straricco, bellissimo, valentissimo nelle armi, e nel dire Or questi molto allora si scaricò su' plebei, non aste nendosi' nè da parole, molesiissitne ad uomini liberi, nè da’ fatti corrispondenti alle parole, Pertanto i pairizj lo onoravano, e ^istigavanlò più a tener fronte ai perìcoli, promettendogli sicurezza essi stessi : ma i plebei r odiavano più che ogni altro. Or da 'un tal uomo risolverono liberarsi i tribuni avanti tutto per abbattere in esso gli altri giovani, e necessitarli ad esser più savj. Ciò risoluto, e preparati assai discorsi e lestimon}^, lo dtardno come reo di pubblica offesa per punirlo 'di morte. Intimatogli di presentarsi al popolo, venutone il giorno, e convocata 1’ adunanza, perorarono a lungo coofra lui ; nunierando tutte le violente fatte, ed allegandone gli offesi stessi per teslimonii. -Or .qui data licenza di parlare ; il giovine chiamato a difendersi non ubbidiva : ma volea soddisfare ai privati in 'quanto diceansi oltraggiati da loi > secondo le leggi, tenutone il giudizio innanzi de’ consoli : ma, il padre di lui vedendo i plebei sofferime malamente le ritrosie, prese a difen’^erlo egli stesso ; dimostrando le tante delle accuse coqic false f ed insidiose, e dimostrandole,. quando negar non poteansi, come picciole, leggere, nè dégne dell’ ira del popolo, e su cose, fatte non per trama o disprezzo, ma piuttosto per enfasi giovanile di gloria. Per questa diceva eh’ eragli occorso talora di fare e tal altra di pa> rire forse incautamente nelle contese; non essendo lui nel fiore degli anni e del senno. Pertanto pregava il popolo non solamente che non se gli adirasse pel discorrere suo, ma che giel condonasse in vista delle belle gesta di esso le quali operarono fra le armi la libertà de’ privati ed il comando della patria, ed invocavano fin d’ allora per lai quando Avesse mancato la clemenaa ed il soccorso di tcuti. E qui narrò le campagne da lai sosténute, -e le battaglie nelle quali avea riportato dai capitani la corona de’ prodi, quante volte eravi stato la diiesa de’ cittadini, e quante avea primo salito le mura de’ nemici : da ultimo ri rivolse ad impietosire e scongiurare il popolo in riguardo della modera^'one sua verso tutti, e del vivere ‘suo conosduto sempre come innocente ; chiedendo che in grazia almeno gli salvassero il figlio. Compiacevasi il popolo a tali discorsi, e deliboravasi rendere H 6glio al padre. Se non che riflettendo Yerginio che se costai non subiva le pene ; ne diverrebbe intollerabile 1’ audacia, e la caparbietà de’ giovani, sorse e disse : Contestata o Quinzio è la tua virA, la tua benevolenza verso del Spopolo e te ten debbe tutta la stima: ma la molestia, e la insolenza di codesto tuo figlio verso tutti non ammette escusàzione o perdono. Egli educato con la tua disciplinà sì discreta, cpme tutti sappiamo, e si popolare ; ne abbandonò gli ammaestramenti e seguì V arroganza de tiranni, e la sfrenatezza de' barbari, portando in città gf incentivi a tristissiiHe opere. E sia che tu noi conoscessi per tale ; ora che tei conosci ben dei con noi e per noi concitartene : che se per tale il sapevi, e lo coadiuvavi in quanto egli inviliva ognora pià' la sorte dei poveri ; eri anche tu lo scellerato, e mal souavati intorno la fama di uom probo. Afa tu non vedevi ( ed io stesso potrei contestartelo ) quanto egli dalla. . a3i tma uirtà degenerava. Sebbene io tenga però, che allora tu non partecipavi con esso. nelF offenderci ; dolgomif che ora come noi non te ne sdegni. Ma. perchè tu meglio conosca qual niostro' abbi nudrito senza avvedertene contro la patria, quanto tirannico, c non . puro nemmeno tlal sangue.. dk' cittadini ^ odi la egregia opera sua, e contrapponi a questa, se puoi, U bellici suoi prèmji E voi, quanti siete imo pioto siti al pianger di un padre, considerate se stia bene che risparmisi un tal cittadino. E qui fe' cenno a Marco Volscio T uno de’ suoi colleghi perchè sorgesse e dicesse quanto sapeva di quel giovane. E fatto silenzio, e grande espettazioiie ; V(d> scio soprastando alcun poco-, disse : Oltraggiato, e pià che oltraggiato che io fui da quest’uomo, ben avréi voluto pigliarmene, o cittadini, le pene che ut erano concedute dalle leggi : ma impeditovi allora, dalla mia debolezza, dalf esser mio di plebeo, prenderò ora che mi è dato f le parti di testimonio, se quelle non posso di accusatore. Udite le acerbità, le indegnità che men ebbi. Era Lucio, fraltel mio,,che io amava piti che tutti i mortali Avea \ questi cenato mecò. presse di un amico, quando al giungere della notte di levammo, e partimmo. E già passavamo per il Foro, quando si abbattè con noi codesto petuUui-,te, seguito da giouani pari suoi: li quali, ebbrj ed 'arroganti che erano, beffarono ed insultarono noi, quanto, insultato e beffato avrebbero i meschini e gli .ignobili. Così provocati j V uno di noi parlò liberissimamente. Or codesto Cesane estintando . ria cosa ttdire ' ciocché non voleva, gU s' avventò, lo battè : e mainìenalolo con i calci e con ogni guisa di sevizio^ e cT ingiurie; io uccise. Ucciso lui, manomise ancor me, che ne gridava, e ne repugnava quanto io po~ tev'a : nè mi lasciò, se non dopo credutomi estinto, ài vedermi immobile in terra, e senza voce. Allora se no' andò giubilando come per bellissima prova ; ed allora' gli astanti raccòlsero noi lordi dal sangue j e riportarono a casp Lucio il fnio fratello, morto, come ho detto, e me presso che morto, e che certo ornai poco sperava di sopravvivere. Occorse ciò. sotto i consoli P^ublio Servilio, e Lucio Ebuzio, quando spaziava in Boma la ff-an-' pestilenza, alla quale eravamo soggiaciuti atKor noi. Quindi non potei dimandarne ragione, morti /essendo i consoli tutti due. Succederono poi consoli Luaezio e Tito Terginio. Io voleva allora ' citarlo in giudizio ; ma ne fui impedito dalia guerra, fasciando ambedue per essa la città. Jiitomati .questi dal campo, quanto volte 16 citai presso de òiagittrati, quante volte mi vi accostai, tante ( e ben molti lo sannò ) fui da esso ferito. E questo, 'o popolo, che io ne ho tollerato, questo vi ho detto con tutta la verità. Alzarono a quel dire, gli astanti le grida, (eolandone molti la vendetta colie lor inani. Ma vi si opposero i consoli, ed i più de’ tribuni, alieni che in città s’ introducesse la tea consuetudine ; tanto più che la parte più sana del popolo non voleva che si toglicssero le difese a chi pericolava in giudizio della vita. La cura duirque della ginsUzut represse allora gii empiti della iur scienza, ed il giudizio fii differito non, senza contenzioni e dobbj non piccioli, se dovesse' intanto il reo serbarsi neiia carcere, o dare i mallevadori per la sua dimissione, come il padre di lui dimandava.' Il Senato adunatosi decretò che se no desse malleverìa • sotto ob-> biigazion pecuniaria ; ed egli libero andasse finché di lui si giudicasse. Or mancando il giovine di comparire • al suo tempo ;. i tribuni convocarono il giorno appresso la molthndine, e contro lui sentenziarono ; dond’ è che i mallevadori, eh’ eran dieci, pagarono là multa convenuta in sicurezza delia sua presentazione. Colto dunque fra tali insidie dai tribuni che guidavano tutta la trama, colle itestimobianze di Volscio, che poi false si riconóbbero, Cesone fuggi nell’ Etruria. Il padre di lui venduto il più di sue cose, e rintegrati i mallevadori delle multe obbligate visse tra il disagio e lo stento in un poderétto; che aveasi con picciolo abituro lasciato di là dal Tevere, coltivandolo con ponchi servi, né più rècandosi in città per 1’ afflizione, b la inopia, nè riabbracciando gli mici, né iniramettendosi -a festa, o ricreazione niuna. Ai tribuni però succedé ben altro che le loro speranze: imperocché non .solo qon se ne chetò pér alcun modo la gioventù contenziosa ammaestrata dai mali di Cesone ; -ma ne imperversò più ancora, contrastando co' detti e co’ fatti la legge; talché non poterono affatto stabilirla, cousumandosi in brighe la loro magistratura. Pertanto il popolo confermò pel nuovo anno i tribuni medesimi. ' fX. Ascesi ai grado consolare Valerio Popiicola, e Cajo .Claudio Sabino , Roma corse in pericoli quanti Anoo di Roma 39! secondo Catons, 396 secondo Varrone, c 4''8 av. Cristo. uiai più ^ per la guerra cogli i esteri, attiratale dalle d!i cordie domestiche, come af eano j preoooziato i libri sibillini, e li segui dimostrati 1’ anno precedente dai numi. Io sporrò cagione, che suscitò U guerra, e ciò che fu per queau operato allora da’ consoli. Li tribuni preso di nuovo il lor grado su la speranza di fondare la legge, vedendo console Ca)o Claudio pieno di odio ereditario contro del popolo, e sollecito per ogni guisa nd impedire quanto facevano ; e vedendo i più potenti de’ giovani trascorsi -iu fùria manifesta da non combatterli colla forza, ed i più della plebe obbligati da' servigi de’ patrizj, e rimasti senza il primo ardore per la leggQ deliberarono spingersi all’ intento con mezzi più risoluti, onde atterrire quei della plebe, e far desistere il console. Su le prime procurarono spargere voci varie per la città, poi sederono da mattina a sera coosultaudosi visibiloRate senza comunicarne ad alcuno nè consigli nè parole. Ma quando parve loro tempo di .eseguire i disegni, finsero delle lettere ; facendosele recare mentre sedeano nel Foro da un ignoto. E come prima Je lessero,, battendosi la .fronte, e contristandosi ne’ set^bi^nti ; levaronsi in piede. Accorsa gran moltitudine, ed insospettitasi che fosse in quelle lettere indicato alcun grande infortunio, essi or dioaroiio,pe’ banditori silenzio e dissero; La repubblica o cittadini sta. negli estremi pericoli. E sé la benevo^ lenza degl iddj non avesse provveduto a chi era per. incorrervi : noi tutti saremmo in fetali sciagure. Chiediamo che vi tfiniale qui breve tempo, finché riferiamo al Senato eiocohè ne si avvisa, e facciamo di cornuti volo oiocché si debbo ; E ciò detto, ne andarono ai consoli. Frattanto che il Senato si radunava, faceansi pel Foro molti e svariati discorsi; ripetendo altri appo> stalaroente ne’crocchj ciocché era stato intimato loro da’ tribuni ; ed altri pubblicando, come detto ai tribuni, ciocché temeano essi stessi, che succedesse. Chi dicea che i Volsci e gli Equi aveano accolto Quinzio Cesone il giovine condannalo dal popolo, creandolo comandante assoluto delle due genti e che leverebbe .gran forze e marcerebbe contro di Roma: echi dicea che quel giovine d’ accordo cp’ patrizj tornava con esterne. milizie, perché si abolisce una volta per sempre il magistrato che era il presidio de’plebei : altri aggiungeva che eosì non sentivano tutti i patrizj ma i giovani soli: e. vi fu chi ardi fino dire che colui si stava occulto in città, e che occnpenebbe i posti più acconci. Ondeggiando cosi tutta la città per |a espeUazioue de’ mali, e sospettandosi tutti, e guardandosi gli uni dagli altri : i consoli convocano il Senato : ed i tribuni vengono e palesano ciocché avvisavasi loro: parlava, per tutti Aulo Yerginlo e disse : • f > X. Finché gli annunzj che ci si davan de' medi ^ ci sembrarono non accureUi, ma vani e senza fondai mento, sdegnefmmo o padri coscritti, di pubblicarlit tal timore che non.se ne eccitassero grandi txirbamenti, come sogliono, alP udirsi triste cose, e con riguardo di non essere da voi creduti anzi precipitosi che savj. Non però lasciammo tali annunzj, trascu^ rondo li eiffaUo : anzi ne abbiamo i investigata la ver rità, quanto per noi si potè.. Ora. poiché la provit denzu celeste, la quale ci ha ‘sempre salvato la repubblica, ci benefica p svela i segreti consigli y e le ree macchinazioni di uomini nemici agt iddj, e teniamo fin delle lettere che abbiamo di fresco ricevute in pegno di benevolenza da ospiti, che voi poscia adirete, e poiché concorrono e concordano gC indizf Interni con gli^ altri di fuori, e gli affari che abbiam tra le mani non ammettono più. indugio e riserva i deliberiamo, com’ è giusto, palesarli a vói, prima che al popolo. Sappiale dunque che hanno contro il popolo congiuralo uomini non ignobili, tra' quali dipèsi-esser parte, non grande però, degli anziani, ascritti al Senato, ma più grande de’ cavalieri che ascritti non vi sono ; e questi, quali siano, non è tempo ancora di rivelarlo. Questi, come udiamo, colta una notte oscura, sono per assalirci tra’l sonno, quando nè può risapersi ciocché è fatto, nè vaUomo a congregarci e difenderci. Fermi sono d'investire ‘e di uccidere nelle case noi tribuni e quei plebei che st opposero iy o fossero mai per opporsi ad essi circa la libertà. Quando avran tolto noi, pensano di aver da voi ciò che resta, sicurissima ' mente, cioè che revochiate di comun voto le concessioni da voi fatte alla plebe. Fedendo però che han bisogno per compiere ciò di prepararsi occultamente una milizia di fuori, e non piccola, si hanno eletto capo queir esule nostro, quel Ceso e, convinto delV eccidio di cittadini, e della discordia della città, • e pure fatto per alcuni di qua entro, fuggir salvo dal giudizio e da Roma, con promettere di procurargli il ritorno, magistrature, onorificenze, ed altri, compensi de' servigj. E questo Cesene ha protnesso di conduf loro, milizia di Equi e di Eplsci, quanta abbisognane. Egli verrà tra non molto co’ più audaci, introducendoli a pochi a pochi e '.sparsamente in ci/r tà: l^ altre milizie, quando saremo periti noi capi del popolo si avventeranno su gli alpi del popolo stesso, i quali difendessero ancora la libertà. Queste, o padri coscritti sono le terribili, le impurissime opere che disegnano far tra le tenebre, senza temere r ira degli iddj, nè riguai dare, la vendetta degli uomini. Agitati da tanto pericolo, a voi ne veniamo supplichevoli, o padri, voi scongiuriamo per gf iddj, voi pe genj adorati dalla patria, voi per la memoria dei tanti e gravi nemici da noi combattuti in coma-, ne, affinchè non lasciate che noi patiamo le sì dure, ed indegnissime offese : ma v’ 'empiate come noi di risentimento, e ne soccorriate, e puniate, come delf~ Lesi, tali macchinatori tutti, o nei capi almeno della infame congiura. E prima che tutto, dimandiamo o padri che decretiate, come è giusto,. che inquisiscasi da noi tribuni su le cose deferiteci; perciocché oltre, la giustizia, la necessità dee rendere, inquisitori di-, agentissimi gV investiti dal pericolo. Che se alcuni tra voi son disposti di non compiacerci punto, anzi di contrariarne in, quanto vi diciamo del popolo ; volsntieri conoscerò da essi quale vi disgusti delle. nosVe dimande, e ciò che vogliate da noi finalmente Che non facciamo forse niuna ricerca, ma trascu~ riamo la si bufa e si rea tempesta che pende sul popolo ? E chi direbbe li sì fatti decisori esser sani, e non corrotti) e non' partecipi della congiura anzi chi non direbbe che temono per sestessi, temono di essere scoperti, e quindi scansano che si esamini • il vero ? Perciò non debbesi attendere a tali uomini. O vorranno forse che non siamo noi gl' inquisitori 'di dò; ma il Senato e li consoli? Ma che impedirebbe che i tribuni pure dicessero, che a loro che han preso a difendere il popolo / a loro si spetta la inquisizione de plebei, se alcuni mai congiurassero contro de' padri e de'consoli, e macchinassero la rovina del Senato ? Or che seguirebbe da ciò ? questo appunto, che mai la indagine si farebbe maneggi reconditi. Noi però mai ciò nort faremmo, perchè sospetta ne sarebbe f ambizione : e così voi non bene adopererete dando mente a coloro che non vogliono che noi pure slam pari a voi ne’ casi nostri, per fare F esame; ma benissimo adopererete riguardando questi, come nemici comuni. Al presente, o padri coscritti, niuna cosa tanto bisogna, quanto la sollecitudine: glande, imminente è il pericolo; e C indugio a salvarsi è sempre intempestivo ne’ mali che non indugiano. Lasciando dunque le altercazioni, e i lunghi discorsi decretate ornai ciocché F utile vi sembra della' repubblica. eraoo i padri come rìsolfere: e riflettevano seco stessi, e ripetevano 'fra loro, come fosse ugualmente arduissima cosa concedere e non concedere ai tribùni di fare inquisiaione su loro, in affane comune e gravissimo. Ma Cajo Claudio 1’ uno ajg de consoli, che tenea per obliqua quella loi^ proposta, sorse e disse : iVon penso, o Kergìnio, che costoro sospettino me come partecipe della congiura che dite macchinata cantra voi, e cantra il popolo e sospettino che io sorga a contraddire, perchè temo per me o per alcuno de miei che n è complice ; giacché il tenore della mia vita esclude in tutto da me tali sospetti. Io dirò sincerissimamente e sema riguardi ciocché reputo £ utile del Senato c del popolo. Molta, anzi affatto s’ inganna Ferginio, se concepisce che alcun di noi sia per dire ohe si lasci,, sema discuterlo, im tal affare sì grande e necessario ; e che non debbono aver parte, nè star presenti alla indagine i magistrati del popolo. Niuno è sì stolido, niuno sì malevole al popolo che voglia ciò dire: Che se dunque alcun chiede, qual ne ho male, ohe insorgo contra cose che io concedo per giuste; e che presumo io mai col mio dire ; io, viva Dio, ve' lo esporrò: Io penso, o padri coscritti, che i savj debbano considerar sottilmente i germi e le linee prime di ogni affare : imperocché deesi di ogni affare discorrere secondo che ne stanno i principj. Ora udite da me ciocch' è V intrinseco del subietto presente, e quale il disegno de tribuni. Non riesce ora loro di ultimare ninna delle cose incominciate nè proseguite nelC anno antecedente, perchè voi vi opponete ad essi come allora, nè pià il popolo li favorisce. E ciò conoscendo cercano necessitare voi, sicché cediate loro anche vostro malgrado, ed il popolo, sicché cooperi a quanto mai vogliono. Ma per quanto se ne consultassero, per quanto volgessero da,' ogni banda, V affare, non trovando mezzi semplici e buoni per V uno e V altro intento ; alfine così la discorsero.. Lainenliamoci che alenai nobili han congiurano di> abballcre il popolo / e di uccidere quanti ne proca nino la salvezza. E quando avrem &UO, che tali cose, preparale da gran tempo, siano. in cittA disseminate,; e sembrino credibili I popolo (e credibili le renderà a la paura)} allora fiugeremo delle lettere da presenti larcisi per un ignoto in presenza di molti. Ne amdre> mo quindi In Senato, ci> sdegneremo, ci dorremo, e cercheremo il poter d’ inquisire su le dinunzie dateci. Se i patria) ci si oppongono, prenderemo ‘da indi ^argomento di calunniaiii presso del popolo; ed il a popolo esacerbato contro di essi diverrà ^ propizio a X .quanto noi vogliamo. Che se cel concedono leveremo X di città, come trovati complici, i più misgnanimi frA loro, e più nemici nostri, vecch j ^o giovani. Impe rocchè coloro intimoriti di essere condannati o pat tuiranno con noi di non più contrariarci ; o saran costretti a lasciare la patria : e co^ la fàzipn contrap posta sarà desolata . Tali sono i loro disegni p padri coscritti, e quando li vedevate che sedeano o consultavano ^ al~ lora tesseano C inganno contro i più riguwrdevoli tra, voi, allora complicavan la rete contro i cavalieri più puri. E che ciò sia vero ; presto ve lo dimostro. Dì, yèrginio, dite voi, su quali pende il pericolo, da quali ospiti aveste la lettera ? dove abitano, come vi conoscono', come seppero tali nostre cose ? Perché differiste a svelare i lor nomi, perchè prometteste dirceli poi, nè li avete già detti ? Qual fu V uomo che vi portava le lettere ? che noi menate voi qui y sicché su lui cominciamo a diicutere, se vere elle siano y o se piuttosto, come io penso finte da voi ? E gt indizj interni che si accordano co’ segni di fuori quali sono mai questi? o chi mai ve li diede ? Perchè ne celate, non ne pubblicate le prove ? Se non. che mal si trovano prove di cose che non furono mai come io credo, nè mai saranno. Questi o padri coscritti non sono indizj di una congiura contro loro ma piuttosto delle insidie e del mal animo che essi covano contro di voi, come C affare dichiaralo • per sè stesso. Ma voi siete -di ciò la causa, voi che concedeste loro le prime cose, e portaste a tanta potenza codesto insano 1 loro magistrato, quando lasciaste nell’ anno antecedente che giudicassero per falsi titoli Quinzio Cesone y 'e soffriste che strappasSer dal seno un tanto difensor de'patrizj. Da ciò nasce chepili non serban misura, nè tolgon di mira i nobili ad ano ad uno, ma investono e scacciatio in un globo tutti i migliori della città : Eciò che è peggio j non permettono nemméno che contraddiciate Biro, e V atterriscono con darvi per i sospetti, e calunniarvi come complici de’ segreti disegni ^ con dirvi ben tosto inimici del popolo, e citarvi al popolo stesso, perchè -subiate la pena de’ discorsi qui fatti. Ma su ciò diremo altrove pià acconciamente. Ora per istringere e non prolungare il discorso, ammoniscavi che vi PTOIftCr, tomo in. ' it guardiate da codesti turbatori di 'Jioma, dti codesti seminatori de’ mali. Nè celerò già al popolo quanto qui dico ; ma gli sporrò liberissimo che non pendo su lui niente di. male, se non quanto glien fanno i tristi ed insidiosi ..tribuni, benevoli ne' sembianti e nemici ne' fatti. Sorse al dire del console clamore m tomo ed applauso ben grande, e sciolsero 1’ adunanza senza ^pertncHve che '^pià i tribuni parlassero. Dopo ciò Yergiaio convocato il popolò, vi accusò il Senato ed i consoli. Ma Clandio ve li escusava apptmio co’ discorsi tenuti in Senato. Presero i più discreti del popolo per vana quella paura: ma i più sjolidi per -vera, credendo le dicerie : e quanti ne erano I più soellerali, ^anti i più bisognosi ognora di un cambiamento, vi xercaròno un pretesto -di sedizione, je di torbido, doù che mi> ressero a far disceraere il Vero dal falso. Intanto un Sabino non ignobile di lignaggio, potente in averi (Appio Erdonio ih chiamavano.) si pose in cuore di abbattere la potenza romana, sia che ne cercasse per sé la tirannide, sia che una grandezza ed un dominio, ai -Sabini, sia che tina fama luminosa al suo nome. Comnni'catosi, in quanto a tale idea, con' molti amici, divisata là maniera dell’ impresa, ed approvatone ; riuni li clienti, e li più baldanzosi de’ servi suoi. Concentrati In poco tempo intorno a quattro mila uomini, ed apparecchiate arme, viveri, e quanto bisognava per una guerra, gl’ imbarcò su legni fluviali. ?iavigando sul Tevere, gli approssimò a Roma dalla banda, ove sorge il Campidoglio, non lontana nemmeno uno stadio dal fiume. Era la notte in sul mezzo: ed in Roma calma grandissima. Egli dunque al favore di queo ottenuti i luoghi piu acconci, ricever^ gli esuli,, liberare, gli schiavi, sdebitar con promesse i poveri, e consociare a sestesso 4utti gli akti cittadini clie dal basso loro stato invidiavano ..ed odiavano i potenti, e seguivano con diletto la mutazione. La iipniagine. che deludevalo intanto che lo isperariziva di ottenere quanto aspettava, era la civil sedizione, per la quale concepiva che più non vi fosse amicizia, nè ligame tra i plebei e tra’ patrizj. Che non fosse a lui riuscita ninna di tali cose r allora disegnava chiamare con tutte le milizie i Sabini, i Yolsci ed altri vicini, quanti voleano iredimerst dal giogo esecrato de’ Romani. . Occorse, però che s’ ingannasse in lutto ; jmpe> aocchè nè si diedero a lui gli schiavi, dè gli esuli ripatriaronb, nè gl’ indebitati q disonorali 'anteposero'!’ utile proprio al comune, nè i sqcj esterni ebbero spaziò abbastanza da preparare la guerra: giacché tale affare, che diede tanta paura e turbamento a^ Romani, ebbe Gne ben tosto ne’ primi tre o quattro giorni. E per verità, presa appena la fortezza, datisi gli abitanti dei luoglù Questa porta fu chiamala ancora scellerata perchè poterono per essa uscire ma non tornare i Pabj che andarono a Cremerà contro i Toscani j come iuiUcano Testo ed Ovidio. Fasi. a. intorao che non erano rimasti uccisi, a gridare e fug-' gire ; il popolo non sapendo che mai fosse, impugnò le armi, e Corse parte ne siti eminenti y o ne’ spaziosi, che eran molti, della città, e parte ne’ campi vicini. Quanti perduto il fiore degli anni erano nella impotenza delle forze, salirono colle, mogi) ai tetti delle case per combattere di là li forestieri, parendo loro ogni luogo pieno di nemici. Fatto giorno, come seppesi che 'erano in città prese^ le fortezze, e chi prese le avesse ; i coasoli andarono al Foro, e chiamarono i cittadini alle arme. Li tribuni convooita la ' moltitudine dissero che non voleano far cosa contraria, alla patria ne’ suoi pericoli ; ma che riputavaào giusto, che il popolo il 'quale espoùevasi a tanto cimento vi si esponesse con patti espressi : Se i patrìzj, diceano, promettono, chiamarti done mallevadori gli Dei, che Jinifa la guerra cìoon^ cederanno di creare i legislatori, e di vivere pari a noi ne diritti per t avvenire; liberiamo con essi 'la patria : ma se ricusano ogni partito di moderaziode ; e perchè mai cimentarsi ?' perchè gettile la vita, quando niun bene' ce ne ridonda ? Mentre cosi dicevano ed il popolo se >ne persuadeva tiè udiva le voci di chi altro gli suggerisse ; Claudio. disse ohe non tJ>bisognavasi di tali che soccorressero la patria non volontari, ma per prezzo e non ' lieve : che i pcurizj armando sestessi e i clienti, e chiunque univasi loro spontaneamente assedierebbero le fortezze ; Che se tali milizie non pareano sufficienti; ne chiamerebbero ancora dai Latini e dagU Ernici : e se la necessità stringesse, prometterebbero la libertà agli schiavi : cAe infine inviterebbero, tutti, piuttosto che quelli che in tal congiuntura profittavano della odiosità de' vec~ chj fatti. Contraddiceva a tanto Valerio 1’ altro console : e giudicando che non dovesse mettersi in guerra coi patris) la plebe già adirata con essi .-consigliava che si cedesse al tempo : si pretendesse da' nemici esterni il diritto: ma si usasse helle gare domestiche equità e dolcetta, E sembrato egli al più dei padri di aver dato il consiglio migliore, ne venne all’ adunanza del popolo,e tenutovi un ' conveniente discorso, lo terminò, giu> rando, che se i plebei si unissero a, lui con ardore sella guerra, q, riordinassero le cose della città; concederebbe ai tribuni di far discutere al popolo la legge che essi progettavano su la eguaglianza ne’ diritti, e che terrebbe modo onde ciò che fosse à questo piaciuto si eseguisse nel suo consolato. Ma ‘non portava il destinò eh’ egli adempiesse alcuno de’ patti, seguendolo ornai da presso la morte. Sciolu i’ adunanza, intorno a’ crepuscoli vespertini accorse ciascuno a’ suoi posti per dare a’ capi il suo nome, ed il militar giuramento; e fra tali due cure si consnmò qncl giorno e la notte che lo segui. Nel giorno appresso furono compartiti e còllocati da’ consoli i tribuni sotto le insegne sante, aiTollandovisi la nioltitndine ancora abitatrice della campagna. Ordinata così ben tosto ogni cosa, i consoli divisero le milizie, e ne tirarono a sorte il comando. A Claudio toccò d’ invigilare innanzi le mura, aIBnché non entrasse in sussidio altr’ armata di fuori ; perocché sospettavasi di un moto assai grande, e temeasi che piomberebbero forse tutti i nemici su loro. Portò la sorte che Valerio si mettesse all’ assedio delle fortezze. Altri duci furouò destinati sb I di altri luoghi muniti, interni alla città ^ ed altri su le vie che menano al Cartipidoglio per impedire che vi passassero al nemico gli schiavi e li bisognosi temuti soprattutto. Non venne a Roma sussidio di alieniti, se non de’ Tnscolaili, informati ed apparecchiati in una notte e guidati da Lucio Mamilio, uomo operosissimo, e capo allora della nazione. Questi soli entrarono con Valerlo a parte de’ pericoli, et dimostrandovi Ihtta la benevolenza e lo zelo ; rivendicarono con eSso le fortezze. Diedevisi da tutte le parti 1’ assalto : chi adattava su le donde vasi pieni di bitume e pece incendiaria, e lanciavali dalle case vicine in sul colle : chi recava, fasci di sarmenti, e fattine cumoli ben àltj su lo sco' sceso della rupe gli ardeva, lasciando che il vento ne trasportasse le damme: i più magnanimi ristrettisi nelle Schiere salivan alto di su per vie manufatte : ma la motti(udine colla quale tanto sorpassavano 1 inimico, niente giovava ad essi che ascendevano per sentiero angusto, pièno sopra di sassi da trabalzameli, e tale che i pochi vL divenivano bastanti contro i mólti : nè la costanza acquistala tra le molle ‘‘guerre incontro ai pericoli valeva punto per chi rampicavasi diritto sa pei scogli. Pcroccliò facessi la battaglia con colpi lontani e Dòn a corpo a corpo onde moslraiwi audacia e forza ; le arme lanciate da basso in alto giungevano, cotn -è verisimile, se colpivano, languide e tarde ; laddove quelle scagliate dall’ alto in basso piombavano penetranti e piene, secondandone il peso, \ lor tiri. Non però invilivano gli assalitori, ma persistevano, necessitati, tra' mali, senza rèquie alcuna diurna o notturna : tanto che mancate finalmente agli assediati le arme e le forze, dopo il terzo giorno gii espugnarono. Perdeèouo i Ro mani in questa battaglia molti valentuomini, ed il console', valentissfmo, come tutti concedono. Costui sebbene ricevute molte ferite, non si levava da’ perìcoli : ma saliva tuttavia la rocca, finché gli precipitarono ad dosso un macigno, che gli tolse • la vittoria e la vita. Espugnata la fortezza, Erdonid robustissimo che era di corpo-, e bravissimo in arme, destò strage incredibile idtornct di sé, ma sopraffatto infine dai colpi morì. Tra quelli che -avevano occupato con esso il castello, pochi furoRO pigliali vivigli più trafissero sestessi, o perirono precipitandosi dalla rupe. Finito cosi l’attacco de’ Ladroni, i tribuni riprodussero le ‘interne discordie, chiedendo dal console superstite che adempisse le promesse circa la istituzioa della legge fatte loro da Valerio, estinto nella battaglia. Trasse GlandLò in lungo qualche tempo, ora con espiar la città, ora con fare agl’ Iddii sagrifiz) di ringraziamento, ed ora dilettando il popolo con spettacoli e giuochi. Alfine mancatigli tutti'! pretesti disse, che dovessi nominare. in luogo del defunto un altro console, perocché le cose, fìtte da lui solo non sarebbero né legutime ', né salde,' ma salde saqebbero, e legittime fatte da ambedue. Respintili con 'questa replica, prefisse il giorno pe’ oomizj ove farsi un collega. Intanto i capi dei Senato concertarono con maneggi occulti fra loro il console da eleggersi. Venuto il giorno de’comizj, quando il baDclitore chiamò la prima classe, le diclotto ceniarie de’ cavalieri e le ottanta de’fanti ricchi di più possideusa entrate nel luogo dimostrato nominarono console Lncio Quìdeìo Cincinnato, il cui figlio Cesone ridotto a già di^o capitale da’ tribuni, avea per necessità lasciato la patria: >nè più si > chiamarono altre classi a dare il lor voto, giacché le centurie che lo aveano dato superavano per tre centone le rimanenti. Il popolo si ritirò pronosticando il suo male, perché sarebbe il consolato in mano di chi lì odiava. Il Senato spedi uomini che prendessero e menassero il suo console al comando. Quinzio arava allora per avventura un campo per seminarvi, ed egli stesso scinto di^ tonica, col pilco in testa, e con fascia ai lombi, teneva dietro ai bovi che lo fendevano. Or vedendo i molti che a lui si recavano, fermò 1’ aratro, e dubitò buon tempo chi fossero, e perchè sen venissero ; ma precorrendo un tale ed ammonendolo ad acconciarsi, andò nell’ abituro, e acconciatovisi riuscì. Gli uomini spediti a riceverlo, lo salutarono tolti non dal suo nome, ma come console : e messagli la veste circondata di porpora, e dategli le scuri, e le altre insegne de’ consoli, lo pregarono che in città si portasse. £ colui soprastando alcun tempo e lagrimandone disse : questo mio campiceUo. in qilesto anno restar^ dunque non seminato, ed io correrò pericolo di non avere come alimentarmene. E qui salutata la consorte, ed intimatole che provvedesse alle coso dimestiche, sen venne a Roma. Or questo mi son’ io condotto a dirlo non per altra cagione, se non perchè sì conosca quali erano allora i primarj di Roma, come operosi, collie savj ; e come, non che gravarsi di noa povertà onorata, ricusavano, non ambivano i sovrani poteri. Dal che. sarà manifesto, che i moderni non so migliano a quelli nemmen per poco, eccettuatine aiquanli, pe’ quali vive ancora la maestà romana e serbasi una. immagine di que tempi. Ma basti su ciò. Quinzio preso il consolato chetò li tribuni dalle innovazioni e dalle brighe su la legge, con intimare, ehe àc non la finivano, porterebbe tutti i cittadini fuori di ' Roma, minacciando una spedizione sui Volsci. E replicando i tribuni che lo avrebbero impedito di arrolare l’esercito; egli convocata un’ adunanza, disse che lutti si erano vincolati col giuramento militare di seguire a qualunque guerra fossero chiamati, li con soli; come di non lasciar le bandiere e di non far cosa contro Ja legge. Diceva che con assumere il consolato, ei tenevali tutti sotto quel giuramento. Ciò detto, giu-> rando che si varrebbe delle leggi contro gl’ indocili, fe’ cavar le bandiere da’ tèmpli. £ perchè disperiate di ogni aggiramento di pòpolo nel mio consolato, non tornerò, disse', da cnmpi nemici se non dopo Jinitone il tempo. Apparecchiatevi dunque in quanto v è necessario, come per isvernare nel campo. Sbalorditili con tal parlare, quando li vide alquanto più mansuefatti supplicarlo di esser liberi dalla spedizione, dichiarò che sospenderebbe in grazia loro la guerra, purché non fa cessero movimenti, lasciassero eh’ egli reggesse il con[fi) Roma Catone Varrone] -solato a suo modo, e dessero ed esigessero scambievole mente il giusto. Calmata la turbòienza, ristabilì su le istanze loro li giudizj interrotti da tanto tempo, ed egli straso decise il più delle cause colla equità e colla giustizia, sedendosi quasi tutto il giorno nel tribunale, > io atto sempre compiacevole, mite, umano verso de’ ricorrenti. Operò con questo die il, governo non sembrale aristo cratico, che i poveri, gl' ignobili, ed altri infelici comunque conculcati da’ potenti, OOn avessero bisogno dei tribuni, 'nè desiderassero piu nuova legislazione per essere trattati cOn eguaglianza, anzi che amassero e gradissero tutti il ben essere attuale delie leggi. Fu iodato nel valentuomo questo procedere, òome pure, che fluito il suo comando, ricusasse non che lieto riaccettasse il consolato offertogli nuovamente. Imperocché il Sanato che vedea la moltitudine non alièna di obbedire aU’uom buono, rivolealo a grand’ istanza nel consolato, perché li tribuni brigavansi a non lasciare uemmen pel terzo anno il magistrato, ed egli sarebbesi ad essi contrapposto rattenendoli dalle innovazioni colla verecondia o col terrore. Disse che non appcovava cJte i tribuni non cedessero il grado loro ^ ma che egli non incorrerebbe ' neir acciua di essi. E convocato il popolo e lamentatovisi lungamente de’ riottosi a deporre, il comando, giurò solennissimamente di non ricevere il consolato innanzi di averlo ceduto. E prefisse il giorno pe’ comizi, e designativi i consoli, si ritirò di bel nuovo nel suo picciolo abituro, c visse, come dianzi, col travaglio delle sue mtini. > X aSi Divenuti consoli Fabio Ylbolano per la terza volta, e Lucio Cornelio , e celebrando i patrj spet> tacoli, frattanto circa eeì mila Eqof, uomini scelti, marciarono in lieve armatura nella notte, e la notte durando ancora giunsero al Tuscolo, città latina, distante nemmeno di cento stadj da Roma. Trovatene aperte come in tempo di pace, le porte, nè '"custodite le mura, la invasero al giunger primo, in odio de’Tuscolaci > perchè erano gli ardenti cooperatori dei Ror mani, e principalmente perchè essi gli unici aveano fatto causa di guerra con loro nell’ assedio del Campidoglio. Uccisero certo degir^uomini, non però molti nella invasione della città ; perocché mentre prendeasi quei che v’ -erano, eccetto gl invalidi per vecchiezza e per mali, fuggirono ^ spingendosene fuori per le porte. Fecero prigionieri, le donne, i fanciulli, i servi, e diedero il sacco alle robe. Nunziatasi in Roma la espugnazione,, i consoli conclusero che si dovesse bemosto provvedere ai fuggitivi e rendere loro la patria. Opponendosi però U tribuni, non permettevano che si arrolasscr soldati, se prima non si desse il voto su la legge. Cònlurbandosene il Senato, e ritardandosi là spedizione, sopravvennero altri messi 'da’ Latini colia nuova che là città di Anzio erasi manifestamente ribellata, accordandoviki i Volsci, antichi abitatori di essa, e, li Romani venutivi come coloni, e compartecipi de’ terreni. Giunsero contemporaneamente de’ nunzj ancora dagli Eroici e dissero, che già era' uscita, e già stava nel lor ter Adqu li Roma' 395 secondo Catone, 397 secondo Varrone-, 457 av. Cristo] -ritorio un armata grande di Volaci e di Equi. A tali a^unzj parve al Senato che dovesse > ornai,non indù giarsi, ma corrersi con tutte le forze da entrambi i consoli : e che chiunque ciò ricusasse, romano o confederato : si avesse per inimico. Or qui li tribuni cederono, e li consoli descrissero quanti aveano età militare, e convocate le truppe alleate, uscirono bentosto in campo ; lasciando il terzo delle milizie urbane in guardia di Roma. Fabio n andò di fretta coIF esercito su gli Equi fra’ Tuscolani : li più di quelli saccheggiata la città, sen’ erano già ritirati : ma pochi ne difendevano ancora il castello. E questo assai forte, uè bisognavi molto presidio. Adunque alcuni dicono che le guardie del castello, dal quale, come elevato, scopronsi dj leggeri tutti i dintorni, vedendo uscire da Roma un’ armata, lo abbandonassero spontaneamente: altri però dicono, ebe postovi da Fabio l’ assedio si renderono a patti, e passando sotto giogo ebbero in dono lai vita. Fabio venduta la patria ai Tnscolani, levò l’eaercito sul far della sera, e marciò di tutta fretta coiv tro a’ nemici ^ Equi e Volsci che accampavano, come udiva, con armata numerosa intorno alla città dell’ Algido. Viaggiando tutta la notte si trovò su l' alba a fronte dei nemici alloggiati nel piano senza vallo, senza fossa, come nel proprio territorio', con disprezzo degli avversar). Or qui confortati i suoi a farla da valentnqmini, piombò prima sul campo nemico con la cavalleria, mentre i frati alzato il grido militare la seguitavanoAltri furono uccisi che dormivauo, altri che sorti appena davano all’ armi, e volgeansi a resistere : ma li. a53 più gettaronsi alla fuga e si dispet^ro. Presi con molta fiicilltà gli alloggiamenti, concedette a’ suoi che vi s’impadronissero di robe e persone, salvo quanto era dei Tuscolani. Non istette quivi gran tenapo, e menò 1’ armata'su la città degli Eccctrani, riguardevolissima allora tra quelle de’ Volaci, e fondata in fortissimo luogo. Tenutovisi più giorni da presso coll’ esercito su la Speranza che quei d’ entro uscissero per combattere, nè uscendone ; diedesi a devastare la loro campagna piena di bestiami e di uomini; non avendone gii assediati ritirato prima ciò che v’ era pel troppo repentino giungere dèi nemici. Fabio 'lasciò che i soldati facessero anche qui le prede per loro, e consumati più giorni nel farle ; alfine con essi ripatriò. Cornelio T altro console mossosi contro i Romani di Anzio, e li Volsci sen’ imbattè colr esercito loro che l’aspettava a’ confini. Fattovisi alle mani, uccisine molti, e fugatine gli altri, s’ avanzò col campo fin presso fe mura: ma non osandovisi più uscirne a combattere ; prima desolò la lor terra, e poi ne rinchiuse la città con fossi e steccati. Vinti allora dalla necessità, ne uscirono novamente con tutte le forze, che erano molte si, ma disordinate. Paragonatisi in battaglia, sostenutala, ancor peggio, e fuggitine scoraggiti e svergognati, si rinserrarono un’ altra volta tra le mura. Il console non dando ad essi tempo di riaversi, portò le scale alle mura,, e ne abbattè con gli arieti le porte: e cenciossiachè da entro vi resistevano affaticati e languidi; ve li espugnò senza molto travaglio. Quanto eravi monetato, quanto di oro, di attuto, di rame, fe’ portarlo neU'erario : gli schiavi, e le altre prede le fe’ raccogliere e venderle da’ questori ; lasciando a’ soldati, quanto ve n era, alimenti, vesti, e cose • altretuli di lor giovamento. Poi scelti tra i coloni e t^a gli Anziaii nativi i capi, clie eran, molti, più cospicui della rivolta, e battutili lungamente e decapitatili inSne, si ravviò coir esercito alla patria. Il Senato usci all incontro dei consoli che tornavano, decretando che ambedue trion lasserò: si concordò, per finire la guerra, cogli Equi, che aveano perciò spediti oratori, e nei patti fu, che ritenessero le cittò, e eie terre che aveauo nel tempo che si conehindeva la pace, ma ubbidissero ai Romani; non pagassero tributi, ma somministrassero ideile guerre, come gli altri alleati, truppe ausiliarie. secondo >1 bisogno : e con ciò l’ anno spirò. XXII. L’anno appresso fatti consoli Cajo Nauzio per la seconda volta, e Lucio Minu^io ebbero per qualche tempo guerra domestica su’ diritti civili con Verginio e li compagni di lui, tribuni già da quattro anni. Ma poi venendo alla città guerra da-’ popoli iotorno, e paura che le tógliessero il régno ; presero con trasporto l’ evento come dalla fortuna : e fatti i cataloghi militari, divise in tre parti le milizie interne e confederate, e bsciatane una in città sotto' gK ordini di Fabio Vibolano ; essi alia testa delle ^ altre uscirono immantinente, Nauzio contro de’ Sabini, e Minucio contro degli Equi. Iniperoccbé questi due popoli s’ erano di que’ giorni ribellati a’ Romani : li Sabini manifestamente tanto, che si erano avanzati sino a Fideue, città dominati da Roma, Roma Catone Varrone. I. a55 che ne era distante quaranta stadj ; laddove gli Equi ferbavano colle parole i ^diritti dell’ ultima pace ; facendola nelle opere da nemici, con movere guerra ai Latini, confederati di Roma, quasi i^el trattato di pace non ressero mcbiuSo ancor essi. Comandava l’armata loro Gracco delio ^ uomo intraprendente, che avea renduto quasi regio il potere arbitrario di cui era stato adornato. Costui ne andò fino al Tuscolo, città pigliata e saccheggiata ancora nell’ anno antecedente dagli E^ui, che poi ne furono espulsi dai Romani, e rapi dalle campagne quanti uq sorprese‘ uomini in copia e bestiami, guastandovi i fruiti, buoni già da ricoglierli. E giunta un’ ambasceria, dal Senato per intendere le cause per le quali guerreggiavano contro gli alleati de’Romani quando erasi di fresco giurata pace^con essi, nè frattanto era occorso disturbo alcuno tra’due popoli, e dovendo questa ammonir Clelio a dimettere i prigionieri che avea di quelli, a ritirare 1’ armata, e ‘ subire il giudizio su le ingiurie o danni fatti a’ Tuscolani ; colui s’ indugiò lungamente scuz’ abboccarsele come impedito dalle occupazioni. Alfine quando gli parve tempo di ammettere r ambasceria, e quando i. membri di essa ebbero espresso gli annunzi del Senato $ egli Soggiunse: Mi meraviglio, o Romani, come voi per^dominare e tiranneggiare., temale per Turnici lutti gli uomini, anche senza esserne offesi. Voi non permettete che gli Equi si venr dichino de' Tuscolani, contrarj loro., senza che ciò si concordasse nella pace, firmala con voi. Se dite che abbiamo oltraggiato e danneggialo voi ; vi rinlegretemo a norma de' patti : ma se venite a chieder conto Digilized by Goc^le 2 56 dell?: Antichità.’ romane su Tuscolani ; nienle vale, che a me parliató, o vai quanto parliate con quella pianta; e frattanto additò loro un &ggio , che prossimo frondeggiava. I Romani cosi vilipesi da colui non cavarono subito, abbandonandosi all ira, gli eserciti : ma repUcarono un altr ambasceria, e mandarono i Feriali che chiamano, uomini sacrosanti,. per attestare i genj ed i numi, che essi porterebbero, necessitati, una guerra legittima, se non erano soddisbuti ; e dòpo ciò spedirono il console colle milizie. Gracco all’, intendere che i Romani venivano, levò l’esercito, e lo portò più ad dietro, seguendolo pasto passo i nemici. Egli volea ridurli in luoghi da vantaggiarsene ^ come addivenne. Imperocché tenendo in mira una valle cinta da monti, non si tostò i Romani vi s’ internarono, egli voltò faccia, e si accampò su la strada che conduce fuori di quella. Segui da questo,.che i Romeni misero il campo non dove il volevano, ma dove la circostanza lo permetteva. Ivi nè era facile il pascolo pe’ cavalli, per. essere il luogo chiuso da monti ripidissimi e nudi ; nè facile I dopo aver' consumato quelli che portavano, procacciare a sestessi gli idimenti dalle terre nemiche, o mutare il campo; standogli a fronte i nemici, e, proibendone r uscita. Risolverono dunque usar la violenza, e cacCiaronsi avanti per la battaglia : ma respinti e feritivi largamente si richiusero fra le loro trincee, delio inanimato dal buon succedo li circondò con fosse e steccali, su la fiducia che premuti dalla fame gli si (>) Lìtio chiama quèrcia quella che i delta fiisgìo da Dioiùgi.. 2,5'J reoJerpbbero. Giupta in i\oma la ao|ia di ciò. Quinto FabÌ9 lasciatovi comandaute, scelse il fiore ed il nerbo suoi militari,, e li spedi per soccortere il console, sotto gli ordini di -Tito Quinzio uome cousoUre, e questore. Mapdò, oopomeno letiére a rCsuaio ra, e le .altre insegne ornamento un tempo de\. re. Saputo^ che Roma .oIeggeval(> diltàtore, non solo non ' si rallegrò di up 4anio onore, ina conr tuebandoseoe disse, adiaufue per io mio occupdzioni perud',pw e il fi allo di ifUest' unno e noi.tidti rje avremo grande il', disàgio ! Dopò ciò recatosi a Roma ( 1^, confortò su le prime i cittadini con discorso al (•y'-Amio li Roma agS secu'mla Caloof, ajS fecondo Vsernas, t 4^ sv. Lfista. •. ZJYw.v/(;/. /tZf 'popolò' dà'enapierlo di beile speranze! Poi'^coavocAti mai i giovani dalia Oittà' e dalia campagnì, soncenlrate le truppe ausiliarie, e nominalo maestret de’ cavalieri .Lucio ' Tarquinio, 'ignobile per la povertà ma nobilissimo in arme, Usci coll’esercito riuaiio e gianto >af questore Tito Quinzio c6e io aspettava, prese ' pur le sue schiere, e né andò' sul nemico. Appe'Oi# ebbe considerata la natura de' luoghi ov’ erano gli accampamenti cOilooò parte dell'armatA ntdie aliuiié onde precladerc agli ^quà i sussidi ed i meri, e' riieneodo 'seco le ah re naHizie lé avanzò cOn -ordiqe de 'battaglia, GleliO phnto tion si sbietti, perocché nè la sua gente era poca, 'Oè poco il cor suo nella guerra, e lo seooti^ nel sUo^ giagnerè, e ne sorse una pugna ostinata; Era decorso buon tempo, e li Romani oom'e cresciuti ’fi'à''' le arme rinovavansi Ognora al travaglio, e la cévallérià soccorrea |yron;a ove erano ì iaHti'iti pericolo. Criccò dunque Eopra0altone, si ritirò nel suo cantpo. Quinzio ' éllora 10 cifis^e con aho steccato e torri frequenti, e' quando seppe a!6nc che penuriava' de’ vivevi, lo investi con assalii contigui nel stio oéntfpo,' ordinando a hSinucfó che uscisse dall^altVà parte. Esausti gli Equi di viveri, disperaii di un soccorso, -e streiii per ogn’ intorno Halr assedm, furouo nécéssitéti à prender ibr&a dì ' su[^ {tlichevbli, e spedire a Qoìozìq per la pace. E colai replicò che la daitebbe, 'e lasccrebbe agli Equi iSalva la persona, se deponessero le arme, é passassero ad' uno ad uno sotto giogo: traliersbbe però' qual nemico Gracco 11 capo tkUa guerra,, e gli altri consiglieri delia rivolu. £ qui comandò che gli 'recassero tali '^ùoraiai in ferri. l turno X. a59 [/milìaVaiui gli Equi' a lutto; quando' egli ordioó, che giacobè aveano senza "esserne oilest previamettie, soggettilo e derubato il Tuscolo città coufederau di Ruma, essi consegnassero a lui ' CorbioBe -, città loro perchè ne lutasse altrettanto. Prese tali -rrsposta partirono gli oratori, e dopo non molto tornarono traendo .con st Gracoo è i Compagni incatenali. Essi poi cedute le arme, e lasciate 'le trincee t ne andarono ^so t(o ^iogo, come era il volere del diltaiort,. à traverso .del.èaiupo romano. Consegnarono tiorbione, e ebn restituire,i prigionieri tuscolaai ottennero soUmeotè che ialiti prima ne uscissero gli uomini iagfenai. Quinrio ricevuta ht" città, comaodd che. le prede pià -wgqardevoU sr trasportassero in Roma, .concedéndo che le altre si dispensassero tra’ soldati venuti con esso, e tragir altri spediti prima con Quinzio il questore ;, e" soggiungendo, che a^ soldati rinchiusi mi console. Miiiudo avea dato ànjplissimó lono, quando li rivenaiet dajla morte. Ciò 'fano, obbligando Minucio.a dhnettérsi djl suo grado, si ripiegò verso IVoma, e'ne menò. Uionfo luminoio, più. che tutti .i duci meuatoIo avessero perche in sedici giorni de’ die avea preso il còniaotfo, 'uvea salvalo l’ esercilò anaico, disfatto i’ altro floridissilno de’ nemici ; saccheggiata la loto città, messavi guarnigione, e comku va • séco In catene il capo, e. gli altri primarj di’qneUa gueira. . FaoeVa soprattutto ùieravigliu die avtmdo ricevuto quel magistrato per sci mési non sei tenne quuito eonòedeva la'> legge : • ma coni vocata la plebe, e ragipjiatuJe delie cosr operate ; lo depose. E pregandolo il Schato che prendesse quanto vote delleterre, degli schiavi delle prede conquistate colle armi, e pressandolo che vivificasse la tenaiti sua con ricchexaa ginata, ché egli possederebbe 'glónosrsaitna, come 'tratta colle proprie iàticbe dal nemico', ed=o(fe rendo'gli' amici e pai'enli amplissimi doni, e pregiando più che tutto' adagiare un tal uomo, egli ' lodatane la cortesia, non prese nulla, ma si ricondusse nel piodolo suo campicello „ ' ed antepose ad nna splendida vita la vita 'tua travagliósa, nobiliubdosi per la ^povertà, più che altri .non. sogliaho per l’ opulenta. Dopo non molto Nanzio f altro console vinse in battaglia i vamente le armi contro de’ Romani, e scorKroacchegjgiando assdi della lòr terra tanto che quei che' veai vano int.copia fuggendo dalle campagne, dicevano tatto in poter loro, quanto è tra Fidene e Cmstumera^ Anche gli .Equi sottomessi ultimamente sorsero^ im’ afira volta alle armi: e recandosene > tra la notte i più robusti a Corbìone, città ceduta da essi Panno antecedente ai Romani, c sorpresavi, la gnamigioDe nel sonno >; ve la uccisero, salvo podhi‘^ che" per .ventura non v’ erano. Gli altri marciarono ju gran moltitudine contro 'di Ottona, Anno di Roma 397 'secondo Catone, 399 seconda Varronc, a 4S5 Cristo.' . olimpiàde otlan dr Gitene vinse cìni de Latini, e -presala a prim’ impeto, fecero per la rabbia su gli alleati de’ -domani, docebè non potevano su’ Romani medesimi ' uccisero tutti > puberi, eccetto quelli -ette efan fuggiti udì’ invadersi della' cillà-r rende-, rono prigionieri, donne, fanciulli, vecchj,, e raccoltovi in fretta quanto poteano trasportar di pregevole,' ripar tirono prima'' che v’accorressero tutti.! Latini.,11 Senato saputo ciò da’ Latini, e da’ militari salvatisi della guarr. nigione, decretò di 'iàr uscir le milqsie y e con ùse i due consoli. Ma Verginio e i colieghi, tribuni già da cinque anni davano a ciò ritardo, opponendosi come negli -anni antecedenti alla scelta militare,, che faceasi pe’coqsojij.u reclamando che. si Sdisse prima la guerra domestica, -con rimettere al popolo l’esame della. legge, che davano sò la eguagliauaa .dei diritti : e la plebe ooadjuvava t ttibaui che asiaf malignavano, contro, del Senato. Imapto temporeggiandosi, nè comportando i consoli,’ che si facesse in Senato il previo decreto su la legge e si proponesse al popolo né volendo i tribuni concedere la leva e la marcia delle, milizie, an^i facendosi accuse inutili e dice^e vicendevoli belle concioni e nella curia,, alSne fu ideato da’ tribuni -uu altro disegno^ che sorprese l padri e chetò >U sedizione attuale,^~ma fu causa di molto ingrandimento per il popolo: ed io sporrò .come il popolo se lo ebbe questo incremento. Essendo manomesso e predato il. territorio de’ Romani e de’ cOufederati, e spaziandovisi i nemici come per una solitudine su la speranza che nou 'Uscirebbe oontr’ essi esercito. alcuno a causa dcHe sedizioni di Róma, i consoli -adunarono il Senato per consultare come sy pericolo estcetno. Tenutisi raoUi discórsi, liichestò il primo dei parer suo Lucio(^uiozio, il> dit latore dellVarìBO, aotecedents, >ttomq,noo/^solo -il più grande allora fra le armi',; ina creduto ancora savissimo nel govefoo', propose il coniglio d ^ale poi persuase più che tnttq'i tribuni e gli altri, che si dij^erine in tempo più accóncio t esame allora ‘non riecessario della legge, è si /accise con tutta prontezza la guerra alfutJe’, scorsa ornai /no, su la etllà r nè si perdesse imbeflemente e Mtuperosasnente il comando con tanti stenti acqmstato. H che se il popolo non -ià-s' tmiceva; si armassero patrizj e clienti, conguanti altri vòleano far causa con essi in qaeil aringo ‘nobilissimo della patria, e ne andassero ardenti al nemico,pren^ dendo per duci dell andafpiento i Numi 'protettori di Roma. Imperocché ne verrebbe lune 'o laUi^ buono e bel fratto^ vuoi dire ò che riporferebbefo ima vittoria la più gloriósa fra tutte le riportate "dai loro ptaggiori, o che magfianimi' niorirebbero pe' beni che sìeguòno la vittoria. 'Annnnzìaira c4e> egli stesso ^n si ricuserebbe a tanto .esperimento, ma presento vi pugnerebbe' qeaniq i più coraggiosi', e ‘che rpempieno manchérebbevi alcuno seniori che amasse-.la libertà e li buon nome. Così piacitito a tutti, Senza che alouna vi ù -óppon%sc, i consoli convocarduo il popolo.' Cbacorsi quanti erano in Roma come per ndieofa di nuov^ co se, fattosi innanzi Cajo Orazio, l’uno de^ consoli, tentò volgere spontaneamente i plebei anche alia guerra pre sente. Ma perciocché i tribuni vi 'ripugnavano, 'ed i LTUno X., 263 plebei,!a> senti vn coq essi; recatoseli console Un altra volta in tneszo disse : Beìia marlwigliasa impr^a ifi vero é^la vostra -o f^ejrginìo ck^. abbiale stacpatò U popolo dal Senato ! e cho. dal^ canto vostro avesstmo già perduto quanto abbiamo, ereditato dagli .avi, e ffuanlo .oUepiUo co')Ttoftrì sudori Ma noij npn, cederemo noi questo, senza lordarsi nemmeno di polvere) ma impugnando le orini con .quanti vprrap salva la patria ne andremo al cimento, i^erantiti su la bontà dell’impresa. E se àLui}' Dio rimìui. le belle.,, le' giustissime imprese') se la sorte che da tanto ' tc/Apo prò • spera questa cillà -, non t ahbqndona sqibnontereniò il nemico., Ma se alcun, Dio me gravita. sopra 4 c’ ci si oppope per, bt salvezza . di -Jiqma ) certo JC voler nostro x di nostra propensione non perirà-; che Jortissimamente per la pat/ia moriremo. 'E voi li belli, U generosi capi che siete di ' Roma, guardata pure colle vostre mogli le case, abbandonando e tradendo noi:,, ma nà te noi vinciamo onoràta sarà la vostra vita, nè sicura se perderemo. Se pur non siete ‘animali (lidia misera speranza che inémici dàpo.' rovinati i patrizj, preserveranno voi per gratitudine, a coricederànuo che godiate la vostrd patria, la libèrtà, il comando, e tuUi t befù -^/ie ora v’ avete. Sb, questo appunto a voi copeederanao cfue’ nemici a' quali men / tre vói pensavate pìà 'saviamehte avete levato tardo iersìtorio, distratte ttgtle c'ktà, JaUine' schià^i i >popoli, ed irudzati toni itrofei, tanti manUmérUi di nemicizfa, e sì luminosi, che mai^per età non perirahpo. Ma perchè io mi addoloro còl popolo il qtude non fu mqi taUù’o ài voter non piit tosto o Vt^fginìo con Voi che per si bella maniero, io dirigete ? Noi' certo necessitali b. non -pensar bassamente noi deliberata abbiamo, e ninno cel vielirà, 'difarci a combattere per la patria: jna voi che abbandonate, voi che ^ tradite il comune, voi neavrete condegna, irreprensibil vendetta dal cielo: nè' fuggirete ‘già questa, se quella fuggite degli uomini. Nè crediate già che io ciò dica pertatterrirvi : 'ma sappiate che quanti siano qui lasciati per guardia dèlia città, se mai gf inimici prevalilo Ho ^ ne destineremo come a noi si conviene.' Se od alcuni^ ìfarbatì, ornai tra le unghie de' nomici, venne in cuore di non lasciare ad essi' non le mogli, ~hon i figli, non le cùlà, ma di ardere .gueste, e di uccidere 'quelli; non farànno altrettanto sé" li Èomani de' quali è proprio il dominare.? ' Certo' degeneri non saratmo : ma còmi notando da vqi > che' nemicissimi Stata,s. ogrii amica\lor cosa distruggeranno. ^onsidarMe ora up'i questo, ié> considerandolo ; fatevi -le adunatvte e le leggi. ' ~ • Detto tali ^ose e ‘molte consimili, presentò li più provetii de patrie] che piangevano. A tale''s[>euaoolo molti del popolo boa contennero nemmeno essi le la gtime: t destatasi grande commoxlone per gli acmi e per la maestà di tali uomini, il console sopraÀandò alquanto disse : 'Impugneranno questi seniori le 'armi per voi giovani nè' voi ve nè' vèrgognelete, occultandovi' fin .sollotarm é" vi terrete lontani da questi duci, che padri sempre, avete nominati ? 'Sciaguo^i voi ! nè degni pure di èsser detti cittadini -di questa èittà fonSala "da c'olbro che àveano por iole fpaile il padre, aperto loro dà numi lo teatnpo ^ra le armi e le fiàmmè Catm Yergioìo temè ciré il pòpolo fosse commosso dà) quel discorso per non SDfhii{V 'dl dover mettersi quella guerra coOlro il sub dire, fecési avanti' e soggiunse; Noi non vi abbandoniamo'né. Vt' 6-adiamo, Hè mai vi .abbandoneremo o padrii come per addietro mai'^ foste da noi derelitti su, et impresa niurtae di mettere custodi' delia libertà te leggi a cui tutti ubbidiscano^ Che se ciò vi .sa male p, Se sdegriate concederle a' vostri cittadini questa grazia,' e'^ riputate com’ essere la mocte. vostra ammetlére il popolo nelC eguaglianzd; non' pià vi darem briga su dà, ma vi chiederemo ' altro' dono, avuto il quale farse noh avrem pià bisognò di nuova legislazione: se nonché ci vien paura che non ottérremo nemttten questo, sebbene non sia ponto lesivo dei Senato, e sia ^uUo bmief ceedonorevole al popolo. E replicando il 'consoleche se rimetteanb la istanza vai Senato, non sarebbe oegata loro cosa, che discrcia fosse-; ed invitandoio a dire ciocché dimandasero, ' Verginio abboccatosene alquanto ^co’-suoi colleght rispose, che lo dirèbbe al Senato, 'fiopo ciò Ji consoli adnnarooo il Senato, ed egli venutovi ^ e divisatovi quanto edmpetevasi al po>pólo, chiede che si duplicassero i magistrati del pòpolo, ed .ogni anno in luogo ;d> ciò que ài nonaipaiserD dieci', tiibuni. Alcuoi, ca{>0 de’qaaii era Laoio QuipzioV àatorevolissinto Pilota, in v Senato, pensavano clie.ciò pon. offenderebbe Ja repubblica e ooDsigll nico vi si'dppose Cajo Claadio, figlio di Appio /dau dio, deir avvertano 'perpetuo a voleri del popolo, se non erano ^a nórma 'delle, leggi. Egli ereditati i ' sentimenti del padre, impedì quando. fu console che si concedesse ai' tribpni d. inquisire contro de’ cavalieri, calunniati di congiure, ed ora con iuiligo ragionamento di^ mostrava, che il popolo non diverrebbe più moderato e più docile y ma più incansiderato e più grave. lùiperocchù appelli che sarebbero ' dt poi giunti 'al iribonaio noi prenderebbero gii' per questo eoa. legame' .che li tenesse ai patti, ma beP. presto tratter^bero di divìsioue di 'terre 4^ dl,e^[}ia|ità dì drritir',,e certdtei;ebbera parlando e ..brigando de cqiUe cose, estensive 'delia potenta del popolo, eotne dmpaqenti 1 onor del .Seoato^.-ìlfosse ntolti tH^ tal dire graodemeote i. ma Quinzio a ritrasse ammaestrandoli voler 1’ otite del Sedato che i tribooS si moltipKcttseil, giacché i molti men 8’ at^rdan dei poclii t esser rocspediziooe>^ Toccò a MìducÌo Ja gaem co’ Sabfm ad Orazio 1 altra' eoo gli Eqaiye ben lostb marciarono ‘atubedi^e. L Sabini gtuuy dando le Idko città.; non curarono .'che' ì Romani si menassero >6 portasae.ro quanto .r’ era pez le campagne. Gii Equi a|ledirono 'Ito’ armala' per coalrxitarli; ma -tutto ebe pugnassero nobilissimamente / non poterono superarli, e si ritirarono ne^sitatt oeile loro^ città, perduto il castello pel quale avaano co/nbattùlo'. Orazio respinti i nemici, -iPatto assai danno alle, lor itette.^ abbattè le mura di Corbinne r ne rovesciò da’ fondamenti' le mse, e -ricondusse in Roma l e(wreito. Sotto Marco Vaieriòy e Spurio Verìpoio consoli delH anno segne'nte, non osci dà’ confini nato, e • convoràlv. il Senato. E condosslachè un littóre, comandatone, rispinse Taraldo ; icilio e i suoi coUeghi degnatine presero e trassero 'il littore me per balzarlo ^la ‘ rupe I consoli tuttoché sen tenesseró 's[^giatls$inù non poteano.fiir violenza, e redimere quel prigioniero: e''^i volsero ptf ajuto agli altri' tribuni-: 'Perooché niuu pifò sospendere p proibire gli atti di alcun tribuno, se non quegli che tribuno, sia parimente giaqchéji tribuni s’ erano preoccupati già, da molti e potenti. Unico -contraddisse .a.tal dire Caju Claudio, comprovandolo molti ; ma -si decretò che il silo al -popolo sì concedesse. Dopo ciò. presenti i pontefici,‘ gli auguri, e due sagrificatori, fatti secondo il rito.sà^ifizj e preghiere, e convocati da’ consoli i 00niizj centurìati si 'confermò la leg^e, e descritla sQ colonna^ metallica, e portata ne|l’ Avventiòq ' fu collocata nel tempio di Diana. Poscia coqgregatisi J plebei tirarono a sorte il suolo dove fabbricare e fabbricarono, occupando ciascuno, lo spa^o che poteva. Unironsi al-r. • i r edifiso dì qò^lcke cak due o M' pèrsone, e talvoiu piùancora, prendendosi uno i pianterreni . e gl! ahri i piani,'àupdnori. E 'cosi tl’. armo si consumò eoj^i^bbricare. Riusoi pesò complicatò e varìo e pieo di grandi avVenluee l’ anno seguente (j)’, nel optale eletti consoli .T'ito' Ro™iliO e Cafo Veturio, furono riassunti al Hribanale ‘Icilio e i coUegbi. {mperoccfaè fu di nuoro suscitata da’ tribuni la dril sedizione ebe parea venuta ihene; e sorsero guerre dagli' esteri : ma queste non 4^e danneggiarla, ' giovaróno non poco la repubblica, non toglierne gl’ in^rlH diSsidj ; essendole’ consueto e viceodevole di ' esaére ’anaoime tra le guerie, ma discor> diosa' nella pace, distraiti - di ciò quanti salirano al con- solato prendevano eoo trat^rtOi se nascevaoo,Te guerre cogli esteri. E ce i ^oemìd erim' 'cheti ; essi stèssi finge- vano’ manoanze pretesti 0' debi- ^litavasi tra lo sedizioni.' Animati nel modo 'stesso i-'oOn soli 'di quest’'am^, deliberarono cavar 1' esercito' contro L taemìci spi timore che i' poveri e gli oziosi. qoaiìn- ctassero a perturbare - la pacel Or essi- ben la rutebde vano,'cbe 'vuoisi- distrarre la mollitudioe ndle gtiè'rre cogli esteri i’hia non beò intendevano com’ eseguiscasi.' ' Quando avrebbero dovuto flir leve moderate ì Qotìae ilo città mal affetta ; si diedero a 'castigarvi colla forzà tùtii i ’ranitenti i senza Cfonsazione o dispensa, iriando ine- sorabili ^il rigor 4elie. leggi sù gli àVen> e su le persone. 'ny Anqo di' Roma agg secoodo Calooc, joi seoondo Varroue, a 453 av. Critto.. Presero da tal proceder^ occasioae di bel onovo i tri buoi di concitare la plebe ; e radonatala, vi strepitarono per più cause, come ancora, perchè aveano. .fatto portar nella carcere molti che reclamavano 1’ ajuto de’ iriboni: e dissero che' essi che soli he aveano l’ autorità dalle leggi, gli assolveano da quel rechi [amento. ' Vedendo però che niente ne profittavano, anzi ' che laccasi la coscrizione piti severamente, incominciarono ad oppor visi co’ fatti. E resistendo I conscM .colla forza del grado loro ; sen fecero altercazioni e scaramnCce. La tenea pei consoli la . gioventù patrizia, ma teneala • pe’ tribuni la turba oziosa e povera : e quel giorno assai prevalsero i LODSolif su' tribuni. Ne' giorni appresso versandosi in> città più turba. dalle campagne, i tribuni, vedutisi òmai con forze' da contrapporsi, convocarono assai spesso il popolò-, ^e mostratigli'! ‘minbui loro malconèr ' dalle piaghe, prolestaropo che deporrebbero il magistrato se non erano da esso gàraoliti. Irritatasene la nioltitudiée ; dt^'no i coiv soli a ' dar conto al popolo del procedete' loro. Nóp gli attesero questi; ed andatine i 'iribòni alia curia ove il Senato ^a^e va 'già consultandoqe lo.aupplicaroooi a non trascurare essi tribuni, offesi -bruttisiihiàmrate, uè il spopolo, che era dell’ aita loro privato. -^E qui ùàrracono quante ne aveano sopportate da’ consoli, e le mapohinazioni di quesb contr essi ond’ erano svergognati' non pure flel grado ) ma' nelle penonc. Laonde chiedeaao che ^.consoli facessero l Una delle due, vuol dire, se negavano di aver fatto . cesa vietata datie leggi controde’ tribuni vemsserò e giurando Ift negassero all’ adoaaaza ; se di giurare non sostenevano, venissero, c vi rendessero, conto ; e le tribù entenziereLbero su loro. Si difesero i cousoli,. dando a vedere ebe i tribuni erano la origine de’, mali, per la caparbieti, per l’audacia di profanare Je persone de’ consoli, prima con avere imposto aisatelliti jorp 'e agli edili di portare in carcere uonjini rivesliti di ogni potere, e poi con tentar di assalirli col raeazo de' plebei più temerarj ; e qui sponeano quanto fosse il^ divari a dalla tribunizia alla, consolar dignità, piena 'questa di regio potere, e nata l’altra solo per protegger' gli ttppressi. Tanto esser lungi che potes^ro far votare la moltitudine contro de' consoli, che noi póteauo nemmeno contro il minimo de’ patriz| senza un decreto espresso del Senato. Pertanto 'minacciavano, se i, tribuni faceano' votar la moltitudine di dàr. rju’me a patria). Continuandosi ‘ppr tutto.il giorno i pochi contro de) ' r • . Vedi Ii che si ripiegasse lo sdegno su’ lor fautori, castigandoli a norma delle leggi. Se quel giorno i tribuni trasportati dall’ira lanciavansi a far cosa alcuda contro del Senato, p de consoli, niente avrebbe impedito che la città di per sé rovinasse. Tanto eran tutti pronti per armarsi e .combat Uni t Ma perché sospeser 1’ afiàre, dando ' a sé tempo per meglio consigliartene; serbarono essi ' moderazione, e r fra del popolo n'n fu mitigÀa. Intimarono pel tc^'zo mercato dopo quel giorno una assemblea popolareove condannire; i consoli ad una emenda in mgeoto, e sciolsero 1’ adunanza. Approssimandoti pe^ò quel -giórno desisterono anche da lah intrapreta dicendo, di coneedecp ciò alle istanze di uomini i più 'venerandi per anni e • per grado. Poi congreg-indo il popolo; dichiararono die essi rimettevano le offese proprie, sul desiderio di motti buoni, a’ quali nop era lecito contraddire : ma che le ingiuri^ fette al popolo e punirebbero queste, anzi le toglierebbero. Imperocché diretumente aggiùngerebbero tra le leggi pnr quella su la divisiori delle terre differìlit ornai da treni’ anni, e quella su’ diritti eguali r • N. ’ Kel lesto v^it nuot’aiiante, forse ot nè per dono,> nè per compera, nè per altro legittimo mezzo che^ possa dimòstrarvisi. Se ne avessero questi dimandata parte pià grande, che noi dopo • avere come noi tra~ vagliato neW acquistarle ; certo non sarebbe stato de gno di uomini, degno di cittadini che pochi si ap propiassero" ciocché era di tutti; ma pur stata una causa vi sarebbe a tanta ingordigia^ Ma quando non potendo dimostrare alcuna opera grande e magnanima per la quale si tengono ciocché è nostro, non sen vergognano 'né lo rilasjdano y nemmeno convintine ; chi potrà comportarli? Or su, per Dio, se io nfetilo in ciò, venga chiunque di questi onorandissimi, venga, e dimostri per quali splendide e belle gesta presuma pià parte di me. Forse ha guerreggiato pià anni, in pià battaglie, con pià ferite, con pià onore di po rotte di spoglie, di prede, o di cUtre marcfm da vincitore, per le quali /’ inimico se ne umilia, e la, patria > magnificata ne sfol^ra ? Dimostri il decima almeno di quanto io v ho dimostrato. Per, certo i pià d’ essi non potrebbero allegare nemmen. la minima parte delle mie gesta : anzi alcuni di loro non par.^ rebbero di' avere sofferto nemmen quanto il popoletlo pià basso. Grandi essi ne detti, noi sono certo nelle armi, pià vagliano contro l' amico, che a fronte dell' inimico: non pensano essi di avere una patria a tutti comune, ma propria di loro, quasi non siano stati per noi liberati da’ tiranni, ma dà tiranni ab-^ biano noi preso come un lòt bene. Questi (perocché bacaselo /e ingiuriò continue pià o men ^andi j eh tutti sapete ) sono giunti a tanta in scienza ^ efu^.non soffrono che alcuno di noi dica libere yoci, o che solo apra la bocca su la patria. E 'Sputió Cassio, quello che ptimó^ parlò su la le^e agraria-, quello che illuitre per tre eonsólati, e per, due trionfi gloriosi, e che avea dimostrato tanta solerzia nel comando nplitare e civile, quanto niun altro in quei tempii qùeH' uomo si grande lo accusarono i con•soU’j come intento alla tirannide, lo sopraffecero con falsi teslìmonj, e, Jìnalniente^ precipitandolo dalla rupe,, Io uccisero', nè per altra cagione se iwn perché era V amico della patria e del popolo.' E Cajo Genuzh) tribuno' vòstroche riproduceva dopo undici anni la stessa legge, e citM>a in giudizio i consoli deir anno antecedente come trascurati 'a compiere i v decreti del Senato tu la partition delle terre, lo lèvaron di mezzo appunta il giorno avanti, il giudizio con occulte maniere i non potendolo colle manifeste. Donde tte venne .a successori grave timore, e niun più st mise a quel rischio : e già sono trend anni che sopportiamo, quasi perduta il nostro potere nella tirannide. Ma lasciamo il resta. I magistrati vostri attuali, quelli che voi avete rendati siseri per le^e ed mvMabili, a quanti mali non incorsero per voglia di difendere gli oppressi tra 7 popolo ? Non furono questi ètpulsi dal Foro a pugni e calci, e con ogni altra guisa di vilipendj ? Vò 'siro era V affronto; e voi vel comportaste nè cercaste vendicarvene con., i'^g darne i voti almeno, in che solo vi resta la libertà. e Ma su prendete spirita o miei cpmpopoUiri. Presene tino i tribuni la legge su la partizione dellecampagne'; _e voi la confermate co’ voti vostri, nè soffrite pur voce chi reclami. Voi non abbisognate o tribuni di esortazione a questi opera ; voi posti vi ci siete, e benissimo fate a non desisterne. E se la caparbietà', se là insolenza de’ giovani vi' si opponga, e rovesci le urne in'' che i voti raccolgonsi, o./i voti vi levino, o scondita tal, altra cosa nel' dar de sofì fragi ntastrate -loro quanta ' il potere siasi del tri i bunato. Che se non è lecito degradar^ i constai, sot topOnete ai. giudizio i privati, de’ quali si vatgonó per le violenze ; e fate che il popolo' voti su loro come su conculcatori delie leggi sacre y e distruttori del dostro magistrato. Or Jui cosi dicendo, ta moltiludibe nè fa cóm> mossa tanto intimainente, e manifestò tanta ira contro gU oppositori, che, copie ho divisato dai princt[yio, non vofesa memmen tollerarne t discorsi. Quaodo sorgendo Icilio tribuno dii^e : che eran pur buoni 1 suggerimenti di Siccio, e lan^mcnte lo encomiò, tuttavia dimostrò cìie non era cosa nè giusta, nè sociale negar la parola a chi vojeya perorare in contrario, prìncipalmeote' di> acutendosi una legge colia quale far prevalece il diritto alla Ibraa varrebboosi di occasioni consitnili, qpelK che non avevano pensieri eqni uè ginstì sul popolo, a turbar la pUè novamentp, e'rimovetae ciocché le gio /asse. E ciò detto prescrivendo ^ il giorno seguente ai, contraddittori della legge, sciolse 1’ adunanza. I consoli a4umildjili oiuiglio privato de^'pairìxj più energici al lora e più floridi, dimostrarono cbe dovea leg^ impedirsi per ogni modo prima' colie parole, è poi colle opere, se il popolo non lasciasse persuadérsi. AdunqH^ raccomandavano a tutti che andassero la ma^a al poro ciascuno quanto più poteva con amici e cliènti:, e quindi che alcuni ài stessero .ed aspettassero intorno la tributiti onde parlasi all’ adunanaa, ed altri in più crttcchj tna>. versassero il Foro, per intraccbiudere, il popolo, é vietarne la riunione. Parve questo U partito migliore, e prima cbe il di si chiarisse, erano molli posò del Forò presi gii 'da’ patriÉj. Vennero dopo ^ciò li' Iriboni e li consoli, quando il banditore invitò chiunque voleva dir contro la legger Presemaronsi perciò molti onesti uomini, ma il remore e il disordine non lasciai ascoltarne le voci. Imperocché qoal déflli astanti esortava 'ed animava i di ^ cuori, e quale gli urlava e'rigettavali nè la lode'preyalèva de’fautori, né lo strepito degli avversar): Sdegna ronsi .protestarono r consoli, che il popolo dava prìn cipio alla vioTenza col non volere ascoltare: ma replicarono i triboni che avendo essi ascoltato ben per cinque anni, non laceano cosa da odiarnéli, se non voileaoo più tollerare trite contraddizioni, e rant^de. Còsi ne andara il più delia giornata, quando il popolo chiese di votare/ Allora i giovani patria) credendo che più non iCoise da sufferire, impedirono il popolo che si raccogliesse in tribù, tolsero a chi li portava i vasi de' voti, e battendo e spiugendo, cacciarono quanti erano a ciò deputati, nè $en parlivauo. Alzarono le grida i tribadi e géttaronsi nel _ méz^o di essi : e questi cederono e là sciarono die ipvioiati ' passassero ovnnqne, ina passare ovnnque nob Isàdavano il popolo'xbe li seguitava, o quello che tumultuando e disordinandosi qua e là per lo Foro moveasi verso di loro. Cosi divenne inutile al popolo il soccorso de’ tribuni : ed i patrizj ila. vinsero, nè lasciarono che si ammettesse la legge. Le famiglie che più sembrarono coadjuvare i consoli furono le tre de’ Posiumj, de’ Sempronj, de’ Clelj, cospicuissime tutte per lo splendor de’ natali, e potenti assai per amicizie; per ricchezze, e riputazione, .come insigni per le imprese nella guèrra. Si consente che da questi -dipendè prìncipalmebte che la legge non si ammettesse. Nel giorno, appresso i tribuni prendendo i l>le bei più rlguardevolT discùssero ciocché fosse da ‘fare: e tutti di comun voto statuirono di non citare in giudizio i cposoli, ma i' privati che erano stati loro! minjstrij; la punizione de qudi ecciterebbe come Siccio' avvertiva meno diceria contro del popolo. Adunque cominciarono dih'geotemcnte a discutere, quabti 'fossero da : processare, qpal titolo Ressero al giudizio e qtialé. ne sarebbe, '.e quanta la pena. 1 più buj di carattere consigliava nò che si desse a tutta un aria di graveùa e di terrore f in opposito i' più miti voleano moderazione e ^clemenza, é Siccio era,il' capo di questi, e ve li persuase ; io djco colui che perorò per la partizion delie terre diuonti del popolo. Parve loro che si trascùraaserogli àitri patrizi, e si menassero al popolo i Clelj, i Posiumj, i Sempronj a subirne le pene 'delle opere' fotte : si ! accusassero,’ .di aver soverrbiato .ed rnipedUo i tribuni dal forc'uliiiiutre la deftsioQ 'della legger qaido lè l^gt facre -dei Senato-e del popolo,hqn tsoucedoM ad; alcuno, di p/dl^i ri chiuso t ed alfine sen venne il tempo di giudicare coloro. I cooteli ed i, patria] (rau questi i migliori) a^^ sunti per consultatvisi -opinavano che si dovesse concedere a! tribuni, la punigione, affinché i|upedki Uoa causassero male tpaggiore 1 e lasciare che i ^plebei furi-' Ixmdi versassero r ira loro sù le.soÀanxe degli accusati affiprhè paesane arendeita quanta ne voleanp, V iirq>Ucidnsero pér l’ avveAire prinoipalmente ché il danno negli averi potrebbe risarcirai a chi aosteuevalo. Or Unto appunto àddivénne. Imperocché condannati questi, scnaaapptfrìre in giudizio, il popolo Inasprito se ne^raddolci,ì tribuni pensarono che fossè rendalo, loro un moderato eivil potere e sostegno: ed i'patrizj -restituirono ai condannati le lo'to ^stanze reiHmendole, a prezzo eguale da chi areale dal pubblico comperate. Con tali riparisidissiparono i mali imminenti ^lla repubblica. Dopo non molto riprodussero i. tribuni il discorso su la legg^y àia l’avviso deliairmzioae repeatina de’ucjidci sul Tusoolo fu causa bastante ad im^edirneli. ^ceeiuccliè precipitandosi li Tuscolani in folta a, Roma 'dicendo essere giunta una artnaNi grande di Equi, che ava già devaatatq le foro campagne, e ohe tra pochi gieini ne espugnerebbero fin k ciwà se ben tosto non sibccorpeTauo ; iK Senato decretò ‘che v’ andassero entrambi U consolù .ed i consoli, intimata la leva, fchk tnarono tutti i dttsdini alle anni. Ebbevi anche allora del snsurro, oppibnendovisi i tribnni alla iscrizion mili^ tare, né. volendo die gl’ indocili si pòm'ssei'O col rigor delie leggi: ma tutto io indarno.’ Imperocché -il Senato, raccoltosi, decretò che uscissero alia guerra i ' patck) coi loro clienti : che quanti voleano avér parie nel aalvaro la patria, avessero ancor parte nelle sante cose de’ numi, ma che niuna più ve n’ avessero quei -che lasciavano i consoli. Saputosi il decreto del'Sen^o nell’ adunanza del popolo mólti si misero spontaneamente all' impresa. Vi si misero i p{ù ingenui per la verecondia 'di non soccorrere toha città confederata,' diauuta wmpre per r aderenza sua con Roma : tra questi fu Siceio 1’ accusatore presso del popolo degli usurpatori delle 'pobblidie terre, -il quale menava seco -ottocento uomini, timi co me -lui di età superiore, nè piè vincolati dalla legge ^a combattere ma pieni della riverenza del valentuomo pe’ grandi benefizj ricevutine aveano ripntato cosa non degna di abbandonarlo, mentre rinsciva egli a fitr guerra. Òr questa tra la milizia d’ allora fu di gran lunga la' migliore per la perizia iu combattere, Come per T'ardire tra’ pericoli. Seguitarono anepr altri T eaercito vinti dall’ aderenza e dalle istanze de' seniori. E il èri pur k milizia 'pronta sempre a tnui {.pericoli per amor deUe prede, che si fan tra4e arme.. Pertanto in poco tempo ebbest un armata numerosa, e .'fornita splendidissimameute. .! nemici udite che i Romani marcercbbero contre ^ essi, ravviafóQO terso la" patria r esercito : ma i consoli avanzando,a .gran >freilao per 6eno, e gl investirono improvvisi, mentre scendevano a tor r acqua ; e più volte a battaglia li provocarono. -Or attagiia ; e cavò le milizie dalle trincee#. e comparti fcavslieriie fanti per coorti, ciascuno ne’luoghi' Convenienti ; alfine chiamando Siede gli disse : iVbi combattiamo da quindi o Succio, 1 nemicL Tw mentre noi ed efsi ci risparmiamo apparecchiandocip va di fianco per quella via sul monte ove è il.eaatpo nemico, e v assalùci quei che ilo guardano, affinchè gli altri che slan contro’ noi ne teman la perdita, e tentando soccQnjerlo ci volgari le spalle ; e cor/ie. avviene ^in una subita ritirata, si affi. foUirt tutti per una strada, e con fUcilità li., conquidiamo : o se qui si rimangono ; lo perdano il^ campo ^ loro. La milizia che -lo presidia, per quanto seti concepisce, già non è. per sè foige, ma pan mettere tutta la fiducia bliquamente per quella slracbi, impossibile a salirsi di, rutscosòr dei nemici: ma io vi condurrò per vie non, visibili ad essi; e ben mi presagisco trovarle tali òhe ci -guidino sul morite, e sul campo. Inanimiìevi dunque i e speràlCk Ciò detto s avviò Wk fa selva, '> eorsooe buoa tratto, a’ imbattè con un 'cHtadioo, parti tosi non so d’ onde, e fattolo arrestare ;, sei prese a guida. E colui rigirandoli gran tempo attorno del mon te, li pose al fine su di nn colle rimpetto degli aHog la battaglia ebb^ un fine decisoli Imperocché -Siccio co’ suoi, non Si toifo fu -presso degli alloggiamenti, trovalbne'' il danto verso di sè derelitto dalla iniliiia, intenta tutta, come n spetta cólo dal canto verio del combattimento > vi diede faci lissimitmente assaltò, -e sonrontpvvi :. e prorompendo in grida ; corsele come dall’ alto ^ addosso. Sopraffatta quella dal mate impensato e concependo che venisse non qne’ pochi ma l' altro console colle > sue schiere si precipitò fuori delle trincee, per la 'più. gran parte senz’arme. Que’di Siccio ne' uccisero 'qua uà ne presero, e signori già degli alloggiamenti, ripiombarono sa gli altri nel piano. Gli Equi, conoscintadalla foga e dar damori la presa degli alloggiamenti,’ e veduti dopo non molti^.i nemici correre loro alle spalle, noo 'mostraùlno .già cnof 'generóso, ma dnordinadsi, ceecàrono scanapo per varj sentieri. Ma iu questi appunto fecesi strage copiosa, non avendo i Romani lasciato d’ iusegnirli a trucIdarvegU fino alla notte. Siccio ne era l’uccisor più graude Ira Ilice d’imprese bellissime: e quando vide le cose. nemiche ornai ridolte al suo temiihe, egli già fatta notte, tripudiando e forte magnificandosene rimenò la sua coorte agli alloggiamenti espuguati. 1 suoi npn sedo illesi ed inviolati da’ mali che ne temeyanó „ ma 'empiutisi tutti di gloria vivissima, lo chiamavano padre y salvatore, Dio, ed ogni altro bel nome, nè finivano di felicitarlo con amplèssi ed -altre esuberanze di 'gioja. Intanto r altra. milizia romana tornava al campo tuo ‘ dall’ inseguire i nemici. Era già la mezza notte, quando' Sfecio raminando 1’ odio suo 'bontro de’ (Gasoli che,lo oveano spedito alia morte -, si pose in ' animo, dì tor loro la gloria 4el buon' successo. Rivelato il cor suo tra’ compagni, e sembratone a tatti benissimp, anzi ammirandone Ognuno i concetti e F ardire, .^li prese e fe’' prender le armi, e prima uccise guanti trovò 't|tnvi nomini, cavalli, ed altri animali degli Equi, e pòi mise in fiamme i padiglioni, pieni di arme, di vesti, di apparecchi di guerra, e di robbe moltissìmé, recàtevi dalla [ureda tascoiaua : al fine, dopo svanita ogni cosa tra r incendio, parti su I’ alba senza altro che le arme, e rientrò con marcia rapidissima in Roma. Osservativisi questi appena, solleciti tra le arme, tra ’b sangue, tra i cantici della vittoria, eccovi grande il concorso, e la smania di visitarli, ed intenderne le cose .operate., Ed essi, andatine alForo, ve le narrarono ài tribuni: ed i tribuni, intimata un’adunanza; comandarono loro che vi favellassero. Era già grandè la moltitudine ; quando Siedo recatolesi iunanzi narrò la. vittoria \ e' le maniere del combatlimentp j >e come il campo nemico era preso per ie ' forze sae>e degK ottocento suoi, spediti dal console a morire, e come infine le altre • milizie combattute^ dai -consoli ne ifurono ridotte a fiìggjre, Chiedea per tanto che non sapessero grado, se non a luì dèlia vittoria dicendo in' ultimo : noi veniamo sMve le persone e le arme, nè pattiamo coià ninna grande o picciola delle involate ài 'nemico. Il' popolo -alf udirli', impietosì, lagrìmò, vedendo la età, considerando la fortezza de’ valentuomini, e crucciandosi, • e smabiandó so chi voluto ne aveva privare la patria.' Sorkène, come era l’intento di Siccio, l’odio di tutti contro de’ con soli. Il Senato srésso'non soffrì ciò di buon animo, nè decretò per essi il trionfo' o altro pe’ fausti cornettimenti. H popolo poi veduto if tempo della scelta dei magistrati, nominò 'Siedo tribuno ; conferendogli la dignità della • qpale erà' 1’ arbitro. E tali furono le cose più rilevanti operate in qòeiranno. Spurio Tarpeo, ed A11I9 (i^ Térmipio pr^ sero il consolato per l’ anno seguente (0). Questi carezzarono di continuo il popolo con più medi, ccène col previo decreto del Senato su’ magistrati; imperocché “ Si coniulti SigoDÌo su Livio. Di là si raccoglie cìie forse dea Irggtt ti' jfterh. \ ' Anna di 'Roma 3ao. secondo Catone.. ^o secoado Varrone, e av'. Cristo.,. ' (3) Cioi che si potessero multare i magistrati arrogami o clie trascendevano i limili^dei loro poteri. Vedi.g 5o^i rjueito libro. Nondimeno vi è chi crede che vi si parli del senatusconialto fallo emanare dai consoli perchè li tribuni potessctp ìar approvare dal DlOillGT, amo Iti. • ' ' ' nsoli ultiini. Intanto prima che d di Sén Venisse 'di' quella causa.^ facendo l’uno e^l’ altro d^li accusati calde brighe e raccomandaziodi, essi, come già consoli, assai speravano su del $éQato ; • e teneano per leggero., il pericolo, promettendo i seniori di quel ceto ed i giovani che ilon lascerebbero far tal giudizio. Ma ì tribuni prevependo tutto da lontabo, e non valutando preghiere; non minacce, non pericoli ; a{q>ena giunsene il tèmpo,' convocarono .il popolo. Eransi già riversati da’ campi in città poveri e lavoranti in gran numero : or .-questi aggiunti alla moltitudine interna 'empierono il Foro, e le vie che vi conduconp. popolo il progetto sa la formasione del.le leggi, eguali per tatti ; 'argomeaio allora di controTeraie, -come apparisce dalle, coa'e precedenti/'’ -• (r) Forae Icilio tribuno dell’ anno precedente. ..., laQ^oUo.per il primo il gÌRdluo' tU' Romi lio, .Sieda fattoti (^vaati .accurà le> violenze di lui nel •DO consolato contro de’ tribuni, e le insidie contro di aè e della sua coorte nel suo capitanato. E endo egli voluto esimere' da quella spedizione. Matxo .Jciiio, coetaneo ed qmico'SUOf figlio di' uri tale dellfi coorte^, perchè qifesti non ujttme. ài un tempo col ^adre -à morire ^ e che avendo ottenuto da Aulo V srginio, zio suo, e luogotenente afiqrq delle nfilizie di recarsi' ai consoli^ chiederne quésta grazia ; i coruiyli ebbero cuore di .coatraddirh, ed egli, fa ridotto al conforto nùsero delle lagrime ^ non restar^do à (iti che dèplorarela calamità, delf amico : che t antico pel quale pregqvaf udito ciò, se_n venni, 9 chiesto di parlate protestò choj avea pur grandi gli obblighi agi inteAiessori suoi, rna che. mai grad^ebbe anche ottenutala una concessione che levavagli d' esser pietoso inverso del sangue suo : nè nidi si Hmove/ubbe dal padre quanto più si avyiava a. morte, certa come tutti sapeane : anzi ne andrebbe con lui pey difenderlo fin dove potrebbe, e correrne, la sorte medesima, Or costui ridicendo tali cose, niun fu " che nou commiscrasse la sorte di tali uomini : ma quando poi chiamati, comparvero per attestarla, (cilio ' padre, e figlio, e oarrarono cioochè era. di loro; non poterono i più del popolo contenere le lagrime. 'Perorò, se ne difese Ròmilk>,'non ossequioso, non pi^érole-ai tem pi ; ma fastoso, e, grande ne’ concetti ' suoi, coÉàe non si avesse a dar cónto del consolato. Adunque l’ira ne crebbe de’ cittadini, e rendati arbhri di sentenziame, deliberarono ripercoterlo,' e condannarlo co’voti di' tutte le tribù ;. talché la' condanna fosse una ' multa di assi dieci mila. Siccio, 'sembrami, risolvè ciò non senza nna .provi denza : ma perchè scadesse il favór de' patrizj su costui, nè facessero broglio nel darsene ih voto, considerando che la emenda era in danari e non ‘altro ; e perchè li plebei fossero più pronti a .pronunziarne la pena, non dovendo spogliare l’àom consolare di patria, nò di yita. Condannato Romilio fu dopo pochi giorni condannato eziandio Yeturio.' Anche la multa suafa pecuniarìa, ma suddupla di quella del consolato. Adunque non \ più governavano misteriosamente, ma Con intento manifesto ai vantaggi del popolo. E priipa stabilirono ne’comizj benturiati per legge: che tutti i magistrati potessero punire quelli i quedi ecce devono o disordinavano i loro poteri, perchè per addietro non altri che i consoli pòteano far questo. Per Qoi di'cinqoa mila aui. Ora ciò sembra ragionevòle; perchè esseodo Romilio oppositore più che Velario de’ tribooi, dovea sentirne danno maggiore. Nondimeno Livio afTerma che Romilio fa condannalo per dieci mila assi, e Velario per (piiadjci mila ; il che ha -fallo, interpreiare la voce a/oUssi qui dire minatamente, a voi, che vef. sapete, quanto ho sofferto dal pòpolo non per mie private ingiustizie i ma per la henevolenza mia verso di voi; tuttavia ciò ricordo per neceisità, affinchè vediate che io parlo per lo migliore,, non per adulare il popoìp, che mi è eontrarioi Nè alcuno si meravigli, -je io che fui d altro asviso più volte, e quando fui ^console e prima, ora mutato mi sia sttbitamenté ;J nè vogliate concepire che non bene consigliassi allora,, o non bene mi ritratti ah presente. Io finché vidi, o padri,, superiore lo .stato de nobili, lo favorii, come doveasi, non. curando quello dei popolo. Ma poiché fatto savio da’ mali miei, vidi. a gran costo che il poter vostrq è minore dei vostri voleri ; e che piegaridovi alta necessild più volle avete lasdèUo manometter dal popolo quelli che vi sostetievimA, rdiora più,non tenni gh antichi pensieri. E ben vorrei che rion fossero a me, nè al collega mio succedute le cose per le tjtiali voi tutti su noi'vi condolete. Ma poiché finite sono, tali nostre vieef^e, e possiamo solo curar' t avvenire, provvedendo 'che ailri non soffran Iq stesso, v'i esorto ad uno. xid uno I é tutti insieme che órdinialé m bene, almeno il presente: àmpcrocchò'JèUcissimamente governasi una repubBlica, la qual si èontempera alle sue cose; quegli è il consiglierò migliòre che pòrge il parer suo per cònio di utile pubblico^ -non di nirnidxte private o furóri; e benissimo lei. porgerà su'tempi di poi chi pigha esempio delle cose JWhtre dalle passale. Noi., o padri, quante sfolte si disputò, si 'donlése tra'l Senato e tra ’l popolò ; tante ne àvemmo per alcun modo lapeggio con morti, v esilj, con sfingi' (T Uomini insigni. Or quale sciagura maggiore per una. repubblica che le si tolgano i cittadini migliori, ò senza Una cauia ? Pertanto io vi esorto che questi ve ù risparmiate; nè gettiate i consoli presenti a''màmfesti pericoli, abbandonaisdoli poi tra la tempesta, al pentimento. Deh! che non gettiate ai ‘pericoli niim altro qualunque, e sia pur egli piccolissimo per la repubblica. La principale fierò delle cose che vi' raccomando, è che mandiate deputati,'qiusli nelle grecite città d" Italia, e quali in Alene ; perchè vi cerchìn le leg'gi migliori, e più confacevoli a’ nostri costumi, e Sce le fìpot'i.iio: che Ibrnnti questi, i consoli propongano al Senato, quali debbansi 'scegliere per legitlatori con Jfual potere,, per quanto tempo, e cosp altrettali come egli le crederà spedienti : finalmente che lasciate le discordie col popolo, e di cofinetlervi disgrafia a disgrazia, principalmente per una legislazione, la quale ha seoo, se tiòn altro uM apparqto 'almeno di maestà. . Seooodarooo i dpe consoli ài parer di Rqntiliò con più ragioni premediut^ e, molti altri xonsiglieri lo secoodaronof; tanto cbè la plorftità'vi ^ deprsj^. E già già se ne slendeva ài decreto, quando Slocio'.il^ trtbimot quegli cbe zyevz accusalo iLomilio sorse, e fattone ekn gio copioso, ne laudò la mutazione, e cbe non ayesse anteposto Je nimicizie sue all’ util comune,-,ma ^tto ingennào^entè 9ÌÒ. eb’era il bene. Peritai meritp^ soggiunse, IO gir rendo qvesC ossequio, 0 ^ptesta ricono^ saenza : io U> assolvo dalla multa impostagli' nel giudizià, e dà pra in poi, me ^ riconcilio : perocché ci ha sopra^atlo ftel .bpne. Egli disse } e già altri tribuni presenti acconsenlironò. I^on sostenne RomiUodà, prenderne quel conlnccambio ; ma lodati i .tribuni protestò cbe pagherebbe la multa, essere questa sacra ai numi: e non fare cosa né giusta nè pia, chi spoglia h numi di quanto si dee laro per legge : e. coti £e$;9. Steso il decreto dal Senato, 'e confermato dal popolo, ' furono eletti a prendere le leggi da Greci Spurio Posiiunio, Setvio. Sulpicio, ed Aulo MalHò . Furono, questi a ' ., " ^ „ In Lirio si legge PuM Sulpicio .in laog'o di Servio Salpido come scrivesi '.in Dionigi. Servio Sulpicio fu eOosdle l'anno 193, ma Publio non si trova cbe 'mai lo fosso. Tanto Liiio quanto Dionigi numeraao Aulo Manlio Ua i depùiati, cd. Aulo Maoliq seooado pubbliche spese forn^ di triremie > di ogni arredo ; quanto si convenisse ialia maestà ' dell' impéno ; e cosi l’anno -spirò. Nella olimpiade ottantesima seconda, quando Lieo Tessalo' di Larissa vinse allo stadio, e Cherofiino era l’arconte di Atene, compiutosi 1’ anno,trecentimo dalla fondasionb di Roma, cretti consoli ' Publio Orazio, e Sesto Qaintilip j, proruppe nella ^città up morbo coptagioso, il inaggioi% di quanti ue erano ricordatL Vi 'perirono quasi tutti i sèrvi, e circa .Una metà di cittadini. Non. piò i medici avean cuore d( curare gl’ iniermi, non i domestici, non gli amici di porgere loro le cose necessarie ; perocché volendo 'assistere gU -altri còl tatto e col commercio ne coutr^evan i malu Donde è che piò famiglie si^ desolarono per, deficiènza di assistenti. Non era la minima delle sciagure quella so la esportazion decadaveri, ^ certo era causa'.cliè il morbo non venisse meno subitamente. Su le prime per la verecondia, e la copia de’ funebri apparecchi bruciavano o seppellivano i -morti : ma poi curando poco la verecondia, o non avendo ciocché bisognava, ne gettavano molti nelle chiaviche, e più ancora nella corrente del fiume. nd’ è che spinti ai scogli e alle arene delle rive, songeane danno gravissimo ; perchè spiccavasene Oiooipi fu contotq r aono s8o i laddove io Livio leguaai .ia quell’anno per coufole G. Manlio. S; dunque ì deputali erano, còm'a veri$imile, tuui uomini co^olari, il tèstodi Dionigi in questi -luegbi trovasi più eastigato che quello di LCvio. t .- Aono di Roma 3oi secondo Catone,, 3o3. secondo Varrone, e 45 av. Crisio. "‘uBao x; '7 un odor fetidissimo, il quf^e col corso dé’ reali causava subite mutezioni ai corpi anche saqi. Nè l’acqua portatq dal dame era più buona da beveme si per 1’ odor tri sto, ri per le ree digestioni a designarvi i consoli, e designatili ', propoiTebbero' io sieme con questi ai padri la scelta de’ legislatori. ^ Aocordativisi i tribuni, essi intimarono -i comizj prima assai deir usato, e destinaieno consoli Appio Clandio, 0 Tito 'Genuzio. Dopo questo .omettendo, quasi già fòsser di altri, .tutte -li cure {fùbliliche, più non datano ascolto ai tribuni ', e solo miravano a sottrarsi di briga nel resto delia loro raagistratnra. Occorse intanto cbo Mencaio l’ iroò de’ consoli s’ ìnfernuMe di juna' lunga malattia, e vi fu chi disSe che il languore sopravvenutogli per -l’ affanno e per 1’ abbattimento, la rendeva in sanabile. E' Séstio sol titolo che egli non "potea’ solo per. . 1, a()9 aè fiir aiedle,' respingeva 4e istanzt de’ tribuni,^ e voleva che si vbigessero a miO^i niagislrati. E questi non avendo altoo lYiodó, furono astretti in privato, e nelle adunanze pufablicbe dirigersi ad Appio, e suo collega, quantun> qùe non avessero ancora preso il coniando. Or gli ridussero alQue questi uomini, empiendoli' di grande spe> ranza di onori e, di potere, se prendessero a” cuore gli interessi del'popdfo. Imperocché -Appio iu invaso dal1’ ambizione di avere una qualche nuova magistratura, di fondare leggi di cònCordia e di pace", e di far che tulli estimassero 'che la patria sola comandava^u‘ citu dini. Ornato però di una' grande magistratura non vi à contenne; ma inebbriàtone da’ poteri sublimi,^^tr^orse ai furori di perpetuarsela, e per poco non giuose alla tirannide ; cqme spbirò ne’ suoi tempi. Allora dunque cosi pensaodota con cuore -buono, '6no a {lersuademe il. collega egl’ invitato più' volte dai tribupi alle adunanae, vi 'si (^dusSe, e 'tenpevi molti ed umani ragionamenti. I quali rigiravansi. ip t^eslo che piaceva a hd come al collega suo', prÌTtcipalmeiUe che si destinassér le leggi, e si chetassero. le discara die civili su diritti ; e diceano ciò ' palesissimàmeute ; come pure che ''essi ', perchè non entrati al comando, non aveano 'facoltà di nominare i cosUtutori' delle leggp ‘ che noH si opporrebbero per ' mòdo 'alcuno a Menenio’ console e suo ^collega se dava esecuzione al decreto delSenato, anzi’ che do coadj'uverebbero e ringràzierebbyo ; che' se Menenio e il compiano reylica e protesta( Soggiungevano), che trovandoci noi designati per consoli f Tton ^uo ' nominare altre' magislrature lé quali prendano podestà pari' alla consolare ; noi dal canto, nostro non saremo V ostacolo della operazione : perchè sporttanoi cederemo la nostra soprastanza, se cosi • piace in Senato, ai nuovi che sceglieransi in. ^ogo de' consoli. Elocomiava it popolo' la buona volonlà di tali .uomini ; e spiolMÌ, tutti ia /olla nella curht, Sesto ( non poiendoviai tcovare Menenjo per la iufern^ità ) costretto a convocare egli solo il Senato, propose la deliberazione su le. leggi. Ben si disputò qninci e quindi copiosaiaeute da. chi lodava l’essere coiuanihto dalle leggi, e da chi chiedeva che si ritenessero le costumanze paterne: ma prevale il, parere de’ consoli designati propostovi da Appio Claudio, interrogatone per il pritpo : vuol dire cAe si icegliessero dieci i più cospicui tra padri : che forrtandastero su tutta la repubblica per un anno dal giorno deità elezione'col potere' che 'ci aveatip i consoli', e primari re : e che-.fiotànto che governavanp i decemviri .cessasse ogni altra .màgislralura: che qqesti proponessero le leggi più utili alla ivpubblica, scegliendone le migliori da quelle riportate pe' deputali dalla Grecia, e dalle usante. della patria; che le leggi scritte da decemviri, approvale • che fissero dal Senato e ratificate dal popolo,, valessero per tutto f avvenire; e che i magistrati che si creerebbero a norma di queste leggi, discutesteror a rtórma appunto di esso i, conti atti d'e' privali, e pròvyedessero al pubblico. .,LYL. Preso questo decreto ne anderonò i tribuni al/ adunanza, e letto velo; assai vi encomiarono i padri, ed Appio che lo aveva proposto. Giunto poscia il tempo :^ . ‘ 3oi de’ comizj, i iribun! convocatovi il popolo, fecero ve Dirvi i censoU/ designiti perchè g[li osservà^ro le promesse: e questi presentatisi ; deposero il consolato. Non finiva il popolo di encomiarli e lodarli: fattosi quindi a dare il voto pe’ legislatori scelse a tal grado -ipiestl due per i 'primi. Imperocché, ne’ comizj per centurie furono eletti legislatori Appio (gaudio, e>Tito Genuzio^ li due' che doveano èsser consoli l’anno seguente : Pu blio 'Sestiò., insqle ^ dell’ anno corrente, li tre Publio Postnmió, Cervio Sulpicio, ed -Aulo Mallio -,. r qusfli aveano riportate le leggi da’ Greci; Romilio il console dell’ anno antecedente il quale condannato peo le accuse^ di' Sfócio dal popolo, fu poi sentito il primo a dir senlèDEe fautrici ^ cemVirato • f Dettesi quinci 0 quindi più cose' vinse' finaltnente.il partito di chi consigliava che sì tenesse ancorsi il decemvirato su -là repubblica; peroccbè' compilata in picciolo,t$mpo la legislazione non pareva La .tutto ultiosata., e -pareva ancora ;che bisognasse un magistrato assoluto per .obbligare, volessero 0 no, tutti, a quanta ne èpa già -stata decretata. Ma ciò-,cbe gl’. indusse più che tutto, a preeleggere i dieci. fu, rinlenlo di spegnereil tribunato, ciocché bramavano sommanaenie. ''Tali fatono i risaltati delle pùbbliche cousuUaziom : ma. in privato i primi del Senato disegnavano procurare per sè quel magistrato Sui timore che intrqduceodovisi uomini turbolenti nen cagionassero grandi sciagure. Il po polo ricevè con diletto, e ratificò Con pieno trasporto, dandone -il voto, le sentenze -dej Senato.. I dieci prefissero il tempo de’.comiàj-, e li più provetti e più rispettabili de’ patrizi ambirono quel' magistrato, b fptì molto ebeomiato da tutti JVppio, il pruno ^allora del decemvirato, ed il popoip vo)ea .couifermarvelo, -come se niou altro meglip di lui -lo remerebbe. Egli fingea su le prime di escusarsene e 'cbiodeva ebe Ip esimessero da nn incarico, pieno di travagli e d invidia : ma poi Btimolandovelo tutti; fecesi a chiederlo nottamenle ; anzi dolendosi dei migliori ' de’ competitori, come di animo non buono verso lui per 4a ' invidia ; favori gli amici suoi palesissimamente. Egli dunque nc’comizj per centurie fu crealo per la seconda volta datore di leggi: e eoa esso'lai furono creati' Quinto Fabio detto Vibo^ lado, già 'per 'tre volte console; edirreprensibile 6no a quel tempo in ogni bel costume : e ira gli altri pa-^ trii) diletti ^uoi; Mai‘co' Cornelio, Marco Sergio, Lucio MinuCio, Tito Antonio, e Manio Rabulejo, .uomiut non molto chiari : de’ plebei poi Quinto Poetelio, Cesbne Duellio, e Spurio Oppio. Aveaci Appio assunti por questi per adulare il popolo coi dire che', 1’ equità voleva, • he, stabilendosi una magistratura uòica su tutte le -còse ; aves^ro parie in essa anche i plebei. Applaudito in unte' queste cose,. e ‘parendone il migliore dei re, e de’ soprastand annuali ; prese la magi.i stratura per l’ anno che seguiva. Or questo e non altro ' è quanto si operò degno di ricordauza nel primo decemvirato presso de’ Romani. Presero nell' anno ^guente -la podestà suprema i dieci con Appio alle idi di maggio. Allora i mesi legolavausi colla Iona, e cadeva in quelle' idi appunto il plenilooio. Or prima legandosi tra sagrifizl, arcani alla plebe, convennero di non contrariarsi mai fra loro, 'di ratificare tutti quanto ciascuno giùdicherebbe: di ritenersi la magistratura ih vìta\ nè Jasciare che altri vi sottentrasse : di aventi' tutti onore e potere eguali : di ricorrere di rarii, e per necessità sola, ai. . 3o5 i>oti del Senato e del popòlo, e di ultimare per lo più le cose colC autorità propria. Poi jrenuto il gio;^o da pigliare il comando, ( è questo giorno sacro ai Romani, e guardansi tutti di ascoltare o vedere cose non liete ) ^ fatto prima sagrifìzio agl’ Iddìi secondo il rito, uscirono ben tosto i. dieci su la mattina con tutti i distintivi di nn regio potere . Come il popolo vide, che non osservavano più |e mauiere popolari e, modeste di preminenza, e che non avvicendavan fra loro come prima i segni del comando supremo; assai ne decadde nell’ aspetto e nell’animo. Temè le scuri messe tra’ fasci portati da dodici licori dinanzi a ciascuno, i quali facean largo, dando de’ colpi come prima ai tempo dei re. Era stator questo costume abolito ben tosto. dopo la espulsione dei ré da Publio Valerio, uomo popolare, quando ne succedette al comando. E paréndo essere stato autóre di ottima cosa; tutti i consoli posteriore fe> cero come lui, nè più misero tra’ fasci le scuri, se non quando marciavano, all’ armata, o per altro intento uscivano da Roma’. Or quando portavano guerra agii esteri, quando visitavano i sudditi, assuiueans le scuri ; .perchè r aspetto terribile di esse-,. come dirette contro de’ nemici e de’ servi, si rendeva mec grave pe’ cittadini. LX. Veduto ciò, che riputavasi il segnate di nn regno, si temè, come ho detto, moltissimo, credendosi pòduta la libertà, e creati dieci per un solo monarca. Con. tal modo sbalordirono i dieci la moltitudine : e Roma Catone Varrous, e 448 ar. CrJslo. ' '1 PlOStGt, Itipu) in. '. IO fermi, cbe avrebbero a dominare per 1’ avvenire col terrore ; ciascuno fecesi Un seguilo dì ^oyanl i più leDterarj, e opporiuui per esso. Ben era da aspettare, o sperare cbe i più de’ poveri e sciaurati si dimostrassero fautori della tirannide ; anteponendo l’ utile proprio al pubblico ; ma non era da aspettare, nè da sperare, e certo egli fu meravigliosissimo^ che molli patrizj potendo grandeggiare per 'sestauze e per, sangue soffrissero di opprimere co’ decemviri la liberi^ della patria. ' Costoro datisi a tutti i piaceri, quanti sottopongono 1’ uomo, comandavano superbissitnamente : e legislatori insieme e giudici, tcncano per niente il Senato ed il popolo, ed uccidevano e spogliavano, conculcando ogni diritto. E perchè azioni illegittime e biasimevoli sembrassero noux indegne, anzi operale per giiislizia; nomsi accingevano a farle se non previo esame, ed'uu giudizio. Erano gli accusatori inandaii da fondatori stessi delta tirannide, creali i giudici dal ceto de’ loro amici; laDlochè solcano questi in coniraccaràbio sentenziarne per compiacerli. Molte cause però', nè di poco rilievo, le defìnivano i dieci per sesiessi. Cosi quelli che erano per essere defraudali del loro diritto, non trovando altro scampo, conducevansi necessariamente a renderseli amici. Ood’ è che col volgere del tempo videsi la parte corrotta ed inferma maggiore della innocente. Imperocché coloro che v' erano concul^cati da’ decemviri sdegnavano di rimanervi, e si ritiravano nelle campagne, Bspettandovi il tempo de comizj, ^quasi coloro finito 1’ apno fossèro per deporre il comando, ed eleggete nuovi ^nagislrali. Appio intanto £ i colleghi ^crisscA) le. leggi che rimanevano in altre due tavole, e le aulroao alle prime. In queste eravt traile altre lajegge, che non concodeàsi a^atrizj il matrimonio co’ plebei: e ciò non per altro, io t j , !• OLGENDO la olimpiade ottantesipia ' terza nella quale Grisoue Imero vinse allo stadio mentre Filisco era 1 arconte di Atene, i Romani annientarono il decemvirato il quale governava già da tre anni la repubblica. Ora, io tenterò descrivere dalle origini per qual modo, quali nomini, con i|uali cause e pretesti, seguendo la libertà, si lanciassero a schiantare una signoria che ovea già profonde le radici ; perciocché ne reputo la cognizione bella e necessaria principalmente al Glosofo die contempla, ed all’ uomo dr stato che amministra, per non dire a tutti. E certo .molti non si contentano ^ conoscere dalia storia, solamente come gli Ateniesi ed i Lacedemoni vinsero, per esempio', la ^ guerra col Persiano, aiTrontandosi in due battaglie navali ed nna campale contro un barbaro che area tre milioni di nomini, essi che 'aveano appena cento dieci mila nomini insieme cogli alleali; ma vogliono' por co, noscere dalla storia i luoghi ove occorsero, .ed kiten dere le cagioni per lè quali si compiecono le meravigliose ed incredibili gesta, come apprendere quali fossero i duci delle armate greche e persiane, nè essere, per cosi dire, defraudati, di cosa niuna fatta ne’ combattimenti. Imperocché dilettasi la mente dell’ nomo por, tata quasi per mano dai racconti alle opere, e come a vederle dopo ascoltatele; E quando gli uomini odono le civili vicende, non appagansi di udire la somma ed il termine degli ’ affari, per esempio., come gli. Ateniesi permettessero el^e gli Spartani demolissero le mura, conquassassero le navi di Atene, ponessero guarnigionè nella Iqr cittadella è vi trasmutassero il governo del popolo in quello de’pochi^ senza nemmeno combattere (.i); ma. bentosto dimandano quali erano le angustie di 'quella città, onde incorse in tali orrori è miserie, quali e di chi li discorsi che ve 1’ acchetarono, e quanto seguila tali cose. Dilettarsi poi della contemplazione totale di quanto concerne gli affari è cQmifuq a tutti,. come agli uomini, pubblici, tra’ quali colloco àncora i fUosofì, quelli almeno che pongono la filosofìa non già nelle Occorsero tali fatti oelf''aoao Hltimo detta goeri'a del Pelopoaneso ; conws pu& vedersi io Senofoute nel libro secoado lAasxnel lib. -i3 di Di odoro, t nel LitandrQ di Plutarco., I parole, ma nelf esercizio delle opere belle. Cd oltre questo diletto, ne segue, > no, e riducendd' quanti ner credevano IntorTerablle il giogo ; a lasciare colle -mogli e co’ figli lo^ patria, ed alloggiarsi nelle città vicine, ricevutivi da’Lallni in forza de'parentadi, e dagli Eroici per essere stati di fresco creati cittadini da' Romani. DI guisa teaoo traversarne 'le opere ; nè vi rimasero nemmeno gli asciiitl al Sentito I qu^li doveano per necessità star pronti pe’ decemviri ; ma l più trasferendosi con quanto aveano in famiglia; dimoravano, abbandonate lo case, per le carrqiagne. Non dispiaceano gli allontanamenti de’ grandi personaggi agli amatori del decemvirato per più cause, e principalmente, perchè I più 'giovani di questi erano divenuti don che scellerati, molto insoleati, né poteauo tollerare. 1’ aspetto di qtielll, innanzi dei quali doveano arrossirsi della loro impudenza. III. Derelitta cosi la città dal fior degli uomiai (^), e cadùlavi ogni libertà ; gli Equi già vinti da' Romani, cogliendo la Occasion propizia di combatterli, di con Anuo di Roma 3o5 Mcondo Caioua, ìof ascondo Vartoae, c av. Cristo. Digitized by Googie 3i2 delle antichità’ romane traecambiarlt delle iogiorie sostennlene, e riveodicarsi quanto perduto ci aveano, apparecchiaronsi all’ armi, e marciarono con grandi eserciti contro di lei', malconcia pel comando de’ pochi nè idonea a tener fronte, nè a concordarsi, nè a' cura fecesi innanzi e disse che portavasi a -Roma, la guerra, da due parti, quinci dagli Equ^, e quindi da’ Sabini ; tenendovi un discorso ariifiziosissimo, indirilto a far votare la leva delle milizie e condurle imipzntioeDtc in campagna, non peùnetteodo T Ifare che indagiasse. Or lui cosi dicendo insorse Lucio Valerio, soprannominato Polito, uomo che grande tenessi |>e' grandi genitori: certamente era stalo padre di lui più, importano, conte sarebbe il buon ordine della moltitudine, e che la cosa stessa apparisca utile a tutti, rimovendo dalla città la ingiustizia e la soverchieria che vi domina, e rendendo l’ antica forma al governo; in tal caso sbattuti quelli che ora inorgogliano, e gettate le armi, verranno a noi tra non molto per saldarne le ingiurie, e trattare la pace : e noi, ciocché i savj tutti desiderano, potrein finir senza le armi, la guerra con essi. Or ciò considerando, poiché sì grave tra le mura è la turbolenza ; io giudico che debbasi per ora sospendere ogìti cura di guerra, e concedere a chi vuole di proporre mezzi di concordia, e buon ordine interno. Noi chiamati da queste magistrato non abbiamo potuto già prima di essere addotti a questa guerra, consultare su lo stato^ de’ nostri pubblici affari, e conoscere se scóncio alcuno ci avesse. Ed ora assai riprensibile sarebbe chi, lasciata la occasione, •cercasse di altro discorrere : e niuno dir può con sicurezza che trascurato questo tempo, come men congruo, un altro ne avremo pià acconcio. Anzi se alcuno vuol concludere V avvenire dal passato ; trascorrerà gran tempo senza che possiamo qui riunirci per deliberare. IX.' Io prego te, Appio, e voi tutti presidenti di Honta, voi che dovete provvedere non al bene vostro privato, ma a quello Ai tutti, a non corucciarvi, se io parlo secondo la verità, non secondo il genio vostro. Voi dovete por mente, che io parlo, non per malignare, o vilipendere il vostro magistrtUo; ma per additare, se pur vi è, una via di salvare, e dirigere la repubblica, dopo mostratine i /lutti da’ quali è sbattuta. Quanti han cara la patria, debbono forse qui tutti discorrere dell’ util comune, ma io principalmente. Imperocché io debbo per la onorificenza fattami dar principia ad opinare : e saria vergogna e stoltezza grande, se io che sorgo il primo non dicessi le cose che prime son da correggere : Appresso trovandomi io zio paterno di Appio il capo decemviro, accade che più di tutti mi consolo, o rattristomi secondo che bene o non bene governano la repubblica. Aggiungi che ho io ricevuto da’ maggiori miei la civil consuetudine di curare anzi l' utile -pubblico che il mio, senza guartlare a privati pericoli ; nè io, la tradirò io questa civil consuetudine, nè profanerò le gesta di que' valentuomini. Orjt, che il governo presente male a .noi si conviene anzi che incomoda, direi quasi tutti ; siane questo l’ argomento gravissimo, che quanti trattavano le cose civili ( nè già potete voi soli ignorarlo ) ràiransi ogni giorno da Ho 3ai ma, lasciando le paterne case deserte. Qual de' plebei più rìguardevoli trasferisce la propria sede colle mogli e co' figli nelle città più vicine, e quale nelle campagne più lontane da Roma : E molti de' patrizj nemmen essi in città se ne vivono, ma li più si dimorano per le campagne. Ma che giova parlare degli altri j quando appena in città se ne stanno alcuni pochi senatori uniti a voi per amicizia o per sangue, e cercan gli altri la solitudine più che la patria? E quando voi v'aveste il bisogno di adunche il Senato, tornarono invitati ad uno ad uno dalle campagne que' dessi che solcano insieme co' magistrati guardare la patria, nè mancare mai da affare niuno della repubblica. Or tdie pensate voi che gli uomini ahbandonande la patria fugano i beni o li mali ? certo che i mali. E t essere abbandonata da plebei, derelitta da' pevrizii senza incontri di guerra, di pestilenze, e di altri disastri mandati dal deh,, ella è sciagitra questa non seconda a niuna per una città, massimamente per Roma, la quale abbisogna di molle milizie, tutte sue ; se vuoi dominare stabilmente su' vicini. X. Folete udir voi le cagioni che riducono i popoli ad abbandonare i templi e le tombe degli avi, e lasciar diserti i poderi e le case paterne' ^ e credere ogni altra terra più necessaria della patria ? Certamente tali cose non avvengono^ senza cagioni, ed io sporrovele queste, non occulterowele. Molte Appio sono le accuse e di molti sul vostro magistrato : vere o false che siano, noi cerco per ora : certo che vi si fatino. Ninno, se non del vostro seguito j trova il ben suo nell' orditi presente. I ^andi, figli pur essi di grandi, à quali spettavano i sacerdozj, le magistrature, e gli altri onori goduti dai loro padri, fremono di essere da voi respinti e tolti dalle dignità degli antenati. Quei del celo di mezzo che cercati la calma del vivere, v imputano lo spoglio ingiusto de beni loro, lamentano il disonore che fate alle lor mogli, la effrenatezza verso le loro figliuole nubili, ed altri oltraggi molti e gravi: e la parte più. bassa del popolo, non più arbitra per voi de' voti e delle elezioni, non più chiamata alle a4unanze, nè, partecipe di alcuna civile uguaglianza, ve ne maledice appunto per questo, e tirannico chiama il vostro governo. XI. Ora come voi correggerete questi abusi, come la lingua, incolpati che ne siete, accheterete del popolo ? questo è ciò, che rimanemi a dire. Facciane il Senato previamente il decreto : fate che il popolo deliberi, se torni a lui meglio ripristinare i consoli, i tribuni e gli altri magistrali della patria, o continuare r ordin presente : se tutti i Romani avran caro il comando de' pochi, e dinoteran co’ lor voti, che ve lo abbiate voi questo comando ; voi terrete un magistrato legittimo, non violento. Ma se vorranno di nuovo i consoli, di nuovo gli altri mostrati ; voi sarete decaduti per legge, nò più crediate dominare, se ìton da tiranni su gli eguali, non prendendo gli ottimati il comando, se non da' cittadini spontanei. E nel far questo, o u4ppio, tu dei dar principio, c tu disciogliere un comando da te stahilUo, utile un tempo, ed ora noceyole. E m’ odi ciocché ne guadagni, se mi ti arrendi, se ne deponi codesto malveliuto comando. Se li tuoi colleghi a ciò s’ indurranno'; ciascwi dirà che buoni fatti su /’ esempio tuo vi si indussero t laddove se questi si ostinano a tenere un dominio illegittimo ; sarai tu benedetto che volesti, altnen solo, compiere il giusto ; mentre i contumaci saran con infamia e danno gravissimo degracUtti. Che se mai ( lo che potria ben essere ) fermato v' aveste infra voi secreti trattali e parole, pigliandovi i Dei per mallevadori, fa pur conto che siasi empietadv osservarli, e vera pietà vilipenderli, come contrarf ai cittadini, e alla patria. Imperocché sogliono i numi esser presi mallevadori su gli accordi buoni e giusti; non su gV ingiusti e vergognosi. XII. Che se tu esiti lasciare il comando per timor de' nemici, sicché non ten venga pericolo, nè sii stretto a dar conto delle opete tue ; certo non è ragionevole questo timore. Non è sì picciolo, non sì sconoscente il Romano da ricordare i tuoi sbagli, c scortlarc i tuoi benefizj : ma contrapponendo i beni presenti ai mali passati giudicherà degni questi di perdono, c quelli di lode. Potrai tu rappresentare al popolo' le tante belle tue gesta innanzi del Decemvirato, ed in .vista di queste ottenerne ajuto e salvezza, e difenderti in più modi dalle accuse, come ad esempio, che non eri tu che abusavi, ma un altro senza tua saputa; che non bastavi a reprimerlo come tuo pari: o che eri necessitato a soffrire per areme altra cosa più utile. Ma troppo lungo sarebbe il discorso, se numerare volessi tutti i modi delle difese. Coloro che non han discolpa niuna giusta, nè plausibile, pur confessando il delitto, e raccomandandosi, ammolliscono il cuor degli offesi, con allegare il poco giudizio degli anni, la pravità de' tompagnì, la vastità del comando, o la sorte che travia ne calcoli loro tutti i mortali. Or tu se deponi il comando, tu n avrai, lo prometto, amnistia generale de’ mancamenti, e riconciliazione col popolo, decorosa in mezzo de' mali. Ma io temo, che il pericolo siati pretesto non vero a non lasciare il comando ] essendo a mille riuscito di rinunciar la tirannide, nè scontrarne alcun danno da cittadini. Le cagioni non dubbie sono un ambizione vana che cerca le apparenze di una gloria vera, una propensione pe' rei piaceri, quali il vivere concedegli de’ tiranni. Ma se pià che andar dietro alte immagini, e alle ombre degli onori, e de’ piaceri, ne vuoi tu ciò che è solido; rendi alla patria la tua preminenza, ricevi le dignità dagli eguali tuoi, acquistati la emulazione de’ posteri, e lascia loro in luogo del mortala tuo corpo, sempiterna la fama. Questi sono gli onori fondati e veri, questi gt indelebili e cari nè rincrescevoli mai. Pasci V animo ti.'o de’ beni della patria: già non parrai di averglìt.^e dato la menorna parte, liberandola da signoria ce'ti dura. Prendi esempio dagli antenati, considera chs^ niun d’ essi mise affetto ad un potere dispotico ^ nè fu lo schiavo vilissimo de piaceri del corpo ; eppur furono onorati in vita, e morti sono celebrati da posteri ; giacché tutti fan loro testùnoniama, che furon custodi fidissimi delC aristocrazia ^ che Roma fondò, dopo espulsi i monarchi. Non dimenticare i detti ^ non i fatti tuoi gloriosi; perciocché belle pur furono le prime tue mosse nella repubblicUf e pur grandi per la speranza ^ che davano della tua virtù. Deh ! che siano consentanee ancor le altre tue opere. Deh ! ritorna a quella indole tua Jlppio figliuolo : sii nel genio del governo un ottimate, non un tiranno. Fuggi quelli, che adulando, ti parlano, quelli pe' quali, se’ lungi dalle utili istituzioni, errante dal diritto sentiero, già’ wotr È rzRtstitiLE, CHS AtTSt SIA DI SSL HVOrO SXWDUTO BDOIfO, DA CHI già’ FSSSIXO lo RStfDk. Xiy. Quante volte dir ti volli tali cose da solo a solo j per instruirviti dove le ignoravi, o per ammonirtene, dove vi mancavi! Nè già venni, per ciò sola una volta in tua casa, ma i servi tuoi,me ne rimandarono, e con dire, che non avevi tu ozio da inti'attenerd con un tuo congiunto ; ma clu: avevi a fare cose più necessarie ; seppur v è cosa più necessaria della pietà verso i suoi. Forse, i tuoi servi, ciò conoscendo y mi vietarono di per sé stessi t entrata, e non per tuo comando. E ben io vorrei, che così fosse. Certamente questo mi ridusse a parlarti di ciò. che io volea nel Senato, non avendolo mai potuto da solo a solo. Ma .le buone, e le utili cose dovunque, 0 rippùj y son da dire tra gli uomini, piuttosto che 'JaG sempre tacerle. E che io a le rendessi gli ojfizj dovuti alla nostra prosapia ; ne attesto gl' Iddj de' quali noi dell’ Appio sangue veneriamo i templi e gli altari con sagrifiej comuni: ne attesto i genj degli antenati, a’ quali porgiamo del paro gli onori secondi, e li ringraziamenti, dopo de’ numi : e soprattiMo attesto questa terra, la qual tiene nelle sue viscere il padre, ed il fratello mio, che io dedicava a te la vita e la voce per sit^erire il tuo meglio. Pertanto desideroso di rettificare, per quanto io posso, gli sbagli tuoi ti prego a non rimediare male con male } à non perdere le cose tue mentre aspiri ad altre pià gratuli ; e finalmente a non dominare agli eguali e a maggiori, ed essere dominato da' pià vili, c più tristi. Se noti che, volendoti io ra^nar di più cose e più a lungo, non so ridurmici : perocché se Dio ti rivuole a buon senno; sóprawanzano le cose anzidetle: ma seti abhandona al tuo peggio, sarebbero indarno, quante io ne aggiungessi. Eccovi, o padri coscritti, e capi tutti di Poma, il mio sentimento per dar fine alla guerra, ed ordine alla repubblica perturbata.' Se altri tien cose migliori a ridirne ; vincano pure te ottime. Cosi disse Claudio ; assai speranzandosene i paIri, che i Dieci deporrebbero il loro magistrato. Non replicava Appio nulla in contrario ; quando fattosi innanzi Marco Cornelio altro Decemviro disse : Non abbisognano, o Claudio, i tuoi consìgli: su Futile nostro provvederemo noi da noi stessi; perocché tale appunto ò' la nostra olà, da non disconoscere ciò che ne giova, nè scarsi siamo di (uaici, età consultar nel bisogno. Pertanto dispensati da opera intempestiva ; non dare o gran veccJào consigli, ove non se ne richiedono. Che se vuoi di cosa alcuna ammonire t o pià propriamente, inveire su di Appio ; inveisci a tua voglia y ma quando se’ fuor di Senato. Quivi entro però di ciò, che ten pare su la guerra t co’ Sabini, e con gli Equi, circa la quale se’ chiesto del parer tuo ; e cessa da vaniloqui fuori di argomento. Sorse a lai voci Claudio nuovamente tutto mesto, e pieno gli occhi di lagrime, e disse: Appio o padri, Appio, presenti voi, non reputa me, lo suo zio, degno nemmeno di risposta. Egli precludemi, quanto è da esso, il Senato, come già la sua casa. Anzi levami, a dirlo più veramente, dalla città ; perocché non io potrei rimirarvi di buon occhio un indegno degli antentUi, un emulatore de' tiranni. Io dunque raccolti i miei, e le mie cose, vammene tra i Sabini, per abitarvi la città di Jiegillo, dond’ è la oiigine mia, e tenermivi finché questi trionfano nel sì bel magistrato, ma quando ( nè dee molto tardare ) fta di questo decemvirato, ciocché ne antivedo ; allora tra voi mi renderò. Ma ciò basà su me. Quanto alla guerra, e sue cose, consigliavi o padri, che non diate sentenza niuna, finché i nuovi magistrati non si abbiano. Cosi dicendo, e svegliando grandi ap> plausi nel Senato pel maschio e libero suo spirito; sedette. E qi)i rizzandosi in piede Lucio Quinzio Cincinnato, Tito Quinzio Capitolino, Lucio Lucrezio, e lutti i primari 1 senatori, seguirono il parere di Claudio. Comarbatine i coilegbi di Appio; risolverono di non più chiamare, a dir la sua mente, niodo io vista degli anni, e dell’autorità sua nel consigliare; ma solo in vista delia intrinsichezza, e dell’ aderenza con esso loro. E qui procedendo in mezzo, Marco Cornelio fe’ sorgere Lucio, Cornelio il fratello suo, uomo operoso nè infacondo nella ragione politica, e già compagno di consolato a Quinto Fabio Vibulano, mentre Fabio era. • console per -la terza volta. Ora costui sorto disse: Egli r è mirabile, o padri, che uomini di tatua età quanta ne kan quelli li quali hanno prima opinato, e li quali cercano primeggiar nel SeiuUo, portino per gare politiche, un odio implacabile ai capi dello stato, quando dovrebbero, quanto è d'uopo difenderli, animare i giovani a combattere intrepidi per la buona causa, e tener per amici, non, per nimici i sostenitori del pubblico bene. Ma mollo pià mirabile egli è, che trasferiscano là malvolenza privata alle atse della repubblica, e vogliano anzi perir co’ nemici, che con tutti gli amici salvarsi. Eccesso di furore, e direi accecamento divino egli è questo; eppure cosi li capi si comportano del nostro Senato. Sdegnati questi che nel concoirere al decemvirato, che ora accusano, furon vinti da altri che apparvcr pià idonei, fan loro eterna, irreconciliabile guerra: e sì stolida, e sì furiosa ; da ìovesciare da capo a fondo la pàtria, per calunniare presso voi li Decemviri. Vedon essi la nostra regione in preda a nemici : vedono che ornai giungono a Roma, giacché breve è lo spazio che ne li separa ; ed in luogo di esortare, e d’incitare i giovani a combattere per la patria, e di soccorrerla essi stessi con tutta la diligenza, e l’ ordorè, quanto la età loro ne ammette ; vogliono che ora voi provvediate ad ordinare il governo, a creare nuovi magistrati, e far tutto piuttosto-, che conquidere gC inimici : nè san vedere che danno sentenze, anzi che tengono desiderj impossibili. XVII. E certo, fate cosi ragione : il Senato emani il decreto de' comizj : i Decemviri lo riferiscano al popolo, destinando il giorno del terzo mercato dal giorno presente ) perocché -, e come staà mai valido ciocché si vota dal popolo j se non compiasi a norma delle leggi ? Poi quando abbiano le tribà dato il voto, prendano i nuovi magistrati la repubblica, e propongano a voi la guerra perchè ne discutiate. Se in tempo sì grande, quanto ve n ha da ora ai comizj, si avanzino intanto i nemici, e vengano fino alle mura; noi che faremo, o Claudio? Diremo loro: atpettate per Dio, finché ci avrem fatti nuovi magi a straM ? Certo Claudio suggerìvaci a non decretare, a nè riferire mai cosa al popolo, nè scriver le leve, a se prima non siasi deciso come vogliamo su' magia strati. Itene dunque, e quando udirete creati ì cona soli, creati i magistrati, e tutto pronto per le armi a tornate allora per trattare con noi della pace ; giacB cbè voi senza essere offesi da nei d avete i primi a oltraggiato ; e d ricompenserete, secondo la giusti a zia, in danaro i danni delle vostre incursioni : non a però vi conteremo le stragi degli agricoltori, non le a inginrie, e le insolenze sperimentate da femmine in M guuc, nè altro male insanabile . Ed essi li nemici a tal nostro invito useranno moderazione, e lasciato che la repubblica crei li nuovi maestrali, e faccia gli apparecchi di guerra ; tomeran poi portando ùi luogo delle armi, suppliche per la pace ; ed arren dendo a voi sè medesimi. Xyni. O pur stolti coloro d quali van pel pensiero tali delirj ! e milènsi noi se non ci corucciamo con quei che li propongono: anzi sosteniamo di udirli, quasi consultino su nemici, non su la patria e su noi! Che non leviamo di mezzo i cianciatori sì fatti? che non decretiamo sul punto, che marcisi a difendere il territorio, il quale ci si devasta ? che non armiamo quanti vi sono idonei de cittadini ? anzi, che non portiamo le armi contro le città loro ; ma ce ne stiamo qui a bada, ed accusando i Decemviri, ideando nuovi magistrati, e discutendo forme di governo, lasciamo quant' è nelle nostre campagne, come nella pace, esposto al nemico ? Che sì ; che infine, se permetteremo che la guerra giunga alle mura, corriamo noi rischio di essere schiavi, e che ne sia lì orna stessa distrutta. Non sono queste, o padri coscritti, le maniere di uomini sani, non le maniere di una social provvidenza, la quale antepone al ben pubblico gli odj privati ; ma le maniere piuttosto tli una contenzione intempestiva, di un disamar sconsigliato, di una invidia sciaurata, la qual non lascia esser savio chi ne vieti preso. Tacciano per Dio le controversie ; che tenterò di esporre ciò che avete a decretare salutevole per la patria, ed espediente per 1 101, come terribile pe’ nemici. Stabilite ora la guerra co Sabini f e cogli Equi : arrolate diligentissinù e prontissimi le milizie da guidare contro ambedue : e quando la guerra abbia avuto buon, termine, quando siansi in città ricondotte le milizie ^ quando sia già rinata la pace ; allora volgetevi ad ordinare il governo, allora chiedete conto dai dieci delle operazipni loro nel mostrato, allora createvi nuovi magistrati, fondatevi nuovi tribunali ; e quando da voi dipendono queste cariche onoratene i personaggi che ne son degni ; avvertendo, che pud tboppo non seb FONO I TEMPI Alts COSE MA LE COSE AI TEMPI. Spiegatosi Cornelio in questa sentenza vi aderirono, toltine pochi, anche gli altri che dopo lui ragionarono, altri perchè la stimavano necessaria, come -convcnien' lissima a' fatti presenti, ed altri perchè piegavansi e blandivano i Dieci per timore delia loro autorità, la quale avea costernato non picciofa parte de’ padri. XIX. 'Alfine essendosi opinato dalla più parte, e cora parendo quelli che volcano la guerra superiori di numero agli altri ; invitaron tra gli ultimi a dire Lucio Valerio, quello che volea fin da principio proporre la sentenza sua, ma se fu ritardato, come già scrissi. Or costui sorgendo tenne questo ragionamento : Fedele, o padri j C inganno dei Dieci] Non permisero questi che a voi favellassi, com' io volea, nel principio, ed ora tra gli ultimi mel permettono ! quando pendano che io punto non giovi la repubblica, sebbene io segua il partito di Claudio, perchè ben pochi vi si appigliarono. Che se io mi dichiaro per altro consigilo, sia quanto si vuole bonissimo, ne sarò vanissimo difensore ove io contraddica gli espósti da loro. Annoverar si possono facilmente quei che dopo me sorgeranno per dire : e quando pure consentano tutti con me, che può mai risultarmene, non facendo essi nemmen picciola parte rimpetto ai fautori di Cornelio ? Ma sebbene io ciò veda ; pur non dubito dire il mio sentimento: a voi si spetta, quando udito lo avrete, di volgervi al meglio. Quanto al Decemvirato, e le cure sue del ben pubblico^ concepite che io ven dica le cose tutte, che il prestantissimo Claudio ven diceva : e che debbesi far nuovi magistrati prima che votisi per la guerra, giacché pur questo chiedea con purissimo 'fine quel valentuomo. Tentò Cornelio mostrarvi impossibili i cos/.ui su^erimenli, pretestando il gran tempo che abbisognavi per le civili r forme, quando la guerra ne ò sopra. Egli mise in burla, cose niente burlevoli, e con ciò commosse, ed ebbe molti di voi: ma io, fofò vedervi, che non è impossibile, no, la sentenza di Claudio ; come niuno di quanti la derisero osò dirla nocevole : e vi mostrerò come salvisi il territorio,' e puniscasi chi temerario danneggialo : come ristabiliscasi intanto il comando, che era qui degli ottimati; e come tutto si compia, cooperandovi i cittadini, senza che niuno tenti il contrario. Nè sarà già questa una mia saviezza ; ma io non vi addurrò se non gli esempli di cose operate da voi; imperocché qual luogo hanno tnai gli argomenti dove la sperienza stessa ne ammaestra su ciò che giova ? Fi ricorda che i popbli stessi che ora le manti a/w, spedirono ancora milizie in un tempo stesso, già è r mino nono o decimo^ su le terre nostre e de^ gli alleati, sotto i consoli Cajo Nauzio, e Lucio A/i maio F Foi mandando allora molta florida gioventà contro i due popoli ; f uno de' consoli ridotto a triocerarsi in luoghi disastrosi, non potè far nulla, anzi videsi assediato nel >suo campo medesimo, e, sul rischio di esservi preso per la penuria de' viveri. Nauzio poi contrapposto a' Sabini, impegnato da battaglie continue, non potea nemmeno accorrere verso i suoi che pericolavano : non ignoravasi che se periva V esercito contro degli Equi, non avrebbe nemmeno potuto resistere V altro contro de’ Sabini, riunendosi insieme i nemici. E fra tanti pericoli intorno della città, mentre nemmen ci avea nelC interno suo la concordia, qual rimedio voi ritrovaste ? Congregativi su la mezza notte in Senato ( lo. che giovò sicuramente ogni cosa, e dirizzò la patria che rovinava ornai miseramente ), creaste un magistrato solo, arbitro della guerra e della pace, sospendendo tutti gli altri ; e prima che fosse giorno, ebbesi un dittatore neir ottimo Lucio Quinzio, sebbene si trovasse allora non in città, ma in campagna. Foi ben sapete le imprese operate dipoi dal valentuomo, come apprestò forze idonee, liberò V armata che pericolava, e punì gV inimici, pigliandone fino il duce prigioniero. E fatto ciò con soli quattordici giorni, e riparlato quan^ altro pur v era di male nella repubblica, depose il comando. Così niente impedì, volendolo voi che si creasse il imovo magistrato, solamente in un giorno ; e così dovete > credo, imitarne V esempio, e scegliere, poiché altro non potete, un dittatore, prima che di quivi usciate. Se trapassiam questo tempo, i Dièci non pià vi aduneranno per consultazione alcuna. E perchè sia il dittatore nominato legittimamente eleggete un interré nel pià idoneo de cittadini; come solcasi fare quando i re mancavano, o li con. soli, nò si aveano affatto, come ora non le avete, legittime autorità. Spirato che fosse per questi il tempo del comarulo ; la le^e a sé ne richiamava i poteri. Or questo o padri, che è sì fattibile ed utile, è ciò che vi eswlo di fare. La opinion di Cornelio porta la dissoluzion manifesta del comando degli ottimati ; imperocché se i Dieci divengano una volta padroni delle arme per tale occasione di guerra ; temo che. valercnisene contro di noi. (^uei che non voglion deporre i fasci, depotranno essi mai le armi f Considerate ciò : "'guardatevi da tali uomini ; provvedete contro tutti gC inganni ; poiché vai meglio provveder che pentirsi; cotne é cosa pià savia discredere gli empj ; che, credutili, accusarli. Piacque il dir di Valerio ai più come potè rilevarsi dalle voci loro e da quelli che sorsero dopo di lui ; perciocché doveano opinare ancora i giovani, e questi, eccetto pochi, lenean per bonissitno,quel consiglio. Cosi quando tutti ebbero opinato, e le deliberazioni aver dovevano un termine ; Valerio chiese che i decemviri proponessero la ritrattazion dei pareri, c che di nnovo s invitassero a dire tutti i senatori ; c persuase ciò fàcilmente, volendo molti di loro cangiar eli partito. Cornelio che avea consigliato che si desse a decemviri il tornando deHa guerra, opponeasi potentissimamente; dicendo esser questo un affare già discusso, e portato giurìdicamente al suo fine col voto di tutti : pertanto si annoverassero i voti nè cosa ninna si rìnovasse. Alternavansi tali detti ostinatamente a gran voce da ambe le parti, essendone scisso il Senato; perocché tutti quelli che voleano riformato il disordiu civile, favorivan Valerio ; ma peroravano per Cornelio quanti preferivano il peggio, e temeano de’ perìcoli da un cambiamento. I decemviri presa occasione di fare a lor modo per la turbolenza del Senato, si -attennero al parer di Cornelio. Ed Appio, quell’ uno di essi, re. catosi in mezzo disse : JVoi v abbiamo qua convocati o padri perchè deliberaste su la guerra cogli Equi e co’ Sabini, e per questo abbiam /alto che interloquissero quanti il volevano ^ chiamando voi tutti dal primo aia ultimo, ciascuno ordinatamente, al suo tempo. I tre uomini • Claudio, Cornelio, e Valerio in fine, ne diedero tre pareri ; e voi tutti, quanti altri qui restavate, li ponderaste : e ciascuno, udendolo tutti, espose il partito al qual si appigliava Tutto fu a norma delie leggi : ed essendo ai pià di voi parato che Cornelio abbia presentata la sentenza mi^ gliore ; dichiariamo che questa prepondefa ; e scritta Ut pubblicfdamo. f^alerio e ti' suoi partitoni, annullino se vogliono, ma quando sian consoli, i giudizj già finiti : ed invalidino le sentenze già firmale da tutti. E' cosi dicendo, c comandando che io scriba legesse 3 decreto del Senato, col quale ordinava che i dieci làcesser la leva delle milizie, e ammiuistrasser la guerra ; sciolse 1’ adunanza. Quei della panie decemvirale ne andavano dopo ciò superbi e gonfi, come vincitori, e come riusciti con esser gli arbitri delie arme, nell’ intento, che non si abolisse il loro comando. Per contrario quelli che aveano voluto il bene della repubblica suvansi timidi e mesti; come se non più ne sarebbero gli arbitri in maneggio ninno. Dond’ è che si divisero con risoluzioni diverse ; riducendosi i meno ' generosi per indcde a concedere tutto ai vincitori, e consociarvisi ; laddove i men paventosi teneansi in placida vita lontani dalie pubbliche cure ; e li più eccelsi di spìrito faceansi ua seguito proprio, intenti a difènder sestessi, e trasmutare il governo. Capi di queste unioni erano Lucio Valerio e Marco Orazio, que’ dessi appunto che intrepidi, proposero i primi al Senato di ritogliersi al decemvirato : e questi custodivano la propria casa colle armi, e sestessi con valida guardia di 'clienti e .di servi per non patir violenza, e non mostrar di temerla insidiosa o palese. Quelli che non voleano in Roma part^giar coi più forti, nè brigarvisi in cure pubbliche, nè giudicavano intanto ben fatto di starvi in ozio indolente ; ne uscivano,. parendo loro cosa non facile di vincere i dieci colle arme, anzi impossibile di abbatterne la grande potenza ; ed era lor condottiero 1’ insignissimo uomo Ca)o Claudio, lo zio di Appio Clandio capo decemviro^ il quale adempiva le promesse fatte in Senato al figlio del fratello quando stimolavalo a deporre 3 comando. xr., 337 ne T Io indusse . Lui seguivano torbe di amici e clienti; ma, datovi da esso il principio, abbandonarono la patria ancor altri colle mogli e co’ Ggli, non già di nascosto ed in pochi; ma a moltitudini ed in pubblico. Altronde i compagni di Appio indispettiti del fatto si misero ad impedirlo, cbiudendo le porte, e ritraendone alquanti de’ profughi. Ma poi venuti in paura, che gli impediti si rivolgessero alla forza, e considerando più rettamente come era meglio che uscissero che rimanessero, nemici loro, a conturbarli; spalancarono le porte, e lasciarono andarne quanti mai vollero; incolpatili però come disertori, ne invasero le case, i poderi, ed ogni cosa non potata portar via per l’esilio, apparentemente a conto del fisco, ma in sostanza beneficandone i loro fautori, quasi comperata l’avessero. Or tali imputazioni date a’ primarj esasperarono più ancora i patrizj e i plebei contro ai decemviri. Nondimeno se qiiesti non aggiungevano novi errori ai già detti; parmi che avrebbero tenuto ancora lungo tempo il comando. Imperocché stavasi ancora in città la sedizione, mallevadrice del poter loro, cresciuta da tanto tempo, e per tante cagioni : le quali facevano esultare a vicenda gli uni pei mali degli altri ; li plebei perchè vedevano, mancato il cuor ne’ patrizj, e nel Senato ogni arbitrio su la repubblica; e li patrizj, perchè vedevano il popolo ridotto in tutto senza libertà e senza forze, fin d’ allora che i dieci gli tolsero l’autorità de’ tribuni. Ma perciocché tali decemviri nè moderali in campo, nè prudenti ìu Roma, Vedi S i5 di questo libro. 4 v ptONlGl > ITI’, la iasistevaDO con assai durezza centra l'uno e Tallro par ti(o, lo astrinsero infine a riunirsi, e deporli colle arme stesse, avute per la guerra. Tali poi furono gli ulllmi delitti pe’ quali svergognato il popolo, ne infuriò. Dopo che ebbero stabilito .in Senato il de creio per la guerra ; descrissero in fretta le milizie, e divisele in tre parti, ne serbarono due legioni per guar dia deir interno della città. Piesedeva a queste due Ap pio Claudio il capo decemviro insieme uon^ Spurio Op pio. Intanto Quinto Fabio, Quinto Poeteiio e Manio Rabuleio nè andarono con tre legiodi contro de' Sabini: partirono con altre cinque per la guerra .contro degli Equi Marco Cornelio, Lucio Minucio, Marco Sergio, Tito Antonio, e Cesone Duvilio finalmente. Militarono con essi le truppe latine, e di altri alleati, non meno numerose delle romane. Ma con tantb milizie urbane, con tante ausiliarie, niente riuscì loro secondo il disegno. Imperocché li nem'tci spregiandoli come nuove re clute, si accamparono vicinissimi a loro; e ne invadevano i viveri che erano ad èssi portati, insidiando le strade, e gli assalivano mentre uscivano ai pascoli. E se mai venivano ordinati alle mani, cavalieri con cavalieri, e fanti con fami; riuscivano da per tutto vincitori i nemici ; perocché non pochi Romani mandavano alla peggio ogni cosa, indocili al capitano, come restii per combattere. Quelli che erano tra’ Sabini, renduti sav) da mali minori, deliberarono da seslessi di abbandonare il campo: e levandosene circa la mezza notte ripassarono con una ritirata, simile ad una fuga, dal territorio nemico nel proprio; fino a Crustumero, città nou lontana Digitized by Google tiBno jfi. 339 da Roma. Gli altri che. teneano il campo nell’ Algido della regione degli Equi, ne riceverono ancor essi non poebe^ percosse. Ma ostinandosi incontro a’ pericoli, quasi a riaversi' dalie perdite, incorsero in danni lagrimevoli. Imperocché spintisi i nemici su loro, cacciarono quelli che erano in guardia degli steccati; e salite le trincee, occuparono il campo, e vi uccisero i pochi che resistevano, uccidendone anche più nell’ inseguirli. Quelli che scamparono colla fhga, feriti in gran parte, e quasi tutti privi di arme, ripararonsi al Tuscolo. Del resto tende, giumenti, danari, schiavi e tutti gli altri apparecchi furono preda ai nemici. Saputasene in Roipa la nuova i nemici del decemvirato, quelli ancora che ne occultavano 1 odio, si dichiararono, esultando su la rea condotta de’ capitani. E già grande era Ja moltitudine presso di Orazio e di Valerio, capi, come fu detto, de' crocchi aristocratici. XXIV. Appio e Spurio somministrarono a quelli che comandavano in campo arme, danari, grano, ed ogni bisogno, pigliandone superbissimamente da’ privati e dai pubblico: e reclutando dalle tribù tutti gl’idonei a combattere ; gl’' inviarono loro in supplemento de’ morti, e delle schiere. Invigilarono diligentissimi su Roma, presidiandovi i luoghi più acconci; talché il seguito di Valerio non fosse occulto nel sommoversi. Commisero per vie sécretissime ai capi dell’esercito di sterminare i loro contrari, in occulto se riguardevoli, ma palesemente se ignobili, sempre però con qualche pretesta, perchè paressero giustamente levati. Altri mandati da essi a foraggiare, altri a proteggere i trasporti de’ viveri ; ed altri ad altre belliche incombenEe lisciti dagli alloggiamenti, non furono mai più vedùti in alcun luogo. Ma li più ignobili accusati _ di aver dato princi'pio alla fuga, o portato secreto notizie ài nemico, o non mantenuto r ordine, erano in pubblico trucidati per ispavento comune. Così le milizie erano in due modi disfatte : le fautrici del -decemvirato pe’ cimenti col nemico, e pei capitani le altre che ridesideravano jl governo degli ottimati. Appio co’ suoi commetteva in città delitti consimili e non pochi : la plebe tenne picciolo conto di alcuni estinti quantunque fossero molti di numel-o : ma la morte barbara, ingiusta di uno de’ plebei più cospicui, celeberrimo per le belle virtù sue nel combattere, operata nell’ accampamento ov’ erano i tre capitani, decise quanti vi erano alla ribellione. Sicciu fu I’ ucciso, quegli che avea combattuto le cento v^nti battaglie, raccogliendone sempre' il premio de’ prodi, quegli che disobbligato già per gli anni dal > guerreggiàre, si diè spontaneo per 'la guerra,con gli Equi menandovi per r amor che gli avcano, altri ottocento, già liberi ancor essi a norma delle leggi da’ servigj militari : quegli che spedito dall’ uno de’ consoli contro le. trincee nemiche a rovina come parea manifesta; pur le invase, e preparò pienissima la vittoria pe’ consoli. Or quest’ uomo, cercando Appio co’ suoi di levarsel d’intorno, perchè avea molto parlato in città contro i duci del campo come codardi e imperiti io trassero a discorsi amichevoli, lo invitarono a deliberare con essi intorno le cose del campo, e dire come fossero da emendare gli errori de’ capitani i e Io indussero infine ad andare in forma di legato all’ armata di Crustumero. È tra’ Romani il legalo onoratissima e santa rappresentanza, con l’ autorità de’ comandanti, e con la riverenza e la inviolabilità de’ sacerdoti. Lo accolsero al giunger suo con benevolenza i duci, e lo stimolarono affinchè stesse e comandasse con essi ; anticipandogli de’ doni, e promettendogliene ancora. L’uom d'arme, tutto ingenuo in seslesso, deluso dai scellerati, come lui che non capiva i presti gj delle parole, e quanto erano ingannevoli ; suggerì loro le cose che utili riputava, e soprattutto che trasferissero il campo dal territorio proprio a quello de’ nemici ; additando i mali che ivi soffrivano, c rilevando i beni che da tale passaggio nascerebbero. Fingeano que’duci udirne con diletto gli ammpnimenti : Adunque che non ti. fai tu duce, gli dissero, di questo transito, preeleggendone il sito opportuno, tu si perito do' f ioghi por le tante tufi spedizioni ? Noi ti daremo schiera eletta di uomini, espediti per armamento leggiero. Avrai tu cavallo come alT età tua si com’iene, ed armatura degita. dei tuoi pari. Tenne Siccio l’invito, e chiese cento uomini scelti. Quegli, essendo ancor notte, spediscono lui senza indugio, c con lui cento i più baldanzosi de’ loto fautori, istrutti, e mossi ad ucciderlo con lusinga ahiplissima di ricompense. Or questi giunti, ornai ben, lungi dal campo, in luogo montuoso, angusto, e difficile di ascenderlo a cavallo, se non di passo, ordinaronsi, datone il segno, in maniera da serrarsi in folla su lui. Un tale, sostenitore e servo di Siccio, valoroso tra le 34 a, arme, indovinando il cor loro, diedene cenho al padrone. Il quale vedutosi in tanto disagio di sito da noa potervi nemmen slanciar con forza il cavallo', ne salta, e postosi coir unico sostenitore suo in una balza per non esservi circondato, aspetta che ve lo assalgano. Or tutti ( ed erano molti ) assalendovelo ; ne uccide intorno a quindici, feritone il doppio : e parca, se lo assaliva da presso, che avrebbe, combattendo, straziato ancor gli altri. Ma questi, conceputolo per invincibile, e come non era dà prenderlo a corpo a corpo ; non vennero in tal modo alle mani: ma tenendosi lontani da lui; lo fulminarono con dardi, sassi, e legni. Ed altri avanzandosi di fianco in &ul motttc, e riuscendogli a tergo, rotolavano dall’ alto macigni stragrandi : talché per la moltitudine de’ dardi lanciatigli conira, e per la enormità de’ sassi che cade.mu romorosi dall’ alto, lo oppressero in 'fine: e questo fu il termine incontrato da Siccio. Tornaitono gli uccisori co’ feriti nel campo, e vi pubblicarono che una insidia ióiprovvisa di nenrici avea spento Siccio, e gli altri, che assalirono i primi, e che essi he erano a stento scampati, ricevutine molle ferite. Pareano questi dir vero ; non però si giaeque occulta la loro per6dia : ma sebbene avvenisse 1’ eccidio in luoghi deserti e senza testiinonj ; i fati stessi e la giustìzia che invigila le cose umane, lo diedero a conoscere per segni indubitati -. Imperocché quei del campo riputando 1’ uom forte degno di pubblica sepol A quella icotenza somiglia quella lauto vera di Arioslo can. 6 e tanto poco tenuta in peotieio dagli nomini. tara. e di onori distinti rispetto degli altri, per più cause, e' principalmente pel carattere suo di legato, e per cbè libero già da’ servigj militari, eravisi cimentata di nuovo per util comune; decisero di unirsi dal complesso di tre legioni e di uscjre cosi per investigarne il cadavere, onde riportarselo con pieno decoro e sicurezza. Concederono questo i capitani per non dare sospetto alcuno delle insidie : e prese le arme uscirono intenti all’^opcra bella e degna. Giunti al sito e vistovi non selve, non valli, non luoghi consueti per le insidie, ma una balta tuttar nuda ed aperta,.ed angusta a passarla; sospettaron bentosto ciocch’era. Avvicinatisi quindi ai cadaveri % mirato Siccio e gli altri derelitti, ma senza essere spqgliati; si meravigliarono che-i nemici, vincendo, non avessero levate loro non le vesti, nè le anni. E specolando ihtoroo ogni cosa, nè trovando vcstigia di cavalli o di uomini se non le impresse nel sentiero; tennero per impossibile che i nemici fossero su loro venuti improvvisi, quasi uccelli., o uomini discesi dal cielo. Ma, più che questi e simili indi^, il non trovarsi ivi cadaveri, di avversar) fu. loro argomento evidentissimo, che gli amici ne erano stati gii uccisori e non i nemici. Imperocché non parea loro che Siccio, e quel Miscr chi maV oprando si confida, Che ngnor star debba il maleficio occulto ; Che quando ogn’ altro taccia intorno grida V aria e la terra ittetsa in che-d tepultq^ . E Dio fa spesso che 'I peccato guida Il peccator, poi cV alcun di gli ha indultoChe" si medesmo, seni' altrui richiesta JnavOedutamstnle mastifesla. ^44 nF.LT,E sosteuitore suo, e gli altri, che seco perìroofi, sarebbero morti inulti, specialmente se venuta si fosse, quanto si può, (la vicino alle mani. Rac(:olsero. ciò ancora dalle ferite : perocché Siccio, come quel suo, sostenitore, ne avea molte per colpi di sassi o di strali e di spade ; laddove gli uccisi da loro avean colpi di spade si, non di sassi, o di strali e di saette. Adunque .ne sorse indignazione, e claipore, e lutto. Alfine compianta la disgrazia ; raccolsero e portarono il cadavere ai campo : e là gridarono altamente contro de’ capuani, esigendo allora allora secondo la legge militare la morte degli uccisori ; o che sen fidasse almeno il giudizio ; e già molti erano pèr,farvisi accusatori. Ma conciossiaché non davano loro udienza, e nascondeano gli uccisori, e^ne differivano il giudizio, con dire che in Roma darebr bero a chi la volea la podestà di accusarli ; ben vtdesi che la trama era de’ (ùpitani. Adunque portarono (xm magnifica pompa Siccio al sepolcro, alzandogli una pira meravigliosa, e tributandogli secondo il loro potere altre primizie che la legge concede negli onori estremi dei valentuomini. Alienaronsi allora tutti dal decemvirato; e pensarono come liberarsene. Cosi l’ esercito presso Chistumero r Fideue era nimico a’ suoi capi per la morte di Siccio legato. L' esercito acc;impato nell’ Algido della regione degli Equi, e la molutudiiie in Roma crasi per tali cagioni esacerbata tutta con essi. Lucio Verginio un plebeo, non secondo a niuuo nella milizia, starasi capo di una centuria nelle cinque legioni, belligeranti con gli Equi. Avea costui per avventura una figlia vaghissima fra ratte le donzelle romane. Ella portava il nome del padre, ed avealasi pattuita in isposa Lucio Icilio, uomo tribunizio, qome 6glio di quell’ Icilio che primo fe’ stabilire, e primo assunse T autorità di tribuno. Appio Claudio il capo decemviro vista la verginella che leggeva in una scuola ( stavansi allora le scuole pe’ giovinetti intorno del Foro) bentosto ne fu preso dalla. bellezza ; anzi vinto dalla passione era così tòlto a sestes-^ so, che non potea non passare più volte intorno della scuola. Or non potendo torlasi sposa come già sacra ad altri, anzi perchè egli avea pur moglie, e perchè non istavagli bene donna plebea di lignaggio contro il suo grado e la legge scrìtta da lui nelle dodCci tavole ; su le prime tentò corrompere co’ danari la giovinetta. Egli mandava ad pra ad ora delle donne con doni e promesse maggiori' alle nudrici di essa, orfana già della madre ^ avea però comandate le donne che tentavano le nudrici a non dire chi fosse l’amante della fanciulla, ma solo eh’ egli erg un tale che potea, volendo, -beneficare e nuocere. Non potendo però^ guadagnarle, anzi vrt.duta la donzella guardata più che prima, si mise, caldissimo che ne era d’ amore, a camminare altra via con meno ancora di sénno. Fattosi chiamare Marco Claudio, r uno de’ suoi clienti, uomo ardito e pronto ad ogni servigio, gli additò la Gamma sua : e prescrit(t) Forse nipote’, perchfc dalla islitusione del tribonato all' anso prescote decorsero 45 aooi. Pertanto Lucio Icilio di cui qui ai ragiona o era nipote ni, Icilio Ruga, o coOTÌen dire che di molto eccedesse gli anni di Virginia destinatagli sposa ; seppure non voglia dirsi che Icilio Ruga generasse beo tardi quel figlio. > togli cioccliè volea che facesse, e dicesse ; lo spedi con allato uomini impudentissimi. Costui recatosi alla stuoia, vi tolse la vergine, b volea recarsela palesemente pel Ford. Impedito però dai clamori e dal grande oucorso, di recarsela dove avea stabilito; venne al magistrato. Sedessi allora nel tribunale Appio' solo, rendendo risposte e r&gioni a chi ne chiedeva. Or volendo colui dire, sòrsene rumore e sdegno tra circostanti, i quali tutti reclamavano, perché si aspettasse 6nchè venissero i parenti della fanciulla ; ed Appio ordinò che in tal modo appunto si facesse. Passato appena picciolo tempo; ecco presentarsi 'Publio Numitore nomo insigne tra i plebei, zio materno di lei, con, seguito di molti amici e parenti; e dopo non molto ecco giungere con numero poderoso di giovani plebei Lucio Icilio, quegli che per le promesse dèi padre aver dovea la donzella in isposa. E questi, tutto sospeso ed ansio nel respiro, avanzandosi al tribunale, addimandò chi osato avesse toccare la giovine' cittadina, g (die mai ne pretendesse. Fattosi intanto silenzio. Marco Claudio, quegli appunto che avessi preso la donzella, così ragion:^; O j^ppio Claudio, niente ho io fatto di temerario, niente di violento contro la fanciulla. Signore, come io tono di lei, secondo le leggi me la conduco. Or odi comi ella siasi la mia. Ho io una tal serva paterna che ministrami già da tempo lunghissimo. Or questa, familiare che ne era, usava di andare alla mo"liè di f^érginio; e la moglie di Ferginio persuase lei gravida a concederle, quando che fosse, il frutto del suo ventre. La donna, partoiita una figlia, ( ed era questa ) serlà le promesse ; e àiedela a Numitoria, con fingere presso noi che uscita fosse la di lei prole già morta. Numitorià tuttoché madre non fosse di fanciulli o fanciulle, la pigliò, la fé' sua, la nudrì, senza che io sapessi nel principio la vicenda.' Or la so per indizj di molti e buoni testimonj : io ho fatto t esame di quella serva, e ricorro alla legge comune per tutti ha quale vuole che sia la prole non di chi la impostura per sua, ma di chi 1’ ha gene rata ; e che libera sia se nata di libera, e serva, se nata di serva, de’ padroni stessi delle madri u. Su questa legge esigo di riportarmi la figlia della mia serva, pronto a subirne il giudizio: Che se alcuno la reclama per sua, dia certi mallevadori di riprodurla in giudizio : ma se anzi vuole chi^ ora qui sen tratti la causa io lo secondo, voglioso c^e si espedisca anzi che si procrastini, e che io mi assicuri con mallevadoii la vergine. Scelgano qual più vogliono di questi partiti. Claudio cosi disse aggiungendo vive preghiere di non essere considerato meno de’‘suoi competitori per amici, e torlasi a forza quando glie la ripresent'avano per la sentenza. E perchè 11 giudizio fosse con buona forma, sul pretesto che il padre di lèi non erasi presentato ; diè lettere a cavalieri fedelissimi, e li spedi nel campo ad Antonio, cdroandante della legione ov’ era Verglnio, con ordine che ritenesse quest’ uomo cautissima mente, talché udite le vicende della figlia, da fui non s’ involasse. Ma Io prejr vennero, attinenti che erano alla donzella, il figlio di Numitorio, cd il fratello d’ Icilio, spediti avanti, sul nascere appena della sommossa. Giovani pieni di coraggio fornirono prima il vaggio sferzando i cavalli ed abbaudonando loro le redini j e _ narrarono a Vergitiio l’evento. E Verginio, ^cimane ad ^Antonio la cagione vera, e fintogli di aver udita la morte di un suo pa rente di' cui doveasi fare il trasporto, e la sepoltura secondo la legge, ebbe il congedo. E presso 1' ora in cbe accendonii i lumi ; se ne andò con que’ giovini, ma per altra via, temendo, come avvenne, di essere inseguito da quei del campo e della città; perocché Antonio, ricevuta la lettera circa la prima vigilia, spedi contr esso una banda di cavalieri, mentre un’altra spe dita da Roma guardò per' tutta la notte la strada che vi conduceva dal campo. Ma non si tosto un tale ridisse ad Appio che Yerginio era l’unto contro la espettazione; egli, uscito di' senno, ne andò con gran seguilo al tribunale, e fece che a lui si chiamassero i congiunti della donzella. Venuti' questi, Claudio ripetè lo stesso discorso, e dimandò cbe Appio senza indugio decidesse l’affare; dicendo esser pronto chi lo esponeva, e chi lo attestava, fin la serva, madre vera della fanciulla. Simulava in tutti questi atti. che assai si sdegnerebbe, se esso per essere cliente di lui non ottenea come prima la giustizia egualmente che gli altri ; e dimandava che ajutasse chi dicea cose più vere, non chi più lamentevoli. Il padre della donzella e gli altri patenti escludcano la supposizione del parto con molti argomenti giusti e veri, per esempio che non ebbe cagion plausibile di farla la sorella di Numitorio c moglie di Verginio maritatasi vergine ad utl giovine la quale partorì tra non molto : appresso perchè sebbene voluto avesse iotradere in sua casa un 6glio altrui ; v’ avrebbe intruso non il figlio di, una donna schiava, ma quello di una ingenua, amica o parente sua, onde ritener fedelmente e stabilmente ciocché TÌce'’eaiée : ed arbitra in tutto di Scersela Come volea, scelta s’ avrebbe la prole non femipea, ma > vivile} imperocché la donna che partorisce, vinta dall' aderenza pe’ 6gli che partorisce, ama e nudre ciocché la ‘natura le porge: laddove, la donna che imposturasi un 6g)fO sei' cerca del > sesso migliore, non del più ignobile. Contro lui poi che dava .l’ indizio,'e .contro i molti tesu'monjedibili da Claudio come degni di fede. allegavano cagioni tratte dal verisimile : vuol dire che Numitoria non avrebbe operalo imai palesemente e presenti molti ingenui tekùmònj tur fatto che abbisognava di silenzio, e che -pbtea' fornirsi col ministero di un solo ; e c|ò perché la prole edncatà non fosse col tempo ritolta dai padroni delia madre. Agginngeano che la dilazione non picoiola' era segno evidente che il calunniatore non prolTeriva niente di vero: perocché colui che dié l’ indiziò 'della supposlzioue e gli altri che la cooteslano -l’avrebbero molto 'iuoansi svelata, non tenuta Segretissima per quindi^, anni. Frattanto redarguivano le pròve degli accusatori, come non vere 'né credibili, e chiedeano che si paragoudssero colle altre loro, nominando molte doqpe non ignobili le quali dicevano aver veduta Numitoria gravida cOn pienezza di utero. Olirà queste ne additavano altre che in fom del parentado venute pel parto o per la pimrpera aveano mirato k prole, ed iuasievano perché s’ iuViomci terrogassero. Era poi di siderando queste e simili cose, e fra lóro discorrendole, ne piangevano. Appjo altronde, come non cauto, per matura, e corrotto dalia grandezto del potere, invanito di sestcsso, e caldo ' di amore nelle viscere, non ohe attendere al parlare dei difensori, e commoversi alle lagrime della vergine, adiravasi per la compassione che di -lèi' Sentivano >i circostanti (Juasi di compassitme egli fosse più degno, e patisse mali più grandi, ridotto prigioniero dì quella bellezza. Da tali cause infuriato ardi fin di 'fare' impudenti discorsi (pe’ quali, coloro che già ne sospettavano,' foron -chiari, 'che sua era 1 impostura contro la donzella ) > e compiere infine la barbara c tirannica azione. Àncora parlavano, quando egli iuUqoò sUeniiio ; e. feoesi. jbtanlò la moilitudine che era nel Foro, ^ntenendo lo adegno si spinge innanzi per desiderio d’ intendere ciocché direbbe ; ed esso volgeo'. dosi qua c là per numerare col guardo i crocchi degli amici co quali avea p|:ima occupato il Foro cosi favellò: O Verginio j o voi qui presenti con, esso f fiqn io sento ora la prima voltd un tal fatto, ma lo sentii prima ancora di giutfgere a questo magistrato. Or udite ; Come ' lo sentàsL 11 padre di questo Marco Claudio ornai. spiratido la fitfl y pregavnmi die io prendessi la tutela del figlio lascialo da lui piccélo ; giqcchò essi fin. dagli antichi loro son . clienti della ìiostra famiglifc. Or mentre io rn era il tutore di esso udii della donzella e .come Numitoria sala suppone; prendendola dalla sert>à di Claudio: ed esaminatala; trovai che appupto cosi pava •' dettai c, giudico esser Claudio padrone della serva. Udito ciò, quanti ivi erano fiomlni iniegrì, sostenitori di que’ che dicevano il giusto, levarono le mani al cielo, con “"un grido misto d’ indignazione, e di pianto : per 1’ opposlto i partigiani de’ Decemviri, mandavano voci atte ' a confortarli ed animarli. Irritatasi però l’adubanza, e riempiuta di ogni guisa di afTetti, e discorri ; Appio intimo silenzio, e disse : O tutbolenti, o inutìii a tutto nella guerra e nella pace !• se non cessale di sonunover la' patria, e di controporvici ; farete alfin senno per forza. Non pensate, jche abbiamo noi messo un presidio nel Campidoglio, e nella fortezza soltanto contro i nemici di fuori, e che lascèremb poi fare quei iT entro, i quali sconciano ih Roma, ogni cosa. 'Prendete consiglio migliore ^ thè non avete o. voi tutti a quali non spetta C affare ; andatene per le cose vostre in buon ora. £ tu Claudio recati ria pel toro ' la donzella : non temere ; giacche i dodici miei Colle scuri ti saran guardia. A ul dire gli altri ululando, battendosi la froòte, nè potendo raffrenare le lagrime, partirono dal Foro; e Claudio succò via la donzella, che stringeva, che baciava il padre suo, e con voci affettuosissime lo invocava. Fra tanti mali, Yerginio si mise in pensiero un’ azione, amara, addolorevole ad un padre, ma degna di ud nomo liberò, -di un Uomo generoso. Egli intercedette di salutare ancora una volta la 6glia, e di parlare a lei le cose, che volea da solo a solo ; prima che dal Foro la involassero. Condiscesone dal capitano, e ritiratisene alquanto i satelliti, abbraccia la figlia che sviene, che abbandonasi ; e cosi la sostiene, richiamandola, baciandola', rasciugandola dalle lagnile, che la inondavano. Poi^ trattala seco un poco, non si tosto fu presso la officina di un niacellajo, rapiscene di su dal banco la coltella, ed immersela nelle viscere della figlia gridando: Figlia (i mando Ubera e casta ai nostri sotterra: per colpa del tìrarmo già ntm potevi tu viva serbare questi pregi.. SóHevatisi intanto de' clamóri ; tenendo in pugno il ferro insanguinato, egli stesso grondante del sangue, sebitaato su lui, nell’ uccidere della figlia, corse furibondo, peó la città, reclamandovi la libertà ; de cittadini. Passate a fona le porte, àìcese il cavallo, ebe tenessi per Ini' preparatp, e rivelò nel campo, riaccompagnatovi dà Icilio, e da' Knmitórlo, i giovanetti ebe ne 1 cavarono. Teneano loc' dietro anche altri plebei non pochi, Jn numero quasi di ^attro. cento. j ' ;Appio al caso della ^giovinetta,. levatosi da sedere, si slanciò cpme per inseguire Verginio, dicendo, e facendo cose non degne : ma eiroondandolo, e pressandolo gli, amici a non traviare, si ritirò, pieno di rabbia su tutti : quando ornai -presso della sua casa udì da taluni de' suoi fautori, che Icilio il .suocero, e Nut raitore lo zio, ridottici con altri amici, e congiunti intorno al cadavere, gridavano conteaIni an colpe no> te, e non note concitando tutti a rendersene liberi una volta. Colui spedì per la rabbia che ne' ebbe, alcuni de’ littori, -con ordine d’ imprigionare i maledici, e di levare dal Foro il cadavere; opera, insana in v?ro, sconvenientissima al tempo. Imperocché mentre doveacarezzar la moltitudine incollerita giusUmente, e-jóedere in principio al tempo, e poi rdifendersi, pregare, beneficare onde’ riconciliarsela ; egli 'corso Alla violenza, ridusse tutti. a disperarsi. Pertanto non permisero che gl’ inviati levassero la estinta, o' portassero alcuno nella carcere : ma gridando, ed animandosi gli uni gli altri ; cacciarono dai Foro coll’impeto, e oolle percosse i mi'nistri della violenza. Talché Appio, ciò udendo, fu costretto dì recarsi con molte partigiani e clienti nel F oro, e comandare 'che battessero, e sbandissero, chi v era, ne’ capi delle vie. Orazio e Valerio, duci come ho detto degli altri a riprendere la libeiné, sentito il disegno dell’ uscir di colpi, menarono' con sé molti bravi giovani, e si' misero dinanzi k estinta. E qpando ebbero più \icini {'compagni di ‘Appio, prima inveirono, (jnanto poterono, su loro cOn -clamori .ed ingiurie ; é quindi, pareggiando ai detti le opere, ferirono e rovesciaronoquanti osarono lanciarsi su lOro. Appio mal .sofferendo l’ostacolo impreveduto, nè trovando come trattare tali nomini \ risolvette di correre Una viaria più rOvinOk. Impéròccbè portatosi al tempio di Vulcano ; invitavi a parlamento la ' plebe, quasi' benevola ancora verso di esso: e prendevi ad accasare la inginslizia, t la dnsojenza di tali uomini, lusingandosi per l’ autorità sua .tribunizia, e per le vane speranze, ebe la moltitudine gli concedesse di precipitarli dalTa' rupe.. Afa i compagni di Valerio occupata l’altra parte del Forò, e postovi il cadavere della vergine visibilissimo a .tutti, ''convocarono un altra adu.'nahza; facendovi vivissime aCcusé di Appio e de’ suoi. Occorse, com’era vcrisimile’, che’aUÌt'andovene altri 'la riverenza per ^questi ' nomioi,, altri la commiserazioae vereo la dctazella soggiaciuta a vicènde dure,,e più, che dure per la sv>a bellezza infelice, ed, altri H. desiderio stesso della forma .precedente df governo, vi si rioni più gente che intorno di Appio : tanto che non rima-c seto presso questo 'se non pochi, appunto i partigianir ira'qtuli cc ne^avéa pur alèoni, che per molte cagìoivi mal più si acconcravano eoi Decemvirato,, contèntissimi di rivolgersi agli avversar), sé il partito loro si fortiGeasse. Appio vedendosi derelitto ^ -fo cpstretio i mutar COtasigHo,'e ' ritnrarsi dèi Fpro^cioecll&' moitissiUo gii giovò. Imperocché prèso a cólpi'dalia moltitadioe pagata le avrebbe le giustissime pene. Dopò .ciò Valerio . acquistata preponderanza, quanta 'ne volle, si sfogò perorando contro ai 'Decemvirato, e decise in favor suo perGno i dubbiosi. Molto. più' poi conjpccia'rono la moU titudiiie contro ai Dètèiòviri i parenti della vergine, recando -al Foro .il feretro, -e T altro lagubre apparato, maguiGco quanto potevano, è facendo ..la traslazione del cadavere per le .vie più illustri, di Roma, onde fóssevi più rimiralo; imperocché còrreabu fuori di casa matrone e donzelle per piangere la sciagura e qual d’esse gettava su la bava Gori^e ghirlande', e qual veli e. nastri . e fiV;gi pel capo di .una vergine, e quale, in Gne.te anella de’ Vecisi capelli : iiratlantor molti uomini •nobilita vano 'la liinèbre pómpa con' doni convenienti, presi grsìtnitamente’ o con pfeézró dalie prossime olBcIce. Tanto che divulgaiissima era per' la citrii la lagrimevole cerimònia, éd avea tulli acceso il desiderio di -spègnerti la' lirannlde. Ma qnei chè la difeudeano f isirntii che 1 ' ; ‘ ".jd ny erano di arme, davano grande spavento ; laddove Va^ lerio W SUOI non volea finire col sangue de’ duadim la disputa. ". Tale era in Roma la turbolenza. Intanto Verginio che avea^ come ho detto ^ itccisa di sua mano la figlia spronando.' a briglia sciolta il .cavallo i giunse agli alloggiamenti presse l' Algido su l’ imbruttir della sera, tutto lordo -di sangue, e. colla ooltelitt, in pugno, appunto. com’ era fuggito da Roma. Vedi^tolo, i soldati che stavansi a guardia innanzr del campo ^ non sapeano indovinare ciocché . avessè patito^ e lo accompagnarono per intenderne 1 alto.' e terribile caso. E colui tuttavia camminava piàngendo, e significando a quanti gli erano intorno di .seguitarlo. Uscivano fin di mezzo alJf cena da’ padiglioni, presso i quali passava, soldati Jn folla y con faci e làmpade, pieni di mestizia e tumulto, e fa cendogli corona^ lo accompagn#ano. Alfine giunto in un luogo spaziose del campo.,' e salita una eminenza ov’ essere da tutti veduto, nar^ò. le disavventure sue, dandone per testimou) quanti erano con esso, venati da Roma. E quando infine videne molti addolorati e piangenti-; fecesi allora a supplicarli e scongiurarli di non permettere che restassero,. egli invendicato, ^ concaicataria patria. E lui coti dicendo, ecco. in tuttigrande la voglia di. udirlo e viva 1. istigazione perchè parlasse. Adunque tamtx più animoso 'inveì su’ Decemviri, mostrando di quanti, aveano essi tolte le sostanze, di quanti flagellato il corpo, e quanti ne aveano ridotti senza colpa niuna a lasciare la patria ^ e numerando insieme le ingiurie verso le matrone, i ratti delle donzelle. nubili, i '.disoBoramenti de’ liberi > garzoncelli, e, le, tante altre ingiustizie e tirannidi. E così, disse, ci calpestano (Questi, senza che ne aibiano il poterti non dulia legge, non dal Senato, non dal popolo. Imperocché spirato è /’ anno dflla loro magistratura ; e spirato ; doveano in altre mani> trasmetterla'.' violentissimi però la ritengono ; spregiando in noi, quasi in femmine, la paura grande e' la codardia. Ognun • di voi qui ricordi quanti^ mali ha da loro sofferti, o veduto sofferirsi dagli e^i. Che se alcuni qui blanditi da essi mai con' piaceri o favori, non temete il Decemvirato, ne apprendete che eguali mali siano per., venire un giorno su voi, sappiate che non vi è fede pe tiranni, sitppicUe che non donano t' potenti per benevolenza, e sapendo queste e simili, cose, Uorreggetévene : ed unanimi tutti Iterate da tù'onni la patria, quella dove sono i templi de\ vostri Dii, dove le tombe dei vo.stri maggiori, ! quali voi riverite appresso gV Iddj, dove li veóchi genitori che .dimandano il premio dei travasi e delle tante cure per voi ^ dove le mogli, vostre legittime ^ dove le figlie nubili, alle quali deesi non tenue Id Vigilanza: dove infine \i vostri figli maschi, che aspettano da voi cose degne dèlia natura loro^ e de’ progenitóri. Taccia le vostre case, i vostri poderi, i vostri danari acquistati con tome fatiche dagli antenati e >da^ voi :, delle, quali cose tutte pià non pofrtle essere i certi, padroni 'finché i Dieci qui tiranneggianox ' .Già non è da savj,. non da valenùtompii cer care colla fortezza le cose altrui ^ nè curare poi che per viltà si rovinin. le proprie far co gli Equi ^ co’ Fblsci, co’ Sabini, a ' con tutti intorbo i vicini guerre diuturne indefesse per la indipendenza e pel principato, nè vbter poi nemmeno prendere le armi per la vostra sicurezza e la libertà cantra uomini illegittimi che fi comandano. Che nòn ripigliate lo spirito' delia patria ? Che non tornano in voi li sensi degni degli' antenati? cU quelli che per V oltra^ìo di una femmina solà profanata da un de •Tarquìnj ed ucàisasi da sestessa per le^ vergogna, 'tanto rie incollerirono e infierirono, e tanto comune tipqtaron la ingiuria'; che sbandirono di Roma non il solo Tqrquinio,maJ re-: nè piti soffersero^ die magistrato alciùfó vi comandasse in vita, e senza doverne far conto : di quelli che ne fecero altisiunto giuramento fitto con imprecazione su paetèri' se noi' compievano ? Of essi non avran sopportata la incuria di un sol giovinastro su di una libera donna' soltanto ; e voi vi state Comportando una tirannide di tante teste, •ehé’ scorre ad ogti ingiustizia e libidine ^ è scorrerawi anche pià se pià tra vói la tenete ? Non laebbi io sole una. figlia vaghissima, che jippìò-accirigevasi palesemente a violentare e lordare : le avete anche molti infra voi‘'rhogli o ; figlie e figli avvenenti: Or chi difhn'dele mai che ' ' alcuno de' Dièci nón fàccia loro come /dppio ? Vi raccertano forse gt Iddf che so lasciate impunita la insolenza ' a me fatta, no/i si avanzi questa fin su molti di voi; e che ^ nmor ti~ tannò, giunto alla mia figlia, ivi si 'rimanga e si plachi rispetto degli altri fanciulli e faiKÌiille? Quanto stolula, quanto atfena cosa è dire che mai tali idee si -effettuerànno ! Illimitate sono de' tiranni le passioni, perchè superiori alle leggi, e al^ timore. Su dunque fate le mie vendette, prepardte la sicurezza vostra, per non subire egual male, rompete o miseri una volta la^ cótena: riguardate ‘con intenti sguardi la libertà : ~E per qual altra occasione mai fremerete pià che per queéta; quando ne si tolgon le figlie prètestandooele per ischiave, e quando via ne si porlan le spose" co’ littori? E se'ora che siete tutti cinti di arme la trascurate la occasione e: quando mài \ quando il geniadi libertà ripiglierete? -, Ma iotaato cKe egli parlava molti gli promctteanò, gridando, la vendetta: e chiamati a nomr i dnci delle schiere gl’ invitaronó a por mano aff impresa ; molli ancora, se ne avéano riéeTuto alcun danno, faceansi coraggiosi innanzi, e lo rivelavano'. 'Udito ciò li cinque, capi come ho detto delle legioni, temendo che la moltitudine facesse qualche soròmossa ' Cóntro di essi corsero tutti 'al pretorio e vi consultarono con gli amici, se poteanO chetarne il tumulto cinti dalle arme de par ' tigiani. non si tosto intesero che i soldati eransi .tri tirati 'nelle tende, che caduto e cessato era il tumulto, senza sapere intanto che il piò de’cènturioni aveva congiuralo occultissimamente d’ insórgere e liberare la patria ; destinarono, appena fosse giorno, imprigionare Verginió che istigava la^ moltitudine, e raccolto l’ esercitò condurlo ed acc^parlo tra’ nemici,. e desolarvi H meglio elei lor lerritorj ; nè più' lasciare chè ognuno investigasse Curioso ciocché facevasi in Roma, ma tutti perocché, chiamato Vergioio ai pretorio, i ceatnriooi non permisero che v’ andasse pel sospetto che vi peri colasse: e scoperto com’era ne’ratpi 'il proposito di portare l’armata tra’ nemici. Io riprovavano, dicendo: Meramente ci avete prima comandato benissimo, perchè ora isperanzili vi seguitiamo f Duci voi di 'tanta milizia, quanta ninna ntai ne portò da Roma f e dagli alleati non sapeste nè vincere, nè danneggiare i nemiti. Voi dimostrandovici odi, imperiti, colf accamparci male, e col desolare, quasi asversarj, le terre nostre, ci rendes^ poveri, e bisognosi delle cose le quali noi conqOistayamo col prev/dere in bailaglia, quando i nostri capitani \ eran migliori che voi. Ora il nordico inalza contro noi li trofei i il nemico si. porta le cose nostre; saccheggiandoci tende ^ schiavi y ottm, danari.Verginio per la rabbia, e perché non più temea que’ capitani .inveiva più libero conti di essi, 'chiamandoli corruttori e distruttori delia patria, ed animando i centurioni a tor le insegne,, e ricondursi in Roma colle milizie. Molti non ardivano ancora movere le insegne, che sono inviolabili ; né riputavano cosa onesta e. sicura abbandonare i loro capitani ' e ^i comandanti ; perocché il giuramento militare, die i Romani avvalorano più che tutti,, (à che il soldato siegua i suoi comandanù, dovunque Io guidino : e la legge concede a questi di. uccidere, nemmen giudicandoli . gl’ indocili e li disertori. Verginio, vedendoli tenuti ancora da tal riverenza, mostrò ' loro che La le^e stessa avea sciolto quel giuramento : giacché dea ehi cómanda gli eserciti, esser scelto a norma delle leggi ; e r autorità de’ decemviri era tutt^ contro le leggi, trapassalo t anno per cui fu destinata ; far poi gli ordini di chi comanda contro le leggi non è ubbidienza, nè pietà, ma demenza e furore. Or ciò adendo, giudicarono udire il vero : e suscitatisi a vicenda ; e quasi dato lor cuore’ dagl’ Iddi!; tolser le insegne, e ne andarono.' In mezzo d’ indoli tanto varie, nè tutte conoscitrici del meglio, si rimasero, co’ decemviri, com’è verisimile, centurioni e soldati', minori però molto, non eguali di numero agli altri. Quelli clie partirono dal campo, viaggiando tutto il giorno, giunsero al far della sera in città, seuzaqhè alcuno ve li annunziasse ; nè poco la costernarono, credula cbe giugnesse il ne> mica. Adunque tutto tri divenne clamore, moto, disordine ; ' ma non sì a lungo, da nascerne òiale : perocché quelli passando pe’capi strada, vi gridavano che eran gli amici, e venivano in bene della pàtrio: e conformarono le Opere ai detti, non offendendovi alcuno. Recatisi ali' Aventino,' colle il piò acconcio entro Roma per accamparvisi, allogaronsi presso il tempio di Diana. Nel giorno seguente fortificato il campo, e destinati dieci tribuni miljtàri, de' quali era capo' Marco Oppio, sul comune, si tennero in calma. Dopo non molto giunsero in sussidio loro con molta milizia dal campo di Fidene i centuribni migliori delle tre' legioni, alienatisi da’ comandanti fin di allora che fecero trucidare, come ho detto, Siedo il legato ; .e timidi non pertanto di cominciare i primi la ribellione in vista . delle cinque legioni delK Algido, quasi fossero amiclie ai Decemviri. Ora però saputane la insurrezione; acceuarotjo di tatto buon grado il favor della sorte :> anche di queste milizie eran capi dieci tribuni eletti in mezzo alla marcia, ma Sesto Manlio ne era il più ragguardevole. Congiuatisi tutti, e deposte le arme, incaricarono i venti tribuni a poter. dire e fare quanto dovessi pel comune. .Elessero di questi venti come capi consiglieri i due più rispettabili,. Marco Oppio, e Sesto Manlio. E questi .formata un coùsigUo dei centurióni maneggiavano tutto,cpn,. essi. .Non essendo ancor c^arl al popolo i (prò disegni, Appio .consaperóle a ses tesso di essere la cagione di quella turbolenza, e de’ìUali che ne verrebbero, tenòvasi in casa, non 'ehe ardisse far pubblici atti. Sbigottì su le prime anche Spurio Oppio, costituito, come lui, su la città, quasi fossero ben tosto per assalirlo nemici, e fossato appunto per questo venutL Quando però vide che‘'uon fàceano innovazioni] rallentando le paure ^ convocò li Senatori nell.^ curia, intimatili ad uno ad ano per le case. E ' standovi questi ancora adunati: ecco giungere i cpmandanii dall’ armata di Fidane, irritati che la milizia avesse abbandonato T uno e.T altro' campo, -.ed. insistere col Senato perché ne prendesse degna vendetta. Ora dovendo ciascuno dare il sno voto su questo. Ludo Cornelio disse, porlqre il dovere,che tornussero i spillali 'ttcl giorno stesso daW Avenlitto lot' campi, ed eseguissero gli ordini des comandanti. Con ciò non sa'rebhero tenuti rei di quanto s' era fatto, so noti gli autori sali, della ribellione ; à qvudi imporrebbe la pena' il duce ^medesimo : ma se non ubbidwanq ; il Senato delibererebbe su loro,, camq su disertori dei posti, affidati ad essi da' capitani, e come su violatori del giuramento ipiUtare. Lucio .Valerio gli contrae riava .... Ma nè conviene che no facclaosi af&tto' parole delle leggi romane ehe troviamo nello dodici tavole, essendo tanto venerande e più insigni delia grecai legislazione ; nè conviene che sen facciano oltre il dovere, prolungando la storia delle leggi medesime. Tolto il decemvirato ebbero i primi ne’oomizj cenluriati la dignità consolare, dal popolò come ho ‘detto Lucio Valerio Potilo, -e Marco Orazio Barbato, uomini popolari per indole, come per educazione ereditari'. Fidi alla promessa che avcan fatta al popolo quando lo indussero a, deporre le armi, di maneggiare sempre il governò in suo bene ; stabilirono ne’ coraizj centuriati, mal grado i palrizj che vergognavansi di reclamarvi, oltre le leggi che non rileva qdi scrivere, anche quella coUa quale ordinavasi, che i decreti faixi dal popolo ne comizj per tribù valessero conìé i decreti emanati ne' comizj ceniuriati per ogni classe di cittadini ; sotto pena t in caso 'di convinzione, per chiunque^ abrogasse o trasgredisse questa legge, della Qdì miaca 1’ aliimo SYÌluppo de fatti co quali fa tolta la eppreaaione Decemvirale. -Perdita non ignobile ; traltSadoYiti di uno de graudi oambiameati di stato. dalla fondaiiooe di Aoma,3o6 secondo Catone^ Quest anuo è tralasciato nella cronologia di Varroue e però/ le dne cronologie differiscono dopo questo per un anno solo, non per due com^ per I addietro. morie e della confisca de'heni. Questa risoluzione levò le controversie tra’ plebei e tra' patrizj, i quali ricusavano di ubbidire ai d^eti latti dai primi, e riguardavano i decreti emanati ne’comizj per 'tribù come leggi singolari di 'esse non 'come universali di' Roma intera: laddove ciocché fosse stabilito ne’comizj per centurie lo riputavano ordinato a sestessi come a tutti i cittadini. Fu gié détto innanzi che ne’ comiz) per tribù li poveri e li plebei prevaleano su’ patrizj, come i patrizj/ quantunque assai minori di numero, prevalevano su’^plebei ne’ comizj per centurie. Stabilita da’ consoli questa legge con altre leggi, fautrici ’anch’ esse, 'come ho detto, del popolo ; ben tosto i tribuni credendo vénnto il tempo di vendicami di Appio e de’ colleghi di' esso, pensarono d’ intimar loro il giudizio >e chiam'arveli non tutti insieme perchè gli uni non giovassero gli altri ; ma l’ uno dopo l’altro, su la idea di convioceryeli più facilmente. Ora considerandu su chi prima incominciassero più a proposito, deliberarono mettere in istato di accusa Appio, il più esoso al pqpolo per le oppressioni, e per le indegnità recenti contrò la vergine. Parea (oro che assicuratisi ''di questo, disporrebbono' facilmente pur degli altri; laddove se cominoiassero dai men furti, parea loro che l’ira de’ cilladtni, calda oe’ primi gludizj s’indebolirebbe, come spesso accadde, per giudicare in ultimo i rei più segnalati. Deliberato ciò, sopravvegliarono i rei, ordinando a Verginìo di accusare Appio', senza, ' t |i) Cioè gli aliti DeceniTiri aùìaebè non soccorceMcto Appio nemmeno decidere colle sorti chi Io accusasse. Appio dunque accusato da Yerginio nell’ adunanza fu citato al giudizio del popolo, e chiese tempo per giustificarvisi. £ siccome non si ammisero per v lui mélievadorì ; fu tratto in carcere per custodii^elo finché di lui si giudicasse. Ma prima ' chu giùngesse il di prescritto pel giudizio mori nella carcere, per opera come molfi sospettano de’ tribuni : ma secondo che divulgarono altri, che li discolpano, egli, appiccò sé medesimo. Dopo lui fu tradotio al popolo Spurio Oppio da Publio Numitorio altro tribuno : ma', dategli, le difese, vi fu condannata a pienissimi voti : e portato in carcere fini nel giorno stesso la vita. Gli altri decemviri pfima di essere necessitati al giudizio, condannarono sestessi all’ esilio. 1 questori incorporarono all’eràrto i beni degli uccisi e degli esuli. Fu nommeno citato Marco Claudio quegli che si accinse a tor via come schiava la donzella da Icilio lo sposo : ma preiéstando i comandi di Appio fu scampato da morte ^ e 'gettato' in esilio perpetuo. Gli altri' ministri ^elle ingrastizie 'dèi decemviri non .subi-' irono giudizio pubblico ma diedesi a tutti la impunità. Suggerì pari economìa Marco Duilh'o il tribuno per essere ornai turbati i cittadini, e. timorosi di -essere finalinente anch’ essi giudicati. XLyiI. Chetate le turbolenze interne', raccolto il Senato, decretatio che esca immantinente T armata con tro, a’ nemici. Ratificato dal popolo il decreto del Senato, Valerio l’uno de’ cònsoli, marciò eoa metà delle schiere contro gli Equi e li Yolsci i quali miliuvano ' PtOSIGt, itmo III. insieme. (Consapevole però thè gli Equi, imbaldanzili pe’ vantaggiprecedenti, elevavansi fino a sprecar grandemente la milizia romana, cercò renderli ancora più temerari e vani con'^are di sé vista ingannevole, pra de’ Romani r -ma dimostrando r cavalieri un ardor sommo ottenne una segnalata vittoria, nccisivi molti nemici, imprigionativene pii^ ancora, e preso' i loro alloggiamenti dereKtti. IvÙ trovò •molte provvigioni da guerra, e tutta la preda già tolta, dal terchoi^'dé’'Romani : anzi' detenuti molti de’ suoi che liberò; non. essendosi alTretlati i Sabini pel disprezzo che aveano del nemico a riporre in sictirb 4anti loro vantaggi. 'Adunque diede a’ soldati la roba nemica, preelcggeudone ciocché era da offerire agl’ Iddii 1 ' ma ‘ rendette te prede a chi n^era stato spogliato. Fatto ciò ricondusse 1’ eserdto in Roms ove giunse)contemporaneamente anche . Valerio : ambedue sentivansi grandi per là vittoria, e' se ue auguravano luminosi trioufi. Non però uiccedette cobi’ essi ne sperayano .imperocché Raccoltosi il Senato' per essi 'dtieefae stavansi coli’ esercito sul campo -Marzo, ed esaminatine'le gesta, non accordò loro il sagrifizio per 1 vittoria : essendo oontrarìati da molti., e da alcuni manifestamente, soprattutto da Cajo Claudio, zio come scrissi di Appio, vuol dire del fondatore dei decemviri, e tolto non ha guari di mezzo .da’ tribuni. Cajo ricordava le leggi colle quali ajrean essi ‘ diminuita rautorilà del Senato, e ricordava le altre maniere da essi tenute perpetuamente ' nel gorernare : ricordava ‘ le morti o le conCfohe'de’beni dc’decemviri, traditi da esu ài tribuni contro i patti ed i giuramenti essendosi in mezEO alle vittime convendta tra’ patrizi e tra’ plebei la dimenti canza, e la impunità su tutto il passato. Protestava cbe Appia non era caduto morto innanzi al giudizio di sua mano, ma per malizia de’ tribuni : aflìncbè nell’ essere giudicato non ottenesse nè difese, nè misericordia : co me polea ben ottenerle, se potatalo in giudizio metteva ÌDuanzi al guardo la nobiltà della sua gente, e le molle beoefìcenze di essa verso la repubblica ; se reclamava i giuramenti e' la buona ^fedesu la quale gli uomini riposano) e rendonsi a far pace; se veniva, co’ suoi figli co’ parenti., jn àbito di umiliazione ; in somma con -gli altri modi pe’ quali uo popolo si disacerba, s’ intenerisce, e perdona. '{fra tali rimproveri dati loro da Cajo Claudio, e da altri presenti, fu coucluso, che si contentassero i' due, di non pagarne le pene: del resto non essere nemmeno in picciobssima parte d^gui del trionfo, o,di concessioni non dissìmili. L. Valerio ed il coUega esclusi ^al trionfo,' lenendosene ofTcsìssimi, e sdegnandosene ; convocano il popolo, e vi accusano vivamente il Settato. .Peroravano per loro i tribuni^ e proposero e ne ottennero dal popolo il trionfo: ed essi ..primi di tutti i Romani pro> dussero tal cot^uetudine. Dopo ciò rinacquero ‘i dissid), e le incolpazioni tra’ patrizj f e tra’ plebei. Li tribuni raccendeano questi ogni giorno concionandoti. Irriuyali soprattutto il sospetto cbe li tribuui cercavano di corroborare con romori incerti, e di amfdìare con divinazioni varie, come se li patriz) fossero per' )tnnienUre le leggi stabilite dai consoli, Valerio e suo collega: c quel lupetto ornai tanto prevaleva che degenerava la fede. E tati sona gli eventi di qnel consolalo. LI. Nell’ anno appresso foron consoli Laro Erminio, e Tito Verginio . Snccederon loro Marco Geganio..>(a). LH. Nè rispondondo essi, ma sdegnandosene; Scatùo fecesi di nuovo innanzi e disse : ecco o cittadini che si concede dai litiganti medesimi che essi pretumonb, parte che a lor non compete f della noslrà campagna', or voi considerando ciò decidete ciò che é giusto e congruo co' giuramenti. Scattio cosi diceva : ma i consoli ardevano dalia vergogna in riflettere, che il giudi aio prenderebbe un ' termine. nè giusto, uè onorato, se’ il popolo il quale qiai non aveast attribuito ' la campagnar disputata, ora, elettone giudice, se T attribuisse, con toglierla ai litigami. Adunque ad iscansare èiò si tennero dai consoli" e dai capi del Senato molli e molti discorsi ; ma ihvauo. Impetocchè quelli' che aveano pi Ando di Roma 3o7 fecondo Catone,, 3o3 fecondo Varrone, e 445 v. Ctifio. E C. Giulio secondo che si ricava dà Livio. Net consolato di Erminio e venissero persuasi in contrario, annullerebbero alcuna delle rìsokizioni proprie. LV.' In vista di .tali minacce .adunati gli Ottimati Ji piu anziani e principali da' consoli a consiglio privato, ponderavano ciocché ''fosse da fare. Cajo Claudio come U men popdiarc, ed erede degli antenati in tal genio di procedere, inculcava ostinatissimo, che non si cedessero al popolo né i consolati, nè altro magistrate qualunque; e che senza riguardo di persona. privata o pubblica si frenasse colle armi, se. non l'eodeasi per le parole, chiunque tentasse il contrario. (mpero.cché chiunque tentava sommovere le patrie costumanze o disciogliere la forma primitiva del governo era non cittadino ma nimico. Per 1’ opposito Tito Quinzio non voleva che si reprintessero gli avversari colla violenza, .né si venisse alle armi ed al sangue civile colla plebe: tanto più diceva che. -noi abbiamo contrarj i tribuni, che i nostri padri dichiararono sacri ed inviolabili;' facendo igenj e gl' fddj mallevadori dell’ accordo con imprecatone gravissima delia rovina loro e' de’ figli, se da indi in poi lo avessero mai violato anche in parte.Accosta vansi. a questo partito . ancor gli altri chiamati a' congresso, quando. Claudio pigliando la parola disse : Non ignoio quaji Jòndamento pongasi di mali, per tulli noi,, se^-concediamo che il popolo facciasi a volare su questa legge': ma non avendo cosa pià farmi, nè come resistere a voi; che tanti siete ; ahbattdonomi ' ai vostri consigli. Ben è giusto cJte LIBHOXI.. 377 ognun dica Ciò che sente deU util comune: ma poi siegua ciò che i più ne conchiudono. Jar, eome esortasi in c^fan che aggravano, nè si vogliono, vi esorterei che non cedeste nè ora nè poscia il consolato a ninno, se non ai patrtzj, i quali è giusta è pia cosa che lo abbiano : ma qustndo come cd presente, siete alla ncessità ridotti di far partecipi anche gli altri cittadini del grado e del potere più grande ; vi dico che assu^ miate i tribuni militari in luogo de' consoli, defineieione un numero { otto -o sèi forse, chè tanti credo bastarne ) riel quale i patrizj e i plebei si pareggino. Così Jrscendo nò renderete il córuolato magistratura di uomini indegni ed abbietti •, oè parrete per voi f ohe hricare un comando ingiusto, coll escluderne affatto i plebei. Ed approvando tatti, senza reòlamt> niuno un lai voto} udite soggiunse, .ciocché restami a dire a voi consoli. Prefisso il giorno in cui^ stabiliate quel previo decreto ^ e ciò che daf Senato si giudica, lasciale che parlino su Ha legge chi la difende e chi C accusa. Fi~ mia la disputa, quando fio t ora d’ irttendeme i voti, non. vogliate da me cominciare, non da, codesto Quirtr zio, nè' da altro seniore ma dsU popolafissimo senatore Lucio Valerio; interrogando appresso Orazio, se punto vuol dire, Bicercate così le .loro .sentènze, ordinale che noi seniori diciamo. Jq sporrò liberissirrtamente il parer mio 'contrqrio ai tribuni,• e fa questo [ utile della repubblica. .Questo Tito Genuzio, se il volete, dia la proposta su tribuni militari. Parrà questo il partilo più congruo e meno sospetto se progettisi o Marco Genuzio dal tuo fratello. I( consiglio senal brò giusto, e parlironsi' dU oiAigresso. T^merbuo i tri buui la secretissima aduuanza, come intenta a gran danno de’ plebei, perché fatta in casa, _ non in pubblico, e senz' .ammettervi alcuno de’ capi 'del popolo. Adunque raccogliendo anch’ essi un consiglio di uomini, amantis simi della plebe ^ idewono ript|ri e guardie contro le iusidìe che aspeitavansi da’ patrizj.. LVIL Giunto il tempo preacritlo per fare 'il previo decreto, i consoli convocato il Senato, ed esortatolo grandemente al buon ordine ed alla concordia; invitarono, prima di ogn’ altro j a parlare i tribuni deUik. plebe, i quali propónevano la legge. Fe^i avanti Cajo Canule)o, un di loro ; ma egli non che dimostrarla, bon mentovò nemmeno la giustizia e la utilità della legge. Diceva c/te si stupiva de consoli che avendo fra loro ponderato ù deciso ' ciocché jsra da fare, ora quasi pi abbisognasi sero consigli e decisioni, metteansì a proporlo ai Pa dri, e 'davano facoltà di cBingaxyi con simulakione non cbnvèniente nè alt età loro, r\è alla ' grandezza del comando. Diceva che irttroducevan t esempio di tristissime' pratiche, quando umvansi in casa et congressi recondite, jtè vi chiamavano tutti i Senatori, ma i soli favorevolissimi loro. E qui soggiungeva che poco faceva^li meraviglia che fossero esclusi da^quel coa1 sigho edtri sonatori;, ma ^grandissima gliene ftcevache 'avessero tenuti indegni da invitarveli Marco Grazia, e Lucio L aierio, qaell( che avetìno. tolto il Decemvirotò, ambedue uomini consplari %nè idonei' -men di chiunque a deliberare su la repubblica: lui non poter, concludere appunto In cauta .di tal procedere ; indovinco iie però quest' unica: valé^ a direi cfie essendo essi per allegare -disegni' ingiusti trovinosi alla piche, non vollero, convocarvf persone di essa amantissime, per ' chè sdegnate arti popolaresche ; numerando fin da principio, tutti i |>ericoli venuti su Roma per colpa di quelli phe volevano conU'ario governo; rilevando come l’odio versola plebe crasi renduto dannoso a quanti lo ebbero; e lodando amplìssimamente il popolo .come, autor principale delia libertà e del comando delia repubblica; alfine ragionate queste e simili cose, concluse non poter e^ser libera quella città dalla quale tolgasi /’ eguaglianza z e quindi sembrare a lui giusta, la legge laqual vuole che concorrano al consolalo/ tutti i Boinani purché siano irreprensibili ne costumi e degni per le opere di lai tanto onore : non essere però, quello il tempo opportuno da trattare legge siffatta in tanta turbolenza di guerra per la repubblica. Pertanto consigliava, ai tribuni di permettere che si réclutassèro i soldati, e che reclutati uscissero: ai consoli poi di pubblicare, appe-j \ Digitized by Coogle V', i.iBHó xr.' ' 38 1 na detto buon alla guerra il previa decreto su la legge: e si scrivessero e si corueruissero fin et alloratali cose da ambe ’ie, parti. Ta^è fu la senteuza di Vail secoudo da' consoli: non ^ però ne fu pari 1 affetto io tutti gli astanti. Imperocché quelli, che voleaoo preclusa la legge, ne udirono f!Ot> piacere la dilazione, non'peré con piacere ne adirono éhe essa dovesse decretarsi dopo la guerra: air opposito quelli che volevano che sì accattasse la legge dal Senato iotesero con trasporlo che giusta si dichiarava : ma con isdegno intesero che se ne ritardasse il decreto. j > LX. filato taraulto ('oom' è verisimile, perchè questa sentenza non soddisfaceva in tutto ad ainhe le parti, il console fattosi innanzi interrogò per il terzo Cajo Claudio il quale sembrava ostinatissimo e/ potentinimo fra tutti i primari della fazione opposta alla |>lebe. Costui tenne un dùtcorso premeditato contro del popolo-, rilevando di luì tutte le cose che gPien parevano contrarie a begli usi della patria, fra lo scopo principale ove tendeva il dir suo, che i consoli non pcoponessero al Senato l’^esar me di quella legge nè allora' uè mai, ooine diretta a distruggere il comando degli Ottimati, e confondere ogni buon ordine. Cresciuto a tal dire il tumulto, sorse invitato il quarto, Genuzio, fratello dell a^tro console.-Costui j discorse breveménce le circostanze della città, e come la cótnplicav^^no all uno o all’ altro disastro, o di far prosperare ^i nemici per la discordia e 1 ambiziojie de’ citudinij e, di dare mal termine alla guerra interna e domestica .|>er espedirsi dajl’ altra che le era portata di fuori, disse, che essendo' due i maiì' ed essendo necessità d’ inwyrreme, loro mal grado,' l’^udo o Y altro, credeva coufacevole ai Padri lasciar che il popolo urtasse alcune istituzioni proprie, anzi che rendere la patria Io scherno di forestieri' e nemici^ E cosi dicendo" propose la sentenza approvata nel congresso di ^elli che si erano in casa riuniti, sentenza come io dichiarai suggerita da Claudio, che si eleggessero ift luogo de' consoli i tribuni militari, tre de’ patrizj, e tre dd plebei, tutti con' potestà superiore : chè quando -^nìrebbefo questi il lor tempo, e si dovrebbero creare i nuovi magistrati ; allora unitisi di bel nuovo il SerUUo ed il popolo decidessero quali più voleano riassumesre al cornando li tribuni militari o li consoli : che per valido si tenesse quello che il voto comune destinerebbe: e che pari decreto si rinovpsse ogni anno. Eu la opinion di Genuzto acclamata da tutti: e gli altri che sorsero a sentenziar dopo lui -la tennero, quasi tutti, per b migliore. ' Se ne stese dunque da' consoli il decreto, ed i tribuni della plebe, pigliatolo, oe andarono, tripudiando, al' Foro. E convocatovi il popolò, vi lodarono amplissimamente il Senato^ e vi di nunziaronoV cbe doncorresse pure a’ magistrati .‘insieme co' patrizj chiunque il volea de plebei. '.Se non ohe il desiderio senza cagione, Speciàlmemc' nel popolo ^ è per sé" dori vano, e cori pronto ' a dar luogo arcOnirario ; ohe quelli i quali facevano ogni prova per essere a parte ' del magistrato, risoluti se non concedeasi ciò da’ patrlz}, di abbandonare la patria come 1' avevano abbandonata altra volta, o dì usurparselo colle armi, ottenutane appena la pertnissione, rattemperacono sestessi, e rivolsero altrove i loro favori. E quantunque molti de’ plebei aspirassero al militar tribunato, e" facessero per giungervi insistenze caldissime ; non riputarbno alcuno degno del grande onore.Cosi quando vennesì al voti nominarono al militar tribunato tra’ patria) che yi còneorrevano, Aulo Sèmpronio Atratino^ Lucio Attilio Longo, e Tito delio Sieelo. Questi assunsero i piWi qu^ grado in luogo del consolare nell’ anno terzo della olimpiade ottantesima quarta essendo Di61o arconte in Atene : ma ritenutolo settantatrè' giorni lo deposerq secondò gli usi della patria’ spontan^atOébte ;• perché alquanti segni celesti vietavano loro il maneggio de’ pubblici affari. ' Levatisi questi dal comando; il Senatosi raccolse, e nominò gr;ìn(errè. U quali prefìssero il tempo de’ comizj e proposero; da risolvere al popolo se voleat rieleggere li tribuni o li 008011 1 il popolo decise attenersi agl) nsi primitivi; ed essi contderono che chiunque il volea de palrizj concorresse al consolato." Adunque si elessero di' nuovo i' consoli’ dell’ ordin patriuo, e fuf'onò' Lucio Papirio Mugiliano, e Lucio Sempronio Atratino, fratello di uti de tribuni che s’ eran dimessi. Dond è che furono in -fiLoma tu un anno stesso due magistrature supreme. Non però comparisce 1’ una e l’ altra magistratut^ in tutù gli annali Romani : ma in alcuni trova'nsi i 'soli tribuni, Aodo di Roma 3ii $ècon{lo Catone, 3ia secondo Varronc, e 44 ^v. Ccisle. Tilo Livio dice cbv i tribuni militari entrarono maghtraii sul termidare dall anno 3io, e perciò toccarono anche l’inno 3 11. ÌD altri i consoli soli, osservandosi in non molti T .una e r altra. Noi ci atteniamo agli ultimi nè senza ragione, affidandoci alla testimonianza de' libri sacri 'recònditi. Sotto, questi consoli nou occorse altra cosa civile o militare degna di ricordanza; fecesi però trattato di amicizia e di alleanza colla cidi degli Ardeali, peroccliè spedirono ambasciadori, pe qliali, lasciate le querimonie intorno la campagna, dimandarono di essere gli amici e gli alleati de’ Romani. I consoli ratificarono questo trattato. Il popolo confermò co' suoi voti che si cf'eas s^ i consoli anche per 1’ anqo seguente ; e nel. plenilunio di Dicembre presero il consolato Marco. Geganio Macerinó per la secotula volta, e Tito Quinzio Capitolino per la quinta . Questi rimostrarono mentre i più inutili e più svergognati eran fuori ài ogni registro, e cangiavano luogo con luogo affine di viverci come loro piaceva., i. Addo di Roma 3ia se'coado Catone, 3i3 seeuado, Yatione, 41 ar. Cristo. U tomai dì AUcartiosso scrìsse le Antichità Romane dalie orìgini di Roma fino alla prima guerra Punica in venti libri estesissimamente, e di questi, poi diede un compendio in cinque libri come fu già detto nella prefazione al tomo primo. De' venti libri perirono qualche parte deW undecimo, e tutti i nove ultimi, salvo alcuni frammenti pubblicati più volle e ridotti in fine secondo P ordine de' tempi in ciò che narrano. ’ Avendo io trasportato nel nostro idioma gli undici primi libri, e li frammenti già noti de' rimónéitti, fu tutto dato in luce U anno ii5ia per Fìncenm Poggioli, editore in Roma della Collana Greca tradotta in Italiano. Quattro anni appresso però, cioè nel 1816, apparve in Milano una stampa Grecolatina della quale il titolo latino è: DiONTsii Halicarnassei RomaDarum AntiquitaUim pars hactenus desiderata nunc denique ope codicum Ambrostanorum ab Angelo MaJO Ambrosiani Coliegii doctore, quantam licuit, restitala. Quella stampa comprende gli antichi frammenti dei nove libri smarriti, e parti riguardevoli derivate dal compendio, collocate prima c dopo di essi frammenti per ordinare un tutto il quale dia compenso e lume di ciò che erano i nove libri perduti di Dionigi. Jn questo letterario ordinamento ci si dà ciò che si è trovato, e non sopra. Del resto la versione latina è precisa, corrispondente, elegante, buona, anzi molto : te note opportune, nè vi si desidera diligenza : e ciò basti su quell’ opera. Considerando come i frammenti veri de’ nove libri presentati di nuovo in quella stampa erano già volgarizzati, C editore in Roma della Collana Greca tradotta, cercò più volte di avere anche il volgare di que’ supplementi raccolti come si potè dalla Epitome o Compendio di Dionigi: ed uUirnumente vi aggiunse pur le sue premure il nuovo editore in Milano della Collana' Greca, presa la occasione dal valersi egli ancora della mia traduzione. Su tali istanze ho consegnato il volgare di que’ Supplementi ordinato coi vecchi frammenti appunto come si ha nel testo Grecolatino. E ciò è quanto basta a dar luce alla giunta seguente. i • £jglI avendo radtinato Intorno a sé uomini di ogni reo genio, li nudrìva, quasi fiere, contro la patria. Suppiementi. Cos\ li chiamo per dittiogaerli dai Frammenti. Qnetti tono parti vere^ dei libp perduti f gli altri tono parti deriTite dal compendio de’ Tenti libri delie anpchilà di Dionigi troraio in Milano ueil’ Ambr>a°a io due dodici, l'nno intitolato: Di Dionigi di jilicarnatto Archeologo Romano t l’altro: Dionigi di Alitarna$$o Archeologo dplle cote Romane. E chiaro che questo titolo i dato da altri. Li supplementi avran sempre doe TÌrgole in principio ed in fine dei paragrafi per dùtiognerli dai frammenti., DELLE antichità’ ROMANE Tuttavia se ascoltava me, se confofmavast alle leggi, egli faceva un gran colpo per la difesa, dando segno non piccolo di non aver cospirato. Ma sbattuto dalla sua cosdenza si ridusse dove quelli si riducono, i quali siegnono scellerati disegni contro dei loro più congiunti; deliberò di non presentarsi al giudizio ; e respinse a colpi di mannaja li cavalieri spediti su lui .... li suolo -della sua casa i Romani Io chiamano equimelio: conciossiacbè equo è detto da loro, ciò cbc non ha prominenze. Cosi il luogo soprannominato Mclio in principio fu di poi detto Equimelio alterandosi i dne nómi in un solo . II. Guerreggiando i Tirreni, i Fidenati, e li Vejenti co’ Romani (3j, Laro Tolumuio re de’ Tirreni segnalandovisi spaventosamente ; un tribuno romano, Aulo Cornelio cognominato Cosso, spronò il cavallo su lui. F attisi a combattere già moveano ai colpi le aste ; quando Tolumnio feri nel petto il cavallo dell’ emulo, talché il cavallo ne infuria e lo atterra. Ma Cornelio internando I’ asta per lo scudo e 1’ usbergo nel fianco di Tolumnio rovesciò pur lui da cavallo. Ben sorgea questi ancora, quando fu colto nell' anguinaja. Con ciò Cosso Io ucdsc e lo ' spogliò, non solo respingendo quanti accorrevano fanti e cavalieri, ma disanimando e t. Qosla h parte òel discorso di Cineinnato sa Spn^o Melio Deciso come reo di ambita lirannido. La occisione di Spurio Melio co4) corre con l’anno 3r5. II libro XI di Dionigi non eccede 1 anno Sia. Pertanto cib ebe manca a dar conliuna la storia delle Àniichiià Romane con quella del Cocapendio b la serie dei fatti dell’ anno 3i2 e dell! due sdenti. impaurando quanti erano alle mani neN' uno e nell altro cornò. Essendo consoli' ntiovamenie Aulo Gjmelio Cosso, e Tito Qtrinzio ; penuriò la terra per gran siccità; mancando non che le pio^e, fin le acque nelle sorgenti. Donde nniversaie fa lo scapito 'di pecore, di giumenti, di bovi : e moitè -fra gli uomini le. malattie, quella principalmente che scabbia à detta, assai molesta per lo rosore nella cute, c più Rtolesta ancora se inniceravasi : infermità miserabile in vero, e cagione sollecitissima di rovina . IV. .... Mal sembrava a’ primarj del Senato addimesticare il popolo alla pace e prolungargliene la calma, sul riflesso che per la pace si schiudono in città, vizj, piaceri, e sedizioni, e solean queste prorompere ad ogni occasione, difficili nè interrotte, appena si logliean le guerre di fuori .... E meglio superar 1 initnico beneficando, che punendo : imperocché di là sie gue se ' hon altro, almeno la speranza loro più dolce sopra de’ Numi V. . . a Appena conobbe che i nemid Io assalivano alle spalle, chioso com’ era per ogn’ intorno da, essif disperò di retrocedere. Egli tenea grave sul cuore che nel pericolo comune, essi pochi contro de' molti, essi gravati dalie arme conira milizie leggere perirebbero turpissimamente senza dar segno di opera generosa. Adunque vista un’ allora conveniente nè lontana destinò di occuparla VI. Agrippa Menenio, e Publio Lucrezio e Servio Nauzio tra gli ODorì di tribuai militari scopersero and insurrezione di servi destinata coaUx>'di Roma. Disegnavano i congiurati dar fuoco tra la notte in un tempo a più case in più luoghi, e quando vedeano gli altri intenti a reprima. L’incendio, allora invaderne il campidoglio, ed altre parti munite, e quindi provocare ad esser liberi tutti gl’altri servi, e con essi ucciderne i padrom', onde averae le mogli e li, beni. Manifestatasi la prauca, i capi d’essa furono presi, battuti, e crociassi: e que’due servi che la manifestarono, ottennero essi la libertà veramente, e miUe dramme a testa dal pubblico erario a. Adoperavasi il tribuno romano a compiere la guerra iu pochi giorni, come lui che credea facilissimo, e quasi posto nelle sue mani, sottomettere còn una batuglia i nemici. Per contrario.Jl comandante nemico apprendendo la perizia de’Romani tra le armi, e la costanza ne’pericoli, non avea cara una battaglia in campo aperto con pari circostanze; ma Uaeva la guerra tra le arti e 1’inganno, aspettandone chq gli si presentasse un vantaggio. ferito e morto venuto appena. In quest’anno fu l’inverno rigidissimo, in Roma, tanto che dove la neve caduta era meno, .tnno di Roma Il mille mauca oel lesto. È presso a pòco il nomerò pbe dee supplirai consideralo ciò che se ne ha presso di LIVIO (vedasi), o. aS. Questo racconto consente per qualche modo con ciò che narra LIVIO (vedasi) intorno la disfalla dei Romani contro degli Equi. ivi era alta li sette piedi. Vi perirono alquanti uomini, e molte greggi, ed altro bestiame non poco, sopraffatto dal gelo o dalla fame per mancanza de’pasccdi. Le arbori firuuifere inusitate alle grandi nevi o perirono in tutto, o seccate ne’tempo in tali regioni alquanto più boreali del mezzo, seguendo il circolo parallelo il qual viene per 1’Ellesponto sopra di Atene. Allora, per la prima ed unica volta 1’ambiente di questa regione s’allontanò dalla sua temperatura fa). I romani fecero le feste dette letxistermi nelr idioma, dei luog.o. Or furono ammoniti a tanto pe’libri Sibillini: giacché gli astrinse a consultarne l’oracolo nn morbo pestilenziale mandato loro da'Nomi, nè sanabile'per cura umana. Adunque acconciarono, come voiea r oracolo tre ietti, T uno ad Apollo e Latona, r altro ad Ercole e Diana, ed il terzo a Vulcano e Nettuno. Fot per,s?'tte giorni fecero pubblici sagrifizj, come pur fecero, ciascuno secondo le forze sue, private offerté ai Numi, e conviti sontuosi ed accoglienze di forestieri. , I I LIVIO (vedasi) raeconu I., c. i3 cb il Tevere non pelea navigard. Questo fraocbiaaiUko tcnvere et desiderare le cautele dell’aatore dei veoli. libri delle Aulichità Aooiaae. Le muiasioai anche rarieeime dcll'elmosfera ooa perché non sono scriue pel tempo paalaio, può concludersi che non avvenissero mai piò. (3j LIVIO (vedasi) parla di ul festa nel lib. t, 0. i3, la dice occorsa Pìsone il censore fa negli annaK suoi quest’ag> giunta: cioè, che sebbene fossero sciolti tutti i servi ^ tenuti io ferri dai padroni, sebbene Roma si empisse di forestieri, e sebbene si tenessero dì e notte spalan cate le case, penetrandovi chi volea, senz ostacolo; pur ninno si dolse che avessene furio, nè oltraggio; quan tnnque i giorni festivi sogliano per 'le brìachesze dar largo il campo a disordini ed ingiustizie. Stando i Romani all’assedio di Vejo sul nascere delia canicola quando gli stagni diminuisconsi e tutti li fiumi all’infuori dell’Egizio {filo, il lago de’monti Albani, distante non meno di quindici miglia da Roma, presso al quale fu già la città madre de’Romani, crebbe senza piogge, senza nevi, e senz’altre apparenti cagioni, per le sole inteMe sue fonti a tal dismisura, che inondò buon tratto delle adiacenze con molte case di agricokorì. E finalmente aprendosi a forza, il passo tra monti si versò con terribile sbocco ne’campi sottoposti, Della estate contagiosa, la qual s^cedcltc all'inverao rigidissimo descritto diantì. Addo di Roma. Aie infuori delV Egitto Nilo Questa cceetione, &t conoscere, parmi, che l’autore del compendio non i Dionigi. Imperocché egli nato in Alicamasso città dell’Asia, e già spettante al regno di Persia, come tatto il corso dell'Eufrate, non poterà, e certo non dorerà ignorare in tanta naturai tua diligenia che P Eufrate anch esso nel luglio assai cresce e trabbocca, come si legge in Arriano iibro ni, par. ao, greco per esso, e scrittore delle gesta d’Alessandro. Lo stesso Arriano scrire nel lib. r, paragr.7 secondo la nostra tradusione, che anche i fiumi Indiani nell’estate ingrossano fuor di modo e neU’inrerno scemano. Vedalo ciò li Romaai, da princìpio, (jQast 10 sdegno del cielo minacciasse Roma, decretarono pia care con sagrifizj i Nomi ed i Genj del luogo, consaltandovene pur gl’indovini, se ne eressero mai co$a da SIGNIFICARE GRICE: Se non che né il Iago ripigliava l'ordine SQO, nè gl’iinterpetri sapean dirne a proposito, ma snggerirono che si mandasse per intenderne l’oracolo in Delfo. Intanto un di Vejo perito, per Ipmc avutone da’maggiori, dell'arte divinatoria di'qne luoghi, sfavasi per avventura in gnardiè'deNe mura/ Era cosini noto ad un centurione romano. E quél centurione venato una volta presso le mura lo saluta come usa; aggiugnendogli di commiserare Ini come tutti i suoi pe’mali imminenti nella espugnazione dellai cittè. Per l’opposito il Tirreno, il qual già sapeva In inóndàziooe del lago Albano, e sapeva gl’antichi oracoli intorno di questa, replica, sorridendo, guanto é bene conoscere t ot'tvnt're. Voi per non conoscerne sostenete una guerra senza fine, e travagli irriuscibili, disegnandovi la distruzione di Vejo. Se alcuno vi rivelasse portare il destino di questa città che allora sia presa, quandó U lago Albano impoverendo nelle acque sue, non più si mescoli al mare, cessereste di tenere voi nella fatica, e noi tra le molestie. Assai ne impensierì ciò udendo il romano, e parti. Nel giorno appresso il romano, comunicatone il disegno co’tribuni, rivenne allo stesso luogo, ma senza le armi, onde il Tirreno non sospetta affatto d’insidie. Ripiglia I’usato saluto, e poi disse innanzi tutto l’incertezza la quale agitava il campo de! Romani, e cose altrettali da rallegrarne, com’egli crede, il Tirreno. Poi chiedealo spositore di alquanti segni e portenti occorsi di recente ai tribuni. Gnidiscese colui niente sospettando d’inganni. E fatto ritirare gl’altri i quali erano con lui si mise egli solo col centurione: £ questi U passo a passo lo allontanò dalle mura con discorsi diretti a deluderlo; Or come fu presso alle muniuoni romane. lo abbracciò con ambe le mani, e sei portò negli alloggiamenti. Quivi i tribuni or lusihgando or minacciando lo ridussero a dire quanto cela sul lago Albano, e poi lo mandano al Senato. Non parvene u tutti i padri in un modo: e chi tenea costui per pno scaltro ^ per un impostore, per uno che MENTE GRICE MEAN MENTIRE MENTE -- sugl’oracoli de’ Numi, e chi dicea lui parlare a punto il vero. Fluttuando fra tali incertezze H Senato, ecco i deputati al Nome in Delfo riportarne le divine risposte, concordi a quelle, date già dal Tirreno: vncd dire che gli Dei e li Genj li quali aveano in sorte la città di Vejo promettevano mantenervi costante la prosperità trasmessavi dagl’antenati finché le acque sorgenti del lago Albano ne Uaboocassero e corressero al mare: Ma quando quelle acque, mutata la fonte e il corso antico, deviassero altrpve, nè più si mescolassero al mare, allora pur Vejo ne andrebbe sossopra. Parve che potesse pianto ottenersi da’Romàni, se scavando delle fosse intorno al lago V’incanalavano l’acque le quali sboccavano, dirìgendole in campi lontani dal mare. G>DOsc!ato ciò li Romaai bentosto misero gli operaj su r intento, Rendutine i Vejenti consapevoli per nn prigioniero, deliberarono spedire a chi li assedia, a fine di toglier la guerra innanzi ch^ la città soccombesse: e scelsero de’seniori per deputati. Rigettata dal Senato la pace, lasciano questi, taciuirni, la curia: quando il più Cospicuo fra loro e più famoso nel divinare, fermatosene alla porta e girato lo sguardo su tutti senatori disse: bel decreto v avete voi fatto o Romani! e degno di voi U quali cercate dominare er tutto intorbo, quando ricusate aver suddita una città nè piccola nè ignobile la qual depone le armi e si rende, e destinata abbatterla da’fondamenti senza tememe^t ira de'^Numiy nè la vendetta degli uomini. Or ne verrà per questo su voi la giustizia punitriea de’Numi con pari vicenda; Voi che spogliate li Vejenti di patria, voi, tra non molto perderete la vostra. Prendendosi dopo breve tempo Yejo, taluni de’cittadini ne andano, e stettero da valebtnomini contro a’nemici, e ne uccisero e furono uccisù: altri diedero a sé stessi la morte: ma quanti per codardia, e bassezza di spirito risguardavano ogni altro successo come più mite della morte, abbandonarono le armi e sè stessi al inncitore. Anche CICERONE (vedasi) nel lib. r, èe Natura Deoram fa menxione di quella ambasceria, e dell'annunxio del castigo, succeduto, ^oni’ egli scrive, sei auui dopo la presa di Vejo, col piombare dei Galli su Roma. GatniUo sotto la dittatitra del quale Ve)o fu presa, stando co’Romani pili insigni su luogo elevato donde tutta quella città si scopriva, prknieramente fèliqitava té stesso^della' Iiella avventura con che gl’era accaduto d’espugnare e senza gran costo una città grande e prosperosa, la quale erà parte, uè gii la più ignobile 'della Etmria, allora fiorentissima, e potentissvna tra'popoli dell’Italia, e la quale avea disputato |1 principato ai Romani con guerre moltiplicate per dieci generazioni con cimentarsi alfine a tutti i mali tra r assedio non interrotto di nove, anni. Di poi ponsiderando per qual lievissimo billico trascende la sorte umana, e come nino bene tien fermezza, alzò le mani, sopplichevole a Giove e agK altri Nomi, perchè tanta felicilà non chiama l’invidia su lui principalmente, nè sulla patria: e se per Contrario pubblici disastri pendeano su Roma, o privati sa lui, almen fossero questi i più lievi e più tollerabili. Non minore di Roma per gli cdificj, godea Vejo terreni ampj, d’assai frutto, dove piani, e dove montuosi in aere purissimo e salutevolissimo, senza paludi vicine, dalle quali sorgono aliti gravi ed ingrati, e senza ninn fiume il qual dia troppe fredde le aure del mattino: nè scarse vi son Tacque, nè condotti) Ciok per circa irecento anni asjegaaado treni' anni ad ogni generaaione; Imptroccbè Vejo cominciò tali tae gaerre con Romolo: poco prima della aua morte, e loocomM LIVIO (vedasi) ed aliti dicono durato quello asi^io dieci anni: vuol diro nove furono gli anni' interi ciocché scrive I’autore dell’Epitome, ma non intero fu 1’ultimo. Dionigi nel paragr. i5 del libro iz scrive che non lungi da levi altronde, ma vi scatnrtacono copiose nommeoo, ohe bouissime a beverne a. Dicono, che quando Enea figlio di Anchise e di Venere approdò nell'Italia volesse, far sagrìfizio ad un tale de’Numi; e che fatte già le preghiere, stando ornai per operare sulla vittima apparecchiata, mirasse venir da lontano tm greco, Ulisse forse quando fu per r oracolo d’Avemo, o Diomede quando si recò per soccorso di Danno. E dicono che disgustato Enea dell’incontro, tenesse come inaugurata la vista dell’inimico tra le sante cose, e che volendo respingerla si bendasse e volgesse altrove; finché dopo la sparizione di colui lavatesi di nuovo le mani fece il sagrìfizio: e siccome vi si rendè fàusta ogni cosa, e^U ne fu dilettato per .'nodo da custodihie di poi nelle sante cose la cerimonia; conservandola per ciò li posteri di Ini quasi legge dei sacro ministero, In conformità de’patrii riti, fatta la supplica Camillo ancora si trasse in sul capo il manto, e volea rivoltarsi. Ma travoltoglisi ciò che avea di sotto a piedi, nè potendosene rattenere, ne andò supino a terra. Or questo rovescio, indizio che egli di necessità cadrebbe per una miseranda caduta, questo rovescio fàcilissimo da intenderlo senza calcoli e divinazioni, anVejo è il fiume Cremerà, e che da questo fiume fu denomioaio Cremerà il caetello edificato da Romani contro di Vejo. Qui ai •crÌT che non vi è niun fiume il ^oalc dia troppo fredde le aure del mattino : che anche senza fiume vi abbondano le acque. Questo esservi e non esservi un fiume et concepire che lo scritture del com'.^ pendio non è Dionigi.] che da’ meoo periti, questo egli noi pensò degno da guardarsene e da espiarsene f ma lo ridusse tale da. consolarsene come se li Numi avessero ‘esaudito le pre glie pii\ illustri a' quali esso era maestro di. lettere, li \ ' • t Narrano che Dionigi divise il suo campcndie in cinque libri. Ambedue li codici trovati del compendio delle aiilicbilà non hanno 0 non ritenpoiio indiaio ninno della distinsiooa in libii. BfOHlGI, urna III. j,S cavò fuori delie porte come per passeggiare dinanzi le mura, e far loro visibile il campo romano. Poi sionla nandoli poco a poco dalla città, li ridusse presso le guardie Romane:^ queste accorsero; ed egli cedè sé stesso, e gii altri. Menato a Camillo disse, che da gran tempo egli volea rendere la città de’ Romani : ma non avendo in sua balla nè la fortezza, nè le porte, nè le armi, si argomentò di mettere nelle mani di lui li 6gli ^e’dtta^ dini primarj, consideràndo cbe necessiterebbe li padri, solleciti di salvarli, a dar la città quanto prima ai Romani. E cosi diceva, immaginandosene maravigliòsi pre^ mj pel tradimento, a II. Camillo, dati da custodire. il maestro e (i fanciulli, scrisse al Senato il successo, chiedendone cièche fosse da fare. Lasciatogli dal Senato di lÀrne il lueglio che a lui ne paresse, egli cavò dagli alloggiamenti' il maestro e li fanciulli, e fece alzare il suo tribunale non lungi dalle porte, presentandosi immensa la folla su le mura, e dalle porte. Quindi primieramente distinse ai Falisci quanto il maestro fosse stato ardito di olTeuderli. Appresso ordinò che i servi gli traesscr la veste, e lo canninasser ben bene colle sferzate ; e quando tal pena gli parve bastare ^ .allóra ‘diè delle' verghe ai fanciulli, e fece che sèi menassero innanzi alla città, legato colle mani al t&rgo, battendolo e malmenandolo per ogni maniera. I Falisci ricuperalo i fanciulli, e punito il maestro in proporzione del suo malfare, sottomisero la patria a Camillo. Lo stesso Camillo nella spedizione su Vejo lece volo a Giunone^ 'Dea sovrana del luogo, di collocarle se prendea Yejo, la statua iu Roma', istitoendoveue insiemé cpito magnidco. Pertanto dopo espugnalo Vejo, man^ò de’ cavalieri più rìguardevoli a prendere dalla sua sede it simulacro. Appena gl’ inviati vennero al tempio, r uno (K loro sia. p^erilmeitte e per beflTarsene, sia per fame l’augurio, addimandò la Dea se voleva tra^mn grarsi a Roma, e colèi soggronsè volere con chiarissima voce della statua ; e due volte lo aggiunse. Impérocchè non potendo que’ giovani peiiuadersi che la statua fosse quella che vea parlato, replicarono la dimanda, e ne adirono un altra volta la voce stessa . IV. 'Tra il comando de’ consoli dopo Camillo proruppe in Roma un morbo contagioso, apparecchiato dal non piovere e dall' anura estrema. Afflitti con 4:iò git' albereti e li senànati porsero frutti pochi, e nocevoli' agli uomini, e pascoli scarsi e malsani ai bestiami. Odd’ è che il male consuase pecore e giumenti senta numero non sedo per. • quantunque non ignorassero che U multa eccedèVa non poco gli averi di ]ui: ma ciò vollero perchè messo ' in fcavcere scapitasse nella riputazione chi tanta ne avea per 'hobitissiole guerre, amministrate per^ eecellenia. Li ‘congiunti e li clienti accozzarono e diedero la son^ma richiesta afBnchè egli non soggiacesse a vilipendj ; ma H valentnonio riputando intollerabile la ingiuria., abbandonò (a patriq. Nel giungere alle porte fra gli astanti • addo lorati e piangenti per la perdita che farebboho, bagnò di largo pianto anch'esso il senAbiante, -e lamentò la infamia in che era mesio dicendo : > ^ Adunque disperando i barbari prendere la fortezza per inganno o di furto-, si diedero a trattare del prezzo, cui dato, i Romani riavessero la cittù. Dopò giurati gli accordi; i Romani portarono r oro, e Vckiticinqae talenti era la somiina'.la quale' doveano ricevere i Galli. Disposta la bilancia ècco il Gàllp imporvi un peso maggiore deKgiusto: se ne querelarono i Romani : ma. il nemicò tanto fu alieno dal rettificarlo, che lo aopmccaricò delia sua spada, levatosela dal cinta E chiedendo il questore che volea mai significate quel fatto ; rispose, ^ubt pò vinti. E poi che il peso ivi posto, ampliato com’ era-, non si pareggiava, anzi mancava un terzo' di tanto, i Romani si ritirarono chiesto tempo da raccoglier l’ intero. Sosteneano tanta insolenza ignari delle cose operate ] come al>biàm detto, in campo dpe il 'corpo ad un tempo e lo spirito; converseodola oibei Uòndi nasposto^ma palesemente. Addolorato Arante per lo distacco della donzella non più reggeva alia ingiuria-, cbe ne avea da ambedue : né potendo pigliarne Vendetta si mise' ad -ùn viaggio sótto .vista di liegoziare. Udì con trasporto il giovine lo andare, dandogli ciò che era l^sogao ai goadàgiii,' e T altro poftò, nelle Gallie molli earri eoa Q^i di vinoV di olio ^ e 'tnollr.'ata ceste >di fichi, a ' r ‘. a I Galli di quel di' non conoseeano il vino delle, vili, nè 1’ olio-, quale fi'a-uoi 1q danno ie olive: ma.teneano vin d’orab, festnefatato in acqqà, ó fogliame. tetro all odore, usando per olio ^assi vecebj di porco, ingrati a odorarne e gustarné/> CoiQe provarono frutti non prima gustati ne presero dilatto masaviglioso, iuierrogaodo il forestiere, dove e come ciascuno di questi si generasse, n -'t E. colai replica, the.'iimpìa e buona è la terra che li produci, è questa posseduta da uomini, pochi di numero: uè punto. migliori delle Jìemraine in far guen'a. Suggeriva;,chc'non ricevessero più 'tali cose dagli altri ad on péezzq, ma cacciassero i possessori antichi, e se le appropriassero. (Mossi da quel dire ven mi. Ma i 'GaRii ne misero in fuga la molhtudine, ed occuparono tutta Róma, salvo il Campidoglio. v Con c'ò gran eommrrcio praesdente. Cioachè non ti accorda con la DoTÌlà deacriiia .dei prodotti recati da Aruoti nelle Gallif. Won a facile a connidemi ube una natione ai ecciti e commo^a a tfatmtgrare pa’ racpooti dì un aTTeuttrriero. Livio tcrive Iv 5. i4> .Eoa ( Gallt ) ^lu oppufinavtrunt CUuiunì. non fuh$t qui primi alpet trantUrint^ latù óonstat. 0uel .aarii eo/iitat impoHa Alt lai nidiaione era comune in Roma a'iAreno Ira! leueraii 'oi t,empi di Livio, che sod (joelli di Augatcn,, .nel cui regno^^ anche Dionigi vino, io Roma luogo tempo. Panai duiiqae da coocluderbe che lo scritto ai risente di alquanto nosiooi te 'quali .uoo erano del diligentissimo aatore della aiilicbità : ciot questo tjompoodio k di t>n greco il quale non essendo £>rao vivulo nell Italia, S compendiando Dionigi, 'vi lasciava conoscere la vena dell ingrfpio ano non ai para quanto quella di Dionigi.] \, • rodar(7ao, nel lesto edeltan, donde celtico e poi ceillca,,, Digitized by Googlc 4i3 delle Antichità.’ romane dopo V incendio generò dal ceppo un tirgnlto, come dì Un cubito, volendo gli Dei manifestare ^e ben presto la' città, ricreando se stessa, darebbe germi novi in vece degli antichi. Anche in ‘Roma il picciolo tempio di Marte in cima alPalatino, 'i Romani pensano' chò debbasi operare ben alirimen)Ì debbasi a’ vecchj benefìzi sagrificare la coliéra per gli oltraggi recenti. Cerltmenle della Romana grandezza ben. fu meraviglioso. quel ^axto, che non malmenarono, pia lasciarono ille^ tjttti i Tuscolani ‘^u^ntuòque colpevoli f tna più meraviglioso ancora fu quanto eòncedesouo ad essi dopo il perdono. Imperocché fattisi % provvedere che non .saccedesse più nòlla di Simile., nella loro città, né più ci avessero alcuni comodità di far cose nuove, non conclusero già di mettervi guarnigione nella fortezza, nè Questo e li tre seguenti paragrafi sono fratOmeaii dei venti libri delle autichltà Romane acUtte da bioaigt e àul'' dal Gomptndjo ; aono picciolo parti dèli’ opera vara' e noi parti derivata altronde per supplirla, il tasto grec e-la tradaàioqe latina ai ara atampata più volte. Li framosenti ai dislingtsuao dal non avere l virgole nè in principio nù in fin^ dei paragrafi. lasciarono contro il sangue loco eccessi ùi oltraggi che i barbari più empj potessero sopraggiungervi. . ^ 'i' . 'XI.tE potrei allegare’ altri errori' infìnhi 'di quelle repubbliche ; ma' li tralascio; giaocbè spiaeemi ; fino l’aver menzionato gli ànzidetti. Imperocché vorrei che la nazione Greca. si distinguesse '‘dà . quelle de’ barbari non col nome solo. e col dialetto; ma per la.inlelligeoza eia scelta delle utili costumanze; c sopratthtto che infra loro noit si desolassero con ingiurie più che disumane. E ad esercitare i lor corpi o faticare nelle armìv ne ausavano di continuo, e vi grondavano dal sudore, costretti a desisterne innanzi P awiSo de’ capitani. Udito ciò f ' Camillo dittatore de’ RomaOi, adunò le sue milizie, e condonò • tra loro,. assai vivifi(ndole ad imprèndere: 0 ‘Romani ^ e^i disse, nói abbiamo assai più cùU it nemici benfatte le arme, le corazze y gli elmi, gli stivali, gli teuài saldi, coi tiuaU guardiamo tutto il corpo, le spade' d due tagli, ed in luogo dell asta, saette iP irreparaòH colpo. Le armi colle qutdi ci copriamo son tali'da ndn> fdcilitare su noi le ferite: laddove quelle con lè quedi nodiamo 'ci abilitano per ogn impresa. B poi ruiao è il càpo dei nemici, nudo il petto ed i lati, 'nudo il,fem&re è la gamba mfino piedi. Altro noti hanno die li. munisca se nonf lò' scudo : nè adiro tanto picchiar degli scudi, e guani altro ostentano di barbara e stolido a bravar t inimico, guai vantaggio daranno ad essi i guali assalgono senza regola, .a-, guai mai terrore a chi con tanta re^la sta tra i pericoli? Considerando tali cose: voi tutti guanti ne foste nella prima guerra cpì Galli e guanti non vi foste, non ‘diserrate.' o voi ohe vi foste C arUica virtù, col temere, e; vai che non virfbste non siate da meno che gli altri net jegntdarvi co' fatti . Andate La prima gnarra ocoqrae l’ aooo I acMiida ueii’bravi giovani : dimostratevi degni de' padri valorosi, correte intrepidamente al nemico ; Sarà con voi la ' mano degC Iddìi per tentarvi à punire • quanto volete, questiimpìacabili. Io vi son duce, al qucde tanto teslificate buon senno e Jbrlunà. Da ora in poi saréte felici, sia che riporterete alla patria la iwbilo corona della vostra virtù, sia che qui finendo la vita lascorete a’ teneri' figli] e ai vecxhj padri per un fragile corpo una splendida fama immortale.^ Ma già non è più da tenervi, Ecco t irUaùco sen viene ; ofidaie, presentatevi in schiera . Era ‘'il combattere de’ Barbari ansi brutab: e maniaco senza le cure e la scienza delle e vi ascese. Accorsa la molUtudine 'urbana allo spettacolo, egli primieramente fece voti alBncbè 11 ^umi avvèrsaaero l’ oracolo, e facessero nascere molti, eguali a lui di valore bella patria. Dopo ciò lasciate le redini e ' dato di sprone cavallò precipitò nella voraginet Sopra lui furono gittate in quell’ abisso nioltè. vittime, nìolti frutti, molte ricchezze, molte preziose Vesti ^ 'molti oggetti di arti di ogni maniera, e senza più la terra si ricongiunse Il Gallo area corpo straordinario, il quale molto eccedeva la proporzione comnne ....Licinio Stolone stato dieci volte tribuno, quegli il ‘‘quale fu capo alla fstitnzlone delle leggi, per la 'quale dieci anni fu sedizione, alfine' vinto iu giudizio e condannato ad una multa in danaro ()) disse: che non vi è bestia alcuna pià callivà del popolo, il qutde non nsparmia nemmeno chi lo sostenta . Assediando Marcio console que’di Piperno, ridotti senz’ altra speranza spedirono a lui. E Marcio, indicatemi, disse, come solete voi trattare li servi li quali dà voi si ribellano ? tome si dee, soggiunse il legato più anziano, punir chi desidera ricupenve la r Sie mai ri fu questa Toragiae, ciò che può beo essere, ta ricoopuDtione di lai mode ò tutta (àvolosa. Livio assai propiiio a tali raceopti aon lafiiTorisce. liberti ncUiva. DlIetUtosL Marcio del franco parlare, e se nei, dicea, se noi ci lasciassimo piegare a' lispar^ miarvi ogni cruccio, quali pegni ne darete voi di non farla mai più da nemici ? q V anziano tipigUava. Sta in te o Marcio e ne' tuoi Romani' sperimetttm-lo. So con la patria Uberi torniamo, vi ci terremo • pen sèmpre costanti amici : ma tali mai vi saremo, 'se ci astringerete a servire. Marcio ne ammirò li magnanimi M‘q^i, e sciolse 1’ assedio .. L IV^EMTAE i GaQi guerreggiavano Roma, un priil' cipe di questi sfidò qm^lunque de’ Romani a venire con esso al paragone dello armi,. Un Marco Valerio tribuno proveniente da Valerio PopUcola il quale insieme con altri ' Ubera la città dai tiranni, si fa innansi pel combattimento. Venuti alle mani, un ooryo si mise in su r elmo di Valerio, sgrid^do e guardando terribilmente il barbaro f e se mai lo vede portare de’colpi sul romano / gli si avventa ora colie unghie alle Addo di Roma. j. ' ; guance lacerando, ed ora col rostro agli'occhi, pungendo. Tanto che il Gallo ne anda fuori di se, non potendo trovare come ribatter 1'emolo, nè come guardarsi dal corvo! Ma traendosi la zuffa in lungo, il Gallo fu col ft;rro sU l’altro per internarglielo coll'impeto nel seno. Corsogli il corvo agl’occhi Onde forarglieli, colui alza Io scudo a respingerlo: e tenendolo alzato, il Romano che ne seguiva le mosse, menò da basso la spada, e lo uccise, Camillo il comandante lo insigni con aurea corona soprapnominaudolo Corvino dall’uccello compagno di lui nel combattimento; perocchò li Romani chiamano corvi, gli oicoelll che noi coracas chiamiamo. E costui da quel fatto ha 1’elmo ornato d’un corvo. In guisa che quanti fecero statue o pitture di lui, lutti gl’acconciarono sul capo quell’uccello. Devastavano le campagne ricche d’ogni bene nomini sfìaiti dalla guerra e simili ai cadaveri, se non quanto respiravano. Essendo calda ancora la penero come dicono dell’ucciso. Fu vittin miseranda delr inimicO’Uomo il quale sazia la invidia sua poi sangue civile. Dispensò tra soldati parte de vantaggi nè questa la più piccola, ma tale da sommergéK frà le ricchezze la inopia dt ciascùtlo diedero il guasto ài seminati già colmi per h raccolta tnalmetiando il meglio dellB^ terre fruttifere: ' i I • f I ' t, Queste Cemitlo il quale apparisce ora aalHaaao'4e& Roma i Uli tìglio del ftmoso Furio Csmiflo morto i6 ano,! adòiciro. Aucb'esso viute S fugò con ifna iniigue battaglia i galli, tuttavia molesti ai romani. LIVIO (vedasi) aS. aC. 'Ma percl^è spesso e molto danneggiavano i Campani come iorp' amici. Pertanto il senato romano sulle istanze e lamenti replicati de campani contro de napoletani spedi a questi ordinando che non più nocessero ai sudditi della repubblica; ma ne avessero e rendessero ciò ch’era ^usto: e nascendo coih(roversìe fra loro, le dJscutesserò co’gindizj non'cqlle armi, secQudo le convenzioni che ne farcbbono: del resto mantenessero la pace con tutti ìntorno i popoli, non corseggiassero il mare tirreno né tentassero eséi per sé nè CO-OPERASSERO GRICE con altri imprese disdicevoli ai greci. Soprattutto istmi, gl’ambasciadori che cercassero, Se venivano il destro, di alienare co’bei modi verso de’potenti la loro città dai sanniti, e renderla amica di Roma. ',. y. Ti-òvavansi di quel tempo in Napoli come ambasciadori di Taranto uomini rispettabili, e, po’ligami del sangue, ospiti antichi di que’cittadini: ma por altri, vi si trovavano inviativi da nolani, cooSuanti dei napoletani, e tutti dediti ai greci, i quali vi brigavano in contrario onde non copcórdassero co’ Ifomani nè co'sudditi d’essi) nè lasciassero l'amicizia verso dei sanniti. Che se r Romani set pigliassero a pretesto di guerra { rton temessero, nè invilissero, come in^ su^rabile rie fosse la forza; ma, perseverassero, e combattessero come i jbraoi Grecf., confidando sù le Manca il principio dj questo raccolto: puj> coninliar^i LIVIO (vedasi), c. aa. Questo pangrafo e tutto il resto del libto sono frammenti veri dei libri perduti dell’antichità di Dionigi. schiere proprie e sulle ausiìiane che verrehhono dai sanniti. Riceverebbero se ne abbisognano, pià delle loro, le forte navali dà' TaretUim, le quali eran tanUs e. si buone. Adunato il Sanato, e tenutivi molti dlsconi dai legati loro fautori, vi si divisero i sentimenti: ma li piu autorevoli parfianO tenerla pe’Romani. Non fecesi per quel giorno decreto alcuno, ma riserbato per, altra sessìone l’esame intorno ai legati; recaronsi a Napoli in folla i primarj de’Sanniti. Or quésti Conciliandosi con ossequióse manio:e i capi del comune, pregarono il Senato a far si che decide il popolo dell’utile pubblico. Quindi recandosene all’adunanza, vi ricordarono i loro benefizj, poi vi fecero le mille accuse di Roma come d’una ingannevole e perfida: e finalntente promiserole meraviglie ai Napoletani se deliberavann pella guerra: vale a dire che mauderèbbero loro milizie, quante ne bisognassero per difender le ptura, come l’armata e 4utta la ciurma pelle na#I. Davano insieme a vedere che subirebbero tutte le speso guerra non solo pe’soldati proprj, m pe’loro; che respinto l’esercito romano ricupererebbero, Cuma, occupata dai Campani, erano già due generazioni, .cén esdnderM gli abitanti: che renderebbero la patria ai Cumani, accolti, quando U perderono, dai Napoletani, e fatti partecipi d’ogni lor bene: che darebbero ai Napoletani un trat^ assai grande del territorio che tenevasi dai Catppihi., -, ' r ', vn. Ih mezzo a tal dire, la parte calcolatrice dei Ntpoletani, la quale vedea da lontano i mali xhe ver rri>bero colle battaglie, sulla città, dimanda che ai conservasse la ^ace: ma' la parte amante di cose nuove ^Ja quale cerca insieme un mezsp arricchire nelle ttsbolenze lanciavasi verso le guerra: Pertanto, elevafonsi a vicenda e voci e mani; procedendo la contesa fino al tiro delsàss). Alfine prevalendo il partito men buono, gli oratori di Roma dovettero tornarsene senza Tintento. Dond’^è che il Senato romano decreti 'd’inviare un eseacito contro de’Napoletani. I romani all’udire 5^10 i Sanniti apprestavano un esercito, vi spedirono prima Rmbasciadori. E di essi quelli eh’erano scelti dell’ordine senatorio venuti ai consiglieri de’Sanniti dissero: Voi fatfi ÌQgiustamonte o Sanniti violando i p'attati cha ovate con noi concordato. Amici vi eijt^nete di nome, nemici che ne siete di fattL Vìnti, voi da Romani in tanti condtattimenti, sciolti pelle istanze vostre caldissime dalla f. . guerra j oiténuta la pace come la volevate e desiderosi poi di essere gli amici e gli alleati di Roma; giuraste, alfine, di avere amici e nemici quelli appvinto che per tali riconosce la nostra repubblica. Ed ora immemori di tutto questo, e fin posti in non cale i, giuramenti, avete abbandonato noi nella jguerra co'Latini e ci>i Volsci,, cpn que’ pòpoli io dioOf che sono divenuti nemici nostri appunto per voi, perchè avevamo noi ricusqtò di unirci con essi net dare a wi guerra. JE nelt anno. J precedente voi avete istigato con tutta la premura e l’ardore, anzi voi avete necessitato i Napoletani che temevano farlo, a prendere contro noi la guerra^ e voi ne supplite le spese: voi la loro città ven tenete. Ed ora tutti intenti INTENT INTENZIONE GRICE ad apparecchiarvi raccogliete d'ogn intorno milizie, coh pretesto, come pare, innocente, ma: in realtà con disegno di guidarle contro i nostri cotoni. Ed a tanta ingiustizia invitate i .Fdndiani e i Formiqni ed altri, i (fuaii abbiamo no,i pOr^^iato ne'diritti ai nostri cittadini. Or 'voi profanando così scopertamente 9 turpemente i trattati di amicizia GRICE LOGICALLY DEVELOPING SERIES e di alleanza; il Senato ed il popolo romano deliberarono di spedirvi ambasciadori, e iperitnentai'vi colle parole, innanzi di procedere ai'fatti. E queste sono le cose che ami tutto vi dimandiamo, queste quelle, ottenute le quali, crederemo soddisfatti i nostri risentimertti: Chiediamo primieramente che ritiriate, le truppe inviate in soccorso ai Napoletani:, e poi che non mandiate milizie condro i nostri coloni, nè provochiate affatto i sudditi nostri a voglie ambiziose. Che se dite che tali cose non piacciono a tutti fra voi, ma che le fitnno alcuni solamente contro il voto comune; cónsegHàteci dunque voi questi perchè ne giudichiamo, 0 cen terremo contenti: ma se non gli avremo noi tjuesti nelle mani j né prenderemo in ) testimonia i Numi, ed i Genj invocati da voi nel giurare i trattati; e pSrciò siam qua venuti co Eeciali. Dòpo H parlar del romano consaìlatisl infra loro quei capi de’Sanniti diedero questa risposta: Non è già colpa del comune che i nostri sussidj giungessero a poi tardi per Ut guerra cóntro i latini, Imperocché si era appunto decretato che questi a voi s’inviassero: ma i capitani assai s’irtdugiOrono nell’àpprestarveli; come voi troppo vi acceleraste a dar la battaglia] e coti giunsero quelli tre o Quattro giorni dopo il bisogno. Jiispetto a Napoli poi dove sono alquanti, de nostri, tanto siamo lantàni dcUt oltraggiarvi soccorrendola in qualche fnodo mentre perico la; che noi pensiamo d’essere piuttosto gl’oltraggiati e gravemente da voi. Foi, tutto che non òjfesi, v'adoperale a soggiogare questa città, confederata ed amica nostra non già da poco, né d^ allora che con voi ci concordammo, ma da due generaeioni en>antS, e per grandi e copiosi ben^tij ricevutine. Tuttavia non é la comun dei Sanniti che offendavi nepimeno in questo; imperocché di propria voglia ìóccorpono Napoli, come udiamo, alcuni nostri, ospiti ed amici loro, o stipendiati, pella indi^nta’fbrse del vivere. Nè abbiam poi bisogno di staccare da voi li sudditi vostri; imperocché senza que’di Fondi, e. li Formiesi, noi, necessitati alla guerra, bastiamo a noi stessi. Apparecchiamo un esercito non per levare: a vostri colorii le cose loro; ma per difendere le nostre propriamente. A vicenda noi dimandiamo da voi j se volete far la GIUSTIZIA GRICE ESCHATOLOGY, che partiate da Fregelli, città da noi conquistata tanto priiHa col mezzo dell’armi, che è mezzo dirittissimo di possedere; e voi sera alcun titolo ve t avete, già sono due anni, appropriata. Or tali cose ci si concedano nè crederemo di essere stati oltraggiati. Allora subentrando al discorso il Pedale Romano, ripiglia: Niente impedisce che violando voi così manifestamente i trattati di pacOy i romani passino all’armi: nè già ponete lepnerUarvi d’essi, ma de'non sani vostri consigli. Ornai da loro si è /atto qtuuUo doveàsi pelle leggi rsacre e civili della patria, o di pio verso i Numi, o di giusto GRICE GIUSTIZIA ESCHATOLOGY verso i mortali. Gli dei che per sorte soprawegliano alla guerra, giudicheranno tfuale de due popoli osservasse i tràttati. £/ qpi recatosi in atto di partire, e tiratosi al capo il lembo onde cingevasi gli omeri, alzò come era il costume j le mani al cielo, orando don. imprecazione gl’iddii : che se Roma ingiuriata da Sarmio, non potendo riaversi dalla ingiuria cotle jrsfrole e co'tribunali procede finabnerite all’opere, U dessero pella mente ctmsigU bùqni, e condotta, propizia pella guerra. Afa se in opposito Rorna ìràscurando i legami santi dell’amicizia, accattava pretesti non giusti onde romperla, non la dirigessero 0 ne consigli o ftelle opere. Levatisi gli uni e gli altri dal colloquio; e dichiarate alle loro città le CMe disputatevi; dascuno dei due popoli pensò molto diversamente su Tabro. I Sanniti come £an essi quando iqtprendon la guerra, tendano per lent^ assai |e operazioni de’romani; laddove i romani immaginavano rannata di Sannio ornai prossima a piombare ^u i Fregèllaui’, loro còloni. Donde ne avvenne a ciascuno ciocché erane consentaneo: Imperocché li primi, apparecchiandosi e indugiandosi rovinarono la opportunità d’imprendere: per l’opposito i romani tenendo tutto pronto, udita appena la risponsóli. E prima che i nemici ne udissero la marcia; tanto le milizie reclutate V, ‘non. di:etidere in teiTa, ma dalla terra elevarsi. Imperocché nell’ e^ero stan le sorgenti del fuoco divino. a Ciò che si dimo^ra pel fuora nostro sia che lo abbiam 'da. Prometeo, sia che da Vulcano. Impe^ rocché quando è sciolto da’vincoli pe’quali è necessiuto a rimanere fra noi, corre subitamente pell’aria verso 1’altro fuoco, suo connaturale, ed Q quale doge d’interno' tutta la natura del mondo^ Cosi donque l’al. l6 e LIVIO (vedasi) più dislesamente. Il tratto aegnenic sembra parte della ri^tosia di Poaaio airinviato de’romani. neUe guerre han perduto i jìgti, quanti i fraleìli, e quanti gli amici? Ne’quali tutti come pensi che dee traboccatne la bile se alcuno ' gf impedisca placare ^ue' morti eoa tante vite di nemici le quali sole son credute un ossequio in verso gU estinti. Ma supponiamo che persuasi, o forzali o per qualunque maniera vinti mi si arrendano, e contxdano che questi continuino tìi vita, or ti pare, che sian per cqnce'dere'che ritengano insieme ogni lor cesa, q sema pur neo di vergogna se ne vadano quando, a tbr pia ce, quasi eroi qui apparsi per felicitàrne? O non piuttosto sopravvenendomi j quasi fiere, mi sbranerebbero appena tentassi dit questo? O non vedi come i cani da caccia quando è presa la fiera la qual chiusa dà essi va nella rete, circondano il ceuciatort, chiedendo parte della preda? e se non ottengono bttntosto il sangue o le viscere, non yédi come lo sieguonó, e pressano, e malmenano, nè respinti sèn pdrtono, nè percossi? Faticarono tuUo'il di cotnbaltendd, ma^i che le ombre tobero di rafhgurare gii amici e i nemici, tornarono a proprj alloggiamenti. Appio Gaudio non so per qual mancanza intorno de sagrifizj perdé la vista, e ne fu denominato ->^f£'eco; 'perocché li' Romani cosi chiamano chi non vede le scritluce custodite tra 1 murs, formate con lettere/ accuratissime, odo'rifere pello misto in che sono, presentano tal iloridez È diifieite iotarpetrare dove miri iitesio rottame. Fn detto che alle nti Freoettine. • i u.. I RonUuii ckUmaQO calende le ncòmeaie come none dtiamano la mezza IbQa, ed idi il pleoiluaio. Era la falange nel rnsAZO disgiunta ié mal piena: cori quelli che ivi erano disposti id òontrario, le furono sopra, e ne 'respinsero i>coDÒfc|auenli l’'iaosa, guàra aitàccò tutto il fiore dc^ cita Uomini sacerdoti, onorati Co’sacri minirieii. Quest’uomo pien di trasporti senza consiglro, insolentissimo, deliberando e ctmcentrando in sé tutti i poteri pella guerra E poi tu ardisci d’accusare ia sorte, turche la usavi pessimarnente, postola su barca già rovesciata? Così eri stolto? \, .^jilcuni i membri abbisognano di cura, e tali altri cicalritzcmdosene. VQt Ma vo’ricordare ancora un’arion' dvile de gna degli noom) di tutti i mortali, dalla iquale sia chiaroai Greci quanto Roma allora abborrisse soellerati, e come fosse inesorabile contro chi viola i diritti comuni della natura. Cajo Letorìo soprannominato Mergo, uomo illtutre pe’natali, còme non ignobile per le belliche imprese; dichiarato trìbW>' militare nefia guetta sannitica Ittsiqgò per un tempo un giovinetto sub camerata, vago più eh’altri di aspetto, perchè rendere si volesse agli amorosi AMICIZIA GRICE diletti di lui. Ma perchè noi guadagna cb’'donl, uè còlle gentili maniere, ornai più non bastando a sesiesM, cpr§e alla violen^. Divulgatosene il disordine tra le miliziè, i tribuni della plebe y; Qoaoto SigoJa questo libro, er^etlaato. it paragrafo lO'A lutto frammenti. ripuUQ^Io oltraggiò comune della {repubblica, me die dero accusa pubblica al reo, cpudannatone quindi dal popolò a Qiorte eoo voti pieqi. Peroécbè non tollerò questo ebe uomini di grado nell',;fsercilo profanassero con ingiurie‘ùmpìabili e contrarie ali^ natura Tirile, persone iagentté, mentre esse pella libertà co njballe-; vano i . Se non che non molto prima di questo fece^ttn’ opera‘ aaeor piò tp^evigliosa pell’ingiuria recata ad un altra persona, quantunque servile. Il (àglio di PubKo, io dico t di uno di que’tribuni milUari che umiliarono ai sanniti l’esercito e n& andarono, sotto giogo, fa costiletto, come lasciato iir grave pénuria, a ter danari ad usura pe’funerali del padre,^qtfasi ch% sarebbene quanto prima rilegato da’parenti. Ma deinsò nelle sue speranze, e scadutone il termine {vfa présir'egU Stesso pel: debito, giovinetto èòm’ era. e vaghissimo nc’ sem Valtrìo Masshiro pirla di a( capo primo Le deecrjsione qui ecala b l'una' de’ tram meati de’libri perdoti di Oiop^i.,II'£|ito fi narra pur aél compendio in tal modo: Ua tal Romano^, Cajo Leutrio, intUleva cpn un giovine, suo eumerata, ond’avir tUo diletto da lui y vago della persona. Ma non essendo il giovane goodagnalq nb per doni v né pér eavetse, alta Jiite divalgato il disordine dell’uomo, i tribuni lo condannaranò. -'IXdnigi, ’Oòm'Vne'^reaiaieoii, leone per ciseostinta gravissima del fitto la vipleoia, usala in noe dg Letorio: Se cglf compendia sè atess >Ta le carni ^acci&ct^ appena-^ si'riseajtooo e commoTOusi ifid tanto eh gli piriti nalnrali di esse yio lentano i p.ori, e $i dissipa'no. Questa •>, pur la cagione de’terremolwià Roma. Conciossiaché tutta vuota di setto per grandi e contiqùatl canali pe’quali conducesi Tafana tien m'ohe sflatatoje^ per le quali sen.esca. il vento rior. hiusovit ma quando il vento rimastovi prigiohiero sia troppo e veemente questo somioove Roriù e rompene il suolo, a •' Si^ consenta in generata ani liplo rfi qi|eSto, giATÌnetto: ma si discorda autonome, sulla famìglia, e sul ten^)0. Valerio Massimo nel lihA lo chiama fity Vetório figlto noa di Pubblio ma di quel Tito Veturio che net aifq consolato fu dato ai Saooiti (lal. cfattaio obbrobrioso coocluso con essi. LIVIO (vedasi) chiama it giovine Cajo Publicio, ed assegna il fauo all’anqo .'4^7 di lioma aolto i oontoli C. Poeleliu fc Lucjo Pepino, vispi 4irùclusa la pace co’Romani, soprastettero breve tempo i Saiteiti, e poi, stimolati dà un antiéa ingiuria, mar 'ciaróno coll'armata tra i Lucani, loro cónfinauti. Questi affidati da principio alle forze proprie sosienner la guérra: ma pòi vinti in tutte le battaglie, pelòta gran parte del territorio, e già prossimi perdere anche il resto, si videro necessitali ad implorare rajuto di Roma J£ quantunque consapevoli a sestessi di aver tradito i patti cdnclusi Uria volta con lei di antiòizia e di alleanzaf non disperSròne ch^ concorderebbe di nuovo, se le inviassero in ostaggio insibme òon gli oratori i giovinetti più rignardèvoti di tutta la repubblica loro. Qr questo appunto ne seguitò. Perciocché Venutivi gl’oratori e supplicandovi ca^dissimamente; il Senato deliberò di ricever gli ostaggi e render^ ai Lo cani l’amicizia GRICE FRIENDSHIP; ed il popolo né comprovò la sentenza. Firmati gii accordi con gl'inviati de'Lh'cani, il Senato elesse i più provetti per anni è per onori ^ e li diresse ambasciadori al consiglio generale dèi Sanniti; affinchè dichiarassero ad èssi che‘i Luoùni erano git amici GRICE FRIENSHIP, e gli alleati .di Bontà, e gli esortassero a render lóro le terre usurpatene, nè più tramarli ostilmente: già non permetterebbe la repubblica che alleati suoi che a ' lei ricorret'àna, rinutnessero esclusi, dal proprio, territorio. • tata levar tutu levando, i oaneli. Pìi( volentieri diremo che le mosee de' venti ttnterranei seno éfletlo 4ie'unemoti ausi che la priout eafione. I Sanniti gli mnbasciadcwi incollerìrono e replicarono primicramentò; che i trattati di pace non erano Jdtt} Con accordo che essi non mossero per amico; o, nemicò se /ton ^quello che assegnassero loro per tale i romani i Appresso, che i romani ~s' avjevano renàuto amici GRICE FRIENDSHIP i Lficani non già in antico, ma di recerite quand'erano questi già inoolli nella guerra co'Sanniti; oh A è che non avevano titolo nè, giusto nè decoroso per romperla co' Sanniti Risposero i Rotofiixì''che coloro i quaU avevano promesso di soggiacere, ottenendo appuntò con ciò la pace, dovevano obbedire in tutto, a chi presede.; '.e minacciavano in caso contrario di portare sa essi la guerra. I 3aimiù ripuianjlo intollerabile |a ptresunaione di Roma intimaroflo agli ambasciadori cht partiasero sull’istante; e dentarono che sL apparecchiasse spianto bisogna pella guerra di tutta .1 fazione, e d’ogni citti^ Pèrtanto la; cigìon manifesta, nè ingloriosa a raccontarla, della guerra Sanuiliea, fu .la voglia di socQ>rrere i Lucani caccòmmuidatisi a Roma quasi fosse già pubblico e^ vecchio costume di essa difendere gli oppressi, che la invocavano: ma la oagion recondiu., e che più \li sospinse a romper la pace, era la potenza Saimitica, divenuta già grande, e la qnal$' crescerebhene ancora, se domati i.l, ucani ed i confinanti di questi si volgessero ad essi anche le barbare genti che stayansf appresso. Cosi tornati appena gli ambasciadori la pace fu rotta, e sì àfrolarono due armate. Postumio già console, venuta 1 oca di esserlo iivatneiue, teniasi grande per to splendor de’nataii, come pel gemino consdato Doleasene sa ie prime il collega di Ini quasi escluso daU’essergli Uguale, e più volle ne fece 'in Senato rimostranxa. Alfine qUah plebeo venuto in luce da poco, riconosoendosegli' mìAore per gli antenati, per gli amici GRICE FRIENDSHIP, e per àltre eccellènze, .n'mi liossegli, e gli concedette di per si stesso il comandò della guerra Sanuitica. Diede grande invidia a Postumio un tal fatto, come nato dalla media arroganza sua; ma poi glien ' diede un altN, ancona più indegno di un duce Romano. linperoccbè separali due mila difi esercito suo li ridusse nelle campagne sue proprie' senza i fèrri con ordine l'nsieme ebe potassero un qùerceto, leneudoK gran tempo in òpere ài mercenari e dà schiavi. E superbo tanto prima di Uscire |Kr la s|>èdizione, apparve, più InioUeraUle ancora nel compierla; dando al Senato ed al popolo catise giustissime òndè r abborrissero. E ceno, avendo. i| Senato definitó'che Fabio il console dell’àttnò precedente, il quale area vinto i Sanniti cbiamali' ’FeHtri' si rimanesse nei campo con aniorità proconsolare per guefreg^are colla parte stessa de' Sanniti, ^gli.oon ieiterrs(ia' gl'intimò di par tirne, come spettasse e lui sólo còmaudarvi. Spedirono i FUdtì'a ^chiederlo ebe non impedisse al proconsole di stTtre, nè ripugnaste 'ài loro decreti; ed 'agli non diede se nOn. òrgegboae e tiranne rlsposfe, dicèndó:cAe finAocbe Litio fa mauaionè di quelli SaoaÌM: nondimeau Clatetio li tralatoia Della ina Italia antica..- beticippe IvaocdeaiOBe-ìùteyVÓgÀido Fatta sedizione, vinti quei delle vergini e ritiratisi dalla cità, spedirono a Delfo, e ne udirono che navigassero per l'Italia: che trovato nella japigia il luogo Satirio ed il fiume Taranto dove mirerebbero un capro tinger la barba nel mare, ivi fondasser la sede. Fatta vela, e trovato il fiume, videro un caprifico (1) nato in riva del mare con una vite la quale al caprifico si abbracciava, intanto che una parte di essa vite toccava il mare. Interpretando che questo fosse il capro cui l' oracolo prediceva, che mirerebbero tingere in mare la barba, si fermarono in quel luogo, e vinsero li japigi, e fondarono la città cui Taranto nominarono dal fiume. " III. « Artemide Calcidese avea dall' oracolo che dove trovasse il maschio soggiacere alla femmina ivi si fer- masse senza navigare più innanzi. Navigando intorno al Pallanteo d'Italia, e uniratavi una vite intorno di un caprifico, femmina quella, e maschio l'altro, talchè questo ne era coperto, concepì che l' oracolo fosse adem-pito. Ed espulsi i barbari che vi erano, vi si accasò... Regio fu detto il luogo sia perchè fosse uno scoglio dirotto, sia perché ivi interrotta la terra tien disgiunta l'Italia dalla Sicilia coutrapposta: sia che tal nome fusse il nome eziandio di chi vi dominava. » IV. « Leucippo Lacedemone interrogando l' oracolo, dove portasse il destino che egli co' suoi prendessero sede, se ascoltò che dovessero navigare all' Italia, ed ivi (1) Caprifico, fico silvestre. La voce greca payos significa capro e presso alcuni popoli caprifico. Quindi l'ambiguità d' interpretare la voce per capro o caprifico. Fatta sedizione, vinti quei delle vergini e ritiratisi dalla cità, spedirono a Delfo, e ne udirono che navigassero per l'Italia: che trovato nella japigia il luogo Satirio ed il fiume Taranto dove MIREREBBERO UN CAPRO un capro tinger la barba nel mare, ivi fondasser la sede. Fatta vela, e trovato il fiume, VIDERO UN CAPRIFICO [nota [Caprifico, fico silvestre. La voce greca “tragos” SIGNIFICA GRICE SIGNIFICARE ‘capro’ e presso alcuui popoli ‘caprifico.’Quindi l’ambiguita d’interpretare la voce tragos per ‘capro’ o ‘capritico’. GRICE: AVOID AMBIGUITY – unless you are a Pitonisa.] nato in riva del mare con una vite la quale al CAPRIFICO s’abbracciava, intanto che una parte di essa vite toccava il mare. INTERPRETANDO CHE QUESTO FOSSE IL CAPRO CUI L’ORACOLO PREDICEVA, che mirerebbero tingere in mare la barba, si fermarono in quel luogo, e vinsero li japigi, e fondarono la città cui Taranto nominarono dal fiume. " III. « Artemide Calcidese avea dall' oracolo che dove trovasse il maschio soggiacere alla femmina ivi si fer- masse senza navigare più innanzi. Navigando intorno al Pallanteo d'Italia, e uniratavi una vite intorno di un caprifico, femmina quella, e maschio l'altro, talchè questo ne era coperto, concepì che l' oracolo fosse adem-pito. Ed espulsi i barbari che vi erano, vi si accasò... Regio fu detto il luogo sia perchè fosse uno scoglio dirotto, sia perché ivi interrotta la terra tien disgiunta l'Italia dalla Sicilia coutrapposta: sia che tal nome fusse il nome eziandio di chi vi dominava. » IV. « Leucippo Lacedemone interrogando l' oracolo, dove portasse il destino che egli co' suoi prendessero sede, se ascoltò che dovessero navigare all' Italia, ed ivi (1) Caprifico, fico silvestre. La voce greca payos significa capro e presso alcuni popoli caprifico. Quindi l'ambiguità d' interpretare la voce per capro o caprifico.l’ORACOLO, dove portaste il destino che egli cc/’^stiei prendessero tede, né ascoltò chè dovessero Aavìgare-AllMuiia, ed ivi [Caprifico, fico silvestre. La voce greca “tragos” SIGNIFICA GRICE SIGNIFICARE ‘capro’ e presso alcuui popoli ‘caprifico.’Quindi l’ambiguita d’interpretare la voce tragos per ‘capro’ o ‘capritico’. GRICE: AVOID AMBIGUITY – unless you are a Pitonisa. [ahbìtàre dove approdati rimanessero un 'giorno ed una notte. Approdata la flotta intorno di Gallipoli in un tal campo de^T^renlinì, dilelliito'Leacippo della aalbra del luogo, operò coi Tarenlini afllnchè gli isonCedessero di stanisi ii giorno e la notte. Cosi passatine più giorni ;voleano i ^Tarentini che ne partissero ì -ma colui noti ditd^ lor mente, dicendo che secondò ^li accordi uvea iU loì^ quel tUoigo pel giorno e per la notte", e però sino a Umto^che fosse o furio o f altra non se ne partirebbe. I Taréalini vistisi, nell’ inganno,' coQsentirono che rimanessero. u I Looresi popolando Zefirio, Ina punta d’Itali; ne flirtino soprannominati' Epizeflrii. Stav tniropo. che rimanesse nel hiogo in che era, sostenendone la ^ecn. che ne deriva furono dissipati tra selve e valli e ripidezze. Un TarentiOo, uomo empio, e deditO/-à tatti i piaderf p la incpntinenztr e prostituzione della Sua bellezza fln'da ^ovinetto / ne' iu nominato Taide. Fatta ià' scelta dal popolò erano' partiti. Vilissimi e petulaaUssìml tra cinadini. Fu Postumio spedito ambàsciadore ai Tarentinr: ma' facendovr rimostranza; questi non-T iitte> sero, nò ' pigliaronp il contegno de’ saVf i quali -òòmuliino su là patria che pericola: anzi, se nieoiotavitno mai che cóldi non parla accuratissimo il greco 'Idioola, ve! Siraboàs pel libro setto dà questo 'Sdetiaid racconto pell’origine di Melapoalo. Cosi detto perebà risolte al vento Ztflro ciot di Ponente. Questo e li tre paragrafi srgoenti tono frammenti. deridevano, ed elevando 1i;m le mani o la voce, se ne irritavano, e barbaro lo chiamarono; jtantt> che 1q espulsero infine dal teatro. E già costui m ne anda co’suoi, quando per istrada s’avvenne con essi,.Filopide, un accattone di Tasanto il quale sopran-j nominavasi Colila dall’uso che avea, continyo di briacarsi. Caldo del vino, ancora del di precedente, come ebbe vicini i Romani, si tirò su la veste: e scompóstosi in atto indegnissimo da vederlo, sbrufTè sul manto sacro de’Legati ciocché non. può nominarsi nemmeno con decenza. Scoppiatene da tutto '3 teatro le visa, e sbattendoglisi per fino le mani da'più protervi, EoStumio riguardandolo dice: accettiamo o tvtissimo uomo / augurio: giacché ci date fin le cose che nòn chiedi/ama. Poi rivoltosi alla moltitndine, mostratovi contaminato il suo manto, e sentitevi uuiversaliN aucora e più, grandi le risa, anzi le voci nemmeno, di àlcUni che'sen compiacevano, e lodavansi, della contutUelid: -ridete f dice, finché V é dato ; ridete, pure o "Tarenùni; ehè assai ne sospirerete dii j>oi. Fremendo alquanti alla minaccia iò ; replica, perchè pià Jremiale vi aggungo; che assai laverete col sangue: quesUi, mia Cosi spregiati dai prijvati e(kl pubblico, e tosi •pcoaunziatp quasi come un vaticinio divino, su loro / sciolsero, d legati dal porto da Taranto. Giunti questi sotto Emilio fiarbula magisti^to Aono di Roma al Altri all’idea-dj acoattonesoatitaiacono quella di od aomo brflardo t garrulo, ellione de’Lucani e de Bruzj ‘j e finch’era' indomita la nazione grande le bellicosa de Sanniti, e1 altra de questi son fatti a dar buoni auguri, a chi cerca mantenne i beni pri>prii. Ma chi cerca r altra!, spii queiU augnrf d’uccelli di pronto e rapido impeto per lontauT Via^. Ginciossiaché questi uccelli sieguooo e pcocacciansi ciò che nbn hanno: ma gl’altri guardano e''cnstodiscòno ciò saltité. Pormi saviezza mandar lettere di minàcce aC sudditi: ma vi&t pendere come uomini da pocoro da nulla Uomini dei quali non siansi considerate le milizie -nò conosciuto il valore, questo è indizio di forsennato, o di chi non sa ciò che è senno. 3Ia noi sogliamo punire i nemici co folti, non colle parole. Nè fàteiamo te giudice de’nostri richiami co’Tapentùti, co’Sanniti, e con altri: nè prendiam te garantedà far valere ciò che tu giudichi. Decideremo colle armi nostre la disputa pigliandone la pena che ne vohemo. Su tali 'notizie apparecchiati come nimico ^ noa come giudice nostro. Vagli poi considerare quali’garanti ne darai per te da soddisfare le ingiurie >che tu ci fai: non ricevere a carico tuo che nè^farentim. né sdtri nemici opprimeranno i diritti. Se luti deliberato d’intprendere per ogni rqdnierà la guerra contro di noi, tieni certo che ti succede dò Se di ^ necessità succede a chi vuole combattere innanzi di, aver ponderalo con chi siaper combatterò. Abbi tutto in pensiero, e poi se cosa ti bisogna da noi, aìlo'ntànale minacce, pon già. quella tua regia fierezza V vieni al senato, informalo, persuadilo uè' vedrai -mtuteanS non 'il tjlirilto, e non £ equità a. V i'9 • JLìevino console romano, preso un esploratore li Puro (e prendorfe alle sue milizie le armi e schie>r rarsì: poi mostratone a lui lo spettacolo gl’impose di riferirne a cbv lo manda, tutta la verità: e che oltre le cose vedute dicesse che Levino il console de’romani lo ammoniva a non inviare occultamente altri per osservare: venisse egli e vede palesissipiameate, e sperimenta ciò che-gian l’armi romane. Addo (li Roma. 474n/ÓJV/C/. lówà Ua tal Oblaco, soprannominato.VuUinlo, dace de'Fereatani, al vedere che Pirro non avea posto certo, ma presentavasi rapido dòvuoqnc. tra’soldati, diresse r attenzione. a.' lui solo: e dove' che, ne anda il re cavalcando, ivi piega anch’esso il proprio cavallo. Osservando 'ciò Leonnato di Macedonia figlio di Leofante, .l’nno de compagni del re, se ne empi di sospetto, e scoprendolo a Pirro dice fvMarortaro(^o. Dopo quell’incontro il monarca afEne fidisstihó e valorosissimo fra’ coin|>kgni la da mide sua di porpora e d’oro usata da Ibi nel combattere, c l’armatura, migliore delle altre pella materia e pei 'tavqro, ed Segii prese la clamide bruna, e 1’usbergo e la causia colla quale, Megacle difende il capo dagl’ardori. E questo fu cagione, sembra, a lui dj salute a. ‘V. Dopo (Jbe Pirro signore degl’epiroti porta l’esercito contro ai romani, deliberarono spe dirgl’ambasdadoH pel riscatto de'prigionieri, sia che colui volesse restituirii'cambiandoli, sia che tassando un prezzo per ciascuuo d’essi. Pertanto dichiararono ambasciadori CAJO FABRIZIO (vedasi), il quale gii console, addietro da tre anni, vinte i sanniti, i lucani, i bruzj con strepitose battaglie, e disciolse 1’assedio di Turi, e Quinto Etnilio il quale éelTega un tempo di Fabrizio fece la guerht co’Tircehi, è Pdbiio Cornelio il quale gii console addiètrct da quattré' atini atuccò ^utti i Galli chiamati Scnoni, nenvcilsfmi'de’^omani, 'e 'mitene a 61 di spada tutù gl’adulti.' Venuti quésti a Pirro, e -discorsogli qninto concerne il subjelto, come la sorte non Imttoposta a calcoli, corno repentini sOno i eangiamenti fra l’armi, e come niun può' di leggieri antivederne il futbro; proposera alui che sceglieste dì rendere i prigionieri a p-szzo o permuta. ( ' 001101 rispose: jirduo cimento è il vostror o romani, che ricusate can^iungervi meco di aiaicieia, e richied/ete i vostri prigionieri d’usarli in altre battaglie in mio dannoi Voi se desiderate il bene, se intenti siete tdX utile comune a noi due; pacificatevi con me, e ee’ miei confederati, e ripigliatevi gratuitamente 1vostri prigionieri, alleati, o cittadini che sieno. In altra moda non soffrirò che vi abbiate un'altra volta tanti, Je ^tanto valorosi. Coì dice presenti i tre 'legéti, ma poi prendendo Pabrizio in disparte soggiunse:, Vili. Odo o Fabrizio che tu se prestantissimo nel guidare una guerra, che se’giusto, e sobbrio e pieno d’^ogni virtù, dell’uomo privato, ma che intanto sei povero di sostanze, e depresso in ciò solò dalfis sorte; onde noli vivi tù eoa più agio cher. gV infimi senatori. Ora io volendo sollevarti anche in ciò, ti afferò tanta quantità d’argento e d’oro da superarne il più facoltoso tra Romìmi. Imperocché io reputo liberalità bellissima, e degna di citi presiede, beneficare i valentuomini i qiysli. per, la povertà non vivono con dignità de’lor genj bennati, equesti io reputo doni, questi monunten{i luminosi per /una regià potenza. Or tu vedendo o Fabrizio il voler mio, lascia ogni verecondia, vieni, a parte de’miei beni; e concepisci che mi farai piacer grande, e che sarai presso me riverito come un amico, o un congiunto, o certo coni uno degli ospiti più onorevoli. Nè già per questo mi dovrai tu p/eslare l’opera tha in cose ' xvnì. 4'^non giuste, o non degne, md in coj& onde tu ne sia piti stimabile e grande ancora nella tua patria. E primieramente pròvecherai spianto puoi perchè faccia la pace cotesto tu& Senato, fin qui duro, e privo di niodprati contigli. Dirai che ia venni in danno' di Roma promettendo soccorrere i tarentini ed altri d'Italia: che ora non sarebbe giusto, né decoroso che gli cdibandonassi io presente qui coll'esercito, e vincitore già., di tuia battaglia: che nondimeno affari imperiosi e molti avvenutimi poscia -mi richiamano alla reggia. Ed io qui ne do, sii tu solo o am gli altri compagni, le assicurazioni più. ferme, c&è io son intento a tornarmene se ì romani mi si concordano per la pace: talché puoi dirlo pur francamente ai tuoi cittadini se alcuni mai ve ne fossero d quali mal suona, il mme di un re, come quello di un fi4o, ne’trattati, e-témessero di me similmente perchè taluni monarchi si videro, sorpassare i giuramenti, e tradire gl’accordi.. Fatta la Magro ò il nfio poderetto: eppure amando io di lavorarvi ed appiicàndomene prudenzialmente -> i frutti t somministramb tutto il bisognevole; riè la natura ci viohnUf a cercare pià che il bisogiievole. Soave m’è falimento cui la fame còridiscemi, dolce la bevanda Cui la seté procurasi, e molle il sonno cui la stanchezza precede. '&ijfèientissima rrì è la vèste Che mi difènde dal fredda, come acconcissimo, il -vose meri prezioso fra quanti datino P uso medesimo. Noti saria ^unquè giusto accusare la sorte, la quale mi pòrge quanto basta alla natura, e la quale se 'non dovami H'abbondanza, non tri'impresse netntnèno desiderf superflui. Io non hb mètri' è vero dasoccorrere ritisi debbe;~'ma nemmeno diedemi ''Dio. su le ricchezze quella cognizione certa j 'o divinatoria pella qualegioitasi chi he'abbisogna, come nemmeno diedemi tante altre cose. Partecipo ciocché ho colla patria e gliamici; porgo loro còme comuni le cose mie, beneficando come posso chi ne abbisogtia, nà quindi io credo mancare. K quesfe sono quelle maniere mie che tu giudichi, prestantissime, e else sei pronto di comperale a sì gran prezzo. Che se poi la gran possidenza sia degna che procqrisi po/t tante premure, e gare appunto per benefitare chi ne abbisogna e se questa rende più Jelici i pià ricchi come sembra a voi re j qaoii vie saran le migliori, da pi'ocurarsela, quellè pelle quali vuoi tu che io me l'abbia ingloriosamente, o quelle pelle quali io l’avrei prima ottenuta con decoro? Certamente gl’affari di stato mi diedero tante volte per addietro > mezzi d’arricchirne principalmente quando già da tre anni fui consolo, spedito colf esercito cantra, K potendo di^ tali acquifU applicarmene quanto.iovoleva; non veppi toccarne I 0 trascurai per amor della gloria uua ricbhezza anche giusta; come, fece falcfio Poplicola,' e, come pur fecero, altri moltissimi pc’quali Roma tante 'ne è grandiosa, Ma da te quali doni mi si, apparecchìanà? Non canshierei forse il meglio col peggio? Sal'ebbe quella prima maiiiera di possedimento stata uiùin colla soddisjazione del cuore, con un apparalo di giustizia, e decoro; ma da codesta tua Ujopfia tatto ciò manca. Imperocché qpAttVO uquo^accstta dall’nomò k cotta ca knseTiro csb-gu gravita iNTOthro riw cuk SOL oottrairifA i k NAseoaDASf purb . la etATORÀ DBL PRESTITO .co' tfÙMI SPSCIOSf, DI DONLf Dt favori; DI BiOfBFfCBmBE.',, o Or su poni che io uscendo da me prenda C oro che mi offerì, e ciò divulghisi tra romani. I magistrati irreformabiU, quelli che noi chiamiamo censori, a’quali spetta esaminare U'vivete de' ife> mani e castigar ehi devia dalle cóasuetadini della patria, quelli mi citino e m’astringano a dar conto de’doni ricevuti, al cospetto del pubblico e, dicano: ;,xt. Noi ti abbiamo inviato o. Fabticio con due consoUpi al monarca per trattare il riscatto dei prigionieri. Tu rivieni dalla spedizione ‘feoza li prigio/tieri, e sene’altro bene por, la eittà: Bitorni col mà, e m solo^ e npn. i tuoi compagni, delle regie.( se non da ciò die tu ne tradisci al nemico, sì che egli coi tùo mezzo soggioghi per sè /’/talia, e tu col mezzo di lid tòlga alla patria la libertà? Così fan tutti gli nomini di una v^tà simulata, e non vera, quando si sono avanzati al grande e forte degl’affari . , w Che^fe non tuadorno ddla dignità senatoria, e non da nemici, cnom^per tradire e far tiranneggiare la patria avessi accettato que doni, ma soltanto come privato da'-un re cotfederato, e senza ombra di male pel comune, dì, non saresti da punire anche per questo che depravi li giovani, insinuando nella loro vita il genio pella ricphezza, pelle delizie, e per Its sontuosità dd monarchi-^quando abbisognavi condnenza estrema a preservar la repubblica? Svergogni, li tuoi maggiori de'qu^i niuno deviò dagli usi della patria nè mutò la povertà decorosa con turpi ricchezze: Si tennero tutti nel tenue patrimonio, che fu riceyesti, ma poi riputasti minore di tC n' ., K ' u Anzi tu dissipi la gloria a te risultata pe’fatti anteèedenli, la qiiaL possedevi di uom temperante, e superiore ai bassi desìderj. Ti diletterai d’esser fatto malvagio di proho, quando dovevi anche cessare dall'esSer inalvagió, se eri mai tale? O sarai da ora in -poi messo a parte mai più degl’onori dovuti ai buoni? anzi levati piuttosto dalla città, o dal foro almeno. E se ciò dicendo mi casi. sasserp dal Senato, e mi riducessero. disonnati, qual cosa ftqtrei replicare, o. quid Jar giustamente in contrario? E, dopo ciò qital vita vivrei io mai, caduto in tanta, infamia t‘~e versatola in tutti i iniei posteri? n • Quanto a te poi come darò segno mai più di giovarti, se tra miei perdo la influenza e Ut riputazione, pelle qatdi ora cerchi, di afJezionap~miti? Quando non potessi più nuUa nella patria, non mi rimarrebbe che uscirne cottr tutta la Jìtmiglia, condannandomi da me stesso ad un obbrobrioso esilio. Ma dove mi starei da indi in poi, qual luogo mi ricetterebbe ridotto^' ^eom’ è conseguenza, senza la libertà del parlare? Forse il tue regno? VivaGiovo se mi apprestassi tutta la règia tua prosperità, non mi daresti tanto bene quanto mé ne togli'. levatami la libertà, preziosissima innanzi,n. . u Còihe potrei tener vita tanto divérta ^ tardi ammaestrato a servire? Se cJù è nato ne’regni e nelle tirannidi quando abbia cuor generoso, ama la libertà, stì/nando ogni benè meno difessa; come chi è cresciuto ùt città libbra e consueta dominare sugl’altri, passerà volentieri di bpie in -mole, di libero in suddito per imbandire laàte ogni giorno le mense, pie aver gran seguito intorno di servi, e pigliar diletto senza rifeèya eoa'' femmine e donzelli formosi quasi la umana felicità sia riposta in questo 0 non già nella virtù?-n. u'Ma sùm pure questo e cose altrettali degnissime \di esser cercate, or quando l’uso ne sarà / tnai lieto se non sono mai stabili? Se a voi sta concedere tali amabili cose; voi le ritogliete uguale mente, quando vi piace. Lascio di ridire le gelosie, le calunnie, la vita sempre in pericolo, sempre in timore, e tutti gl’altri sconci, non degni del wx lentuomo, quanti ne porta lo sfar presso ai moìiarchi. Già non colpirà tanta stoltezza Fabrizio d’abbandonare la famosissima Roma per vivere nelC Epiro; o da ridurlo chk merUre può far da capo nella città dominante, voglia essere dominato da un solo, pien di sestesso, e còhsueto d’udire dagl’altri soltanto ciò che diletHa. Già non potrei levare il grandioso nei pensieri t nè impiccolirmiti, anche volendo, sicché tu non debba sospettare niun danno. E rimanendomi come la natura e-'glt usi della patria mi han fatto, ti parfè grave, e quasi tirare, da ogni pòrte il comando verso di me. Generalmente debbo avvertirti ctie non vagli ricevere nel tuo regno, nè Fabràio, nè altri, sia maggiore sia 'pòri tuo nella virtà, ni affatto chiunque sia'crescitUò iti, città Ubère con sensi più grandi deiiP nomo privato. Già non è sicura ai principi nè cara la dimestichezza con uomini, di mente eccelsa. Mà sull’utile tuo vagli tu da te, discernere ciò eli è da fare:.-quaoto a prigionieri nostri scéndi ai miti consigli, lasciane aitdare. Appena Fabrizio (ìae, maraviglialo della magnanimità sua, lo prese pella (lesira dibendo: Già non mi vlen maraviglia che la vostra città sia tanto celebrala, la cresciuta a tanta signoria, dap. 4^1 poiché dia nudre tali valentuomini. Ben avrei caro che non fosse stata fra noi briga ninna fin dall’origini, fifa poiché vi fu, poiché taluno de'numi volle che noi misurassimo a vicenda le nostre forze e iL valore, misuratolo ci riconciliassimo; son pronto. E cominciando io la benignità la quale dimandate, restituisco 'in dono, e non a prezzo i suoi prigionieri a Roma « X^ECto, un. Campano, lasciàtd da Fabrizio console romano per capo ddia gbarnìgione di Regio, invaghito dei beni di questa, finse venutagli lettera da un ospite suo nella quale s’annunzia che il re Pirro manderebbe cinque mila soldati a Reggio per invaderla, promettendogli li cittadini, d’aprir loro le porte. Su tale pretesto uccise cinque di Reggio, e poi comparti le maritate e le nobili tnt suoi militari, vi si fa tiranno. Alfine caduto nudato degl’occhi manda cercando in Messina Dessicrate medico prestaatissimo secondo che udiva. .>,. r Pirro recita li versi che Omero mise, in bocca d’Ettore verso Achille, 'qnast detti da’romani verso di Pirro; ., Ma te tale e Xaot’ nomo io gHi non voglio, col guardo seguitandoti, di.'forto, Ma palese ferir^ se mi riesca i ' . Poi soggitmgendo che egli seguiva forse nn tristo $u> bjetto di guerra contro Greci, buonissimi e giustissimi, ma rimanevaci un solo e bel termine; che li rendesse 4 amici di nemici, con' principio magnifico di BENEVOLENZA – GRICE CONVERSATIONAL BENEVOLENZA. Quindi fattisi veaire li prigionieri de’romani, diede a tutti vesti convenienti ad uomini liberi, e le spese del viaggio, Con esortargli infine a ricordarsi quale egli foése staio inverso d’essi, a manifestarlo agh altri, e CO-OPERARE GRICE con (utlb 1’impegno a rendergli amiche le patrie loro, quando vi giungessero, 'i . Certamenté r oro de’principi' ticn forza insuperabile, hè fu dagl’uomini trovato fin qui riparo contro di arme siffatta. CKnia da Crotone uomo soperchiatore privò di libertà le cittadi, 'cOn dar fritnehigia ad esuli e schiavi numerosi de’luoghi intorno. Fondata là tirannide Quel di Reggio '«ve vano cercalo il presidio romano, temendo tanto de Cariagipeai quanto di Pirrol Dacib uccise li cinque qni SIGNIFICALI GRICE in un convito. Ma li soldati ne uccisero assai più pelle case, come sì raccoglie da Dione. Questo paragraie, e l( tegajeuti lino al duodeoimo sono frammenti. col mezEO di questi uccise o bandi li Grotoniati più rìguardevòli. Anassilao oocopò la fortezza di Reggio, e ritennela per tutta la vita, lasciandola appresso al figlio suo Leofrone. Dopo questi anche altri facendosi a dominar le città vi sconvolsero ogni cosa. Ma il dispotismo, ultimo a nascere e massimo ad opprimere le città d’Italia, fu quello di Dionigi, tiranno della Sicilia. Imperocché passato nella Italia in soccorso de’Locresi che vel chiamavano a danno di que’di Reggio, che sono loro nemici, ha incontro eserciti italiani numerosissimi; ma postovisi in battaglia uccise moltissimi, e presevi a forza due città. Poi tornato un’altra volta in Italia svelge dalle loro sedi gl’ipponiesi traendoli nella Sicilia: invade Crotone e Reggio e vi tiranneggia fiqché queste città sopraffatte dal timore di lui si danno ai barbariv Ma poi premuti pur da’barbari come nemici, si rimisero nelle numi del tiranno. E fluttuando, come le acque dqli’Euripo, si volgevano senza requie qua e là fortuitamente, levandosi da chiunque li malmenasse. Scese PiiTo di bel nuovo nell’Italia, non riuscendogli nella Sicilia le cose come le idea, perchè il governo di Ini sembra dispotico anzi che 'regio alle città principali. E per vero dire, iutrodoftp questo in Siracusa da Sosistrato che allora vi presede, e^da Toinone capitano della fortezza, e ricevnto d’essi r erario, e presso che dngento navi rostrate, e sotto Ciurlino uel lil>. a fa mcniione di più zelante per pubblica confessione e più attivo nel dar mano a Pirro pèrcbé scende nell’isola e vi regnas, giacché si eca costui recate colla fidUar^er incontrarlo e gli av^a renduta l’isoletta, da Idi, presidiata in Siracusa.. Ma tentando sorprèndere ugualmente Sosistrato fu ddosò; perocché costui previde le insidie, e fùggì. ' r ' ' i ’, ^irapnsiT'pcr quatuo rileviamo da Lucio l^loro era coma aoa ciùà composta da tre cittàio delle quali ngoiina /ra ciroonJata di mora. Vedi le uote lib.' a, c. nella faoSlra tlraduxKltoe ^i quello icritìera. Poi coniinciaiKlo a scouyolgeoi le cose di Itti; Cartagine crede avere il buon tempo da riprender nell’isola i luoghi perdniivt, e' ti spedi sollecita un’arinata. Evagora figlioolo di Teodoro, ^alacro ' figliuolo di Mieapdro, e Dinarco figliuolo di Nicia, tristi, infàmi sopra tutti gl’amici di Pirro, emoli com’erano in dar consigli, alieni da’Dumi e dal culto, vedendo il monarca in disagio, cercar vie da conseguire danari, glie ne proposero una indegnissitna i^e era quella d’aprire i tèsoli sacri di Prosèrpina. Imperocché nella città stessa eravene un tempio aaitvo, il quale serba oro in copia, intatto da tempo antichissimo, e dove altro ven'era invisibile a tutti, come posto occnltistimamente sotterra. Sedotto da tali adulatori, e riputando la necessità superiore a'tutto, si valse de’consiglieri medesimi pello spaglio sacrilego. Quindi tutto riconfortato imbarca con altre ricckecze Toro venutogli'! dal tempio, spendendolo a Taranto. Ma la provvidenza giusta degl’Iddj maoifcslò T efficacia sua. Perocché ariose dai porto pròcéderono in principio le nari' col fi^re A t/n. venm terra; ma poi cambiatosi questo iu altro coo^rìo ii^pestà per tutta la notte, e quali ne affonda, quali'ne miruse al golfo di Sicilia; e spinse ai fidi, di liocrs quelle ov’èrano portati i doni', già votivi ne’tempj, e Poro 'amJtnas&atooe: e qui disfacendosene i legni foce perire i nocchieri naufoaghi pel riflusso deUe onde, e sparse )’ oro sacra su la spiaggia appunto più prossima a Ix>cri. Donde costernato rese il mouaroa alla Dea tulli gli ornamenti e i tesori, quasi per allontanare con collera. 4G7 ciò' (a Stollo ! che non vede t/ùali tormenti Tf« ìncorrerì: 'chè facili non tono,. Thnla a mutarti le celesti menti, Come' Ai détto d’Omero. Dappoiché stese la mano lemerliria sul1’oro sacro, onde valersene in guerra, la Dea lo iniìitQÒ nè* Consigli per esempio e documento de’posteri. E per questo appunto io vlcrto colle armi da’ Ro praticati don éagli uomini, ma dàlie capre per lo selvoso e scosceso in che sorto: ed erano, per andare senza ordine alcùno spossandosi dalla sete e Odissea 111-,, ):^micllUà Romane di Dionigi. Tulio il resto t auppliio col compendio formala su li medesimi verni libri. parecchio. Conciossiachè ivi crescono in copia abeti altissimi e pioppi, e la pingue picea, e il pioppo e il pino > e r ampio fàggio, e il frassino, fecondati dàlie acque che vi trascorrono ^ed ogni altra sorta di alberi, la qual densa ne’rami tiene continua 1’ombra sulla montagna 1). s \ VI. a Eh questa sélva gir alberi prossimi al mare e ai fiutni tagliati interi dal ceppo e recati ai porti ricini forniscono a tuttà l’Italia materiali per navi e case: gU alberi lontani dal mare e da fiumi, ridotti in pezzi, e riportati sulle spalle dagl’uomini somministrano remi V " Stra'bufu nel lilwo V-I di« che questa selva eré lunga tcllccento stadj. e pertiche, e mezzi d’ogni arme, e rasi domestici: fi* naimcnie la parte di piante più grande, e più oleosa vien preparata a dar le resine, e scn fornia la resina chiamata. Bruzia-., la più odorata, -e la piu soave infra quante io ^ne conosca. Or dagli affitti di unto Roma ne ha ciascon anno cospicue rendite. Io Reggio, iecesi un’altra sommossa dal presidio lasciatovi di Romani e di confederati: seguitatidone da' ciò stragi ed esilii noti pochi. Per tanto Gajo Gemicio r altro de’consoli usci coll’esercito a punir quei ribelli. Presa la città colle ardii rendette ai citudini pròfughi gli averi loro, edarresuto il presidio lo condusse prigioniero in Roma. Or su questi tanta fu' Pira, c tanto il dispeuo.-Dcl Senato e uel popolo che non vi fu I pietà di partiti: nm da tutte le tribù (ù senlenziau su tutti la pena di morte come presciivono le leggi su tali malfattori. Vili, a Stabilita la sentenza di morte furono pianUti de’tronchi nel foro e condottivi e legati trecento a corpo nudo i quali aveanq già i cubiti avvinti dietro le spalle: e poi battuti, e poi decapitati colle scuri. Dopo ì primi vi furono puniti altri trecento, e quindi altrettanti ancora 4 findiè in t'uttO furono quaMro m'da dn La Irgiooe Campaoa con Decio capitano occupi Ecgg'o l'anno 4/4 Roma poco ifopo la venuta di Pirro nM’ ftalia, occorsa appunto in quell’ann^. La legione ribelle fu punita l’anno 4^^ sotto il contole Genucioi Livio dice clic la pena fu dicci anni dopo il delitto, é ebe li póniti in Roma furono quattro rada. Nel testo ai parla della ribellione come aeconda. Non k chiaro se l’indicata io questo luogo eia detta seconda in rispetto a quella di Dcciu, o di altra antecedente. quecento. Non ebbero questi sepoltura, ma tirati dal foro in luogo aperto dinanzi la città vi s’abbandonarono, pascolo d’uccelli e di cat^i. La turba mendica non tenea cura dell’onesto nè del giusto. Però sedotta dal Sannite si raccolse in un corpo, e su le prime vivea por lo più pei monti nelle campagne. Ma poi cbe fu cresciuta in numero ornai da tener fronte occupi una città forte, dalla quale prendea le mosse a depredare le terre ihtomo. ÌÀ consoli, cavarono la milizia, contro di questi. Ricuperata senza gran briga la città batterono ed uccisero gl’autori della ribellione, véndendone gli altri all’incanto. Era già 1’anno avanti stata venduta la terra e g^i altriacquisti fatti colle armi e l’argento risultatone dal prezzo èra stato comparilo ai cittadini. 4^Qui 81 attude «Ila guerra concitata da LoUio Sannite il quale fuggito da Roma dove era ostaggio, raccolse gente, prese un luogo munito della sua regione, e vi padrone'ggiava, e predata. Dionigi nel lib. 1. 9 dice di tessere la storia sua fioo al principio della prima guerra punica. Tanto che il eoiApendio ha prossima corrispondensa alla storia delle aSA*itA «Usa in venta libri. Marco Mastrofini. Mastrofini. Keywords: implicature, Delle cose romane di Floro, l’antichita romane di Dionigio, le cose memorabilia di Ampelio, il sistema verbale della lingua Latina – del verbo latino, aspetto verbale – la filosofia del verbo – tempus, azione, la concettualizazione dell’evento e l’azione nel verbo latino --, categorie sintattiche e morfologiche e semantiche e prammatiche dell’aspetto verbale nella lingua Latina. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Mastrofini” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Masullo: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale e la scissione dell’inter-soggetivo – i lottatori della tribuna – la scuola d’Avellino -- filosofia campanese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Avellino). Filosofo italiano. Avellino, Campania.  Insegna a Napoli.  Ha trascorso vari periodi di ricerca e di insegnamento in Germania. Direttore del Dipartimento di Filosofia dell'Napoli.  È stato socio dell'Accademia Pontaniana, della Società Nazionale di Scienze Lettere ed Arti di Napoli e dell'Accademia Pugliese delle Scienze.  È stato insignito della medaglia d'oro del Ministero per la Pubblica Istruzione.  Candidato nelle liste del Partito Comunista Italiano prima e in quelle dei Democratici di Sinistra poi, ha ricoperto la carica di Deputato, è stato Senatore della Repubblica. Trascorre i primi anni della sua vita a Torino. Si trasferisce a a Nola, dove compie gli studi superiori frequentando il liceo classico Carducci. Fequenta il corso di laurea in Filosofia a Napoli. Si laurea con Nobile discutendo una tesi su Benda. Napoli era dominata prevalentemente da Croce; esistevano comunque altri personaggi capaci di una riflessione autonoma e originale come fu Aliotta che con il suo sperimentalismo offrì importanti stimoli a M.. Studia l'esistenzialismo che andava diffondendosi in Italia. Assistente volontario alle cattedre di filosofia e tiene seminari per Nobile, Aliotta, e Valle. Compie la sua formazione filosofica a Napoli soprattutto con Carbonara. Carbonara era impegnato attraverso i suoi studi di estetica a ripensare l'attualismo gentiliano. La sua posizione prende il nome di materialismo critico. Attraverso il confronto con Carbonara, M. si addestra al rigore concettuale e inizia ad elaborare una propria posizione originale.  Nella formazione e nella costruzione della prospettiva filosofica di Masullo si combinano diverse componenti. Il neoidealismo, crociano e gentiliano, lo sperimentalismo d’Aliotta, e, tra idealismo e materialismo, il materialismo critico di Cleto Carbonara.  M. però, mosso dalle proprie inquietudini e dalle impressioni suscitate dai tragici eventi bellici, studia anche l'esistenzialismo e lo spiritualismo. Infine il bisogno di comprendere l'uomo concreto e le sue reali tribolazioni lo conducono ad avvicinarsi alla fenomenologia.  Il soggiorno di studio a Friburgo gli consente di approfondire lo studio della fenomenologia e di conoscere Weizsäcker, il quale aveva introdotto nel filosofese il concetto di “patico.” (cf. anti-patico, sim-patico, em-patico). Esistenzialismo, spiritualismo, idealismo e fenomenologia sono correnti di pensiero variamente intrecciate tra di loro. Ciò che attraversa trasversalmente questi movimenti di pensiero è la radicale problematizzazione del rapporto tra pensiero e vita, tra il pensiero e il suo negativo, ciò che pensiero non è.  Il pensiero Intuizione e discorso è un testo in cui, avvalendosi degli stimoli che provenivano dalla epistemologia, M. si confronta con l'idealismo attualistico e storicistico per riflettere sul carattere “difettivo” della coscienza e sul suo rapporto con la conoscenza.  M. in Intuizione e discorso sostiene che i poli del fatto e dell'idea, del senso e della coscienza, della vita e delle forme dello spirito sono legati da un vincolo dialettico. Voler ridurre l'uno all'altro conduce ad un idealismo soggettivistico o ad un empirismo cieco alle dimensioni dello spirito. Bisogna comprendere le modalità del vincolo che lega spirito e corpo. Il pensiero che voglia essere critico, cioè che non voglia ingannarsi, deve riconoscere che esso si fonda su processi biologici e fisiologici che gli sono irriducibili. M. approfondisce in Germania lo studio della fenomenologia, ancora poco diffusa in Italia. A Friburgo frequenta i circoli husserliani capeggiati dall'allievo di Husserl Fink e conosce Weizsacker del quale M. svilupperà il concetto di "patico". M. stesso, tornato in Italia, traduce e commenta alcuni testi di Husserl in un piccolo libriccino ormai introvabile -- Logica, psicologia, filosofia. Un'introduzione alla fenomenologia, Napoli, Il Tripode -- il cui contenuto in parte è poi confluito nel successivo truttura, soggetto, prassi.  M. considera Husserl un grande esploratore della coscienza. Husserl cerca di dare un fondamento filosofico alle scienze positive indagando il modo in cui la coscienza costituisce il mondo che la scienza prende ad oggetto delle proprie particolari ricerche. Masullo però, elaborando gli stimoli dell'antropologia medica di Weizsacker, lavora al passaggio dalla fenomenologia alla patosofia.  Struttura, soggetto, prassi è il testo che documenta il rinnovamento della ricerca di Masullo. Fa riferimento alle scienze positive per mostrare che la coscienza è qualcosa di vivo e concreto e non è «intellettualisticamente sofisticata, trasparente a sé stessa, come vorrebbero le filosofie speculative le quali riducono la vita psichica alla vita cosciente e non tengono conto o minimizzano il peso della dimensione psichica inconscia, svalutata come qualcosa di filosoficamente irrilevante.  S. Non è possibile una conoscenza diretta, per introspezione/riflessionecome vorrebbero le filosofie speculativedi ciò che pensiero non è. Il pensiero come esperienza intersoggettiva, sociale (lo Spirito, il Soggetto) può conoscere i suoi prodotti, i pensieri, il pensato, ma non può conoscersi come processo, esperienza del pensare, atto, tempo, «paticità» (cioè il pensare come esperienza soggettiva, esistenza). D'altronde il pensiero come processo non può essere conosciuto neanche per inferenza da parte delle scienze positivo-sperimentali. Queste possono misurare i processi, ma non possono misurarne i vissuti.  Lo scacco, il limite della conoscenza è l'apertura alla prassi e all'etica: riconoscere il nesso operativo tra senso e significato, crisi e ordine, «patico» e cognitivo, corpo e mente. Analizza i grandi modelli idealistici e fenomenologici della soggettività. In particolare, seguendo un'indicazione di Fichte, sviluppa la tesi secondo la quale il fondamento dell'uomo, cioè la condizione per la quale l'uomo assume i caratteri della soggettività (libertà, storia, ricerca, progetto, autodeterminazione) è l'intersoggettività. Di questo fondamento Masullo analizza le modalità di funzionamento.  M., con i suoi studi sulla «intersoggettività» e il «fondamento» degli anni sessanta e settanta (Lezioni sull'intersoggettività. Fichte e Husserl, Napoli, Libreria Scientifica Editrice,  La storia e la morte, Napoli, Libreria Scientifica, La comunità come fondamento. Fichte, Husserl, Sartre, Napoli, Libreria Scientifica; Il senso del fondamento, Napoli, Libreria Scientifica Editrice, Antimetafisica del fondamento, Napoli, Guida), analizza le «operazioni nascoste» in base alle quali si costituisce l'io e in base alle quali si costituisce l'oggettività del mondo e individua nella originaria struttura intersoggettiva il fondamento del mondo umano. Il fondamento è la comunità, ma essa funzionalmente rimane nascosta all'io per permettergli di istituirsi ed operare, come ben spiega nell'importante saggio Il fondamento perduto, in cui rielabora e sviluppa spunti presenti negli ultimi capitoli di Il senso del fondamento  e raccoglie in modo compiuto i risultati teoretici di due decenni di ricerche intorno al tema della comunità-intersoggettività come fondamento. M. pubblica inoltre il testo Fichte. “L'intersoggettività e l'originario” in cui riprende e aggiorna il saggio su Fichte contenuto in La comunità come fondamento. Fichte, Husserl, Sartre. Pubblica Metafisica. Storia di un'idea. Il capitolo finale, Il sentimento metafisico, è l'indicazione del passaggio a una nuova fase del pensiero di M., una fase in cui il tema dell'intersoggettività lascia il posto alla esplorazione delle dimensioni del vissuto del soggetto, quindi lascia il posto ai temi della paticità, del senso, del tempo.  In effetti anche i suoi corsi universitari di quegli anni rivelano questo momento di transizione. Si dedicati al tema dell'inter-soggettività ma vengono trattati anche i temi caratteristici della seconda stagione della sua riflessione. Tratta della “difettività del soggetto”; nel corso invece si occupa di “comprensione del tempo e interpretazione morale, definitivamente centrati su “i patemi della ragione e l'inter-esse etico.”  Nei studi su «tempo», «senso», «paticità» (Filosofie del soggetto e diritto del senso, Genova, Marietti, “Il tempo e la grazia. Per un'etica attiva della salvezza, Roma, Donzelli, “Paticità e indifferenza” (Genova, Melangolo). Sostiene che il pensiero critico, nella sua incapacità di pensare il passaggio, il processo, la trasformazione, il cambiamento (sustenuto in La problematica del continuo in Aristotele e Zenone di Elea, seppure solo sul piano logico) è incapace anche di pensare la soggettività la quale è una forma particolare di cambiamento, è tempo, prodursi delle differenze all'interno di un campo strutturato, fortemente centralizzato, l'organismo umano, portatore della coscienza di sé.  In questi studi degli anni ottanta e novanta Masullo considera le modalità affettive e psicobiologiche dell'esser soggetto. In “Filosofie del soggetto e diritto del senso” Masullo si confronta con Kant, Hegel, Dilthey, Heidegger e Merleau-Ponty, i quali storicamente hanno posto il tema della soggettività non riconoscendo però la differenza tra «significato» e «senso». M. rivendica il «diritto del senso» ad essere riconosciuto nella sua radicale e irriducibile diversità dal significato. Molto più rilevante nella costruzione della sua prospettiva filosofica è invece il saggio intitolato Il tempo e la grazia. Per un'etica attiva della salvezza, nel quale M. illustra la sua concezione della frammentazione della soggettività a partire da alcune considerazioni sui concetti di esperienza e di tempo. I lessici delle lingue europee antiche e moderne consentono di distinguere la dimensione orizzontale dell'esperienza propriamente detta (έμττεŀρία, experientia, Erfahrung) la quale ha un carattere prevalentemente cognitivo rispetto alla dimensione verticale dell'esperienza meno propriamente detta (πάθος, affectio, Erlebnis), cioè il vissuto, il quale ha invece un carattere affettivo anziché cognitivo. Da una parte abbiamo il giudizio su ciò che abbiamo provato, dall'altra abbiamo il provare come avvertimento immediato dell'accadermi di qualcosa.  Ciò introduce a un'ulteriore precisazione filologica che riguarda la differenza tra il cambiamento e il tempo. Il tempo non è il cambiamento. Il cambiamento è il continuo prodursi delle differenze nell'organizzazione delle forme della vita. Il tempo è l'avvertimento interiore di questo cambiamento, cioè l'avvertimento di sé attraverso il cambiamento.  L'uomo, a differenza degli altri viventi, è intrinsecamente tempo. Egli istituisce il tempo nel senso che mette in relazione i cambiamenti a dei sistemi oggettivi di riferimento, ma ancor più radicalmente l'uomo è tempo in quanto avverte i cambiamenti del mondo esterno solo in relazione al proprio modificarsi. Questo avvertimento, il «senso», è l'indice della soggettività. L'avvertimento della perdita, il senso del cambiamento, in una parola il tempo, accende l'allucinazione del sé, scatena il desiderio di permanenza.  Parallelamente alla esplorazione della soggettività, in Il tempo e la grazia M. segue gli sviluppi di un'emergente epistemologia caratterizzata anch'essa dalla contingenza e irreversibilità del tempo fisico così come la cosmogenetica ce lo illustra. Il versante umanistico e quello scientifico convergono nel disegnare un'antropologia la cui etica non è più la moderna e rassicurante etica reattiva che salva la società con le sue formulazioni sull'ordine del mondo.  L'etica che M. vede in prospettiva scaturire da questo nuovo contesto è un'etica attiva che salva il tempo, cioè il soggetto, dal vivere la perdita prodotta dal cambiamento come «disgrazia», mutilazione. La perdita è un momento necessario nella vita di un essere, l'umano, che non semplicemente cambia, ma si rinnova e costruisce intenzionalmente il proprio futuro.  Una volta riconosciuto il diritto del senso ad essere inteso nella sua irriducibilità al cognitive;  una volta esplorato il campo del senso-tempo-patico alla luce della psicanalisi, della letteratura e della filologia; una volta riconosciute le epocali trasformazioni degli scenari epistemologici, antropologici ed etici, M. in Paticità e indifferenza, si chiede quale può essere ancora, in questo nuovo contesto, il ruolo della filosofia. La filosofia è «saper assaporare i sapori della vita, gustare a fondo i sensi vissuti, … elevare i sensi sensibili a sensi ideali e cogliere nei sensi ideali la possibilità dei sensibili, è la “sapienza del patico” ovvero, se si ricalca interamente l'etimo greco, è la “patosofia”».  Da un pensiero così articolato derivano alcune indicazioni e cautele etico-pedagogiche. Essendo l'uomo intrinsecamente temporale, essendo la temporalità umana irreversibile, l'uomo non può essere fatto oggetto di conoscenza come un qualsiasi ente. M. distingue la conoscenza dalla cura. Egli inoltre distingue le esperienze (che sono comunicabili e sono i materiali sui quali si costruisce la conoscenza) dai vissuti (che sono invece costitutivamente «incomunicativi» in quanto riguardano l'immediatezza del sentire individuale che non è mai trasparente neanche all'individuo stesso che li vive). La conoscenza è la dimensione orizzontale dell'esistenza. Essa guarda alla universalità. Mentre la cura ne è la dimensione verticale. Essa invece guarda alla unicità-identità, ai vissuti da assaporare e da sublimare in valori da condividere.  Mentre la ricerca di Masullo prosegue in questi anni curvando verso nuove direzioni, pubblica alcuni nuovi libri. Sscrive Filosofia morale per una collana di libri che illustrano ciascuno il nucleo delle varie discipline filosofiche. In effetti Filosofia morale non è un elenco di temi, personaggi, concetti ma un percorso molto personale all'interno delle questioni e dei nodi fondanti della disciplina: la specificità della filosofia morale e la distinzione tra morale ed etica; il bene quale orientamento dell'azione umana; il soggetto della vita morale, la persona; il dovere, la responsabilità e il vincolo che ci lega agli altri. Scrive, intervistato dal giornalista de Il Mattino, Scamardella, Napoli siccome immobile. Scamardella, in uno degli ennesimi momenti difficili per la città di Napoli, cerca la figura di un saggio, di un'autorità morale capace di interpretare il presente e prefigurare il futuro di questa città malata. Trova questa figura in M., filosofo ma anche protagonista della vita civile e politica della città con concrete iniziative quali, nel 2006, gli incontri con i giovani e la popolazione nell'ambito del “Manifesto per salvare Napoli”. Il libro è un lungo dialogo sulle tante debolezze della città presente che si conclude con un'analisi delle risorse che danno speranza nel futuro.  M. pubblica La libertà e le occasioni, che sviluppa il tema del suo ultimo seminario all'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli.  L'impegno politico Negli anni sessanta e settanta la contestazione studentesca segnalava il bisogno di rinnovamento dell'università italiana. M., per i caratteri originali del proprio insegnamento, è considerato dagli studenti uno dei professori progressisti. Egli in quegli anni fu eletto deputato come indipendente nelle liste del Partito Comunista Italiano, ed in seguito  come senatore, si occupò sempre dei problemi del sistema scolastico. Inoltre come parlamentare europeo lavorò al fianco di Nilde Iotti nella Commissione legale.  All'inizio degli anni ottanta alcuni importanti provvedimenti modificano l'organizzazione didattica e gestionale dell'università (vengono istituiti i dottorati di ricerca, riordinate le scuole di specializzazione, creati i Dipartimenti). Terminato l'impegno parlamentare Masullo dirige per due mandati il nuovo Dipartimento di Studi Filosofici dell'Napoli intitolato ad Aliotta. Anche attraverso questo incarico egli incide sulle direzioni della ricerca filosofica a Napoli.  M.  si mette di nuovo al servizio della politica quando dopo la crisi politica e sociale degli anni ottanta, agli inizi degli anni novanta si verifica un generale risveglio della coscienza collettiva. A livello locale egli dapprima anima per oltre un anno, ale “Assise di Palazzo Marigliano”, un movimento che si opponeva al progetto NeoNapoli previsto dal preliminare di Piano Regolatore.l, del quale ottenne il rigetto, suggerendo la demolizione e il rifacimento integrale dei Quartieri Spagnoli. Forte della popolarità acquistata con questa esperienza è capolista del PDS nelle elezioni amministrative e poi, protagonista a Napoli della innovativa esperienza della "giunta del sindaco".  A livello di politica nazionale M. è di nuovo impegnato per due legislature al Senato. Egli è membro della Commissione di vigilanza dei servizi radiotelevisivi e, come negli anni settanta, della Commissione per l'istruzione pubblica e i beni culturali in anni nei quali i provvedimenti relativi a istruzione, università e ricerca sono numerosi e importanti. Amante dei libri e della cultura dei bambini, lo spessore del Maestro filosofo emerge inoltre quando in aula si discutono disegni di legge relativi a temi quali l'ergastolo o la procreazione assistita.  Saggi: “Intuizione e discorso,” – Grice: “Good connection.” (Napoli, Scientifica); “La problematica del infinito del continuo – l’infinitesmale – la categoria della quantita – flat and variable,” – Grice: “Excellent philosophical problem.” Napoli, scientifica,  “Struttura soggetto prassi,”Napoli, scientifica  “La comunità come fondamento,” Grice: “Masullo’s first attempt at a conceptual analysis of the inter-subjective; but it takes a philosopher to understand that that is what stands behind ‘community,’ or ‘population,’ as I prefer, or the conversational dyad.” Napoli, scientifica,  “Anti-metafisica del fondamento” Napoli, Guida, “L'inter-soggettivo” Napoli, Guida, “Filosofie del soggetto e diritto del senso,” Genova, Marietti,  “Il tempo e la grazia. Per un'etica attiva della salvezza,” Roma, Donzelli,  “Meta-fisica: storia di un'idea,” – Grice: “Perhaps Aristotle never had an idea; after all ‘ta meta ta physica’ is later and means: “the stuff the master wrote after the ‘physika’!” Roma, Donzelli, “La potenza della scissione” o diaresis, Napoli, Scientifiche, “Gografia e storia dell'idea di libertà,” Reggio Calabria, Falzea. – cfr. Grice: “The history of ‘free’ is hardly a ‘natural history’!” “Paticità e in-differenza,” Genova, Melangolo, -- Grice: “Masullo’s concept of ‘pathos’ is essential – while you may have self-pathos, the implicaure is that there is ‘empathy.’” “Inter-soggettivo” G. Cantillo, Napoli, Scientifica,  “Filosofia morale,” Roma, Riuniti, “Scienza e co-scienza” – Grice: “This pun is only possible in Italian: conscious and science are less of a parallel word formation!” “tra parola e silenzio” Grice: “This is my reading between the lines – i. e. the implicature” atti del convegno (Monte Compatri), P. Ciaravolo, Roma, Aracne, “Il senso del fondamento,” Napoli, scientifica, G. Cantillo, Napoli, scientifica, Napoli, siccome immobile. Intervistato, Napoli, Guida,  La libertà e le occasioni, Milano, Jaca,  I linguaggi della follia e i passi della salvezza. Il lavoro psichiatrico, in S. Piro. Maestri e allievi, Napoli, Scientifica,. Il filosofo della coscienza, Corriere della Sera, La grazia della filosofia e della politica, su rainews, Napoli, chi era il più grande filosofo, su interris, A. Fioccola, Magazine dell'Università degli Studi di Napoli l'Orientale. Aldo Masullo. Masullo. Keywords: l’intersoggetivo, la scissione di Hegel, il continuo dei velini – velia, infinitesimal – l’innamorato di Parmenide -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Masullo” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Matassi: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale e la filosofia della seduzione dei giocatori di calcio – la scuola di San Benedetto del Tronto -- filosofia marchese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (San Benedetto del Tronto). Filosofo italiano. San Benedetto del Tronto, Ascoli Piceno, Marche. Grice: “I like Matassi; but then I like football – I was the football team captain at Corpus – and aesthesis, the seductor seduced – “la condizione desiderante” indeed!” Allievo di Garroni, è stato Professore di Filosofia morale, coordinatore scientifico della sezione Filosofia, Comunicazione, Storia e Scienze del Linguaggio del Dipartimento di Filosofia, Comunicazione e Spettacolo dell'Università Roma Tre; in precedenza era stato direttore del Dipartimento di Filosofia. Si è occupato anche di Estetica musicale.  È stato Presidente della Società Filosofica Romana e ha fatto parte del comitato direttivo nazionale della Società Filosofica Italiana.  È stato nel comitato d'onore della Fondazione Amadeus. Presidente dell’Accademia Estetica di Rapallo, responsabile della sezione filosofica di Villa Sciarra, Roma, membro della giunta del CAFIS dell'Università Roma Tre. È stato anche membro del Comitato scientifico della Fondazione Résonnance dell'Losanna.  Ha diretto la collana Musica e Filosofia per la Mimesis Edizioni di Milano e quella su I Dilemmi dell'Etica per la casa editrice Epos di Palermo. Ha tenuto un blog sul "Fatto quotidiano" sui temi che legano la filosofia alle dimensioni del contemporaneo. Ha collaborato con la rubrica Ricercare, dedicata alla filosofia della musica, al mensile Amadeus e al mensile Stilos. È stato direttore della collana Italiana per Orthotes Editrice (Napoli). È stato anche membro del comitato scientifico-direttivo delle seguenti riviste: Colloquium philosophicum, Paradigmi, Quaderni di estetica e di critica, Bollettino di studi sartriani, Filosofia e questioni pubbliche, Links, Lettera Internazionale, Phasis, Itinerari, Prospettiva Persona, Metabolè, Babel online, Civitas et Humanitas. Annali di cultura etico-politica. Per quanto concerne il settore estetico-musicale è presente nel comitato direttivo della rivista internazionale Ad Parnassum. Hortus Musicus, Civiltà musicale, Orpheus, Itamar. a ricoperto la presidenza di giuria per il Premio Frascati Filosofia.  Menzione speciale della giuria al premio di saggistica “Salvatore Valitutti”, per Bloch e la musica.  È stato uno dei principali collezionisti al mondo di incisioni relative alle esecuzioni delle sinfonie e della liederistica di Mahler (circa mille tra vinili e compact disc). Si è occupato di filosofia tedesca, in particolare di Hegel, delle scuole hegeliane, del criticismo tedesco, del marxismo occidentale e della scuola di Francoforte. Un suo saggio è stato dedicato alle Vorlesungen hegeliane di filosofia del diritto e all'interpretazione fornitane da Gans. Si è occupato di Lukács, iutilizzando per la prima volta il celebre manoscritto "Dostoevskij" si è poi occupato di Hemsterhuis, l'autore della celebre Lettera sui Desider e del dialogo Alessio o dell'età dell'oro.  Le sue ricerche hanno riguardato la filosofia della musica moderna e contemporanea e in particolare su quella di Bloch, di Benjamin e  Adorno, fino ad elaborare un'originale filosofia dell'ascolto, le cui suggestioni si possono rintracciare nella teoria musicale moderna di Ernst Kurth, elaborata nei Fondamenti del contrappunto lineare. In tale prospettiva di ricerca, filosofia della musica e filosofia dell'ascolto sono strettamente compenetrate, fino a diventare il paradigma di una rivoluzione formativa che mette al centro del sistema educativo contemporaneo la musica nella sua declinazione storico-teorica come in quella pratica.  All'interno di tale prospettiva svolge un ruolo centrale Mozart, il "più ascoltante tra gli ascoltanti" come lo definì Martin Heidegger.  Saggi: Le Vorlesungen-Nachschriften hegeliane di filosofia del diritto” (Roma, Sansoni, Lukàcs. Saggio e sistema” Napoli, Guida); “Hemsterhuis. Istanza critica e filosofia della storia, Napoli, Guida); “Eredità hegeliane, Napoli, Morano, “Terra, Natura, Storia,” Soveria Mannelli, Rubettino, “Bloch e la musica,” Salerno, Fondazione Menna, Marte editore, Musica (Napoli, Guida) “Bellezza,” Soveria Mannelli, Rubettino); L'estetica. L'etica, Donzelli, Roma, L'idea di musica assoluta, Nietzsche e Benjamin, Rapallo, Il ramo, “La condizione desiderante. Le seduzioni dell'estetico”- Il nuovo melangolo, Genova; Filosofia dell'ascolto” (Rapallo, Ramo); “Lukàcs. Saggio e Sistema” (Milano, Mimesis); “La Pausa del Calcio, Rapallo, Il ramo. “Il calcio,” Rapallo.. In: Du Nihilism à l'hermenéutique, Hemsterhuis Franciscus “Sulla scultura; a c. di M. Palermo. Convegno sulla bellezza", presso il Centro di Studi Rosminiani di Stresa, Musica e Creatività Intervista a Rai Notte "La musica assoluta" Inconscio e Magia, Teatro dell'Opera di Roma, Seminario di formazione del PD Le parole e le cose dei democratici Pisa, Palazzo dei Congressi, Intervento alla Summer School della Fondazione Italiani-Europei, sui rapporti tra democrazia e capitalismo,  Commento al concerto jazz di Donà, "Tutti in gioco", Porto Civitanova, Bloch e la musica. Utopia a misura d'uomo. Intervista, Ornamenti, Arte, filosofia, letteratura, M. Latini, Armando, Roma, RAI Filosofia, su filosofia.rai. Il Potere e la Gloria. Juventus e Inter Il Fatto Quotidiano, s MLatini, in. tervista su Amare, ieri, di Anders, rivista on-line «SWIF-Recensioni filosofiche»,  M.  Latini, Doppia risonanza sul mondo (a proposito di "Musica" Napoli), “Il Manifesto”, C. Serra, Recensione a "Musica". Grice: “Unfortunately, Matassi, being Italian, or an Italian, is more interested in Nordic Kierkegaard, to pour sorn on their coldness, than in Ovid’s ‘ars amatoria’ which would interest an Oxonian!” -- Cf. “La palestra di Platone”. Elio Matassi. Matassi. Keywords: la filosofia del calcio, in-duzione, se-duzione – Ovidio, ars amatoria, desiderio.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Matassi” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia Grice e Matera: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – i segni del zodiaco e la semiotica di Peirce – filosofia basilicatese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Matera). Filosofo italiano. Matera, Basilicata. Grice: “Only in Southern Italy is a philosopher also responsible for the astrological edification of the city’s cathedral!” Uno dei più grandi studiosi e divulgatori di astrologia occidentale e filosofia dell'epoca. Insegna dapprima a Matera, e successivamente a Napoli.  Vive nel periodo in cui la Contea materana era dominio degli Angioini e su richiesta di Filippo IV detto "il bello", il re di Napoli Carlo II d'Angiò, detto "lo zoppo", invia Alano a Parigi. Lì insegna e divenne noto come dottore universale, profondamente versato in filosofia. In quegli anni infatti astronomia e astrologia vieneno collegate poiché si crede che gli astri potessero esercitare un influsso sulle azioni umane. Nei periodi di soggiorno a Matera, abita, secondo Verricelli nella contrada di Lo Lapillo tra il castello e il puzzo dove sorge l’acqua della fontana hera la sua vigna con una casuccia di pietre, piccola, mal fatta casa propria di filosofo quale oggidì si chiama la vigna e casa di Alano. Si tratta della collina dove poi fu edificato il Castello Tramontano. In quella casetta il grande filosofo passava intere notti ad osservare il cielo e gli astri con strumenti rudimentali. Di Alano è il motto presente nel “Glora mundis”: La goccia perfora la pietra non colpendola due volte con forza, bensì colpendola continuamente, così tu trai profitto studiando non due volte ma continuamente. È l'esortazione con cui invita a raddoppiare impegno e curiosità sulla strada della conoscenza. Secondo alcuni, il perfetto orientamento delle facciate della Cattedrale di Matera e del suo campanile lungo i punti cardinali si deve alle osservazioni astronomiche di Alano.A Matera una strada, trasversale di via Nazionale, tra le vie Salvemini e Di Vittorio, è dedicata ad Alano. G. Fortunato, Badie, feudi e baroni della Valle di Vitalba, ed.Lacaita, Personaggi della storia materana, Altrimedia, per i Quaderni della Biblioteca provinciale di Matera  Morelli, Storia di Matera, Montemurro,Volpe, Memorie storiche di Matera, ed. Atesa, Dizionario corografico del Reame di Napoli, ed. Civelli, Biografie dei personaggi illustri di Matera, sassiweb.  ntonio Giampietro, Personaggi della storia materana, Alano di Matera. Matera. Matera. Keywords: implicature, la collina del castello tramontanto, la catedrale di Matera, astrologia, astronomia, dottore universale, Napoli, Bologna, Parigi, the semiotics of astrology, Grice on zodiac signs, semiotic, semiology, astrology, astronomical chart. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Matera” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Mathieu: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’uomo animale ermeneutico – filosofia ligure – la scuola di Varazze -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Varazze). Filosofo ligure. Filosofo italiano. Varazze, Savona, Liguria. Grice: “There are various things I love about Mathieu: his idea of the ‘uomo, animale ermeneutico’ is genial – and true!” Grice: “Mathieu rightly focuses on Kant’s problems with emergentism, i.e. the fact that life (or ‘vivente’) cannot be reduced. I love that.” Grice: “Mathieu has emphasised the irreductionism alla Bergson. I like that.” Grice: “Mathieu makes an apt analogy between Goedel’s work for alethic systems – that they cannot self-reflect, and deontic systems --.” Dopo il liceo, si iscrisse a orino. Si laureò con Guzzo, filosofo rappresentante dello spiritualismo ced autore di importanti studi su  Kant (un filosofo che sarebbe stato centrale nella vita intellettuale di Mathieu).  Libero docente nella filosofia, è stato professore incaricato, e  Professore di filosofia teoretica a Trieste. Primo vincitore del concorso di Storia della filosofia, è stato ordinario di filosofia fino al ruolo di professore emerito di filosofia morale a Torino -- è stato membro del Comitato del CNR;  è stato membro e poi vicepresidente del Consiglio esecutivo dell'UNESCO (Parigi). È stato membro del Comitato Nazionale di Bioetic; è socio dell'Accademia dei Lincei e membro del Comitato Premi della Fondazione Balzan.  Ha fondato con Berlusconi,  Colletti ed altri il movimento politico Forza Italia. Si è candidato al Senato della Repubblica nel collegio di Settimo Torinese: sostenuto dal centro-destra (ma non dalla Lega Nord), ottenne il 33,2% e venne sconfitto dal rappresentante dell'Ulivo, Tapparo.  Con il sindaco di Brindisi Mennitti ha dato vita alla Fondazione Ideazione, per il cui quotidiano ha curato una rubrica fino alla chiusura della testata. Nel luglio  (in connessione con la sua carica di presidente del collegio dei probiviri del PdL che è chiamato a giudicare l'operato dei finiani di Generazione Italia) diversi organi di stampa riprendono la voce, già circolante da tempo, di una sua adesione all'”Opus Dei.” A tale proposito sono giunte alla redazione del Corriere della Sera che aveva pubblicato la notizia le smentite sia dell'Opus Dei che dell'interessato. Ha offerto contributi significativi in almeno quattro ambiti della ricerca filosofica:  la filosofia della scienza; la storia della filosofia; l'estetica; la filosofia civile. Ha indagato i limiti interni ed i limiti esterni della scienza. Tale indagine ha avuto due filosofi del passato come suoi principali punti di riferimento: Kant e Bergson. Ha infatti ripreso e sviluppato le ricerche di Kant sui limiti interni della scienza e sulla sua fondazione. A tale riguardo pubblicò il saggio "Limitazione qualitativa della conoscenza umana" a cui fece seguito, "L'oggettività nella scienza e nella filosofia".  Seguendo Bergson, ha valorizzato anche altre forme della conoscenza e della espressività umane non riducibili alla cienza, ma non per questo ad esse opposte. Ha infatti sempre ritenuto che la realtà, e segnatamente la realtà umana, non possa essere esaurita dalla scienza, e richieda invece una costante attività interpretativa.. L'uomo, dunque, è chiamato ad essere scienziato della natura ed ermeneuta della cultura. Sarebbe però riduttivo non ricordare che i suoi contributi alla filosofia della scienza riguardano una pluralità estremamente diversificata di temi. Ad esempio, sono ddue studi pionieristici sull'applicabilità del teorema di Gödel al diritto. Gödel aveva scoperto che non si può dimostrare la coerenza di un sistema all'interno del sistema stesso; M. ritiene che, almeno analogicamente, la scoperta di Gödel possa applicarsi al problema della fondazione di un sistema deontico. Uun'autorità non può legittimarsi da sola in modo formale e, dunque, anche il diritto richiede fondamenti esterni (etici, non emici): l'efficacia e la giustizia. Ha realizzato alcune traduzioni fondamentali. E forse il suo contributo maggiore alla storia della filosofia è consistito proprio in un'opera che combina traduzione e ricostruzione critica, ovvero l'opus postumum di Kant. Tale opera affronta questioni teoriche tutt'oggi aperte (soprattutto nella fisica e nella biologia teoriche), come il problema della forma degli oggetti solidi o il problema del “vivente,” cioè il problema della vita in quanto tale e non ridotta a semplice. Ha curato poi le edizioni di opere di Leibniz: si è trattato di un ampio lavoro che si è raccolto in "Scritti politici e di diritto naturale" "Leibniz e des Bosses" "Saggi filosofici e lettere" e "Saggi di teodicea: sulla bontà di Dio, sulla libertà dell'uomo, sull'origine del male.” La sua estetica, pur nella varietà dei temi trattati, rimanda ad una problematica essenzialmente ontologica: lo svelarsi dell'ente. Cioè, l'opera d'arte è heideggerianamente concepita come il modo attraverso cui gli uomini possono cogliere il passaggio dal nulla all'essere.  Di estetica è "Goethe e il suo diavolo custode", edito per i tipi di Adelphi. Al centro di questa ricerca vi è la figura di Mefistofele, analizzata in tutta la sua profondità e capacità genealogica.  Nei suoi volumi sull'estetica della musica sviluppa la tesi affascinante che ascoltare la musica è un ascoltare il silenzio. Grande è la potenza significante di ciò che non significa nulla, perché è il nulla a far emergere l'essere delle cose. E la musica e la luce si situano proprio in questo iato insuperabile fra l'essere e il nulla. Entro i suoi molteplici contributi alla filosofia civile, si staglia netta, per importanza e originalità, una triade di saggi edicati a quello che potremmo chiamare "stato spirituale dell'Occidente". Si tratta di opere scritte in un periodo dunque estremamente critico per l'Italia, ma che mantengono ancora una grande attualità. Fa percepire al lettore il pericolo valoriale in cui è venuto a trovarsi l'Occidente e pone in essere una critica serrata alle ideologie totalitarie o nichiliste. In questo senso, vi è un'aria di famiglia con i lavori di quei filosofii come Horkheimerche ha prospettato i rischi di un'eclisse dell'individuo nella società tecnologica di massa. Un articolo sul Corriere della Sera  rettifica sul Corriere della Sera  smentita sul Corriere della Sera. Saggi: “Bergson, Torino); “La filosofia trascendentale” (Bibliopolis, Torino); Leibniz e Des Bosses, Torino); “L'oggettività nella scienza e nella filosofia contemporanea, Torino; L’esperienza” (Trieste); Dio nel "Libro d'ore" di Rilke, Olschki); “Dialettica della libertà, Napoli); “La speranza nella rivoluzione, Milano, Vincenzo Filippone-Thaulero, Salerno Temi e problemi della filosofia, Roma, Perché punire, Milano, Cancro in Occidente, Milano, La voce, la musica, il demoniaco. Con un saggio sull'interpretazione musicale, Spirali, Filosofia del denaro, Roma, Elzeviri swiftiani, Spirali, La mia prospettiv, Barone; Melchiorre, Gregoriana Libreria, Gioco e lavoro, Spirali, La speranza nella rivoluzione, Spirali); “Nazionalismo”; S. Cotta, Japadre, Perché leggere Plotino, Rusconi); Tipologia dei sistemi e origine della loro unità, Lincei, Orfeo e il suo canto. Scritti, Zamorani,  Il nulla, la musica, la luce, Spirali, La fedeltà ermeneutica, Paoletti Laura, Armando, Per una cultura dell'essere, Armando L'uomo animale ermeneutico, Giappichelli, Le radici classiche dell'Europa, Spirali, Goethe e il suo diavolo custode, Adelphi, Privacy e dignità dell'uomo. Una teoria della persona, Giappichelli, Plotino, Bompiani, Perché punire. Il collasso della giustizia penale, Liberi libri, Introduzione a Leibniz, Laterza,  In tre giorni, Mursia,; La filosofia, Marcovalerio, Kant Bergson. quotidiano  Ideazione, il fatto quotidiano. 3del portavoce dell'Opus Dei sulla non appartenenza alla Prelatura dell'Opus Dei, su archive ostorico.corriere. Vittorio Mathieu. Mathieu. Keywords: al di la del bene e del male, la fedelta ermeneutica, l’uomo animale ermeneutico, il demoniaco, l’angelo custode, il demonio custode, il diavolo custode.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Mathieu” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Matraja – grammatica razionale – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Roma, Lazio. Una lingua numerica viene progettata da M. nella sua “Genigrafia italiana: nuovo metodo di scrivere quest'idioma affinché riesca identicamente leggibile in tutti gl’altri idiomi del mondo” (Lucca, Tipografia genigrafica), lingua di cui discusse più tardi anche La Société de Linguistique. M. è l'unico ideatore ITALIANO di una lingua razionale a essere preso in considerazione da questa ‘société’ galla nel corso del dibattito sulle lingue ausiliarie. La Genico-grafia, lett. 'scrittura generale' e di cui ‘genigrafia’ è la forma sincopata -- è un modo di scrivere che non ha relazione con le parole e che permette di comunicar tutti i concetti senza dipendenza dall'idioma ne dell’emittente o del recettore, ma di un modo, che il messaggio risulta interpretabile in tutti quelli del mondo. Nasce quindi come progetto di lingua universale che si prefigge di comunicare chiaramente, ma che non è concepita per sostituire gl’idiomi presenti nelle varie nazioni. Si nota che l'ordine e il modo in cui M. nomina i grandi filosofi, Cartesio, Leibnitz, Wolfio, Wilkio, Kircher, Dalhgarne, Beclero, Solbrig, e Lambert, è lo stesso con cui SOAVE (vedasi) li cita nelle sue Riflessioni: “da Cartesio, Leibnizio, Wolfio, Wilkins, Kirchero, Dahlgarne, Beclero, Solbrig, e Lambert”. Interessante è anche il fatto che di seguito aggiunga: “e Demaimieux e RICHERI (vedasi), oggi Richieri, anche Richer), di TORINO. Maimieux pubblica i suoi studi sulla lingua universale dopo Soave e RICHERI (vedasi) prima. M. quindi dove certamente conoscere (oltre agl’ultimi due filosofi) anche il lavoro di SOAVE (vedasi), vista l'evidente citazione. Decide di non farne nome. Anzi, dopo aver sostenuto che al momento della stesura dei lavori dei filosofi sopracitati non è ancora giunto il giusto momento per comporre una tale lingua, asserisce che finalmente quel momento è arrivato e che lui, ha adempiuto positivamente tale onere – “while lying in the bath, I would presume” – Grice. Dopo aver proceduto all'analisi strutturale di “alcuni idiomi,” – cf. Grice, ‘some establised idioms, like ‘pushing up daisies’ – M. asserisce che e possibile riconoscere nei vari sistemi linguistici delle caratteristiche ricorrenti denominate concorrenze generali - quelli che oggigiorno chiameremmo universali linguistici - da questi comunemente  condivise. Molte di queste caratteristiche sono ad oggi discutibili. Ogni idioma umano concorre nelle cose seguenti. Nell’idea essenziale delle cose. Ogni dizionario nazionale da di queste cose una MEDESIMA DEFINIZIONE (Grice: “bachelor”, ‘unmarried male’ – cf. Strawson, “Anglo-linguistic” – “into any language into which it may be translated” – cf. Jones on Welsh not having the concept of ‘I’, but of ‘the self’ (criticised by Grice’s pupil Flew) -- e solo diversa nel suono delle parole (“shaggy,” hairy-coated – revolution, revoluzione. Nell'origine, poiché tutti gl’arii occidentali sono figli più, o meno immediati del latino, di cui ne confessano la discendenza, tanto per la sua grammatica – morfo-sintattica --, quanto con la edizione del suo dizionario etimologico comparato coll’idioma volgare.  Nel mezzo istrumentale, con cui comunicano in distanza (‘tele-mentazionale,’ nelle parole di McGinn, of Oxford) i suoi concetti, poiché tutti usano dell'alfabeto originale. Nel modo di rap-presentare nella carta i sopra-detti concetti poiché tutte le nazioni lo eseguiscono per mezzo del discorso o meglio, la conversazione, espresso conforme al genio di ciascuno idioma.  Nella TESSITURA (o implicatura) del discorso e la conversazionae; poiché è indiscusso, che non solo le nazioni del mondo antico, ma ancora ITALIA, senz'altra istruzione, che la infusale dalla NATURA, lo dividono egualmente nelle  medesime parti. Nella generale ammissione, ed egual valore delle cifre aritmetiche, per esprimere le quantità numeriche della scuola di Crotone. Nell'uso universale delle medesime note ortografiche per VIVIFICARE (o accentuare) il discorso o la propria mozione conversazionale, rappresentato dai caratteri nazionali; come ancora quello delle cifre scientifiche usate dalle nazioni culte. Nella comune accettazione finalmente della carta rigata per comunicare inerrabilmente le note musicali: Home, home, sweet, sweet home. Queste caratteristiche, proprio perché considerate universali, non possono che essere presenti anche nel sistema immaginato da M. Si nota poi che con la sua lingua non è possibile comunicare attraverso l'uso della parola, giacché, a detta di M., questa mal si presta  alla comunicazione precisa – cf. Grice’s irritation on dialect speakers saying ‘soot,’ when they mean ‘suit’.  M. distingue nove parti del discorso -- articolo, nome (“shaggy”), pronome, avverbio, verbo, participio, preposizione e interiezione -- a cui associa un numero da I a VII, che, in esponente alla “caratteristica” - con accezione leibniziana, cioè al “segno” - determina la parte del discorso di cui questa fa parte.  Ogni idea deve essere assolutamente riconoscibile ed espressa da una “caratteristica” specificata fino alla sua ultima differenza da cifre numeriche, che sempre la precederanno a guisa di coefficienti algebrici. Cf. Grice’s subscript notation for ‘She wanted him – She-1 wanted-2 him-3” (Vacuous Names). Questi co-efficienti vanno letti separatamente gl’uni dagl’altri, mai assieme. Ad esempio il coefficiente 123 si legge 'uno due tre', e non 'centroventitré.’ Al contrario, vanno letti assieme nel caso in cui seguano la caratteristica e ne siano quindi esponenti. Poiché nella genigrafia italiana di M. le caratteristiche esauriscono tutto l'esprimibile in loro potere, non è  necessario l'uso dell’articoli – cf. Grice on the definability of ‘the’ in terms of ‘some (at least one) – apres Peano. Il genere del nome deve essere sempre specificato (A = maschile, e. g. aquila A; B = femminile, e. g. cane F; C = neutro – e g. ‘rain N’. I nomi possono essere singolari o plurali (1 = singolare – ‘some (at least one), ‘re’, il re di Francia; 2 = plurale, i re di Francia) e avere sei casi (1 = nominativo;  2 = genitivo; 3 = dativo; 4 = accusativo o causativo; 5 = vocativo; e 6 = ablativo). Ne consegue che il nome deve  sempre essere preceduto da due cifre, dette co-efficienti, la prima delle quali indica il numero e la  seconda il caso.Si distinguono nelle due classi. Sostantivi (comuni – shaggy thing’ -- e propri – The Shaggy One. Se il sostantivo comune non subisce alterazione va indicato con la caratteristica che il dizionario di M. vi assegna, dopo i co-efficienti stabiliti. Se, ad esempio, al concetto di 'gatto' e associato il carattere (accezione leibniziana)  «G», esso si rappresenta “A11G.” (cf. Grice on K as ‘king’). Un sostantivo comune poi puo essere alterati. Il sostantivo diminutivo si indica *triplicando* la caratteristica del sostantivo -- es.  «A11GGG» 'gattino'. Nel sostantivo aumentativo si la duplica: gattone: A11GG. Il sostantivo apprezzativo si segnan una riga sotto la caratteristica -- es. «A11g» 'gattuccio.’ Il sostantivo disprezzativo si indica ponendo *due* righe sotto  la caratteristica: gattuzzo – A11gg.  Se il sostantivo comune deriva d’un verbo (‘shag’, ‘shaggy’) e detto ‘sostantivo verbale’ – es. amare > amore, e non amazione). Il sostantivo comune si dice “nominale” se deriva d’un aggettivo (buono › bontà, bonitas – but cf. Grice on Plato, horseness. Per non ampliare ulteriormente il vocabolario, basta sovrapporre una linea sopra la caratteristica del verbo qualora questo indica un sostantivo verbale (se per esempio 'amare' = «A» allora l'amore è  «-A»); *due* linee (--B) qualora indichi sostantivo nominale (bonta). Il sostantivo proprio si indica per esteso corsivo nella lingua dello scrivente e, nei manoscritti, devono essere rigati al di sotto (es. “marco”, o “pietro” o “paulo”) di modo che il recettore capisce che si tratta di un nome proprio. Gl’aggettivi (‘shaggy’) possono essere originali, se non derivano da alcuna parte del discorso, o al contrario derivati. S’il nome aggetivo deriva da un nome sostantivo (es. virtù > virtuoso) si indica con la caratteristica del sostantivo ma in corsivo e, se in manoscritto, rigandola al di sotto una volta. S’il nome aggetivo derivata da un verbo (es. amato > amatorio) si indica con la caratteristica del verbo ma in *semi-gotico* e, se in manoscritto, rigandola al di sotto due volte. L’aggettivp deve concordare con il sostantivo in genere, in numero, e in caso (“ho visto i promessi sposi M M”).  Esistono due differenti specie di nomi aggettivi: graduali -- cioè di grado positivo, comparativo - ottenuto dalla mera *duplicazione* del carattere - e superlativo - ottenuto dalla *tri-*plicazione del carattere -- e numerali (cardinali, ordinali, distributivi - cioè quelli che noi chiameremmo frazioni o numeri razionali, che si indicano con numeri arabi rigati nella loro parte superiore - e molteplici (‘a double burgher’)- che veicolano i significati di doppio, triplo, quadruplo, ecc. – ‘a triple paradox’ --, e che sono scritti come gl’ordinali, ma rigati nella parte inferiore. Il pro-nome deve possedere tutte le caratteristiche del nome sostantivo che sostituisce e concordare con esso in genere, caso e numero. Ve ne sono di due tipi. I pronomi primitivi sono *personali* - a sostituire le persone - che a loro volta si distinguono in relativi, dimostrativi e indeterminati – o pronomi *reali* - a sostituire le cose. Un pro-nome *derivato* puo essere o possessivo o  relativi. Ogni pronome ha una caratteristica propria inconfondibile. Non è necessario indicare caso, numero e genere sulla caratteristica del pronome qualora questi concordino con quelli del nome. Se invece il caso *non* concorda, si scrive solo quello. Ogni avverbio, parte dell'orazione indeclinabile, ha una caratteristica associata peculiare e inconfondibile. Gl’avverbi si dividono in originali -- che non hanno bisogno di specificazioni -- e derivati, indicati con la caratteristica della parte del discorso da cui derivano, ma in corsivo.  Quanto ai gradi di comparazione, questi vengono indicati come si fa pel nome aggettivo. Ogni verbo e di voce attiva ed e rappresentato d’una sola specie di caratteristica. Il verbo – che ha la funzione di predicato – accezione leibniziana -- dove concordare nel numero (singolare o plurale) coll nome sostantivo suggeto, da cui derivano la coniugazione. La coniuazione si compone del modo -- Esistono quattro modi -- infinito , indicativo , imperativo (3) e congiuntivo  (4) -- e questi sono indicati da una cifra co-efficiente. Il tempo puo essere presente (1), preterito IM-perfetto (2), preterito PERFETTO semplice (3) solo all'indicativo -, preterito perfetto COMPOSTO (4), preterito PIU CHE perfetto (5), e futuro (6). I numeri nella coniuazione puo essere singolare (1) o plurale (2). La persona nella coniugazione e prima (1), seconda (2) o terza (3) – la porta sta aperta (e persona?). Ognuno di questi co-efficienti deve essere scritto prima della caratteristica specifica del verbo che si intende usare. Il participio dove essere ben distinguibili, così come le altre parti del discorso. Ne esistono di cinque tipi: presente – IMPLICANTE (1), preterito IMPLICATO (2), futuro attivo IMPLICATURUM (3), futuro passivo IMPLICANDUM (4), gerundio IMPLICANDO (5), e indeclinabile.  Alla caratteristica del verbo somo premessi il co-efficiente che indica il TEMPO del participio e il co-efficiente zero, per distinguerlo dal resto dei verbi. È necessario inoltre, poiché essi si declinano anche come i nomi e gli aggettivi, indicare le caratteristiche di GENERE (IMPLICATO, IMPLICATA) e numero (IMPLICATO, IMPLICATI) che posseggono. La pre-posizione (e. g. ‘to’, ‘betweeen’ – both discussed by Grice: ‘does it make sense to speak of the SENSE of ‘to’? When I say, Jones is between Richards and Williams, do I mean in a mere spatial sense or in some moral ordering – does this change the sense? I don’t think so!) e una parole indeclinabili che determinano le relazioni che hanno tra loro le referenti delle parti del discorso.  Ogni preposizione ha carattere proprio e inequivocabile.  Ogni interiezione ha un carattere particolare.  La congiunzione, composta da una parola indeclinabile e breve, unisce parti diverse del discorso. Essa può essere avversativa (“She was poor BUT she was honest” – Grice), disgiuntiva (“My wife is in the kitchen or the bedroom” – Grice), alternativa, ecc. Anch'essa possede un carattere specifico. Note ortografiche e scientifiche  Anche la punteggiatura (segno grafico delle pause e delle enfasi del discorso) deve far parte di un sistema universale di comunicazione e Matraja sceglie di mantenere il sistema di punteggiatura in uso per la lingua italiana. Allo stesso modo, anche i segni matematici d'uso comune devono essere mantenuti come tali.  Esempio.  Una volta stilate le regole precedenti si dove essere in grado di trascrivere in lingua genigrafica la frase. La natura insegna comunicare i concetti mentali per le parti dell'orazione del proprio idioma. L'azione che bisogna fare è una sorta di analisi grammaticale della frase, per cui, prendendo il soggetto «la natura» si converrà che esso è un nome sostantivo comune, femminile, singolare, nominativo (perciò «B°.1.1») e nella tabella essa è descritta come «A'. 236». Il risultato allora e «Bº. 1.1 A'.236». Lavorando allo stesso modo per tutte le parti del discorso presenti, alla fine si avrebbe:  B°.1.1 A':236 - 2.1.13Y5.37 -I. H5.37 - A°. 2.4. X' 83. N?. 32 - E7.3 - Bº  9. 2.4 P'. 257 - B°. 1.2 L'. 245 - A°. 1.2 A'. 174. D'. 42.88. Giovanni Giuseppe Matraja. Matraja. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Matraja”.

 

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Maturi: la ragione conversazionale e l’ implicatura conversazionale --  l’io e l’altro – io e l’altro – i duellisti – la scuola d’Amorosi -- filosofia campanese -- filosofia italiana -- Luigi Speranza (Amorosi). Filosofo.  Amorosi, Benevento, Campania. Grice: “There are two main things I love about Maturi, and I hate it when philosophers just dismiss him as an ‘Italian,’ or worse, ‘Neapolitan’ Hegelian – as when they refer to me as a member of the Oxford school of ordinary language philosophy! The first is his typically Neapolitan-hegelian school account of what he calls ‘autocoscienza recognoscitiva,’ which is something I do take for granted in my conversational theory of inter-ratiationality; the second is his elaboration of what he calls the passage from the non-human animal to the ‘human-animal’ in a sort of pirotological passage.” Grice: “What I like about him is that he considers each ‘stage’ as just as fundamental as the other; which implicates that actually the ‘higher’ stage has a ‘foundation’ on the previous one. Here ‘foundational’ makes perfect sense; and it gives Maturi an excuse to rather pompously label the concept: ‘forma fondamentali’ of the ‘vita.’ It’s exactly like my soul progression, -- which I explore in ‘Philosophy of Life.’” It is not surprising that Gentile loved Maturi and forwarded his “Introduction to philosophy.” sDocente prima nei licei e poi nell'Napoli. Dopo i primi studi nella cittadina natale, si trasferì a Napoli ove conseguì la licenza liceale. La frequentazione di Bertrando Spaventa e di Augusto Vera, lo introdusse alla filosofia hegeliana  destinata ad esercitare nel suo pensiero un'influenza duratura.  Laureatosi in giurisprudenza, tre anni dopo vinse un concorso per uditore giudiziario.  Ottenuta l'abilitazione, insegnò filosofia nei licei di varie città. Conseguita la libera docenza, tenne corsi di filosofia hegeliana nell'Napoli quando ritornò all'insegnamento liceale presso l'istituto Umberto I della città partenopea. Inizia una corrispondenza con Croce e Gentile, i maggiori esponenti dell'idealismo italiano, ai quali fu legato da un rapporto di amicizia. Saggi: “Soluzione del problema fondamentale della filosofia” – Grice: “He implicates there is one. Cf. Strawson, Solution to the problem of the king of France’s hair loss.” “Bruno.” Grice: “Italians seem to have a predilection for philosophers who were burned.” “L'ideale del pensiero umano; ossia, la esistenza assoluta di Dio.” Grice: “For Kant, and my friend D. F. Pears, existence is not a predicate, for another of my friends, J. F. Thomson, it is!”  “Uno sguardo generale sulle forme fondamentali della vita” Grice: “The key concept is ‘forma fondamentale’ as applied to ‘vita.’ --  Grice: “My favourite is his description of the ‘forma fondamentale’ of the ‘vita’ of the non-human animal to the ‘forma fondamentale’ of the ‘vita’ of the human animal.” L'idea di Hegel. Grice: “When I told Hardie that I was reading “The idea of Hegel,” he said, ‘what do you mean, ‘of’?” “For Maturi, it’s the same, and it is delightful to see that he can quote Hegel in ‘Deutsche’ without caring to translate! Them was the days when European languages counted!” La filosofia e la metafisica” Grice: “The ‘and’ is aequivocal: cf. Durrell, “My family and the animals.”“Principî di filosofia” (apparently by Spaventa – Maturi has an introduction to philosophy). Grice: “I must confess that I love the word principle, but again, Hardie would say, what do you mean ‘of’ – my principle of conversational helpfulness – or when I speak of the principle of conversational self-love and the complementary principle of conversational benevolence,” I’m not sure who I apply it to! The conversationalist like me, I s’ppose.”  “Una relazione scolastica.” Grice: “He doesn’t mean Russell.” “But what he means is a syllabus which is illustrative of Neapolitan Hegelianism!” Dizionario Biografico degli Italiani, riferimenti in. Mario Dal Pra, Milano, Bocca, Guzzo, Brescia, Morcelliana, A. Gisondi, Forme dell'Assoluto. Idealismo e filosofia tra Maturi, Croce e Gentile, Soveria Mannelli, Rubbettino, G. Giovanni, "Filosofia hegeliana e religione. Osservazioni", Benevento, ed. Natan,.  Hegelismo Idealismo Neoidealismo italiano. G. Calogero, Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Dizionario Biografico degli Italiani,  Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. LA  FILOSOFIA DI BRUNO, Festa letteraria  nel T{_. Liceo di Trapani  AVELLINO   TIPOGRAFIA TULIMIERO. Bruno appartiene alla illustre falange degli  eroi del Risorgimento . I quali, scuotendo il pesante giogo,  che gravava da lunghi secoli sullo spirito umano, inalberarono la bandiera di quella indipendenza e sovranità del  pensiero, donde si origina tutta quanta la civiltà moderna.  La più parte di questa illustre falange di eroi furono figli dell’ Italia nostra, ma,la figura più spiccata, il genio  più alto e più originale, la tempra più ferma e più ga- i  gliarda, che allora onorasse l’Italia e in cui si annunziasse più chiara la bella aurora del nuovo spirito del mondo, fu senza fallo il Bruno.   Ma Bruno, o Signori, non fu soltanto un grande eroe;  egli fu eziandio un gran filosofo. Anzi, esprimendo liberamente il mio pensiero, aggiungerò che, sotto un ceno riguardo, Bruno è il piu g rande filosofo italiano. Imperocché, fra tutti i nostri pensatori, quello che è penetrato  più addentro nei segreti della scienza, quello che più profondamente ne ha compresa la vera natura, quello che  più d’ogni altro ha sostenuto a spada tratta e a visiera levata gli etem.i dirilt i Jclla Ugjfipe si è appunto il  filosofo di Nola. Egli è vero che, se si considera il Bruno  per ciò che riguarda la trattazione speciale e determinata  delle singole dottrine filosofiche, si deve confessare che,  per questa parte, egli si trova inferiore a molti altri; ma,  sejij)on mente alla sostanza del pensiero speculativo, bisogna allora convenire che questa sostanza, come c ò nel  Bruno, non c’ è in nessun altro filosofo italiano. In questo discorso io non posso trattenermi su tutti  gli aspetti del Bruno, perchè, quando si tratta di un personaggio gigantesco e moltilatero come questo, è già ben  troppo, se si piglia ad abbozzarne un lato solo nella brevità del tempo, di cui io posso disporre. Costretto adunque a limitarmi, io mi farò a guardare nel Bruno soltanto  la stia dottrina filosofica. E fo questa scelta tra perchè è la  filosofia quella, che costituisce il titolo maggiore della grandezza del Nolano, e perchè questa è la scelta, cui mi astringe con debito speciale il posto, che ho l’onore di occupare in questo liceo. Signori, se noi ci facciamo a considerare in un modo  generale il carattere proprio della speculazione nel periodo  del Risorgimento, scorgiamo soprattutto due cose. In primo luogo, tutti questi filosofi, quantunque con forze disuguali, pure, chi più chi meno, combattono la Scolastica.  In secondo luogo, questi stessi filosofi, se da una parte  combattono la Scolastica, dall’ altra ciascuno di essi esplica  in certa guisa, o almeno avvia la esplicazione delle profonde esigenze, che in quella si acchiudono. Ma, fra tutti  questi filosofi, ò Bruno quello, che più fieramente guerreggia la Scolastica, e nel medesimo tempo è lo stesso Bruno quello, che più di tutti gli altri traduce in atto, per  quanto è possibile ai suoi tempi, le esigenze poste dalla  Scolastica nella storia della filosofia.   Per occuparmi adunque, con quella brevità che sappia maggiore, della filosofia Bruniana, io devo innanzi tutto  accennare quale sia la posizione del pensiero filosofico nella  Scolastica, e quali siano quelle esigenze dell’attività speculativa, che in siffatta posizione si rivelano.   Ebbene la posizione del pensiero filosofico nella et  |^^ca^ è la seguente. In questa filosofia l’intelletto concepisce la verità come es istente della natura e f  dell’ uomo; c quindi considera tanto F una che P altro come affatto destituiti di ogni elemento divino. La natura,    Wi   Mimi* /sJaVu'M   W” te  1 dinanzi allo intendimento scolastico, non ha valore di sorta;  essa è pura ombra, puro giuoco, e onninamente sfornita di qualsiasi significazione ideale ed assoluta. Per la stessa ragione, l’uomo è considerato come una semplice creatura  e come essenzialmente contaminato dalla colpa: tutto quello che riguarda 1’ uomo, tutto che gli si attiene in proprio  comecchessia non è altro che miseria, abiettezza, vanità.  Per tal modo, dinanzi allo intendimento scolastico, Dio resta spogliato di tutti quei principii ideali, che si svolgono  nella natura e nello spirito umano; appunto perchè tanto  il mondo naturale che il mondo umano sono considerati  come una sfera ed una evoluzione del tutto estrinseca al1 assoluto, e non già come la estrinsecazione propria del1 assoluto medesimo e la effettuazione sempre più verace    della sua unità (i). »   Intanto, mentre da una parte il pensiero scolastico    (l) « In der tibersinnlichen Welt war keine Wirklichkcit dcs  denkenden, allgeuaeincn, vernùnftigcn Selbstbewusstseyns anzutreffen:  in der umnittelbaren Welt der sinnlichen Natur dagegen keine Gòttlichkeit, weil sie nur das Grab des Gottes, wie der Gott ausser  ihr, war. Gott war wohl im Selbstbewusstesyn, dodi von Aussen  und zugleich ein ihm Anderes, eint andere Wirklichkeit: die Natur  von Gott gemacht, sein Geschòpf, kein Bild seiner » (Hegel, Geschichte der Philosopliie, Zweiter Theil, S. 178, 204, Zweite Auflage). rimuove in tal guisa e discaccia la verità da tutti gli esseri, e quindi anche da £è stesso, dall’altra parte poi ha  la pretesa di voler comprendere la verità medesima colle  semplici forme vuote ed astratte della propria attività. Questa pretesa è quella che spiega perchè gli Scolastici dettero tanta^ im portane d lo^iudio^ldwPgllsi^rg, fletto, cioè,  al^) studio ^ di_g^m^^|^ch£poi a ragione fu appellata logica scolastica. Ed in effetti dovea esser cosi, perchè quante  v volte, ad onta che si sostiene essere la verità estrinseca  al pensiero, si fa tuttavia ogni sforzo per arrivare a determinarla mediante le forme proprie del pensiero, egli è  giuocoforza che tutto il lavorio preliminare e fondamentale della speculazione si faccia consistere nello studio di  queste forme.   Considerando però attesamente questa posizione del 9   l’intelletto scolastico t non si può non iscorgere in essa  una profonda e radicale contraddizione. Imperocché, affermando che la verità è affatto l«ori del mondo, quella ragione, che è nel mondo, dovrebbe abbandonare qualsiasi  aspirazione alla conoscenza di essa, e quindi rassegnarsi a  non cercare altrove il proprio obbietto che nella bassa  sfera della esistenza puran^nte fenomenica e peritura. Ma  la Scolastica, ardente come è dell’ amore della verità, e  profondamente agitata dal bisogno dell’ eterno c dell’ as     ro    soluto, non potrebbe, per certo, acconciarsi a questa d 9   miliante condizione. Ed è per questo die, quantunque ella  abbia collocata la verità fuori della natura e fuori dello  s pirito, tuttavia si fa a, cercarla con un ardore indescrivibile,  e il cielo, in cui intende a trasportarla, si è appunto il cielo  del pensiero. Ma, siccome un simile tentativo quando si  è stabilito un ra pporto di asso luta estrinseche zza tra la verità  ed il pensiero deve tornare necessariamenie infruttuoso  ed inane, cosi è che, mentre la Scolastica si argomenta con  tutte le sue forze di raggiungere la verità, non riesce che  a notomizzare le forme del proprio intelletto, e, in vece  della verità, non ottiene altro che tritumi, sottigliezze ed  astrattaggini. Sotto questo rapporto adunque si può ben  dire clic la j _^|^srica è una barbara filosofia dell’ intelletto  astratto, una filosofia senza contenuto suo proprio, una filosofia, che non offre nessun verace interesse ed alla quale  non ò più possibile ritornare (i).   Mi limito a queste poche riflessioni per ciò che ri [So hoch auch die Gegenstàndc waren, die sie (die ScholaStikcr) untersuchten, so cdele, tiefsinnige, gelelirte Individucn es auch  unter ihnen gab: so ist doch diess Ganze eine barbarischc Philosophie  dcs Vcrstandes, oline realen Inhalt, effe uns kein wahrhaftes Interesse  erregt, und zu dcr wir nicht zuruckkehren kOnnen » Hegel, Geschichte der Philosophie] riguarda il lato debole della Scolastica. Ma oltre questo lato   f? - -L.W -- 4'Ji i k - uli-^ .r-t - ‘   la Scolastica ne Ita anche un altro, ed è quello appunto  in cui, se io non m’ingannò, cpnsiste il suo vero significato, e-per cui essa si connette colle filosofie posteriori,  e trova nelle medesime il suo proprio esplicamento. Qui  intanto mi si permetta una breve digressione. Ordinariamente, quando si fa la critica di una dottrina filosofica, si  crede esser bastevole mostrare gli errori, che in essa si acchiudono. Eppure egli è un fatto che, in quella guisa stessa  che nel mondo della realtà etica il male ha la sua ragione e  il suo principio nel bene, cosi simigliantemente, nella realtà  storica del pensiero filosofico, l’errore ha la sua segreta  radice nella verità. Per la qual cosa la semplice confutazione dell’ errore non può costituire che il lato meramente  astratto e negativo della critica filosofica, il cui arduo e  gravissimo compito' consiste, in vece, nello investigare  quella verità, che si nasconde sotto lo involucro apparente  dell’ errore, e senza di cui terrore stesso non sarebbe possibile. La storia della filosofia, che è appunto 1’obbietto  della critica filosofica, e che ò critica filosofica essa stessa,  non è un’arena di dispute infeconde, non è una vicenda  di avventure di cavalieri erranti, clic si vadan battendo  soltanto per proprio conto, che si agitino e si affannino  senza scopo, e le cui gesta si dileguino, senza che resti di loro la menoma traccia. Egli è, nella stessa guisa, assolutamente falso che la storia della filosofia ci presenti lo  spettacolo di tale, che arzigogoli di qua, e di tale altro, che  almanacchi di là a suo proprio talento: egli havvi, all’ incontrario, nel movimento storico del pensiero speculativo,  una continuità ideale e necessaria, ed un procedere determinato dalle leggi stesse della ragione. Chi non è convinto di questo vero, chi non ammette questo governo della Provvidenza nella storia della filosofia, come nella storia dell’ umanità in generale, non. può intendere affatto il  valore intrinseco di nessun sistema filosofico, e non può  investigare, mediante la critica, quelle ragioni ideali, che  fecero apparire i diversi sistemi, e che, ad onta di tutte le  contraddizioni, fecero passare gli anteriori nei posteriori, come nella loro propria espressione e nella loro verità. È  con questa convinzione adunque che io mi fo a determina [Die Thaten der Geschichte der Philosophie.sind   nicht nur eine Saramlung von zufàlligen Begebenheiten, Fahrten irrender llìtter, die sich fur sich heruraschlagen, absichtlos abmOhen,  und deren W’irksamkeit spurlos verschwunden ist. Eben so wenig hat  sich hier Einer etwas ausgeklfigelt, dort ein Anderer nach Villkùr;  sondern in der Bewegung des denkenden Geistes ist wesentlich  Zusamraenhang, und es geht darin vernùnftig zu (Id. ib. Einleitung] re brevissimamente iMato vero della Scolastica, quel lato,  cioè, in cui consiste il significato storico e razionale della  medesima. Come ho già innanzi accennato, la scolastica fa due cose: da ^yjyyxt^e^one la verità fujp della natura e fuori  dello spirito, e dall’ altra si argomenta, benché indarno, di  trasformare la medesima in contenuto razionale. Ora io  domando in primo luogo: perchè la Scolastica pone la verità fuori della natura e fuori dello spirito? Ebbene la risposta vera per me è questa. L^^jcok^stica ha un profondo sentimento dell’infimtacmKretezza  dell’ Idea cristiana; essa sa che questa Idea è superiore alla  natura ed allo spirito finito, e che la sua realtà non è  quella isolata, astratta e fugace, che ha luogo nella sfera  delle cose sensibili £d illusorie. Egli è vero che, mentre la    Scolastica ha questo profondo sentimento dell’ infinita concretezza dell’Idea cristiana, dall’altra parte poi non si avvede che questa concretezza si trasforma in una mera astrazione, qualora le si sottraggano tutti quei principii, che  si manifestano nella natura e nella spirito; imperocché, in  tal caso, in vece di avere 1’ ente realissimo, la realtà delle  realtà, la idea delle idee, non si ottiene altro che un assoluto indeterminato, solitario e trascendente, un assoluto,  a cui fu tolto tutto quanto il regno della realtà e della vita. Ma la Scolastica non poteva accorgersi di questo errore; imperocché, non essendo ancora sceverata nella naura e nello spirito la esistenza ideale ed eterna dalla esistenza empirica e passeggera, essa non potea fare altro,  che quello che fece: dov ea porre P assoluto fuori della natura e fuori dello spirito.   Però, se i grandi pensatori della Scolastica ritornassero in questi tempi, nei quali la scienza ha messo in rilievo la forma eterna ed immutabile delle cose, certamente  essi non esiterebbero un istante a riconoscere la vita stessa  di Dio in tutto questo contenuto infinito ed imperituro  della realtà naturale e della realtà umana (i). Se adunque  la Scolastica vilipende e degrada in tal guisa la realtà della  natura e dello spirito, questo sbaglio non appartiene a quel  pensiero interiore, da cui essa è animata e a quelle ragioni  ideali, che l’hanno fatta sorgere nella storia, ma appartiene,  in vece, alla semplice posizione immediata e, dirò cosi,  provvisoria, in cui si muove. Quello che appartiene al suo  pensiero Interiore c profondamente speculativo si è il concetto, benché vago, di una più alta realtà, si ò il bisogno  di un mondo migliore, si è la esigenza di una natura spi (i) È inutile dire che questa scienza, di cui qui parlo, non è  certamente il trasformismo, i rituale, redenta, deificata, di una natura, in cui ci sia dato  ravvisare la realtà stessa di Dio e quindi scernere in ogni  cosa un’ idea assoluta ed immutabile. E difatti, se la Scolastica rifugge dal mondo, se lo dichiara una vanità, ciò  è perchè nella sua coscienza si agita 1* idea del vero mondo, di quel mondo, in cui ha luogo la vera presenza dell’infinito, e in cui perciò si trova realmente conciliato l’elemento mondano col divino.   Egli è vero che fu questa stessa idea quella, che produsse nel medio evo la più mostruosa confusione del divino e dell’ umano, e la più spaventevole barbarie, che immaginar si possa; ma egli è vero altresì che, in fondo a  quella confusione e a quella barbarie, vi è un significato  della più alta" importanza, vi è la sorgente di quella verace conciliazione, in cui consiste il fondamento incrollabile della vita moderna (i).   La seconda cosa, che troviamo nella Scolastica, si è lo ^   (i) Es hilft nichts, das Mittelalter eine barbariche Zeit zu nennen. Es ist eben eine eigenthùmliche Art der Barbarei, nicht eine  unbefangene, rohe, sondern die absolute Idee und die hòchste Bildung ist, und zwar durchs Denken, zur Barbarei geworden; was einerseits die gràsslichste Gestalt der Barbarei und Verkehsung ist, andererseits aber auch der unendliche Quellpunkt einer hòhern Versóhnung (Id. ib. Zweiter Thell, S.). sforzo di riprodurre il contenuto della fede in una forma  razionale. Ora io domando di nuovo: che cosa vuol dire  questo sforzo? Vuol dire, naturalmente, che la Scolastica, ad  onta di tutte le apparenze contrarie, non si accontenta affatto  di una verità inaccessibile, di una verità, che non sia fatta per  r intelletto umano. Quello, in vece, che essa cerca, quello,  a cui aspira ardentamente, si è appunto la forma razionale  della verità della fede, e tutta l’attività, tutta l’energia infaticabile delle sue profonde meditazioni non tende ad altro  che a tradurre queste verità nel linguaggio proprio della  ragione. Ed in effetti tutti i grandi pensatori della Scolastica non si accontentano della pura e semplice fede:  essi vogliono credere e credono davvero, ma vogliono  credere pensando ed intendendo; essi, come dice S. Anseimo, non cercano d’intendere per credere, ma credono per intendere; e tutto ciò perchè sanno che la religione è fatta per 1’ uomo, non per l’animale e che le  verità, che in essa si contengono sono state rivelate da  Dio, che è la ragione assoluta, e che perciò devono essere  necessariamente razionali (i). Egli è vero che gli Scola Hegel, parlando di S. Anseimo, dice cosi: Sehr merkwùrdig  sagt er, was das Ganze seines Sinnes enthàlt, in seiner Abhandlung  Cur Deus homo, die reich an speculationen ist: Es scheint stici fanno distinzione di verità intelligibile e di verità sovrintelligibile, ma questa distinzione ha tutt’altro significato da quello che si crede ordinariamente. In effetti la  Scolastica non fa questa distinzione, perchè forse ritenga  essere davvero sovrintelligibili in sè stesse quelle verità, che  essa chiama con siffatto appellativo, ma la fa in vece perchè, fino ad un certo punto, essa supera sè stessa, ed ha  una certa coscienza della posizione storica in cui si muove. In altri termini la Scolastica si accorge che quell’ intelletto,  di cui fa uso e i criteri logici, di cui dispone, non sono  sufficienti a far comprendere la natura e le determinazioni  della verità cristiana. Ma con tutto ciò ess? non si arrende e  non si scoraggia, ma si fa in vece a lottare gagliardamente  colla sua stessa posizione storica e dichiara, per cosi dire, col  fatto stesso delle sue profonde lucubrazioni, che 1’impotenza del pensiero non può essere assoluta ed insupera mir eine Nachlàssigkeit zu seyn, wenn wir ini Glauben fest sind,  und nicht suchen, das, was wir glauben, auch zu begreifen ». Utzt  erklàrt man diess fur Hochmuth; unmittelbares Wissen, Glauben hall  man fur bòiler als Erkennen. Anselmus aber und die Scholastiker   haben das Gegentheil sich zum Zweck gemaclit.Dénn der   Gedanke, durch ein einfackes Raisonnement zu beweisen, was geglaubt wurde das Gott ist —, liess ihm Tag und Naclit keine  Ruhe, und quàlte ihn lange.] bile. Ed è per questo che il perpetuo tormento, che travaglia quei {orti intelletti di Anseimo, di Abelardo, di Pietro Lombardo, di Duns Scoto, e via dicendo, è riposto  addirittura in quelle verità, che chiamano sovrintelligibili. Dal che si può scorgere che, in quehe mjjjafoU^ri^ ed  asmuu^jgmdella Scolastica, vi è un arditissimo ed immenso   tentatm^w ò il tentativo dell’ assoluta autonomia, del1’ attualità infinita della ragione. In altri termini, vi è quel  colossale tentativo, che poi produsse, sotto lo aspetto religioso, la Riforma, sotto lo aspetto sociale, la rivoluzione  francese, e che alla fine divenne filosofia tedesca e particolarmente filosofia Hegeliana. E fu appunto in questa filosofia che venne soddisfatta l’aspirazione divina del pensiero scolastico, e trovò il suo adempimento il vaticinio  di Cristo: Ego rogabo Patron et alitivi Paracletum dabit vobis, S piritimi Veritatis : ille vos docebit omnia.   Come è chiaro adunque da questi pochi cenni, quel1’ attività filosofica, che si agitava nella Scolastica, studiata  nelle sue intime ragioni, ha il significato di una duplice  esigenz a, che essa pone nella storia della filosofia. La prima è quella che ho già detta, cioè la esigenza di una naura ideale, di una natura spiritualizzata e in cui si possa  daddovero ravvisare il regno e la realtà di Dio. La seconda esigenza, la quale deriva dalla prima, si è  quella di un intelletto superiore, di un pensiero tale che,  contenendo in sè la verità, sia, per ciò stesso, in grado di  attingerla dal suo fondo medesimo e di provarla in un modo  assolutamente razionale. Ebbene tutta la storia della filosofìa moderna altro  \   non è che 1’ attuazione successiva e sempre progrediente  di questa duplice esigenza; e la prima, benché parziale, attuazione df essa si è appunto la filosofìa del Risorgimento. A me qui spetta di mettere in rilievo brevemente la  gran parte, che ebbe il Bruno nell’ attuazione di questa  duplice esigenza, £ di chiarire come egli, per servirmi delle  sue stesse parole, sia davvero nella mattina per dar fine  alla notte, e notì nellà sera per dar fine al giorno. È stato detto che ogni scoperta della scienza È una detronizzazione di Dio. Questo pronunziato è vero soltanto per rispetto  al falso concetto di Dio. Quanto al Dio vero, al Dio cristiano la  sentenza giusta è, in vece, che ogni scoperta della scienza non può^  essere che una nuova affermazione, una nuova prova della esistenza di Dio. cacaXcip  ^tf  cVi\>  Signori, il principio fondamentale della filosofia Bruniana è il seguente. Bruno concepisce Dio come essenzialmente creatore. Il che vuol dire che nella creazione il  Bruno non vede già un fatto accidentale ed arbitrario, nè  una verità di second’ordine, ma ci vede la essenza stessa  di Dio. Dinanzi alla mente di Bruno, Dio in tanto è quello  che^ è, in quanto crea; se non creasse, non sarebbe Dio,  perchè non farebbe atto di divinità. Il Dio del Bruno, in  somma, è il Dio cristiano, è il Dio creatore, o per dir meglio, è il Creatore. Anchejhniobe'p^nj pjqmi nostri. lia  conshi^gw^uestaveritj^igji^J^jjigjj^jj^jjj^jjh^^^la   ma nel Gioberti però questa verità non è accompagnata da una chiara coscienza. Gioberti dice sempre che 1 ’ atto creativo è la verità sup rema. e che nella  contemplazione di quest’ atto, tanto in sè stesso che nelle  forme particolari della natura e dello spirito umano, consiste appunto la vera riflessione filosofica. Il fatto è però  che, quando si* va a vedere, questa grande verità (e che  è realmente il principio e la radice di ogni verità), nella  filosofia di Gioberti, si riduce ad una semplice parola: Sulla imperl'ezioue di questo concetto come è nel Brnno  vedi in fine.] è un detto, di cui egli stesso non si rende conto, e che  perciò non gli giova nè alla sistemazione generale della  sua dottrina, nè, molto meno, alla trattazione speculativa  di una parte qualsiasi della scienza. In Bruno in vece  almeno fino ad un certo punto, la cosa non va così. E U v,»   per verità il Bruno dice nettamente: « In Dio il potere e il  f are è tutt’ uno . Egli non può essere altro che quello che  è; non può essere tale, quale non è; non può. .potere altro  che que llo che può: non può. volere altro che quello che  vuole, e necessariamente non può fare altro che quello  che fa. L’ ajone^ sua è_ necessaria, perchè procede data- -t~  le volontà che è la stes sa n ecessità. In lui libertà, volontà, necessità sono affatto medesima cosa, e il fare col  potere volere ed essere. Ed è per questo appunto che  egli arriva a concepire il principio universale del tutto  come unità di materia e forma. È vero che anche il De l’infinito Universo e Mondi, Opere itti. Wagner. Hegel, dopo di aver citato il bellissimo luogo di Bruno  (De la Causa, Principio et Uno, Dial. dove dice: « Se  sempre è stata l a potenza di far e, di produrre, di creare, sempre è  s tata la p o tenza di esser fatto, prodotto e creato; perchè l’una potenza implica l’altra ecc, soggiunge: Diese Simultancitàt der wir    l ujtl*   4/C [rifa  Gioberti ha detto che il principio universale non è nè  l’ idea, nè il fatto, ma il fatto ideale. Però questo fatto ideale del Gioberti non è che una espressione diversa del  lo stesso atto creativo, e perciò non aggiunge nessun  valore veramente filosofico al principio medesimo. Questo  principio, nella filosofia del Bruno, è la chiave di tutto il  sistema, è il centro vero c produttivo di tutta la sua dottrina, ed è come la fonte, da cui scaturisce liberamente e  consapevolmente tutta la ricchezza delle sue meditazioni.  Nella filosofia del Gioberti, in vece, quantunque la parola  non manchi mai, tuttavia il principio stesso dell’ atto creativo ci si trova, come dire a pigione, rincantucciato ora  in nn angolo, ora in un altro, senza aver mai la forza  di girare la mazza a tondo, di cacciare via tutte le rappresentazioni della coscienza ordinaria, e di dichiarare  solennemente che la casa della filosofia è casa sua.   Egli è d’uopo però confessare che, anche nella filosofia  del Bruno, questo principio non arriva a spiegare tutto   kenden Hraft und des BeWìrktwerdens ist eine sebi 1 wichtige Bestimmung; die Materie ist nichts ohne die Wirksatrilfeit, die Form also  das Verm&gen und innere Leben der Materie. Vare die Materie bloss  die unbestimmte Móglichkeit, wie k-ame man zum Be'stimniten? il suo valore. Ciò si può vedere, chiaramente quando si  osservi che, se da una parte il Bruno pone la rivelazione  di Dio come essenza stessa di lui, dall’ altra poi non fa  consistere tutta quanta la essenza di Dio in questa rivelazione medesima. Secondo Bruno, Dio rivela^ solo una  gran parte di sò stess o; un’ altra parte, quantunque minima e quasi ridotta ad un punto microscopico ed insignificante, resta però assolutamente irrivelabile. Dal che si  scorge che Bruno non sa disfarsi in tutto del vecchio sovrannaturale della Scolastica, e mettersi cosi pienamente  d’ accordo con sé medesimo. Imperocché, quantunque egli,  tr asfon d endo la vita di_ Dio nella realtà della natura, riduca quel sovrannaturale a minime proporzioni, lo assottigli,  lo scarnifichi e scheletrizzi in guisa da poterlo anche mettere in canzonatura ed abbandonarlo quasi balocco alla meditazione dei teologi, ciò non ostante lo lascia li come  qualcosa che non si estrinseca, che non cade nella creazione, che non diviene materia di quell’ atto assolutissimo,  nel quale, secondo lui stesso, consiste la vera essenza di  Dio. Quantuque però quest’ultima .ombra del vecchio Dio  tenebroso induca un grave difetto nella filosofia Bruniana,  tuttavia egli è da osservare che la correzione di questo  difetto è data già, implicitamente, nello stesso concetto,  che il Bruno si forma del principio universale delle cose. Ed è per questo che Spinoza, continuatore di Bruno, potò  sbarazzarsi totalmente di quel caput mortuum del medio  evo, e recare così a grado di esplicamento più compiuto  il concetto di Dio, o della verità che dicasi, come atto creativo. La necessità di questo esplicamento storico e razionale del principio del Bruno si può vedere agevolmente,  quando si rifletta che la idea di Dio come il Creatore importa che, non potendo egli avere una doppia natura, non  può, per ciò stesso, nulla contenere, che rimanga al disopra dell’ atto creativo, e non giunga a grado di esplicazione reale e vivente nella realtà infinita dell’universo.  Dire da una parte che al disopra dell’ atto creativo resta  nell’ assoluto qualche cosa, che non si rivela e non piglia  il suo posto nè nella natura, nè nello spirito, e dire poi  dall’altra che la essenza di Dio consiste nella rivelazione  ^di sè medesimo, sarebbero pronunziati contradditori. Spinoza adunque, rompendola assolutamente con quella falsa  idea dell’ estramondano, non fece che esplicare logicamente il principio fondamentale della filosofia del Bruno.   Da questo principio, di cui ho brevemente discorso  e che costituisce quello, che vi ha di più intimo nella filosofia Bruniana, come in ogni vera filosofia, perchè non  esprime questa o quella forma dell’ Idea, ma l’Idea stessa  nella sua intrinsechezza ed universalità, da questo principio, dico, ne scaturiscono due altri, c sono: la esistenza j /  eterna ed ideale di tutte le cose, e quindi la vera immanenza di Dio nell’universo. Questi due principii, veramente, non sono che due modi diversi di considerare, e  direi quasi di esprimere, lo stesso concetto; ma questi due  modi hanno una cosi grande importanza nella filosofia di Bruno e nella filosofia in generale, che io credo mio debito fare una parola e dell’ uno e dell’ altro. Cito un breve tratto relativamente al primo modo di considerare il  detto principio. Bruno adunque dice cosi: « Le sole  forme esteriori delle cose si cangiano e si annullano, perchè non sono cosi) ma delle cose, non sono sostanze, ma  delle sostanze sono accidenti e circostanze. Che se delle  sostanze si annullasse qualche cosa, verrebbe ad evacuarsi ^  il mondo. Nulla cosa si annichila e perde 1’ esserg^eflffi- Jj  to che la forma accideittidL£atSàQtS-0^£S2Ì£? P c ™ tiUV  to la materia quanto la forma sostanziale di che si voglia  cosa sono indissolubili e non annichilabili » (i).    Da queste poche parole, che ho citato, si può vedere,  senza una difficoltà al mondo, comedi Bruno sia davvero  un idealista di prima forza. Per Bruno ogni cosa, considerata nella sua forma interiore, è una natura determinaV. Dialogo 5-° e 4.° De la Causa, Principio et Uno.] ta, eterna ed immutabile; ogni cosa ha la sua idea. Tutto 1’ universo non è che una trama di principii o forme assolute, le quali si sviluppano e si rinnovano eterna  mente nella loro esistenza esteriore e sensibile, ma conservano eternamente la loro natura ideale ed incorruttibile. Per tal modo la essenza di tutte le cose dell’ universo non è niente di indefinito o di arbitrario. Tutto ciò  che è ha la sua legge, in fondo a tutte le cose vi è un  eterno statuto che le modera e governa; ed è questo statuto appunto quello, in cui deve travagliarsi la meditazione del filosofo. Egli ò vero che in tutti gli esseri vi ha  numero, differenze e moltiformiti, ma il numero, le differenze e la moltiformità di un essere qualsiasi altro non  è che lo sviluppo di un principio unico e fecondo; e quin di anziché importare mutazione o cangiamento nella na- .  tura di esso, ò in questo sviluppo, in vece, che si effettua e s’invera sempre più compiutamente la natura del1’ essere medesimo.   Signori, se Bruno avesse spinta più oltre la investigazione di questo principio, e si fosse fatto ad applicarlo alla storia, egli avrebbe potuto porre un secolo prima, almeno in un certo qual modo generale, quel gran  concetto, che forma la gloria di Giambattista Vico. E  s^pWtt^rió^che^èhah^uaidea. se tutto quello  che si svolge nell’ universo ha la sua legge, e come dire,  il suo codice eterno ed immutabile, anc he la storia dev e  a vere la sua legge e il suo statuto; e quindi deve esser  possibile la ricerca di questo eterno statuto della storia,  deve esser possibile, io voglio dire, l a^ filosofia della sto ria. Il Bruno però, bisogna confessarlo, non ha piena coscienza di tutti quei tesori, che si acchiudono nella sua dottrina. Ciò derivi, in parte, dal soverchio entusiasmo, ond’ egli si abbandona e si dimentica nella contemplazione  della infinita natura; e, in parte e principalmente, dalla  profondità stessa e dalla fecondità inesauribile dei suoi principi, dei quali, certamente, non si poteva avere ai suoi  tempi una chiara e perfetta coscienza.   Confessando però che il Bruno non giunse a questo  gran concetto del Vico, io debbo aggiungere che, con tutto  ciò, Bruno non è affatto inferiore a Vico; anzi, esprimendo liberamente quel che penso, dirò che Bqjqq, come  metafisico, gli $ di gran lunga superiore. Nel Vico que.  sto gran concetto della storia ideale ed eterna non si appoggia su di una metafisica seria e profonda, anzi questo  concetto è in assoluta opposizione colla metafisica del Vico.  E per vero, quanto a metafisica, il Vici) non esce dalla  posizione dello intendimento scolastico; e credo anche non  sia ingiustizia lo aggiungere che, se si paragona il filosofo 1AV la tettar  napoletano coi più grandi pensatori della Scolastica, questo riscontro non può riuscirgli molto favorevole. Dal che  si può inferire, che il gran concetto della storia ideale ed  eterna, se da un lato e per ragion di scoperta è tutto proprio del Vico, dall’ altro poi e per ragion di natura, esso  fa parte della dottrina del Bruno. Imperocché, quantunque  il Bruno non si sia innalzato alla contemplazione del disegno ideale della storia, tuttavolta è nella metafisica del  Bruno e non in quella del Vico il fondamento e la possibilità di siffatta contemplazione. Egli è vero che il merito del Vico non consiste soltanto nell’ avere ammessa    una storia ideale ed eterna, e perciò nell’ avere ricono- differisce essenzialmente da quella, che governa la natura. Nella natura, dice Vico, è Dio che ope ra, mentre nella  storia opera 1’ uomo, e pure, operati lo lui, compie il disegno eterno della storia, effettua gli eterni decreti della  Provvidenza. Cosi l’uomo, in questa nuova posizione, non  è soltanto /’ infinito effetto della infinita causa, non è semplicemente /’ eterna genitura dell’ eterno generante, ma è  eziandio qualche cosa di più. E in questa posizione soltanto è possibile la vera filosofia compiuta, la vera contemplazione di Dio come Causa sui. Questo concetto della  Causa sui, cioè della Causa della Causa non c’ è_^_davvero nell' assoluto Bruniano (come non c’ è neppure in  quello di Spinoza), quantunque sia appunto questo concetto quello, che travaglia incessantemente la sua coscienza e quello stesso di cui fa uso, come mostrerò in appresso, nella sua dbttrina della conoscenza e della libertà.   Tutto ciò adunque non si nega. Ma non si può negare però, d’ altra parte, che questa nuova e più alta posizione, in cui ci colloca la dottrina del Vico, è resa possibile soltanto dalla posizione Bruniana. Solo ammettendo l’Idea, come essenzialmente manifestazione di sè medesima, si può e si deve arrivare, quandochessia, al concetto di quella tale manifestazione, la quale esprimendo davvero V Idea, ed essendo essa proprio quello stesso che è  I Idea, e perciò rappresentando non più una manifestazione esteriore, ma il ritorno dell’ Idea in sè medesima, deve necessariamente essere governata da una legge affatto  differente da quella, che governa le manifestazioni esteriori, non effettuatrici esse stesse del principio assoluto.  Stando in vece alla posizione della metafisica'del Vico,  non solo non è possibile ammettere questa legge fondamentale della storia, ma non si può neppure ammettere  il concetto generale di una storia ideale ed eterna. Passando ora al secondo aspetto del principio che  sto esponendo, cito in prima un breve tratto del Bruno.  Nel primo dialogo della Cena delle ceneri il Bruno si esprime cosi: Noi « conoscemo tante stelle, tanti astri, tanti  numi, che son quelle tante centinaia di migliaia eh’ assistono al ministerio e contemplazione del primo, universale, infinito cd eterno efficiente. Non è più imprigionata   la nostra ragione con ceppi di fantastici mobili e motori.   Conoscemo che non è eh’ un cielo, una eterea regione immensa, dove questi magnifici lumi serbano le proprie distanze, per comodità de la partecipazione de la perpetua  vita. Questi fiammeggianti corpi sono que’ ambasciatori che  annunziano 1’ eccellenza de la gloria e maestà di Dio. Cosi  siamo promossi a scoprire V infinito effetto de l’infinita  causa, il vero e vivo vestigio dell’ infinito vigore, et abbiamo dottrina di non cercare la divinità rimossa da noi, se  l’abbiamo a presso, anfi di dentro, più che noi medesimi  siamo dentro a noi ».   Signori, questo principio della imma nenza di.Dio ne^Ja  natura e nello j>£Ìrito sorge la prima volta col Bruno nella  storia della filosofia. Fu Bruno il primo che si fece a cercare davvero la Divinità nell’ infinito mondo e nelle infinite  cose, e fece di questa ricerca la esigenza fondamentale e  lo scopo unico di tutto quanto il sapere filosofico. « Di questa infinita presenza di Dio nell’ universo, dirò colle  belle parole del nostro più profondo pensatore vivente,  nessun filosofo ha discorso con tanto entusiasmo e convinzione, quanto Bruno. La sua voce era come il primo  grido di gioia della natura che ora cominciava a scoprire  sè stessa e a conoscersi n#l suo reale valore. Premesse queste poche cose, io posso ora determinare il significato che ha nella filosofia Bruniana la dottrina dell unita dell universo. Ciò facendo, resterà meglio  dualità la importanza di quel poco che ho esposto finora.  Ma prima cito un breve tratto del nostro filosofo. « Quando l’intelletto, dice Bruno, vuol comprendere la essenza  di una cosa, va semplificando quanto può; voglio dire, da  la moltitudine si ritira, rigettando gli accidenti corruttibili... Cosi la lunga scrittura e la prolissa orazione non intendemo, se non per contrazione ad una semplice intenzione.  I.’ intelletto in questo dimostra apertamente come ne P unità consiste la sostanza de le cose, la quale va cercando o  in verità, o in similitudine. Quindi è il grado de le intelligenze, perchè le inferiori non possono intendere molte  cose, se non con molte specie, similitudini e forme; le superiori intendeno migliormente con poche; le altissime con SPAVENTA (vedasi), Saggi di Critica] pochissime perfettamente; la prima intelligenza in una idea  perfettissimamente comprende il tutto... Cosi adunque, montando noi a la perfetta cognizione, andiamo complicando la  moltitudine, come, discendendosi a la produzione de le cose,  si va esplicando l’unità. Quindi è che « ogni cosa che  prendemo nell’ universo, perchè ha in sè tutto quello che  è tulio per tutto, comprende in suo modo tutta l’anima del  mondo. E cosi non è stato vanamente detto, che Giove  empie tutte le cose, inabita tutte le parti dell’ universo.  È per questa ragione che « quelli filosofi hanno ritrovato  la sua amica Sofia, li quali hanno ritrovato questa unità.  Medesima cosa a fatto è la Sofia, la verità, la unità » (i).   La ragione di questo principio nella filosofia del Bruno risulta già chiaramente da quel poco che ho detto fin  qui. Imperocché se Dio è immanente nella natura e nello  spirito, egli è manifesto che quel principio, che si attua  nell’ uomo e che dà luogo a tutte le forme del suo sviluppo, non può, considerato in sè, essere altra cosa dal  principio che pone la natura. Ammessa la dottrina della  immanenza, /’ arte interna del pensiero, per servirmi delle  stesse parole del Bruno, deve necessariamente appartenere    (i) De la Causa, Principio et Uno] allo stesso artefice- interno della natura; e quindi quel principio, che forma i minerali, le piante, gli animali, deve  essere quello stesso principio, che pensa nell’uomo. Il che  vuol dire che, se da una parte tutte le forme della natura e dello spirito hanno una sostanzialità loro propria, una  loro natura specifica e diferenziale, dall’ altra cosi le prime come le seconde non possono essere che gradi diversi  della stessa unità fondamentale del tutto, di quell unità  della materia e della forma, del reale e dell’ ideale, in cui  consiste la radice di ogni esistenza. Ed ò per tal modo  soltanto che si può cessare l’assoluta separazione di spirito e materia, di realtà consciente e di realtà naturale,  separazione che degrada tanto 1’ una che l’altra, e che fa  dello spirito qualcosa di astratto e d’inconcepibile, e della  natura un mondo senza vita, senza ragione e senza finalità.   Signori, per questa dottrina il Bruno è stato generalmente accusato di panteismo; ed anche in questi ultimi  anni la maggior parte di coloro, che in Italia hanno trattato del Nolano, si son fatti a rinnovare questa vecchia  accusa, senza però investigare seriamente, e spogli di preconcetti, il vero senso della dottrina Bruniana e il significato preciso della teoria panteistica. Io qui, naturalmente, non posso far la critica di questa accusa. Dirò soltanto alcune cose principali. E in primo luogo osservo che, anche quando il Bruno non fosse altro che un semplice panteista, bisognerebbe sapergli grado almeno per  questo: voglio dire che bisognerebbe sapergli grado perchè,  dop o le astrattezze della Scolastica, egli avrebbe posto almeno il principio della unità del mondo, e quindi ricollocata  la filosofia sul suo terreno naturale. Imperocché, si dica pure  tutto quel che si voglia, il principio su cui si fonda il panteismo, c che è l’unità dell’infinito e del finito, dell’ideale e  del reale, è quel principio, da cui appunto comincia la filosofia, e senza di cui nessuna filosofia è possibile. E per vero dal momento medesimo che comincia la speculazione  filosofica, e quindi la ricerca della essenza universale di tutti  gli esseri, comincia per ciò stesso una certa unificazione,  o identificazione, se così piace dire, di tutte le cose in un  principio unico ed assoluto. Questo principio adunque è  come la prima lettera dell’ alfabeto del pensiero; e chi non  ha pronunziato ancora questa lettera, chi, cioè, non si è  ancora innalzato a questo nesso universale in cui si unifica e cielo e terra, e che è come il pernio, a cui si appunta tutto quanto 1’ universo, chi, dirò colla bella immagine dell’ Hegel, non si è ancora bagnato in questo etere  purissimo della unità del mondo, deve essere ancora certamente assai lontano dall’ augusto santuario della coscienza filosofica (i). Fino a questo punto adunque la dottrina  panteistica, anziché essere un sistema particolare di filosofia,  é la filosofia stessa nella sua più intima essenza. Onde  è che, se una filosofia si differenzia da un’ altra, questa  differenza non può nascere dilli’ ammettere o non ammet tere l’unità, ma soltanto dal modo diverso di concepirla  e di determinarla; imperocché, come ha già detto bellamente il Bruno, medesima cosa affatto è la Sofia, la verità, P unità. La qual cosa è stata vista lucidamente anche  dal nostro acutissimo filosofo Roveretano, Rosmini. Il quale, pur respingendo da sé ogni possibile accusa  di panteismo, ha tuttavia sostenuto anch’egli un principio  unico universale, ed ha considerato tutte le forme della  realtà natur ale, della realtà upiana, e della realtà di Dio  come diversi modi di essere, come diverse determinazioni  del principio medesimo.   Che se poi noi ci facciamo a considerare la dottrina  panteistica non più rispetto a quell’ idea fondamentale che    Ile   r- <K  Wenn man anfangt ni philosophiren, muss die Seele zuerst  sich in diesem Aether der Einen Substanz baden, in der Alles, was  man fur wahr gehalten hat, untergegangen ist; diese Negation alles  Besondern, zu der jeder Philosoph gekommen seyn muss, ist die Befreiung des Geistes und scine absolute Grundlage.] in essa si contiene, e per cui il panteismo e la speculazione filosofica in generale fanno tutt’uno, ma rispetto a  quella determinazione particolare della stessa idea, dalla  quale solamente la dottrina panteistica attinge il suo significato e 1’ essere proprio di sistema speciale di filosofia, in  tal caso non possiamo avere che due soli ed opposti concetti di siffatto sistema. Imperocché, o il panteismo si concepisce come identificazione dell’ infinito col finito nella  sua immediatezza e quindi come deificazione di tutte le  cose, ovvero come risoluzione ed annullamento di unte  le differenze ideali dell’ universo nella vuota identità della  pura sostanza. Il primo concetto del panteismo, che è appunto quello che hanno avuto in mente i nostri critici del  Bruno, non trova affatto qualsiasi riscontro nella filosofia  del Nolano. Bruno non ha mai confuso l’infinito col  finito, non ha fatto mai 1’ apoteosi della esistenza caduca  e corruttibile delle cose, non ha mai deificato le forme  accidentali, esteriori e materiali, le quali per lui, come  per ogni vero filosofo, non sono cose, ma delle cose, non  sono sostanze, ma delle sostanze sono accidenti e circostanze. Bruno ha deificato soltanto /’ infinito mondo, la  infinita natura, le infinite cose, ha deificato la eterna genitura  dello eterno generante; la qual dottrina non ha nulla che  fare col panteismo. Questa dottrina è in vece eminentemente cristiana, anzi è la essenza stessa del cristianesimo;  e la negazione di questa dottrina non è solamente la negazione della vera filosofia, ma è la negazione altresì di  tutti i principii del sapere moderno, e della possibilità stessa della scienza in generale.   Ma c’è di più; imperocché questa pretesa confusione  dell’ infinito col finito non pure non si trova affatto nella  filosofia Bruniana, ma non ha nemmeno il suo riscontro  in qualsiasi sistema di filosofia. Tutta la storia della filosofia, per quanto è lunga e larga, non ci presenta alcun sistema, in cui si possa ravvisare questa strana confusione ; in quella guisa medesima che la storia della religione non ci mostra nessun popolo, che abbia proprio  adorato il finito come finito. Lo stesso Bruno, parlando degli Egizi, dice a questo riguardo, le seguenti memorabili parole: Non furono mai adorati coccodrilli, galli, Diejenigen, welche irgend eine Philosophie fiiir Pantheis mus ausgeben.. batteri. es vor Alleni aus nur als Faktum zu   konstatiren, dass irgend ein Philosoph oder irgend ein Mensch in  der That den Alien Dingen an und fur sich seiende Realitat, Substantialitat zugeschrieben und sie fur Gott angesehen, dass irgend  einem Menschen solche Vorstellung in den Kopf gekommen sei ausser  ihnen selbst allein. Id. Encyklopàdie. Vedi anche: Aesthetik, Zweiter Theil.]cipolle e rape, ma la Divinità in coccodrilli, galli, cipolle  e rape ». E parlando dei Greci, si esprime cosi: « I Greci  non adoravano Giove come fosse la Divinità, ma adoravano la Divinità come fosse in Giove; il che, come  ognun vede, è cosa assolutamente diversa. Quanto poi all’ altro concetto del panteismo, cioè a  quel concetto secondo il quale Dio non è altro che la  semplice unità astratta dell’ infinito e del finito, dell’ ideale  c del reale, egli è d’uopo riconoscere che una tal dottrina c’ è davvero nella storia della filosofia. Forse non  sarebbe difficile provare che questa dottrina, considerata  nella sua assoluta purezza non ha luogo, in una forma  veramente speculativa, che soltanto nella filosofia Parmenidea. Anche la filosofia di Spinoza, quando la si intenda  bene, non è poi addirittura quel rigido panteismo che ordinariamente si crede. Ma, lasciando stare queste riflessioni, il fatto è che nella filosofia Bruniana il princip io  dell’ unità dell’ ideale e del reale, il concetto della identità  non ha affatto quello stesso significato, che ha nella dottrina panteistica pnra. Imperocché nel puro panteismo questa unità esclude assolutamente ogni qualsiasi determinazione, ogni differenza, e perciò è la negazione di tutto   V. Spaccio della Bestia Trionfante, Dial.]quanto 1’universo intelligibile, mentre, nella filosofia Bru% niana, questa unità si muove, si distingue, si va specificando e, come dire, spezzando in tutte le forme della natura  e dello spirito. Ammettere questo dirompimento dell’unità  universale, guardare in tutte le cose un principio eterno ed  immutabile come forma vera e totale dell’ unità medesima,  riconoscere in somma un mondo infinito, tutto questo non è  affatto panteismo; anzi è la critica vera e positiva della dottrina panteistica. E tale è in fondo, considerata nel suo spirito, la filosofia Bruniana. Il che è tanto vero che BRUNO è arrivato fino a vedere cosa degna veramente della  più alta ammirazione — che la vera esigenza della filosofia, che il vero segreto dell’ arte, come egli dice, consiste  appunto, non già nel semplice innalzarsi all’ unità del mondo, ma nel procedere dall’ unità stessa a tutte le forme  differenziali ed opposte, in cui essa si va esplicando, e in  cui si manifesta la vita tutta dell’ universo. Profonda  magia, ha detto il Bruno, è trarre il contrario, dopo aver  trovato il punto dell’unione. Se adunque, io dico,  L’ Hegel dopo di aver citato questo passo di Bruno: « Aber  den Punkt der Vereinigung zu finden, ist nicht das Gròsste; sondern  aus Demselben auch sein Entgegengesetztes zu entwickeln, dieses  ist das eigentliche und tiefste Geheiranis der Kunst » soggiunge enfaticamente: « Dicss ist ein grosses Wort, die Entwickelung der Idee Bruno ha visto financo che il segreto della filosofia sta  nel tirare le differenze ideali dell’ universo dalla sua unità,  o, in altri termini, nel contemplare 1’ atto proprio del differenziarsi dell’ unità, quell’ atto, che, come egli dice, non  pure è potenza di tutto, ma è atto di tutto, come si può  sostenere che la sua filosofia sia panteismo ? Ha forse il  Bruno inabissate, ha forse estinte nell’ unità assoluta tutte  le forme ideali dell’universo? E non è vero in vece che  la esigenza della sua dottrina si è appunto quella di distinguere nell’ unità assoluta un mondo intelligibile, un universo infinito? Ovvero si vuol sostenere che il Bruno è  panteista sol perchè non ci ha presentato, ai suoi tempi,  in una forma veramente speculativa, tutto questo suo u è   niverso infinito? perchè, in altri termini, non ci ha dato  una filosofia della natura e una filosofia dello spirito ?  Una simile pretesa non sarebbe certamente degna di una  mente sana. Ma altro è dir questo, anzi altro è anche aggiungere che la dottrina di Bruno non è nemmeno un  sistema nel senso vero della parola, altro è affermare che    so zu erkennen, dass sie eine Nothwendigkeit von Bestimmungen  ist ». Geschichte der Philosophie, Zweiter Tchil.] 1’ assoluto Bramano sia addirittura come la notte, in cui  tutte le vacche son nere. Ma io mi avveggo, o Signori, di essermi soverchiamente dilungato su questo punto. Dirò dunque ora proprio di volo, prima di conchiudere, pochissime parole sull’applicazione di questi primi principi più generali della  filosofia del Bruno alla teoria della conoscenza e della libertà. Senza fare ciò non si può vedere la vera importanza di questa grande filosofia. Bruno si può dire pant eista in un senso solo, cioè nel senso  che nella sua filosofia manca il concetto della vera ed assoluta esistenza di Dio, manc^lconcettodiDio^conHSjjersonalità assoluta.   Il Dio di Bruno vive nell’ infinito universo, ma non ha una vita sua  propria come principio assoluto, non ha una sua realtà distinta,  nella quale si raccolga tutto il mondo intelligibile; inso mma il Dio del m Bruno non è l’Idea come autocoscienza assoluta, e perciò non è  ancora realmente Dio=Dio. Tutto questo è vero. Ma siffatta critica  della dottrina Bruniana si può fare soltanto dal punto di vista dell’Hegel, non già dal punto di vista de’nostri critici del Bruno. È  l’Hegel soltanto, che ha dritto di chiamare il Bruno panteista. La  spiegazione e la critica del Bruno, a me pare la seguente. Bruno^contempla Dio come cosmogonia, come attivitàcosmogonica (ciclo di origine), ma non contempla il cosmo come teogonia, come attività teogonica (ciclo di ritorno). Egli è vero che non c’ è cosmogonia senza  teogonia, come non c’ è intuito senza riflessione; ma c’ è teogonia e [In ordine alla conoscenza il Bruno insegna che la verità di essa non si ha e non si può avere immediatamente,  cioè nella sua forma originaria c primitiva, e finché dura il  carattere proprio della medesima. Il carattere di questo primo grado della conoscenza si è quello di essere legata alla  natura esteriore, sensibile, accidentale, e quindi è la estrinsechczza del pensiero a sè medesimo. Per potersi sciogliere da questi legami col mondo esteriore e fenomenico, e  giungere davvero a possedere sò stesso, lo spirito ha d uopo o della fede o della scienza. Ma, nella fede, l’uomo  non s’innalza alla verità colle sole forze della ragione e  in un modo assolutamente libero: nella fede 1 uomo, fino  ad un certo punto, accoglie in sè la verità come vaso o  recipiente, e perciò in guisa non corrispondente del tutto   teogonia, come c’è riflessione e riflessione. Ora il Bruno non arriva al concetto di quella forma del cosmo che non è solamente  una certa teogonia, ma che è la vera ed effettiva teogonia; non arriva al concetto del cosmo veramente teogonico; e perciò non arriva alla vera esistenza di Dio. Dunque la personalità assoluta di Dio,  in questa filosofia, è impossibile. Ma d’ altra parte neppure è possibile arrivare a questa idea, uscendo da Bruno assolutamente. È  sulla via aperta dal Bruno che bisogna camminare per raggiungerla.  Chi vuole adunque questa idea, accetti il Bruno, vada avanti, e la  troverà. ] alla vera eccellenza della propria natura. Nella scienza, al  contrario, lo spirito si eleva alla contemplazione della verità colla sola libera energia della sua mente, e produce  la coscienza di essa come vero artefice ed efficiente. Il  processo della contemplazione della verità consiste nel profondarsi nel profondo della mente e nel circuire per i gradi della perfezione, cioè nel percorrere col pensiero le diverse manifestazioni dell’ infinito vigore, e perciò nell andare non già dal finito all’infinito, o viceversa, ma nell’andare dall’infinito all’infinito. Lo scopo ultimo di siffatta contemplazione si è di capire quell ' atto assolutissimo  che t medesimo coll’ assolutissima potenza, e di effettuare  così la vera immanenza di Dio in noi colla virtù stessa  della nostra mente.   In conformità di questo concetto della conoscenza, Bruno determina il concetto della libertà nel modo che  segue. La verità e, la legge sono tutt’uno. Perciò, come VC/àU  la verità è intima allo spirito umano, cosi anche la legge  è intima all’umana volontà. Questa adunque non si può  considerare come una facoltà vuota ed indeterminata. D altra parte, nella guisa medesima che la verità non è posseduta dallo spirito originariamente c senza la sua stessa  attività, così anche la volontà non è oggettivamente libera, e quindi non è vera ed assoluta volontà, finché non si ò elevata alla legge ed alla verità. La verità adunqne è  il fondamento ed il contenuto della libertà. Fuori della verità, fuori della legge la vera libertà non è possibile. Per  tal modo la libertà non è arbitrio, ma è necessità. Questa necessità però non è esterna, non è fatalità, ma appunto perchè s’immedesima colla stessa verità, è necessità interna e razionale. M. non ha bisogno di fermarsi sulla importanza pratica di questo concetto bruniano della libertà.  Senza che il dica, ognun vede come in questo concetto  si acchiuda ad un tempo la critica della falsa libertà, e  della falsa autorità, e come sia appunto in questo concetto  che sta il fondamento della nuova vita sociale e il principio animatore di tutta la civiltà moderna. A me qui  spetta soltanto di chiarire brevemente il valore speculativo  di queste applicazioni dei principi metafisici del Bruno, e  di mostrare come in queste applicazioni si possa scorgere  il germe di una più alta filosofia. Ebbene egli è facile vedere che queste idee di Bruno, relativamente alla conoscenza ed alla libertà, più che  semplici applicazioni del suo principio metafisico, sono in  vece delle conseguenze, che hanno una portata di gran  lunga superiore allo stesso principio. Bruno in queste  applicazioni supera davvero sè stesso, egli va al di là dello jtesso suo punto di partenza. E per vero il punto  di partenza del Brudo è Dio come semplice atto creativo, Dio come semplice creare, e perciò come generare ; e quindi l’universo Bruniano è si la infinita,  la eterna creatura o genitura di Dio, ma non è altro  che la eterna, la infinita creatura o genitura di Lui. Intanto il concetto Bruniano della libertà e della conoscenza ci presenta una vera reazione sullo stesso principio  assoluto: esso importa un’ attività superiore al semplice  creare, importa un’ attività, che non è mera estrinsecazione del principio eterno delle cose, ma ò una effettuazione  vera del principio medesimo, come atto dello stessa creatura fi'). GIOBERTI (vedasi) ha detto ai giorni nostri, in un momento di profondo intuito filosofico, che l’uomo rende a Dio la pariglia; anzi egli ha detto anche in generale che l’atto creativo è essenzialmente atto teogonico. Ora  questo rendere a Dio la pariglia, questa forma di atto creativo, che è nel medesimo tempo atto teogonico, è appunto O meglio: come atto di Dio stesso, ma in quanto creatura.  Col linguaggio della religione si direbbe: come atto dello stesso  Padre, ma m quanto Figlio. Si sa poi che questo atto del Padre,  che è atto di lui in quanto Figlio, è quello che là la verità del Figlio e la verità del Padre ; e che questo atto è appunto lo Spirito: la  vera Ferità. quella idea, che noi non possiamo ravvisare nel principio  metafisico del Bruno, ma che però troviamo adoperata  nella sua dottrina della conoscenza e della libertà. Si può  adunque affermare che, nella filosofia del Bruno, le conseguenze contengono più delle premesse; ma siffatta contraddizione anziché menomare il merito del nostro filosofo, è appunto quella, se io non mi sbaglio, in cui si rivela la più alta potenza della sua speculazione. Nè varrebbe il dire che il Bruno non finisce come comincia; imperocché il Bruno, ha cominciato bene, come era possibile  ai suoi tempi, ed ha finito molto meglio. E se tra il Principio ed il Fine, tra 1’origine ed il Intorno la sua filosofia  non pone quell’ accordo, in cui consiste la vera Idea, di ciò  non si può fare un’accusa al nostro grande pensatore,  stante che un tale accordo è il risultato di tutta quanta la  speculazione moderna; e perciò non si può pretendere dalla filosofia del Bruno. Nè si può pretendere dal Bruno la  coscienza della contraddizione, che corre tra il suo principio metafisico e la sua dottrina della conoscenza e della  libertà, perchè una tal coscienza non poteva sorgere nella  storia, se prima i due estremi, cioè il Principio ed il Fine,  1’ Origine ed il PJtorno, non avessero spiegato separata-  mente tutto il loro valore e non si fossero presentati dinanzi al pensiero speculativo come le due somme ed opposte potenze (Teli* universo, 1’ una predominante nel mondo della natura, 1’altra in quello dello spirito. La filosofia cartesiana rivelò il potere del Trincipio, la filosofia Kantiana  (precorsa solo da Vico) mise in evidemza l’attività indi-  pendente ed assoluta del Fine, e fu perciò solamente la  posteriore filosofia tedesca quella, che potè innalzarsi alla  contemplazione del Principio-Fine, dell’ Origine-Ritorno, e  porre cosi un nuovo e più alto concetto di Dio, il concetto di Dio come sviluppo, come Spirito, e quindi una  nuova filosofia: la filosofia dello Spirito. Raccogliendo adesso le fila del mio ragionamento, io  posso conchiudere così.   La filosofia del Bruno ha riabilitata e {ligni ficat a la e l ia restituito il suo vero valore, 1’ ha innalzata a  manifestazione reale e vivente di Dio; dunque il primo ardente desiderato del pensiero scolastico, in questa filosofia,  è soddisfatto. Ma c’ è di più; imperocché il Bruno, avendo concepito Dio come immaii ^q^ nella coscienza umana  in lorza dell’ attività stess^ai^ essa, ha posto in questo  concetto la possibilità di quella intelligenza superiore, che  formava la seconda e più alta aspirazione dei grandi pensatori della Scolastica, e la cui attuazione non poteva essere  che il risultato finale di tutta quanta la filosofia moderna. Sebastiano Maturi. Maturi. Keywords: implicature, Bruno, Vico, Aquino, Spaventa, I duellisti, l'io e l’altro – riconoscimento, la dialettica del signore e del servo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Maturi” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Maturi: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – filosofia campanese -- filosofia napoletana – filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo italiano. Napoli, Campania. Grice: “People sometimes asks me how my intentionalist approach can be applied to history. I always respond: Read Maturi!” Grice: “Maturi’s ‘Interpretazioni,’ thus in plural, ‘del risorgimento’ is a classic --.” Grice:: “Even in London, the risorgimento had at least two interpretations! One in Woolwich, and another one elsewhere! And there is possibly a gender distinction too with “Speranza,” Wilde’s mother, being somewhat fanatic about it!” – Compe la sua formazione culturale a Napoli dove si laurea con SCHIPA, uno dei firmatari del manifesto degli intellettuali antifascisti redatto da CROCE. Del suo maestro, per la lezione di rigore che gli aveva impartito, Maturi conservò un commosso ricordo ed ebbe modo di esprimere pubblicamente la sua gratitudine in occasione della morte di Schipa, pronunciandone il necrologio. Seguì con attenzione ed interesse, ma anche con spirito critico, le lezioni di Croce conseguendo una laurea in filosofia con Gentile con una tesi su Maistre.  Impostato sulla lezione crociana è il saggio “La crisi della storiografia politica italiana” a cui seguì quello dedicato a Gli studi di storia moderna e contemporanea, inserito nel primo dei due volumi dell'opera del “La vita intellettuale italiana.” Il suo primo lavoro Il concordato tra la Santa Sede e le Due Sicilie pubblicato fu giudicato positivamente dalla critica s di Omodeo che lo recensì ne La Critica. Frequenta la Scuola storica per l'età moderna e contemporanea diretta da Volpe e fu segretario e bibliotecario dell'Istituto storico per l'età moderna e contemporanea. Collaboratore dell'Enciclopedia italiana per la quale scrisse numerose voci tra le quali quella dedicata al "Risorgimento" ispirata alle sue idee liberali.  A causa di questo episodio, nonostante il suo disinteresse per la vita politica attiva, fu allontanato dall'Istituto storico per l'età moderna e contemporanea.  Nei suoi saggi di storia politica i suoi punti di riferimento sono Croce, Meinecke, Salvemini, e Volpe.  Dapprima come incaricato di storia del ri-sorgimento e poi come ordinario tenne le sue lezioni a Pisa dove ha modo di scrivere numerosi saggi come alcune importanti voci nel Dizionario di politica a cura del Partito nazionale fascista, il saggio Partiti politici e correnti di pensiero nel Risorgimento, e l'accurata biografia Il principe di Canosa. I corsi di storia della storiografia tenuti a Pisa furono continuati a Torino quando ha la cattedra di Storia del Risorgimento e quella di Storia delle dottrine politiche che occupa sino alla sua inaspettata scomparsa.  Le sue lezioni di quest'ultimo periodo furono raccolte nell'opera postuma Interpretazioni del Risorgimento considerata di primaria importanza dagli storici. Saggi: “Interpretazioni del Risorgimento, coll. Biblioteca di cultura storica Einaudi,'Enciclopedia italiana, Accademia delle scienze di Torino, In memoria, Istituto per la storia del Risorgimento italiano, Roma 1Interpretazioni storiografiche del Risorgimento. Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Walter Maturi. Maturi. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Maturi” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Maurizi: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della vendetta di Bacco – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Grice: “I like Maurizi; of course his ‘vendetta di Bacco’ makes sense only in the context of Nietzsche’s rather recherché dichotomy!” – Grice: “His idea of the ‘suspected ‘I’’ is good, but he is not, as I was, having in mind Reid, but Freud!” Si è laureato in filosofia della storia presso l'Università degli Studi di Roma "Tor Vergata" e ha conseguito il dottorato di ricerca nella medesima università discutendo una tesi su Cusano e il concetto di non altro da cui è nato il volume La nostalgia del totalmente non altro. Cusano e la genesi della modernità (Rubbettino). Dopo un periodo di formazione in Germania attualmente svolge la sua attività di ricerca presso l'Università degli Studi di Bergamo. Pubblica le sue ricerche su alcune prestigiose riviste come la Rivista di filosofia neo-scolastica, il Journal of Critical Animal Studies, Dialegesthai, Alfabeta, Lettera Internazionale, e collaborando, inoltre, con i quotidiani Liberazione e L'Osservatore Romano. Partecipa alla stesura del secondo volume di L'Altronovecento. Comunismo eretico e pensiero critico (Jaca) ed è il traduttore e curatore dell'edizione italiana di Lukács, Coscienza di classe e storia. Codismo e dialettica, Alegre, Roma di Acampora, Fenomenologia della Compassione, Sonda, Casale Monferrato,, e ha tradotto, con Dalmasso,  Derrida, Teoria e prassi. Corso dell'École Normale Supérieure Jaca, Milano,. Ha contribuito alla fondazione delle riviste scientifiche "Liberazioni" e Animal Studies. Rivista italiana di antispecismo.  Pensiero Maurizi ha suddiviso i suoi interessi di ricerca tra la filosofia dialettica (Cusano, Hegel, Marx, Adorno), la teoria critica della società e le implicazioni politiche di una visione "sociale" dell'antispecismo a partire da una rielaborazione del pensiero della scuola di Francoforte. Tanto le sue ricerche su Adorno, quanto quelle su Cusano si incentrano sul tentativo di porre in evidenza il tema della storicità dell'umano non in termini di un astratto e formale "essere-nel-tempo", quanto più propriamente nel vedere nell'essere storico, in tutta la sua determinatezza, l'irriducibile istanza di verità dell'umano stesso: l'essere storico è in tal senso irriducibile ad ogni ontologia dell'essere temporale seppure ciò non porti necessariamente ad un relativismo storicista. Prendendo spunto dalla lettura critico-negativa di Hegel portata avanti da Adorno, infatti, M. sostiene la leggibilità e razionalità della storia come segno del dominio, l'universale storico non come traccia di un positivo che si farebbe strada attraverso il negativo delle vicende umane, bensì come questo stesso negativo che informa di sé la civiltà, imprimendo ad essa la direttrice di un progresso della razionalità strumentale che è l'antitesi della redenzione. La sua rilettura del pensiero della filosofia di Francoforte ha così costituito un punto di partenza per una ridefinizione dell'opposizione natura/cultura e lo ha portato ad estendere la critica ai meccanismi di dominio anche al controllo e allo sfruttamento del non umano, e più in generale della Natura. Il suo pensiero riguardo alla filosofia antispecista è in continuità con quello espresso dal sociologo David Nibert ed in netta opposizione all'utilitarismo di Peter Singer criticato da M. come un antispecista metafisico. Un punto centrale nell'argomentazione filosofica di M., che rende originale il suo lavoro rispetto a quello degli altri teorici dei diritti animali, riguarda l'interpretazione in termini storico-sociali dello specismo. Ogni attività intellettuale «antispecista», secondo Maurizi, consiste quindi essenzialmente nel fare propria questa scelta di campo: sottolineare come la questione animale sia un aspetto irrinunciabile di ogni ipotesi di trasformazione dell'esistente. Secondo Maurizi l'antispecismo è dunque essenzialmente politico  e non possiamo affrontare, come fanno Peter Singer o Tom Regan, la questione animale da una prospettiva astrattamente morale. All'attività di filosofo, Maurizi ha così affiancato quella di attivista per i diritti animali, intrecciando l'attività speculativa con quella politica; risultato di questa attività è il libro Al di là della Natura: gli animali, il capitale e la libertà (Novalogos, ). M. è stato inoltre fondatore delle riviste di critica antispecista Liberazioni e Animal Studies, della rivista online Asinus Novus che prende il nome dal suo breve testo Asinus Novus: lettere dal carcere dell'umanità (Ortica, ). Nel  l'associazione Per Animalia Veritas raccoglie alcuni suoi scritti che rappresentano un sunto aggiornato del suo pensiero sulla filosofia antispecista: Cos'è l'antispecismo politico (Per Animalia Veritas, ). Sulla scia delle riflessioni adorniane, Maurizi ha anche lavorato sulla filosofia della musica e la teoria critica musicale. Le sue teorie sull'antispecismo politico sono abbondantemente discusse nel libro di Lorenzo Guadagnucci Restiamo Animali: vivere vegan è una questione di giustizia (Terre di Mezzo, ), da Matthias Rude Antispeziesismus. Die Befreiung von Mensch und Tier in der Tierrechtsbewegung und der Linken (Schmetterling, Stuttgart ) e altri autori della scena antispecista di lingua tedesca. Saggi: “Il tempo del non-identico,” Jaca); “La nostalgia del totalmente non altro” – La genesi della modernità, Rubettino, “Al di là della natura: gli animali, il capitale e la libertà,” Novalogos, “Asinus Novus: lettere dal carcere dell'umanità,” Ortica, “Cos'è l'anti-specismo?” Per animalia veritas, “L'io sospeso: l'immaginario tra psicanalisi e sociologia, Jaca, Grice: “This reminds me of my fantasies on ‘I’ – “The suspected I’ is a genial phrase!” -- “Chimere e passaggi” Mimesis, “Altra specie di politica, Mimesis, “Musica per il pensiero. Filosofia del progressive” -- Mincione, “La vendetta di Dioniso” --  la musica contemporanea da Schönberg ai Nirvana, Jaca, “Quanto lucente la tua in-esistenza” --- L'Ottobre, il Sessantotto e il socialismo che viene, Jaca. Intervento di M. su questi temi per la Casa della Cultura di Milano: youtube.com/watch?v= ZNfJrRx-7fo  Intervista su questo tema a cura del collettivo Tierrechtsgruppe Zürich (Zurigo) M. La genesi dell'ideologia specista in Liberazioni:/ M. Per una cultura antispecista in Asinus Novus: rivista di antispecismo e filosofia: Copia archiviata, su asinusnovus.wordpress. com. Intervento M. per il primo convegno nazionale antispecista: youtube.com/watch?v= JwZiW4ngrag  Intervista a M. e Caffo sulle nuove prospettive dell'animalismo: youtube Testo recensito da L. Pigliucci per la rivista "Lo Straniero" di Aprile: Copia archiviata, su asinusnovus. wordpress Intervista di F. Pullia sul quotidiano "Notizie Radicali" Una recensione del testo: Copia archiviata, su asinusnovus.wordpress B. Le GocM. M., Musica per il pensiero. Filosofia del progressive italiano, Mincione, Roma.  Antispecismo Diritti degli animali Scuola di Francoforte. Asinus Novus. Antispecismo e Filosofia, su asinusnovus.net. Animal Studies. Rivista Italiana di Antispecismo, su rivistaanimal studies. wordpress. Marco Maurizi. Maurizi. Keywords: la vendetta di Bacco -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Maurizi” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Mazio: la ragione conversazionale all’orto romano -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Friend of GIULIO (si veda) Cesare and Cicerone. He writes on food and trees and takes an interest in the philosophy of the Garden. Gaio Mazio.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Mazzarella: l’implicatura conversazionale – filosofia campanese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo italiano. Napoli, Campania. Grice: “I love Mazzarella’s ‘necessary word’ – not precisely what I was thinking when philosophising about conversation, but for Mazzarella, the conversational motivation is to HELP in the most authentic fashion – Compared to his ‘parola necessaria,’ my principle of conversational helpfulness, while based in part in the desideratum of conversational benevolence, looks pretty lame!” -- Grice: “I like Mazzarella. The fuss he makes in translating Heidegger, whom I have elsewhere called ‘the greatest living philosopher’ – he was living then –.” Grice: “Mazzarella, who is relying on somebody else’s translation, is especially focused on Heidegger’s Latinate ‘fakt.’ From ‘Fakt,’ Heidegger gets an abstract noun. But he also uses the Germanic for ‘deed.’ Relying on the cognateness of ‘fakt’ with ‘fatto’ – cognate itself with ‘effetto,’ Mazarella agrees that the translation goes from ‘factivity’ to ‘effectivity.’ And it should inspire all philosophers into seeing how similar these two concepts are – if indeed two concepts they are, seeing that they come from the same Roman root! But M. would know that – you wouldn’t!” –  Professore a Napoli,  è tra i principali interpreti di Heidegger. Deputato al Parlamento nella XVI Legislatura per il Partito Democratico.  Dopo essersi laureato presso l'Università degli Studi di Napoli “Federico II” con Masullo, inizia la sua attività di ricerca come borsista DAAD in Germania, e successivamente presso l'Salerno. In seguito è professore incaricato di Estetica presso l'Università dell'Aquila. Dopo essere stato professore associato di Filosofia Teoretica presso l'Catania e di Filosofia della storia presso l'Napoli “Federico II”, diventa professore straordinario di Storia della filosofia presso la Facoltà di Magistero dell'Salerno e dal 1993 Professore di Filosofia Teoretica presso l'Napoli “Federico II”. Dirige il Dottorato di Ricerca in “Scienze Filosofiche” dell'Napoli “Federico II” e cura la programmazione e le relazioni internazionali per la Facoltà di Lettere e Filosofia, di cui è Preside. Deputato del Parlamento italiano, divenendo componente della VII Commissione Cultura della Camera.  Opere In una delle sue opere principali, Tecnica e Metafisica. Saggio su Heidegger, Mazzarella indaga i processi decostruttivo-ermeneutici sottintesi all'heideggeriana storia della metafisica occidentale, fino a formulare un'ipotesi "ecologica"(in senso originario, come pensiero relativo all'abitare dell'uomo) relativa alle interpretazioni del "logos" eracliteo e della categoria aristotelica della "physis" riscontrate nei saggi successivi alla cosiddetta "svolta" del pensiero di Heidegger.  In Vie d'uscita. L'identità umana come programma stazionario metafisico, le aporie di una metafisica del fondamento sono affiancate alla dimensione tecnica della contemporaneità, intesa storicisticamente come epoca del compimento del nichilismo. Centrale diventa l'idea di un "essere-alla-vita", categoria che richiama in modo lampante l'"essere-nel-mondo" di heideggeriana memoria; le questioni teoretiche vengono così ridotte a questioni etiche riguardanti un'ontologia minima, ove la filosofia prima si trasformi in filosofia seconda, lasciando il posto ad un programma metafisico-antropologico di custodia e mantenimento della e nella propria epoca. L'essere-alla-vita necessita di intendere la cultura come “endiadi di natura e storia, ma in questa endiadi natura prima ancora che storia”.  Pensare e credere. Tre scritti cristiani rappresenta un altro orizzonte del pensiero di M.; il rapporto tra religione rivelata e filosofia si gioca sullo sfondo di una prospettiva storicista di matrice diltheyana, sebbene non siano esenti dalla riflessione Hegel, Schelling e la teologia dialettica contemporanea. Interessante è la prospettiva di una religione come "integrazione" e apertura all'amore fraterno, configurato nel concetto di "agape".  I suoi scritti sono in ogni caso contrassegnati, com'è tipico della recente scuola di pensiero napoletana, sorta sulla scia delle dottrine di Croce, da una ripresa di temi propri dello storicismo (Nietzsche e la storia. Storicità e ontologia della vita).  In un dialogo costante con i teologi più liberali e moderni, quale ad es. Forte, M. si è occupato specificamente dei temi della bioetica, coniugando il tema della tutela della vita alla ripresa del concetto di sacralità (Sacralità e vita).  In Opera media ha inoltre messo in luce un talento poetico non indifferente, che gli è valso l'apprezzamento della critica e diversi riconoscimenti. Ha composto quattro raccolte di poesie, e pubblicato singoli componimenti in diverse antologie.Finalista al Premio di poesia “Città di Vita”, Firenze, e nel 1999 ha vinto il Premio Speciale “La finestra” al Premio Nazionale di poesia “Alessandro Tanzi” perUn mondo ordinato.  Saggi: “Tecnica e metafisica” -- saggio su Heidegger (Guida, Napoli); “Nietzsche e la storia: ontologia della vita” (Guida, Napoli); “Storia metafisica ontologia” -- Per una storia della metafisica” (Morano, Napoli, -- Grice: “What Mazzarella is proposing is what I did for the BBC: a history of metaphysics; philosophical tutees are too accustomed to ‘history of philosophy,’ but surely each branch requires a separate history! “storia della metafisica” does just that!” – “storia della semantica” hardly sounds as sexy, and “storia della pragmatica” sounds repugnantly academese!” --   “Ermeneutica dell'effettività” -- Prospettive ontiche dell'ontologia” (Guida, Napoli, -- Grice: “Note that Mazzarella is exploring the ‘effectivity,’ not the ‘affectivity’ – ex-fecto, not ad-fecto – “Filosofia e teo-logia” --  di fronte a Cristo (Cronopio, Napoli); “Sacralità” -- e vita, Quale etica per la bio-etica? (Guida, Napoli); Heidegger oggi, M., Mulino, Bologna, “Pensare e credere” Morcelliana, Brescia, “Vie d'uscita. L'identità umana come programma stazionario metafisico” (Melangolo, Genova); Opera media. Poesie, Melangolo, Genova, Lirica e filosofia, Morcelliana, Brescia, Vita Politica Valori. Sensibilità individuali e sentire comunitario, Guida, Napoli, “Anima madre,” Art studio Paparo, Napoli, “L'uomo che deve rimanere,” Quodlibet, Macerata,. S. Venezia, Nota bio-bibliografica, in Amato, Catena, Russo, L'ethos teoretico. Scritti in onore di M., Napoli, Guida,  Archivio degli articoli di Eugenio Mazzarella nel sito "ilsussidario.net". Curriculum vitae, pubblicazioni e attività di ricerca nel sito dell'Università degli Studi di Napoli Federico II, su docenti.unina. Grice: “The fact that he calls himself a Christian has me calling him a NON-PHILOSOPHER!” – Eugenio Mazzarella. Mazzarella. Keywords: implicatura. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Mazzarellla” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Mazzei: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – filosofia toscana – filosofia fiorentina -- -- filosofia italiana -- Luigi Speranza (Poggio a Caiano). Filosofo italiano. Poggio, Toscana. Grice: “Not every philosopher has a city, ‘Colle,’ named after him!” -- Grice: “I like Mazzei; he is hardly a philosopher, but the Italians consider among the ‘filosofi italiani,’ – there is a good wine, “Mazzei,” since Mazzei, when travelling to the Americas, transplanted a grape from his paese – the descendants still grow it! In oltre, he was influential in the ‘risorgimento’!” -- essential Italian philosopher.Massone e cadetto di una nobile famiglia toscana di viticoltori, probabilmente risalente all'XI secolo e ancora esistente nel XXI secolo, fu personaggio energico ed eclettico, illuminista, promulgatore delle libertà individuali, dei diritti civili e della tolleranza religiosa. Visse una vita avventurosa e movimentata, con alterne fortune economiche.  Sebbene sia sconosciuto al grande pubblico, partecipò attivamente alla guerra d'indipendenza americana come agente mediatore all'acquisto di armi per la Virginia, ed è ritenuto dagli storici uno dei padri della Dichiarazione d'Indipendenza americana, in quanto intimo amico dei primi cinque presidenti statunitensi: George Washington, John Adams, James Madison, James Monroe e soprattutto Thomas Jefferson, di cui fu ispiratore, vicino di casa, socio in affari e con cui rimase in contatto epistolare fino alla morte.  Iniziato alla Massoneria, fu poi spettatore privilegiato della rivoluzione francese.  La sua figura storica è riemersa alla fine Professoregrazie all'infittirsi degli studi accademici in occasione del bicentenario della rivoluzione americana, fino ad essere onorato in occasione del 250º anniversario della sua nascita nel 1980 con un'emissione filatelica congiunta speciale delle poste italiane e statunitensi.   Dopo gli studi compiuti tra Prato e Firenze, nel 1752, in seguito a dissapori con il fratello maggiore Jacopo sulla gestione del patrimonio familiare, si stabilì a Pisa e poi a Livorno, intraprendendo con successo l'attività di medico. Dopo solo due anni lasciò la città e si trasferì a Smirne (Turchia) come chirurgo a seguito di un medico locale. Gunse a Londra dove, dopo un iniziale periodo irto di difficoltà economiche che lo vide arrangiarsi con l'insegnamento dell'italiano, riuscì nel corso dei tre lustri successivi ad arricchirsi con il commercio dei prodotti mediterranei, principalmente del vino, inserendosi lentamente nei salotti dell'alta borghesia londinese.  Una breve parentesi italiana si concluse con un precipitoso ritorno in Inghilterra, a seguito di una denuncia al tribunale dell’Inquisizione per “importazione di libri proibiti”. L'illuminismo e le idee di libertà religiosa che animavano il Mazzei, ben tollerate nella Londra di fine XVIII secolo, erano ancora tabù nella realtà italiana.  La Rivoluzione americana In questi circoli londinesi Filippo M. conobbe Franklin e Adams, che da lì a pochi anni sarebbero stati tra i protagonisti della rivoluzione americana.  Le colonie americane si autogovernavano, perlomeno sulle questioni locali, tramite assemblee di delegati liberamente eletti dai capifamiglia, e l'ordinamento giuridico era ispirato al meglio della legislazione inglese, che pure in quegli anni era probabilmente la più avanzata, garantista e liberale che esistesse.  Invitato dagli amici d'oltreoceano, spinto sia dalla curiosità dell'inedita forma di governo, ma soprattutto dalla disponibilità di terre e quindi dalla prospettiva di impiantare nel nuovo mondo coltivazioni mediterranee, Mazzei si trasferì in Virginia, con al seguito un gruppo di agricoltori toscani. A lui si unirono anche una vedova Maria Martin, che egli sposò, e l'amico Bellini che sarebbe divenuto il primo insegnante di italiano in un'università americana, il College of William and Mary in Virginia.  Inizialmente diretto in altro sito, Mazzei si fermò presso la tenuta di Monticello per incontrare Jefferson, con il quale già intratteneva rapporti epistolari e vantava amicizie comuni, e fu da lui convinto a trattenersi in loco, arrivando a cedere circa 0,75 km² della sua tenuta in favore dell'italiano. Da questa cessione nacque la tenuta di Colle (il nome deriva da Colle di Val d'Elsa, perché il Mazzei aveva preso ad esempio la campagna attorno alla città toscana), successivamente ampliata. Lo univa a Jefferson un sodalizio commerciale, con il primo impianto di una vigna nella colonia della Virginia, ma soprattutto un sodalizio intellettuale, frutto di una comune visione politica e di ideali condivisi, che si sarebbe protratto per oltre 40 anni.  Il livello delle frequentazioni americane trascinò velocemente Mazzei, arrivato con mere intenzioni imprenditoriali, nella vita politica della ribollente colonia della Virginia. Fu autore di veementi libelli contro l'opprimente dominazione inglese, inneggianti alla libertà ed all'uguaglianza. Alcuni di questi scritti furono tradotti in inglese dallo stesso Jefferson, che rimase influenzato da tali ideali, tanto da ritrovare successivamente alcune frasi di Mazzei trasposte nella Dichiarazione d'indipendenza degli Stati Uniti d'America.  Eletto speaker dell'assemblea parrocchiale dopo solo sei mesi dal suo arrivo in Virginia, ebbe modo di esporre le sue idee sulla libertà religiosa e politica a un vasto oratorio, composto anche di persone umili e ignoranti, che lo ascoltavano assorte. Un suo scritto, Instructions of the Freeholders of Albemarle County to their Delegates in Convention, redatto come istruzioni per i delegati della contea di Albemarle alla convenzione autoconvocatasi dopo lo scioglimento forzato dell'assemblea della Virginia imposto dal governatore inglese, fu utilizzato da Jefferson come bozza per il primo tentativo di scrittura della costituzione dello Stato della Virginia.  La sua affermazione politica seguiva di pari passo i rovesci economici, perché il clima e il terreno della Virginia non si erano dimostrati particolarmente graditi a vite e olivo, e nel 1774 un'eccezionale gelata aveva distrutto buona parte delle stentate coltivazioni impiantate con tanta fatica.  Naturalizzato cittadino della Virginia, volontario delle prime ore nella guerra d'indipendenza americana, e inviato in Europa da Jefferson e Madison per cercare prestiti, acquistareo meglio, contrabbandarearmi e ottenere informazioni politiche e militari utili alla nascente nazione.  In questo periodo scrisse articoli, fece interventi pubblici e cercò di avviare rapporti commerciali e politici tra gli Stati europei e la Virginia. Per tali servizi fu ufficialmente retribuito dallo Stato dell Virginia.  Rientrato in Virginia, con suo grande disappunto non fu nominato console. Ricevette I'incarico di amministratore della contea di Albemarle, ma solo due anni dopo nel 1785 lasciò per l'ultima volta il suolo americano, mantenendo comunque contatti epistolari con molti di quelli che sono definiti “padri della patria” statunitensi e in particolare con Jefferson, che ebbe modo di reincontrare successivamente a Parigi. Sua moglie rimase fino alla sua morte alla tenuta del Colle, che Mazzei aveva donato alla figliastra, Margherita Maria Martini e al di lei marito, il francese Plumard, Comte De Rieux.  La Rivoluzione francese e le vicende europee  Targa a Pisa, sulla casa in cui morì/ A Parigi pubblicò una voluminosa opera in quattro volumi Recherches historiques et politiques sur les États-Unis de l'Amérique Septentrionale. Si trattava della prima storia della rivoluzione americana pubblicata in francese. L'opera è tuttora una preziosa fonte di informazioni sul movimento che innescò la rivoluzione americana.  Il successo del libro e la notorietà delle sue idee, uniti alla costante attività di propaganda a favore dei neonati Stati Uniti d'America, lo fece venire in contatto con re Stanislao Augusto di Polonia, illuminato sovrano liberale, di cui divenne prima consigliere e poi rappresentante a Parigi.  Da questa posizione privilegiata poté seguire la rivoluzione francese, di cui condannò la deriva giacobina. Preso atto della rovina economica, nel 1791 si trasferì a Varsavia, assumendo la cittadinanza polacca e contribuendo alla stesura della costituzione.  Dopo un anno passato a Varsavia, a seguito della spartizione della Polonia nel 1792 rientrò definitivamente in Toscana, stabilendosi a Pisa. Lì sposa Antonina Tonini, da cui ebbe una figlia, Elisabetta. E testimone dell'arrivo delle truppe repubblicane francesi a Pisa e poi della loro cacciata, e fu coinvolto pur senza danni nei successivi processi intentati dal bargello ai liberali pisani che si riunivano durante la breve occupazione al Caffè dell'Ussero sul lungarno.  Ultimi anni M. visse quietamente altri 17 anni, dedicandosi ai propri studi di orticoltura e limitandosi a frequentare una ristretta cerchia di salotti praticati da giovani liberali, di cui era ispiratore. In conseguenza del dissolvimento della Polonia operata da Russia e Prussia nel 1795, lo zar Alessandro I si accollò i debiti della corte polacca e Mazzei poté fruire di un vitalizio. M. rimase sempre nostalgico della Virginia e dei suoi amici americani, che ne auspicavano il ritorno e con i quali mai interruppe il contatto epistolare. Nonostante i ripetuti progetti di un viaggio in America, Mazzei non fu mai capace di affrontare questa nuova avventura. Ebbe modo di assistere all'ascesa e alla caduta di Napoleone Bonaparte e scrisse le proprie memorie, pubblicate nel 1848, oltre trent'anni dopo la sua morte a Pisa.  Saggi: “Stanislao Re di Polonia” (Roma: Istituto storico italiano per l'età moderna e contemporanea); “Ricerche storiche  sull’America” (Firenze, Ponte alle Grazie); “Memorie” Gino Capponi, Lugano, Tip. della Svizzera Italiana); “Del commercio della seta fatto in Inghilterra dalla Compagnia delle Indie Orientali” S. Gelli, Poggio a Caiano, Comune di Poggio a Caiano); “Le istruzioni per i delegati alla convenzione” (Firenze, Morgana); “Opere di suor Margherita Marchione “Scelta di scritti e lettere,”“Agente di Virginia durante la rivoluzione americana” “Agente del Re di Polonia durante la Rivoluzione Francese”“La vita avventurosa di M,” Cassa di Risparmi e Depositi, Prato. Marchione Margherita: La vita avventurosa Marchione Margherita, Curiosità.A inizio degli anni 2000, fra alcuni intellettuali toscani appassionati della sua figura è circolata la speculazione che Mazzei potrebbe aver ispirato persino la bandiera statunitense, adottata dal Congresso  un anno dopo la Dichiarazione d'Indipendenza. La suggestione nasce dall'importanza che l'alternanza dei colori rosso e bianco ha nell'araldica toscana e non solo e di cui un esempio famoso è l'insegna di Ugo di Toscana. Potrebbe forse aver discusso anche di araldica con gl’americani. Le radici storiche della bandiera americana sono, in realtà, nella Grand Union Flag.  In suo ricordo è stato istituito il premio The Bridge. La cerimonia è stata istituita a Roma per celebrare un toscano che insieme ai padri costituenti degli Stati Uniti d'America da vita alla stesura della dichiarazione d'indipendenza. Sua era la frase. Tutti gli uomini sono per natura liberi ed indipendenti. Russo, Nasce a Firenze un museo che racconta la massoneria, in La Repubblica, Firenze, Riferito al museo dedicato alla storia della Massoneria in Italia.  Premio. Dalla Toscana all'America: il suo contributo, Poggio a Caiano, Comune di Poggio a Caiano, Becattini Massimo, Mercante italiano a Londra, Poggio a Caiano, Comune di Poggio a Caiano, Bolognesi Andrea, L. Corsetti, L. Stadio, Mostra di cimeli e scritti, catalogo della mostra a cura di, Poggio a Caiano, palazzo Comunale, Comune di Poggio a Caiano. Camajani Guelfo Guelfi, un illustre Toscano: medico, agricoltore, scrittore, giornalista, diplomatico, Firenze, Associazione Toscani, Ciampini Raffaele, Lettere alla corte di Polonia Bologna: N. Zanichelli, Corsetti Luigi, Gradi Renzo, Avventuriero della Libertà, con scritti di Marchione e Tortarolo, Poggio a Caiano, C.I.C. Associazione Culturale "Ardengo Soffici", Di Stadio Luigi, Tra pubblico e privato. Raccolta di documenti inediti, Poggio a Caiano, Biblioteca Comunale di Poggio a Caiano, Fazzini Gianni, "Il gentiluomo dei tre mondi", Roma: Gaffi, Gerosa Guido, Il fiorentino che fece l'America. Vita e avventure Milano, Sugar, Gradi Renzo, Un bastimento carico di Roba bestie e uomini in un manoscritto, Poggio a Caiano, Comune di Poggio a Caiano, Gradi Renzo, Parigi: Scritti e memorie, Comune di Poggio a Caiano, Giovanni, Figure dimenticate dell'indipendenza, Francesco Vigo, Roma: Il Veltro, Giancarlo, Iacopo, L'America fu concepita a Firenze, Firenze: Bonechi,Tognetti Burigana Sara, Tra riformismo illuminato e dispotismo napoleonico; esperienze del cittadino americano, Roma, Edizioni di Storia e letteratura, Tortarolo Edoardo, Illuminismo e Rivoluzioni. Biografia politica di M., Milano, Angeli, Łukaszewicz, M., Mazzini; saggi sui rapporti italo-polacchi Abolizionismo Rivoluzione americana Rivoluzione francese Franklin Henry Jefferson Mason Monroe William Paca Stanisław August Poniatowski Padri fondatori degli Stati Uniti d'America Italo-Americani Dichiarazione d'indipendenza degli Stati Uniti. Treccani Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana su siusa.archivi.beniculturali, Sistema Informativo Unificato per le Soprintendenze Archivistiche. Jefferson, e Vigo (video), su youtube. com. Jefferson Encyclopedia, su monticello. org. Il circolo Filippo Mazzei Pisa, su circolo filippomazzei. net.  M., chi era costui?, su mltoscana. blogspot.com. Clan Libertario Toscano M., su mltoscana. blogspot.com. Il circolo Filippo Mazzei, su geocities. com. Carteggio Thomas Jefferson M. I processi contro  ed i liberali pisani, su idr.unipi. Monticello the home of Thomas Jefferson, su monticello.org.  famous americans. net. Another Site about P.Mazzei and other famous Italian American, su Cleveland memory.org.  M., Thomas Jefferson e gli scultori carraresi per la costruzione del Campidoglio degli Stati Uniti di Nicola Guerra su farefuturofondazione. premio Filippo mazzei. com. Memorie della vita e delle peregrinazioni del fiorentino. Grice: “The more Italian historians of philosophy, in their pretentiously and fake patriotic prose, keep referring to this or that as ‘un illustre toscano’, the less I am leaned to see Mazzei as ITALIAN at all!” – Paeseism with a vengeance!” – Grice: “As a Brit, I find Mazzei a traitor – to his country, and to mine!” -- Filippo Mazzei. Mazzei. Keywords: implicature, mazzei wine, vino mazzei, la rivoluzione del nuovo mondo. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Mazzei," per il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Mazzini: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – la giovine italia – la scuola di Genova -- filosofia ligure -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Genova). Filosofo ligure. Filosofo italiano. Genova, Liguria. Grice: “Of course it is difficult for an Italian philosopher to approach the philosophy of Mazzini cooly; it would be like me approaching the philosophy of Horatio Nelson!” – Grice: “I’ve found ‘Il pensiero filosofico di Giuseppe Mazzini’ quite helpful – the equivalent would be the pretentious sounding, “The philosophical thought of Sir Winston Churchill,’ say!” --  Grice: “Luigi Speranza loves to cherish the fact that an old street in Woolwich, of all places, is named after him, in a way ‘Speranza,’ just because Garibaldi visited!” Grice: “Luigi Speranza also cherishes the fact that Lady Wilde preferred ‘Speranza’ just to defend Mazzini!” Esponente di punta del patriottismo risorgimentale, le sue idee e la sua azione politica contribusceno in maniera decisiva alla nascita dello STATO UNITARIO ITALIANO. Le condanne subite in diversi tribunali d'Italia lo costringeno però alla latitanza fino alla morte. Le teorie mazziniane sono di grande importanza nella definizione dei moderni movimenti europei per l'affermazione della democrazia attraverso la forma repubblicana dello stato. Nacque a Genova, allora capoluogo dell'omonimo dipartimento francese costituito da parte del regime di Bonaparte. Il padre, Giacomo, e medico e docente universitario d'anatomia originario di Chiavari, una cittadina del Tigullio all'epoca capoluogo del dipartimento francese degli Appennini, successivamente parte della provincia di Genova, figura politicamente attiva nella scena pubblica locale, sia durante l'epoca della precedente repubblica ligure, sia, in tempi successivi, dell'Impero napoleonico. Alla madre, Maria Drago, una fervente giansenista originaria di Pegli, un comune autonomo, accorpato nel comune di Genova, fu molto legato per tutta la vita. Affettuosamente chiamato "Pippo" dalla famiglia, una volta terminati gli studi superiori presso il cittadino Liceo classico Cristoforo Colombo, si iscrisse a Genova. Si segnala per la sua ribellione ai regolamenti di stampo religioso che imponeno di andare a messa e di confessarsi. E arrestato perché, proprio in chiesa, si rifiuta di lasciare il posto a un generale austriaco. Lo appassiona la letteratura: si innamorò delle letture di Goethe, Shakespeare e Foscolo (pur senza condividerne la filosofia materialista), restando così colpito dalle Ultime lettere di Jacopo Ortis da volersi vestire sempre di nero, in segno di lutto per la patria oppressa. La passione per la letteratura, insieme a quella per la musica (e un abile suonatore di chitarra), la ha  per tutta la vita: oltre agli autori citati, lesse Dante, Schiller, Alfieri, i grandi poeti romantici come Byron, Shelley, Keats, Wordsworth, Coleridge e i narratori come Dumas padre e le sorelle Brontë. Ha il suo trauma rivelatore. Al passaggio a Genova dei federati piemontesi reduci dal loro tentativo di rivolta, si affacciò in lui il pensiero che si puo, e quindi si deve, lottare per la libertà della patria. Cominciò ad esercitare la professione nello studio di un avvocato, ma l'attività che lo impegnava era quella di giornalista presso l'Indicatore genovese, sul quale inizia a pubblicare recensioni di saggi patriottici. La censura lascia fare per un po', ma poi soppresse il giornale. Compone il saggio, “Dell'amor patrio d’Aligheri”. Ottenne la laurea “in utroque iure”. Entra nella carboneria, della quale divenne segretario in Valtellina.  Ho a lottare con il più grande dei soldati, Napoleone. Giunsi a mettere d'accordo tra loro imperatori, re e papi. Nessuno mi dette maggiori fastidi di un brigante italiano: magro, pallido, cencioso, ma eloquente come la tempesta, ardente come un apostolo, astuto come un ladro, disinvolto come un commediante, infaticabile come un innamorato, il quale ha nome: Giuseppe M.. (Klemens von Metternich, Memorie ed. Bonacci). Per la sua attività cospirativa e arrestato su ordine di Felice di Savoia e detenuto a Savona nella Fortezza del Priamar. Durante la detenzione idea e formula il programma di un nuovo movimento politico chiamato “Giovine Italia” che, dopo essere stato liberato per mancanza di prove, presenta e organizzò a Marsiglia dove e costretto a rifugiarsi in esilio.  I motti dell'associazione erano Dio e popolo e unione, forza e libertà e il suo scopo era l'unione degli stati italiani in un'unica repubblica con un governo centrale quale sola condizione possibile per la liberazione del popolo italiano dagli invasori stranieri. Il progetto federalista infatti, poiché senza unità non c'è forza, ha fatto dell'Italia una nazione debole, naturalmente destinata a essere soggetta ai potenti stati unitari a lei vicini. Il federalismo inoltre avrebbe reso inefficace il progetto risorgimentale, facendo rinascere quelle rivalità municipali, ancora vive, che avevano caratterizzato la peggiore storia dell'Italia medioevale. L'obiettivo repubblicano e unitario avrebbe dovuto essere raggiunto con un'insurrezione popolare condotta attraverso una guerra per bande. Durante l'esilio in Francia, ha una relazione con la nobildonna repubblicana Giuditta Bellerio Sidoli, vedova di Giovanni Sidoli, ricco patriota di Montecchio Emilia. Giuditta aveva condiviso con il marito la fede politica che, portandolo a cospirare contro la corte estense, aveva costretto la coppia a esiliare in Svizzera. Colpito da una grave malattia polmonare, muore a Montpellier.  Poiché la vedova non aveva ricevuto alcuna condanna, ritorna a Reggio Emilia presso la famiglia del marito con i suoi quattro figli: Maria, Elvira, Corinna e Achille. Dopo il fallimento dei moti dove fuggire in Francia dove conobbe Mazzini a cui si legò sentimentalmente. Dopo il vano tentativo del 1831 di portare dalla parte liberale il nuovo re Carlo Alberto di Savoia con la celebre lettera firmata "un italiano", insieme a Berghini e Barberis, M. fu condannato in contumacia a "morte ignominiosa" dal Consiglio Divisionario di Guerra, presieduto dal maggior generale Saluzzo Lamanta. La condanna venne poi revocata nel 1848, quando Carlo Alberto decise di concedere un'amnistia generale. Rifugiatosi  nella cittadina svizzera di Grenchen, nel canton Soletta, vi rimase sino a quando fu arrestato dalla polizia cantonale che gli ingiunse di lasciare la Confederazione entro 24 ore. Per impedirne l'allontanamento l'assemblea dei cittadini di Grenchen conferì al giovane profugo la cittadinanza con 122 voti a favore e 22 contrari, invalidata però dal governo cantonale. Mazzini, nascostosi nel frattempo, fu scoperto e dovette lasciare la Svizzera assieme ad altri esuli, tra i quali Agostino e Giovanni Ruffini.  Comincia il lungo soggiorno a Londra, dove M. raccolse attorno a sé esuli italiani e persone favorevoli al repubblicanesimo in Italia, dedicandosi, per vivere, all'attività di insegnante dei figli degli italiani; qui conobbe e frequentò anche diverse personalità inglesi, tra cui Mary Shelley (vedova del poeta P.B. Shelley), Anne Isabella Milbanke (vedova di Lord Byron, idolo di gioventù di M.), il filosofo ed economista John Stuart Mill, Thomas Carlyle e sua moglie Jane Welsh, lo scrittore Charles Dickens, che finanziò la sua scuola. Il poeta decadente Algernon Swinburne gli dedicò Ode a Mazzini. Nello stesso quartiere di M. visse anche Marx.  Durante il soggiorno londinese M. ebbe una lunga relazione di amicizia con la famiglia Craufurd, documentata da copiosa corrispondenza epistolare. Sempre a Londra ebbe rapporti con la famiglia di Ashurst e con il genero di questi, il politico Stansfeld, la cui consorte Caroline Ashurst Stansfeld e sostenitrice della società "Society of the Friends of Italy". Per la causa dell'unificazione italiana M. collaborò anche con il secolarista George Holyoake.  Fondò poi altri movimenti politici per la liberazione e l'unificazione di vari stati europei: la Giovine Germania, la Giovine Polonia e infine la Giovine Europa. Quest'ultima, fondata a Berna in accordo con altri rivoluzionari stranieri, aveva tra i suoi principi ispiratori la costituzione degli Stati Uniti d'Europa. In questa occasione Mazzini estese dunque il desiderio di libertà del popolo italiano (che si sarebbe attuato con la repubblica) a tutte le nazioni europee. L'associazione rivoluzionaria europea aveva come scopo specifico l'agire dal basso in modo comune e, usando strumenti insurrezionali e democratici, realizzare nei singoli stati una coscienza nazionale e rivoluzionaria. Sulla scia della Giovine Europa M. fonda anche l'Alleanza Repubblicana Universale.  Il movimento della Giovine Europa ebbe anche un forte ruolo di promozione dei diritti della donna, come testimonia l'opera di numerose mazziniane, tra cui la citata Bellerio Sidoli, ma anche Cristina Trivulzio di Belgiojoso e Saffi, la moglie di Saffi, uno dei più stretti collaboratori di M. e suo erede per quanto riguarda il mazzinianesimo politico. M. continuò a perseguire il suo obiettivo dall'esilio e tra le avversità con inflessibile costanza, convinto che questo fosse il destino dell'Italia e che nessuno avrebbe potuto cambiarlo. Tuttavia, nonostante la sua perseveranza, l'importanza delle sue azioni fu più ideologica che pratica.  Dopo il fallimento dei moti del 1848, durante i quali M. era stato a capo della breve Repubblica Romana insieme ad Aurelio Saffi e Carlo Armellini, i nazionalisti italiani cominciarono a vedere nel re del Regno di Sardegna e nel suo Primo Ministro Camillo Benso conte di Cavour le guide del movimento di riunificazione. Ciò volle dire separare l'unificazione dell'Italia dalla riforma sociale e politica invocata da M.. Cavour fu abile nello stringere un'alleanza con la Francia e nel condurre una serie di guerre che portarono alla nascita dello STATO ITALIANO ma la natura politica della nuova compagine statale era ben lontana dalla repubblica mazziniana.  A Londra per reagire alla caduta della Repubblica Romana e in continuità con essa, M.  fonda il Comitato Centrale Democratico Europeo e il Comitato Nazionale Italiano, lanciando il Prestito Nazionale Italiano, le cui cartelle portavano appunto lo stemma della Repubblica romana e l'intitolazione del prestito «diretto unicamente ad affrettare l'indipendenza e l'unità d'Italia». A garanzia del prestito le cartelle recavano la firma degli ex triumviri Mazzini, Saffi e, in assenza dell'irreperibile Armellini, Mattia Montecchi. La diffusione delle cartelle nel Lombardo-Veneto ebbe come immediata conseguenza la ripresa dell'attività cospirativa e rivoluzionaria, soprattutto a Mantova.. Messina fu chiamata al voto per eleggere i suoi deputati al nuovo parlamento di Firenze. M. era candidato, nel secondo collegio, ma non poté fare campagna elettorale perché esule a Londra. Pendevano sul suo capo due condanne a morte: una inflitta dal tribunale di Genova per i moti (in primo grado e in appello); un'analoga condanna a morte era stata inflitta dal tribunale di Parigi per complicità in un attentato contro Napoleone III. Inaspettatamente, M. vinse con larga messe di voti (446). Dopo due giorni di discussione, la Camera annullava l'elezione in virtù delle condanne precedenti.   Il letto di morte di M., distrutto dagli aerei degli Stati Uniti durante il bombardamento di Pisa. Maschera mortuaria di M., gesso, Domus Mazziniana, Pisa Due mesi dopo gli elettori del secondo collegio di Messina tornarono alle urne: vinse di nuovo M. La Camera, dopo una nuova discussione, il 18 giugno riannullò l'elezione. IM. viene rieletto una terza volta; dalla Camera, questa volta, arrivò la convalida. Mazzini, tuttavia, anche nel caso fosse giunta un'amnistia o una grazia, decise di rifiutare la carica per non dover giurare fedeltà allo Statuto Albertino, la costituzione dei monarchi sabaudi. Egli infatti non accettò mai la monarchia e continuò a lottare per gli ideali repubblicani.  Lascia Londra e si stabilì in Svizzera, a Lugano. Due anni dopo furono amnistiate le due condanne a morte inflitte al tempo del Regno di Sardegna: Mazzini quindi poté rientrare in Italia e, una volta tornato, si dedicò subito all'organizzazione di moti popolari in appoggio alla conquista dello Stato Pontificio. L'11 agosto partì in nave per la Sicilia, ma il 14, all'arrivo nel porto di Palermo, fu tratto in arresto (la quarta volta nella sua vita) e recluso nel carcere militare di Gaeta. Partito da Basilea e in viaggio nel passo del San Gottardo, conobbe in una carrozza Nietzsche, allora poco conosciuto filologo e docente. Questo incontro sarà testimoniato dallo stesso Nietzsche anni dopo.  Costretto di nuovo all'esilio, riuscì a rientrare in Italia sotto il falso nome di Giorgio Brown (forse un riferimento a John Brown) a Pisa. Qui, malato già da tempo, visse nascosto nell'abitazione di Pellegrino Rosselli, antenato dei fratelli Rosselli e zio della moglie di Nathan, fino al giorno della sua morte, avvenuta quando la polizia stava ormai per arrestarlo nuovamente.  Traversie della salma  M. morente, Silvestro Lega La notizia della sua morte si diffuse rapidamente, commuovendo l'Italia; il suo corpo fu imbalsamato dallo scienziato Paolo Gorini, appositamente fatto accorrere da Lodi su incarico di Bertani: Gorini disinfettò la salma per permettere l'esposizione. Una folla immensa partecipò ai funerali, svoltisi nella città toscana il pomeriggio del 14 marzo, accompagnando il feretro al treno in partenza per Genova, dove venne sepolto al Cimitero monumentale di Staglieno.  Le esequie furono accompagnate dalla musica della storica Filarmonica Sestrese C. Corradi G. Secondo. Successivamente Gorini ricominciò a lavorare sul corpo di M., onde pietrificarlo secondo la sua tecnica di mummificazione; terminò il lavoro qualche anno dopo. Avvenne la ricognizione della mummia, che fu sistemata ed esposta al pubblico in occasione della nascita della Repubblica Italiana: da allora riposa nuovamente nel sarcofago del mausoleo.  Mausoleo Benché sia incerta l'affiliazione di M. alla Massoneria fu l'associazione stessa a commissionare il mausoleo all'architetto mazziniano Grasso che lo realizzò in stile neoclassico adornandolo con alcuni simboli massonici.  Il sepolcro reca all'esterno la scritta “M” e all'interno sono presenti numerose bandiere tricolori repubblicane e iscrizioni lasciate da gruppi mazziniani o da personalità come Carducci. Sulla lapide è scolpita la scritta "M.. Un Italiano" che era la firma da lui apposta nella lettera a Carlo Alberto, e l'epitaffio: «Il corpo a Genova, il nome ai secoli, l'anima all'umanità. Testimonianze di alcuni personaggi storici e una corrispondenza dello stesso M., citati nell'opera dello studioso Luigi Polo Friz fanno ritenere che verosimilmente M., a differenza di altri celebri personaggi dell'epoca, come Garibaldi, non sia mai stato affiliato alla massoneria, anche se questa ha ripreso molti degli ideali mazziniani, simili ai suoi.  La principale obbedienza italiana, l'unica attiva all'epoca di Mazzini in Italia, il Grande Oriente d'Italia, afferma l'impossibilità di provare l'appartenenza di Mazzini, che pure ebbe influenza nella società, anche se non partecipò mai alla vita dell'associazione, occupato com'era nella causa della "sua" società segreta, la Giovine Italia. In effetti M. fu carbonaro, ma la Carboneria fu presto distinta dalla massoneria. Montanelli afferma invece che probabilmente Mazzini fu massone. Dello stesso parere è Massimo Della Campa, che in una "Nota su Mazzini" fa riferimento al libro dell'ex-Gran Maestro del grande Oriente d'Italia Giordano Gamberini, Mille volti di massoni (Erasmo, Roma), che a119 scrive a proposito di M.: «Iniziato a Genova, secondo G. Fazzari e F. Borsari (Luce e concordia). Ricevette dal Fr. Passano il 32° grado del R.S.A.A., necessario per corrispondere in Carboneria al livello di Vendita Suprema, nelle carceri di Savona. Con decreto del S. C. di Palermo ricevette l'aumento di luce al 33° grado e la qualifica di membro onorario del medesimo Supremo Consiglio. Fu membro onorario delle LL. Lincoln di Lodi e Stella d'Italia di Genova. Scrivendo a Logge, Corpi rituali e Fratelli usò sempre i segni massonici. Nessun contemporaneo mise mai in dubbio l'appartenenza di M. alla Massoneria.»  M. stesso sembrerebbe però smentire la sua partecipazione all'associazione in una lettera al massone Campanella, Sovrano Gran Commendatore del Supremo Consiglio del Rito scozzese antico ed accettato di Palermo, in cui, restituendogli le carte che questi gli aveva fatto recapitare scriveva. La Massoneria accettando da anni e anni ogni uomo, senza dichiarazioni d'opinioni politiche, s'è fatta assolutamente inutile a ogni scopo nazionale. Per farne qualche cosa bisognerebbe prima una misura d'eliminazione ed una di revisione delle file, poi una formula nazionale o politica per l'iniziazione... Chi vuol intendere intenda. La patria è la casa dell'uomo, non dello schiavo – M. Ai giovani d'Italia) Per comprendere a pieno la dottrina politica di Mazzini bisogna rifarsi al pensiero religioso che ispira il periodo della Restaurazione seguito alla caduta dell'impero napoleonico. Nasce allora una nuova concezione della storia che smentiva quella degli illuministi basata sulla capacità degli uomini di costruire e guidare la storia con la ragione. Le vicende della Rivoluzione francese e il periodo napoleonico avevano dimostrato che gli uomini si propongono di perseguire alti e nobili fini che s'infrangono dinanzi alla realtà storica. Il secolo dei lumi era infatti tramontato nelle stragi del Terrore e il sogno di libertà nella tirannide napoleonica che, mirando alla realizzazione di un'Europa al di sopra delle singole nazioni, aveva determinato invece la ribellione dei singoli popoli proprio in nome del loro sentimento di nazionalità.  Secondo questa visione romantica dunque la storia non è guidata dagli uomini ma è Dio che agisce nella storia; esisterebbe dunque una Provvidenza divina che s'incarica di perseguire fini al di là di quelli che gli uomini si propongono di conseguire con la loro meschina ragione. Da questa concezione romantica della storia, intesa come opera della volontà divina si promanano due visioni contrapposte: una è la prospettiva reazionaria che vede nell'intervento di Dio nella storia una sorta di avvento di un'apocalisse che metta fine alla storia degli uomini.  Napoleone I è stato, con le sue continue guerre, l'Anticristo di questa apocalisse: Dio segnerà la fine della storia malvagia e falsamente progressiva e allora agli uomini non rimarrà che volgersi al passato per preservare e conservare quanto di buono era stato realizzato. Si cercherà dunque in ogni modo di cancellare tutto ciò che è accaduto dalla Rivoluzione a Napoleone restaurando il passato.  La concezione reazionaria contro cui M. combatté strenuamente assume un aspetto politico-religioso che troviamo nel pensiero di Chateaubriand che nel Génie du christianisme (Genio del Cristianesimo) attaccava le dottrine illuministiche prendendo le difese del cristianesimo e soprattutto nell'ideologia mistica teocratica di Joseph de Maistre, che arriva nell'opera Du pape (Il papa)  al punto di auspicare un ritorno dell'alleanza tra il trono e l'altare riproponendo il modello delle comunità medioevali protette dalla religione tradizionale contro le insidie del liberalismo e del razionalismo. Un'altra prospettiva, che nasce paradossalmente dalla stessa concezione della storia guidata dalla divinità, è quella che potremo definire liberale che vede nell'azione divina una volontà diretta, nonostante tutto, al bene degli uomini escludendo che nei tempi nuovi ci sia una sorta di vendetta di Dio che voglia far espiare agli uomini la loro presunzione di creatori di storia. È questa una visione provvidenziale, dinamica della storia che troviamo in Saint Simon con la concezione di un nuovo cristianesimo per una nuova società o in Lamennais che vede nel cattolicesimo una forza rigeneratrice della vita sociale. Una concezione progressiva quindi che è presente in Italia nell'opera letteraria di Manzoni e nel pensiero politico di Gioberti con il progetto neoguelfo e nell'ideologia mazziniana.  Concezione mazziniana «Costituire l'Italia in Nazione Una, Indipendente, Libera, Repubblicana – M.,  Istruzione generale per gli affratellati nella Giovine Italia) Magnifying glass icon mgx2.svg Mazzinianesimo. Dio e popolo «Noi cademmo come partito politico. Dobbiamo risorgere come partito religioso. L'elemento religioso è universale, immortale: universalizza e collega. Ogni grande rivoluzione ne serba impronta, e lo rivela nella propria origine o nel fine che si propone. Per esso si fonda l'associazione. Iniziatori d'un nuovo mondo, noi dobbiamo fondare l'unità morale, il cattolicismo Umanitario. Il pensiero politico mazziniano deve dunque essere collocato in questa temperie di romanticismo politico-religioso che dominò in Europa dopo la rivoluzione ma che era già presente nei contrasti al Congresso di Vienna tra gli ideologi che proponevano un puro e semplice ritorno al passato prerivoluzionario e i cosiddetti politici che pensavano che bisognasse operare un compromesso con l'età trascorsa.  Alcuni storici hanno fatto risalire la concezione religiosa di M. all'educazione ricevuta dalla madre fervente giansenista (almeno fino agli anni '40 fa spesso riferimenti biblici ed evangelici) o ad una vicinanza ideale col protestantesimo e le chiese riformate ma, secondo altri, la visione religiosa di Mazzini non coinciderebbe con quella di nessuna religione rivelata. Il personale concetto mazziniano di Dio, che per alcuni tratti è avvicinabile al deismo settecentesco, con evidenti influssi della religiosità civica e preromantica di Rousseau, per altri versi al Dio panteistico degli stoici, è alla base di una religiosità che tuttavia esige la laicità dello Stato (questo nonostante la dichiarata contraddizione poiché se, come egli crede, politica e religione coincidono, non avrebbe senso separare la sua concezione teologica da quella politica e l'assenza di intermediari tra Dio e il popolo. Per ciò e per il ruolo avuto nella storia umana e italiana, define il papato la base d'ogni autorità tirannica. Un altro influsso sulla sua concezione religiosa è stato visto nella considerazione che ha per la religione CIVILE di ispirazione ROMANA e per l'ammirazione verso la prima Roma, antica e pagana, che passando per la seconda Roma, cristiana e medievale, prepara il campo alla terza Roma future. Un mito questo, romantico-neoclassico, che e fatto proprio da Carducci e poi dal fascismo, con il filosofo Ricci -- e dalla massoneria con l'esoterista Reghini e avvicina il mazzinianesimo anche al culto massonico del Grande Architetto dell'Universo. In realtà rifiuta non solo l'ateismo (è questa una delle divisioni ideologico-teoriche che egli ebbe con altri repubblicani come Pisacane) e il materialismo L'ateismo, il materialismo non hanno, sopprimendo Dio, una legge morale superiore per tutti e sorgente del Dovere per tutti...»), ma anche il trascendente, in favore dell'immanente: egli crede nella reincarnazione, per poter migliorare di continuo il mondo e migliorare sé stessi. Una concezione questa tratta probabilmente da Platone o dalle religioni orientali come l'induismo e il buddismo, religioni alle quali Mazzini si era interessato. Come altri patrioti, letterati, rivoluzionari delle società segrete francesi, inglesi e italiane Mazzini vide nell'abate calabrese Gioacchino da Fiore, l'autore di una profezia riguardante l'avvento della Terza Età o Età dello Spirito Santo quando sarebbe sorta la Terza Italia che sarebbe rinata, libera dalle dominazioni straniere, come la nazione che avrebbe esercitato un primato sulle altre per la presenza della Chiesa cattolica: tema questo poi ripreso da Gioberti nel suo Primato morale e civile degli Italiani.  M. ebbe grande interesse per Gioacchino tanto da volergli dedicare un trattato rimasto inedito Joachino, appunti per uno studio storico sull'abate Gioacchino], che considerava un suo precursore per gli ideali sociali e politici da realizzare tramite un'unità spirituale e storica.  Religione civile La sua è stata anche definita una religione civile dove la politica svolgeva il ruolo della fede e dove la divinità si incarna in modo panteista nell'Universo e nell'Umanità stessa, che attua la Legge che nel Progresso si rivela. Egli afferma di credere che Dio è Dio, e l'Umanità è il suo Profeta, che il popolo romano è immagine di Dio sulla terra e vi è«un Dio solo, autore di quanto esiste, Pensiero vivente, assoluto, del quale il nostro mondo è raggio e l'Universo una incarnazione. Per lui non conta che la sua intima credenza sia razionale o no, come il Dio di Voltaire e Newton che è invocato come la causa prima dell'ordine naturale, poiché «Dio esiste. Noi non dobbiamo né vogliamo provarvelo: tentarlo, ci sembrerebbe bestemmia, come negarlo, follia. Dio esiste, perché noi esistiamo» anche se, specifica, «l'universo lo manifesta con l'ordine, con l'armonia, con l'intelligenza dei suoi moti e delle sue leggi. E altresì convinto che fosse ormai presente nella storia un nuovo ordinamento divino nel quale la lotta per raggiungere l'unità nazionale assumeva un significato provvidenziale. «Operare nel mondo significava per il M. collaborare all'azione che Dio svolgeva, riconoscere ed accettare la missione che uomini e popoli ricevono da Dio. Per questo bisogna «mettere al centro della propria vita il dovere, senza speranza di premio, senza calcoli di utilità. Quello di M. era un progetto politico, ma mosso da un imperativo religioso che nessuna sconfitta, nessuna avversità avrebbe potuto indebolire. «Raggiunta questa tensione di fede, l'ordine logico e comune degli avvenimenti veniva capovolto; la disfatta non provocava l'abbattimento, il successo degli avversari non si consolidava in ordine stabile.». La storia dell'umanità dunque sarebbe una progressiva rivelazione della Provvidenza divina che, di tappa in tappa, si dirige verso la meta predisposta da Dio.  Esaurito il compito del Cristianesimo, chiusasi l'era della Rivoluzione francese ora occorreva che i popoli prendessero l'iniziativa per «procedere concordi verso la meta fissata al progresso umano». Ogni singolo individuo, come la collettività, tutti devono attuare la missione che Dio ha loro affidato e che attraverso la formazione ed educazione del popolo stesso, reso consapevole della sua missione, si realizzerà attraverso due fasi: Patria e Umanità.  Patria e umanità  Targa in onore di M. sulla casa londinese Senza una patria libera nessun popolo può realizzarsi né compiere la missione che Dio gli ha affidato; il secondo obiettivo sarà l'Umanità che si realizzerà nell'associazione dei liberi popoli sulla base della comune civiltà europea attraverso quello che Mazzini chiama il banchetto delle Nazioni sorelle. Un obiettivo dunque ben diverso da quella confederazione europea immaginata da Napoleone dove la Francia avrebbe esercitato il suo primato egemonico di Grande Nation.  La futura unità europea non si realizzerà attraverso una gara di nazionalismi ma attraverso una nobile emulazione dei liberi popoli per costruire una nuova libertà. Il processo di costruzione europea, secondo M., doveva svolgersi prima di tutto attraverso l'affermazione delle nazionalità oppresse, come quelle facenti parte dell'Impero asburgico, e poi anche di quelle che non avevano ancora raggiunto la loro unità nazionale.  Iniziativa italiana In questo processo unitario europeo spetta all'Italia un'alta missione: quella di riaprire, conquistando la sua libertà, la via al processo evolutivo dell'Umanità: la redenzione nazionale italiana apparirà improvvisa come una creazione divina al di fuori di ogni inutile e inefficace metodo graduale politico diplomatico di tipo cavouriano. L'iniziativa italiana che avverrà sulla base della fraternità tra i popoli e non rivendicando alcuna egemonia, come aveva fatto la Francia, consisterà quindi nel dare l'esempio per una lotta che porterà alla sconfitta delle due colonne portanti della reazione, di quella politica dell'Impero Asburgico e di quella spirituale della Chiesa cattolica. Raggiunti gli obiettivi primari dell'unità e della Repubblica attraverso l'educazione e l'insurrezione del popolo, espressi dalla formula di Pensiero ed azione, l'Italia darà quindi il via a questo processo di unificazione sempre più vasta per la creazione di una terza civiltà formata dall'associazione di liberi popoli.  Funzione della politica  Il mausoleo di M. nel cimitero monumentale di Staglieno, realizzato dall'architetto mazziniano Grasso. La politica è scontro tra libertà e dispotismo e tra queste due forze non è possibile trovare un compromesso: si sta svolgendo una guerra di principi che non ammette transazioni; M. esorta la popolazione a non accontentarsi delle riforme che erano degli accomodamenti gestiti dall'alto: non radicavano, cioè, nello spirito del tempo quella libertà e quell'uguaglianza di cui il popolo aveva bisogno.  La logica della politica è logica di democrazia e libertà, non accettabili dalle forze reazionarie; contro di esse è necessaria una brusca rottura rivoluzionaria: alla testa del popolo vi dovrà essere la classe colta (che non può più sopportare il giogo dell'oppressione) e i giovani (che non possono più accettare le anticaglie dell'antico regime). Questa rivoluzione deve portare alla Repubblica, la quale garantirà l'istruzione popolare.  La rivoluzione, che è anche pedagogico strumento di formazione di virtù personali e collettive, deve iniziare per ondate, accendendo focolai di rivolta che incitino il popolo inconsapevole a prendere le armi. Una volta scoppiata la rivoluzione si dovrà costituire un potere dittatoriale (inteso come potere straordinario alla maniera dell'Antica Roma, non come tirannide) che gestisca temporaneamente la fase post-rivoluzionaria. Il governo verrà restituito al popolo non appena il fine della rivoluzione verrà raggiunto, il prima possibile.  La Giovane Italia deve educare alla gestione della cosa pubblica, ad essere buoni cittadini, non è, perciò, esclusivamente uno strumento di organizzazione rivoluzionaria. Il popolo deve avere diritti e doveri, mentre la rivoluzione francese si è concentrata esclusivamente sui diritti individuali: fermandosi ai diritti dell'individuo aveva dato vita ad una società egoista; l'utile per una società non va mai considerato secondo il bene di un singolo soggetto ma secondo il bene collettivo. Non crede nell'eguaglianza predicata dal marxismo e al sogno della proprietà comune sostituisce il principio dell'associazionismo, che è comunque un superamento dell'egoismo individuale.Questione sociale M. affrontò la questione sociale negli scritti più tardi, ad esempio nei Doveri dell'uomo Rifiuta il marxismo, convinto com'è che per spingere il popolo alla rivoluzione sia prioritario indicargli l'obiettivo dell'unità, della repubblica e della democrazia. M. fu tra i primi a considerare la grave questione sociale presente che era soprattutto in Italia la questione contadina, come gli indica Pisacane, ma egli pensava che questa dovesse essere affrontata e risolta solo dopo il raggiungimento dell'unità nazionale e non attraverso lo scontro delle classi, ma con una loro collaborazione (interclassismo), da raggiungersi però organizzando l'associazionismo e il mutualismo fra gli operai, il soggetto più debole. Un programma il suo di solidarietà nazionale che se non contemplava l'autonomia culturale e politica del proletariato non si rivolse solo al ceto medio cittadino, agli intellettuali, agli studenti, fra i quali raccolse i consensi più ampi, ma anche agli artigiani e ai settori più consapevoli dei propri diritti fra gli operai.  M. criticò il marxismo e fu da Marx biasimato per gli aspetti dottrinali idealistici e per gli atteggiamenti profetici che egli assumeva nel suo ruolo di educatore religioso e politico del popolo. Marx, risentito per gli attacchi di M. al comunismo, da lui definito col termine inglese «dictatorship» (cioè «dittatura»), lo definì in alcuni articoli teopompo, cioè «inviato di Dio e papa della chiesa democratica, dandogli anche sprezzantemente del «vecchio somaro» e paragonandolo a Pietro l'Eremita. Forte sarà il contrasto tra Marx e l'inviato personale di M. (oltre che con Garibaldi che ne prese le difese) alla Prima Internazionale. Critica i socialisti per il proclamato internazionalismo dei loro tempi, venato di anarchismo e di forte negazionismo, per l'attenzione da essi rivolta verso gli interessi di una sola classe: il proletariato. Inoltre egli definiva arbitrario e impossibile a pretendere l'abolizione della proprietà privata: così si sarebbe dato un colpo mortale all'economia che non avrebbe premiato più i migliori. La critica maggiore era rivolta contro il rischio che le ideologie socialiste estremistiche portassero a un totalitarismo: egli previde con lungimiranza quello che avverrà con la Rivoluzione in Russia, cioè la formazione di una nuova classe di padroni politici e lo schiacciamento dell'individuo nella macchina industriale del socialismo reale. Da queste critiche ne venne la valutazione negativa di Mazzini sulla rivolta che portò alla Comune di Parigi. Mentre per Marx e Michail Bakunin quello della Comune era stato un primo tentativo di distruggere lo stato accentratore borghese realizzando dal basso un nuovo tipo di stato, Mazzini, legato al concetto di Stato-nazione romantico, invece criticò la Comune vedendo in essa la fine della nazione, la minaccia di uno smembramento della Francia. Per salvaguardare l'economia e allo stesso tempo per tutelare i più poveri, M. punta su una forma di lavoro cooperativo: l'operaio dovrà guardare oltre una lotta basata solo sul salario ma promuovere spazi via via crescenti di economia sociale con elementi di «piena responsabilità e proprietà sull'impresa».  M. punta sul superamento in senso sociale e democratico del capitalismo imprenditoriale classico, anticipando in questo sia le teorie distribuzioniste sia le teorie che esaltano il valore dell'associazione fra i produttori. In Doveri dell'uomo scrisse: «Non bisogna abolire la proprietà perché oggi è di pochi; bisogna aprire la via perché i molti possano acquistarla. Bisogna richiamarla al principio che la renda legittima, facendo sì che solo il lavoro possa produrla.  La sua influenza sulla prima fase del movimento operaio fu per questo molto importante e anche il fascismo, in particolare la sua corrente repubblicana e socializzatrice, si ispirerà al pensiero economico mazziniano come terza via corporativa tra il modello capitalista e quello marxista.  Cospirazioni e fallimento dei moti mazziniani  M. in una fotografia con autografo scattata da Domenico Lama I moti mazziniani, ispirati ad un'ideologia repubblicana e antimonarchica furono considerati sovversivi e quindi perseguiti da tutte le monarchie italiane dell'epoca. Per i governi costituiti i mazziniani altro non erano che terroristi e come tali furono sempre condannati.  «Trovai tutti persuasi che la Giovine Italia era pazzia; pazzia le sette, pazzie il cospirare, pazzie le rivoluzioncine fatte sino a quel giorno, senza capo né coda»  (Azeglio, Degli ultimi casi di Romagna) Giovine Italia  «Su queste classi così fortemente interessate al mantenimento dell'ordine sociale le dottrine sovversive della Giovine Italia non hanno presa. Perciò ad eccezione dei giovani presso i quali l'esperienza non ha ancora modificate le dottrine assorbite nell'atmosfera eccitante della scuola, si può affermare che non esiste in Italia se non un piccolissimo numero di persone seriamente disposte a mettere in pratica i principi esaltati di una setta inasprita dalla sventura.»  (Camillo Benso conte di Cavour). M. si trova a Marsiglia in esilio dopo l'arresto e il processo subito l'anno prima in Piemonte a causa della sua affiliazione alla Carboneria. Non potendosi provare la sua colpevolezza infatti la polizia sabauda lo costrinse a scegliere tra il confino in un paesino del Piemonte e l'esilio. Mazzini preferì affrontare l'esilio e passa in Svizzera, da qui a Lione e infine a Marsiglia. Qui entrò in contatto con i gruppi di Filippo Buonarroti e col movimento sainsimoniano allora diffuso in Francia.  Con questi si avviò un'analisi del fallimento dei moti nei ducati e nelle Legazioni pontificie. Si concordò sul fatto che le sette carbonare avevano fallito innanzitutto per la contraddittorietà dei loro programmi e per l'eterogeneità delle classi che ne facevano parte. Non si era riusciti poi a mettere in atto un collegamento più ampio delle insurrezioni per le ristrettezze provinciali dei progetti politici, com'era accaduto nei moti di Torino quand'era fallito ogni tentativo di collegamento con i fratelli lombardi. Infine bisognava desistere dal ricercare l'appoggio dei principi e, come nei moti dei francesi.  Con la fondazione della Giovine Italia il movimento insurrezionale andava organizzato su precisi obiettivi politici: indipendenza, unità, libertà. Occorreva poi una grande mobilitazione popolare poiché la liberazione italiana non si poteva conseguire attraverso l'azione di pochi settari ma con la partecipazione delle masse. Rinunciare infine ad ogni concorso esterno per la rivoluzione: «La Giovine Italia è decisa a giovarsi degli eventi stranieri, ma non a farne dipendere l'ora e il carattere dell'insurrezione. Gli strumenti per raggiungere queste mete erano l'educazione e l'insurrezione. Quindi bisognava che la Giovane Italia perdesse il più possibile il carattere di segretezza, conservando quanto necessario a difendersi dalle polizie, ma acquistasse quello di società di propaganda, un'«associazione tendente anzitutto a uno scopo di insurrezione, ma essenzialmente educatrice fino a quel giorno e dopo quel giorno anche attraverso il giornale La Giovine Italia, fondato del messaggio politico della indipendenza, dell'unità e della repubblica.  Durante il periodo dei processi in Piemonte e il fallimento della spedizione di Savoia, l'associazione scomparve per quattro anni, ricomparendo solo in Inghilterra. Dieci anni dopo, il 5 maggio 1848, l'associazione fu definitivamente sciolta da M., che fondò al suo posto l'Associazione Nazionale Italiana. Entusiastiche adesioni al programma della Giovane Italia si ebbero soprattutto tra i giovani in Liguria, in Piemonte, in Emilia e in Toscana che si misero subito alla prova organizzando una serie di insurrezioni che si conclusero tutte con arresti, carcere e condanne a morte. Oganizza il suo primo tentativo insurrezionale che aveva come focolai rivoluzionari Chambéry, Torino, Alessandria e Genova dove contava vaste adesioni nell'ambiente militare.  Prima ancora che l'insurrezione iniziasse la polizia sabauda a causa di una rissa avvenuta fra i soldati in Savoia, scoprì e arrestò molti dei congiurati, che furono duramente perseguiti poiché appartenenti a quell'esercito sulla cui fedeltà Carlo Alberto aveva fondato la sicurezza del suo potere. Fra i condannati figuravano i fratelli Ruffini, amico personale di M. e capo della Giovine Italia di Genova, l'avvocato Andrea Vochieri e l'abate torinese Gioberti. Tutti subirono un processo dal tribunale militare, e dodici furono condan morte, fra questi anche il Vochieri, mentre Jacopo Ruffini pur di non tradire si uccise in carcere mentre altri riuscirono a salvarsi con la fuga.  Tentativo d'invasione della Savoia e moto di Genova. L'incontro di M. con Garibaldi nella sede della Giovine Italia Il fallimento del primo moto non fermò M., convinto che era il momento opportuno e che il popolo lo avrebbe seguito. Si trovava a Ginevra, quando assieme ad altri italiani e alcuni polacchi, organizzava un'azione militare contro lo stato dei Savoia. A capo della rivolta aveva messo il generale Ramorino, che aveva già preso parte ai moti, questa scelta però si rivelò un fallimento, perché il Ramorino si era giocato i soldi raccolti per l'insurrezione e di conseguenza rimandava continuamente la spedizione, tanto che quando si decise a passare con le sue truppe il confine con la Savoia, la polizia, ormai allertata da tempo, disperse i volontari con molta facilità.  Nello stesso tempo doveva scoppiare una rivolta a Genova, sotto la guida di Garibaldi, che si era arruolato nella marina da guerra sarda per svolgere propaganda rivoluzionaria tra gli equipaggi. Quando giunse sul luogo dove avrebbe dovuto iniziare l'insurrezione però, non trovò nessuno, e così rimasto solo, dovette fuggire. Fece appena in tempo a salvarsi dalla condanna a morte emanata contro di lui, salendo su una nave in partenza per l'America del Sud dove continuerà a combattere per la libertà dei popoli.  M., invece, poiché aveva personalmente preso parte alla spedizione con Ramorino, fu espulso dalla Svizzera e dovette cercare rifugio in Inghilterra. Lì continuò la propria azione politica attraverso discorsi pubblici, lettere e scritti su giornali e riviste, aiutando a distanza gli italiani a mantenere il desiderio di unità e indipendenza. Anche se l'insuccesso dei moti fu assoluto, dopo questi eventi la linea politica di Carlo Alberto mutò, temendo che reazioni eccessive potessero diventare pericolose per la monarchia. La vita mi pesa, ma credo sia debito di ciascun uomo di non gettarla, se non virilmente o in modo che rechi testimonianza della propria credenza.»  (M., lettera di risposta ad Angelo Usiglio, Londra. Altri tentativi pure falliti si ebbero a Palermo, in Abruzzo, nella Lombardia austriaca, in Toscana. Il fallimento di tanti generosi sforzi e l'altissimo prezzo di sangue pagato fecero attraversare a Mazzini quella che egli chiamò la tempesta del dubbio, una fase di depressione, in cui, come in gioventù, come ricorda nelle Note autobiografiche, pensò anche al suicidio, da cui uscì religiosamente convinto ancora una volta della validità dei propri ideali politici e morali. Dall'esilio di Londra,  dopo essere stato espulso dalla Svizzera, riprese quindi il suo apostolato insurrezionale. Nello stesso periodo esce il saggio La filosofia della musica sulla rivista L'italiano pubblicata a Parigi. Fratelli Bandiera.  Esecuzione dei fratelli Bandiera a Cosenza Nobili, figli dell'ammiraglio Bandiera e, a loro volta, ufficiali della Marina da guerra austriaca, aderirono alle idee mazziniane e fondarono una loro società segreta, l'Esperia e con essa tentarono di effettuare una sollevazione popolare nel Sud Italia. I fratelli Emilio e Attilio Bandiera parteno da Corfù (dove avevano una base allestita con l'ausilio del barese Vito Infante) alla volta della Calabria seguiti da 17 compagni, dal brigante calabrese Giuseppe Meluso e dal corso Pietro Boccheciampe. Era loro giunta infatti la notizia dello scoppio di una rivolta a Cosenza che essi credevano condotta nel nome di M.. In realtà non solo la ribellione non aveva alcuna motivazione patriottica ma era già stata domata dall'esercito borbonico. Quando sbarcarono alla foce del fiume Neto, vicino a Crotone, appresero che la rivolta era già stata repressa nel sangue e al momento non era in corso alcuna ribellione all'autorità del re. Il Boccheciampe, appresa la notizia che non c'era alcuna sommossa a cui partecipare, sparì e andò al posto di polizia di Crotone per denunciare i compagni. I due fratelli vollero lo stesso continuare l'impresa e partirono per la Sila.  Subito iniziarono le ricerche dei rivoltosi ad opera delle guardie civiche borboniche, aiutate da comuni cittadini che credevano i mazziniani dei briganti; dopo alcuni scontri a fuoco, vennero catturati (meno il brigante Meluso, buon conoscitore dei luoghi, che riuscì a sfuggire alla cattura) e portati a Cosenza, dove i fratelli Bandiera con altri 7 compagni vennero fucilati nel Vallone di Rovito.  Il re Ferdinando II ringraziò la popolazione locale per il grande attaccamento dimostrato alla Corona e la premiò concedendo medaglie d'oro e d'argento e pensioni generose. «Mazzini, colpito da tanta fermezza e da tanta sventura, restò commosso da quell'efferata barbarie e celebrò la memoria di quei martiri in un opuscolo uscito a Parigi. Vdendo nel loro sacrificio la realizzazione dei propri ideali così scriveva in un opuscolo a loro dedicato: «Il martirio non è sterile mai. Il martirio per un'Idea è la più alta formula che l'Io umano possa raggiungere per esprimere la propria missione; e quando un giusto sorge di mezzo a' suoi fratelli giacenti ed esclamaecco: questo è il vero, e io, morendo, l'adorouno spirito di nuova vita si trasfonde per tutta l'umanità. I sagrificati di Cosenza hanno insegnato a noi tutti che l'uomo deve vivere e morire per le proprie credenze: hanno provato al mondo che gl'Italiani sanno morire: hanno convalidato per tutta l'Europa l'opinione che una Italia sarà. Voi potete uccidere pochi uomini, ma non l'Idea. l'Idea è immortale. Dopo i moti e capo, con Aurelio Saffi e Carlo Armellini della Repubblica Romana, soppressa dalla reazione francese. Fu l'ultima rivolta a cui M. prese parte direttamente.  Moto di Milano  e sollevazione in Valtellina. Ispirato al mazzinianesimo e alle ideologie socialiste fu il moto di Milano, a cui tuttavia M. non prese parte, e che fallì; analoga sorte ebbe la rivolta in Valtellina dell'anno seguente. Nel moto milanese si mise in luce Felice Orsini, che di lì a poco avrebbe rotto con Mazzini e organizzato l'attentato a Napoleone III, fermamente condannato dal genovese poiché risoltosi in una strage di cittadini innocenti. Spedizione di Sapri.  Pisacane Il piano originale, secondo il metodo insurrezionale mazziniano, prevedeva di accendere un focolaio di rivolta in Sicilia dove era molto diffuso il malcontento contro i Borboni, e da lì estenderla a tutto il Mezzogiorno d'Italia. Successivamente invece si pensò più opportuno partendo dal porto di Genova di sbarcare a Ponza per liberare alcuni prigionieri politici lì rinchiusi, per rinforzare le file della spedizione e infine dirigersi a Sapri, che posta al confine tra Campania e Basilicata, era ritenuta un punto strategico ideale per attendere dei rinforzi e marciare su Napoli.  Pisacane s'imbarca con altri ventiquattro sovversivi, tra cui Nicotera e Falcone, sul piroscafo di linea Cagliari, della Società Rubattino, diretto a Tunisi. Sbarca a Ponza dove, sventolando il tricolore, riuscì agevolmente a liberare 323 detenuti, poche decine dei quali per reati politici per il resto delinquenti comuni, aggregandoli quasi tutti alla spedizione. Il 28, il Cagliari ripartì carico di detenuti comuni e delle armi sottratte al presidio borbonico. La sera i congiurati sbarcarono a Sapri, ma non trovarono ad accoglierli quelle masse rivoltose che si attendevano. Anzi furono affrontati dalle falci dei contadini ai quali le autorità borboniche avevano per tempo annunziato lo sbarco di una banda di ergastolani evasi dall'isola di Ponza.  Il 1º luglio, a Padula vennero circondati e 25 di loro furono massacrati dai contadini. Gli altri, per un totale di 150, vennero catturati e consegi gendarmi. Pisacane, con Nicotera, Falcone e gli ultimi superstiti, riuscirono a fuggire a Sanza dove furono ancora aggrediti dalla popolazione: perirono in 83; Pisacane e Falcone si suicidarono con le loro pistole, mentre quelli scampati all'ira popolare furono poi processati. Condan morte, furono graziati dal Re, che tramuts la pena in ergastolo.  Senso dell'impresa Pur essendo quella di Sapri un'impresa tipicamente mazziniana, condotta «senza speranza di premio», in effetti essa rispondeva alle idee politiche di Pisacane che si era allontanato dalla dottrina del Maestro per accostarsi a un socialismo libertario espresso dalla formula "Libertà e associazione". Contrariamente a Mazzini che riguardo alla questione sociale proponeva una soluzione interclassista solo dopo aver risolto il problema unitario, Pisacane pensava infatti che per arrivare ad una rivoluzione patriottica unitaria e nazionale occorresse prima risolvere la questione contadina che era quella della riforma agraria. Come lasciò scritto nel suo testamento politico in appendice al Saggio sulla rivoluzione, «profonda mia convinzione di essere la propaganda dell'idea una chimera e l'istruzione popolare un'assurdità. Le idee nascono dai fatti e non questi da quelle, ed il popolo non sarà libero perché sarà istrutto, ma sarà ben tosto istrutto quando sarà libero».  Vicino agli ideali mazziniani era Pisacane invece quando aggiungeva nello stesso scritto che quand'anche la rivolta fallisse «ogni mia ricompensa io la troverò nel fondo della mia coscienza e nell'animo di questi cari e generosi amici... che se il nostro sacrificio non apporta alcun bene all'Italia, sarà almeno una gloria per essa aver prodotto figli che vollero immolarsi al suo avvenire. La spedizione fallita ebbe in effetti il merito di riproporre all'opinione pubblica italiana la questione napoletana, la liberazione cioè del Mezzogiorno italiano dal malgoverno borbonico che Gladstone definiva negazione di Dio eretta a sistema di governo.. Infine il tentativo di Pisacane sembrava riproporre la possibilità di un'alternativa democratico-popolare come soluzione al problema italiano: era un segnale d'allarme che costituì per il governo di Vittorio Emanuele II uno stimolo ad affrettare i tempi dell'azione per realizzare la soluzione diplomatico militare dell'unità italiana.  Appoggio a Garibaldi e ultimi tentativi M. appoggiò moralmente la spedizione dei Mille di Garibaldi, che egli considerava una valida opposizione a Cavour. Dopo l'Unità riprese la lotta repubblicana, ma le persecuzioni della polizia sabauda e le condizioni di salute limitarono i suoi ultimi tentativi.  Controversie  Stampa raffigurante Mazzini con l'epitaffio della tomba a Staglieno Conflitto con Cavour M., che dopo la sua attività cospirativa fu esiliato dal governo piemontese a Ginevra, fu uno strenuo oppositore della guerra di Crimea, che costò un'ingente perdita di soldati al regno sardo. Egli rivolse un appello ai militari in partenza per il conflitto: «Quindicimila tra voi stanno per essere deportati in Crimea. Non uno forse tra voi rivedrà la propria famiglia. Voi non avrete onore di battaglie. Morrete, senza gloria, senza aureola, di splendidi fatti da tramandarsi per voi, conforto ultimo ai vostri cari. Morrete per colpa di governi e capi stranieri. Per servire un falso disegno straniero, l'ossa vostre biancheggeranno calpestate dal cavallo del cosacco, su terre lontane, né alcuno dei vostri potrà raccoglierle e piangervi sopra. Per questo io vi chiamo, col dolore dell'anima, deportati. Quando Napoleone III scampò all'attentato teso da Orsini e Pieri, il governo di Torino incolpò M. (Cavour lo avrebbe definito "il capo di un'orda di fanatici assassini" oltreché "un nemico pericoloso quanto l'Austria"), poiché i due attentatori avevano militato nel suo Partito d'Azione. Secondo Denis Mack Smith, Cavour aveva in passato finanziato i due rivoluzionari a causa della loro rottura con M. e, dopo l'attentato a Napoleone III e la conseguente condanna dei due, alla vedova di Orsini fu assicurata una pensione. Cavour al riguardo fece anche pressioni politiche sulla magistratura per far giudicare e condannare la stampa radicale. Egli, inoltre, favorì l'agenzia Stefani con fondi segreti sebbene lo Statuto vietasse privilegi e monopoli ai privati. Così l'agenzia Stefani, forte delle solide relazioni con Cavour divenne, secondo Fiore, un fondamentale strumento governativo per il controllo mediatico nel Regno di Sardegna. M., intanto, oltre ad aver condannato il gesto di Orsini e Pieri, espose un attacco nei confronti del primo ministro, pubblicato sul giornale Italia del popolo: «Voi avete inaugurato in Piemonte un fatale dualismo, avete corrotto la nostra gioventù, sostituendo una politica di menzogne e di artifici alla serena politica di colui che desidera risorgere. Tra voi e noi, signore, un abisso ci separa. Noi rappresentiamo l'Italia, voi la vecchia sospettosa ambizione monarchica. Noi desideriamo soprattutto l'unità nazionale, voi l'ingrandimento territoriale»  (M.]) Timori di M. per la cessione della Sardegna  Estratto di articolo di giornale inglese Mazzini temeva che Cavour, dopo la cessione della Savoia e di Nizza, potesse cedere anche la Sardegna, una delle cosiddette “tre Irlande”, sulla base di altri supposti accordi segreti di Cavour con la Francia, in cambio di una definitiva unificazione italiana, accordi che preoccupavano anche l’Inghilterra, la quale era intervenuta presso Cavour per avere rassicurazioni sul fatto che non sarebbe stato ceduto altro territorio italiano alla Francia. Russell commenta a Hudson, in Torino, di dire al Conte di Cavour, che il Governo inglese, informato di un disegno per la cessione della Sardegna alla Francia, protestava e chiedeva promessa formale di non cedere territorio italiano. Il dispaccio era comunicato il 26 a Cavour.»  (da Scritti editi e inediti di M., per cura della Commissione editrice degli scritti di Giuseppe Mazzini, Roma]) Riguardo alla cessione della Sardegna alla Francia, M. affermava anche. L’opposizione minacciosa dell’Inghilterra e la nostra, possono renderlo praticamente impossibile.»  (da Scritti editi ed inediti di Giuseppe Mazzini, per cura della Commissione editrice degli scritti di M., Roma) Alcune affermazioni di Giovanni Battista Tuveri, esponente del cattolicesimo federalista, deputato per due volte al Parlamento Subalpino e amico di M., confermano la possibilità di accordi segreti relativi alla cessione della Sardegna alla Francia per una definitiva unificazione del resto della penisola: «Vicino a M. ed a Cattaneo, ma con una propria originalità di pensiero, il Tuveri fu sempre fedele alle sue convinzioni federaliste o, in mancanza di meglio, autonomiste, né esitò ad impegnarsi nell'azione pratica quando circolò insistente la voce che Cavour, dopo Nizza e la Savoia, intendesse cedere alla Francia anche la Sardegna»  Anche il giornale britannico "The Illustrated London News"  citava l'inopportunità di cedere la Sardegna alla Francia, commento che aveva suscitato reazioni nella stampa francese e fatto suggerire altre ipotesi. Mazzini suscita continuamente energie, affascinò per quarant'anni ogni ondata di gioventù e intanto gli anziani gli sfuggivano. Quasi tutti i grandi personaggi del Risorgimento aderirono al mazzinianesimo ma pochi vi restarono. Il contenuto religioso profetico del pensiero del Maestro, in un certo modo rivelatore di una nuova fede, imbrigliava l'azione politica. M. infatti non aveva «la duttilità e la mutevolezza necessaria per dominare e imprigionare razionalmente le forze». Per questo occorreva una capacità di compromesso politico propria dell'uomo di governo come fu Cavour. Il compito di Mazzini fu invece quello di creare l’animus. Quando sembrava che il problema italiano non avesse via d'uscita «ecco per opera sua la gioventù italiana sacrificarsi in una suprema protesta. I sacrifici parevano sterili», ma invece risvegliavano l'opinione pubblica italiana e europea. La tragedia della Giovine Italia «impose il problema italiano a una sempre più vasta sfera d'Italiani: che reagì sì con un programma più moderato ma infine entrò in azione e quegli stessi ex mazziniani che avevano rinnegato il Maestro aderendo al moderatismo riformista alla fine dovettero abbandonare ogni progetto federalista e acconsentire all'entusiasmo popolare suscitato dalle idee mazziniane di un riordinamento unitario italiano. Le idee politiche di Mazzini furono alla base della nascita del Partito Repubblicano Italiano. Tramite la Costituzione della Repubblica Romana, ispirata al mazzinianesimo e considerata un modello per molto tempo, fu uno dei pensatori le cui idee furono alla base della Costituzione Italiana. Inoltre ebbe una grande influenza anche fuori dall'Italia: politici occidentali come Wilson (con i suoi Quattordici Punti) e Lloyd George e molti leader post-coloniali tra i quali Gandhi, Meir, David Ben-Gurion, Nehru e Sun Yat-sen consideravano Mazzini il proprio maestro e il testo mazziniano Dei doveri dell'uomo come la propria "Bibbia" morale, etica e politica. Mazzini conteso tra fascismo e antifascismo  M. sul letto di morte L'eredità ideale e politica del pensiero di M. è stata a lungo oggetto di dibattito tra opposte interpretazioni, in particolare durante il Fascismo e la Resistenza. Già prima dell'avvento del FASCISMO, il cinquantenario della sua morte e celebrato con una serie di francobolli. In seguito, nel Ventennio fascista M. e oggetto di citazioni in libri, articoli, discorsi, fino al punto d'essere considerato una sorta di precursore del regime di MUSSOLINI. Secondo un appunto diaristico (intitolato "Ripresa mazziniana") diBottai, però, l'utilizzo che ne fa MUSSOLINI e strumentale.  La popolarità di M. durante il periodo fascista è dovuta anche ai numerosi repubblicani che confluirono nei Fasci di combattimento, iniziando il loro percorso di avvicinamento a MUSSOLINI durante la battaglia interventista, soprattutto nelle aree dove maggiore era la presenza del PRI, cioè in Romagna e nelle Marche. Sulle pagine de L'Iniziativa, l'organo di stampa del PRI, si guardava a Mussolini come al «magnifico bardo del nostro interventismo». Particolare e il caso di Bologna, città in cui i repubblicani Nenni, e i fratelli Bergamo presero parte attivamente alla fondazione del primo Fascio di combattimento emiliano per poi abbandonarlo poco dopo diventando avversari del fascismo. Tra i più famosi repubblicani che aderirono al fascismo vi furono Balbo (che si era laureato con una tesi su "Il pensiero economico e sociale di M. e del quale Segrè ha scritto: «Balbo, prima di aderire al Fascismo nel '21, esitò a lasciare i repubblicani fino all'ultimo momento e considerò la possibilità di mantenere la doppia iscrizione»), Malaparte e Ricci, che nel FASCISMO vede la perfetta sintesi fra «la Monarchia d’ALIGHIERI e il Concilio di M. L'intellettuale mazziniano. Cantimori, nella prima fase del suo percorso politico che lo portò prima ad aderire al fascismo poi al comunismo, considerava il fascismo «compimento della rivoluzione nazionale iniziatasi con il Risorgimento, che doveva riuscire dove il processo risorgimentale e il cinquantennio successivo avevano fallito: nell'inserimento e nell'integrazione delle masse nello stato nazionale, nella creazione di una più vera democrazia, ben diversa dal "parlamentarismo" e lontana dall'"affarismo", dal "particolarismo", dall'"inerzia" che avevano caratterizzato l'Italia liberale». Inizialmente la tesi delle origini risorgimentali del fascismo fu fatta propria anche dai comunisti. Togliatti, polemizzando con il movimento Giustizia e Libertà e il suo fondatore  Rosselli, in un articolo su Lo Stato operaio critica il Risorgimento e indicò in M. un precursore del FASCISMO. La tradizione del Risorgimento vive quindi nel fascismo, ed è stata da esso sviluppata fino all'estremo. M., se fosse vivo, plaudirebbe alle dottrine corporative, né ripudierebbe i discorsi di MUSSOLINI sulla funzione dell'Italia nel mondo. La rivoluzione anti-fascista non potrà essere che una rivoluzione "contro il Risorgimento", contro la sua ideologia, contro la sua politica, contro la soluzione che esso ha dato al problema della unità dello Stato e a tutti i problemi della vita nazionale. La stessa posizione fu assunta d’Amendola, durante il confino a Ponza, nel primo di due corsi sul Risorgimento tenuti per i confinati, per poi rivedere tale impostazione nel secondo corso, dopo la svolta unitaria (che segnò l'inizio della politica del fronte popolare con la conclusione di un "patto d'unità d'azione" con i socialisti), allorché insistette sulle origini risorgimentali del movimento operaio. I fascisti, inoltre, rivendicavano una continuità con il pensiero mazziniano anche riguardo l'idea di “patria”, la concezione spirituale della vita, l'importanza dell'educazione di come strumento per creare un uomo nuovo e una dottrina economica ispirata alla collaborazione tra le classi sociali. Baioni scrive a proposito della contemporanea celebrazione nell’anniversario della morte di Garibaldi e del decennale della Marcia su Roma che le principali manifestazioni sembrano confermare il nesso tra il bisogno di presentare il fascismo come erede delle migliori tradizioni nazionali e la volontà non meno forte ad enfatizzarne le componenti moderne, che avrebbero dovuto distinguerlo come originale esperimento politico e sociale. Negli anni della Resistenza la situazione si complica maggiormente: il fascismo della repubblica sociale italiana intensifica naturalmente i richiami a Mazzini. Ad esempio la data del giuramento della guardia nazionale repubblicana venne fissata nel giorno della proclamazione, quasi un secolo prima, della repubblica romana che aveva avuto alla sua testa il triumviro Mazzini. Ma anche gli anti-fascisti, in particolare i partigiani di Giustizia e Libertà di Rosselli, iniziano a richiamarsi sempre più apertamente al rivoluzionario genovese. Proprio Rosselli scrisse che agiamo nello spirito di Mazzini, e sentiamo profondamente la continuità ideale fra la lotta dei nostri ante-nati per la libertà e quella di oggi. A seguito della caduta del fascismo e dell'armistizio di Cassibile, la lotta contro il nazi-fascismo vide la partecipazione dei repubblicani (il cui partito era stato sciolto dal Regime) anche attraverso la formazione di proprie unità partigiane denominate Brigate M.. Anche un comandante partigiano, proposto per la medaglia d'oro al valor militare, Manrico Ducceschi, ispirò la sua azione all'ideologia mazziniana adottando in onore di Mazzini il nome di battaglia di "Pippo", lo stesso pseudonimo usato dal patriota genovese. Altri saggi: Atto di fratellanza della Giovane Europa in Giuseppe Mazzini, Edizione nazionale degli scritti., Imola, s.e., 1Dei doveri dell'uomo Fede ed avvenire Editore Mursia  Doveri dell'Uomo  Editori Riuniti university press Roma  Pensieri sulla democrazia in Europa, trad. Mastellone, Feltrinelli, Milano, Andrea Tugnoli, La pittura moderna in Italia, Bologna, CLUEB, Antologia di scritti Dal Risorgimento all'Europa Mursia  Periodici diretti da M. L'apostolato popolare Il nuovo conciliatore L'educatore Le Proscrit. Journal de la République Universelle Il tribunoNote  La Civiltà cattolica, La Civiltà Cattolica,   «La politica acquista pathos religioso, e sempre più col procedere del secolo... la nazione diventa patria: e la patria la nuova divinità del mondo moderno. Nuova divinità e come tale sacra.» in F. Chabod, L'idea di nazione, Laterza, Bari); Da Dei doveri dell'uomoFede e avvenire, Paolo Rossi, Mursia, Milano; L'uomo nuovo in Montanelli, L'Italia giacobina e carbonara, Rizzoli, Milano, Schmid, Michael Rossington, The Reception of  Shelley in Europe  Citato nell'Edizione nazionale degli Scritti di Giuseppe Mazzini a cura della Commissione per l'edizione nazionale degli Scritti di M., Cooperativa tipografico-editriceGaleati; per la citazione vedi anche: Memoriale M.-Domus Mazziniana; Introduzione a Jessie White Mario, Vita di M. su Castelvecchi Editore; Giuseppe Santonastaso, Edgar Quinet e la religione della libertà, edizioni Dedalo; Felis, Italia unità o disunità? Interrogativi sul federalismo, Armando.  Comune di Savona  Liguria magazine in.  Gilles Pécout, Il lungo Risorgimento: la nascita dell'Italia contemporanea Pearson Italia S.p.a., 01  Patria, nazione e stato tra unità e federalismo. M., Cattaneo e Tuveri, CUEC, University Press-Ricerche storiche, La tesi del figlio sicuramente di Mazzini è sostenuta in Bruno Gatta, Mazzini una vita per un sogno, Guida, Il dubbio invece che si trattasse veramente di un figlio di Mazzini è espresso in Luigi Ambrosoli (M.: una vita per l'unità d'Italia, ed.Lacaita): «Ma proprio il ritardo con cui venne comunicata a Mazzini la notizia della morte di Adolphe fa sorgere qualche dubbio sulla supposizione, per le altre ragioni accennate ben fondata, che si trattasse di suo figlio». Dubbi simili vengono riportati in Mastellone, M. e la "Giovine Italia",  Domus Mazziniana, («D'altra parte, è da aggiungere che nelle lettere inedite a Ollivier, che pubblichiamo, M., pur parlando di Giuditta come della propria amica, se accenna ad Adolphe come figlio di Giuditta, non allude al bambino come proprio figlio:...») Barberis, in Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  M. a Londra  È l'autrice del romanzo gotico Frankenstein (Frankenstein: or, The Modern Prometheus). Curò le edizioni delle poesie del marito Shelley, poeta romantico e filosofo. Era figlia della filosofa Mary Wollstonecraft, antesignana del femminismo, e del filosofo e politico William Godwin.  Susanne Schmid, Michael Rossington, The Reception of P.B. Shelley in Europe  Seymour, Mary Shelley, M., il cospiratore senza segreti  Lettere di Mazzini ad Aurelio Saffi e alla famiglia Crauford Giuseppe Mazzatinti Soc. Alighieri  Politica e storia Buonarroti e altri studidi Pia Onnis Rosa Edizioni di storia e letteratura Roma M. «pavese» e l'Unità d'Europa  Quando M. scatenò il patatrac sognando la Repubblica pbmstoria. Legnago a Giuseppe Mazzini, Grafiche Stella, S. Pietro di Legnago (Verona) Scarpelli, La scimmia, l'uomo e il superuomo. Nietzsche: evoluzioni e involuzioni  Pensiero di M., brigantaggio: la Repubblica nasce nel nome di M., su pri.Carducci scrisse una famosa lirica intitolata Mazzini i cui versi finali sono rimasti nella storia: «E un popol morto dietro a lui si mise. Esule antico, al ciel mite e severo Leva ora il volto che giammai non rise, /Tu solpensandoo ideal, sei vero».  La stessa semplice scritta volle Spadolini, politico e storico repubblicano, sulla propria tomba a Firenze  Luigi Polo Friz, La massoneria italiana nel decennio post unitario: Lodovico Frapolli, Franco Angeli, Storia della Massoneria in Italia. L'influenza di M. nella Massoneria Italiana   in.  La stanza di Montanelli L' unità d' Italia e la Massoneria  M. massone?  A.Desideri, Storia e storiografia, IEd. D'Anna, Messina. Gli sconvolgimenti operati dalla Rivoluzione francese avevano fatto dubitare a molti uomini della razionalità della storia, così altamente proclamata nel secolo precedente. L'unica alternativa allo scetticismo parve allora la fede in una forza arcana operante provvidenzialmente nella storia» in A. Desideri, Ibidem  «S'identificò la storia della civiltà con la storia della religione, e si scorse una forza provvidenziale non solo nelle monarchie, ma sin nel carnefice, che non potrebbe sorgere e operare nella sua sinistra funzione se non lo suscitasse, a tutela della giustizia, Iddio: tanto è lungi dall'essere operatore e costruttore di storia l'arbitrio individuale e il raziocino logico». Adolfo Omodeo, L'età del Risorgimento italiano, Napoli. Così il genere umano è in gran parte naturalmente servo e non può essere tolto da questo stato altro che soprannaturalmente... senza il cristianesimo, niente libertà generale. e senza il papa non si dà vero cristianesimo operoso, potente, convertitore, rigeneratore, conquistatore, perfezionante.» (cfr. Maistre, Il Papa, trad. di T. Casini, Firenze)  M., Fede e avvenire, M., Fede e avvenire. Ha una visione utopica, romantica e anche sincretistica della religione, che egli considerava come il contributo, in termini di princìpi universali, delle varie confessioni e fedi alla storia collettiva.» SenatoDoveri dell'uomo, M., Dei doveri dell'uomo  Fusatoshi Fujisawa, La terza Roma. Dal Risorgimento al Fascismo, Tokyo, M. il patriota scomodo  Reghini a metà strada tra fascismo e massoneria  «Noi dissentivamo su diversi punti: sulle idee religiose, ch'ei non guardava, errore comune al più, se non attraverso le credenze consunte e perciò tiranniche dell'oggi; sul cosiddetto socialismo, che riducevasi a una mera questione di parole dacché i sistemi esclusivi, assurdi, immorali delle sétte francesi erano ad uno ad uno da lui respinti e sulla vasta idea sociale fatta oggimai inseparabile in tutte le menti d'Europa dal moto politico io andava forse più in là di lui: sopra una o due cose delle minori spettanti all'ordinamento della futura milizia; e talora sul modo d'intendere l'obbligo che abbiamo tutti di serbar fede al Vero. Ma il differire di tempo in tempo sui modi d'antivedere l'avvenire non ci toglieva d'essere intesi sulle condizioni presenti e sulla scelta dei rimedi» (M. su Pisacane)  Lettera a Forte Londra. Noi crediamo in una serie infinita di reincarnazioni dell'anima, di vita in vita, di mondo in mondo, ciascuna delle quali rappresenta un miglioramento ulteriore…» (M., in Bratina). La vita d'un'anima è sacra, in ogni suo periodo: nel periodo terreno come negli altri che seguiranno; bensì, ogni periodo dev'esser preparazione all'altro, ogni sviluppo temporale deve giovare allo sviluppo continuo ascendente della vita immortale che Dio trasfuse in ciascuno di noi e nella umanità complessiva che cresce con l'opera di ciascuno di noi» (Dei doveri dell'uomo).  Leggeva Dumas e i testi buddisti Il volto inaspettato di Mazzini  Il Foscolo, che scriveva di aver visto da giovinetto a Venezia un "libercolo" attribuito a Gioacchino, in cui erano indicati i papi futuri, affermava che la fama dell'abate era "santissima" tanto che Montaigne, desiderava di poter vedere questa meraviglia: «le livre de Calabrois, qui prédisait tous les papes futurs, leurs noms et formes»  G. da Fiore, Concordia Veteris et Novi testamenti, B. Rosa, Gli appunti manoscritti di Mazzini, Impronta, Torino, Sarti, M. La politica come religione civile, con postfazione di Mattarelli, Roma-Bari, Laterza,  A.Omodeo, Introduzione a M., Scritti scelti, Mondadori, Milano,  «L'Italia trionferà quando il contadino cambierà spontaneamente la marra con il fucile». in C. Pisacane, Saggio sulla rivoluzione, ed. Universale Economica, Milano; M.: comunismo vuol dire dittatura  Il "Manifesto" di Marx? Scritto contro Mazzini  Doveri dell'uomo, capitolo XI, punto 3°  M., Doveri dell'uomo, cap.XI (in Baravelli, L'Italia liberale, ArchetipoLibri,  A. Gacino-Canina, Economisti del Risorgimento, Torino, POMBA, 1G. Mazzini, Istruzione generale per gli affiliati nella Giovine Italia in Scritti editi e inediti, II, Imola, M., op. cit.  Nome col quale i greci indicavano l'Italia antica  L. Stefanoni, G. M.: notizie storiche, Presso Barbini, Ricordi dei fratelli Bandiera e dei loro compagni di martirio in Cosenza  Documentati colla loro corrispondenza, Dai torchi della Signora Lacombe, Pisacane. Volantino pubblicato su "Italia del popolo", G. Cataldo, Chi ha paura di M.?, in la stampa. D. Smith, M., Rizzoli, Milano, D. Smith, Contro-storia dell'unità d'Italia: fatti e misfatti del Risorgimento, Milano, Gigi Di Fiore, Cappa, Cavour, Laterza, definizione di Cavour riportata da The Morning Post. We have three Irelands, in Sardinia, Genoa and Savoy  La terza Irlanda, Gli scritti sulla Sardegna di C. Cattaneo e M., Cattaneo, M., Francesco Cheratzu, 8pagg. M. La Sardegna Tip. A. Debatte Livorno, Risorgimento Rassegna The Illustrated London News In A. Saitta, Antologia di critica storica, Laterza, Le citazioni sono tratte da A. Omodeo, Introduzione a M., Scritti scelti, Mondatori, Milano, (Fusaro); Benedetti “M. in Camicia nera” edito della Fondazione 'Ugo La Malfa'; Dal diario di Bottai. Spesso, all'uscita dei cento e più volumi dell'edizione nazionale di M. trovo il Duce, a palazzo Venezia, immerso nelle folte pagine. O meglio, v'immergeva, a ferire di pugnale, il suo metallico tagliacarte: e ne tirava fuori brandelli di M. A quando a quando il brandello anti-francese, anti-illuminista, anti-nglese, anti-socialista, etc. etc. Brandelli, mai tutt'intero, nella sua viva, molteplice e pur varia personalità; S. Luzzatto, Riprese mazziniane, Mestiere di storico: rivista della Società italiana per lo studio della storia contemporanea (Roma: Viella); P. Benedetti "Mazzini nell'ideologia del fascismo"  G. Belardelli, “Camerata M., presente!” Gentile, Balbo, Rocco, Bottai: tutti i fascisti tentarono di arruolarlo, Corriere della Sera; “Manifesto realista” pubblicato sulla rivista L'Universale Cromohs Pertici Mazzinianesimo, fascismo, comunismo: l'itinerario politico di D. Cantimori, R.  Pertici, Mazzinianesimo, Fascismo, Comunismo: L'itinerario politico di Cantimori Cromohs, La memoria e le interpretazioni del Risorgimento, Guerra e fascismo da 150anni. Togliatti, Sul movimento di «Giustizia e Libertà», in Lo Stato operaio, antologia F. Ferri, Roma, Riuniti); Fatica, Amendola, Giorgio, in Dizionario biografico degli italiani,  Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Mieli, "L'Italia impossibile di Mazzini un fallito di genio", Corriere della Sera, M. Baioni, Il Risorgimento in camicia nera, Carocci, Roma; Corriere della Sera in Arianna editrice  Mario Ragionieri Salò e l'Italia nella guerra civile, Ibiskos, P. Mieli, art. cit.  Treccani Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Associazione Nazionale Partigiani d'Italia. “Saggi”, A. Saffi e di E. Nathan, Roma, “Lettere a Saffi e alla famiglia Craufurd, Società Dante Alighieri di Albrighi, Segati, Roma); “La democrazia in Europa, trad. a cura di S. Mastellone, Feltrinelli, Milano, V. Marchi, Ricostruzione della filosofia religiosa, in Dio e Popolo, Marchi, Camerino Joseph de Maistre, Il Papa, Firenze, A. Omodeo (Milano, Mondadori); A. Codignola (Torino, POMBA); Omodeo, “Il ri-sorgimento italiano, Napoli, ESI, Chabod, L'idea di nazione, Bari, Laterza, Monsagrati (Milano, Adelphi); Batini, Album di Pisa, Firenze, La Nazione, F. Peruta, I rivoluzionari italiani: il partito d'azione, Milano, Feltrinelli, Il processo a Vochieri, Alessandria, Lions; Albertini, Il Risorgimento e l'unità europea, Napoli, Guida, Smith (Milano, Rizzoli); S. Mastellone, Il progetto politico di Mazzini: Italia-Europa, Firenze, Olschki); Desideri, Storia e storiografia, Messina, Anna); R. Sarti, La politica come religione civile (Roma, Laterza, Mattarelli, Dialogo sui doveri (Venezia, Marsilio); Galletto, Nella vita e nella storia” (Battagin);  N. Erba, Unità nazionale e Critica storica, Grasso, Padova. N. Erba, Il Contributo italiano alla storia del pensiero Ottava Appendice. Storia e politica, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, Dear Kate. Lettere inedite di M. a Katherine Hill, A. Bezzi e altri italiani a Londra, Rubbettino; Saggio sulla rivoluzione, Universale Economica, Milano); I sistemi e la democrazia. Pensieri Con una Appendice su La religione di M. scelta di pagine dall'Opuscolo Dal Concilio a Dio, V. Gueglio (note al testo, repertorio dei nomi e saggio introduttivo) Milano, Greco); Giuseppe Mazzini verifiche e incontri Atti del Convegno Nazionale di Studi, Genova, Gammarò, Tufarulo, G,M.- L'Iniziatore, l'iniziato, Dio e popolo. La tempesta mazziniana nella rivoluzione del pensiero Cultura e Prospettive, Filmografia Viva l'Italia di R. Rossellini. Film incentrato sulla spedizione dei Mille. M., sceneggiato RAI, regia di P. Passalacqua, Il generale, sceneggiato RAI, regia di Magni.  M. è interpretato da Bucci. Noi credevamo di M. Martone. Mazzini è interpretato da T. Servillo. Garibaldi, miniserie di Rai 1 ; interpretato da Lombardo. L'alba della libertà, cortometraggio, regia di Emanuela Morozzi, Associazione Mazziniana Italiana Domus Mazziniana Doveri dell'uomo Mazzinianesimo Monumento a M. (Firenze) Museo del Risorgimento e istituto mazziniano Pensieri sulla democrazia in Europa Risorgimento.  su Treccani Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia. Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,.  su sapere, De Agostini. hls-dhs-dss.ch, Dizionario storico della Svizzera. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, storia.camera, Camera dei deputati.  Istituto Mazziniano a Genova; Rai Tv: "La Storia siamo noi": una certa idea dell'Italia, su la storia siamo noi.rai. 3Mazzini e le frontiere d'Italia su viacialdini. Pagine mazziniane: "il pensiero e l'azione", dal sito della Biblioteca Nazionale di Napoli, su vecchiosito bnn Domus Mazziniana di Pisa, su domusmazziniana. Associazione Mazziniana Italiana, Scritti Prose politiche, Cenni e documenti intorno all'insurrezione lombarda e alla guerra regia, Scritti editi e inedit, Celebrazioni mazziniane Mazzini, Triumviro della Repubblica Romana, A. Saliceti Aurelio Saliceti. Giuseppe Mazzini. Mazzini. Keywords: la giovine italia, la tesi di laurea di Benedetti su Mazzini nella ideologia fascista, ideologia fascista, gentile, bobbio, garibaldi, nazione italiana, stato nazionale, stato unitario. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Mazzini” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; Grice e Mazzoni: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – la vita attiva dei romani – la scuola di Cesena -- filosofia emiliana -- filosofia italiana -- Luigi Speranza (Cesena). Filosofo italiano. Cesena, Emilia Romagna. Grice: “Mazzoni is important on various fronts: he loves Dante, or Alighieri as Strawson calls him – his library in organised alphabetically; the other front I forget!” Compì i suoi studi di lettere a Bologna e quelli di filosofia a Padova. Membro dell'Accademia della Crusca, fu tra i preferiti del papa Gregorio XIII che lo avrebbe voluto prelato; Mazzoni preferì proseguire nella carriera universitaria. Dapprima fu all'Macerata, ed in seguito a Pisa, dove ebbe la cattedra di filosofia. Nella città della torre pendente, conobbe un giovane insegnante di matematica, Galilei, con il quale instaurò ottimi rapporti. Invitato ad insegnare all'Università La Sapienza di Roma. Benché avesse da poco preso questa cattedra, seguì il cardinale Pietro Aldobrandini nei suoi incarichi a Ferrara ed in seguito a Venezia. Ammalatosi sulla strada del ritorno, si recò nella sua Cesena, dove si spense. Opere: “Difesa della Commedia di ALIGHIERI Grazie alla sua preparazione letteraria, giunse alla notorietà per il suo tomo Difesa della Commedia di Dante, pubblicato a Bologna inizialmente, sotto pseudonym e poi l'anno successivo sotto il suo vero nome, in cui criticò aspramente Leonardo Salviati. Nel testo egli risponde ad alcune contestazioni fatte alle sue elucubrazioni sul sommo poeta Dante Alighieri. Parimenti nel libro si occupa anche di argomentazioni pertinenti alla filosofia ed alla poetica”; “In universam Platonis et Aristotelis philosophiam praeludia Interessato anche all'astronomia, Mazzoni espone le sue teorie in quello che risulta il suo testo più importante ovvero In universam Platonis et Aristotelis philosophiam preludia. In questo saggio egli sostiene il sistema geocentrico aristotelico contro la sempre più diffusa e apprezzata teoria copernicana eliocentrica. Questo volume è divenuto molto noto poiché Galilei, dopo averlo letto, gli inviò una lettera, nella quale difendeva Copernico e le sue teorie. Questa missiva rappresenta la più antica testimonianza dell'adesione alla teoria eliocentrica di Galilei. M., Prefazione, in Mario Rossi, Discorso di Mazzoni in difesa della "Commedia" del divino poeta ALIGHIERI, S. Lapi.Saggi: “Discorso de' dittongi” (Cesena, Rauerio); “Discorso in difesa della Comedia del divino Alighieri contro Castravilla” (Cesena, Raveri); “De triplici hominum vita ACTIVA nempè, contemplativa, et religiosa methodi tres, quaestionibus quinque millibus, centum et nonagintaseptem distinctae in quibus omnes Platonis et Aristotelis, multae vero aliorum Latinorum in universo scientiarum orbe discordiae componuntur” (Cesena, Raverio), “Della difesa della Comedia di Alighieri -- distinta in sette libri” (Cesena, Rauerio), “Intorno alla risposta e alle opposizioni fattegli da Patricio, pertenente alla storia del poema Dafni, o Litiersa di Sositeo poeta della Pleiade” (Cesena, Raverio); “Ragioni delle cose dette e d'alcune autorità nel discorso della storia del poema Dafni, o Litiersa di Sositeo” (Cesena, Raverio), “In universam Platonis et Aristotelis philosophiam praeludia” (Venezia, Guerilius); TreccaniEnciclopedie Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Toffanin, M. nciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. M., su sapere, De Agostini. Davide Dalmas, M. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. M., su accademicidellacrusca Accademia della Crusca. Opere di M., su ope nMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di M., Benedetto, M. in Enciclopedia dantesca, Istituto dell'Enciclopedia, Dizionario Enciclopedico Brockhaus Efron, Маццони, Джакомо. Ostracismum laudabit huius ce Reipub. formam ciae et A J de Repub. ses, illud affequebantur, quod improbi meliores essent co- Achen. oss ditione, quàm probi, quod quid ememanavit ex eo, quod REI PUBLICAE ROMANORVM FELICITAS cibiadis. VITAE ACTIVAE. Ficienda erant, ad Confu pertinebat examinare diligenter, coaciones quoties opus est et evocare, So Cspopulore ferre, quicquidque maior parsius filler exequio1 quin etiam in his quae ad belli apparatum et castrensem disciplinam pertinet, hi summon i imperium habebant. Hiseniius erat sociis quic quid visunt eller imperare, Trib. militum creare, de l e ett uniq. Habere, ad haec de his qui sub corum imperio erantin castris arbitratu suo supplicium fumiere, his praeterea licebat comitante quaestore, lacse dulo imperata faciente, publiciaeris, quantum resipsa posset, Rei-pub. forniani Regiam esse. Senatus autem primo quidem acrarii totius dominus erat atg; administrator: nam et redditus omnes in eius erant potestate, et eiusdem arbitratu im pensae fiebant, malefi ciaque et crimina PER ITALIAM commissa, de quibus iudicium publicae fieri debebat, ut puta proditionis, coniurationis, beneficii, caedis, at q ; insidiarum ad Senatum refeerebantur, eiuss; de his erat cognitio quod si vlla APUD ITALOS controversia dirimenda, si publica, vel privatim qui spiam, vel civitas ob iurganda, si cui auxilium, aut praesidium ferendum esset, de his omnibus curam Senatus ad hib ebat. codemo popularis Rei-pub. fornia videtur. Consules enim ante quam ex urbe legions educerentur quinimo et quaede Res Publica per populum transigenda. Et có.,{{1 Pin !! porro tulerit impendere quod fi quis ad hanc partem respexerit, probaliter dicere videre licet tuni Regiam, optimorum, populiģ; gabernationem: quoties enim Consulum imperiuint ueamur, Re gia, quoties verò Senatus authoritatem optimarum admianistratio, quoties autem populi potestatem respicimus, banaruni omnium rerum ins, atq; imperi una habebant: his et enim caeterionines magistratus praeter Tr.Ple.fa? bijci ebantur, hi legationes in curiam traducebant, hic ea leriter quae errant decidenda ita tuebant, negociaģ; magna ad Senatum: referebant, et penès ipsos vtquae patres de: creuissent sedulo perficerentur cura omnis et administratio erat METHODVS. codemq; modo fi extra ITALIANI ad aliquos legat somittenda esset, vel ad aliquid decidendum, vel ad foedus faciendum, vel ad cohortandum, vel ad imperandum, aut poftre mo ad resrepetendas, aut ad bellum in dicendum, haec in yrben venerint agendum, quid eis respondendum in populo commune, ad eo ut quoties quis ad urbem consulibus ab sentibus profectus esset, prorsusei Respublica optima tum confilioregi et gubernari videretur, quod fanem multi graecorum et regum per sua sum habuerunt, quod negocia, quae in urbe haberent ferem, omnia per Senatum tra is incos, qui maiores magistratus gessissent, admittebatur solus autem capite damnandi potestatem habuit, qua in re illuds anèapudeos commemoratione dignissinum fuit, quod eorum instituto iis qui capitis damnati fuerant, ut on ex urbe palan egrederentur, permittebatur, acfi Tribuum una ex his, quae iudicium exercebant reliqua fuerit, quae in non dum suffragium tulerit, exiliun: reo sibi arbitratu suo deligendi facultas dabatur, exulesautem Neapoli [NAPOLI], Praene siæe,Tybure, atg; in alia quauis foederatorum urbe tuto elle deferebat, lege etiam comprobandi, ac sanciendi ius habebat et quod caput eitis de pace de bello, defoedere, decom trouersiis decidendis, aur componendis deliberavit, atque unum quod quem horum ratuni, aut irritum faciebat, quibus, ex rebus probaliter pofleta liquis dicere, populuni si bi maxima min Res Publica partem vindicasse, ac Rei publicae formam Senatus ipse curabat, et providebat. Praetere a quid delegationibus ex terarum gentium, quae ex populi administratione confatam fuisse. Quò igitur pacto Res Publicae, in partes diftributa fueritiam sigerentur suae tianı populo, et eaquidem amplissima pars reli&a est: poterant praeterea populus ipse magistratus dignissimis quibusque Senatus voluntate, arý; arbitrio pofitumerat. atq; horum quidem, quae superius dicta sunt nihil est cum folusenini in Republica et poenae, et praemiis potestatem habebat, et plerunq; in aliis etiam qua estionibus quoties gra priuior alicui maleficijmulata irrogannda esset et praesertim ditum VITAE ACTIVAE rendas, ac perficiendas idoneus hauderat conttar enim legionibus eorum aliquid missum, quae illis publice suppeditari solebant, namq; fineS.C.neớ; frumentum, neq; vestimenta, nec obsonia legionibus administrari poterant, ad eo ut eorum, qui exercitus duxissent expeditiones et consilia omnia, quoties eis obstare, cum eila; maligne agere Senatus inanimum induxisset, irritaredde rentur, et minimem ad exitum perducerentur: quin ut quae ili animo et cogitatione complexi fuerant, ac sibi proposuerant perficere possent, ili Senatus voluntate positum erat: nam is post quam niannuum tempus praeterierat, aut successors mittendi, aut imperium prorogandi potestatem habuit, ac etiam penem se undem fuit ducum res gestas et dignitatem velex tollere, atý; ornare, velele vare, ac deprimere :nani triumphos, neộ; ut I decet apparere, neġ; ducere cuiquam licebat, ni aliensus fusset S e longissime abfuiflet, populi certe aflen su opus erat, quodq; est omnium ferem maximum, omnes imperio deposito, populo eorum quae gesserint rationem reddere oportuit, qua propter Consulibus, caeteris; Imperatoribus minime expediebat, Se. po. quem voluntatem erga se conteninere rursu siani Senatus quam uistant umin Res Puplica potuerit po illius authoritatem approbasset populus, praetereasi quisex Trib. pleb, intercesserit, nedum Sena erat 1 natus, et ineius fumptum erogasser necessaria. Et siquis ex prouincia decedere voluisset, quamuis domo pulum tamen intueri, ac illius rationem habere coactus fuit: in maximis enim,atg; atrocissimis quaestionibus eorum maleficiorum, quae contra Rempub.conmislaca-. piteple&untur,nihilSenatus ex equipotuiffet, nisi prius tus nihil eorum quae decreuerat perficere: sed ne sedere quidem, automnino incuriamvenire poterat: Trib.autí 11 di et um est: nunc autem quaratione potuerint partes illae quoties voluerint, sibimutuo repugnare, fibiq; inuicem opitulari, dicendum eft: enimuerò Consul poft quameani, quam superius dixi facultatem adeptus, copias eduxerat, funini o quid e mille cum imperio videbatur esse: verum populi, ac Senatus auxilio indigebat, ac sine his adresge 1 erat officium id femper exequi: quod populo visunr fuerat ciasý voluntatem quani maximè respicere, his omnibus cepissent, eos relevandi; siquae difficultas, aut publicuni seei sintortunium; quo minus ellent foluendi obstitisser, loca . tionemg prorfusin ducendi, ius et potestatem habuit. 7 eodenie modo Consul ut hac tionibusti midem, ac minime libenter aduers ab an turtum populus, tum Senatus caniforis, militiaeque; universus exercitus, et singuli, quia fub c o ad se inuice miuuandun, et impediendum adomnes rerum 217;.occasiones; ex opinione Polybije aminterse aprem, conue Bodi nichteré connexae; dispofitaeq; fuerunt,vt hac nullam e Izifior, praestantiorg Rei pub formare periti potuerit.' name, cum habeant omnes Res pub. In orbe quandam có 11.4, versionem et mutationem. Nullam ipse hac firmior emar Essen bitratus eft, fiquidem poft uniuersalia dilaniaa missis, ac sublatis artibus et studiis, aliquo post tenporis intervallo rursus humanum genus auctum et propagatum fuit, quo tempore in homini bas naturale arbitrary debemus, quod etia in in ratione carentium animalium generibus comtin gerevidenius, inquorum gregibus fortiffimus quisý; manifestò principatum fibi vendicat: omnes enim fortissimum et potentissimum fectabantur, aró; ita vnius dominiuni oliniigitur quisemel honore illo digni habiti sunt in regnis consenescebant iusta studia fe& antes nullaq; propter eos invidia, fi qui de m non magna in eis aut v i et tis, aut verò omnibus Senatus praeerat. idem diem proferendi, fiquam publicani calaniitate mac rum imperio, ac potestate eflent.i Haecporrò cum elfét vnius cuiusý partium vis et facultas METHODVS decáüllis multitudinem Senatus metuebat, ad populique : voluntatem, studi uni et cogitations suas dirigebat. At contra Senatu i populus ipse obnoxius, et subie&userat, eumque universim, et singulatim colere, arg; obseruare sua per magni interesse putauit, cum enim effent in ITALIAM ul bidid tave et igaliuni genera, quae Censores in fumptus appara 33°53.stusd; publicos locare solebant:in his omnibus conducen discurandis populus implicitus esse confutu i c :his ve constitutum eft. 287 H Iitus kitus gracatio cernebatur: verum funiperin emculisciuium wi t a n i lag cotes, eaem qua populus victus ratione vte ban 7 sed post quàm horum filij cum iam comparata haberent imperio, essent differre et ad haec licexe etiam spemine : prae metu contradicente: in concesus concubitus appetore, ató;ita coorta eft ex RegnoTyrannis. Noći atg hoc manifestem liquet, ex Cyri, Cam.bylif que imperio, fortissimis viris coniurationes, adinuante etiam ducum En suorum consilia multitudine, atg; ilius imperii quodpe nesvnum erat forma facile vedelereture ueniebat, atque indeiam optimatum principalu sortunt, atque initium accepifient, educati abinitio in poteltate, ang honoribus apparatus, alijsad vim mulieribus per Itapra, et raptus inferendam, alijdenių; adaliaturpiale conuertebant, atậ; ita optimatum principatus ad paucorun dominationem hinc illorum imperioper idem quod tyrannos oppresserat in fortunium finiş imponebatur, ncq; praeterea Regen creare libuit sobiniuftitiac, qua superiores vsi fuerant metum, neg; pluribus committere Rem publicam audebanttam re centi rei malae gestacniemoria ad suanı igitur fidem publica recipiebant, atq, ita popularis fornia effe et aeft horum postremo filii plus caeteris in Res Publica posse contendebant; atg; sinhanc cupiditatem, maxime locupletiores incidents maximis pecuniae largitionibas plebem cor runipebant VITAE ACTIVAE paternis, propter eaae quabilis, communisų libertatis ru ;,-des& ignari, alijvinolentiam ;& luxuriofosconuiuionum translatuseft. praesidia,& rebusadvi&um pertinentibus,magis quàm pro neceffitate abundarent, ob nimiam bonorum copiam, atq; aff.uentiam cupiditatibus obsequentės, arbitratifunt oportere principes, ornatus et epulisabijs, quifubeoruni f :: quod& Herodotus affirmat contra huiusce modi principes fiebantàgen crofiffimis,& 1 1 tur . duxit . hiprinò administratione gaudentes commun ivtilitate del nihil antiquius habuere, 31.disinijinsi. Sed emi a n i eorum liberi e andem å patribus potestatem METHODUS I rumpebant, quae affirefacaaliena bonaconselle, vitách; suae spem omnem in alienis fortunis ponere facileducem elaro animo, ace; audacise et abatut,atý;tum Rei publicae for mailla, cuius conservatio in flavum fiducia posita est, nascebatur, fiqui deintum plebs in vnum coactacaldem facere, ciues eijcere, proscriptorum; agrosdiuiderein Scipiebat, donec facuum tuufus, &erforatum, vniusiruperit *0 um reperiretur, qua propter his motus rationibus eamprae caeteris lau Res publicae benainaliam bonam non mutetur quam bona innalam, siquidem ut Aristoteles dicit in habentibus infi dese symbolum facilior eft tramlitus, an quia fimilitudo ila, ali neracione. Quam qaog contrarieta temr equirit? quodquidéin Ele's atme mentorum trasmutatione liquid paret: inhisverò Reip. niutaionibus, quis fimilitudineni, et contrarietateinnes gabit) FACVLTAS ROMANORVM . quo ad leges veròattinet, quibusviifunt ROMANI, occur rimtnobismulca, quae vt figillatim esplicentur,rom ab otoexordientur; et inprimisant equam ROMULUS [ROMOLO] leges 1.2. demai. vixit .pokea loges quasdam ipse tulit, cum alijs sequentibus Ro. gibus, quas curiatas appellarunt, fequidem conuacat oper triginta curias populo Imgalifý; curiis inseparatas epra constitutis et sententiam rogatistege solim ferebankor,;? quae populi congregario comitia curiata dicebantur, à cocundo; quòd populuscoiret,et viri timlogesterret, et dicerScruiusTulliusRex hunc mioremimuutle: camépo pulo eaporekasrelictaest, vt plebiscita, et leges comitijs. Dät Polybius, quaeonines Rerum pub. forniasin seconti not atg congregat, ne quacar uim vlera quàm facis fit au et a 1ist. et prouceta in sibi adherenteni,& coguatam pernicien in: -b.cideret: fódvniuf cuiufớiroboreac potential interfeinui liseem obnitentesulla ciuitatispars vfquam declinaret, ne 1.Dvivein altum propenderer. ex supradi& isautem dubucabit forfan aliquis,curfaciliusa Pomp.in suriaras ferret populus incerto iurs, incertis que legibusparis. H 2 curiaris LECALI vinil 1.& ler VITAE ACTIVAE. COROLLARIVM Augusto [OTTAVIANO] hinc et Suetonius ait Tiberium à [GIULIO CESARE] in foro legecu riaelle adeptatum, hoc eft suffragiis populi percurias collectis. quidam retulerunt. pe: TAPE PTA LEGALIA ! Ilarunt, ad haec verò addita su t plebiscita, Senatus consulta, practorumedicta, et principum placita,exquibus EJSER Servorum verò (cuius origo deiu regentium fluxit) iuxta curiatis ferrentur,iii IB":NOI 3quaedam .de iur. 8oz idem parierro relabitur ybi putabat,cum quiinciuitate sua Facinus patrasset, si in alium lo cum peruenisse t accusam o m . iud. ai tik di t e r e a sunt prudentum declarationes, quas responsa appeluorum fi Ергл. 800exa& isdeinceps Regibus lege Tribunicia Regum leges antiquataesunt, poftquècaepit POPULUS ROMANUS incer tomagisiure& consuetudine aliquavti; quamlegelata, done e decem viri leges à Graecis petierunt, quas in tabu liseburneis praescriptas pro roftrisappo fuerunt,vt faci lius percipipoffent, atý;cum animaduerfumeffet aliquid 1 primisistislegibusdeelle; aliasduaseisdem tabulis,adie cerunt,& itaexaccidenti appellate esuntleges duodecim 14 'ride illo crimine non potuisse exemplo Hermiodori. Qui demomn eius ROMANORUM coaluit. 804 quod quidem universum refertur, vel ad personas,velad res, vel ad a et iones. Iureconsulti verba vnatantunt fuit conditio, istig;domi defta.ho. nioalieno contra naturam subijciebantur. :.ning Liberi in li. cum TABULARUM, quarum ferendarum authorem fuiffe X Cicerone .I.v.in. viris Hermodorum quendá Ephesum exulantem in ITALIA Tus, argumentum ad exules. net ibni I PERSONAE lib.3.f. dedos hominesautem autliberisunt,autferui. fta.ho. li ? رز inli.2.de80r rationeveròhuius Hermodorinon rectè colligitBaldus {,oz inillisautêquiafummaeratobscuritas desiderataeprop habent,quodlibet faciendi legenon prohibitum, atý;isto rum, alij sunt liberti, alij libertini, alij ingenui. Quià mortein vita millosre uocarunt, appellabantur. -horun, autem alij ciueserant ROMANI, qui vindicta, censu,Vlp.cap.s. : aut testamento nullo iure impediente n i anumis li sunt, alij instic. latiniIuniani,quiexlegelunia interamicos manumisli funt, alijdeditiorum numero, qui propter noxam torti nocételáinuenti sunt, deinde quoquomodo nianumisli. LIBERTINI. INGENVI. $ 11. Ingenuorum veròalijluisunt iuris, alijverò alieno iuri fubie&i. et savie quialieno iuris ubie et isuntfilij familias appellan-1.1.f.&his tur, qui inditione, et potestate patris sunt vel natura, velquisútlui adop. natura sunt qui ex nuptiis uxoris et maritioriuntur. NVPILAE. Nuptia cverò apud ROMANOS tribus per ficiebantur modis Bəê in2: tiaeper coemptionem. Mulieres autem quae in manu per coenuptionem conue nerant matres familias vocabantur, quaeveròvsu, velfar reationeminime. caeterae aliaevxoresvsu erant. Anim aduertendum est autem maximam fuisse differentia adoptione. Farreatione nempè, coemptione, &ylu, et fanèfar reatio Top. Cicerone folis pontificibus conueniebat. coeniprioverò cereis solemnitatibus per agebatur, fese.n. 1. 2. ff.de METHODVS Liberi sunt qui nullius imperio subie &I facultatem liberā LIBERT1. Liberti funt quos domini ex iustaserui. Il convito di Platone. Discorso de' Dittonghi di M. all'Illustrissimo Signor il Signor Francesco Maria de Marchesi del Monte. In Cesena Appresso Raverio. Questo Discorso sitrova altresì inserito nella celebre Raccolta degli Autori del bel Parlare, impressa nella Basilicata. II.Discorso di M. indifesa della Comme dia del divino Poeta Dante. In Cesena per Bartolomeo R a verii in4.Ladedicaè AlMoltoMag.mioSig. Osservandissimo il Sig. Tranquillo Venturelli . Da Cesena. De’ motivi, che indussero l’autore a scrivere questo dotto ed ingegnoso Discorso, se ne ragiona qui addietro a cart.19. e segg. III. M. Oratio in funere. Guidiubaldi Fel trii de Ruvere Urbinatium Ducis .Pisauri apud Hierony mum Concordiam. in4. IV.M. Cæsenatis deTriplici HominumVita, Activa nempe, Contemplativa, ei Religiosa Methodi tres, Qyestionibus quinque millibus centum etnonaginta septem distincta. In quibus omnes Platonis et Aristotelis, multæveroaliorum Græcorum, Arabuin, et LATINORUM in universo Scientiarum Orbe discordiæ componuntur. Quaomnia publice disputanda Roma proposuitAnno salutis Ad Philippum Boncompagnum S.R.E. Cardinalem amplissi mum. Cæsena Bartholomæus Raveriusexcudebat in Questo volume contiene le celebri conclusioni di quasitutte le scienze, che M. difese pubblicamente con meraviglia di tutta S2 . 1 1 Ita 1T Della Difesa della Commedia di Dante ec. Parte Pri ma, che contiene li primi tre libri, pubblicata a beneficio del mondo letterato. Studioe Spesa di D. Mauro Verdoni, D. Domenico Buccioli Sacerdoti di Cesena, e da essi dedi cata all'Illustriss. eReverendiss.Monsignore Sante Pilastri Patrizio Cesenate dell'una e dell'altra Segnatura Referendario, Abbreviatore de Curia, e della Santità di N. S. In nocenzioXI.eSua Cam. Apost. CommissarioGenerale.In Cesena Per Verdoni. in e V. Della Difesa della Commedia di Dante distinta in seta te libri; nella quale si risponde alle opposizioni fatte al D i s corso di M. e sitratta pienamente dello arte Poetica, e di molt altre cose pertenenti alla Filosofia, e alle belle Lettere Parte prima ; che contiene i primi tre libri.Con due Tavolecopiosissime.AllIllustrissimo eRe verendissimo Sig.il Sig. D. Ferdinando de'Medici Cardinale di Santa Chiesa . In Cesena Appresso Bartolomeo Raverii in4. . Italia . N o n seguì però questa famosa Disputa in Roma, com' egli avea disegnato di fare, ma bensìinBologna nelFebbrajo dell'anno seguente; on degliconvennemutare il frontispizio al suo libro, e porvi: Quæ omnia publice disputanda Bononia proposuic Anno Salutis Veggasi qui addietro ove sitrattaampiamente disìfatta disputa,e delmeritodi questo libro.Della Difesa della Commedia di Dante distinta in sette libri, nella quale si risponde alte opposizioni fatte al Disa corsodiM. M. esitratta pienamente dell' Arte Poetica, e di molte altre cose pertinenti alla Filosofia, ed alle belle lettere. che contiene gliultimi quattro libri nonpiù stampati; edora pubblicata incuisitrova, cosìpergloriadel M., come per le insigni qualità del Prelato, che vi si rilevano, cred o ben fatto di riportarla in questo luogo, e dèla seguente. a beneficio del Mondo letterato. Studio eSpesa diD. Mait ro Verdoni,eD. Domenico Buccioli Sacerdoti diCesena,. da essi dedicata Ad Albizzidell'una e dell'altra Segnatura Re ferendario, Giudice della Sacra Congregazione di Propagan da, ePrelato domestico di N. S. Papa Innoc. XI. in Cese na per Severo Verdoni in 4. Nell'occasione, che D. Mauro Verdoni, illustre letterato di Cesena, ebbe ri soluto di pubblicare questa seconda parte della Difesa di Dante, vedendo che la prima era di già divenuta assai rara, si determinò d i dover ristampare anche questa, siccome fece, dedicandola a Monsig. Sante P i laseri Prelato Cesenate per dottrina e per esemplarità di costumi riguardevolissimo, il quale aveva prestato a tal effetto al Verdoni ed ajuto e favore . M a essendo Monsig. Pilastri passato a miglior vita in tempo che appena n'eraterminata la stampa, convenne aglieditori procacciarsi un nuovo Mecenate, cui subito ritrova rono senza uscire dellalorpatria nelladegnissima per sona di Monsig. Dandini Vescovo diSinigaglia, Prelato anch'esso digran nome ; onde è avvenuto che quasi tutti gliesemplari siveggono con nuova dedica indirizzati a questo secondo, ede'primi non m'è riu. scito discontrarne cheuno,ilquale siconserva pres so dime unitamente all'altro dedicatoaMonsig. Dandini. La dedica a Monsig. Pilastri è in data, e quella a Mopsig. Dandino è de'17. dello stessomese edanno. Epoichè questa prima dedica merita assolutamente d'essere tratta dall'oblivio ne Illuge 'animo fatociperultimare que sta grande impresá frastornataci da tanti ostacoli) abbia mo stimato convenientissimo debito presentarla a V. S. Illu striss. per una particella di dovuta restituzione, eriman dar (comesidice) questo FiumealsuoMare. Nepunto erriamo, sesottonone di Mare ricopriamolavastità delsa pere, la profondità della prudenza, i tesori delle Cristiane virtù,cheadornano l'anima di V. S. Illustris.Avvenga che, se sirifletta con quanta carità dispensa ella a'Poveri isussidjdellavita, a'suviConcittadinilegrazie, con quan ta magnanimità, emulando la pietà de'suoi Avi, eregga agli Eroi del Paradiso gli Altari;sovvengaleCongregazioni del Taumaturgo Fiorentino, ed in specie questa della Pa che con tanta esemplarità dal Porporato, che ci regge, ècomunemente protetta,e progredisce ne dettami delpiosuo Illustriss. eReverendi ss.Monsig. Comparisce sulla scena del Mondo alla seconda lucelaPri. ma Parte di cotestaDifesa fregiata del pregiatissimo nome di V.S. Illustriss.per contestare, che volume si prezioso meritò sempre ne'suoi natali uscire ornato in fronte del no me d'uno d'e primi Personaggi, che venerasse il Secolo. Ed invero,sesiconsiderinoledignità,merito,virtù,e l'altre venerabili doti, che adornano l'animo di V. S. III., puossi senza veruna nota concludere, che sia sempre stato secondato da segnalatissimi favori nelli suoi ingegnosi parti il nostro M.; mentre questi sono stati sempre genero samente accolti, edalle prime Cattedre, eda'primiSavj del mondo, leggendosi sino da’Chinesi iportenti di questo grandeingegno. Ondenoiin considerazione delle grazie tan tevolte compartiteci,e dell tria, ' Fondatore, non potiamo, nè dobbiamo concludere altro della religiosa prodigalità della sua mano, se non quello, che della mano dispensiera di Probo cantò Claudiano: Præ 1 Præceps illamanus Auvios superaba tIberos, zioni,eprove dell'amore che V. S. Illustriss. le porta ed in udire tutto giorno i religiosiattestati della sua pietà a risplendere o ne' Tempii, o negli Altari, non le consacri tuttose stesso in olocausto? Se nontemessimo tormentar quivi la sua modestia, proseguiressimo a mostrar con mille prove la sua gran dilezione verso la Patria, e noi tutti ; giac chivisonopochi,chenonrammentino legrazie,ifavori, eisovvegni conseguiti dalla bontà diV. S.Illustriss., ch'e Aurea dona voinens . A questo Mare adunque, la di cui gentilissima aura hacci sovvenuto a condurre alporto un Opera contrastataci da im. petuosi aquiloni di mille infortunj, abbiamo noi presentato nella tavola de nostri voti questo eruditissimo libro, col solofinedi rimostrare all'universale Repubblica diDotti, che se la nostra Patria ha saputoprodurre i M., i > Chiaramonti, i Dandini, e gli Uberti, preseduti alle pri me Cattedre di Roma, di Parigi, di Bologna, e di Pisa, ha ancora nelmedemo tempo avuto nobilissimi Figli, chegli hanno generosamente accolti, favoritiegraziati. Egiacche questa Difesa per se stessa rende immune da qualsisia di fesa l'Autore, che ha saputo mettersi in tal quadraturii coll' altissimo suo sapere, che non paventa veruna offesa; resta perciò liberaa V.S. Illustrissima lasola difesa epro tezione di noi, che abbiamo volentieri registratoin questo Libro lossequiosissiino e riverentissimo tributo della nostra divozione al di leigran Nome; che non potrà mai ricor darsi e da noi, e dalla Patria tutta senza rassegnargliene con un eccessivo ossequio un tenerissimo affetto. Perciocchè chi è, che nella Patria in vedere le affettuose dimostra f > mula di quelGrande, neque negavit quidquam peten tibus; et ut quæ vellent, peterent, ultrò adhortatus est. Cesena. Sacerdoti Cesenati, VJ. Discorso di M. intorno alla Risposta ed alle opposizioni fatregli da Patricio, per est . M a vaglia per tutti, e sia ne' fasti dell eternità a caratterid'oro registrata la grande restituzione, che ha fat to alla Patria del suo gloriosissimo, e primo seguace del Redentore, Martiree Pastore d'EvoraS. Mancio ladi cuimemoria quasi quiestintaèstata dalla dilei Pietà ravvivata ; le di cui Sante Reliquie, fatte portare dalle ultime regioni del Tago, siccome hanno impietositi gli Altari, così ancora hanno indotta tal venerazione del di leiNome, che ingegnosamente si dice, meritar ella corona più preziosa di quella, che da' Romani donavasi a chi rendeva i suoi Cittadini a Roina; ovvero che solamente lapietà di Monsig. Sante ha saputo accrescereifigliSanti allaPatria;eche sopra questo fortissimo Pilastrosivede ogni giorno più sta bilita la divozione verso gli Eroi del Paradiso in Cesena. Viva dunque il nome di V. S. Illustriss., e fino che i nostri celebratissimi Rubicone e Savio tributeranno i loro liquidi argenti all'Adriatico, resti impressa negl’animi di tutti la memoria di si gran Benefattore. Vivaquesto Cesenate Ti moteo, a cui non Atene, ma Cesena, che è pur l'Atene della Romagna, ergapertrofeouna corona di cuori. Mentrenoi. restringendocia supplicarladigradire quest'attestato delno stro umilissimo ossequio, riverentemente inchinati, la sup plichiamo anon isdegnarsidi permetterci, che ci pubblichid mo per sempre Di V.S. Illustriss.e Reverendiss. Vmiliss.e Reverentiss. Servi Obblig. D.Verdoni, e D. Buccioli > te 145 tenente alla Storia del Poema Dafni, oLitiersa di Sositeo Foeta della Plejade. InCesena appresso Bartolomeo Raverii .in4. VII. Ragioni delle cose dette, ed'alcune autorità citate da Jacopo Mazzoni nel Discorso della Storia del Poema Dafni oLitiersa di Sositeo . In Cesena per Bartolomeo R a verii in4. Del merito diquesti dueOpuscoli, e della cagione, che indusse l'autore a scriverli, si vegga acart.78.e segg.,eacart.84. e85. Jacobi M. Cæsenatis, in almo Gymnasio Pisano Aristotelem ordinarie, Platonem vero extraordinem profitentis, in universam Platonis et Aristotelis Philosophiam Preludia, sive de comparatione. Platonis et Aristotelis. Liber Primus. Ad Illustrissimumet Reverendissimum CarolumAn sonium Pureum Archiepiscopum Pisanum .Venetiis Apud Joannem Guerilium in fol. Questo volume, che dal Mazzoni era,forse non senza ragione, riputato il suo capo d'opera, si vede al presente giacere quasi in una totale dimenticanza, colpa de' nuovi sistemi di Filosofia, che di poi si sono introdotti . Ad ogni modo è opera dottissima, e quanto mai si possa di -. re ingegnosa, e nel suo genere affatto singolare; con tenendo quasituttiisistemi degli antichi Filosofi esa In Exequiis Catherina Medices Francorum Regine. Florentia apud Philippum Jun ctamin 4. L'Autore dedica questa sua Jacobi Mazonii Oratio habita Florentia Idus Orazione al Duca di Bracciano per 1 ! i molti favori, che avea ricevuti da questo m a gnanimo eliberalissimo Signore;dallacuigentilepro pensione verso di sè dice, che sisentiva tratto a scri vere, epresentargli un giorno cose molto maggiori .mi . T minati ed illustrati in una maniera sorprendente. Lettere . Una lettera del Mazzoni scritta a Belisa rio Bulgarini si trova impressa a cart. 121. delle Consi derazioni del medesimo. Bulgarini sopra il Discorso di esso M. in difesa della Commedia di Dante . In Siena appresso Bonetti. in 4. Tre altre scrit teparimente alBulgarini sileggono a carte e delle Annotazioni, ovvero Chiose Marginali dello stesso Bulgarini sopra la prima parte della Difesa di Dante di M.. In Siena appresso Luca Bonetti. Ed una indiritta a Speron Speroni staa cart.355. del volume quinto di tutte l’Opere di esso Speroni dell'ultima edizione di Venezia. Dialoghi in difesa della nuova Poesia dell'Ariosto. Di questi dialoghi fa menzione M, medesimo alla pag. 20. delsuo Discorso de’ Dittonghi; e dice ch'era presto, a Dio piacendo, periscamparli, il chepoinon fece, forse per essersi ricreduto sovra tale materia; giacchè allora, che era molto gio Considerazioni sopra la Poetica del Castelvetro. Que ste furono mandate dal Mazzoni al Barone Sfondrato, che ne dà ilsuo giudizio inuna lettera scritta all'autore t r a quelle del Vannozzi. vane XIII.Commentarj sopratutti I Dialoghi di Platone.P rea se M. a scrivere questi Commentarj per soddisfazione di Francesco MariaII, della Rovere Duca d'Urbino, ed egli medesimo ne fa menzione in una lettera scritta a Veterani Ministro del Duca, come pu . re a reinaltraa Belisario Bulgarini, cheleggesi acart.213. delle Annotazioni ovvero Chiose marginali ec. di esso Bul garini. M. medesimo poiacart. della DifesadiDante nomina isuoi Commentarj sopra il Fedone, XIV . Libri de Rebus Philosophicis, fatti ad imitazion di Varrone. Compose M. quest'opera inunasua villetta sulla riva del Savio, e. disse a Roberto Titi che pensava di pubblicarla prima della seconda parte della Difesa di Dante. Veggasi quan toda mesenediceacart. 44.e98. delpresentevo lume. Censura del primo Tomo degli Annali del Cardinal Baronio . Il celebre Simon in una lettera a Dandini, che si legge a cart. della sua Biblioteca Critica, afferma d'aver inteso da questo Prelato, che M. avea scritto contro il primo tomo del Baronio, tosto che questo uscì in luce, e che il manoscritto di quest'opera sic onservava nella libreria delGran Duca. Discorso d'una breve Navigazione, chesi puòfare da Portugallo nell'Etiopia, e nel Paese del Prete Janni . A Buoncompagni General di S. Chiesa, e Marchese diVignola. Questo si trova in una Miscellanea della Biblioteca Vaticana. Discorso sopra le Comete. Anche questo Discorso, lodatissimo dalSig. Guidubaldo de' Marchesidel Monte celebre Astronomo, dovrebbe ritrovarsi nella Libreria Vaticana tra'Codici Urbinati; ma per diligen zefattenon siè potuto rinvenire al num.513., allegato dal Conte Vincenzo Masini nelle Annotazioni al primo libro del suo Poema del Zolfo, e dietro a lui da Muccioli a cart.116. del suo bel Catalogo della Bi . Biblioteca Malatestiana . Veggasi ciò, che del pregio di quest'operetta si è da noi detto alla pag. 101. La Fisica, e i Dieci Libri dell'Etica d'Aristotile. Tadini scrive che il manoscritto originale di quest'opera, mancante però e imperfetto, si conser vava alquanti anni sono presso ilSig. Gio: Antonio Al merici Nobile Cesenate. Il medesimo si afferma da Ceccaroni in alcune memorie mano scritte, comunicateci dal Ch.Sig. Arcidiacono Chia ramonti, dalle quali si apprende, che lo stesso Cecca roni avea fatta copia dell'originale inedito dell' Etica; ma sento che questa copia ancora sia andata insinistro,epiù non siritrovi. In universam Platonis Rempublicam Commentaria. Della Rupubblica di Platone da sé commentata fa ri cordo M. medesimo nella lettera di ZQ / 148 ν gata al Sig. GiulioVeterani; dicendo,che quantopri ma pensava di mandarla, o di recarla esso medesimo al Sig.Duca d'Urbino. alle La X X . Orazioni . Di varie Orazioni dal nostro autore composte in diverse occasioni, e non mai pubblicate, si è fatto memoria nel decorso di quest'opera, prima viene accennata a cart.89., detta in Pisa nell' aprimento degli Studi in lode della Filosofia . La se conda scrittada lui eloquentissimamente per movere il Pontefice Clemente VIII. a ribenedire il Re Arrigo IV. di Francia a cart. 99. La terza detta ne' funerali del celebrePierAngelio da Bargaacart. 100. El'ultima final mente recitata nell'Archiginnasio Romano, facendo una comparazione tra l'antica Roma e la moderna ; . della quale sifavella acart.112. Lezioni. Quattro Lezioni altre sì scrive M. sopra che mai non videro la luce . Elle furono reci. tate in Firenze, due nell'Accademia Fiorentina per ri schiaramento di due luoghi di Dante; e l'altre in quella della Crusca sopra i Brindisi,e le feste Vinali degli Anti chi.Veggasi a cart.77.94.95.e97. Lettere. Di alquante lettere del M. si conservano gli originaliin Pesaro nella libreria Giordani, delle quali lach.me.del dottissimo Sig. Annibale degli Abati Olivieri si compiacque giàmandarmi copia; e sono tre scritte al Cardinale Giulio della Rovere, una al Duca d'Urbino, due a Giulio Veterani, ed una a Piermatteo Giordani. Altre parimente originali scrittea Belisario Bulgarini si trovano in alcuni Codici esistenti nella Libreria dell'Università di Siena. Oltre aquest'opere ilTadini afferma, essercime moria, che dal Mazzoni sieno state scritte anche le seguenti, cioè I. In Homerum Paraphrasis. II. Numi smatum Græcorum Interpretatio. In Lullum Commentaria.IV. Naturalis Philosophie Arcana.V. Secretoperco noscere da'Bigari e Quadrigati, denari Romani, qual fazione restasse vittoriosa ne' Giuochi Circensi, se la Veneta o Prasing Rossa o Bianca. Tractatus de Somniis. L'originale di questo trattato de'Sogni dice, che fu venduto molti anni sono da certuno al Sig.Pier Girolamo Fattiboni Gentiluomo Cesenate. Ma che avea incontrata la stessa disgrazia degli altri, non si essendo più trovato. Forse tutti questi mss. dovettero essere in quelle dieci casse di libri di M., che rimasero dopo la di lui morte presso Girolamo Mercuriali in Pisa, come il Dottor Ceccaroni nell'accennate Memorie afferma apparire da un pubblico Documento rogato. Per Per ultimo il sopralodato Sig. Arcidiacono Chiara monti mi assicura, esservi anche al presente chi sostiene doversi attribuire al M., così la Canzone composta in lode del Torneamento fatto in Cesena nel Carnovale, la quale incomincia Mostra l'alterafronte,come la difesa della medesima, che fu pubblicata sotto nome del Bidello dell'Accademia con questo titolo; Risposta di Matteo Bidello delloStudio di Cesena al Parere d'incognito Oppositore fatto sopra la Canzone Mostra l'altera fronte. In Cesena conlicenza de Su periori Per Bartolomeo Raverii. in8.; machenon avea avuto modo di verificare veruna di queste voci. lo per altro non averei difficoltà di credeCre, che così la Canzone,come ladifesa potesser essere fattura del nostro autore, essendo la Canzone assai bella ; e la difesa molto dotta e giudiziosa, e degna assolutamente del nostro grande e celebratissimo M.. Mazzoni. De triplice vita. Mazzni. Keywords: implicature, repubblica romana, the Latins on ‘vita activa’, I romani e la vita attiva. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Mazzoni” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Mecenate: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza.  (Roma). Abstract. Keywords: Grice, Gardiner, Mecenate. Filosofo italiano. Gaio Cilnio Mecenate. Interessi filosofici prova lui, il potentissimo consigliere d'Ottaviano. Di origine etrusca, e probabilmente aretina, discende da stirpe regia, ma volle restare semplice cavaliere romano. Combattè a Filippi per i triumviri e e intimo di Ottaviano che egli cerca di conciliare con Marc'Antonio, siechè ha luogo l’incontro di Brindisi. Per conto di Ottaviano si reca presso Marc'Antonio affinchè partecipasse alla guerra contro Sesto Pompeo. Lui e il rappresentante di Ottaviano a Roma e in Italia con poteri illimitati. Ottaviano si serve di Mecenate in pace e in guerra e trova sia in lui che in Agrippa il sostegno più sicuro del suo principato. Ma egli deve la sua fama imperitura alla protezione che concesse ai maggiori filosofi del tempo suo. Restano pochi frammenti dei scritti del M. in versi e in prosa, nei quali, e specialmente nel Simposio o convito, opera che introduce in Roma un genere letterario molto coltivato in Grecia, mostra di subire l’influsso dei filosofi dell’Orto. Interessi filosofici e influssi epicurei si manifestano negli seritti dei maggiori filosofi del circolo del Mecenate. Maecenas wrote several works, none of which have come down to us. Their loss howerer is not much to be deplored, siuce, acoording to the testimony of many ancient writers, they were written in a very artificial and affected manner (Suet. ‘Octv.,’ ; Sen., ‘Epist.’; Tac. ‘Dial. de Orat.,’, who speaks of the ‘calamistros Maecenatis. They consist of poems, tragedies (one entitled ' Prometheus,' and another 'Octavia'), a history of the wars of Augustus (ORAZIO, 'Carm.' ), and a symposium, in which VIRGILIO and ORAZIO were introduced. The few fragmente which remain of these works have been collected and published by Lion under the title of ‘Maecenatiana, sive de C. Cinii Macenatia Vita et Moribus,’ Göttingen. Maecenas' known works include a Symposium, with such notables on the guest list as Horace, Virgil, and Messalla, and, if a fragment from Plutarcocan be trusted, some pretty clever dinner conversation. Servius, Aeneid: Facilesque oculos fert omnia circum: physici dicunt ex vino mobiliores oculos fieri. Plautus faciles oculos habet, id est mobiles vino. Hoc etiam Maecenas in Symposio ubi Vergilius et Horatius interfuerunt, cum ex persona Messallae de vi vini loqueretur, ait 'idem umor ministrat faciles oculos, pulchriora reddit omnia et dulcis¡uventae reducit bona.' Cf. Plut. Mor. frag. 180: 'Ev tô cuvosívo tỘ toû ManvaTúTEÇa ¿YYóo, N unò tị Koía tò HéyE0os HeyíGTh Kai kán2os auaxos. kai ola sikòsETAVOUV ARZOL ANNOS AUTHV O SE TÓPTIOS, OUK EXOV O TI MAp ¿AUTOû TEpaTEÚGaGOaL,Glyñ ysvousn, "EKsivo dE ouK ¿vvosits, d pior Guunótal, Oc otpoYyún sotì Kai ayavrEpIpEp'S." ¿ TOÍVUV TẬ ¿páTO KORaKsia, Ó5 tÒ siKóS, yéS KatEppáyn. For the possibility that this incident may come from Maecenas' Symposium see Jiráni 1932, 1-12; Lunderstedt. Perhaps M.'s Symposium should be added to the list of possible antecedents for Petronius' Cena. %//» ftt.y. !f '8 )>: 9 .éffsuz^ncsÉ OtjJ A, «a k.Sm i STORIA DI CAJO CILNIO M. CAVALIERE ROMANO SCRITTA, X DEDICATA A S. A. S. il Signor Principe FEDERICO DI SAXE-GOTH A DaU’Avv. Sante Viola P. T. ROMA i8£Ó. Presso Francesco Bourlié Con Lic. de' Sup. mm. 9 A spese degli Eredi Raggi Libra] al Camita«1 ALTEZZA SERENISSIMA Allorché io mi occupava a raccogliere le Memorie Istoriche della Vita di Cajo Cilnio M. 9 pensai ocacciare al mio Libro un Protettore nella Persona dell’ A. V. S. sapendo quanto sia benemerita della Letteratura, delle Arti, e de’ loro Coltivatori ; e sebbene la piccolezza della mia Offerta dovesse sgomentarmi, tuttavia fatto coraggioso dalla grandezza del suo magnanimo cuore, restai fermo nel mio pensiero, persuaso, che la Storia delle geste civili, politiche, e morali di quell’ esimio Cavalier Romano, doveva presentarsi ad un Principe i nel quale si ammiravano per singoiar modo trasfuse le doti più belle \ di cui era quello fregiato. E come non dovrà celebrarsi P A. V. S. nel vederla animata dal genio istesso del gran Cibilo riguardo al progresso, ed al miglioramento delle Arti > e delle Scienze? In Roma, Capitale di un vasto Impero, M. avvalorava i talenti, proteggeva i Dotti, e dava così un impulso potente alla Civilizzazione del Genere umano ; e F A. V. 5. nell* istessa Capitale, ora Sede, e Maestra del buon Gusto, e delle Arti, accoglie con amorevolezza, onora con discernimento, protegge con costanza tutti gli Artisti, e Letterati, de’ quali la stima, la venerazione, e T amore sono ben dovuti all’A. V. per quella soavità di maniere, ed eminenti virtù, che in tanta copia brillano i n tutte le di Lei azioni. Se l’A. Y. S. si degna di accogliere sotto la benefica, e valevole sua Protezione questo mio qualunque siasi lavoro, andrà esso fastoso vedendosi onorato di qùelNome illustre, che ridesta la dolce memoria de TI grandi Avi dell’ A. V. S. i quali in ogni epoca recarono decoro alla Patria, onore, e gloria alle Contrade Alemanne. Supplico PA.V.S. di aggradire i sentimenti di quella profonda venerazione, ed invariabile ossequio, con cui ho, l’onore di rassegnarmi. Di V.A.S. Vino Dmo Obbmo Servo SANTI VIOLA, Nello scrivere la Storia di Caio Cilnio M. ebbi di mira soltanto la riconoscenza dovuta alla memoria di questo grand' Uomo, che fù il più zelante promotore delle belle Letter e, l'Amico sincero, il Protettore liberale di tutti li Letterati suoi contemporanei. Per lo spazio di circa tredici, o quattordici Secoli il nome di M. fu sepolto, per dir cosi, nel seno dell' oblio ; effetto della barborie de' tempi. Giovanni Meibomio fù il pririio a raccogliere tutte le notizie relative alla Vita di questo esimio Cavaliere Romano, e nel i6Sj. ne stampò in Leida un Libro avente per titolo : M., sive de Caji Clini M. Vita, moribus, et rebus gestis. Prima del Meibomio ne aveva scritta una Storia Gio. Paolo Martire Rizzo in- lingua Ca stigliarla. Ma quest’Opera non potè procacciarsi un incontro felice per le stravaganze, di cui era ripiena, portando l' impronta piuttosto di un Romanzo, che di una Storia, conforme osserva il lodato Meibomio. Praeloq. ad Lect. : Historia Vitae Maecenatis a Jo. Paulo Martire Rizzo Lingua Cast igliana de script a. . Tantum enimabest, ut illa sit historia, ut parum absit ad fabulas abeat. Circa treni' anni dopo l’Opera di questo, cioè, Cernii diede alla luce in Roma con le stampe di Lazzari una Vita di Cajo M. Ma questa operetta per lo stile inelegante, ed uniforme al gusto di quel secolo, sembra che non riportasse tutta l’approvazione de’letterati, essendo caduta in una quasi totale dimenticanza ; ciò non ostante l' Autore, con la scorta del sudetto Meibomio, non omise di riunire molte notizie sulla Storia di M., estratte dagli Autpri antichi. Altri ancora posteriormente hanno parlato, e scritto sul medesimo soggetto. Nel 1 j 46. fu publicata in Parigi da M Riclier una Vita di M., e successivamente V Abb. Souchay fece una raccolta di notizie in una Dissertazione inserita nelle Memorie dell'Accademia dell’Iscrizioni, intitolata Ricerche intorno M. Avendo profittato de' lumi, che questi Autori diffusero nelle loro Opere, e non avendo omesso di esaminare li Scritti di Livio, Dione Cassio, Appiano, Tanfo, e Vellejo Patercolo fra li Scorici antichi, non che quelli dì Seneca, Macrobio, ORAZIO (vedasi) Flocco, Virgilio, Properzio, ed altri, ho tessuto questo qualunque siasi lavoro, con aver procurato di non CO Tiratosela Stor. della Lett. ltal.. ... r j deviare nella narrazione de' fatti dà un ordine regolare, e cronologico. Fra li moderni ho fatto uso delle Storie del dotto Inglese Lorenzo Echard (1), e degli eruditi Catrou, e Rovillè (2 ), nelle quali oltre a non poche notizie relative al mio assunto, ho toltili materiali sulla Storia contemporanea, con aver però ri-* scontrati li fonti, in cui quelli avevano ati tinto, Lapresente Operetta è divisa in IV Libri. N el primo si sono rintracciate le Notizie sull’ origine, e sulle qualità della Famiglia de' Cilnj ; si fissa l’epoca, in cui il nostro M. può essere entrato nella CorQe di Ottavio Augusto, e si nota tutto ciò che vi ha di più rimarchevole sulle di lui geste e precedenti al Triumvirato, e dopo di esso fino alla Cuerra detta di Perugia, cagionata dagl intrighi di Fulvia Moglie del Triumviro Marcantonio. Contiene ancora le operazioni del medesimo M., e prima, e dopo la disfatta di Bru-> to, e Cassio nelle Campagne di Filippi, (1) Storia Romana dalla Fondazione di Roma sino alla Traslazione dell’ Impero sotto Costantino scritta in idioma Francese dall’ Abb. delle Fontane sopra l’Originale Inglese. Venezia 1751. (*) Histoire Romaine depuis laFondation de Rome par les RR. PP. Catron, et Rovillè. Paris. Il secondo Libro comprende la serie de folti relativi alla Storia di M. dalla indetta disfatta di Bruto fino alla morte del succe rinato Marcantonio, c della famosa Cleopatra, Epoca, in cui Ottavio rimase il solo Dominatore della Romana Gran dezza. N el terzo Libro si vedrà il Congresso tenuto da questo con Agrippa, e M. per deliberare, se, stante V estinzione del Triumvirato, dovesse ristabilirsi nel suo stato primitivo il sistema Republicano, o se dovessero gettarsi le basi di una Monarchia Universale, e qui si leggeranno li giudiziosi, e politici discorsi, recitati l’uno da Agrippa, che perorò per la Repuhlica, e l’altro da M., il quale fa di opposte sentimento, ed opinò per lo stabilimento della Monarchia ; e come Ottavio antepose le ragioni di questo alle riflessioni di quello. N eli’ ultimo Libro si conoscerà quale fesse l influenza di M. sullo spirito di Ottavio, divenuto Imperadore, e quale la deferenza di questo verso di quello. Si ravviserà inoltre quanto grahde fosse la protezione, c la liberalità di M. verso i Letterati, e quale impegno avesse per il progresso dèlia Letteratura, e delle Scienze. In fine sipario della Morte. Hò creduto di aggiungere, dopo la Storia, Appendice divisa in tre Discussioni, che sonuninistrano de' schiarimenti, ai altre- memorie, che in quella, q erano state omesse, o appena accennate. Le prime due Discussioni abbracciano Le notizie relative ai celebri Giardini, ed Abitazione, che M. possedeva in Roma, ed alla magnifica sua Villa situata sulle sponde dell ’ Aniene presso Tivoli. La terza si aggirerà sulla pretesa Febre perpetua, e Veglia Triennale, che Plinio il Naturalista attribuisce a M. Tutte le volte, che questo grand’Uomo trovò degl' imitatori nella protezione, e nel favore delle Lettere, e dei Coltivatori delle medesime si viddero comparire degl ' ingegni prodigiosi, e la Letteratura fece mirabili progressi, In fatti a questa imitazione siamo debitori di tante utili scoperte, e di quelle venuste produzioni dello spirito umano, che viddero la luce sotto i Leoni, sotto gli Alfonsi, e in tutte le altre epoche, nelle quali le fatiche de' Dotti furono r.icompcnsate, ed avvalorati li talenti. Se pertanto questa imitazione non sarà posta in oblìo, e se il nome di Cajo Cilnio M. non sarà dimenticato, li Secoli successivi saranno sempre più migliorati, ed illuminati dallo sviluppo delle umane cognizioni. LI Poeta Marziale, che vivgpa in un epoca, in cui la Letteratura inclinava alla sua decadenza, si lagna, e fa conoscere, che allora non esistevano dei Mecenati, che non erano le scienze protette, e che perciò non si vedevano comparire ingegni sublimi. Ti meravi gli > 0 Fiacco, che a tempi nostri. .. manchino ingegni simili a quello di Virgilio,, Marone, c che niuno sappia cantare le mi-,, litari imprese con una tromba eguale alla sua. Io ti rispondo, che se vi fossero de * Mecenati, come quelli, che vissero sotto I Impero di Ottavio Augusto, vedresti svilapparsi altri Genj niente inferiori a quello,, del Poeta Mantovano. Era stata a questo rapita la sua piccola Possessione presso Crcmona, implorò la protezione di M.,,, pianse, e sotto il nome diT itiro cantò in,, stile boschereccio le perdute pecorelle. Rise al suo flebile, ma dilettevole canto il Toscavo Cavaliere, e tantosto fugò da esso la,, maligna povertà. .. Allora Virgilio concopi la grandiosa idea dell ’ Eneide . Se tu dunque, o Fiacco, sarai benefico come M., e mi ricolmerai di doni, ti,, assicuro, che anche io diverrò Virgilio (l). ( i) Martini. Lib. 8. Epigr. 55. ad Flaccnm. Temporibus nostris ìngenium sacri miraris abesse Maronis; Nec quemquam tanta bella sonare tuba. $int M. s, non deerunt, Flacce, Marones. Jugera perdiderat miserae vicina Cremonae, y Flebat et adductas T ityrus aeger opes. Jìisit Tuscus Eques, paupertatemque malignarti Rcpulit, et celeri jussit abire fuga, Digitized t XIII Nello scrivere la presente Storia non pretendo di aver fatto un lavoro completo, nè di aver raccolto tutte le Memorie sulle avventure politiche, morali, e civili di questo esimio Cavaliere Romano. Se non vi sono riuscito, non fu colpa della mia volontà, o effetto di trascuratezza. Qualunque mancanza si deve attribuire alla ristrettezza delle mie cognizioni, e de’ miei talenti. Può essere però, che all' impulso di quésto mio travaglio altri si scuotano in seguito, che forniti di migliori materiali, ed ingegno più elevato, sappiano supplire alli miei difetti- Io gioirò allora nel mio cuore, e leggendo novelle prbduzio'ni, e nuove scoperte intorno alle geste del mio Eroe, sarò ben contento di apprendere da altri, ciocchi io aveva tentato di conoscere colle mie fatiche. Protinus Italiam concepii, et arma virumque. Ergo ero Virgilius si munera Maecenatis E>es wihi. . v w. v i y* N A STORIA DI CAIO CILNIO M. _| ràle famigli» le più antiche, e doviziose di Arezzo nell’Etruria meritamente è annoverata quella de’ Cilnj. Circa la metà del quinto Secolo dopala fondazione di Roma, e duecento novant’ anni puma dell’Era volgare la medesima figurava luminosamente non solo nella propria Città:, ma eziandio sopra tutta la Nazione ; se noti che le grandi ricchezze avendola resa troppo orgogliosa, e prepotente, si procacciò l’odio, e l’ invidia, delle altre famiglie, e de’ suoi concittadini, e fu sottoposta a disgustiose vicende. Nell’ epoca succenuata, e precisamente nell’ anno 4S0. di Roma, fu ordita nel seno stesso della sua Patria contro di quella una terribile congiura # e quantunque, per mezzo de’ suoi rapporti, ne giungesse al discoprimento,, non potè però impedirne l’esplosione. Gli Aretini presero le armi risoluti di discacciarla dalla Città, e non avrebbe potuto disimpegnarsi dalla pericolosa situazione, se non avesse trovato un appoggio nelle forze della Romana Republica., Questa aveva già sperimentato più volte la potenza, ed il valóre degli Etrusci, che in quel tempo costituivano una nazione popolosa, formidabile; e guerrierafi) e se aveva su di questa riportate delle vittorie, TEtruria non faceva ancora parte delle provincie Romane ad essa confinanti. In questa occasione, o fosse realmente per soccorrere li Cilnj » o più probabilmente per profittare delle interne dissensioni, Roma vi spedi il Dittatore Marco Valerio Massimo con un’ armata. Sebbene lo Storico Livio narri il principio, il progresso, ed il termine di questa insurrezione degli Etrusci, nutladimeno, secondo il medesimo, sembra, che riuscisse al Generale Romano di calmare li sediziosi movimenti degli Aretini, e di riconciliare la Plebe, con la detta famiglia de' Cilnj i senza alcun fatto d’armi rimarchevole, e sanguinoso,, Correva,, la voce ( dice Livio ) cbe l’Etruria avesse inalberato lo stendardo della rivolta, e che erasidato principio! alla medesima dalle sofnmosse degli abitanti di Arezzo, nella qual Città la prepotente famiglia de’ Cilnj, invidiata perle ricchezze, voleva scacciarsi colle armi Alcuni Autori, che (l j> Livio lib.q. Cap.iqi Prodigato Samnitium bello ;. .. Etrusci belli fama exorta èst, non erttt ea tempestate gens alia, cujus . .,. arma terribiliora esscnt cum propinqui tate agri, tum muli ita din è hom&nutn, y tengo presso eli me, affermano, che per iopera del Dittatore, calmati li sediziosi movimenti degli Aretini, e ricpnciliata Plebe con la famiglia de’ Cilnj, fosse ricondotta la quiete nell’Etruria, senza alcun fatto d’ armi memorabile. Dopo due anni però, cioè nell’anno 453, si accese nuova guerra fra questa, e laRepublica Romana. Sene ignora la, cagione, e non si conosce qual parte vi prendessero i Cilnj, e sebbene l’E trulla fosse costretta a chiedere la pace, tuttavia dopo breve tempo fu indotta a novelle ostilità dai Sanniti. Questi popoli guerrieri sempre inquieti > benché sempre vinti dai Romani, nell anno 557. tornarono all’ armi, e fecero tptti li sforzi per stringere un'alleanza offensiva con le popolazioni Toscane Etrusci ( cosi parlarono li Deputati de’ Sanniti ) piu d’nna volta ci siamo cimentati ne’ campi di Marte con le Coorti Romane ; abbiamo dimandata Lib. io. num. 3. e 5. Multiplex de inde exortus terror. Etruriam rebellare ab Aretinorum scditionibus, mota orto, nuntiabatur, ubi Cilriiurn genus praepotens, divi tiarum invidia pelli armis ceptum Ha* beo Auctores, sine allo praolto pacatam a Dittatore Etruriam esse, seditionibus tantum, Aretinorum compositis, ctCilnio genere cuoi plebe in gratiam redacto. . L. . v ) la pace, quando non potevamo sostenere più lungamente il peso della guerra. Siamo tornati ora a' prendere nuovamente le armi, perchè la pace ci era più dura degli orrori di quella L’unica nostra speranza però, la sola nostra risorsa risiede nella nazione Toscana, nazione ricca, bellicosa, e fertile di guerrieri. Se noi avremo il vostro ajuto, e voi risveglierete ne’ vostri petti quel coraggio,. con cui Porsena, e i ^vostri Maggiori spaventarono Roma istessa, nulla avremo a desiderare (i). Li Sanniti ottennero ciò, che bramavano. Gli Etrusci accedettero alla lega, e la guerra cominciò con furore. Ma non era ornai più tempo di resistete alle forze delle Republica Romana già divenuta invincibile .'Eglino furono superati, e la sorte, che incontrarono in questa, incontrarono ancora nelle altre guerre posteriori, finché furono costretti a sottoporsi alle leggi, ed all' impero di quella. Quantunque la Storia ci abbia occultato le avventure de’ Cilnj, dopo che l’Etruria fu da’ Romani soggiogata, pure sembra potersi credere, che continuassero sempre ad occupare un rango distinto fra le famigliedella Nazione. Imperciocché se deve -prestarsi fede al Poeta Silio Italico, nella seconda guerra Punica un individuo di essa famiglia militò contro Anni • I ., N 1 • Tit. Liv. lib.io. cap.x i. w. •. baiò sotto le bandiere Romane e tuttoché restasse prigioniero, diede argomenti di coraggio, e di valore. Avendo Annibaie superato le Alpi, incontrò nelle vicinanze della Liguria il Consolo Cornelio Scipione, che con un’ armata Romana voleva contrastargli la marcia ; ma impaziente il Generale Africano di dare esecuzione al già meditato progetto di conquistare l’Italia* e impadronirsi ancora del Campidoglio, attaccò l’esercito nemico. La battaglia fn incominciata, e sostenuta con accanimento dalla Cavalleria Numida, e le truppe di Scipione furono completamente disfatte. Egli stesso rimase ferito, e sarebbe caduto frà le mani de’Cartaginesi, se non avesse combattuto al sno fianco Scipione di lui figlio denominato posteriormente Africano. Questo giovane guerriero, benché in età di soli diciotto anni, salvò il padre con il suo coraggio, e diede in tale occasione li primi saggi de’ suoi talenti militari. Questa terribile battaglia, e questo disastro dai Romani sofferto accadde tra il Pò, ed il Ticino nell'anno di Roma 536. (i). (i) Dion. Cas. lib. 14. Eutrop. lib.3. Florus lib.a. Cap. 6. Ac primi quidem impetus turbo inter Padum ac Ticinum valido statim fragore delonuit. Tunc Scipione Duce,fusus Exercicus, saucius et ipse venisset in hostium ma nus Imperator,niii protectum patrem praetex «I 6 Frà li molti prigionieri di distinzione fatti da' Cartaginesi si numera un Cilnio della Città di Arezzo nell’ Etruria. Giovanetto anch' esso, come il figlio del suo Generale, combatteva nella Cavalleria Romana. Il suo Cavallo ferito cadde nella pugna, ed egli restò prigioniero. Il surriferito Silio Italico, che narrò in versi tutte le azioni di questa guerra formidabile, cosi si esprime Cilnio d’ il-,, lustre prosapia, e nato nella Città di Arezzo, situata nelle contrade Toscane, da un destino crudele era stato spinto sulle rive del Ticino, benché giovanetto; quivi nel furor della mischia, balzato al suolo,, dal suo Cavallo divenuto furibondo per una,, ferita, era stato costretto a sottoporre il collo alle Libiche catene „(i). Annibaie bramando di conoscere le geste, e l’origine di Fabio Massimo Dittatore Roma tatus admodum filius ab ipsa morte rapuisset. Sii. Italie, lib.7. de Bell.Punic. ver.ao. At Libyae Ductor postquam nova nomina lecto Dìctatore vigent ....• Oeyus accìtum captivo ex agmine poscit Progenicm,rituscjue Ducis,dextr aeque labores; Cilnius Arreti Tyrrhenis ortus in orit Clarum nomea erat, sed laeva adduxerat fiora Ticini juvenem ripis, fususque ruentis V ulnere equi, Libycit praebebat colla catenu. Cop ale i no» di cui tante cosq narrava la fama, ne interroga il sudetto Cilnio suo prigioniero. Questo appaga il Generale Africano, ma gli parla con franchezza, e coraggi^, e gli fa Conoscere in fine, che piu della schiavitù, cui era stato per disavventura sottoposto, amala morte. Offeso .quello dall’ardita risposta di Cilnio, cosi lo rampogna. Indarno, q folle, cerchi di accendere il mio sdegno, è di schivare con morte, che desideri, », la schiavitù. Viyrrai tuo malgrado, e il tuo collo sarà riservato al peso di catena più pesanti .,,(1). « Dopo la battaglia del Ticino i Annibaie continuò a trascorrere l’Italia, riportando segnalate vittorie. La più strepitosa, e memorabile fu quella presso Canne piccolo, ed ignobile Borgo della Puglia nell’anno di Roma $ 38. La perdita della Romana Republica in questa fatale giornata fu immensa. Tutte le famiglie furono ricoperte di lutto, perchè ognuna vi ebbe delle vittime da compiangere (a) ; e la terribile strage non afflisse Roma (1) Sii. Ital. loc. cit. vers. 40. et seq. Qnem ( Cilnium ) cernens avidurn leti post talia Pocnus Nequidguam nostras, demens, ait, elicis iras, Et captiva paras moriendo evadere vincla ; yivendurn est, arefa servàntur colla catena. Lucius Fior. Lib. a. Capi 6. Ultimwn 8 soltanto; essa aveva fatttf leva di frappe dar tntte le Provincie o conquistate, o collegate, onde sù di qneste si diffuse non meno l’or- 1 rore prodottoda quella battaglia sanguinosa * Perciò anche TEtruria dovette dolersi de’ suoi guerrieri estinti nelle campagne della Paglia, e frà gli altri di un illustre Pcrsonagf. gio chiamato M., e dell' iste.ssa famiglia de’ Cilnj. Il sndetto Siliò Italico dettagliando li soggetti di distinzione, che erano periti a Canne, fa menzione particolare di questo èon tali espressioni Te'ancora trafitto nelL* inguine da Tiri© strale Veggio cadere estinto, o M., nomeMllustre per li scettri Toscani, e venerato per la patria, che ti diede i Natali (i). Se fosse incontrastabile l’autorità di questo Poeta potrebbero farsi alcune riflessioni, relativamente all* oggetto della Storia, che si descrive ; Nella battaglia del Ticino è fatto prigioniero un Cilnio cittadino di Arezzo, di prosapia illustre ; in quella presso Canne, cioè dne anni dopo, cade estinto altro sogetto chiamato M., parimenteToscano, mà bulnus Imperli, Canna e, ignobili s Apuliae V icus, sed magnitudine c/adii, emersit ; et quadraginta millium eacdr parta nobilitai ; Ibi in exitium infelicis exercitus dux, terra, coelum, dia, tota denique rerum natura contentiti ( i) Lib. io. vers. 39. Digitized by Google li antenati del quale erano stati Monarchi : Et sceptris olirti celebratum' nomen Etruscis : Ora l'uno, e l'altro discendevano dalla stessa famiglia de’Cilnj, o erano di due separate famiglie ? Come poi, e quando, e chi delle medesime venne a stabilirsi in Roma ? La notte del tempo, e la mancanza di memorie ci toglie tuttU lumi necessari, onde ravvisare la verità senza incertezza, e giungere allo scioglimento di tali dubbiezze • Dall' anno 538. epoca della ìsudetta battaglia presso Canne fino all’anno 66a. dì Roma ci si presenta un vuoto penoso, che nulla ci fa scorgere sull' oggetto ricercato; in quest’anno però sembra, che comincino a diradarsi le tenebre, ea presentarcisi un qualche raggio rischiaratore per conoscere, che allora la famigliar M. già erasi stabilita in Roma, leggeudo, che un Cajo M., aggregato al corpo de’ Cavalieri, figurava luminosamente in quella. Capitale. In tal epoca, e precisamente nel detto anno 66a. era Tribuno della plebe Marco Livio Druso. Questo cittadino Romano fornito di nobiltà, di ricchezze, e di eloquenza attaccò le prerogative esistenti nell’antico, e no Oppetis, et Tyrio super inguina fixe veruto, Maecenat, cui maeonia venerabile terra, Et sceptris olirti celebratum nomen Etruscis. IO bil ceto de’ Cavalieri » e -vedeva, thè » me-/ diante una Legge,' venissero; questi.' spogliati dei-diritto sulla Giudicatura, dritto annesso, óna volta, al Senato iifi) j -, Per riuscire nel suo progetto Druso fece ogni sforzo, e non trascurò dt mettere in ino» vimento tutte le risorse della politica, dell' eloquenza, e della saviezza ± mà oltre ad ave? re incontrato delle forti opposizioni fra li stessi Senatori, -Cajo M.,• Flavio Pugione, e Gneo Titinmo, Cavalieri di specchiata probità si opposero energicamente alle di lui potenti manovre, e con lai loto fermezza, ed influenza* mandarono a. vuoto il progetto di Legge > che già quello aveva modellato (2). ? L’Oratore Marco Tullio Cicerone nell’Orazione a favor di Cluenzio, presentandogli I * • i •• 1; i - Vellej. Patere. Lib. a. Art.i 3 .De inde f inter jectis paucis annis, TriburuUum iniiejtf. Livius Drusus, vir nobilissimus, eloguentis simus, sanctissimus, qui cum Senatui priscum restituire cuperet dccus, et judicia ab Equi ti bus ad eum transfer re Ordinem. .. in its tpsis, quae prò Senatu moliebatur, Senatum habuit adversarium, Liv. in supplem. lib. 71. art. ar. Adeoque Cajus Flavius Pus io, Gn.Titinius, Cajus Maecenas Principes Equestri s Ordinis Curiata hit le gibus ingredi aperte ree usar unt. re l'occasione di rammentare questo avvenimento de’ fasti Romani, fa un’elogio, e di Cajo M., e degli altri due Cavalieri ne’ termini seguenti Allora Cajo Flavio Pugione, Gneo,, Titinnio, e Cajo M., que’ potenti sostegni del popolo Romano non agirono, come ha ora agito Clueuzio, quasi che ri* >, cnsando pensassero di far ricadere sopra di essi un qualche principio di colpa, ma ricusando apertamente, energicamente, ed onestamente fecero conoscere, che eglino avrebbero potuto sollevarsi per giudizio del Popolo a cariche sublimi, se avessero >, direttele loro cure a richiederle ... ma,, che, contenti del solo ordine Equestre, incui si trovavano, in cui erano vi» suti ancora li loro Maggiori, avevano stimato di seguire una vita quieta, e tran* qui Ha lungi dalle procelle, che sogliono suscitare l’invidia, e gl’intrighi de* giudi»> zj, simili a quello, di cui.si tratta Oraf prò Cluentio nnm. 56. 0 Virot fortes, Equites Romanos ! qui ho mi ni Claris simo, oc potentissimo M. DrusoTribuno pie bis restiterunt Tane C. Flavius Pusio, Cn. Titinius, Cajus Maecenas, illa robora papali Romani, ceterigue hujusmodi Ordinis non fecerunt idem, guod nane Cluen tius, ut aliquid culpae susci pere se putarent recusando, *ed apertissime r spugnar unt, cunt Qigilized by Goo jle i iDa questo Caio M., di dui parla Cu cerone,~fiho all’anno della nasci ta dèi nostra CajoCtlnio' M. non trascorsero, .che soli anni ventiquattro-, essendo egli n3to, come fra poco si vedrà /udranno di Roma, cosi che se, quando quello si oppose all’ intrapresa dal Tribuno Druso nell’Anno 663. non era in età provetta, poteva vivere: ancora quando ebbe principio resistenza di questo. i E sebbene sia sembrato irreperibile il suo preciso anuo Natalizio,, tuttavia riflettendosi sull ’ annoi della nascita * e sù quello della morte del Poeta Orazio Fiacco, si potrà conoscere, e forse con qualche sicurezza, che il nostro Cajo Cilnio M. fu messo al mondo nell indicato anno 686. dopo la fondazione di Roma, ed anni sessantotto prima dell'Era volgarp. et Lucio Asinio Gallo Consulibus. Fast. Cons. loc. cit. pag. 107. Digitized by Google i5 quantasette, qual periodo’ di vita appunto gli assegnano Eusebio di Cesarea (i ) Pietro Crinto ( oc) ed altri ., Sembra anche certo egualmente, che il nostro Cajo Cilnio M. morisse di anni sessanta, è nell* anno istesso, in cui cessò di. vivere Orazio ; anzi non s'ignora, che il primo mori verso il mese di Settembre, ed il secondo nei mese di Novembre ( \) ’•[ Dunque M. aveva preceduto di tre anni, resistenza di Orazio, che visse cinquantasette an. ni conforme si è detto, ed essendostata fissata ; 1 ;!/ InChronich. Horatius quinquagesimo septimo aetatis siiae anno Romae moritur .In Vit. Horat. Mortuus est autemHo ratius anno aetatis suae septimo, et quinquagesimo. (i ) Dion. Gas. lib. 55. Morery Gran. Diction. Histor. art. Maecen. Briet. Ann. Mund. Tom. j. part. 3. ad ann. 746. Consulibus Cajo Mario Censorino, et C. Asinio Gallo fnensi Sestili indìtum est Augusti nomea .... Obiìt etiam hoc anno Maecenas Litterarum praesidium, et decus Nequc diti suo Mae cenati supcrvixit Horatius Flaccus Poeta Lyricus. Obiit enim non aetatis anno 60, ut ali qui, non 5 o, ut alti, sed 5 j, hisque Consu li bus. v ( 4) Cafrou.Hist. Eom. Tom. 19. 16 la nascita di questa all’ anno 689. il Natale di quello deve rimontare all’ anno 686. dopo la fondazione di Roma, ed. all' anno 68. prima dell’Era volgare » Con maggior certezza poi si conosce il giorno preciso, in cui il sudetto Cilnio fu registrato nel numero de mortai}, che fu il giorno i3. Aprile. La verità di questo punto istorico risulta dalle Odi del surriferito Orazio Fiacco. Volendo quest» Poeta celebrare la ricorrenza del sudetto giorno Natalizio del suo amico M., invita Fillide alla Festa, e cosi si esprime Ed affinchè conosca, o Filli de, a quali esultanze io ti chiami, sappi, che dovrai celebrare con ime il dì, che in due divide il mese di Aprile, sacro a Ciprigna; giorno per me giustamente solenne, e più sacro ancora dj quello, nel qua., le io nacqui; giacché in esso incomincia a,, numerare gli anni della sua vita il mio M. Od.i 1. Vi tanica noris, quibus advoceris Gaudiis ; Idus tibi sunt agendac, Qui die* mcnsem Veneri s marinai Findit-Aprilem. J are sole mais mihi, sanctiorque Paene Natali proprio, quod ex hac Luce Maecenas meus ajfluehtes Ordinai annoi, Avendo procurato di rintracciare alla meglio l'anno, ed il giorno della nascita del nostro Cilnio,, stimo pregio dell'opera di fare alcune osservazioni relativamente al suo Padre, ed alla sua Stirpe. Quel Cajo M., che nell' anno 66a. faceva in Roma una comparsa brillante, era ascritto nell’ordine de’ Cavalieri ; ciò si è dimostrato coll' autentica testimonianza di Cicerone, ed anche con le autorità di Livio testé riferite. Inoltre l’ istesso Cicerone ci fa conoscere, che il Cajo M., di cui fa egli gloriosa menzione, non aveva alcuna ambizione, nè curava di sollevarsi ad impieghi luminosi, ai quali pur troppo avrebbe potuto giungere per la buona opinione, che godeva presso il Popolo ; ma che contento del semplice titolo di Cavaliere, amava di passare una vita lieta, e tranquilla ad imitazione de’ suoi Maggiori. Se potuisse ( sono parole di Tullio sopra-,, enunciate ) Judicio populi Romani in amplissimum locum pervenire, si sua studia,, ad honores petendos conferre voluissent sed Ordine suo, Patrumque suorum contentos fuisse, et vitam illarn tranqnillam, et quietam .... sequi ma-,, luisse. Ora il carattere, che forma Cicerone di questo Cajo M., non è similissimo a quello del nostro Cilnio ? Tal circostanza si conoscerà nel decorso della sua Storia, ma intan B j8 to possiamo accennare, che questo aveva tutti li mezzi per inalzarsi a cariche le più eminenti, e decorose, stante la grande amicizia, di cui era onorato da Augusto, ma che pago del suo stato, e del semplice titolo di Cavaliere, mai volle, ne dimandò altri onori, e nuovi impieghi. A ciò si può aggiungere l'epoca del tempo, in cui quello viveva, ed era celebrato per uno de’ sostegni del popolo Romano, ed in cui sono fissati i natali di questo, e dal tutto insieme ne risulterà un grado di probabilità non del tutto dispregevole, per credere, che il sudetto Cajo M. potè essere l’Autore del nostro Cilnio. Potrebbe la nostra assertiva essere smentita da una antica Iscrizione riportata da Dionisio Lambino nella quale si parla di M. figlio di Lucio ; poiché se questa avesse rela - ( i) Lambin. in Com. adOd.i. lib. i. Horat. £ 7 ni us praeterea Marnioris antiqui testimo— nium producala, quod Romae visitur in Aedibus Fusco aura e regione aediurn Farnesiarum, in quo haec sunt incisa. Lieertorvm et Libertarvm C. Maecenatis. R. F. Pontif. Posterisq. eorvm Et qvi ad xd tvendvm CONTVLERVNT CONTVLEIUUT zione al nostro M., sarebbe stato figlio di Lucio M., non di quel Cajo da Cicerone accennato. Ciò non ostante pare che un tal documento non Taiga, nè a somministrare schiarimento sull'oggetto, di cui si parla, uè a distruggere la detta nostra assertiva, i. peri hè non costa, che quella Iscrizione seco porti un carattere di sicura autenticità ; a. perchè non si conosce dal contesto della medesima l’epoca del tempo, in cui fa incisa, né a qual Cajo M. debba riferirsi. Veniamo ora alla Stirpe del nostro Cilnio. Gli Autori antichi, e moderni, tutti li Commentatori di Virgilio, di Orazio, di Properzio, ed altri si sono divisi di opinione nel fissare la nobiltà della discendenza di questo grand’Uomo. Orazio, Properzio ed anche Marziale chiaramente hanno scritto, Od.j.Lib.i. Maecetias atavis edite Regibus, O et praesidium, et dolce decus rneum! Maecenas eques Etrusco de sanguine Regum, Intra fortunam qui cupis esse tuam. Lib. la. Epigr. 4. Quod Fiacco, Varioq.fuit,summoque Maroni M. atavis Regibus ortus eques. B a Od. ug. lib. 3. Tyrrliena Regum prò genies, Lib.3.Eìeg. che egli era di stirpe reale. IlTorrenzio Commentatore di Orazio, descrive una linea genealogica degli Antenati reali di quello, e crede, che il suo Bisavo fu Cecinna Re degli Etrusci. Acrone ('a) altro Commentatore antico di Orazio è dallo stesso sentimento, « fa seguito dall’ autore dell’ Elegia attribuita all’ Albinovano ^ 3 ), e dal Beroaldo Commentato' re di Properzio ; anzi quest’ ultimo suppone, che discendesse dal famoso Porsena parimente Re de’ Toscani. Al contrario Dione Cassio, ( 5 j e Vellejo ( 1 ) Comment. ad Od. 1. lib. 1. Horat. Antiquis Regibus prognate: cui Menodorus Pater, Menippus Avus, Cecinna li ex Etruscorum fuit A t avus. (2) Comment. ad Od.i. Lib.r. Horat. Edite Regibus : quo ni arn dicitur (lux i ss e originerà ab Etruscis Regibus, et contempsisse Seuatoriam dignitatem. Eleg. in obit. M.. Rcgis eros genus Etrusci, tu Caesaris olim Dcxtera, Romanae tu vigli Urbis eros, Com. ad Eleg. cit. Propert. Etrusco de sanguine Regum : quia fuit oriundus a Porsena Rege Etruscorum. Lib. 19. pag. 534. Reliquas res non Ro mae modo, sed per totani Italiam Co* Patircelo (t), benché spesso parlino del medesimo non gli attribuiscono un origine reale, ma lo caratterizzano soltanto per un indivivuo di ragguardevole e splendida famiglia. Dacier poi, e Pallavicini sono d’avviso $ che dalle indicate espressioni di Orazio, di Properzio, e di Marziale non può con certezza dedursi, che frà le vene del nostro Gilnio scorresse un regio sangue ; giacché è noto altronde, che le parole Re, e Regina, nel senso de’ migliori Autori, segnatamente Poeti, spesso significano Signori potenti, Uomini, e Donne di qualità, e distinzione ; e cosi aveva ancora in sostanza pensato il Porfirione prima de' sudetti Dacier, e Pallavicini. Riguardo ai Poeti contemporanei però non tutti han parlato sull'oggetto ip questione, come. Properzio, ed Orazio. li Poeta di Mantova più d’una volta si volge col discorso a M. nelle sue Georgiche, ep jus Maecenas, equestris dignitatis vir admi nistravit. (1) Lib. 2. art. 83. Tum Urbis custodiis praepositus Cajus M. equestri, sed splendido genere natus. (2) Annot. crit. sopra Oraz. Canzon. di Oraz. pag. i 5 i. Comment. ad Od.i Horat. M., ait, atavis Regibus editus, quia Nobilibus Etruscorum ortus sic. lì pure non Io ha mai decorato di nna reai prò-» sapia• La diversità di queste opinioni potrebbe ini qualche guisa conciliarsi, se, come si è sopra accennato, sussistesse realmente ciò che abbiamo veduto asserirsi dal Poeta Silio Italico nella seconda guerra Punica. Imperciocché si è in quel luogo rimarcato, che quel Cilnio fatto prigioniero nella battaglia del Ticino non è chiamata di stirpe Regia; e che quel M., che mori posteriormente presso Canne era celebrato per li Scettri Toscani. Nella verità di questi fatti potrebbe Georg lib. i.vers.i. e seq. Quid faciat laetas segete s, quo sidere terram V ertere, Maecenas, ulmisq. ad/ ungere vites Conveniat Hinc cane re incip iam. Lib. a. vers. 40. Tuque ades inceptumque una decurre laborem Maecenas pelago que volens da vela petenti Lib. 3. vers. 40. IntereaDryadum sylvas, salt us que scquamur Intactos, tua, M., haud rnolliajussa Lib. 4 vers. i Protinus aerii melili, coelestia dona Exequar, hanc etiam, Maecenas, excipe partem. aà dirsi, che Orazio, Properzio, Marziale, e gli altri, che danno al nostro Cilnio una Regia discendenza, lo abbiano fatto derivare dal secondo ; e che Virgilio, Dione, Vellejo, e gli altri segnaci dell' opposto parere nbbian fissato per Capo della sua famiglia, o per uno de’ snoi Antenati il primo. Si è disputato ancora in qnal’epoca, a quale degli Antenati del nostro Cilnio, e per qual motivo venisse aggiunto il nome di M.. Riguardo all’ epoca, nell’ anno 450. di Roma la famiglia de’ Cilnj ancora non portava questo nome, conforme si è osservato da Livio. Ottantotto anni dopo, cioè si comincia a vedere in quel M., che mori presso Canne, sempre però sull’autorità poetica del surriferito Silio Italico * Nell’anno 66atrovasi in Roma già celebre, e rinomato in quel Cajo M. encomiato da CICERONE (vedasi). MeibomiO riporta un frammento del Libro terzo delle Storie di Sallustio, estratto da Servio Commentatore di Virgilio, in cui si fà menzione del famoso Sertorio, e di un M. Segretario del medesimo. Sertorio morì Jn Vit. M.. Praeloqi adlect. Ex-^ tot Sallustii fragmentum apud Servium adLib. X. Eneid. Virg. ex Histor. illius lib.g Igitur, inquit, discubuere Sertorius inferior in medio, tuper eum Lucia s F alias Hispaniennt S* notar , nell’anno di Roma 68a. Terenzio Varrone, che viveva, e scriveva nell’ epoca istessa, in cui mori Sertorio, fa uso ancora esso nelle sue opere della parola M. e di cui si tornerà in appresso a parlare. Da tuttociò sembra chiaro, che nel settimo Secolo di Roma già fosse commune alla sudetta famiglia il nome di M.. Ma riguardo a conoscere a quale degli Antenati di Cilnio, e per qual motivo fosse aggiunto quel nome, il Martini ingenuamente confessa, e si protesta, che il tutto è involto nelle tenebre, e nella incertezza, (a) Aggiunge però che se fosse lecito di promuovere sn questa sconosciuta materia qualche riflessione, che possa aver luogo, non già sul vero, o sul verisimile, ma sul possibile, si po sa: Proscriptis ; in summo Antonini, et infra Scriba Sertorii Versius, et alter Scriba Maecenas in imo. (i) De Ling. Latin.Lib.7. in fin. (a) Lexic. Philolog. art. M.. De origine nominis nihil certi, et *'ix aliquid probabile dici potest ; quia certum est, esse nomea proprium,nec vcrum satis certum mihi qui dem est, cujus linguae vox sit, et historia de stituor cui, et ex qua causa primum juerit imposi tum. Addo, quod ctiam de vera scriptum dubitai ur. Digiti?ed iS trebbe dire, che la voce M. è un vocabolo Etrusco derivante dall’ idioma de’ Caldei, dalla qual nazione gli Etrusci hanno avuta la loro origine ; primieramente, perchè la flessione di detta voce seco porta un non so che di straniero ; in secondo luogo, perchè li nomi de’ Caldei si solevano ordinariamente prendere dalle forze naturali degli oggetti morali, dalle facoltà, dalle azzioni, e dalle passioni. Il Catrou è d’avviso (a) che con Tantorità di Varrone, e di Plinio possa trovarsi nn qualche schiarimento per sapere, come fosse dato un tal nome alla famiglia de’ Cilnj. Secondo quello, si rileva dal succennato Terenzio Varrone, li nomi degl’ individui, che finivano in as, significavano qualche luogo. Si licei aliquid de hujusmodì prorsus incognitis dicere, quod ncque inter vera, neque inter verisimilia, sed tantum inter possibilia ponantur, sit nomen Etruscum, ex Caldaea(inde enim Etruscis est origo ) praesertim, quia forma flexionis peregrinitatem sapit. Nomina autem fere a naturalibus viribus, a ut a moralibus objectis, facultatibus, actionibus, aut passionibus imponi consueverunt, tamquam monumenta quaedam de iis, quae rebus insunt, vel adsunt, vel ab eis sunt. particolare dell' individuo medesimo (i\ Plinio poi ci avverte, che fra li vini scelti dell* Italia erano celebrati quelli ancora, che si raccoglievano dalle Vigne Mecenaziane (a) : perciò conclude il detto Storico, che il nome di M. provenisse a quella famiglia da qualche terra, o possessione alla medesima spettante. Ma, ad onta di tali dilucidazioni, sembrando la cosa tuttora incertissima, secondo il sullodato Martini, dobbiamo soffrire una tale ignoranza senza sgomentarci, e con quella docilità, e rassegnazione j con cui soffriamo l’oscurità, e l’incertezza di tante altre materie più interessanti. Potrebbe qui aggiungersi ancora una qualche riflessione sulla formamateriale della parola Maceenas, ed esaminare se debba scriversi Hinc quoque dia nomina Le* nas, Ufcnas, Lavinas, M., quae cum essent a loco, ut Vrbinas, et tamen Urbi nas ab his debuerunt dici ad nostrorum nomi num similitudincm. In Mediterraneo vera Caesenatia, ac M. ( vina ) ; In Vcroncnsi itemi F altre us tantum posthabita a Virgilio. (3) Loc. cit. Qui enim multo potiora patte nter ignorarmi!, edam et hoc, et similia, •ine pudore possumus nescire. con il dittongo nella prima, o nella seconda sillaba, se in ambedue, o se debba leggersi senza dittongo alcuno ; ma un tale articolo potendo presentare una discussione, o estranea, onojosa, rimettiamo gli Eruditi al citato Lambino, il quale ne’Commenti alla prima Ode di Orazio ne ha parlato con precisione, e dottrina. Il Lamiino nel commentare la parola M., che leggesi nell’Ode i.del i.lib. di Orazio, tosi sviluppa il punto da noi succcnnato, In omnibus fere manuscriptis Codicibus, quibus usus sum, nomea Moecenas scriptum reperi et in prima, et in.secunda syllaba sine diphthongo ; quam scripturam tametsi non probe m omni ex parte, sequor in eo ta men, quod secunda per e vocalem, non ut vulgo per oe diphthongum scribitur. Adjuvat me Codex Orationum M.Tullii Ciceronis calamo exaratus in Cluentiana, quo loco scriptum etiam est hoc nomea sine diphthongo in utraque syllaba. J am vero quod ad primam attinet Graecorum auctoritate moveor, apud quos M aiKnya( per ai diphthongum scribi solet in va syllaba, ut in secunda per v quae vocalis Ver ti tur in e longum. Quia JElianus, qui cum Romanus esset graece scripsit. «/ «f hanc scripturam retinet. Praeterea apud Publium Victorcm lib. de Reg. Uri. et Priscia» Dopo di aver raccolto le descritte notizie ; e prodotto quelle poche riflessioni finora accennate sulla stirpe, sulla patria, sull’ autore del nostro Cilnio, e su tutt’altro relativo al suo nome, sembra, che ornai dobbiamo occuparci sulla relazione delle sue geste, e de’ suoi costumi, e sulla Storia della sua vita ; ed in primo luogo dovremmo parlare della sua educazione, sotto quali maestri, ed in quali Accademie venisse istruito ; ma su di ciò mancando notizie sicure, qual vantaggio potrebbe ricavarsi da congetture vaghe, ed inconcludenti, da riflessioni possibili, o estratte dal fondo di un immaginario probabilismo ? Ciò non ostante si pnò dire, che l’educazione di M. fu proporzionata, ed uniforme al rango, che li suoi Maggiori occupavano nella società, e nella classe de’ cittadini Romani. Fornito dalla natura di non ordinarli talenti, ebbe tutta la cura di svilupparli, allorquando fu adulto, perchè non erano stati oziosi, ed incolti nella sua adolescenza. Ma se egli venisse istruito in Roma, o altrove, e quali fussero li Dotti, cui venne affidata la sua letteraria educazione, s’ ignora pienamente. Crede il Cenni, che M. fosse manna»! de Accent. in Exemplaribus Aldinis, sine ulta varietale perpetuo ita scriptum, est hoc nomen. dato in Apollonia, allora Città ragguardevole della Macedonia ; suppone inoltre * che mentre quivi attendeva alle scienze, vi si trovassero ancora per lo stesso oggetto Marco At grippa, ed Ottavio Cesare, e che in tale oc casione si stringessero con i dolci legami dell’ amicizia, o almeno facessero unà reciproca conoscenza. Sembra però, che questa circostanza non sia stata accennata da verunAutore antico ; nè il Meibomio, ed il capriccioso Caporali, ne’ scritti de quali attinse il Cenni la sua supposizione, sono forniti di qualche autorità valevole, e concludente. Quello, che può asserirsi con qualche certezza, e che risulta dalle opere di Dione, di Appiano, di Orazio, e di Properzio, si è che il nostro C. Cilnio M., se non divenne amico di Ottavio nell’ epoca de’ loro studj, di buon’ ora cominciò la carriera de’ servigj, e consigli da esso a questo sommi* Bistrati fino all’ ultimo respiro della sna vita. Ottavio venne in Roma, dopoché Giulio Cesare suo padre adottivo fu dai Republicani pugnalato Egli seppe la disgustosa notizia nella sudetta Città di Apollonia. Aveva allora appena oltrepassato il quarto lustro di sna vita, e correva l’anno di Roma. Giunto in » quella Capitale, diede subito saggi manifesti Sveton. in Octavio art.8 e io Naucler. Chronog. ad au. 7*0 3o di una grande elevatezza d’ ingegno, e benché in età giovanile, di nn senno maturo • Cominciò a procacciarsi la puhlica opinione, la stima de’ Grandi, l'affetto della Plebe, e dei Soldati. In tale occasione, ed in tale epoca sembra potersi stabilire, che M. entrasse nella Corte di Ottavio, e che questo lo prendesse per Consiglierò de’ suoi progetti, e delle sue future intraprese. Dopo la morte di Giulio Cesare, Marco Antonio governava, per dir cosi, dispoticamente la Republica Romana, conciosiachè egli aveva tptta 1* influenza, e sul Senato, e sul Popolo, e snU’Armata. Ottavio fece istanza presso di esso, affinchè, come Erede Testamentario di quello, gli venissero consegnati quegli effetti, che gli erano stati nel Testamento lasciati. f Antonio, poco curando la tenera età del medesimo, accolse piuttosto con disprezzo la di lui giusta, e regolare dimanda. M., che allora già trovavasi al fianco di Ottavio, non maucò di consigliarlo a sopportare con calma, e rassegnazione P ingiustizia, e T insulto del prepotente Romano, e nel tempo stesso gli fece conoscere, che bisognava momentaneamente abbracciare la causa del Senato, stantechè da tutte le circostanze scorgevasi imminente una guerra Civile. Il Senato proteggeva l’attentato commesso dagli uccisori di Giulio Cesare, ed Antonio aveva inalberato lo stendardo guerriero contro di questi. Ottavio, come figlio adottivo del famoso Dittatore pareva, che dovesse unirsi ad Antonio, e secondare le mire del medesimo, ma M. da previdente, ed accorto Politico credette, che dovesse per allora uniformarsi ai voleri del primo. In fatti il Senato, per opporlo all’ambizione del sudetto Antonio, cominciò a fargli mille buoni uflìcj, ed a colmarlo di onori, e di carezze. Intanto questo faceva la guerra a Decimo Bruto uno degli assassini di Giulio Cesare, che assediò in Modena. Allora il Senato incaricò li Consoli Panza, ed Irzio a marciare con un’Armata contro il nemico del sudetto Decimo Bruto, ed Ottavio fu ad essi associato in tale spedizione. Questa guerra fu fatta con differente successo, nè l’impresa di Antonio potè cosi sollecitamente reprimersi; ma lilialmente in una battaglia campale fu egli completamente disfatto, fu levato l’assedio di Modena, e Bruto liberato, mercè li talenti militari di Ottavio, al quale fu attribuita la maggior gloria di quella giornata ; in essa vi morì il Consolo Irzio, e Vibio Panza mortalmente ferito ebbe tempo di parlare ad Ottavio, lasciandogli salutevoli istruzzioni, e consigliandolo segnatamente ad unirsi con Antonio. Questo fatto storico si pone all’anno di Roma. epoca, in cui Oitavio correva nell’anno vi^esimo primo della sua vita, e M. 3a parimenti nel fiore della sua gioventù, ed in età di circa venticinque anni, già stava al sho servizio. Abbiamo di ciò ne’scritti di Properzio un argomento di certezza, che pare non possa incontrare eccezzione. Imperciocché il sndetto Poeta, uno de’più cari amici di M., scrivendogli una robusta, ed elegante Elegia, gli dice, che se avesse talenti da poter cantare gli Eroi, non canterebbe già li Titani, e la loro guerra contro Giove, allorquando ammonticchiarono le montagne di Pelio, ed Ossa, non canterebbe neppure le battaglie degl'antichi Tebani, o l’ Incendio di Troja, il primo Regno di Romolo, l’ardimento della superba Cartagine, le minaccie de’ Cimbri, e le vittorie di Mario ; “ Ma cante-,, rei ( soggiunge il Poeta ) o mio caro Mece», nate, le guerre, e le azzioni illustri del », tuo Cesare, e mostrerei, che in tutte le sue imprese, tu occupi il posto secondo, Canterei la guerra di Modena, le tombe degli estinti presso la Città de’Filippi, la guerra di Perugia, la battaglia di Azio, e », la conquista dell’Egitto (i). ( t) Lib. a Eleg. i. Quod mihi si tantum, M., fata dedissent, V t possem Heroas ducere in arma manus ; Non ego Titanas canerem, non Ossan Olympo hnpositum, ut Coeli Pelion esset iter ^ Ora se M. non fosse stato già al fianco, ed al servizio di Ottavio nella guerra ‘di Modena, il Poeta non avrebbe detto, che quello nelle imprese di questo occnpavadl pò* sto secondo, e facendo la serie di tali imprese, non avrebbe descritta per la prima la sudetta battaglia di Modena. Properzio voleva fare un elogio al suo Protettore, al suo Amico, al suo Benefattore, ma questo elogio non sarebbe stato giusto, e veritiero, se realmente M. non avesse avuto il posto secondo, ossia, se non fosse stato il Consiglierò di Ottavio fin dall’epoca sudetta della liberazione di Modena. Dal che sembra potersi dedurre altra valevole congettura, onde credere, che quello entrasse nella Corte di questo nell’anno Non veteresThebas,necP er gama nontenHomcri ; Xersiset imperio bina coiste vada ; Regnane prima Remi, auC animos Carthaginis altae, Cymbrorumque minas, et benejacta mari. Bellaque, resque fui memorarem Caesaris, et tu Caesare sub magno cura secunda jòres. Nam quoties Mutinam, aut civiltà busta Phi lippos, A ut canerem Siculae classica bella fugae, Aut canerem Aegyptum, et Nilum cum tractus in Urbem Septem captivi! debilis ibat aquis. precedente. conforme abbiamo accennato pocanzi. Ad onta della perdita dei due Consoli Ir* sio, e Panza, la surriferita vittoria riportata contro Marco Antonio ricolmò di gioja Roma, ed il Senato. Allora fn, che Cicerone si sca* tenò contro di quello con tutto 1'entusiasmo della sua maschia, ed inimitabile eloquenza. Quc* Senatori, e quella porzione di Popolo, che nutrivano ancora un qualche sentimento per il Governo Rcpnblicano, ascoltavano con estasi, ed ammirazione li fervidi discorsi di quell’ Oratore, ed aderivano ciecamente ai suoi voleri. Infatti Antonio fu proscritto > fu risoluto di continuare la guerra fino al di lui esterminio, furono destinate le Armate, scelti li Generali ; eppure questa volta, nelle nuove disposizioni marziali, non si fece menzione di Ottavio, benché ad esso fosse dovuto tutto l’esito vantaggioso della passata Campagna. Il Senato era già divenuto geloso della gloria di quello, col non curarlo voleva umiliarlo, ed abbassare l’orgoglio, che le già eseguite favorevoli Imprese avevano potuto inspirargli. Ottavio, e M. conobbero in tal .congiuri tura la condotta poco lodevole, e disobbligante del Senato. Allora memore il primo delle istruzioni ricevute dal moribondo Consolo Panza, e penetrando il secondo nell’artificiosa politica di quello ± determina* Digitized by Google H rono di procurare una riconciliazione cqn, il detto Marco Antonio. Il progetto esigeva una somma precauzio* ne, ed ima impenetrabile segretezza, ma ni uno poteva maneggiarlo più vantaggiosamen-* te di M., che, fra le altre sue virti» politiche, possedeva in particolar maniera quella del segreto, conforme narrano Sesto Aurelio Vittore, ed Eutropio. Ottavio nella guerra di Modcaa aveva fatto ad Antonio molti prigionieri * Per dare principio alla riconciliazione, gli rimandò li pii distinti, e ragguardevoli. Fra gli altri vi era Decio, brava persona, e molto affezionata al suo Padrone ; anche a qnesto concesse la libertà. Decio separandosi da Ottavio, gli richiesi, che cosa doveva dire ad Antonio “ Dite ad Antonio da mia parte ( rispose Otta,. vio ) che io credo aver egli tanta penetrazione per interpetrare la mia condotta. Se,, nulla ha compreso, sarei imprudente 4 » spiegarmi più diffusamente „. Intanto Ottavio, e M. fissarono la loro attenzione sull’indicato Marco Tullio Ci l In Epit. de Vit. et Morib.Imper.Romao, Cap. 1. In amicai fidai extitit ( Augustus ), quorum praecipui erant ob taciturnitatem M., ob patientiam laborit, modestiamque, 4grippa .. Lib. 7 in Augusto. C a cerone, penetrando con la loro previdenza, che bisognacattivarsi l’animo di quell'Oratore. Imperciocché egli aveva in quell’epoca un dominio irresistibile e sullo spirito del Popolo, e sul cuore de’Romani Senatori. Ottavio dunque onde ottenere l’intento gli scrisse una lettera in tali termini concepita Io,, sono giovane e quasi privo di esperienza negli affari ; sarò occupato tutto il resto £, dell’anno a perseguitare Antonio nostro nemico fino a piè delle Alpi ; cosi voi rimasto,, solo in Roma coll’autorità, che danno li,, Fasci Consolari, avrete il tempo, e l’occasione di ristabilire lo Stato Republicano, ed uguaglierete la gloria del vostro secondo con quella del primo Consolato ( i ),,. Tullio benché avesse tutti i lumi del più grande Letterato del suo Secolo, non aveva quella finezza di politica, di cui era feconda la testa di M.. Egli cadde nella rete; credè sincera la deferenza, e la dichiarazione di Ottavio, e cominciò ad encomiarlo, e proteggerlo in publico Senato ; che anzi ebbe anche il coraggio, o piuttosto la debolezza di proporre, che gli venisse conferito il Consolato “ Quanti dispiaceri (diceva Tullio), o Padri Coscritti, non ha ricevuti da Voi l’e», rede del nome, e de'beni di Giulio Cesa*•, Dion. lib. 46 Piotare, in Cicer. Catrou Tom. 17IU). 4, £ j/ re ? Poco accorti nelle nostre risoluzioni, noi non cessiamo d’irritarlo senza riflettere, che egli comanda a Legioni vittoriose. Perchè non procuriamo di calmarlo? Sebbene giovanetto aspira al Consolato, e potrà ottenerlo malgrado la nostra ripugnanza. Contentate le sue brame per gli onori. Nell’età, in cui sì trova, questa brama è più vivace, che in tempo della >, vecchiezza, perchè è cosa più gl oriosa di ottenerlo prima del tempo dalla Legge prescritto. In ciò però è necessaria una limisi fazione. Date al giovane Ottavio un Colle» ga di età matura, che gli sia di guida, e maestro. Questo reprimerà il fuoco di quel* lo, e l’amministrazione della Republica sal à al sicuro sotto il primo, mediante i consigli dell'altro. Non ostante la potente influenza di Cicero* ne, le sue premure per Ottavio non ebbero alcun effetto vantaggioso, mercè l’inalterabile fermezza del Senato. Li Padri Coscritti conoscendo, che una tale richiesta trovavasi in opposizione con le Leggi fondamentali dello Stato, stante l’età di Ottavio, non potevano realmente secondarla ; ma questa ragione pian* sibile poco forse avrebbe operato in un tempo, in cui le Leggi Repnblicane erano inoperose, e senza vigore, ed in coi l’antica Co (a) Appian. lib. 3 Catron loc. cit. ÌLxìob. «api > a. in,ln '' ”f "V La ma^eior parte de’Membn componenti il Se“no allora, o compiici de» aa.amo.0 ai celare, o aderenti ai medesimi. Temeva. *0 pertanto, che, sollevando ad un grado di potenza coli eminente l’Erede di qnelk,, | P£ irebbe avere i mezzi, e trovarsi m «tato divendicarne la morte •, j Ottavio adunque, vedendo, che con le buone non poteva ottenere il Consolato, cercó altre risorse più efficaci ; scrisse diretta mente ad intorno. preveneodolo dell, neonciliazione. Questo, che aveva avuto già qualche sentore di una tale disposizione di animo di quello, e mediante il rinvio de pronteri e le parole dette a Decio, accolse con trasporto le lettere del suo rivale, ed il progetto, che gli faceva ; Incontanente si diè tutta la premura di dargli esecuzione. 11 primo passo che fece, fu quello di riunirsi con Marco Lepido, Soggetto anche esso poco beQuesto allorquando ebbe la notizia dell unione di Antonio con Lepido, fremè di rat bia, e deliberò di disfarsi di ambedue. Per lo che, supponendo che Ottavio fosse reai, mente nemico dell'uno, e dell’altro, lo incaricò di marciare all' istante con le sue Leeoni contro qne’due ribelli. Ottavio mostrò, o piuttosto finse di uhM*. re, ma li veri suoi disegni erano gd altrog' Digitize in Roma, e con una Armata bellicosa, non ebbero più vigore, costanza, e coraggio di prò* seguirla. Bruto, Cassio, e tutti i complici degassassimo di Giulio furono condannati, e proscritti con decreto solenne di quello stesso Senato, che pocanzi aveva spedite Legioni, Armate, Consoli, ed il medesimo Ottavio in «)nto di essi. Intanto Antonio, che era già in una piena corrispondenza con Ottavio, si dxè premura di prevenirlo, che il partito de’Republicani si andava ingrossando nelle Provincie della Gre» eia, dell’Asia, e nell’ Oriente ; che perciò era tempo di abbandonare Rema,ed unitamente marciare contro di quelli. Ottavio profittò di questo avviso per poter prendere le necessarie precauzioni. Egli doveva ancora occultare al Senato la seguita riconciliazione, e corrispondenza con Antonio, e perciò ebbe ancora bisogno di circospezione, e di quel segreto impenetrabile, di cui era capace il solo M.. Per secondare il Collega, e per imbrogliare al tempo istesso la testa de’Senatori fece spargere la .notizia allarmante, che M. Antonio, e Lepido^meditavano di marciare alla volta di Roma per saccheggiarla; che perciò sembrava cosa urgentissima di uscir contro di essi, e combatterli ; Il Senato credulo, ed ingannato prestò fede alle voci diffuse, ed alle rimostranze di Ottavio, ed all'istaute lo incaricò di par» 4 * tire da Roma, ed opporsi agli avanzamenti j ed alle supposte minacele di quelli. Non bastava però tuttociò alla penetrante politica di M., e del suo Padrone Volevano, che il Senato rivocasse, e cassasse il Decreto di proscrizione emanato contro de’ sudetti Lepido, ed Antonio. Restò in Roma Luogotenente di Ottavio Quinto Pedio, persona totalmente consagrata alli suoi interessi Egli fu incaricato di ottenere la revoca sndetta, ed è probabile, che della medesima operazione delicata fosse a parte ancora M.. Si fece riflettere al Senato, che, cassando qnel Decreto > mostrerebbe un tratto di clemenza, e di generosità capace a spegnere nella sua origine il fuoco di una guerra civile, ed a calmare la collera, ed il risentimento de' due Colleghi. Il Senato si fece vincere, ed il sovraindicato Decreto di proscrizione fu annullato. Ricevuta Ottavio questa notizia consolante ne prevenne con la massima sollecitudine Lepido, ed Antonio; allora questi, e quello si avvicinarono con le loro Armate respettive, e stabilirono un Congresso. Uua Isolctta formata sul piccolo fiume Reno, che scorre tra Modena, e Bologna, fu scelta per il luogo memorabile, in cui li tre Guerrieri dovevano unirsi a parlamentare. L’abboccamento durò più giorni, il di cui risultato fu lo stabilimen r to del celebre Triumvirato, mediante il quale yenne scagliato un colpo mortale alla Costituzione Republicana, e venne immaginata la proscrizione troppo nota, e funesta, nel vortice e negli orrori della quale fu involto ancora il riferito Marco Tullio Cicerone (i). Dopo qualche tempo Antonio, ed Ottavió marciarono a grandi giornate contro Bruto, e Cassio, e si trasferirono con le respettive Le» gioni nella Macedonia incontro all’Esercito de’ Repnblicani. È troppo conosciuta la sorte infelice di questi nelle Campagne di Filippi per non essere costretto a tesserne la storia dolente, e che sarebbe fuori del mio assunto. La vittoria si dichiarò a favóre de’Triumviri, e Bruto cadde estinto, non già da ferro nemico, ma con un disperato suicidio si sepelli da se stesso, per dir cosi, tra le ceneri della spirante libertà Romana. In questa battaglia si trovò ancora il Poeta Orazio Fiacco, di cui già si è fatta menzione. Piotare, in Ant. pag. 679. Congressi tres illi in modica Insula amne circumfluo, triduum in colloquio fuere. De celeris convenie inter eos facile, totumque Imperium intcr se steut patrimonium suum sunt partiti, sed disceptati dcillis, quos statuerant interficere, detinuit eos .... Tandem fervore in eos, qui aderant, et cognatorum rtverentiam, et ami c orum benevolentiam postniittentcs, Ciceronem teseti Caesar Antonio, Amico di Bruto, e fautore del partito Republicano, seguì quello nelle Campagne di Filippi in qualità di Tribuno. Afferma il Porfirione (a), che Orazio restasse prigioniero ; che in seguito non solo fosse liberato per intercessione di M., ma ancora, che per mezzo di questo si procacciasse il favore, e l’amicizia di Ottavio. Lo stesso si legge in una Vita di Orazio d’incerto Autore prodotta da Giovanni Bon. Altri credono di più, che fatto prigioniero, per opera dello stesso M., venisse liberato immediatamente, e sul Campo di battaglia. Ma tali assertive so Sidon. Apoi. in Paneg. ad Major. Et tibi, F Iacee, acìes Bruti, Cassique stenta Carminis est auctor, qui fuit et veniae. Sveton. in Vit. Horat. Sello Philippensi excilus^Horat\xis)a M. Bruta Imperatore, Tribunus Militum meruit. Presso il Mancinel. in Vit. Horat. Porphìrion addit, Horatium captum fuisse a Cae«are, sedpostea, beneficia Maecenatis, non solum servatus, sed etiam Caesari in amicitiam traditus. Edi*. deli’Opere di Orazio Lug. Batav. an. i663. Coluitque adolescens Bruturn, sub quo Tribunus militum militavit ; captusque a Caesare post multum tempus, beneficio M. non solum servatus, ted etiam in amicitiam acceptus est, I H do smentite dalf autentica testimonianza dellTstesso Poeta- >.'• ’-n ed in questa occasione per mezzo di Asinio Pollione acquistò la grazia, e la protezione di M.. Dopo questa epoca pertanto deve fissarsi quanto scrive Orazio nella Satira testé riferita ; e siccome la sudetta battaglia presso Filippi, accaduta verso il mese di Novembre 71 a, (i)è anteriore di molti mesi alla venuta di Virgilio in Roma, così sembra evidente, che allora M., che ancora non aveva conosciuto il detto Virgilio, non poteva conoscere netampoco Orazio, nè cooperare alla di lui salvezza sul Campo di battaglia. Orazio adunque fu in primo luogo debitore del suo futuro benessere alla tenera amicizia di Virgilio, e di Vario, e quindi al nostro C. Cilnio M., il quale mercè li buoni uffici di quelli, non solo lo mise nel numero de’ suoi amici, ma vennto in cognizione da se stesso del raro di lui ingegno per la lirica Poesia, ne concepì tanta stima, che impetrò per esso il perdono da Angusto, e successiva- De la Rue Hist. Virg. ad an.7ia. Circa Novembre ni pugnalar ad Philippos in Macedonia, pereuntque Cassius, et Brutiu. mente gli procacciò eziandio la sua amici» zia(i e meritava la di lui affezione. Ancora giovinetta di una beltà superiore all’altre Dame Romane era vedova di C. Clodio Marcello, che era stato Consolo. Non essendo dispiaciuto ad Ottavio il sudetto progetto, che gli presentò M., chiamò la sorella, e la persuase ad accettare la destra di Antonio. La virtuosa Ottavia non *i ricusò alle premure del Fratello, ed «al bene, che le sue nozze potevano recare alla Patria, ed Antonio non rifiutò la sua destra. Il matrimonio in fatti segui con reciproca sodi•fazione ; e M. ebbe il contento di vedere effettuato pienamente il suo progetto. La gioja de’Romani fu grande, ed universale, perchè ognuno credeva, che, mediante questa alleanza di parentela, e di sangue, anderebbero a cessare per sempre le guerre civili ; e che li due putenti Rivali avrebbero vissuto in una pace inalterabile. Ma li progetti dell’Uomo sono sottoposti incessantemente alli capricci, ed alla volubilità dell’Uomo istesso, ed i matrimonj formati dalla Politica, rare volte seco portano una seguela di felici avvenimenti. Conchiuso il sopradetto matrimonio,li due Triumviri vivevano con una intelligenza, che giungeva alla familiarità. Si accordavano Plutarc. in Ant. pag.683 Edit. Basileae. Has nuptias suaserunt ornncs, quod Oetaviam sperarent, quac excellentiae formae gravitatela, et prudentiam habebat adjunctam, ubi Antonio conjuncta csset, atque ut talis foemina, haud dubie ab eo adamata, omnium rerum ipsis saluterà, et concordiam al Laturam 6 ? scambievolmente ciò che l’uno all’altro proponeva, sempre però a discapito del Regime republicano. Imperciocché stabili rono fra le altre cose, che iu avvenire essi nominerebbero li Consoli, quando non vorrebbero esercitare eglino stessi il Consolato, togliendone la elezzione alle Centurie ; e che, dopo la loro separazione, Antonio farebbe la guerra ai Parti, e Cesare attaccherebbe Sesto Pompeo nella Sicilia, ad onta della buona fede, su cui questo si era da essi separato. Gli amici di questo, saputo il tradimento, ed il nuovo progetto de’Triumviri non mancarono di prevenirlo minutamente. A tale notizia Sesto animato da un risentimento naturale, e non ingiusto, non aspettò a farsi sorprendere, e facendo uso di una straordinaria attività, prevenne li suoi nemici, e diede principio alle ostilità. Ricopri delle sue Flotte li mari d’Italia, e ne bloccò tutti li porti, affamando in tal guisa la Capitale. La carestia divenne terribile. Romalanguiva dalla miseria, eoli Romani conoscendo, che la loro penosa situazione era l'effetto della cattiva politica de’Triumviri, cominciarono a mormorare apertamente, ed accadevano disordini, e sollevazioni. Antonio, ed Ottavio stretti da queste imperiose circostanze, cercarono la maniera di calmare Pompeo, e di riconciliarsi con esso. Sebbene quello fosse profondamente penetrato £ a dal torto ricevuto, ed avesse l’animo irritato contro li Triumviri, tuttavia, stante l'interesse, che avevano preso per la pace Libonc suo Suocero, e Muzia sua Madre, condiscese a tenere un congresso a Baja, e come altri vogliono a Miseno (i). Le discussioni del Congresso furono lunghe, e spinose, e più d’una volta venne disciolto per le condizioni che promoveva Pompeo, piuttosto dure, ed umilianti per li suoi Avversar] ; finalmente furono spianate tutte le difficoltà, e fu sottoscritto un Trattato di pace. Secondo Appiano Alessandrino, dopo qualche tempo dalla conclusione di questa pace, sembra, che Ottavio trovasse il pretesto di romperla. Forse 1 ’csistenza del Successore del gran Pompeo attraversava la vastità delle di lui mire politiche, e perciò cercava la maniera, o di umiliarlo all’atto, o anche distruggerlo. Pompeo anche in questa circostanza prevenne il suo nemico. Mandò subito in corso molte navi corsare, che, scorrendoli mari d’ Italia, intercettavano li viveri per Roma. Ottavio scrive ad Antonio, prevenendolo della guerra, che andava ad intraprendere contro di Sesto, e facendogli conoscere, che Appian. Dion. Appian. vi era stato costretto l Antonio sorpreso della novità, e più sincero questa volta nell’adempimento del sagro dovere detrattati, nonapprovò le mosse ostili., e l’intenzione del suo Gallega, e lo consigliò a desistere dalla meditata intrapresa. Non ostante la disapprovazione di quello, Ottavio continuò gl’ incominciati armamenti, perchè nello stato in cui si trovavano le cose T credeva, che ne resterebbe leso il suo decoro, e compromessa la sua gloria, se retrocedeva, e se avesse dovuto proporre un accomodamento al. suo nemico -, ma egli restò umiliato dal valore di questo, che disfece pienamente la sua flotta navale, e ne riportò una completa vittoria. Roma frattanto già sentiva gli effetti funesti del blocco, che nuovamente avevano posto alli Porti d’Italia le Flotte vittoriose di Pompeo, e già la fame cominciava di bel nuovo a distendere la sua mano devastatrice sugli infelici abitanti. Si mandavano al cielo imprecazioni contro l’Autore di questi mali, e voci 9orde, e dispiacenti si diffondevano contro del medesimo nel publico, che venivano avvalorate dagli amici, e partitanti di Pompeo. Da questa pericolosa, e critica situazione forse Ottavio non si sarebbe disimpegnato con onore, e forse non avrebbe superato que pericoli, da quali era minacciato, senza l’assistenza, li consigli, la destrezza, e la politi Digitìzed by Google di cui quello facesse uso presso di questo iu un affare così importante, e delicato ; nè si sà su quali basi poggiasse la discolpa del suo Padrone nella guerra attuale da esso continuata, nonostante la manifesta disapprovazione del suo Collega ; ma sappiamo bensì, chel’efcficace eloquenza, li talenti politici, la destrezza, e le di lui cognizioni rapporto a materie diplomatiche prevalsero a tutte le ragioni, che fino allora avevano reso Antonio neutrale. Che anzi Sesto Pompeo naturalmente non aveva mancato di profondere dell’oro, e de’ presenti presso li Ministri, e nella Corte di Antonio, non aveva trascurato d’inviargli Deputati, ed Oratori, architettar cabale, e profittare di ogni risorsa per indurlo ad unirsi se* co lui contro il dominatore dell’Occidente, o almeno per ritenerlo costante nelPabbracciato sistema di neutralità ; ma l’arrivo, e la presenza di M. nella Grecia, in Atene, e nella Corte di Antonio sconcertò tutte le precauzioni, fece andare a vuoto tutte le manovre, e tutti gl’intrighi di Sesto ; cosicché persuaso Antonio, che Ottavio aveva operato giustamente, e che il torto era dalla parte di Pompeo, fece lega con quello, e si dichiarò eontro di questo. Con si felice succèsso ultimato l’affare, M. . A Appian. a ] non tardò nn momento a ragguagliarne con esattezza il suo Padrone, sapendo, che doveva esser agitato da una penosa folla di cure, e di pensieri molesti. Ottavio infatti sapeva, che la salvezza de’suoi interessi, della sua gloria, ed anche della sua vita, dipendeva dall’impresa, che M. si era addossata, e che tutto sarebbe perduto, se la fedeltà di questo Ministro non fosse stata incorruttibile; perciò, in attenzione dell’esito della sua missione, de’suoi progetti, e delle sue trattative, lo stato del di lui cuore non poteva essere il più felice, perchè scosso quindi, e quinci da tutte quelle moltiplici impressioni, che sogliono mettere in movimento in simili circostanze la dubbiezza, il timore, e la speranza ; ma ricevuta la notizia consolante, primieramente in iscritto, e quiudi a viva voce dallo stesso M., che, tornato in Roma, gli presentò il Trattato con Antonio conchiuso, Ottavio si consolò, bandi ogni sollecitudine affligente, e conobbe appieno, che l’abilità, li talenti, e piu la fedeltà di un Ministro virtuoso possono alle volte salvare uno Stato, e recare un bene inestimabile al Principe, ed alla Nazione. In seguito diede principio a nuovi preparativi militari, affinchè con questi, e col soccorso, che Antonio gli avrebbe recato, potesse rimuovere il blocco dai porti d'Italia, ricondurre l'abbondanza nella Capitale, e misurarsi nuovamente col sua rivale. Antonio intanto, fedele alle promesse fatte a M., ed al trattato conchiuso, parti da Atene nella primavera, con una flotta di trecento Vascelli, ed approdò a Brindisi, ove era ilquartier generale di Ottavio. Non ostante le premure, e l’impazienza di questo in avere il bramato soccorso, sembra, che appena si avvicinarono le due Armate, nascessero dissapori, e diffidenze fra li due Triumviri. Il motivo di questa strana mutazione resta ascoso sotto il velo di quegli arcani, che la politica, e l’ambizione rendono imperscrutabili, seppure non debba dirsi, che fu effetto di gelosia di stato. ' Antonio già pensava di ritirarsi, e forse con sinistri disegni contro il Collega ; già le reciproche contestazioni erano giunte a tal segno, che si presagiva una manifesta rottura, se non fosse divenuta mediatrice Ottavia sposa di Antonio, e se non si fossero trovati al campo M., ed Agrippa, altro Favorito, e Ministrò di Ottavio. i, .b Quella donna virtuosa non omise alcun mezzo per dileguare dall’animo del fratello qualunque sospetto, che potesse nutrire contro del marito, ma sebbene da qdello venisse accolta con ogni dimostrazione tutte le volte, che andò presso di esso, tuttavia non ebbo mai alcuna risposta precisa, e consolante. Impaziente però dell’esitck nella intrapresa mediazione, si rivolse ad Agrippa, e a M., conoscendo la grande influenza, che aveva, segnatamente il secondo, sullo spirito di Ottavio. Perciò essendosi portata da essi, animata da quel vivo entusiasmo, che le veniva inspirato dal doppio amore, e zelo del marito, e del fratello, cosi si espresse “ Ottavia, che vedete avanti di voi, benché nel più alto rango, a cui possa giungere una donna, sarà per ritrovarsi ben tosto nella situazione la più deplorabile, se i vostri consigli non prevengono i mali, che essa paventa. Sorella di Ottavio, e moglie di Antonio, Roma, l’Italia, e le Armate aspettano dalla sua mediazione il loro riposo, e credono, che da essa soltanto dipenda di poterlo ottenere, dileguando que’dissapori che intorbidarono l'alleanza recentemente,, fra quelli conclusa. Ah! quale sarà lamia sorte, se non potrò disarmarli ? Senza pa^ ce tutto è a temersi per me; si tratta di un fratello, e di uno sposo. In istato di guerra io dovrò piangere l’uno, e l’altro per sempre. La vostra virtù, la publica stima, e quella di Ottavio verso di voi, potranno contribuire decisamente alle mie,, premure ; ed io saprò mostrarvi tutta la,, mia riconoscenza, se la tùia mediazione,,, avvalorata dalla vostra, influenza, preude che prima di due mesi non avrebbe potuto agire nuovamente. ', Questo disastro di Ottavio risvegliò il coraggio, e le speranze degli amici segreti di Sesto, che stavano in Roma, e nelle Provincie, e credendo, che egli volesse profittare de’vantaggi, che gli recavano inaspettatamente gli elementi, già prevedevano la distruzzione di quello, ed il trionfo del successore del gran Pompeo. Ottavio, prevenuto di qneste circostanze da esso presagite per una conseguenza quasi naturale della sofferta disgrazia, spedi contutta sollecitudine M. nella Capitale ; ove giunto non mancò in primo luogo di dissipare ogni inquietezza dall’animo degli amici del suo padrone ; quindi seppe prendere misure cosi giuste contro li malintenzionati, che furono costretti a rientrare nella taciturnità, e nel silenzio ; e la calma tornò nella Città. Non può non ravvisarsi, che Pompeo in questa occasione non seppe approfittarsi delle circostanze favorevoli, che gli somministrava la mina della Flotta del suo rivale. Egli si contentò di vedere la sua fuga, o piuttosto la sua ritirata, credendo, che non potesse molestarlo ulteriormente ; ma in ciò non agi con tutta quella previdenza, degna di un bravo Capitano, giusta la riflessione dello storico 7 « Appiano. Se esso avesse assalito Ottavio nel disordine, in cui lo aveva gettato la tempesta, avrebbe senza meno riportata una vittoria completa, e forse decisiva, e gl’interessi del suo partito avrebbero sicuramente migliorato. In fatti Ottavio rimase talmente sconcertato dalla tempesta, e dai torbidi in Roma accadati, che voleva abbandonare l’impresa, e lo avrebbe fatto, se M., che conosceva l’attuale situazione delle cose, e prevedeva politicamente il futuro, non lo avesse persuaso diversamente. Egli gli fece conoscere, che Roma soffriva per la fame; che la fazione di Pompeo non sarebbe pienamente abbattuta, che le mormorazioni del popolo non sarebbero cessate, finché non si fosse quello allontanato dai mari dell’Italia, e scacciato dalla Sicilia ; che se gli elementi avevano malmenata, e re» sa momentaneamente inservibile la sua Flotta, quelle di Lepido, di Agrippa, e di Statilio Tauro trovavansi ancora in buon stato ; che perciò bisognava con costanza proseguire la spedizione, e profittare segnatamente dell’errore commesso dal nemico dopo la tempesta (a). In vista di tuttociò Ottavio segui li consigli Dion. lib. 48 Appian. lib. 5 Catrou del sno Ministro, e mentre questo conteneva in Roma Io spirito de’faziosi, e sopprimeva le scintille del malcontento, con una condotta degna del piu grande politico, quello si occupò di rimediare ai disastri della tempesta ; risarcii! vascelli maltrattati, sostituì degl’aitri a quelli perduti ; ed in tali operazioni agi con tanta celerità, che nella prossima estate si trovò in istato di uscire nuovamente in mare con forze eguali, ed anche maggiori di quelle della scorsa campagna. La sorte però non aveva ancora rivolto le spalle a Pompeo, e tuttora gli si mostrava benigna. Imperciocché venuto alle mani con Ottavio, e datasi una battaglia campale, questo fu totalmente disfatto, e non salvò la vita, che dandosi ad una fuga precipitosa accompagnato da un solo soldato. Questo novello rovescio tornò ad infiamma' re la testa ai partitanti di Pompeo, perchè M. si era allontanato da Roma. Ma egli anche questa volta seppe riparare ed alla perdita de’ vascelli, ; ed ai disordini, che accadevano per opera de’Pompejani. Si spedirono immediatamente degl’ordini a tutti li Generali di Ottavio, e segnatamente a Marco Agrippa Ammiraglio sperimentato, perchè accorressero con le loro Flotte iuajuto. In seguito M. volò in Roma, ove tro- Appian. So vò, che il male era maggiore di quello, che si era creduto ; ma non per questo si sgomentò l’anima sua intraprendente. Facendo uso di una fermezza senza pari, e di misure con tutta la saviezza applicate, seppe sconcertare anche per la seconda volta li progetti sediziosi de’seguaci di Pompeo, alcuni de’quali più inquieti, « recidivi condannò all'estremo supplicio, ed in tal guisa ricondusse il buon ordine, la quiete, e la sicurezza nella Città. Intanto Ottavio rinforzato dalla Flotta di Marco Agrippa, che, obbediente agl’ordinl ricevuti, era accorso in ajuto, e più incoraggito dalla presenza di questo fedele, ed intrepido Ammiraglio, riprese arditamente l’offensiva, attaccando replicatamele le Armate di Pompeo ; questo non lasciava di difendersi, e di schivare gl’incontri, che potevano essere dubbiosi, e comprometterlo ; ma già si avvicinava 1’ estremo periodo della sua brillante carriera, e la Parca crudele già gli andava preparando quel destino ferale, cui fu sottoposto sulle spiagge Africane l’iufelice suo genitore. Dopo differenti parziali combattimenti, la Squadra di Ottavio, commandata da Marco Agrippa, si azzuffò con quella di Pompeo. C’urto fu de'più formidabili, e si combattè con furore da una, e dall’altra parte ; infine però Appian. loc. cit. 8i la vittoria si dichiarò a favore di quello, e la Flotta di questo ebbe una rotta cosi spavento* 6a, che sarebbe restato egli stesso prigioniero, se non fosse fuggito sù di un piccolo Brigantino, ritirandosi in Messina. Quivi appena giunto gli fu recata la dispiacevole notizia, che il resto della sua Armata, sfuggita all'eccidio, era passata sotto le bandiere nemiche. Allora riflettendo più seriamente alla sua salvezza, fuggi ancora da Messina con poche navi, che gli erano restate fedeli, dopo avere imbarcato la figlia, il danaro, gli amici, e tutte le cose preziose andò errando qua e là per l'Asia, ora con prospera, ed ora con iufelice fortuna. Finalmente, per ordine segreto di Marco Antonio fu messo a morte in una Città della Frigia (a^. La disfatta, e la fuga di Sesto Pompeo ricolmò di gioja il giovane Ottavio, perchè si vedeva liberato da un pericoloso, ed inquieto rivale, ma in questa istessa circostanza ebbe 1’occasione ancora di disfarsi di Marco Lepido, Collega nel Triumvirato, e quello, che, in privato, forse più degl' altri aveva abusate della potenza usurpata. Lepido aveva comandata una Flotta nella Dion. lib. 49. Strab. lib. 3. Vellej. lib. a cap. . Oros. lib. 6 cap, 19. Usser. Annal.. i F guerra testé riferita, ed anche egli aveva in parte contribuito all’ esito vantaggioso dell’ impresa. Dopo qnella battaglia campale, in cui Pompeo fu rotto, e fuggi, nacquero delle contestazioni tra quello, ed Ottavio, o perchè Lepido voleva attribuirsi tutto il pregio della vittoria, o per altra ragione non bene nella Storia conosciuta. Tali contestazioni avevano anche preso un aspetto serio, e pericoloso, e si potevano temerne conseguenze disgustose. M., cui rincresceva altamente, che, appena spento il fuoco di una guerra civile * dovesse accendersene un' altra, cercò di prevenirla con una di quelle politiche risorse, di cui egli era capace. Nella Flotta di Lepido vi erano già degli amici, e partigiani di Ottavio, il cui numero si era aumentato inseguito delle surriferite contestazioni. Si aprirono delle relazioni con questi ; delle giudiziose istruzioni, che vennero loro comunicate, li prevennero del progetto ., che si meditava. Lepido non era amato dai Soldati, e perciò lo sviluppo dell’ intrigo, non incontrò ostacolo alcuno, e fu sollecito, e vantaggioso. All’ improvìso l’intiera Flotta di quello passò ad unirsi alla Flotta, ed agl’ interessi di Ottavio,. IUrdasto abbandonato, solo, ed inerme, si vide Lepido ridotto in una situazione incapace affatto a reali zzarp qualche idea di civile discordia, che forse andava machinando. Che anzi, siccome egli era di nn animo de-» iole, e di carattere vile a fronte delle disgrazie, cosi temendo maggiori sciagure, si portò supplichevole ad implorare la clemenza di Ottavio. Alcuni avrebbero voluto la di lui perdita, ma questo si contentò di spogliarlo di quella autorità, di cui era rivestito, e di ridurlo ad una vita privata. In tal modo ( secondo l’espressione di,, Appiano ) Marco Lepido, uomo di si grande impero, ed autorità, che aveva pronunciata la Sentenza di morte contro tanti Cittadini di nobile, ed illustre lignaggio^, fu balzato dalla volubile, e fallace fortuna ; in guisa che con abito privato, ed in,, atteggiamento di colpevole al cospetto di alcuni di quelli stessi da esso condannati, fu ridotto a vivere senza riputazione, ed a morire ignominiosamente. Ottavio, sistemati gli affari delle nuove Provincie aggiunte alla sua Dominazione dopo la fuga di Pompeo, e la destituzione di Lepido, fece ritorno in Roma. Il suo ingresso fu un Trionfo. Fu accolto con entusiasmo, e con applauso dal Senato, e da tutti gli Ordini de’ Cittadini, perchè credevano, che ai tonfi) App.loc. cit. Dion. lib. 49. Sveton. in Octav.Art. 16. F a I bidi passati sarebbe snccednto l'ordine, l’ab* bondanza, ed una pace generale ; ed erano cosi persuasi di questo novello sistema di cose, e segnatamente della pace, che inalzarono in onore di Ottavio una colonna con questa Iscrizione " Il Senato, ed il Popolo Row mano hanno inalzato questo Trofeo a Cesa-,, re Ottavio, perchè ha stabilita la pace generale per mare, e per terra, che prima M era bandita da tutto il Mondo. (i) Roma infatti cominciò subito a respirare. Lo spirito di partito cominciò a dissiparsi, ed una reciproca confidenza già assicurava la quiete di ognuno, tanto in quella Città, che .nelle Provincie. Quello però, che contribui più d’ogn’altro, mediante la sua incomparabile prudenza, alla tranquillità dell’ Italia, e di Roma, fu il nostro M.. Si è già veduto, che Ottavio, allorquando era occupato nella spedizione contro Sesto Pompeo si era più volte servito de’ talenti], dell’abilità, e dell’intrepidezza di qnesto Ministro per assicurare gl'interessi del «uo partito nella Capitale. Da ciò si rileva chiaramente, che già fin d’allora lo aveva nominato Governa tore, o Prefetto di Roma, e che di questa carica sublime era pur auco rivestito nell’epoca, che ora si descrive. Appian. Queste j ed altre simigliane contestazioni reciproche diffusero le prime elettriche scintille, foriere del turbine devastatore -, che in breve sarebbe andato a precipitarsi sull’orizzonte politico di Roma, e formarono l’oggetto, e la materia a que' pretesti^ che aveva già M. preveduti. Non bastava però ad Antonio di aver offeso in tante guise Ottavio, ed il Senato, e di aver commesso, per dir cosi, in Oriente tanti delitti a disonore del nome Romano. Per colmo della sua sfacciatagine, o piuttosto cecità, volle aggiungerne un altro. Mentre la virtuosa Ottavia gli dava argomenti li più sinceri della sua conjugale premura, del suo zelo, e di un tenero affetto y egli la discacciò bruscamente, e la ripudiò, per immergersi pienamente negli amori illegìttimi di Cleopatra ( l ) • Questo fatto clamoroso, e degno di tutti li rimproveri, rivoltò contro di esso la publica opinione ed in Roma, e nel Senato, e nell' Italia, ed in tutti que’ luoghi, ove erano conosciuti li pregi, e le virtù' della. Sorella di Ottavio. Allora si ravvisò appieno, * (r) Plutarc, in Ant, che la condotta di Antonia offèndeva ornai troppo manifestamente la grandezza Romana, il decoro del Senato, eia purità della Costi» tuzione ; che in consequenza non era più de* gno di comandare, nè doveva, nè poteva ulteriormente tollerarsi. s La guerra adunque fu dichiarata contro di quello, ed i Romani diedero principio ad una operazione bellicosa, che doveva cagionare la perdita totale del sistema Republicano, e nel cui funereo fragore dovevano ascoltarsi gli estremi accenti, e l'ultimo anelito della loro spiraute IjhljrtA. b*;ù»q.**6J«swi i»y: Ottavio prima di allontanarsi da Roma per portarsi a combattere Antonio, raccomandò la cura di questa Capitale, e dell'Italia al suor M., che tuttavia esercitava la Prefet» tura dell’ una, e dell’altra. La tante volte sperimentata fedeltà di un cosi abile Ministro rassicurava pienamente il di Ini animo, ed era del tutto persuaso, che nella sua lontananza, e durante questa nuova, e civile discordia, gl* interessi del suo partito non avrebbero sofferto alterazione veruna. Con questa fiducia parti da Roma, e prese il camino là dove il supremo Direttore degli umani avvenimenti lo chiamava per divenire il primo, ed il più potente Monarca del Mondo. Alcuni hanno creduto, che in qtiestaspedrsione militare M. seguisse Ottavio, e che anch’ esso si trovasse presente alla memo rablle bavaglia di Azio. Dedussero questa credenza dall’ Ode I. degli Epodi di Ora* zio Fiacco, nella quale il Poeta si fa a parla** re a M. in tal guisa “Tu dunque, o ami-,, co M., andrai sulle agili navi Libnr-,, ne /disposto ad incontrare tutti i pericoli di Ottavio, incontro gl’ alti bastimenti di,, Antonio? (t) • Il Grammatico Acrone, fondato su queste parole, sostiene, che M. non solo andasse nella battaglia di Azio, ma inoltre è d’avviso, che da Ottavio venisse nomi-* nato Comandante delle navi Liburne \ esprimendosi, come siegue “ Orazio parla a Mej, cenate, che va con Augusto alla battaglia,, navale contro Antonio, e Cleopatra. Mentre Cesare Angusto sta per andare .> alla spedizione presso Azio, affidò a Mecenate il comando delle navi Liburne che anzi il Continuatore di Tito Livio suppone •I.• ?.• ^ V Epod. Od.r. * Ibis LiburnU inter alta naviutn, Amice, propugnacula, P aratus orane Caesaris perìculun Subire, Maecenas, tuo. • (2) Comm. ad Od. i.Epod.Horat. : M. prosequitur euntem ad bel/urn nasale cura Augusto adversus Antonium, et Cleopatram ; ad Actiacum bellurn iturus Cacsar Au~ gustai, Liburnis praeposuit Muecenatem. t _ di più, che dopo la battaglia, e la fuga di Antonio, Ottavio ordinasse a M. d’ inseguire li fuggitivi con le sue navi Liburne ( 1). Il Mancinelli sembra essere dello stesso sentimento, dicendo Anche M. segui Augusto contro Marco Antonio, e,, Cleopatra presso Azio, Promontorio di Epiro (a) • Segnaci di Acrone, e del Mancinelli sono Stati il Turnebò, Mcibomio, Cenni e Volpi. Il Torrenzio però, sull’autorità di Dione Cassio, e di Virgilio, è di contrario parere .,, Deggio avvertire, dice egli, che nella celebre battaglia presso Azio, non fu pre., sente M., il quale in quell’ epoca era Prefetto di Roma, e dell’Italia, come », rilevasi dal Libro hi. di Dione Cassio ; Di più Virgilio, che fa menzione del solo ( 1) Suppl. in Liv. lib. 73. art. 9. .• At Cae sar misso curri Liburnis Maecenate, qui lorigius insequeretur fugientes, ad honores Deo rum, a quibus adjutus credi volebat, se contulit. ». fa) Com. in 1. Epod. Secutus itera Augustum Maecenas est contra M. Antonium, ef Cleopatram apud Actium Epici Promontórium. Com. in 1. Epod. Horat. v.. Vit.C. Cilnj M. Vit. di M. lib.i. Postil.9. -, Lat.vetus tom.io.part.x.pag.a37. Digiti; ile,> Agrippa, e che lo eguaglia allo stesso Otta» vio, non avrebbe omesse le lodi ancora del suo M., se anch’esso si fosse trovato in quell'azione. Laonde Orazio scria» >» se questa Ode nel supposto della futurapartenza di quello. Su tale articolo sembra, che il sentimento di questo Comen tato re sia il più giusto, ed il più fondato se si legge con qualche riflessione ciò che narra il suceennato Dione, e prima e dopo la disfatta di Antonio, e di Cleopatra presso Azio. Imperciocché con tntta chiarezza rilevasi dagli scritti di questo autore che M. era Prefetto di Roma, e quando Ottavio parti per la spedizione contro Antonio, e durante 1’ epoca della medesima, e dopo la riportata vittoria, come si è anche accennato di sopra. Di più Velie jo Patercolo descrivendo la ( O Co®- in Epod. : Illud monendum me existimare, celebri ad Actium pugna non interfuisse Maecenatem tane temporis Romae, et Italiae administrandae Pracfiectum, tjuod significare videtur Dion. Virgilio» sane solius Agrippae Theminit, insigni laudatione ipsum Caesari aequiparens, non omisurus Maecenatem suum, modo adfuisset. Quare carmen hoc sola opinione futurae profcctionis tcripsit Horatius. Lib.a, art. 85.: Dcxtrum navium } ur 9 * sudetta battaglia di Azio * domina individùak mente l'Ammiraglio, ed i Comandanti subalterni della Flotta di Ottavio > e non fa pa-» loia di M., il quale secondo Acrone, sarebbe stato il Comandante delle navi Liburne. Ecco le parole di Vellejo L’ala,, destra delle navi di Ottavio fu affidata a Marco Lario, la sinistra ad Arunzio, ed >, il centro ad Agrippa, Ammiraglio di tutta la Squadra. Ottavio f che trovavasi per,, tutto, era destinato dovunque veniva dal*,, la fortuna chiamato,. Torniamo in sentiero. Ottavio lasciata la direzione degl’ affari di Roma, e dell’ Italia a M., come si è detto, si portò in Brindisi, ove era ancora-, ta la sua Flotta. Essendosi quivi imbarcato, fece vela verso l’Epiro, onde avvicinarsi ad Antonio, che già stava nella Città di Azio, e che aveva adunati li suoi Vascelli nell’ ingresso del Golfo di Ambracia. Ottavio entri nello stesso Golfo, e si disponeva a dare una battaglia; ma avendo osservato, che il suo equipaggio non era completo, e che non era prudenza azzardare un fatto in luogo si angusto, si tirò in alto mare, lasciando il suo nemico nella primiera posizione. r : 4. ‘J> i'.i lianarum corriti M. Lario commitsum, laevum Aruntio, Agrippae omne classici certamìni s arbitrium ; Caesar ci parti destinatili, in, quam a fortuna vocaretur, ubique adertiti Intanto giunse ad Antonio con varie Legio* ni Canidio. Questo Generale Romano, che seguiva sinceramente il partito di quello, avendo veduto Cleopatra nel Campo, lo consigliò a doverla assolutamente allontanare, sembrandogli cosa pericolosa ritenerla in mezzo all’Armata. Lo consigliò inoltre ad evitare una battaglia navale, ed a portarsi nella Macedonia, ove con il soccorso del Re de’ Gesti, avrebbe combattuto per terra, e la vittoria non sarebbe stata dubbiosa. Non ostante la saviezza di questi consigli prevalse 1’ influenza della Regina di Egitto, e fu risoluto di combattere sul mare. Non solo Canidio, ma ogn 'altro sperimentato Militare conosceva, che l’ esporsi ad una battaglia navale, era un errore. Infatti mentre Antonio trascorreva la Flotta, e dava gli ordini opportuni > uno de’ suoi vecchi soldati, ricoperto di ferite gli disse ad alta voce,, Come, o Signore, andate a confidare » la vostra gloria alla meschina, e pericolosa « risorsa di una battaglia di Vascelli? Lasciate, lasciate il mare alli Egizj, ed ai Fenicj, che sono nati per questo elemen*' e mettete a combattere li Romani sul Continente. Se allora periremo, la nostra,» morte sarà da veri Soldati, e sarà compensata dalla vita de\nostri Nemici. Antonio nou rispose al Soldato, e persisti per sua disavventura nel Piano stabilito. (i) Essendo stato il mare per alcuni giorni furiosamente agitato non si fece alcun movi» mento nè da una parte, nè dall’altra: Essendosi in fine calmato, ambedue le Flotte posero alla vela per dar principio ad una battaglia, che doveva decidere della sorte del Mondo; Il sudetto Vellejo accennando il giorno di questa battaglia memorabile, cosi si esprime 6 dolore, e della sua disperazione. Lacera le proprie vesti, si percuote il volto, ed il petto, e chiama replicate volte il suo amante con nomi non meno teneri, che rispettosi ; Antonio, benché prossimo ad esalare lo spirito, tuttavia non è meno occupato di Cleopatra. La esorta a conservarsi, finché possa vivere con gloria, a non rammentarsi tanto del suo tragico fine, quanto dello splendore di sua vita, e degli onori, ond’ essa lo aveva veduto circondato ; Ed a riflettere, che egli non era stato vinto, che da un Romano, dopo essere stato egli stesso il più illustre fra i Romani ; quindi spirò, pronunciando queste ultime parole. Antonio ( conchiude il sudetto Storico In* glese ) aveva passata la sna vita fra i perigli, e fra i piaceri. Era posto in paragone con Cesare per il valore, e per la capacità militare ; ma l'amore gli fece perdere il senno, il coraggio, l’onore, la stima, l’affetto de’ Romani, e l’ Impero, e la vita. Cleopatra con una morte egualmente spontanea seguì l'ombra di Antonio, ed nn monumento istesso chiuse le ceneri dell’uno, e dell’altra .fi) (i) Diou. lib. 5t. Piotare, loc. cit. Sveton. in Octay. art.i 7. Echard. loc. cit. JVlentre Ottavio in tal guisa trionfava nell’ Egitto del sno rivale, ed ultimava con tanto successo qnest3 guerra Civile, si attentava tacitamente alla sua vita nel senoistesso della Capitale ; ma vegliavano a sua difesa la fedeltà, Vattaccamento ? e la vigilanza di M.. Marco Lepido il giovane aveva dei risentimenti particolari contro di Ottavio, e nutriva nel petto un odio mortale, perchè 1’ ambizione, e prepotenza di lui avevano balzato Marco Lepido il padre da quella superiorità, e e da quel potere, che gli dava il Triumvirato,© lo avevano ridotto a menare una vita oscuta, e negletta. Era questo Giovane Romano figlio di Giunia, sorella di Bruto morto nella battaglia di Filippi : Egli voleva adunque vendicare nel tempo stesso, e la morte dello zio, e l’avvilimento del padre. Vellej. Patere, lib. a. cap. 88. : Dum ultimam bello Actiaco, Alexandrinoque Cae~ sar im ponti manum, Marcus Lepidus,juvenis forma, quam mente melior, Lepidi ejus, qui T riumvir fuerat Reipublicae constituendae, fili us, Iunia Bruti torore natus, interficicndi^ Formò a tale effetto una pericolosa congiura per uccidere Ottavio, qnando dall’Egitto avrebbe fatto ritorno in Roma. La cospirazione non focosi segreta, che non giungesse a notizia di M. Prefetto di Roma. Egli seppe con tanta quiete, e simulazione penetrare il nero progetto del traditore, e con tanta celerità impedirne le consequenze funeste, che Lepido venne arrestato, giudicato, convinto, e condannato all' ultimo supplicio, senza che venisse punto alterata la tranquillità di Roma. In tal guisa M., secondo Veliero ( i ), con una sorprendente destrezza seppe spegnere le perniciose scintille di una nuova, e rinascente guerra Civile. Servilia moglie di Lepido, forse complice della congiura, non volendo sopravvivere al marito, nè soggiacere aH’obbrobrio, ed alljt timul in Vrbem revertissct, Caesaris Consilia inierat. Loc. cit. Tunc Urbis custodiis praepositus Cajus Maecenas .... Hic speculatus est per surnmam quieterà, ac dissimulai ione nt prae cip itis consilia J uvenis, et mira celeritàte, nullaque cum perturbatione aut hominum, a ut rerum, oppresso Lepido, immane novi, ac resurrectui i belli civilis restinxit initium, et ille quidem male consultoruni poenas exsol log pena dovuta, si uccise da se stessa con aver inghiottiti de* carboni ardenti. Anche Giunia moglie del vecchio Lepido fu accusata di complicità in questa congiura del Figlio ; ma contro di essa non esistevano, che semplici sospetti; tuttavia M. la obligò a dare la cauzione nel Tribunale di Balbino, Liv. in Snpplero.lib. i 33. art. 72. Servilia Lepidi Vxor curn superesse viro non substinerct, et diligenti familiarium custodia ni hil adipisci mortiferum posset, pruuis arxlentibus deVoratis, vita abiit\: Vellej. loc. cit. Aequatur praedictae Calpurniac Antistii, Servilia Lepidi Vxor, quae vivo igne devorato, praematuram mortem immortali nominis sui pensavit memoria Roberto Riqucz nelle irate a questo articolo di Vellejo, fa le seguenti osservazioni relativamente aCalpnrnia. Ciò che narra Vellejo di Servitia è attribuito comuneme nte a Porzia moglie di Bruto. Infatti Valerio Massimo, esatto Scrittore del Secolo, in cui si suppone accaduto quel fatto, non ne fa menzione. Di poi la moglie di Lepido non fu Ser vilia, ma Antonia figlia del Triumviro : Ciò non ostante il Vossio non osa negare la verità del fatto a Vellejo, 1. perchè Lepido, ripudiata, o morta Antonia, potè passare alle seconde nozze con Servilia, 2. perchè Eliano Var. Histor. annovera fra le illustri D ame Romane una Ser’» vilia .,!*• uno de’ Consoli. Allora Lepido di lei marito si presenta a questo, e cosigli parla" Voi sapete con certezza, o Balbino, che io non sono stato complice del delitto di mio Figlio, e sapete egualmente, che non ebbi parte alcuna il quell’Editto di proscrizione emanato, quando la sorte mi faceva domi-,, naie, e nella quale foste anche voi compreso. Se rifletterete per un moménto alla mia passata grandezza > io spero, che alla vista di un supplichevole, di cui rispettaste altre volte li decreti, sarete per ascoltarmi con cuore placato. Giunia mia consorte non ha che me per adempie-re alFohbligo, che gli è stato ingiunto. Ricevetemi adunque per la sua cauzione, o permettete, che io vada fra le prigioni con essa,, Balbino sensibile alle preghiere di un uomo, che prima del cambiamento della sua fortuna, la potenza aveva reso formidabile ai Romani, e conoscendo ancora del tutto insussisteute l’accusa contro la sudetta Gunia promossa, dichiarolla innocente. Intanto Ottavio avendo posto fine alla guerra di Egitto, al Triumvirato, ed alla esisten^ dell’ unico competitore, che gli restava, fece ritorno in Roma ove fu accolto con incompreusibile allegrezza; vi trionfò per tre giorni, e chiuse il Tempio di Giano, che Appian. lib.4. Catrou loc. cit. per il corso di dne secoli, era stato aperto. Benché rimasto solo padrone della vasta dominazione Romana, tuttavia non cercò, che di farsi amare con le maniere popolari, ed affabili, con le sue liberalità e con le più savie disposizioni prese e per il bene publico, e per quello di ciascun Cittadino in particolare. M., che gli stava al fianco, e senza il consiglio del quale per cosi dire, Ottavio non faceva passo, non mancò di fargli prendere tutte quelle determinazioni necessarie per preparare insensibilmente l’esecuzione di quell’ ardito progetto-, che già da gran tempo andava meditando. In fatti la condotta di quello, dacché ritornò dall'Egitto, fu tale, che il Senato, il Popolo, e tutti gli ordini dello Stato già sentivano gli effetti di un Governo Monarchico, benché ognuno fosse persuaso, che la Repuhlica andasse a momenti a riprendere l’antico suo lustro, e splendore. Ottavio però mostravasì indeterminato, e dubbioso* se dovesse salire sul Trono, o se dovesse rientrare nella classe di semplice Cittadino, ristabilendo laRepnblicà nel suo stato primitivo. Da una parte gli si affacciavano all’ immaginazione agitata li pericoli, a cui la sna potenza quasi illimitata poteva esporlo ; richiamava al suo pensiero il crudele destino di Giulio Cesare suo padre, e li rimproveri, che gli aveva fatti Antonio altre volte,» che egli travagliava meno per il publico bene, che per la sua propria grandezza,, dall’altra parte si lusingava, che la Republica, stanca dai furori delle guerre civili, preferirebbe un giogo pacifico, e salutare ad una indipendenza funesta, bastante a richiamare tutti gli orrori passati. Credeva anche di rimarcare, che il Popolo Romano avesse perduto lo zelo geloso, e l’amore costante per la libertà ; che il Senato non avesse più P inflessibile fermezza, che era scoglio alla Tirannia; e che ad ambedue mancassero Soggetti capaci, ed intraprendenti per formate una formidabile Fazione. Queste riflessioni, e la sua indeterminazione era un peso, che Ottavio portava con pena ; pensò pe rtauto di discaricarsene nel seno dei due suoi più fedeli amici. Noi l’abbiamo già osservato, uno era Agrippa, Uomo tanto sincero ne suoi con sigli, quanto era intrepido nelle battaglie. Unito alla Corte di Ottavio fin dall* infanzia, crasi acquistata la sua stima, e la sua tenerezza più ancora con l’esatta sua probità, che per gl’importanti eervigj nelle armi ; era un guerriero de’ tempi antichi paragonabile ai Curj, ed ai Fabri Catrou Tom. 19. lib. 5. Echard. 1 13 cj i fi) L'altro era M.. Dal fin qui detto abbiamo conosciuto, che egli era un amico disinteressato di Ottavio, fornito di uno spirito franco, e leale * il Politico più raffinato del suo tempo, il più destro, ed il piu giudizioso de’ Cortegiani. Agrippa adunque, e M. consultò Ottavio per fissare la sua irrisolnzione, e per decidere sul grande oggetto. Agrippa parlò il primo con una fermezza, conforme alla rettitudine del suo cuore, all’ amore, che aveva sempre conservato per la sua Patria, ed alla riconoscenza, che doveva al suo Padrone (a)., Se io avessi di mira ( diss’ egli ) li miei,, interessi soltanto, vi esorterei a profittare all’ istante delle circostanze del tempo, e a divenire il Padrone assoluto della Ro-,, mana grandezza ; ma, facendo usodiquella sincerità propria del mio carattere, e fi) Catrou loc. cit. Dion.. : Hoc autem anno vere iterum pencs unum Hominem s u /rima rn totius Reìpublicae esse coepit, quamquam armorum deponendorum, resque omnes Senatus,Populique pot est atit rade ndi consiliumCaeSar agitaverit ; ad quam deliberationem, curi Agrippam, Maecenatemque adhibuissct, nani cum his de omnibus suis arcanis communicara solebat, prior inhanc sententiam Agrippa lo cutusest. * II » già da voi altre volte sperimentata, credo, o Cesare, clic bandito ogni privato riguardo debba parlarvi, e manifestare il mio sentimento per il vostro, e per il publico bene .,, È principio certo in Politica, che il sottoporre ad un governo Monarchico un popolo geloso della sua libertà, forma un opera dilEcile ed eseguirsi. L’amore della,, indipendenza nasce con noi, ed è un attributo quasi necessario dell’umanità. Questa inclinazione universale in tutti gli uo5, mini aumenta, o s’ inde.bolisce per mezzo,, dell'educazione, ed è più, o meno poten-,, te, secondo i pregiudizj della Nazione *,, nella quale abbiamo avuto la sorte eventnale di nascere. Perciò la natura, li cosfumi, l’edutazione, e la lunga abitudine,, dovranno rendere ai Romani insopportabile il dominio di un solo. Li popoli assuefatti al giogo di un Padrone hanno un debole sentimento di quella generale pendenza, che la natura ispira per la libertà ; ma quelli al contrario, cui,, per successione è stata trasfusa la massima, vera o falsa che sia, provarsi cioè,, minor servitù in un Governo formato da Magistrati di loro scelta, si rattristano,, altamente, e fremono al solo pensiero di,, un Sovrano. Potrà la forza tenerli per qualche tempo soggetti, ma questa forza istessanon sar» giammai capace a distruggere ne’ cuori quel germe vivifico, che la natura v’ infuse, e che dalla educazione,, venne quindi allentato. Finora, o Cesare, le vostre imprese sono state legittime, e la gloria da voi acquistata, non ha in veruna guisa scemato lo splendore della vostra virtù. Imperciocché nella guerra di Perugia opprimeste degli ambiziosi, che col pretesto di vendicare la morte di Giulio Cesare, pretendevano d’inalzare un Trono sulle ruine della Dittatura. A Filippi purgaste la terra di due assassini di un Zio, che vi aveva adottato per figlio. La Sicilia, invasa da un Tiranno, che spacciandosi per difensore della Repilblica, ne cagionava la mina, fu liberata dalle vostre armi. De’ due Colleghi, che per mezzo del Triumvirato sapeste con saviezza associarvi, uno vive tuttora nell’ oscurità, enei disprezzo, e,, l’altro ha cancellato con la sua morte il di sonore, che recava al nome Romano. Dopo tante vittorie, è giunto, o Cesare, l’istante fatale, incili dovete pronunciare sulla sorte dell’ Universo .,, Quale mai, e qaanto grande sarà la vo}J stia gloria, se, divenuto abbastanza po-,, tente per assoggettarlo da Monarca, saprete in guisa superare gl'impulsi dell’amor proprio, che lo ridoniate a’ suoi veri Padroni ’ Allora vedreste sollevarvi al di soli a pra de' Camilli, e dc’Scipiorti, e consa-» orarvi Tempj,come a Divinità tutelare dal Senato, e dal Popolo, ristabiliti nell’an>, tica loro autorità, e nel primitivo stato di eguaglianza. (i^A questa eguaglianza di,, Cittadini appunto noi siamo debitori della conquista del Mondo, e finché li Romani, ne furono in possesso pacifico, si viddero sortire dal seno della Republica, e Generali scelti con riflessione, e Soldati premu-,, rosi di rendersi degni di poter un giorno *, anch’ essi comandare. Ah, Cesare, io >, temo, che se Roma cesserà di esser Repu-,, blica, cessi ancora per qualche tempo di vincere, e di conquistare,,, Quando il sistema Republicano dovesse,, cangiarsi in Monarchia, a quali timori, a quanti incarichi laboriosi, e pesanti non j, va a sottoporsi il nuovo Monarca, e sopra-,j tutto l’autore di un ! tal cambiamento ? Li,, Comizi > ed il Senato riuniti affrontarono >, immensi travagli per regolare 1’ amministrazione di tante Nazioni comprese nella vastità della Republica Romana. Ora potrà un solo nomo supplire all’esercizio, che su di quelli gravitava, e la salute la più robusta potrà sostenere le fatiche inerenti al governo dell’ Universo ? Il solo Dion. lib. . : JEqualitatis et nomen est speciosum > et res j ustissima, dipartimento delle Finanze non presenta,, una sorgente inesauribile d’imbarazzi, di pensieri, e di cure ? Io convengo, o Cesare, chele rendite- dello Stato sono gran>, di, ma saranno sufficienti a mantenere tante Armate esposte su tutte le frontiere dall’ Oriente all’Occaso ? In una amministrazio-,, ne popolare si concorre agevolmente, e con piacere ai bisogni dello Stato, e l'istes— sa avarizia cede alla ragione del bene comune. Allora la liberalità de’Cittadini for>, ma per essi un merito per inalzarsi agli ono*,, ri, ed agl’ impieghi (i). Al contrario in un Governo monarchico le publiche intraprese di un Sovrano sono riguardate come suoi affari personali. Ognuno crede, che,, da quello soltanto si debba supplire del suo proprio tesoro a tutte le spese del Governo, Ogni nuova imposta produrrà nuova que-,, rela, nuove satire, e nuove amarezze per il medesimo, e sempre con la forza, o di mala voglia si vedrà il Cittadino effettuare » il pagamento delle Tasse quantunque ordinarie, e regolate dalla Legge. Quale odio poi non si procaccia un Giudice universale, incaricato di punire da se l Dion. loc. cit. : Ubipenes Populum est Imperium, multi multam pecuniam conje rune, etiam ut liberalitatis opinionem consequnntur, ac prò Ut ho noia mcritos adipiscantur. ti8 >, solo tatti li colpevoli ’ In un cambiamento i t di Governo, il numero de’ malvagi si mol-, tiplica all’ infinito, e li sediziosi, e mali, contenti sortono, per dir cosi, dal seno,, stesso della terra. Non potendosi tutti ridurre al buon sentiero nè colla dolcezza, nè coiresempio del rigore usato con alcuni, sarete dalla necessità costretto a pronuncia' i, re contro de* medesimi, decreti o d' igno* minia, o di bando, o di morte, e sebbef, ne sarete nel punire moderato, ciò non,, ostante si crederà, che gli effetti della vostra giustizia necessaria, siano piatto-,, sto il risultato di un particolare risentici mento. Vedrete inoltre li piò potenti Cittadini, e le famiglie de’ Patrizj accendersi di gelo-,, sia, e d' invidia per il vostro inalzamento al Trono, e perciò non pochi di essi non temeranno di censurare primieramente la >, vostra condotta, e quindi anche formare,, delle congiure a danno della vostra esistenza, e del sistema da voi introdotto. Se perciò vorrete punirli, ed umiliarli, si susciterà contro di voi la publira indignazione, e se li lascerete vivere senza oppri-*,, merli, la vostra sicurezza, sarà compro j, messa, c sarete circondato incessantemente da mille pericoli. Dion. loc, cit. : Hos ncque, si augeri ji 9,, Voi solo non potrete ultimare alcuni prò» getti, 1 ’ esecuzione de’ quali esige indi—,, spensabilmente 1 ’ opera, e la confidenza di Generali rispettati dal Soldato per la loro nascita. Questi riceveranno da voi il comando delle Armate, ma quindi rivolge-,, ranno contro voi stesso quelle forze, che,, ad essi affidaste. A quale espediente allo-,, ra dovrete appigliarvi ? Bisognerà, che facciate uso d’ individui di vile estrazione. Questo rimedio però potrebbe com« promettere la tranquillità dello Stato, eia 33 vostra gloria ; imperocché, se per caso 3, questi nomini oscuri riescono nelle imprese, diverranno insolenti, se poi soccombo*,3 no, a voi solo sant addebitata la perdita .,, Ah ! Cesare, preferite pure, preferite. le dolcezze di una vita tranquilla all’ im33 barazzo di una potenza tumultuosa. Un,, momento di piacere puro, e solido è supc33 riore a tutto il fasto della grandezza. Che cosa pretendo conchiudere da tatto-,» ciò, e quale è-il mio scopo? Voglio forse 33 violentare il vostro animo a rinunciare per sempre a quella superiorità, che avete coll’ armi acquistata ? Nò certamente : io vi darei un consiglio pregiudizievole, se,, vi esortassi a restituire la Republica al Popolo Romano nella situazione, in cui si pattare, tutus vivet, neqiie si opprimere cancri},juste ages. ritrova al presente ; essa ha bisogno di rij,, forma, prima che gli antichi Padroni ne vengano ripristinati al possesso. Profittate pertanto di quella Sovranità,,, di cui la vittoria vi ha rivestito per migliorare quel campo, che avete acquistato, e,, perseverate nell’ esercizio della medesima,, per tanto tempo, quanto sarà necessario per ristabilire le Leggi, richiamare la prattica' delle antiche costumanze, corregere li », abusi del Comiz'o, reprimere 1’ ambizio-,, ne della Nobiltà, porre de’ limiti alle pretenzioni del Senato, moderare il potere de’ Tribuni, regolare l’uso delle Finanze, e », e raffrenare la cupidigia de’ Publicani. Quanto glorioso allora sarà per voi di comparire da semplice Cittadino in uno Stato, / >, di cui foste il Ristoratore ! Siila autore di », tante proscrizioni, ed il carnefice della sua », Patria, seppe dimettersi a tempo, e mori », rispettato, e tranquillo. Giulio Cesare vostro Padre, il meno sanguinario degl’Uomini, e il più inclinato a perdonare, fece,, perpetua la sua Dittatura, e trovò degli », assassini frà li suoi amici più cari. M discorso di Agrippa fece una forte impressione sullo spirito di Ottavio. Egli forse avrebbe abbracciato il sistema da quello proposto, sagrificando le sue vittorie al ristabir limento della Repubbra, ma M., essendo di contrario sentimento, entrò neH’are ~ uà, e parlò con tale facondia, e vivacità, che ottenne nna completa vittoria sullo spirito di Augusto. Se si trattasse ( rispose egli ) di delineare un Campo, e di prendere del le misure per dare una battaglia, io non oserei di parlare in presenza di Agrippa ;,, ma, aggirandosi la discussione intorno a materie politiche, credo di potere con sin-,, cerità azzardare il mio giudizio, avendo su di quelle lungamente riflettuto, e trat-,, tato non poehi affari dello Stato in differenti, ed anche difficili occasioni. Comprendo la solidità de’ dubbj proposti, ma,, conosco ancora, che lo scioglimento di essi non può imbarazzare un Eroe già Padrone,, sovrano, e capace d* ultimare colla sua,, prudenza ciò, che ha incominciato colla,, forza. La Republica, o Cesare, è caduta in uno stato d’ infanzia, ha bisogno perciò di,, esser messa in tutela. Ora non siamo piq in que’ tempi felici, in cui la virtù soste-,, neva questo gran Corpo, ed in cui le sue forze non erano state indebolite dal vizio;,, ma l’avarizia è succeduta all’amore della povertà, l'ambizione agli onori, la temperanza alla frugalità, e 1’ incontinenza al,, modesto pudore ; è impossibile pertanto di,, trovare al presente un numero diMagistrati disinteressati, sobri, casti, virtuosi, e simili a quelli, che fecero onore ai primi f aa secoli di Roma. Tanti mali invecchiati vi-» a chieggono una roano capace a poterli gua>» lire. f. Si, Cesare, voi dovrete affrontare pei, santi incarichi nel prestare la vostra opera ad una cura cosi difficile ; e preveggo, che,, saranno assai grandi li vostri pensieri, la vostra vigilanza, li vostri travagli ; ma nell’attuale stato delle cose sono divenuti i, necessarj ; e sebbene potrebbe sembrarvi spaventevole un tale prospetto, tuttavia sono persuaso, che non avrete il coraggio di abbandonare il Governo nel pericolo di,> non ricuperare giammai la sua perfetta sa-,, Iute, f. Non è possibile di rimediare ai mali pre*,, senti con una Dominazione passeggierà. U ristabilimento del buon ordine in Roma coll’,, ajuto delle leggi, e de’ regolamenti è un idea di speculazione, che non può aver luogo in prattica; bisognerebbe, che quelle venissero infinitamente moltiplicate per poter correggere li disordini, che le passioni hanno introdotti. Come poi potrebbero trovarsi de’ Cittadini, ih cuore de’ quali fosse abbastanza incorruttibile, e li costumi abbastanza puri per mantenerne l’osser-? vanza ? LaRepublica è ridotta in tali circostanze, rt che ha bisogno di una Legge vivente, che f, ordini, e che faccia al tempo stesso ese guire. Appena la maestà di un Padrone perpetuo basterà per imprimere il rispetto;,, ma che cosa accaderà, se Magistrati di un anno saranno incaricati della Riforma f Li Cittadini indocili, e pertinaci spereranno » r impunità nel governo di Successori più deboli, sostituiti ai più rigorosi. E’ necessa-,, ria una Autorità permanente per distrugge-,, re inclinazioni perverse, che rinascono incessantemente, e che non è tanto facile 99 di estirpare. Voi, o Cesare, vi dovete alla Patria, divenitene Padrone per sempre per sua compassione. Fate sì, che il Senato sia composto di Soggetti di sperimentata saviezza ; confidate le vostre Armate ad abili Generali, e scegliete li vostri Legionarj frà le,, Famiglie povere, le quali porranno som», ministrare Cittadini eccellenti ; ma conser-,, vate il dominio, e sulla Nobiltà, che iin» piegherete nelle cariche, e suiti Comandan» ti degli eserciti, e suiti soldati medesimi. Ne con ciò pretendo, che il peso degli affari debba sopra voi solo gravitare ; Ne #> dividerete la cura con li Cittadini ptimarj delle antiche Famiglie, che renderete i ! 1 u stri, con renderli laboriosi. Riguardo al,, Popolo, bisogna regolarsi con tal cautela, che sia sempre contenuto nell’ umiliazione. Finché li plebei s’ interessarono della sola cultura delle terre, Roma fu tranquilla ; si ridderò però divenire insolenti, allorqnan», do, associati ai publici affari col soccorso i, de’ loro Tribuni, rovesciarono più volte la ’ Costituzione dello Stato ; c necessario per», tanto, che rientrino in quella subardina», zione, dalla quale furono levati dalle Fazioni. Disprezzate le publiclie voci tendenti a », denigrare la vostra condotta. Forse si dirà, che avete vinto perii vostro solo ingrandimento ; ma Roma parlerà con altro linguaggio, quando sotto l’ombra de’ vostri auspicj vedrassi al colmo della feli jy Cltil «,, Non dovrete temere alcun attentato alla,, vostra persona, divenuto Monarca ; al con-,, trario i vostri giorni saranno in pericolo, y, se, spogliato del supremo potere, rifenì, trerete nella classe di semplice Cittadino ; .chi mai in questo caso potrà garantirvi dalla perfidia di que' scellerati, e malconten* ti, che sopravissuti alla distruzione nelle », passate guerre civili, si aggirano ancora e,, in Roma, e nelle Provincie ? Esistono sicu-,, ramente de’ turbolenti partegiani delle Fazioui di Sesto Pompeo, e di Antonio. Que Dion. loc. pit.: Ilio, enimPlebis lice ristia, qua optimus quisque servire cogitur, et acerbissima est, utiisque cominunem pcrniciein ffert. nS A sti, serbando contro la vostra persona odio, risentiraento, e livore, cercheranno di vendicare l’affronto, che loro recaste per,, averli vinti, ed umiliati, e col vostro as-,, sassinio immolare una vittima gradita all’ s, ombre de’ loro Amici estinti o sulle camf> paglie di Filippi, o sulle spiagge dell’ Epiro. Siavi d' esempio Pompeo il grande, il,, quale, spogliatosi spontaneamente di quella potenza, che colla vittoria si era acquistata, fu miseramente ucciso, mentre faceva degl’ inutili sforzi per ricuperarla :,, Alla medesima dissavventura sarebbero stati esposti ancora Mario, ed altri potenti Cittadini, ie non l’avessero prevenuta colla morte. (i,) • t > * Diòn. loc. cit. : Quis enim libi parcet, ubi omnes res, uti mine ace sunt, P apuli, àlior urn que‘ Potè stati praemitlis, cu/n et pcrmulti a te sint offensi, et omnes fere summam rerum tentaturi, quorum alteri et ulcisci te, alteri adversarium te e medio tollera cupicnt 1 Balsac nel cap.45. del Print. cosi su tal proposito ragiona : Si va incontro ad egual pericolo tanto nell ’ impossessarsi, che nel dis* farsi del s/lpremo potere. F aiaride era prontissimo a dimettersi dalla potenza usurpata l ma chiedeva- un Nume per sicurezza della sua vita, se rientrava nella classe di Cittadino privato, £’ stata sempre comune opinione Sul Trono però la maestà, che imprime il rango supremo, e la guardia d’ ond’ è,1 circondato, spegne ne’ cuori gl’ istessi de* siderj della vendetta. D’altronde, o Cesare, la vostra gloria, e le vostre precauzioni sapranno preservarvi da qualunque timore. Koma vi riguarda. come un dono,, ricevuto dai Numi, e voi passate per una,, Divinità tutelare, che il Cielo volle serbare iniftezzo a tanti Nemici per assicurare il loro benessere, e la loro felicità. Si è detto, che il peso dell’ Impero è troppo grande ; ma questo è un vano terrore capace a «coraggi re tutt’ altri, che il Fi-,, glio adottivo di Giulio Cesare. La metà del,, Mondo ha già ubbidito alle vostre Leggi; finora non foste, che Triumviro, e l’ Impero dell’Occidentè non fu per voi un in»; carico troppo pesante. Presentemente tut— te le Nazioni godono quella pace, che voi,, «apeste ad esse procurare ; le nostre Fron che quelli, li quali hanno preso le armi contro la loro patria, o contro il loro legittimo Sovrano, sono ridotti in certa guisa nella necessità di continuare nel male, per. La poca sicurezza, che trovano nel fare del bene. Non osano di divenire innocenti per timore di sottoporsi alla discussione delle Leggi, che hanno offese, e persistono ne loro errori, credendo, che il loro pentimento non trovi compassione. ja? •Nere sono difese da Governatori di vostra scelta, e gl’ ordini non derivano, che da voi dal Caucaso, ed il Mar rosso fino all’ Oceano Brittannico. Non si tratta più di cercare, in che guisa potrete divenire il,, Padrone dell’ Impero ; ma con quali mezzi potrete sostenere quel peso, che il Cielo ha voluto addossarvi;. Io spero di potervi somministrare li mezfci ricercati. », Formate Un Senato, che sia composto di », persone sagge, e tranquille, nè la pover-,, tà deve essere un motivo, onde escluderne li buoni Cittadini ; sarà non meno cosa vantaggiosa, se unirete ai Senatori Romani de’Soggetti stranieri scelti ancora Frà nostri Alleati. Con questo temperamento, potrete » ricevere de 1 buoni consigli, sia per il go-,, verno della Capitale, sia per contenere le » Provincie lontane, e le cabale saranno meno » frequenti tra Individui di diverse Nazioni. L’ordine de' Cavalieri è rispettabile, ma trovasi circoscritto da troppo anglisti confini. Ammettetè ih questo ceto illustre, seni, za fissarne il numero > tutti que’ sudditi >> delle Provincie Romane, che ne sono de», gni, e per li natali, e per li servigj pre*,, stati, e per le ricchezze. >» Li Pretori devono scegliersi dal Corpo de' Senatori dopo cinque anni di servizio* e dell’ età di anni trenta, giacché in avve, gerete iui Giudice subalterno col nome di sotto-Censorc, che prenderà cognizione di que’ leggeri disordini de’ Cittadini, che,, non giungono al delitto, ma, che sogliono cagionare delle inquietezze nelle famiglie, e che tolgono la quiete publica, ed il buon ordine della Città. La carica di questi due,, Magistrati potrà essere a vita, non po* tendo concepire alcun timore di due Uomini inermi, che eserciteranno la giustizia sotlo i vostri occhii Io non so, o Cesare, se il mio discorso incontrerà la vostra approvazione, ma ciò,,, che ho detto, mi sembra troppo necessario a rendere il vostio regno pacifico. Contendete liberamente il diritto di Cittadinanza,, a qualunque Individuo, che ne sia degno * delle Città alleate, e soprattutto delle CoIonie, e cosi avvilirete questo titolo di Cittadino Romano, che rende il Popolo della Capitale si fiero, e affezzionandovi le Nazioni straniere, ve le renderete fedeli * i. Crescerà poi il loro affetto, se facendo con precauzione una scelta de’ Soggetti li più Digitized by Google l3i,, ragguardevoli, li farete partecipi anche y, degli onori del Senato. Che cosa importa, se il numero de’ nostri Senatori oltrepasserà li trecento ? Più saranno gl’impieghi, e le cariche da conferirsi, e più autorità vi acquisterete, ed anche maggior sollievo. E’ giusto, che sia fissato uno stipendio per i Consoli, ed i Pretori, che manderete nelle Provincie, giacché è cosa del tutto vituperevole, che per mezzo di enormi,, concussioni, si aggiudichino da se stessi li salarj de’ loro travagli, ed impongano tasse arbitrarie sulle Popolazioni, che governano. Se si porteranno delle lagnanze contro l’avarizia di alcuni di quelli, dovranno richiamarsi all’istante, benché non siano finiti li tre anni dell’esercizio della loro carica ^ In generale poi sarà una giuyv sta misura di non prolungare ad alcuno il tempo della sua amministrazione oltre a cinque anni. Ho detto, che bisognava moltiplicare il » numero de’ Cavalieri ; perchè da questo » Corpo rispettabile dovrete scegliere levostre Guardie, a cui assegnerete de’ Capitani. Allora la vostra Persona sarà più sicura, e se P uno di questi Capi diviene so» spetto, l’altro per emulazione veglierà con y, zelo salii vostri giorni ; qneU’autorità poi, >, che loro darete sul resto della vostra Casa, ' « li affezzionerà maggiormente al servizio,,e I a se si conoscerà, che le loro incombenze fossero troppo moltiplicate, potranno in,, parte discaricarsene su di alcuni subalterni col nome di Luogotenenti -, che parimente potrete nominare. Dallo stesso corpo de’ Cavalieri potrete estrarre ancora e gli Coj, mandanti della Polizia, che in tempo di not*,, te veglieranno sulla quiete di Roma, e gl* Intendenti de' viveri, e li Presidenti del pnblico Tesoro, e li Ricevitori delle rendi-,, te delle Provincie, (ij Oltracciò oserò dirvi, che sarà bene d’ impiegare ancora de’ Liberti per la riscossione del pnblico danaro. Questa qnalità di nomini sarà adattata per sopportare,, l’odio inerente all* impiego di Esattore. Con questo mezzo potrete far uso, e distri— L’ ordine de' Cavalieri desume il suo stabilimento parimente da Romolo, il quale avendo fatta la scelta di trecentpGiovani lipiù valorosi, c benfatti, ne formò il Corpo di guardia della sua Per sona. Allora erano chiamati Celeri, ma posteriormente furono sottoposti ad altre variazioni di nome al dire di Plinio presso il Sigonio de Antiquo Jure Civ. Rom. Jib.t. cap.3. : Equitum nomea saepe variatum est, in his quoque, qui adequitatum trahe bantur. Celerei sub Romulo, Regibusque appellati sunt, deinde Flexumincs, postea Trottali : Fedi il sudetto Sigonio loc. cit. Digitized by i33 buire degl* impieghi, che serv'irannó di ri-,, compeiiza ai vostri domestici, e popolandorOriente,e l’Occidente d’individui fedeli.»sarete con esattezza prevenuto della situazione delle Provincie lontane .,, Una delle cure le più importanti di un Sovrano è di vegliare attentamente sulla educazione della Gioventù in tutto 1’ Impe-,, ro. Vi siano adunque per questa delle publiche Scuole, delle Accademie per formar-,, la nel mestiere delle armi, e de’ Maestri ben pagati per istruirla nell’ esercizio dcl-,, lo spirito, e del corpo. Da questa dipende la forza dello Stato, e questi fiori coltivati con saviezza, produrranno il frutto a suo tempo, e luogo. Procurerete però, che non venga educata nella mollezza, e nella indolenza, altrimenti se ne risentiranno in seguito gli effetti funesti ; Roma,, cesserà di esser feconda di Eroi, e tntto l’obbrobrio ridonderà a carico dell’Autore,, della Monarchia, "t Dion. lib 5a. pag.63a. : Hoc quoque te summopcre hortor insticuas, ut Putridi, Equestrisque Ordinis homines, dum adhuc pueri tiam agunt,ludos literarios frequentent Ita e nim statini apuero discentes, et exercentes omnia ea, qua e adultis sunt usurpanda, ad omnia ne goda aptiorcs habebis. Optimi enim, ac egre gii Principi* est, non modo ipse ut omnia e* 4 Anche le Truppe esiggono una particola. re attenzione, come quel Corpo, che forse,, costituisce la porzione più necessaria, e interessante dello Stato. Allorquando la maggior parte delle vostre città godrà il diritto della Cittadinanza Romana, vi riuscirà facile di rimpiazzare le vostre Legioni di,, Cittadini Romani • Fatene la leva in tutte le contrade dell’ Impero ; siano puntualmente pagate ; preparate loro de’ buoni quartie-,, ri, e non permettete, che invecchino sotto le armi, poiché da ciò ne derivano le sedizioni militari. Ogni Veterauo è ordinariamente ardito, e presuntuoso ; perciò è necessarlo, che questa porzione di Truppe,,, facciali suo servizio senza interrompimento dopo il fiore della gioventù fino al princi-,, pio della vecchiezza ; le vostre Legioni siano sempre sul piede di guerra, ed in numero sufficiente per difendere le Frontiere. Siano escluse dal vostro governo quelle leve istantanee, e tumultuose, come soleva altre volte praticarsi in caso di estremo,, bisogno. Fate si, che una porzione de' nostri Contadini eserciti tranquillamente,, l’Agricoltura, nè i loro rustici lavori sieno turbati dal timore di dover ascoltare ad ogni istante il suono della tromba guerric officio agat, verum, ut qua rat ione etiam reliqui omnes quarn optimi fiant, prospiciat. ra, che ad essi annunzi degli arredamenti involontari .,Le Armate saranno assai deboli, allorquando non sono fonnate, che di sudditi forzati a servire. Si dirà, come trovare somme considerevoli., onde mantenere tante Armate conti», imamente sul piede di guerra, e pronte sempre a marciare a qualunque cenno del Sovrano ? Questo è il punto decisivo, e l’oggetto di terrore, che vi è stato presentato,,, Ogni Stato ha le sue rendite, e voi potete divenir padrone del Tesoro publico de’,, Romani. Basterà questo per dare esecu*,, zione al progetto, che io vi propongo ? Nò », certamente; ma con una prudente, e savia », economia vi si potrà supplire. Vendete le,, spoglie delle Provincie conquistate, e formatene, col prodotto, un fondo per libi7, sogni straordinarj. Promulgate de’ sa vj re-. golainenti, affinchè le campagne siano con impegno, e profitto coltivate dai Proprie», tarj, ed esigetene un tributo sul loro prodotto. Non è forse giusto, che con il sagrifizio di una tenne porzione delle loro sostanze, si acquistino la sicurezza, che voi \, procurate ad essi, e a tutto lo Stato ? Vegliate sulle miniere de’ metalli, che si discopriranno nelle diverse contrade dell' t, Impero. Esiggete puntualità nella riicos rU sione delle tasse per testa, senza permettere, che li debiti si moltiplichino.Procurate, che non si rappresentino altri giuochi fuori della corsa de’ carri, e de’ cavalli, perchè ordinariamente le Città le più opulente, sogliono esaurire le loro rie•chezze in futili divertimenti * Riguardo alla «Capitale dell’Impero, gli edificj deggiono es~ sere in essa sontuosi, è li Spettacoli magnifìci; la Capitale è il centro di tutte le Nazioni, e la maestà del Padrone, che gor verna, si misura con la Città, ove risiede conia sua Corte. Fuori di Ironia proibite agli abitanti 1* eccessività delle spese, e quindi con questo provido temperamento tutti saranno in istato di pagare li tributi. Si potranno inoltre dispensare le Provincie a fare Deputazioni così frequenti. Li Governatoti respettivi ultimeranno gli affari sulla faccia del luogo ; e se fosse necessario, che quelli dovessero rimettersi al voatro Tribunale, li rimanderete al Senato. Allora voi detterete le sne risposte, e sfug-,, girete di prendere sopra voi solo l’odio, che quelle potranno seco portare. Fate partecipe il Senato delle querele, che gl’inviati delle Nazioni nemiche, o dei Re stranieri potranno promuovere, ed a voi solo riservate la cognizione delle grazie, » che loro vorrete accordare. Non dovrete mai più permettere al Po polo la decisione de’ delitti capitali. Qne*> sta dovrà essere una ispezzione esclusiva del Senato, il quale si crederà onorato di un tale imbarazzo, e voi ne resterete con piacere discaricato. Io però non parlo de’ delitti comuni, la di cui punizione è stata regolata dalle Leggi. Per li attentati contro »» la vostra persona (giacché tutto può accadere) siatene voi stesso il delatore, ma non giudicate giammai nella vostra causa. Fate, », che altri ne pronuncino la sentenza, e voi,, non dovete interessarvenc, che per moderare la pena. » Non dovete fissare la vostra attenzione, », come già ho accennato, nè alle parole in»> considerate de’ malintenzionati, nè alle saj» tire, che si diffonderanno, contro di voi,, nel publico, e non curate di venire in co», gnizione degli autori ; poiché dovete figli» rar ?i, come situato in una sfera superiore, »• in cui siete invulnerabile, come li Dei. La vostra collera non deve accendersi, che » contro li sediziosi, che, posti alla testa di una Armata, avranno rivolte le vostre,, armi contro di voi stesso. Il giudizio di que sti scellerati, e colpevoli di Stato, Indivi*,, dui ordinariamente di alta considerazione, dev essere rimesso per commissione ai Con* >» soli antichi ; la qualità di tali Giudici darà », peso alla decisione, che saranno per pronunciare. Vi saranno delle cause, dall’egame delle quali non potrete dispensarvi*,, imperciocché pii affari di onore fra gliUfh ciali delle vostre Armate, e gli Appelli dai T ribunali del Prefetto di Roma, e del sotto*,, Censore devono tornare a voi; allora scegliete degli Assessori fra i Patrizio al tri Soggetti qualificati, che possano figurare con,, voi in una Assemblea giudiziale. La grande saviezza di un Padrone indili pendente consiste nell’ ascoltare volentieri,, gli altrui consigli. Accogliete pertanto grati ziosamcnte tutti quegli Amici, e Cittadini, che saranno per darvene dei salutevoli;,, ma non discacciate con orgoglio coloro, i quali potrebbero suggerirvcne alcuni non sodisfacenti. Quelli, dalla bocca de’qua-,, li sortono consigli poco utili, possono aver avuto retta intenzione : Accade di questi, come dei Generali di Armata battuti,, dal nemico ; Spesso l’errore non è imputa* bile nè agl’ uni, nè agl’altri ; e siccome non si può sempre rispondere degli avvenimenti della guerra, cosi non deve riguardarsi con occhio bieco quell’ Uomo, che di buona fede dà un consiglio poco sensato. Li Filosofi procureranno sovente di gui* darvi con le loro speculazioni. E’ vero,,, che avete sperimentato, quanto erano van*, taggiosi li consigli di Areo, e di Atenodo*,, 1-0(1^), ma generalmente parlando, le opinioni di tali Uomini sopo difettose per mancanza di esperienza nel maneggio degli affari Le meditazioni del Gabinetto sono spesso le meno sicure in prattica. Atenodoro Filosofo del Portico è nativo della Città di Tarso. Fa maestro di Augusto, dal quale Ju decorato di molti onori. ed anelli di Tiberio. Aveva il talento particola) c per far apprendere con facilità le scienze a' suoi Di scepoli. Le sue cognizioni erano cosi estese, e tanta la forza della sua eloquenza, clic Sallustio lo assomigliava al fuoco, che accende tutto ciò, che gli si avvicina : Athenodorus Stoicus Philosophus ( dice Suida f sub Octa vio Romanorum Imperatore omni bus ad Philosophiani subsidiis, tam ab iji genio, quam recta animi voluntate instructus erat .... idemque dilucido discipulis suis explicabat. Hunc Sallustius oh studiuni admiratus, igni similem esse dixit, omnia propinqua incendenti : Secondo Strabope lib. 1 4. pag. 463- aveva l' abilità di rispondere estemporaneamente a qualunque argomento, e fu onorato ancora da Marco Antonio il Triumviro, ììi lode del quale scrisse un Poemetto, dopo la battaglia presso Filippi. t fa') Dion. loc. cit. : Neque enìm quia Areum., et Athenodorum bonos, ac honestos viro s expertus es, omnes alias idem studium prua i4o Ecco, o Cesare, alcune massime geuerali per il Governo, clie renderanno la vostra amministrazione Sovrana meno difficile, e meno pericolosa di quello’, che vi è stata,, rappresentata. • .,, Le qualità personali del Monarca, so», pratutto quando è 1’ autore dellaMonarchia, », devono eguagliare la sublimità del rango, », al quale egli è giunto. Io credo, e so* », no persuaso, che quello non deve in difierentemente accettare tutti i titoli, e tutte le distinzioni, che l’adulazione potrà deferirgli. La realtà della Monarchia vi deve bastare sotto qualunque nome la rite*-,, niate. Che importa di esser chiamato Cesa-* » re, o al più Imperadore, quando voi amministrate sovranamente lo Stato Romano ? Bisogna, che con una irreprensibile con dotta v'innalziate dei monumenti perenni sul cuore de’ Sudditi. Che cosa servono quelle Statue d’oro, o di argento ? Sono stati eretti nelle Provincie alcuni Templi a vostro onore, ciò poco interessa ; ma non dovrete » giammai permettere, che ve ne sieno con* secrati in Roma, perchè sarebbe un oggetto di disprezzo per le persone sensate, ed una seferentes, similes eorum indicare debes, curri hac specie usi multi infinita mala populis, privatisene hominibus adjeraut, y, spesa inùtile, che pot là essere meglio im i, piegata. Fate uso voi stesso di economia nelle vostre spese particolari, ed in quelle della vostraGasa. La buona opinion, e, di un uomo frn» gale vi farà più onore di un grande numero »> di tempj, di altari, e di statue. Questo culto esteriore, e materiale diverrà comune ai buoni, ed ai malvaggi Principi. D’altronde non si recherebbe insulto ai Numi, con eguagliare i vostri onori a quelli, che il Popolo suole ad essi deferire? Un sovrano, che cerca di essere onora» to deve sempre mostrare della pietà verso li Dei immortali, perciò nón permetterete, che s’ introducano in Roma delle Sette religiose straniere. Una novità in materia 5, di Culto, ne porta sempre delle altre, e e quindi ne risultano attruppamenti sediziosi, e pericolose congiure. Ammetto, che restino frà noi degli Auguri, che consuiti, chi vuole ; ma non devono assolutamente tollerarsi gli Astrologi, ed i Maghi ; j) imperciocché dalle loro predizioni false, o vere, che siano » hanno principio sempre le intraprese dei perturbatori del publico riposo, -fi) Dion. loc. cit. : Deos quoque senipcr, et ubique ita cole, ut moribus Patriae est reccptum,ad eumdemque cultura ahos compelle. Pc * 4 Voi avrete indiverse parti delatori -, e. spioni ; questa razza di persone saranno necessarie, ma guardatevi di deferir cieeamenre ai loro rapporti. Spesso l’odio, rinteresse, la vendetta, o altre passioni sciolgono agl’ uni la lingua, e chiudono agl’altri la bocca. Qui è dove fa dnopo,, avere continuamente la bilancia in mano, e procurar di farla inclinare piuttosto a favore degli Accasati .,, Li vostri antichi Amici, ed i vostri Domestici li più familiari devono esser per,, voi non meno un soggetto di precauzio-,, ne. Disprezzarli, sarebbe, un ingratitu-,, dine, sollevarli, ed arricchirli soverchia-*,, mente, produrrebbe contro di voi un argoinento perenne di rimproveri, e dimormorazioni. Si giudicherà di voi per mezzo de’ vostri Amici, e i loro difetti saranno a voi attribuiti. Cercate adunque di disfarvi dei meno discreti, e di quelli, che sono nelle loro brame insaziabili \ • 1 • i regrìnarum vero Religionum auctor esodio, ac Supp liciis prosequere,. qui nova numi na introducane, multos ad peregrinis Legibus utendum pelliciunt ; inde conjurationet, coi- tioncs, et conciliabula existunt, minime unius principe fui commodae res ; itaque nequeDeorum contemptorem, ncque praestigiatorem allum tolerabi *. Governo : L’ingiusta preferenza produce del malcontento, e quindi può ancora cagionare il rovescio totale di quello. Siate il protettore dei Grandi fino ad un certo punto, ma l’eterno sostegno dei deboli, ed il vendicatore degli oppressi.,, Proteggete con energia le arte utili, clic esercita il basso Popolo, e bandite gli oziosi. Ordinariamente le sommosse popolari incominciano da pe rsone disoccupate, *, e sono fomentate da nomi di partito, che,, si danno reciprocamente per farsi ingiuria; ciò forma la sorgente delle rivolte, che Fa duopo distruggere nella nascita. L’abuso della propria autorità è il più,, grande dei mali per un Sovrano. Dare esecuzione a tutto ciò, che si può, è lo stes« i, so soventi volte, che fare più di quello è >, permesso. Più utio si conosce potente, o più bisogna > che vegli sopra se stesso per non farsi trascinare dai proprj desiderj. Gli,, Adulatori vi lusingheranno sopra i vostri di? : b fatti > ma segretamente vi biasimeranno. Abbiate dunque per massima di regolare la,, vostra condotta, non tanto su quello, di i, cui siete stato redarguito, ma sù quello, per cui potrete essere rimproverato. Riflettete sopra voi stesso, e non già come,, Sovrano, ma come Suddito responsabile j, di tutti i vostri andamenti al Publico, il quale vi osserverà con tnttà 1 attenzione,,, e vi giudicherà con rigore maggiore di quello, di cui voi userete verso di esso. Ecco, o Cesare, il dettaglio delle qua. liti, che voi dovete acquistare, c de'sco-,, gli, che dovete sfuggire. La sapienza, di cui il Cielo ha voluto decorarvi, vi servi-,, rà di. guida, e 1* esperienza vi faciliterà l’arte di governare. Entrate adunque, entrate con confidenza nella carriera, che le vittorie vi hanno aperta ; Roma, e l’Universo vi reclamano, come il solo Uomo capace di riparare ai disordini di una Repnblica andata in decadenza. Quelli, che vi esortano a consumare la Rivoluzio-, ne, amano sinceramente la Patria. Che dolcezze non gusterete in una amministrazione tranquilla, in cui voi farete la felicita di un Mondo intero 1 Ninna cosa è più dolce del dominio, allorquando il Dominatore è capace di procurare la comune felicita. Non vogliate discacciare la fortuna, che vi ha scelto fra mille per sostener Roma vicina a cadere. Regnate senza prendere il nome di Re, e siate Sovrano senza altro titolo, che quello di Cesare, o d'Imperadore. In una parola, la regola più sicura onde rendere amabile il vostro Impero è quella di governare li popoli a voi,, soggetti, come bramereste di essere gavernato voi stesso, se i Numi vi avessero,, fatto per ubbidire. Il tX scorso di M. dissipò le dubbiezze di Ottavio, gli trasfuse nell'animo maggior sicurezza, e non esitò ulteriormente per aderire al progetto di quello. 11 bravo Agrippa non restò malcontento al vedere posposto il suo sentimento, perchè comprese anch’es-, che il suo Padrone rischierebbe meno di quello, che non si era creduto, sul posto eminente > nel quale veniva consigliato a perpetuarsi > e che l’utilità publica si troverebbe unita alla gloria del medesimo. Egli non potè non ammirare la saviezza, e profondità delle massime politiche di M., proposte per rendere felice un'Amministrazione Monarchica ; e perciò l’esperienza ci ha fatto quindi conoscere > che tutti li Re veramente degni del Trono hanno formato il loro piano sù quello, che il sudetto M. presentò ad Ottavio. La lettura del suo discorso > che per intero ci è stato dallo Storico Dione trasmesso è un Capo d’opera, che anche ai nostri giorni, ed in ogni tempo può istruire li Sovrani a divenir felici, procurando la prosperità de’ loro Sudditi. Il laborioso Catrou, da noi tante volte, citato, suppone, che non ostante l' efficacia Dion. Catrou Catrou loc. cit. lib. 5. K t+6 delle ragioni dettagliate da M., V à~ nimo di Ottavio restasse tuttora perplesso, ed irrisolato ; e che il Poeta Virgilio determinasse qnesta sua ir risolutezza, e lo inducesse ad ahbracciare definitivamente il prò* getto della Monarchia. Il Catrou parla in tal guisa (i,) Osare, avendo ripieno lo spirito di tutto ciò, che aveva ascoltato da Mecenate, non ebbe rossore di consigliarsi,, ulteriormente con uno de’ suoi domestici i nomo di bassi natali, nato in un villaggio da poveri genitori, ma li di cui ta-* lenti erano sublimi Questo fu il famosò Virgilio, Poeta, la memoria del quale si,, conserverà in tutti i secoli. Da lungo tem-,, po egli era al servizio di Cesare Ottaviàno, e per mezzo di vili principj èraginnto a meritarsi il favore delsno Padrone .,, M. lo aveva tirato dalla polvere -, ed egli aveva già spiegato quel genio incomparabile, che faceva presagire un altro Omero . Virgilio fissò la irrisointezza dell’ lmpefadore con queste parole :,, Tutti quelli, che si sono finora impadrbnifi del Governo non visorio riusciti, fe perchè f Perchè po.o giusti verso degli,, altri, han dovuto, incessantemente paren-,, tare le mani vendicatrici de 'malcontenti Voi al contrario, o Signore, che il Cielò - - *1 • loc. cit. ha fatto nascere giusto, e moderato, passerete giorni avventurosi, facendo pro-,, vare ai Romani un impero amorevole. Sembra però, che il Catrou in questo luogo siasi fatto sorprendere da quella Vita di Virgilio, che viene attribuita a Donato Grammatico, e dì cui si è fatto di sopra menzione (i). Siccome però questo scritto, Il Succennato Autore della Vita di Virgilio si spiega nel modo seguente. Postcaquam Augustus summa rerum omnium poti tus est, venit in mcntem, an conduceret Tyrannidem omittere, et omnem potestatem annuii Consulibus, et Senatui Rempublicam reddere. In qua.re diversae sententiae consu/tos habuit Mae cenai eni, et A grippata. Agrippa enim utile sibi fare, edam si honestum non esset, relinquere Tyrannidem longa oratione contendit, quod Maccenas dehortari magnopere conabatur. Q tiare Augusti animus et hinc ferebatur, et illinc. Erant enim diversae scntentiae, variis ratiombus firmatae. Rogavit i gi tur Maro ne m, an conferat privato homi ni, se in sua Republica Tyrannu/n faccre. Tum ille : Omnibus ferme, inquit, Rempublicam aucupantìbus molesta ipsa Tyrannis futi, et Civibus ; quia necesse crat odia subditorum, aut eorum injustitiam, magna suspicione, magnoque timore vivere. .. Q uare si jusCitiam, quod modo facis, omnibus in K a a sentimento di tuffigli Eruditi, è pie nò di errori, e di favole, cosi non può fissare la nostra attenzione su quanto narra di Ottavio nel momento, in cui stava per decidersi sulla scelta o della Monarchia, o del ristabilimento della Republica. Se sussistesse ciò, che ivi si legge, cioè > che Vi rgilio determinasse il sudetto Ottavio ad uniformarsi al sentimento di M., non si sarebbe certamente omesso da tanti valenti Biografi, « he hanno parlato diffusamente, e di Virgilio, e di Ottavio ; e Dione segnatamente, che ha trasmesso alla posterità gli eloquenti, e giudiziosi ragionamenti di Agrippa, c di M., e che inoltre afferma positivamente, che Ottavio si attenne al parere del secondo, sembra, che non avrebbe occultata una notizia cosi interessante, e rimarchevole. De la Rue accenna appunto questa ragione per escludere la verità di quella circostanza narrata dal sudetto Donato Se non fosse un fatto del tutto assurdo ( dice egli ),, che Virgilio consigliasse Ottavio ad aderì-,, re al progetto di M., e che deter-,, minasse l’animo vacillante di quel Princi futurum, nulla hominum facta compositione, distnbues ì dominar i te, et tibi conducet, et orbi . Ejus sentcntiam sequutus Cattar Priaeipatum tenuit » » pc, non si sarebbe narrato dal solo pseui, do-Donato, ma sarebbe stato ai posteri trasmesso dalla penna ancora di Storici il rispettabilissimi. V Ambrosi, che pensava come de la Rne, nel premettere alla sua magnifica Edizione dell'Opere del sudetto Virgilio la indicata Vita di Donato, cosi previene il Lettore infine della medesima e in cui visse •. Imperciocché nveutre Sesto Pompeo, fi-,, gliò del gran Pounpeo, richiede il Patrimonio paterno, sconvolge, e mette sossoprali mari d’Italia, e di Sitilia; men», tre Ottavio si vendica degli Uccisori di Giulio Cesate ano Padre, si divellano scene sanguinose nelle Campagne della », Tessaglia; mentre il genio incostante, e,, e volubile di Marco Antonio, o deprezza », Ottavio, corno successo re di Cesare, o,, acciecato dagli amori di Cleopatra, indina a divenire un assoluto padrone del Governo, il Popolo Romano no» potè tro-,, vare il. suo seampo » che gettandosi in brac• ciò alla schiavitù. Ma buon per noi, che «, in cosi terrihile sconvolgimento di cose» i, le redini del comando caddero nelle mani,, eli Ottavio Cesare Augusto, il quale eoa », la sua sapienza, e con la sua sagacitàsep i5a pe riordinare le membra scomposte dell’ immensa mole dell’ Impero, che non sarebbero tornate sicuramente al suo luo» go, se dalla meote, dal senno, e dalla abilità di un solo non fosse stato il Governo diretto (; ). Fior. lib. 4 Cap. 3. Populus Pomanus, Caesare, et Pompe\o trucidati, redasse in statum pristinac libertutis videbatur ; et redierat, nìsi aut Pompcjus Liberos, aut Cassar haeredem reliquisset ; vel quod utroqua perniciosius juit, si non collesa quoti -,tlam, mox acmulus Caesarianae potentiac, fax, et turbo sequentis saeculi, superfuissec Antonius. Quippe durn Scxtus paterna repetit, trepidatum foto mari ; dum Octavius mortevi patris ulciscitur, ite rum fuit mo venda Thessalia ; dum Antonius, varius ingenio, aut successorem Cassar i indignai ur Octavium, aut amore Cleopatrae desciscit in Pegem j nam aliter salvus esse non potuit, visi confugisset ad servitutem. Gratulandum tamen in tanta perturbatione est, quod potissimum f ad Octavium Caesarern Augustum somma rerum rediit, qui snp lentia sua, acque soler tia, perculsum undique, et perturbatovi ordinavi Impcrii corpus,i quod ita haud d tibie nunquam coire, et consentire potuisset, nisi uni us Praesidis nutu, quasi anima, et mente, regcretur, Il grande progetto della Monarchia unfc*versale da M. proposto, non era conosciuto, che da esso, da Agrippa, e da Ottavio. Siccome il silenzio è l'anima delle imprese delicate, cosi questo dovette esigere da Agrippa un segreto inviolabile, dovendosi mettere in esecuzione con metodo, con circospezione, lentamente, e senzacbe i Romani potessero avvedersene, giusta le istruzzioni dell’Antore del medesimo. Ottavio segni in tutte le parti li consigli di questo savio Politico, e gli fu debitore della suar gloria, e della felicità del suo Regno. In fatti riformò subito il Senato.; ed es» eludendo que’ Soggetti, la di cui presenza in quel Corpo rispettabile, o non poteva recave alcun vantaggio, o cagionargli del male, ve ne sostituì degli altri di sperimentata prudenza. Usò in questa riforma la precauzione di far vedere, che da esso era quello in special maniera onorato, per non cade «54 re nella stessa disavventura, alla quale fn sottoposto Giulio Cesare, il di. cui disprezzo ingiurioso per un Magistrato composto delle più illustri Famiglie di Roma, fu più veramente la cagione della sua morte funesta, che l’interesse della publira libertà. Aboli tutti li debiti dai Cittadini contratti con lo Stato. Dichiarò nulli tutti gli Atti, che la necessità del tempo aveva fatti promulgare nell’epoca del Triumvirato, Abbellì Roma di grandiosi Monumenti, e divenne ristoratore di un grande numero di Templi, li quali o le guerre passate avevano rovinati, o per mancanza,di denaro, erano stati negletti.?, Stabili, che la distribuzione gratuita del grano, che, per costume antico j; soleva farsi .al Popolo sopra li fondi, del publico Tesoro, fosse più frequente, e che in ogni distribuzione se ne dasse alle povere famiglie una misura quadrupla di quella, che prima era in usanza. Questi, ed altri regolamenti salutari gli conciliarono una stima generale, ed era, per dir cosi, idolatrato da tutti. Allora M. si avvide con la profondità delle sue viste politiche, che il suo Progetto era giunto alla maturità, e che il Senato, Roma, e tutti gli Ordini dello Stato erano già disposti a riconoscere l’impero di Echard loc. cit, un solo nella persona del sno Padrone ; perciò concepì un secondo Progetto, per ultimare il primo, che sembrava piuttosto stravagante, e pericoloso, ma che doveva inseguito produrre tutto il suo effetto. Consigliò pertanto ad Ottavio', che si pre. sentasse in Senato, e con un discorso politico, ed artificioso rinunciasse al comando assoluto, che allora riteneva, rimettendolo nelle mani de'snoi antichi Magistrati. Gli fece riflettere, che con questo mezzo non solo non lo perderebbe, ma anzi avrebbe ottenuto, eh’ egli, il quale finallora era stato arbimanamente Padrone del Mondo, per consenso di tutta la Nazione, sarebbe divenuto Monarcha legittimo ; inoltre, che, mediante le riforme già fatte e nel Senato, e nelle altre Magistrature, erasi procacciato una quantità di Partegiani, che per le sue liberalità, per la sua giustizia, e per lesile maniere obbliganti era sommamente amato dal Popolo ; che in conseguenza, allorquando questo, ed il Senato avrebbero inteso pronunciarsi da]la bocca del loro benefattore la rinunzia alla direzione del Governo, o per riconoscenza, o per rispetto, o per politica, o per non perdere le dolcezze della vita, e del buon ordine, ch’esso aveva introdotto, non solo non avrebbero accettato la proposizione, ma lo avrebbero pregato a perpetnarsi in quell’impero, acni finallora aveva preseduto. Ottavio adunque penetrato, e persuaso dalle ragioni, donde era stato dal suo Ministro istruito, si presenta in Senato, e con un’aria d’ingenuità, e di franchezza sorprendente, in tal gnisa si fece a parlare.La proposizione, che io vengo a farvi, Padri t3 Coscritti, sarà da pochi approvata, e da molti stimata incredibile. Soventi volte la j, diffidenza, con cui sogliono riguardarsi le persone costituite in dignità, fa rendere sospette le medesime, anche quando parlano, ed agiscono sinceramente, Io mi esporrei immancabilmente a questo perin colo, se non fossi determinato di dare una s pronta esecuzione a quanto sono per pròA porvi. Voi vedete, Padri Coscritti, a qual » rango sublime mi hanno fatto giugnere la,, sorte delle armi, ed una condotta moderata. Capo assoluto, ed indipendente della Repnblica, io sono in istato di far uso del»» m i a potenza, e di perpetuarmela. Ap-,, pena uscito dalla fanciullezza, impugnai la >1 spada, e volai a vendicare l assassimo di un Zio, che mi aveva adottato per figlio,,, Nel momento, in cui entrai in questa carn riera, presi la giustizia per guida, e la,, vittoria divenne mia compagna. Fui coiì stretto a combattere con nemici di diverso carattere, e di qualità differenti. Bi*,, sognò dissimulare con alcuni, ed aprire con essi delie relazioni per non soccombere j> sotto il peso della moltitudine. Mi convenne in seguito perseguitare gli altri ardilaniente, e costringerli a rivolgere contro essi stessi quel braccio, che era stato funesto a Giulio mio Padre. Mi associai alcuni compagni delle mie vittorie, e divisi con essi il peso del Governo. Che cosa quindi ne accadde ? Lepido in Africa lasciò decadere con la sua negligenza gli affari di Roma ; Antonio, esposto nell' Egitto, e nell’Asia, come su di un teatro, disonorò con la sua turpe condotta il nome Romano, j, e lo rese abbominevole a tutto l’Oriente. Il Cielo secondò quello zelo, che esso stesso mi aveva trasfuso per riparare a tali disordini v Antonio non esiste più, e Lepido,, vive nell’ozio giorni felici per un uomo del suo carattere. Che cosa vi aspettate, Padri Coscritti,,, da un Vincitore, padrone del suo, e del vostro destino? Tutte le Fazioni sono distrutte; ogni corpo di armata sulle Frontiere è comandato da Geuerali, che godono tut-,, ta la mia confidenza. Li Re nostri Alleati,, non ricevo.no l’impulso, che da miei cenni, ed i loro soccorsi non marciano, che agli ordini miei. Il denaro proveniente dalle nostre rendite non è versato, che nel mio i} tesoro, e non ne va nelle publiche casse, che quanto io ne permetto. Fiù. Io eonosco i vostri cuori, e quello del Popolo Ro-,, mano in generale. Io potrei rispondere del vostro affetto verso di me, e riposarmi sulla publica benevolenza. L’indipendenza adunque, e la Sovranità possono andare più oltre? Ma perchè tenervi più lungamente sospesi ? Ascoltate con attenzione le mie parole, ed il suono delle medesime faccia passaggio alla più lontana posterità . Questo Vincitore, Sovrano assoluto, questo Generale Supremo di tutte le forze di Roma, questo linperadore adorato dal popolo sagrifica al bene della Patria gli onori, di cui lo avete ricolmato, li titoli,,, che gli avete Conferiti, in fine tutto il frutto delle sue vittorie. In questo istesso istante io vi restituisco li miei diritti sulle Armate, sulle Leggi, sulle Finanze, sul governo delle Provincie, in una parola sù tutto ciò, che voi mi avete accordato, e che la necessità delle circostanze mi hacostretto ad accettare. Che volete di più? Ora si dica pure, che io non ho travagliato, che per il mio ingrandimento, quando mi esposi a tutti li pericoli delle battaglie. ORoma, tu fosti sempre presente agl’oc-,, chi miei ! A Perugia, nelle Campagne di Filippi, in Sicilia, nel Golfo di Ambracia,,, e nell’Egitto! A te sola io allora immolava >, li tuoi, e li miei Nemici, e non fui prodi 1S9 if go del mio sangue, che per assicurare la liberta Romana. Ah fos'se piaciuto ai Numi, che io non avessi impiegato il mio Ministero in guerre civili, che ci hanno esaurito di Cittadini, e spopolato le Provincie. O mia cara Patria, perchè non ti trovai tranquilla, conte al tempo de’ Padri nostri ! Cielo t tu non me lo hai permesso ! Benché giova•netto mi scregliesti per essere il vendicato}> re del più perfido assassinio, il riparatore degl’insulti recati alla Nazione Romàna, il ristoratore della nostra gloria eclissata, e finalmente il pacificatore di tutto il Mondo!,, La mia opera è compita > ed ho pienamente sodisfatto ai miei destini. Permettete > Padri Coscritti, che iomen vada nella solitudine a bearmi di quella fe>, licità, che io stesso ho procarata. Ora non posso, senza ingiustizia ritenere più lun-,, gamente un potere, che a voi appartiene ;,, e questa mia volontaria cessione è dovuta alla mia propria sicurezza, per mettermi al cotperto degli assassini. Che anzi non so-,, lo vi rendo le vostre leggi, e tutti li vostri antichi privilegi, ma vi dono eziandio l’opulento mio patrimonio, e le prerogative, che io posseggo per diritto della mia nascita(i). (i) Dion. lih. 53. Catroutom. 19. » dotta, e nelle tue operazioni, nè mire am>» biziose, nè avarizia, nè verun’ altro di,, que vizj, che sogliono albergare ne Cortigiani, e nelle Corti. Properzio scrivendo allo stesso M., ci da à conoscere, che quel suo disinteresse per gli onori sublimi, ai quali avrebbe potuto pervenire, prodnceva un’ azione si gloriosa, e commendevole, che il di lui nome sarebbe dalla fama, e dai posteri celebrato al pari di quello de’ Camilli. (a) (1) Apnd Pontan. in Symb. Georg. Virgil. lib. a. pag.aay. Regis eros genus Etrusci, tu Caesaris olirà D exter a, Romanac tu vigili] ibis eras. Omnia curri posscs tanto tam carus amico, T e sensit nemo posse nocere tamen. Eleg. Maecyias eques Etrusco de sanguine Regum, Intra fortunam qui cupis esse t narri Di più questo suo morigerato contegno, e Mobile disinteresse serviva anche d’esempio alle famiglie le più cospicue de’ Romani Cavalieri, e ne ebbe imitatori, ed ammiratori. Crispo Sallustio, fri gli altri, nipote di una soìclla dello Storico di questo nome, seguì perfettamente il tenore di vita di M.. Sul finire di quest’anno (Scrive Tacito) mo-,, rirono due illustri personaggi Lucio Volusio, e Sallustio Crispo. *. . Questo, nipotè di una sorella di quel Cajo Crispo Sai* lustio elegantissimo Sri ttorc delle Storie Ro*,, mane > da cui fu associato alla sua Famiglia,,, aveva tutti li mezzi li più potenti per ottenere qualunque dignità ; tuttavia, emùlandò la condotta di M., senza il titolo di Senatore, Superò in potenza molte famiglie,che erano state decorate delTrionfo, e Consolari ». ». Mentre visse Metani libi romano dominas in honore sccures, Et liceat medio ponere jura foro. Et tibi ad effectum vires dei Caesar, et omni T empore tam faciles insinuentur opes ; Parcis, et in tenues h umile m le collegi* umbras, Velorum plerMs subtrahis ipse sinus. Crede mihi magnos aequabunt ista Camillos Jndicia, et veniet tu quoque in ora virum, Ì76,) cenate, Crispo fu il secondo > cui venivano affidati li segreti Imperiali ; fu il primd i, però, quando quello cessò di vivere, Ciò non ostante Augusto procurava di compensare questo commende’vole distacco dagli onori luminosi del suo Favorito colli tratti del* la più tenera amicizia, e della più sincera confidenza. Imperciocché, allorquando il peso, e la serie degli affari del Governo gli lasciavano qnalche tregua, si portava sovente a visitarlo anche nella maestosa Villa, che possedeva sulle fertili sponde dell’Aniene. Quivi Ottaviosi compiaceva di rivedere l’amico, di consultarlo, e di riceveie sempre consigli, istruzzioni, e massime per ben g vernare, e per ben governarsi ; che anzi vi è chi crede, che il memorabile Congresso frà Tacit. Andai, lib.3. cap-.3o. : Fine anni concessere vita insignes Viri L. V olusius, et Sallustius Crupus. Crispum equestri crtum loco, C. Sallustius, rerum Romanarum flore ntissimus auctor, sororis nepotem in nomea adscivit ; atque Me, quamquam prompto ad capesse ndos honores adita, Maecenatem aemulatus, sine dignitatc Senatoria multos Triumphalium, Consulariumque potentia anteiit . Igitur incolumi M. proximus, mox praecipuus, cui secreta Imperaiorum inniterentur. (a^ Marquez Dis. sulla Vita di M. Ottavio, M., ed Agrippa, e le deliberazioni per rinunciare, od accettare la Sovranità fossero tenute nella tranquilla solitudine, e nel dilettevole silenzio di questa Villa deliziosa. Ed in vero qual luogo più opportuno per trattare con riflessione, maturità, e quiete un oggetto cosi grande, che aveva relazione con gl’interessi dell’Universo ? Di più ; se Ottavio era sottoposto a qualche infermità, non già restava nella Corte, in mezzo a suoi domestici, ed agli adulatori. Esso non si trovava contento, e non sentiva sollievo alle sue fisiche indisposizioni, che nelle mura dell’abitazione, e fra le braccia Volpi Lat. Vet. lib.18.Cap.?. Cumvero bis Augustus deliberaverit de su.mma Imperli abdicando, et inpristinam restituenda Reipublicae libertate, et in gravissima e deliberatiti— nis consultationem Agrippam generum, et M. amicissimum arbitros, et consiliarios assumpserit, quemadmodum in majoris momenti rebus omnibus consueverat. Agrippa ad illum longissimatn prò abdicando ora tionem habuerit, prò retinendo ac optime in stituendo rerum regimine M., haec in nostra Tiburti Villa M., ut potè in serhoto à turbis, securoque odo, agitata fuisse, vehementer, ut suspicor, inclinat animus. M del suo M. Svetonio ci dice chiaramente, che quello in tempo delle sue malattie riposava nella casa di M.. Ma la stima, la tenera amicizia, la fiducia, il rispetto, che dimostrava Augusto verso M., non si limitavano soltanto a queste semplici dimostrazioni, che possono chiamarsi materiali, e passeggere; egli amava di essere istruito incessantemente da quello nelle vie difficoltose del Governo, e ne riceveva ancora con tutta la rassegnazione li più umilianti rimproveri, quando conosceva, che erano diretti contro le sue passiotai t Fra le altre istruzioni benefiche, e salutari, che M. aVevà suggerite ad Ottavio, vi era quella, coti la quale gli veniva raccomandata la moderazione, perche aveva conosciuto, che l’animo di questo inclinava alla severità, ed all’ira. A tale effetto pare, che si facesse seguire da M. in tutti li suoi andamenti, ed in particolare maniera quando doveva sedere nel Tribunale, come Giudice supremo. Allora M. esaminava le sue mosse la sua voce, e li suoi delineamenti, e se rimarcava, che T lmperadore agiva con dol fi) In Octav. in Art. 77. Aeger autetìi, Augustus, in domo Maeccnatis cu.ba.bat » eezza, con giastizia, a sangue freddo, e non si faceva sorprendere dal risentimento, che porta con se la severità, lasciava, che operasse liberamente, e se ne compiaceva ; ma se scorgeva, che nel Giudizio Voleva far nso di nn rigore soverchio, eccessivo, e non giusto, anche sul Tribunale»- in mezzo alla moltitudine > che lo ascoltava > e dond’ era circondato, lo redarguiva, lo faceva tornare in calma, egli faceva rammentare la sua massima salutare, GTIstorici tutti hanno avuta l’attenzione di trasmettere alla posterità un esempio memorabile del dominio, che M. aveva sullo spirito di Augusto per farlo marciare con la moderazione > e con la dolcezza al fianco in ogni sua intrapresa. Sedeva egli una voltata qualità di Giudice alla presenza di molti Accusati, che attendevano la loro sentenza. M. si avvide, che stava per pronunciare contro quegl’ infelici la sentenza di morte. Siccome conosceva» che era ingiusta, e la folla del popolo non permetteva di avvicinarsi al Tribunale, e nel luogo, sù di cui sedeva, •crisse queste parole ardite nelle sue tavolette incerate > e nello stesso tempo gettolle ad Ottavio Sorgi, o carnefice, ed esci da questo luogo Ottavio conobbe la mano di chi le aveva scritte, si rammentò subito di ciò, che forse per nn momento aveva dimenticato, si levò dal Trisanate, e dimandò assolati quegli Accasati. Che M. ha un impero irresistibifé suH’ahimo d’Augusto, e particolarmente ne’movirtie'rtti dell’ira, e della severità, lo fece conoscere lo stésso Angusto, quando quello aveva cessato di vivere, e di assisterlo. Giulia sua Figlia aveva ricoperto di scandalo la Corte con le sue dissolutezze. Il Pad re sommamente rammaricato non poteva rimediare n questo disordine domestico. Tr.v sportato dall’impeto della collera, rilegò la Figlia, e rese publica la di lei disonestà. Poco dopo rientrato in se stesso, si penti de’suoi trasporti inconsiderati, e di questa publicità, che disonorava la sua casa. Allora ricordanti^) t>!on. . Tarn vero si cubi ira impoteutius efferretur, utile m cura sibi habuit, a quo ab ira ad mansuetiorem animum reduceretur. Unus ejus rei documentarti prof e-* ram. Praesetite aliquando M., Augu. stus prò Tribunali stdens, cum multos esset morte damnaiuras, praevidens hoc /ore M accenni, cum per circumstantium coronam ad ipsum irrumperè, ac proximc assistere ne qui rct, haecvcrba in tabella scytpsit : Surge vero tandem, Carni fex ; vamque Tabellam, qua* si atiud quid indicantem, in sinum Augusti projecit, qua lecca, is statini suri exit, nomi * ne morte mulctato. i8l dosi di Agrippa, e di M., e della saggezza de’consigli, che da essi soleva ricevere quotidianamente, esclamò replicate volte. « Ah, che questo non mi sarebbe accaduto, se o M., o Agrippa fossero stati ancora al mio fianco fi ). Dal contesto della Storia, che ha parlato di Angusto, e di M., si rileva agevolmente, come, dopoché quello si assise, e consolidò sul Trono Imperiale, e fu messo in piena esecuzione il sistema della Monarchia universale, questo si ritirasse affatto dalla grande amministrazione degli affari politici. Finché il suo amico lottava co’nemici, che si opponevano alla di lui grandezza futura, egli compariva in mezzo alle imprese le più rilevanti, e spinose, affrontava delle ambascerie malagevoli, contribuiva a trattati di pace li pia vantaggiosi, diveniva Prefetto, Amministratore, ed Arbitro dell’ Italia, e di Roma ; quando però quello non ebbe più nemici a combattere, più rivali da distruggere, e restò cqn ( 1 ) Seneca de Benef. lib. 6. Cap. Divus Augu, tus filiam intra pudicitiae male dictum impudicam relegavi!, et flagiti* Pi ilicipalis domus in publicum emisit. deinde cum interposito tempore verccundia gemens, quod non illa silcntio pressisset. ... Saepe ex clamavit ; Horum mihi nihil accidisset, ti ani A grippa, autMaecenas vixistet . 1 8a vinto, e persuaso a gettare la base della sudetta Monarchia universale, e che a tale effetto gli fu presentato il Piano, furono fissati li principj, e le più savie istruzzioni ; in una parola, dopoché fu sistemato il nuovo Governo politico, M., che aveva a tutto contribuito, che aveva collocato il suo Amico, e il suo Padrone sul Trono deirUniverso, e sul rango il più eminente, a cui potesse giungere un mortale, abbandonò, per dir cosi, le vanità del mondo, ritirandosi fra le dolcezze di una vita privata, e tranquilla. Continuò a prestare li suoi servigi all'Imperadore, ma lungi dallo strepito della Corte ; consigliandolo sempre a farsi amare, e a fare amare il suo Governo. Dopo questo ritiro però. M. non già viveva nell’ozio, nell’oscurità, e nell’indolenza. 11 genio del grand’Uomo non era venuto sulla terra per desistere, negli anni migliori della sua vita, dal far del bene ai suoi simili, ed alla posterità. Coll’aver consigliato Ottavio ad accettare l’Impe ro in quell’epoca, e in quelle circostanze, aveva reso un grande vantaggio all’ umanità, giacché con questo mezzo aveva troncato la testa al mostro spaventoso delle fazioni, sempre famelico di sangue umano, e di stragi ; aveva ricondotto la sicurezza, e la concordia nelle famiglie, la pace nella Capitale, nell’ Italia, e nelle Provincie le più remote. Egli però voleva, i83 e doveva fare di più; -una nazione già colta, doveva migliorarla, un secolo già istruito doveva perfezionarlo. Protesse in grado eminente, e fece proteggere da Augusto le arti, li letterati, e le scienze, e nacque subito il secolo d’oeo del Fune, c delle altre. Si ; dobbiamo pur confessarlo, e confessarlo con tutta giustiziala posterità è debitrice all’anima benetica di M. di tutto ciò, che di bello,riguardo alle arti, ed alle scienze risultò in quel secolo avventuroso, che noi riguardiamo con ammirazione al presente, e che non meno dovranno ammirare tutte le colte future generazioni. Amando quello, e proteggendo, facendo amare, e proteggere dal capo dal Governo li talenti, fece si, che questi si sviluppassero con energia, e prodigassero opere capaci ad istruire, e migliorare lo spirito, ma incapaci ad essere eguagliate. Li Poeti migliori di quel serolo hanno celebrato questo favore, e questa protezione di M., e ci hanno fatto conoscere al tempo stesso, che egli era un protettore pieno di discernimento, illuminato, che non concedeva il suo affetto, che a soggetti veramente colti, e di talenti forniti, e che fra quelli, che esso accoglieva, e proteggeva, regnava una concordia inalterabile Nella Casa di M. (dice Orazio) regna la purità, e la,, schiettezza ; vi sono banditi tutti que’disordini, che sogliono eccitare l'invidia 4 la 1S4,, gelosia, e la falsa emul azione, ed ognuno indistintamente occupa il suo posto, nè si bada a chi sia più dotto, o più ricco. M. riguardava negl’uomini il solo me. rito. Ogni dotto veniva da esso con amorevolezza accolto, qualunque fosse la di lui estrazione. Secondo li suoi prìncipj saggi, e fondati sulla natura, ognuno era nobile, quando era virtuoso " Sebbene, o M., ( soggiunge il detto Poeta ") ninno sia più illustre dite, fra tutti quelli, che vennero dall’ Asia a popolare le Toscane Contrade, e e sebbene un di li tuoi grandi Avi, comandarono vaste Regioni, tuttavia sei Horat.Sat. .M. quomodo tecum ? Hinc repetit. Paucorum hominum, et mentis bene sanae, Nemo dexterius fortuna est usus. Haberes Magnum adiutorem, posset qui ferrc secundas, ffunc hominem velles si tradere ; dispeream ni, Summosses omnes. Non isto vìvimus illic, Quo tu rere modo i Domus hac nec purior ulla est, Nec magis hit aliena malis ; nilmi officit um quarti, Ditior hic, aut est quia doctior ; est locus uni Cuique suits. Magnum narras, vix credibile ; atqul Siehabet. tanto buono, e modesto, che non sai egomentarti, ne aggrinzare il naso, come fanno li superbi, nella società di gente ignobile, quale, fra gli altri sono io, figlio di nn padre libertino; Imperciocché taserbi la massima degna di tutti gli elogj, che nulla nuoce ad nn individuo la bassezza de’ 03" tali, quando egli sia virtuoso. Ed in fatti, che cosa egli non fece a vantaggio di un istesso suo Liberto, chiamato Melisso, perchè lo conobbe fornito di talenti, ed erudito? Era questi della Città di Spoleto, e benché nascesse libero, tuttavia perla discor»* dia de’ genitori, fu venduto, e sottoposto all’ altrui dominio ; Avendo avuto la sorte di essere educato con ogni cura j ed attenzione, Lib. i. Sat. 6. Non, quia, M., Lydorum quidquid Etruscos Incoluit fines, nemo geaerosior est te ; N ec, quod Avus tibi maternus fuit, atque pa » ternus, Olim qui magnis regionibus imperitarunt Ut plerique solent, naso suspendis adunco Ignotos ; ut me libertino P atre natum. Quum referrc negus, quali sit quisque parente Natus, dura ingenuus : persuada hoc tibi vere, Ante potestatcm Tulli, atque ignobile regnum, Multos saepe viros, nullis majoribus ortas, Et vixisse probo s, amplis et honoribus auctof, fece grandi progressi nelle scienze, e fu data in qualità di Grammatico a M., il quale avendo subito conosciuto il merito letterario del suo Liberto, raddolci talmente la sua situazione, che lo riguardava piuttosto, come tin amico, che come un servo. M. però non permise, che lungo tempo continuasse a portare un tal nome ; lo cancellò subito dal ruolo de’servi, e lo fece tornare al possesso della sua libertà naturale, col nome di Cajo Melisso M.; quindi proseguendo a beneficarlo, e ad avvalorare li suoi talenti, gli procacciò il favore, la grazia, e la protezione dcH’istesso Sovrano, dal quale fu incaricato di ordinare le Biblioteche esistenti nel Portico di Ottavia (1 ), Sveton. de illust. Gram. Cap. ai. Co-, jus Melissus, Spoltti uatus, ingenuus, sedob discordiam Parentum expositus, cura et industria Educatoris sui altiora studia percepii, ac M. prò grammatico rnunere datus est. Cui cum se gratum, et acceptum in modum Amici videret permansit in statu servitutis, praeseritemquc conditionem vcrae origini ante— posuit ; quare cito manumfssus, Augusto et insinuatus est ; quo delegante, curam ordinandarum Eibliothccarurn in Octaviae porticu su scepit : Vedi Lil. Greg. Girai. Hist. Poet. dialog. Arduino in Indie. Anct. Plinii La protezione pòi di M. non era soltanto di parole, e di raccomandazioni, non era nna protezione sterile, ed infeconda. Egli faceva parte ai Letterati delle sue ricchezze, e de’suoi beni. Il lodato Orazio temendo, come già si è di sopra accennato, che . il suo M. potesse allontanarsi da Roma, e andare con Ottavio nelja guerra contro Marco Antonio, e Cleopatra, gli scrive una Ode vaghissima, nella quale ci fa conoscere, che egli era stato arricchito dalla generosità di quello, e glieue mostra cop effusione di cuo* re, e con tenero canto la sua ricouoscenza « », Tu pure adunque, ( dice Orazio ) o mio ca-,, ro M., marcerai sulle navi Liburne,, nella guerra contro Marcantonio, disposto a soggiacere a qualunque periglio di Cesare ? Ed io intanto, che cosa farò ? Senza,, di te, le ore del viver mio saranno affanno* se, e moleste. Dovrò forse assiso nel doice ozio, toccare le corde della mia cetra, e tessere degl’inni ? Ma senza la tua presetiza, senza l’amabile tua compagnia, lamia », cetra sarà dissonante, e la mia voce roca, e spiacente .... Dovrò coraggiosamente se-,, g, u irti, o per le alpestri balze delle Alpi, o sulle vette dell’inaccessibile Caucaso, od anche fino alle ultime spiaggie dell’Occiden* Art. Melissus. Catron Tirabo* schi Stor. della Lett. Itati. » te? E vero, che essendo di debole temperamento la mia risolnzione non potrà recare alcun sollievo alle tue fatiche; ma trovando-,, mi a tc vicino, saranno meno intensi li miei f, timori, e meno penosa la mia angoscia Io dunque affronterò non solo questa, ma. qualunque altra militar spedizione, a solo oggetto di compiacerti, e di mostrarti la mia riconoscenza, e non già perchè divengano più numerosi li miei aratri, perchè le,, mie agnelle prima della Canicola faccian passaggio dai pascoli della Calabria alle tenere erbette della Lucania, o perchè giunf, ga a possedere sulle Colline deliziose del Tuscolo una Villetta, la quale debba estendersi fino alle muta della Città. Io, o mio v M., null’altro desidero, e sono ap~ pieno contento della tua generosa munificenza, che già mi fece dovizioso abbastanza. Epod. i. Ibis Liburnis inter alta navium, Amice, propugnacula, Paratus orane Cacsaris periculum Subire, Maecenas, tuo. Quid nos ? guibus te vita si superstite, Jucunda ; si contra, gravis? Vtrumne jussipersequemur otium Non dulce, ni tecum simul ? et te vcl per A Ipium juga, Non solo in questo luogo ; ma soventi volte Orazio ci avverte de’bene&cj, e delle ricchezze, di cui era stato da M. fornito “ Se il crudo Verno ( ripete egli ) ricoprirà di neve le campagne Albane, allora il tuoPoeta scenderà sulla Marina ; quando poi coannoieranno a vedersi le prime rondini, ed a sentirsi il soffio de’primi zeffiri, allora, o dolce amico M., tornerò, purché,, lo permetterai, a rivederti. Tu mi face>, sti ricco, non già come l’ospite Cala Inhospitalem et Caucasufn, Vd Occidenti s usque ad ultimimi sinum, Forti sequemur pectore ? Roget, tuum labore quidjuvem meo, Imbellii, ac firmai parum ? Comes minore sum futurus in meta, Qui major aìscntes hab:et ; è Libenter hoc, et omne militabitur Bellum in tuae spem gratiae : Non ut juvencit illibata pluribut Aratro nitahfur me a, Pecusve Calabris ante iidus fervidum Lucana mutet patcuis. Nec ut tuperni Villa candens Tusculi Circaea tangat moenia. Satis, superque me òenignitas tua Ditavit, brese, che suole apprestare allo stanco viaggiatore frutta soltanto. Che anzi era tale il di Ini zelo, ed impegno nel beneficare i Letterati, che dopo di averli arricchiti, sarebbe stato prodigo con essi anche di beni maggiori, se li avessero richiesti, e se ne avessero mostrato desiderio. Nell'opere dello stesso Orazio si rinviene il testimonio di una tal circostanza, e quantunque il Poeta parlidi se stesso, tuttavia sembra doversi credere, che lo stesso tenore serbasse con gli altri “ Sebbene le api Calabresi ( soggiunge il Poeta ) non travaglino per mio uso, e vantaggio favi dorati ; sebbene nelle mie botti non invecchi,, il vino proveniente dalle Vigne della Campania, o i pingui pascolali della Gallia non mi producano lane squisite, tuttavia, o M., mercè la grandezza del tuo animo generoso, sta lungi dalla mia Casa la molesta povertà ; e conosco, che più mi da Epist. Quotisi bruma nives Albanis illinet agris ; Ad mare descendet Vates tuus .. te 3 dulcis Amice, reviset Ctim zephiris, si conccdes, et hiruntline prima : Non quo more pyris vesci Calaber jubet hospes Tu me fecisti locupletem »».»»•• / I J 9* •resti, se fossi petulante a chiederti altri beni. Lo stesso Virgilio nelle sne Georgiche, opera composta ad istanza di M., dà bene a comprendere di quante cose egli era a questo debitore, e che l’amore, e l’amicizia, di cui l’onorava davano l’impulso alla sua mente, onde produrre idee sublimi “ O Mecena», te, ( dice Virgilio ) o tu i che sei il mio i, decoro, che con Cagione posso chiamarti « la massima parte della mia celebrità, deh », vieni ad avvalorarmi, e meco trascorri l’incominciato lavoro ; senza di te la mia mente non è capace di stendere un volo subli'me. Properzio quell’aureo, ed elegante scritta re della tenera Elegia di sopra accennata, anch’csso godeva la familiarità, e la protezione di M., anch’esso era stato beneficato^ veniva da questo mcoraggito ad impiegare, ed esercitare li suoi poetici talenti “ O Me . Od. . Quamquam nec C alabrae mella f erutti ape*, N ec Laestry gonia Bacchus inamphora Languescit mihi, necpinguia Gallicis Crcscunt veliera pascuis ; Importuna tamen pauperies abest ; jNec, siplura velini, tu dare dcneges. (a) Georg. Jib.i. e lib.a. cit. -cenate, ( cosi pària il Poeta ) o tu, la-d! t, cui stirpe deriva dal sangue dei Re Toscani, perchè vuoi, che io m’ ingolfi nel vasto pen Jago dell’eroica Poesia ? Le vele grandiose it non sono adattate alla mia piccola navicella Ma io appresi li precetti della vita )s da te, e perciò sulTorme tne, e col tuo }} esempio sono spinto a superarti» «. . Tu t, generoso mio Protettore, prendi le redini dell’ incominciata mia giovanile carrie ra. ( i ) Il Poeta Lucano, benché posteriore al secolo, in ctii vissero Orazio, Virgilio e Properzio, e benché non avesse partecipato delle liberalità di M., tuttavia egli pure encomia altamente la protezione straordinaria, di coi quello onorava li Poeti. “ Virgilio dice y> egli fu quel Poeta, che cantò fra li Po* Life. 3. Eleg, y. M., eques Etrusco de sanguine R cguitl, Intra fortunata qui cupis esse tuatn, Quid me scribendi,tam vastum mittis in aequorl Non surit opta mede grandia vela rati. At tua, Maecenas, vitae pratcepta recepì, Cogor et exemplis tc superare tuis. Molli* tu coeptae f autor cape lorajuventae. n poli dell’ Atisonia le grand’ imprese del fi. glio di Anchise, e che provocò con il poetico stile romano il genio divino del vecchio Omero. Ma quello sarebbe forse restato sepolto sotto le ombre di quelle selve, che fu*,, rono pur anco oggetto del suo canto ; la sua Cetra avrebbe tramandato uno sterile suono, ed esso stesso sarebbe sconosciuto alle Na«ioni, se M. non lo avesse animato con la sua tenera amicizia, e con le sue beneficenze. Ma questo non solo protesse, ed onorò il Poeta di Mantova ; egli avvalorò il genio di Vario a scuotere il palco teatrale con il tragico coturno ; mostrò ai popoli della Grecia, che ancora le corde delle Cetre latine sapevano risuonaie dell’ augusto nome di Giove, ed eccitò, produsse, ed arricchì 1’ italica Lira del Poeta Venosino : 0 M., o decoro, ed onore delPar-,, naso, degno della venerazione di tutte le generazioni, e di tutti i cuori, sotto le ali,, benefiche del tuo patrocinio verun Poe.ta pa-,, ventò le miserie della cadente, e molesta,, vecchiezza. CO Paneg, adCalpur. Pison. vers. at8., e seq. Ijtse per Ausonias jEneia carmina genteis Qui sonat, ingenti qui nomine pulsai olympum, Maeoniumque senem Romano provocai ore } Fersitan illius ncmoris latuisset in umbra, N I Questo favore prestato da M. alle lettere traeva la sua origine dall’esserne egli stesso coltivatore. Che egli fosse colto, ed istruito,e che producesse ancora delle Opere in varj generi di Letteratura non mancano fondamenti per esserne persuasi. Orazio lo chiama dotto nella lingua greca, e latina. Seneca ha lasciato scritto, che egli era fornito di un ingegno grande, e robusto, che avrebbe dato nn luminoso modello della Romana eloquenza, se non l’avesse snervata con la soverchia nata* ralezza. Quod canit, et sterili tantum cantasset avena, Ignotus populis, si Maeccnate carcret. Qui tàmen haud uni patefecit !im in a Vati, Nec sua Virgilio permisit nomina soli, M., tragico quatientem palpita gestu Evexit Varium. Maecenas alta Thoantis Eruit, et populis ostendit nomina Grajis. Carmina Rornanis etiarn resonantia chordis, Ausoniamque Chtlyn gradi is patefecit Horatl s O decus, et toto merito venerabile aevo, Pierii tutela chori ! quo praeside futi Non umquam Vatés inopi timuere scnectae, (O Lib.3.0d.8. Docte sermo nes utriusque linguae. Epist. 19- : Ingeniosus vir ille fuit ( Maecenas ) magnum cxemplum Romanae eloquentiae datar us, nisi tllum enervasset foelici- Sappiamo ancora dal niedesimo autore, che scrisse un Libro intitolato ilPrómcfeo,, Voglio narrarti ( dice Seneca ) ad detto di Mecenate, cioè L’Uomo, che è in supremo grado, ed in una somma altezza di stato vive,, sempre in timori, ed in tempèste a guisa del tempo, che tuona Se mi domandi in qnai libro egli parlò in tal gnisa, ti rispondo, che lo ha detto in quel libro intitolato da esso Prometeo Di più secondo lo stesso Seneca, scrisse altra opera avente per titolo de culto suo » 11 Cenni afferma, che queste due opere fossero scritte da M. in versi, e che il Prometeo era una Tragedia. Aggiunge inoltre, che altra Tragedia intitolata Ottavia è parimenti à quello attribuita. (2) tas : Epist.93. : Habuit enìm, M., ingenium et grande, et virile nisi illad ipse discinxisset. Senec. Epist.i 9. ; Volo Ubi rej erre hoc loco dictum Maecenatis,, Ipsa enim altitudo attonat summa,, Si quaeris, in quo libro dixerit, in eo, qui Promethcus inscribitur. Cenni Vita di M. - : In questo luogo l’autore si è dato caricò di trascri vere tutti li frammenti delle opere, delle quali fu autore M., estracndoli da varj Biografi. Lo stesso ha fatto Lilio Gregorio Gt N a I I delle altre in prosa, e segnatamente dei Trattati concernenti materie di Storia naturale. Imperciocché si rileva da Plinio, che quello fuAutoredi un libro sulle differenti specie delle pietre preziose. ( e da Prisciano, che aveva scr tto una Storia in dialoghi intorno agli Animali, citandosi da quello il dialogo decimo. Di più, secondo Solinò scrisse ancora una Storia delle imprese di Augusto. In fatti si può conoscere dalle Odi di Orazio, che M. aveva tutta la premura, onde fossero celebratele geste gloriose del suo Sovrano, che perciò venisse quel Poeta vivamente stimolato ad occuparsene, che questo si scusasse, dicendo, che non conveniva alla lirica poesia di cantare oggetti gravi, e strepitosi; ed esortando lo stesso M. a scri raldi nel Dialog.4. hist. poet. che possono consultarsi. Hist. Nat. . cumNot.Harduini. Apud Harduin. in Indie. Auctor. lib.i» Plin. Art.M.: M. eques romanus, Augusto gratissimus, cujus res gestas lietcris consignavit, ut ex Solino discimus ejus Dialogorum lib.10. laudai Priseianus lib.i .pag.61.: Vedi Catrou lib. 7. Tom. 19. nelle Note. 9 6 Oltre le snccennate opere in versi compose vere la Storia, che tanto bramava « Cessa di,, stimolarmi, o M., ( scrive Orazio ) a cantare ron le deboli corde della mia Lira,,, oil lungo assedio di Numanzia, o il fiero,, Annibale, o il mar Siciliano rosseggiante di,, sangue Cartaginese, o l’ardita impresa de’ Giganti, li quali fecero tremare la fulgida Regia del vecchio Saturno, debellati quindi dal valore di Ercole, giacché tu stesso potrai, meglio di me, trasmettere alla posterità con unaStoria le battaglie di Augusto,,, li trionfi, ed il numero dei Re dal medesirao soggiogati. Anche Servio è d’ avviso, che M. scrivesse la Storia di Angusto, appoggiando Lib.a. Od. Nolis longa fcrae bella Numantiae Nec dirum A anibaie m, nec Siculum mare Poeno purpureum sanguine, mollibus Aptari Cithar ae modis: N eo saevos Lapithas domitosque Hcrculea manu Telluri s juvencs, unde periculum Fulgens contremuit domus. Saturni veteris ; tuque pedestribus Dices historiis proeliaCaesaris Maecenas melius, ductaque per vias Regum colla minacium i Iettato, e molle del tutto riprova, e per ischerzo imitando deride. Macrob. Satur. lib. a. pag. 1 58. : Idem Augustus, qui Maecenatem suurn noverai esse stilo remisso, molli, et dissoluto, taltm se in epistolis, quas ad eum scribebat, et contro casti gationem loquendi, quam aliis ille seri bendo servabat, in epistola ad Maecenatem familiari plura in jocos effusa subtexuit : Vale, inquit, mel gent rum, mclculc, ebur ex He truria, A da mas super nas, T iberinum margaritum, Cylniorum smaragde, hyaspis figulorum, berylle Porsennae : Vedi il Turnebio Advers. Sveton. in Octav. Art. : Oenus elo~ quandi secutus est Augustus elegans, et temperai uni, vitatis s catene iarum ineptiis, atque Tacito parlando dell’ottimo, e perfetto genere dell' eloquenza, e della forma del discorso, insegna frà le altre cose, doversi sfuggire r impeto di Cajo Gracco, e li belletti di M. Quintiliano ancora riprova nella di lui maniera di scrivere una certa trasposizione di parole, che rendono il periodo lussureggiante, oscuro, e vizioso. Se poi si dovesse dare ascolto al surriferito Seneca, M. sarebbe stato 1 * uomo il piu immorale, e il più cattivo inconcinnitate. .. pari fastidio sprevit, et Cacozelos, et Antiquarios. Exagitabat non numquam in primis M. suum, cujus p«X««, ut ait, cincinnos usquequaque perscquitur, et imitando per jocum, irridet. (i) Tacit. Dialog. de Clar. Orat. cap. 26. Ceterum si omisso opt imo ilio, et perfettissimo genere cloquentiae, eligendo sit forma di tendi, malim hercule Caji Gracchi impetum quam M. ealamistros. Quintil. Instit. Orat.. : Quaedam vero tranigressiones, et lon gae sunt nimis ... et interim etiam compositione vitiosae, quae in hoc ipsum petuiUur, ut exultent, atque lasciviant, quales iUae Maecenatis Sole, et Aurora rubent plurima : inter sacra movit aqua fraxinos. Ne exequias quidem unus inter miserrimos viderem meas quod inter hacc pessimum est, quia in re tristi ludit composi ciò. Scrittore frà quanti sono itati ammessi nella Kepublica letteraria. Con qual fiele non si scaglia contro di quello nella Lettera 1 15, ed altrove ancora nelle sue opere il Maestro di Nerone ? Parlando egli di M. ora scrive : » Tu vedrai adunque l’eloquenza di un Uomo •> ubriaco inviluppata, errante, e piena di lingue Ora attaccando anche li di lui costumi soggiunge “ Quando tu leggerai li suoi scritti, e le parole cosi viziosamente ornate, cosi negligentemente buttate, così poste fuori dello stile di tutti, mostreremo, che non meno li suoi costumi fossero nuovi, depravati, p singolari Seneca Epist.iió.Edit. Lugd.i 5 p. : Quo modo M. vixerit, notius est, qitam ut narrar i nunc debeat. Quomodo ambulavetit, quarti delicatus fuerit, quam cupierit videri, quam vitia sua latere nolut. Quid ergo ? Non oratio ejus aequerite saluta est, quam ìpse discine t us ? Non tam insignita illius verba sunt, quam cultus, quam comitatus, quam domus, quam uxor. Magni ingenii vir fucrat, si illud egisset viarectiore, si non vitasset intelligi, si non etiam in oratione difflueret. Videbis itaque eloquentiam ebrii hominis involutam, et crrantem, et licentiae plenam : M. in cultu suo .' Quid turpius ani ne, silvisque ripa comantibus ? Vide ut alveum lyntribus arcet,vcr * soque vado remittant hortos, .Ma Seneca era troppo invidioso della fama, della riputazione, e delle doti brillanti di M., il di cni splendore ancora traspi* rava chiaro, e vivace nel secolo, nel quale quello viveva, e come Ministro, e Consiglie rodi Nerone, conoscendo, che non aveva potuto, ne’poteva eguagliare le sublimi virtù politiche, di coi andava nobilmente fregiato il Ministro, e Consiglierò di Augusto, ne divenne l’nnico, e il più maligno detrattore. Ter prova di ciò invochiamo 1* autorità di tutti li Biografi all* uno, e all’ altro contemporanei 4 Non ostante però tutto il male, che dice ne’ suoi scritti, di M., Seneca sapeva benissimo, che questo nel tempio della gloria Non statim haec cum legeris, hoc Cibi occurret, hunc esse, qui, solutis Cunicis, in Urbe seraper inccsserit ? Nani edam cum absentis partibus Caesaris funger et ur, signum a di scindo petebatur .... Hunc esse qui Uxorem millies duxit, cum unam habueritì Haec verba tam improbe strucca, tam negligenter abjecta, tam extra consuetudinem omnium posila, ostendunt mores quoque non minus novos, et pravos, et singulares fuissc. Quasi della stesso tenore parla Seneca di Me cenate, ed in questa, medesima lettera, e nella diecinovesima nella nonagesimaterza nella ceutoventi e pc/Lib.x. cap.3. de Providentia.] occupa il posto di un grand’ uomo di Stato, di un eccellente Ministro, di un Consiglierò illuminato, e di un Favorito nou infetto dai vizj abominevoli dell’ avarizia, e dell’ interesse, H quali al contrario avevano ad esso procacciato il possesso di più milioni, estratti con dure estorsioni dal sangue de’ sudditi Romani. Sapeva inoltre, che quello aveva meriti grandissimi, conforme fu costretto a manifestare pubicamente, e in faccia allo stesso Nerone, allorquando, decaduto dal di lui favore, aveva forse cessato di screditarlo, Imperciocché sappiamo da Tacito, che dopo la morte diJJurro, mori ancora, pèr dir cosi, la potenza di Seneca. Allora si accrebbero a carico del medesimo le satire, e le mor* morazioni furono universali per le immense ricchezze, che aveva accumulate, e segnatamente per la grandiosità de’ snoi Giardini, che eguagliavano quasi gl* istessi Giardini Imperiali. Seneca volendo dileguare, se fosse stato possibile, dall’animo del suo Padrone .ogni sinistra impressione, dimandò di essere ascoltato, lo che avendo ottenuto, recitò al suo Sovrano un discorso artificioso, o pipttosto la sua Apologia, nella quale fra }e altre cose, ricordandosi di Augusto, di M., e di Agrippa, e dei meriti politici di questi, disse cosi : Il tuo antecessore A u 6 ust0 Cesare,,, permise a Marco Agrippa il ritiro di Mitilene, e a Cajo M. un ozio pellegrini) nella stessa Capitale. 11 primo, come com-,, pagno d’armi di quel Monarca, ed il secon-,, do come quello, che seppe disimpegnarsi da molti incarichi laboriosi anche in Roma, ricevettero dal loro Sovrano ampie ricom3, pense in vista de’ meriti grandi, di cui erano forniti. Si attribuisce ancora al nostro M. 1’invenzione di scrivere in abbreviatura. Dione afferma, che egli trovasse alcune note Tacit. Annal. Mors Burrhi infregit Senecae potentiam variis cr i mi nat io 1 libili Senecam adoriuntur : tamquam ingentes, et privatum supra modum evectas opes adhuc augeret .... hortorum quoque amoenitate, et villarum magni ficent la, quasi Principem super greder et ur. .. At Seneca criminantium non ignarus. tempus sermoni orat : et accepto, ita incipit. Atavus tuus Augustus Marco Agrippae Mitylenense seeretum, Caio Maecenati in ipsa Urbe velut peregrinum otium permisit ; quorum, alter bellorum socius, allcr Romae pluribus la~ boribus jactatus, ampia quidem, sedpro ingentibus meritis, proemia acceperant. fa). : Primusque M. ad celeritatem scribendi notas quasdam literarum exeogitavit, quam rem, Aquilae Liberti ministerio, multos doaj.it. *o5 per scrivere con celerità, e che insegnasse questo metodo a molti per mezzo di Aquila suo Liberto. 11 Catrou è di sentimento, che tali note costituissero un Trattato per poter scrivere abbreviando le parole. In fatti è indubitato, che la maniera per scrivere con prontezza, e sollecitamente è quella, che istruisce a scrivere col soccorso delle abbreviature, e siccome nel caso, di cui si parla, Dione dice, che M. prirnus cxcogitavit, così pare non possa mettersi in questione, che prima di questo un tal metodo di scrivere era affatto sconosciuto, e che egli ne fosse il primo inventore. Isidoro di Sicilia dice (a) che il poeta Ennio fosse 1’ autore di mille e cento note per scrivere ; che il primo, il quale in Roma facesse un commento di queste note, fosse Tirone Liberto di CICERONE (vedasi); che dopo di questo Persannio, Filargio, ed Aquila Liberto di M. ne inventassero delle altre, e che Seneca finalmente ne ordinasse un numero di cinquemila. Riguardo però ad Aquila Liberto di M. non sembra giusta l’asserzione delEaccennato Isidoro, attribuendogli E invenzione di alcune note per scrivere, giacché abbiamo rimarcato da Dione, che il sudetto Liberto di Lih.i.orig. cap.aj.' l ioó M. non ne fu inventore, ma che fu il propagatore del ritrovato, e dell* opera del suo Padrone, e che esso stesso, istruito da questo, ne istruisse degli altri. Dallo stesso Dione sappiamo (i) ancora, che M. recò ai Romani un altro rimarchevole vantaggio, qnale Fu quello dei Bagni delle acque calde. Dal che si ravvisa, che questo specifico salutare, ed alla umana salute profittevole, non era in Usanza in Roma prima dell’ epOcà di M. ; cosicché questo, il qnale, secondo le osservazioni già fat* te, era intelligente della Storia naturale, avendone in prattica sperimentato gli effetti benefici, ne introdusse fra li Romani l’uso, e l’esercizio. ( a) Mentre M. passava nel ritiro le ore ( 1) fjOC.eit. Idem primus (M.) RomaeN atatorium aquis calidis refertuminstitu.it. P linio attribuisce a M. V introduzione nelle mense de’ figli lattanti dell'Asina, li quali in quell epoca erano preferiti alli Onagri, o Asini selvatici. Aggiunge inoltre, che il gusto per questa sorte di pietanze svanì con la sua morte. Ecco il testo di Plinio lib.8. cap.46. ‘ dd mutar um maxime partus, aurium referre in his et palpebrar umpilos ajunt: Pullos earum epulari M. institu.it, multum eo tempore praelatos Onagris. Post eum intcriit authoritas saporis. della snà vita m comporre delle opere io prosa, ed in versi, in presentare ai Romani, ed alla società delle tifili invenzioni in proteggere, animare, e arricchì re li Letterati, ed in promuovere il progresso della Letteratura; Augusto, che in tutti li suoi bisogni non mancava di consultarlo > gli diresse una lettera. Dal contesto di questa si rileva, che quello era lontano da Roma, e c he se ne stava fra le delizie della sua Villa Tihurtina con la dolce comitiva dé’ Dotti, e fra il soave concento delie Cetre de’ m gliori Poeti. Augusto aveva bisogno di un Segretario, e per mezzo di quella lettera richiese il Poeta Orazio, che stava presso di M.. “Prima poteva da me stesso, dice Angusto, scrivere delle lettere ai miei amici,ma ora.o mio M., che,, sono occupatissimo, ed infermo, bramo, che mi mandi il nostro Orazio. Io sò qnanM to vive contento presso di te, ma spero,,, che lasceràlesue mense squisite, e verrà nella mia Regia per ajutarmi in qualità di » Segretario.fi) (Sveton. in Vit. Horat. : Ante ipse sufficiebam scribendis epistolis amicorum ; nunc occupatissima s, et infirmus, Horatiam nostrum te cupio adduccre. Vcniet igitur ab ista parasitica mensa ad hanc Regiam, et aos in epistolis scribendis adjuvabit. Non sappiamo con sicurezza, sé le brame di Angusto in ciò venissero appagate. M. non avrà mancato di rappresentare ad Orazio il grande onore, che gli si voleva compartire con quell’impiego luminoso, ma il Poeta, che amava la calma, che per lo più, lungi dallo strepito della Capitale, e della Corte ^ desi» derava di ragionare con le Muse, o presso le onde sussurranti del fonticello di Blandnsia, o sotto le ombre taciturne del boschetto di Tiburno, avrà mostrato tutta la renitenza di accettare un tanto onore, e per disimpegnarsi dalle richieste del suo Sovrano. Sebbene adunque M. si fosse ritirato spontaneamente dai grandi affari della Corte, tuttavia Augusto continuava a rispettarlo, e a deferire in tutto, e per tutto alli suoi consigli. Ma questo rispetto, questa amicizia, questa fiducia, questa uniformità di pensieri fu sempre eguale fra l’uno, e l’altro ? Se dobbiamo seguire 1’ autorità di Dione sembra esserci stata un’epoca di tempo, nella quale un adultero amore sconcertasse quella bella armonìa, che per tanti anni era stata fra di essi inalterabile. Terenzia moglie di M. era una donna arricchita dalla natura Sveton.Vixit plurimum in se eessururis sui Sabini, aut Tiburtini, do musane ejus ostenditur circa Tiburniluculum : V edi il de Sanctis Dissert. sulla Villa di Orazio « a9 tìi tatti li vetti, e di tutte le grazie seducenti, che sogliono distinguere il bel sesso. Si suppone, che Augusto, il quale aveya occasione di vederla sovente, come sovente soleva vedere il marito, ne divenisse amante, e che Terenzia non fosse insensibile alli di lui teneri sentimenti. Si suppone inoltre, che la fiamma di quello si rendesse cosi vivace, che Roma ne mormorava ; che per involarsi dalle mormorazioni, e dai rimproveri de’ Romani, se ne andasse nelle Gallie, portando con se la detta Terenzia. Soggiunge Dione, che da questi amori nascesse il motivo di quella freddezza, che si ravvisò per qualche tempo tra M., ed il suo Sovrano, e che per lo stesso motivo non fosse quello lasciato da questo Prefetto di Roma, quando intraprese il sudetto viaggio. Sentiamo come parla lo Storico. Vedendo Augusto, che la sua lunga permanenza nella Capitale riusciva a molti molesta ; che se,, puniva alcuni colpevoli ; si sarebbe fatti altrettanti nemici ; che se doveva passare,, sotto silenzio i loro delitti, sarebbe stato costretto ad offendere esso stesso la nuova i. Costituzione, e a ledere l’osservanza delle sue leggi, stabili, ad esempio di Solone, di andare lungi dalla patria. Vi furono peio alcuni, li quali sospettavano, che egli,, si portasse nelle Gallie, a cagione di Terenzia, moglie di M., affinchè, stanti ti le voci diverse, che si divulgavano pe Roma, de’ loro amori, potesse in questo viaggio vivere con essa lontano da ogni ru« more. Lasciò in qualità di Prefetto,, di Roma, e dell’ Italia Statilio Tauro, giacché Agrippa era stato inviato nella Siria, e M. era già con esso in qual*,, che disgusto per motivo della sua mo» glié (0 • Ad onta però dell’autorità di qnesto Scrittore non pare abbastanza provato il fatto, di cui si parla, e che narra riguardo agli amori di Terenzia, ed Angusto ; al viaggio nelle Gallie a tale effetto intrapreso; ed ai disgusti di quello con M.. Imperciocché Dion.. Cu/n enim diuturna ejus in Urbe commoratio molesta multis esset, ac multos, qui contra leges deliquissent plectens offender et, multis parcens, eogeretur suas ipse leges praevaricari, pere « gre abire, Sblonis exemplo -, statuii. Fuerunt qui, propter Terentiam Moecenatis Uxorem, eurn discedere suspicarentur, ut quoniam multi Homae de ipsorum amore sermones per vulgus darentur, in peregrinatione sua citra om nem rumorem ejus rei cùm ea vivete posset. Deinde Urbis, et Italiae gubernatione Tauro injuncta, nam statim Agrippam. in Syriam mite rat ; e rat autem ei M. propter Uxorem minus j am gratus. Dione non parla di questi pretesi amori, come di un fatto sicuro. Asserisce semplicemente, che alcuni sospettavano, che correvano per Roma delle Voci diverse ; ma questi sospetti, e queste voci non valgono ragionevolmente a costituire una prova tale, che non possa, nè debba credersi altrimenti ; tanto più, che 10 stesso Diohe, premette il motivo positivo, per cui Augusto volle allontanarsi da Roma. D'altronde Svetonio, Tacito, Vellejo, ed altri antichi Biografi di vaglia, hanno parlato, e scritto chi più, e chi meno della vita publica, e privata di Augusto, e niuno ha riferito, e neppure accennato li pretesi di lui amori con la moglie di M. É vero, che 11 detto Svetonio non omise di narrare, che quello non fu esente da’vizj, e che fra questi non esclude l’adulterio, ma non ha mancato di aggiungere, e di prevenire la posterità, che questi Vizj deturparono soltanto i giorni della sua prima giovinezza, e che se commise degli adulterj, non già cadeva in questo disordine per libidine, ma per discoprire, per mezzo delle mogli altrui, l’animo, e li segreti de’ suoi nemici, La sua giovinezza ( scrive Svetonio di Augusto ) fu sottoposta all’imfamia di vari difetti . Gli stessi suoi,, amici non negano, che fosse dedito agli,, adulterj ; ma in ciò lo scusano, dicendo, che questa sua condotta non era l’effetto di una passione disordinata, e libidinosa, ma O 2 aia,, che lo faceva per discoprire più facilmente l'animo de'snoi nemici per mezzo delle loro i, mogli fi). Ora se Angusto commetteva degli adulterj, non già per libidine, ma quasi direi, per politica, e per quel punto di politica, che nelle testé riferite espressioni si è rimarcato, ciò non poteva aver luogo con Terenzia moglie di M.,, sulla sperimentata fedeltà del quale non poteva quello, nè giammai aveva potuto sospettarle i Inoltre Svetonio riferisce, che l’epoca di alcuni vizj del medesimo Augusto fu la prima sua gioventù, inconseguenza resta escluso quel tempo, in cui si suppone l’amorosa passione con Terenzia, ritrovandosi egli allora in età di circa anni quarantacinque fa). Meno prova ancora, che partendo perle Callie, non lasciasse Prefetto di Roma M., perchè era con esso irritato a motivo degli amori 6 udctti. Imperciocché si è di già osservato, che questo, elfettuato il novello Sistema politico della monarchia universale In Octav. Prima \uventa variar um dedecorum in/amiam subiit, >. adulterio guide in exer.cuisse, ne amici guiderà negant ; excusuntes sane, non libidine, sed ratione eommissa, guo facilius consilia adversariorum per vujusque mulieres cxquircret. (3) Dion. loc. cit. Digitized by Google n3 si ritirò dalla Corte, e da’grandi affari, nè curò impiego veruno. Si è osservato altresì, che nella nuova Costituzione dal medesimo modellata si era parlato del rimarchevole impiego di Prefetto di Roma, e si era stabilito per massima, che questo doveva essere di più lunga durata, e che dovesse addossarsi a persone di specchiata probità, e consolari. Come dunque può recar meraviglia, se Augusto allontanandosi da Roma, per andare nelle Gallie, non nominasse Prefetto di Roma Mece*« nate ? A llora quasi tutte le leggi della succennata novella Costituzione erano in una piena osservanza. Di più l’assertiva di Dione sù tal punto storico, sembra, che venga del tutto smentita da Cornelio Tacito, il quale a chiare note dichiara, Ghe Augusto per tutto il tempo dei torbidi, e delle guerre civili, lasciò sempre Prefetto di Roma, e dell'Italia M., e che dopo di essersi sollevato alla Sovranità impiegò soltanto personeConsolari a coprire questa carica,, Del restai dice Tacito ) Augusto, in tempo delle Civili discor*,, die, nominò alla Prefettura di Roma, e dell’Italia CajoCilnio M. dell'Ordinò de’Cavalieri. Divenuto però Sovrano asso-, x luto, addossò questo impiego a Soggetti Consolari . Il primo, che venne rivestitedi questo potere, fu Messala Corvino. ài4,. . il secondo S'tatilio Tauro quindi fu eletto Pisone (O* Dopo ciò, che cosa può addursi di più convinceute per conoscere, che se Augusto, partendo per le Gallie,non lasciò M. Prefet. todi Roma, fu per tntt'altra cagione di quella immaginata da Dione ? In quell’epoca per legge, e principio fondamentale della Costituzione, dovevano rivestirsi di tal carica persone Consolari ; M. era semplice Cavaliere Romano ; non poteva dunque esercitarla, senza ledere l’ordine, e l’integrità della Costituzione medesima ; e siccome esso stesso era sta* to Fautore della Legge, cosi quantunque Augusto lo avesse voluto decorare della Prefettura anche in tali circostanze, T averehbe francamente ricusata, come incapace di mettersi in contradizione co’suoi principi, Comunque sia però, ed ammessa ancora laveria tàdel racconto di Dione, li pretesi dissapori fra M. ed Augusto dovettero essere Anna!, lib. 6. cap. 3a. Cetetum Au,gustus bellis civilibus Cilnium Maecenatcm equestri s Ordinis, cunctis apud Romani, atque Italiani praeposuit. Mox rerum potitus, ob magnitudinem Populi, ac tarda legum auxilia, sumpsit e Coruularibus, qui coerceret serviti a .... primusque Messala Corvinus eam potestatem accepit .... Tum Tau rus Statili us. .. Dein Pis »* 1 et di poco momento, e passeggeri, sapendo da Plutarco, che quello nel giorno suo natalizio offriva sempre in dono a questo una Tazza .,, Cesare Augusto ( dice Plutarco ) riceveva ogn’anno da M. in dono una Tazza nel giorno suo natalizio. Ma finalmente M. dopo aver veduto p ratticamente, che le sue fatiche, le sue ve» glie, li suoi lumi, e la sua politica avevano formata la felicità, di Koma, e dello Stato ; che il suo Padrone, o piuttosto il suo Amico era divenuto il più giusto, ed il piu potente de’ Monarchi; che le sue liberalità, ed il suo zelo,e la protezione accordata alle lettere, ed ai Letterati avevano dato un favorevole impulso al progresso dello spirito umano, del genio della letteratura, e del buon gnsto, M., dissi, doveva anch’egli offrire l’ordinario, e indispensabile tributo alla natura. Se è vero, se è possibile ciò che Plinio il Naturalista suppone, negli nliimi tre anni della sua vita, fu quello sottoposto ad una malattia di tal carattere, che il sonno non chiuse mai le sue luci per tutto quel non breve spazio di tempo ; che ad onta de’mezzi li più efficaci, e potenti, che furono messi in opera Apopht. Princ. et Reg. Apopht. nltinj. Cattar qui primus Augustus ett cognomina j*> tus .... a M., cum quo vitam agebat, yuotannit in natalieiit dono acoipiebat pateram. I ài6 per giovargli, fosse costretto a vegliar sempre, ed a soffrire più sensibilmente li no)osi effetti di una febre continua, dalla quale, secondo lo stesso Autore, sembra, che fosse attaccato ('i). ' Per l’esame di questo fatto da Plinio riferito, abbiam creduto di riunire alcune riflessioni in una breve Discussione uell’Appendice dell’Opera, alla quale rimettiamo il Lettore. Intanto, proseguendo la nostra narrazione, possiamo asserire, che M. neH’nltimo periodo della sua vita fu sottoposto a delle fisiche indisposizioni, delle quali si doleva con li amici più cari, e segnatamente eoa Orazio. Questo Poeta riconoscente, e sensibile si tapinava all’eccesso della peno6y» situazione del suo amico, del suo benefattore, del suo tutto, e procurava di consolarlo con l’espressioni della più tenera amicizia, animato dal dolce, e mellifluo suono della sua Lira O Mecenate ( gli scriveva Orazio ) o mio sublime ornamento, e sostegno delle mie sostanze, perchè mi rattristi con le tue querele ? Non >, piace nè a me, nè agli Dei t che prima della mia debba distruggersi la tua esistenza. Ah! se la Parca crudele sarà più,, sollecita a troncare lo stame della tua vita, che è porzione della U)ia, come io potrò y, restare superstite ? Si > o mio caro M., benché tn volessi precedermi, pure insieme entreremo nel cammino dell*éternità; nè mai potranno distaccarmi dal tuo,, fianco nè le vampe dell'ignivoma Chimera, », nè le cento braccia del mostruoso Gigante»,, se tornasse sulla terra. È scritto già nel », libro de’destini, che io, il quale vissi eoa te, debba con te trapassare egualmente, c i, che un istesso giorno debba segnare il ter», mine della vita di ambedue. i. Avvicinandosi l’ultima ora della sua mortale carriera. M. fece il suo testamento, e volendo mostrare al Publico, ed alla posterir Od.. • ’ Cur me querelis exanimas tuis ? Nec Dis amicum est t noe mihi, te priut Obire, Maecenas, mearum Grande decus, columenque rerum. Ah ! te meae sipartem anitnae rapii Maturior vis, quid moror altera, Nee carus aeque, nec superstes Integer ? Ille dies utramque Ducet ruinam. k. \ Utcumque praecedes, supremum Carpere iter comites parati. Me nec Chimaerae spiritile igneae, Nec si resurgat centimanusGyas • Divellet unquam : sic potenti Justitiae, placitumque Parcis, r tg là, .che tra esso > ed Angusto / vi era passata un'amicizia sempre eguale, e costante, o che se in qualche occasione venne alterata, non ebbe una tale alterazione, che una durata pià piomentanea di una elettrica scintilla, lo Ì6tir lui Erede de’suoi beni con il peso spontaneo ài alcuni Legati agl’altri suoi Amici, e Letteralir^.i _>, Siccome poi il Poeta Orazio più d’ogn’alti Q lo aveva cousolato, ed assistito ne'giorni della sua infermità, cosi a questo volle consagraxe, per dir cosi, Teatreme sue voci, e dare l’ultimo pegno della sua beneficenza, raccommandandolo in maniera speciale al suo Monarca,, Ti raccommando, o Cesare, Orazio Flacco, come un’altro me stesso (a). ( i) Dion. Lib. $5. Haec in causa fuere cur vehementem lituani M aecenatis mors Augusto afferret,quo ea e(iam accessit, quoti M. haeredem eum nuncupavit, ac praeter mitiima quaedam, in e)us pot estate reliquie, si velie! Amicis suis quaedam. dare ._ Svet, in Vif. Ilorat. M. quantoper è eum. ( Horatium ) flilexerit, satis testatur ilio Epigrammate : Ni te visceri.bus meis, Horati, Plus \am diligo, tu tuum Soclalem N inaio videas strigosiorem, Sed multo magie extremis judiciis, tali ad Augustum elogio-. Horatii Fiacri, «t mei# esto raemor. Mori conforme accennammo ancora nel Libro i., cinque anni prima dell’Era volgare, ventitré dopo la battaglia di Azio, epoca, in cui Dione stabilisce il principio dell’Impero Romano, e nell’anno 746. della Fondazione di Roma. Egli morì senza successori. Risulta ciò chiaramente, e dal testamento di sopra accennato, e dall’ uniforme testimonianza di tutti li Biografi, che hanno di esso parlato. È sebbene ne’ tempi alla sua morte posteriori abbiano vissuto altri Soggetti aventi il nome diM., tuttavia non può dirsi. nè costa, che fossero discendenti di quello, e che avessero col medesimo relazione alcuna di parentela. Si trova sotto l’Impero di Vespasiano un Publio M. Olimpico, di cui si conosce il solo nome, inciso in una base grande, e quadrata disotterrata in Roma presso l’Arco di SettimioSevero ; (a) parimente si conosce il solo nome di un M. Elio. Nel Regno dell’Imperatore Gordiano il giovane si vede figurare in Roma un per (0 Dion. Meibom. loc. cit. : Sub Vespasiano vixit Publius M. Olimpicus ; ejus memoria super est Romae in basi marmorea grandi, et quadrata ad Arcum Septimii Severi effossa, v Gruter. sonaggio ragguardevole chiamalo M., conforme rilevasi da Giulio Capitolino ( O, e da Erodiano ('a) ; ma T origine di questo è involta nelle tenebre istesse, in cui trovansi e l’Olimpico, e l’Elio, e non può neppure congetturarsi, che avesse un qualche rapporto col nostro Cajo Cilnio M.,. J/annunzio funesto della di lui morte fu un ;l. i Curtia.j.L. Prapis Cui pars dimidiahujus / Moni menti concessa est ab Ma le sue virtù rifulsero con luce brillante, allora appunto, quando Ottavio divenne assoluto monarca dell’universo. Che coija non poteva pretendere, che cosa non doveva sperare, quali posti luminosi -, quali onori, quali distinzioni ? Eppure quello, che in tutte le sue operazioni aveva per oggetto soltanto il benèssere della Patria, e la felicità de 5 suoi simili, nulla volle per sa nullà curò, e quésto nobile disinteresse, r3ro nella Storia de’ secoli, lo accompagnò fino alla Tomba. Amò le Lettere, che coltivò esso stesso, protesse, animò li talenti, e fù prodigo delle sue liberalità colli Dotti ; Affinchè poi le scienze salissero a qual grado supremo, in cui si viddero al tempo di Augusto, fece si, che questo secondasse il suo Genio • Angusto lo secondò in fatti con tutto il calore, e con zelo, ed iVirgilj,iProperzj,gliOrazj, liTibùllMiLivj, e tanti altri spiriti sublimi illustrarono la prima epoca del gran’ Impero Romano, arricchirono il regno della Letteratura, e ferero tanti vantaggi alla Società ; perciò Cajo Ciluio M. fu amato da tutto il mondo, la sua riputazione è passata fino alla più lontana posterità, ed è qaasi estesa, quanto quella dello stesso Augusto. (O Tillemont. Histojr. des Emper. Catrou Tom.i9.Lib.7. APPENDICE ALLA STORIA DI CAJO CILN10 M. t GIARDINI IN ROMA AL MEDESIMO SPETTANTI DISCUSSIONE. Insiste nella Regione Esquilina dell'antica Roma un locale, in cui venivano sepolti li cadaveri delle genti plebee : Essendosi riconosciuto col progresso del tempo, che da questo luogo s’ inalzavano delle putride esalazioni, nocevoli alla salubrità dell’ atmosfera, ed alla salute de’ Cittadini, Augusto lo fece nettare, onde depurar P aere, ed adornare insieme la Città di edifizj. > 11 sudetto locale appellavasi Puliculi, o perchè per antica costumanza le sepolture consistevano in pozzi, o perchè ivi si putrefacevano li cadaveri, conforme nota il Pomey “ Minutae vero plebis, mancipiorumque sepulchra extra portam Esquilinam Visebantur, quem locum. Puticulos, vel a puteis, P ti6 inquosconjiciebantur, vel a putore cadèveroni vulgo appellabant. (ij Lo stesso afferma l' erudito Alessandro Donato sull’autorità di Festo “ Cnm in campo Esquiiino ( egli dice ) extra Urbem plebs humaretur, un3, de Populus Romanus odoris, atìt coeli gravitate laborabat,Augustus locum expnrgavit, Urbemque aedificis auxit, ornavitque, Puticuli antea locus appellatns, quod vetustismum genus sepulturae in pnteis fuerit, et, ut ait Festus, dicti P liticali, quod ibi cadavera putrescerent. Quivi scrivé Orazio poc’anzi solevano trasportarsi su,, vile cassa li cadaveri de’ schiavi, e de mi-,, serabili, dopo esser stati rimossi dalle loro ti anguste, e misere celle, e qui sorgeva la,, tomba comune alla plebe meschina. Hoc prius angustis ejecta cadavera cellis,,, Conservo, vili portanda locabat in Arca ; Hoc miserae plebi stabat comune sepulchrum. Questo luogo pertanto, che formava una specie di Cimiterio di Roma, stava fuori della Città, giacché era generalmente vietato di De Funeribus. De Urb. Rom. Vedi il Turnebio AWers. lib. 5. cap. 6. 11 Minutolo Rom. Antiq. Dissert. 6. de Sepulchris, ed H detto Pomey Satir. seppellire li cadaveri dentro le mora ; ed era destinato, come si è accennato, per la qilebe soltanto. Le tombe de’ Re, degl’ nomini illustri, e delle doane di nascita ragguardevole venivano collocate nel Campo Marzo .che stava parimenti fuori della Città, secondo la testimonianza di Appiano. e di Strabone presso il rife rito Pomey. Dopo però, che da quella Regione furono tolte le sepolture plebee. e fu nel recinto di Roma racchiusa, vi si inalzarono numerose abitazioni, e vi fece ritorno 1’ amenità, e Paria salubre “ Postea vero ( soggiunge il,, Donato ) quam amota sunt sepulchra, rece-,, ptusque intra Urbis ambitus, loci amoen nitatem, tectorumque frequentiam secuta E’ nota su di ciò la Legge delle XII. Tavole. Hominem mortuum inUrbe ne sepelito, neve urito : Può vedersi il lodato Minutolo, il quale nella cit. Dissertazione ne farla con critica, ed erudizione. C 2 ) Loc. cit. : Locas ad sepulturam o rnatissimus extra Urbem fuit Campus Martius, Appiano teste, qui scribit, selos ibi Regcs, horninesque illustrissimo sepelùi consuevisse, non tamen sine Senatus decreto ; idque Strabo confirmans locurn illum fuisse Romanis maxime sacrum ac venerabile m, ideoque pracstantissi morum virorum, ac joeminarum monumenta ili fuisse collocata. P 2 est nova coeli salubri'tas .( i) .Ora poi ( sogli giunge anche Orazio ) che dalla Regione Es« quiiina sono state rimossfe le tombe, hè più si osservano sii di un infontie campagna ii le ossa spolpate degli estinti, vi si gode un,, ameno diporto sotto un cielo salubre. m Nunc licet Esquiliis habitare salubribus, atque Aggere in aprico spatiari, quo modo tristes Albisinformem spectabant ossibus agrum(a ) Porzione di quel terreno fu donato da Augusto, mediante anche un decreto del Senato, al suo M., il quale vi fece sorgere in seguito quc deliziosi Giardini, la di cui celebrità è giunta fino a noi, secondo la testimonianza del Marliani,del riferito Minatolo,e di Samuele Pitisco Cum igitur ( dice questo ), tem. Abbiamo osservato nella Storia di M., che esso fu il primo ad introdurre in Roma.!’ uso de’ Bagni caldi ; Ora essendo incontrastabile,che li suoi Giardini, e la grandiosa Abitazione in essi esistente, e di cui si parlerà fra poco, dovessero contenere tutti Art. Hort. M. Lib.4.. a3i gliagj, che sa immaginare l'umano raffinamento, e la voluttà, cosi non sembra fuori di probabilità, che quello qnivi stabilisse li nnovi Bagni, eihequivi ne facesse sperimentare li primi vantaggi, prima} Jamdudum apùd me est. Eripe temorae. Fastidiosam desere copiam, et », Molem prepinquam nubibus arduis : 0 matte mirali beatae,, F umum,^et opes » strepitnfeque - Romae. Il Palazzo, o la Tórre di M. esisteva tuttora ai tempi di Nerone. Questo folle, ed insensato Monarca, dopo aver dato l'ordine ferale di metter fuoco alla più bella, e vasta Città del Mondò,' alla Sede del suo Impero, non fece in essa ritorno, se non quando, fu prevenuto, che 1’incendio si avvicinava alla sua Regia, che era stata dal medesimo ampliata fino al Palatino, ed alti Giardini di M.. Nero, scrive Tacito, non ante in Urbetn regressus est, quam domiti ejus, qua Pala V Eib.3. Od.ao.» tinnii et Maecenatis hortos continuaverat, ignis appropinqnaret. Rientrato quel Tiranno in Roma, sen’ corre ai Giardini di M., e sale nel luogo più eminente della Torre sopradetta. Quivi rimira con occhio insensibile, e truce’ii vortici delle fiamme, .che distruggono la sua Capitale, ed ascolta a sangue freddo li gemiti, e le strida degl’ infelici abitanti, che periscono. Allora compiacendosi dello spettacolo a• C l ) Il Pitisco, fondato su di un passo di Tacito, mette in dubbio il fatto narrato da Svetonio, e dagli altri riferiti Autori. Egli suppone, ebe, secondo il detto Annalista, venissero distrutte dalle fiamme e il Palazzo di Nerone, e la Casa di M., e li Giardini, e il Palatino, e tutt’altro, che intorno a questi luoghi esisteva, cosicché in tal c$so non avrebbe potuto quel Monarca cantare l’incendio di Troja sulla Torre Mecenaziana. Neronem ex Torri M. prospectasse,(dice Pitisco^ iisdera pene verbis repetunt P.Diaconus &c. Tacitus dubium fecitutrumque. Non Urbem eniiq is tantum, sed domum etiam ipsam M.,, tis, et hortos, et Palatium, et cuncta circum » l°ca eodem momento a Neronis incendiario,, igne,sed ipso absente,hausta commemorala) Non sembra però che Tacito accenni la di Loc.cit. Art. Turris M.. •trazione delli Giardini di M,, e suo Palazzo annesso ; racconta semplicemente, che quando Nerone seppe, che le fiamme dell’ incendio si avvicinavano alla sua Casa fece ri-» torno in Roma; che non ostante, la rapidità di quelle non potè ritardarsi, e fu distrutta anche la sna Casa, e tuttoció, che vi stava intorno. “ Eo in tempore f narra Tacito ) Nero Antii agens, non aute in Urbem re» gressus est, quam domili ejus, qua Palatium, etMaecenatis hortos contjuuaverat,,, ignis appropinqua ret ; neque tamen siati jjotuit, quin et Palatium, et Domus, et cuncta circuiti haurirentur.Qui si parla del Palatino, e del Palazzo di Ne» rone, e con l’espressioni, cuncta circuru haurirentur, pare che si voglia indicare tuttoció, che stava intorno all’uno, e all’altro. Ora la magnifica Abitazione, e li Giardini di M. erano, come si è detto, nell’Esquilino, e benché confinassero con la Casa Neroniana, tuttavia pare, che non possa con sicurezza dedursi, che contemporaneamente all’ incendio di questa venia» serodistrntti ancorali sudetti Giardini conTan» nesso Palazzo; in tal guisa non si troverà in contradizione l’autorità rispettabile del detto Annalista con quella egualmente rispettabile dello Scrittore delle Vite de’ primi dodici Imperadori ; tanto più che anche quello accenna il Annal lib.i5. cap.àq. fatto narrato da questo, come si vede nel tev sto seguente: Sed solatinm Populo exturba-,, to, et profugo Campum Martis, et monuraeti-,, taAgrippae, hortos qnin etiam suos patefecit. . pretiumque frumenti minutum. Quae quamquam popola ri a in irritino cade-,, bant, quia pervascrat rumor, ipso tempore,, flagrantis Urbis inisse enm domesticam scenam, et cecinisse Trojanum excidium. Giacomo Lauro ammettendo, che la Torre, cd il Palazzo di M. fosse una stessa cosa, ne fa una elegante descrizione, dicendo, che era un meravglioso lavoro ripartito in quattro Piani l’nnoall'altro superiore, sollevandosi in alto 3 guisa di Torre ; dico ancora, che la sommità della Fabbrica termina' va in un Teatro, dal quale non solo poteva godersi l’amenità de’ sottoposti Giardini, ma eziandio l’ampiezza di tutta l'immensa Capitale del mondo. Non piace però al riferito Pitisco il sentimento del Lauro, e degl’altri, che pensano come questo, supponendo, che non vi siano prove confacenti “ Sunt qui, dice il Pitisco, inter quos Jacobns Lanrus qui Domunì Maecenatis cum Tnrri uuam, eamdemque faciunt. Fuisse enim, ajunt, Do- Splend. Ant. Urb.Rom. apu’d Pitiscum, V„nm Malcerti. admirabili Vtraetorfl spartitam quatoor ordimbos, et plamt.ebus, ^ una super alte.an. in altum ad motomTur ris excrescentibus, c«,us fast,g ; um dearne bat inTheatrnm, nnde pataer.t »djject«, non tantum in hortorum amoemtatem, tonus Urbis amplitudine®. Atqne et.am m, e am formam aLauro depingitur. Verno un’ de illi haec habeant, me quidemlatet .( i j ’ Ma se questo dótto Autore del Lessico delle Romane antichità dubita della realtà d, ciò che asserisce il Lauró relativamente alla materia struttura dell’abitazione di M., si pi forse con esso andare d'accordo, ma se p. de che la Torre, e la detta Abitazione fos due fabbriche diflerenti,pareche voglia opporsi alla comune Opinione, ed ancheall autori a sopra accennata di Orazio. In fatti nói t tede» 2 i»,»««> Poca, che piando MPAb, a» De di MecenUe, e facendo uso dell espiessiom, ora di alta doma, ora di molem F c pinquam nw*ibu.s arduis ( i), descrive brevemente, e conoscere, che l’altezza di M»clla era a gntsa di Torre sublime, che si avvicinava alle nubi 1, M. Tnrris Maecenatiana ("dièc quello) cognominata est, vel maxime halosi Neronis,,, et Urbis incendio celebrata. .. quaedam vestigia extare sunt ex Antiquariis Romae, qui asserunt. Questi avanzi, secondo il Pitisco, sono da alcuni ravvisati, in qnel monumento antico chiamato Torre Mesa, che si trova scendendo per quella parte del Quirinale, che risguarda il Foro di Nerva„Hoc scio, descenu3, ris hodie a Colle Quirinali, qua is Forum Ner», vae’prospectat.Turriscujusdam ruinas,et rudera etiam none monstrari; quam T*>rre Meta Romani vocant, et partem domus, sive i, Turris Maecenatianae fnisse volunt. Biondo Flavio scrive, che a tempo, in cui esso viveva, la sudetta Torre esisteva quasi intiera, e che per sincope era chiamata Mesa in vece di Mecenaziana » Aggiunge inoltre,che in quella contrada, in cui si vedeva, era fama costante, che quella fosse la Torre esistente ne’ Giardini di M., e sulla quale Nerone rimirò l' incendio di Roma ; Ecco le parole del lodato Biondo : “ Eadem in Esquiliarum paru te, qua ex eo monte prospectU6 est in depressam Urbis partem, Hortorum Maecenatis visuntur reliquide Extatque pene integra Tnrris, ex qua Svetonins Tranquilla Net, ronem scribit spectasse Urbis incendia in, et . .o t, in scenico habitn decantasse .Qnam Turrim vulgo nnnc vèrbo. .. syncopato Mesam prò Maecenatianàm appellant. .. Nec est,, in ea Regione foemelia, quae quid fuerint il lae ingente* ruinae interrogata, non dicat, eam fuisse Turrim, ex qua Nero crudelis Urbem incendio flagrantem, ridcns, gaudensque spettavi t. Al contrario il Pitisco, ed il Donato sono di avviso, che il Biondo, e li suoi seguaci abbiano su di ciò preso un equivoco EQUIVOCO GRICE ; giacché la sudetta Torre Mesa non esiste nell’ Esquilino, ma piuttosto nel Quirinale. Aggiungono inoltre, che le vestigia di quell’ antico monumento dovevauo e ; 6ere, o di un Tempio dedicato al Sole dall' itrperarore Aureliano, o di una Curia, o piccolo Senato fabbricato sul Quirinale da Eliogabalo per le donne, acuì egli fece presedere la sua Ava chiamata Mesa, e la sua Madre Saemi ; conforme risulta da Lampridio nella vita del detto Monarca ; dice di più il Donato, che nello stesso luogo potevano esservi ancora, e la Curia succennata, ed il Tempio del Sole in torta delle congetture, di cm égli fa uso, ragionando in tal guisa In hortis Coiumnensibus marmorei ae~ dificii pars exurgebat vulgo Maesa jam dira* ta. Biondo* Turrim Maecenatis falso nuncu>, pat.Ubi enim hic Esquiliae,etNerouiaui& tae (i) Blond.Flav.delnstaur.Kom.lib.i^Art.xoo. dis ardens in conspectù Rotila ? Àlii partem,, templi Solis pronunriant, qnod ab Ameliano, auctorc Flavio Vopisco, extructum est ad eam formam, quam viderat in Oriente Quid si aedificium illud partera Senaculi, seu Curiae dicerem, quam Ilcliogabalus in Quirinali mulieribus extruxit ad conventus habendos, quibus avia ipsins,, M lesa nomine > et mater Soaemis praesiderent ? Quod duplici conjectura elicitur. Alteram praebet nomen. Maesa enim dicebatur, ut avia Heliogabali. Alteram ipsius,, aedifici i forma. Serlius enim Ai chitectus sic eain nobis linea vit, ut domicilii piane figurara descripserit freqnentibus scalis, aulis, peristylis, ac porticibus. •. Palladius >, autem. .. practer alias aedificii partes, in templi quoque formam descripsit amplissimi, magnisque columnationibus insiguis. Quare eodem fonasse in loco fuit olim Solis,, Templum. Nell’ ameno diporto de’ sudetti Giardini, e della grandiosa Abitazione Augusto sovente soleva portarsi a visitare il suo amico M., ed ivi ancora sovente li Poeti dall’uno, e dall’ altro beneficati, e protetti facevano sentire il dolce suono della loro Cetra Celebrati sunt dice il Giraldi j M, hortiinEsquiliis, quo loco cum Caes.ire versari frequen / Lee. cit. lib.3. capa 5. Diaitizec I i, ter consnevit; et perindc etiam illtìc Poetae conveniebant. Lo stesso dice Pietro Crinito nella sua opera de’ Poeti Latini al cap.45. “ Hortos Romae habuit ( Mece»> nate ) pulcherriinos inEsquiltis, ubi versari interdum consnevit, deque liberalibns,> discipliiiis serriionem habere cum amicis suis. Ad hoc persaepe divertit Caesar Octa»> vius propter loci amoenitatem, velut qui »> animarti libertini haberet a cnris in eo quietis secessi!. Esisteva ancora ne’ Giardini medesimi un Tempietto, o piuttosto uba Cappella dedicata da M. al Dio Priapo. Li Poeti, che frequentavano quel luogo, come si è accenuato, solevano scrivere sulle pareti di essó Tempietto de’ versi scherzevoli, ma poco purgati. La raccolta di questi diede luogo a quel libro intitolato la Priapeja dato alla luce dal Giraldi, e dallo Sdoppio" Sacellum Priapi ( scrive Pi>» fisco /fuit in hortis Maecenatis ab ilio extructtim, et dedicatimi. Poetae, qui Maet, cenateci suum quotrdie visebant, versicu» los aliquot jocosos in Sacelli parietibus notarunt, et hosPriapejorum nomine in unum collegit libellum, et vulgavit .... Girai-,, dus, etScioppius. Questo autore ri -. Priapeja ( dice questo ) carmen obscenum, quod nonnulli Virgilio, alii Ovidio adscri*» bunt ; quamquam Verosimilius est, multorum id opus esse ob argumenti similitudinem unum in volumen conjunctum. Su tale articolo potranno aversi maggiori schiarimenti e presso il lodato Giraldi, e pres« 80 il nominato Pitisco ne’ luoghi citati. fi) Loc. cit. (2) Lexicon. Ling. lat. art. Priapeja, VILLA IN TIVOLI DI M.: DISCUSSIONE IL solo M. possedeva li deliziosi giardini, e la magnifica abitazione sull’Esquilino, onde sollevarsi dalle cure del Governi? insieme con il suo Cesare Angusto, e bearsi colla sempre piacevole comitiva de’ Poeti, é de’ Letterati, ma eziahdio per lo stesso oggetto egli aveva fatto edificare sulle sponde dell' Aniene una Villa maestosa, ed elegante. La celebrità di questa è ornai nota a tutte le colte Nazioni dell' uno, e l'altro Elnisf ero, perché ne hanno parlato, e scritto infiniti Scrittori, e se ne legge la memoria in tutti lì Libri, di cui fa uso il Viaggiatore critico, e pensante. Infatti Lilio Giraldi, Francesco Marzi, Marc’Antonio Nicoderao, Antonio del Re, Nicola Orlandini, Fulvio Cardulo, Gio: Zappi, Pirro Ligorio, Atanasio Kirker, ed a tempi nostri il Volpi (i), Fausto del Re (2)> e Marquez f 3 ), non che altri Autori ezian Lat. vet. Ville di Tivoli Illustrazioni della Villa di M. ià Tivoli. et dio di materie antiquarie hanno costantemente asserito, che in Tivoli esisteva la Villa di M. in quel luogo, che si accenna, e descrive dai sullodati Volpi, del Re, e Marquez, e sul quale tuttora si scorgono con ammirazione le immènse reliquie della medesima. Il primo ammirabile oggetto ( scrive il Volpi ) che si presenta allo sguardo del Viaggiatore, che va a Tivoli è la Mole superba di quel CajoCilnio M. Cavalier,s Romano, il più grande amico, ed il più fido consigliere di Augusto, il quale superò t, molti Re in potenza, cd in ricchezza. Que>> sta Yilla per concorde testimonianza di tutti li Scrittori, che trattarono delle cose,, Tiburtine, s’ inalzava presso la detta Città sulla sponda ministra dell’Aniene. .. così costantemente hanno asserito Lilio Giraldi e tutti gl’ altri, che descrissero le maestose reliquie di quell’antichissimo Edifido ; ciò poi, che deve sorpassare Lauto>, revole usiertiva di tanti Autori si è la remotissima tradizione, e fama, per cui si è in ogni tempo creduto fra liTiburtini, chepresso le mura della loro Città fp I4 Vili# d» M. J ! ( 0 L° c - cit. pag.a x j : Prima igitur omnium sete Tybur adeuntibus admirandum, ve jtigandumque offerf ingcntis molis Villa M., scili cet Caji Cilnii Mqeceqa- Nnlla fu omesso per rendere questa Vili* vaga insieme, e grandiosa. L’oggetto più caro il cuore di quel grand’Uomal, i Letterati, non fu preterito, e però vedeansi jn essa amene passeggiate, e portici deliziosi, ove si riunivano li Dotti, che mercè l’ illimitata protezione di M., nel seno; del silenzio, della calma, e di tutti gl’agj, travagliavano indefessamente per il progresso dello spirito umano nelle arti, e nelle scienze Quivi, come in un altro Parnaso, in un;altra Accademia, in un altro Peripato, in un altro Liceo, Filosofi, Istorici, Poeti, ed Oratori discutendo, perorando, e meditando, procuravano di compiacere al loro munificentissimo Protetto tis Equitis Romani Augusto Ce.es ari amicissimi, fidclissimique consiliarii, quiqìie Reges permultos non solum aequavit, sed etiam. amecelluit opibus, et potcnìia. Haec concordi omnium, qui de Tiburtinis rebus c gerani, S criptorum testimonio, ad ipsum Tibur fuit in sinistra Anienis ripa. .. ‘ Ita LiPius Giraldus. .. aliique omnes, qui ingentia Aedi fidi hujus antiquissimi extaritia adhuc fràgmenta, et rudero niemorapcrunt, a ut descripscrunt unanimitcr, atque constantcr M. hanc V illam Tibur tem nominaverunt; quodquc ipsos etiam scriptores auctoritate vincere debet vetustissima, a majoribus per ma nus tradita fama id nobis affirmat .yt, e cosi per impulso del genio benefico di questo recavano servizj inesplicabili al genere umano, e travagliavano per la sua civilizzazione. Il Cenni dopo aver parlato de’giardini di M. in Roma, non manca di parlare eziandio con stupore della villa del medesimo in Tivoli. Nè solamente in Roma, dice quello, ha M. le sue delizie, ma per non goder sempre mai la villa negrOrti, che egli ha, le ampliò fuori di quella ancora, ed in Tivoli ne fe pompa meravigliosa. Quivi fabbrica egli una città più che una villa, palesandola tale fin'oggi le superbe reliquie, e le rovinose grandezze della medesima, e quivi parimenti nel ritifo, che facevano dallo strepito cittadino, trovavano 3, il loro riposo le muse romane. Il Patisco, benché ne parla compendiosamente, pure la chiama villa ripiena d’ogni sorte di de» Volpi: Atque hue litteratorum homìnum congregatas polissi mum erudita s Catervas sub M. patrocinio ac tutela philosophorum, inquam, oratorum, historicorum, ac omnium maxime poetarum turmas, ad dìssercndum }recitandum, fabulandum, meditandum edam, atque otianr dum animi ergo in Parnaso voluti quodam, auC Portico, aut Peripato, Accademia, voi Lyceo LIZIO. fa) Vit. di M. libra lizie, opera meravigliosa, e che per la vastità della sua mole non cede ad alcun altra fabbrica de’romani. Ma sarebbe stato troppo poco per il cuore magnifico di M. il rimunerare li dotti coll’uso soltanto di quegl’agj, che si rinvenivano o ne’suoi giardini di Roma, o nella villa di Tivoli: la sua generosità si estende molto più oltre; soleva bastantemente provederli di tutto il bisognevole, come è noto, e conforme abbiamo dimostrato nella storia, e perciò presso la detta villa di Tivoli, o nelle sue vicinanze li poeti ad esso più cari possedevano casini di campagna, deliziose villette, e possessioni ragguardevoli; e queste proprietà si acquistavano da quelr Lexic. Antiq. art. Villa i Villa M. in ultimo Tyburtinae Urbis Clivio, omnium deliciarum genere conferta, ab ilio est extructa. opus sane admir abile, quod sane vasta sua mole nulli ex romanorum fabricis cedit. Pet. Crinit. de Poet. Lat. rap..: Vubgatum est de M. quantum Litteris, ac litteratis omnibus faverit, cum in urbe unus hic potissimum haberetur, ad quem poetae omnes, atque oratores, ve/ut ad certam anchoram, per/ugiuni sibi haberent; itaque ab eo vehementer dilecti sunt, ppcraque, et mu -, nf ribus amplissimi honestati. li mercè la liberalità del medesimo, onde avvalorare sempre piòli talenti poetici di Orazio, di Properzio, e di Virgilio, e perchè ognuno di essi potesse vivere contento anche quando esso non poteva trattenerli sotto l’ombra de’portici maestosi della sua villa. Inoltre possedendo que’poeti delle proprietà in Tivoli, mentre M. vi possede la villa grandiosa, più spesso, e più agevolmente poteva egli vederli, e più volentieri abbandonavano lo strepito fragoroso della capitale per passare giorni quieti, p delle ore pacifiche nella calma de’loro deliziosi, e campestri ritiri, soggiorno perpetuo delle muse e di Febo. Che ORAZIO (vedasi) ha un casino di campagna in Tivoli quasi di fronte alla villa di M., non può mettersi in questione, e benché Sanctis ponga in dubbio l’esistenza.in Tivoli di una villa spettante a quel poeta, tuttavia conviene, che questo vi avesse una casa di campagna, nella quale egli vagheggia l’antro muscoso della risonante Albunea, le onde dell’Aniene, che si precipitano dall’ alto delle rupi. 1 ! ombroso boschetto di Tiburno, li giardini irrigati dalla molle attività di scherzevoli ruscelletti, nella quale desidera arden- Dissert. sulla villa di Orazio. Ode 7. lib. 1. a5a temente di finire i suoi giorni. Essendo; pertanto dimostrato per confessione ancora delio stesso Orazio, come si è veduto nella storia che esso era stato arricchirto da M., sembra del totto chiaro, che la liberalità di questo gli procacciassero il j Me nec tam patiens Lacedacmon, Ncc tam Larìssae percussit campus opimae, Quam dora us Albuncae resonantis, Et praeeeps Andò, et T iburni lucus, et uda Mobilibus pomaria riyis. Od. Tybur, A rgeo positum colono, Sit mene sedei ut in am. senectae ! Sit modus lasso marie ì et viarum, Militiaeque ! i lite terrarum mihi praetedomnes Angulus ridet, ubi non Hymetto Mella decedunt, viridique ccrtat Bacca Venafro j V er ubi longum, tepidasque praebet Jupiter brumai; et amicus Aulon, Fertili s Baccho, minimum Falernis ' InvidetUvis. t Ille te mecum locus, et beatae Postulant arces ; ibi tu calentem Debita sparger lacryma favillarli \ Vatis amici. possesso del surriferito Casino di Campagna in Tivoli. Si potrebbe stabilire jn Tivoli anche una Possessione al Poeta Properzio, ma niuno de’scrittori delle Antichità Tiburtine ne ha fatto menzione ; ciò non ostante si rileva dai scritti di questo Poeta, che egli ayeva in Tivoli la sua Amorosa, dalla quale ricevè nella mezza notte unà Ietterà, in etti lo invitava a portarsi in detta Città 1 Quando il carro di Boote, dice Properzio, era giunto nel mezzo della sua carriera ricevo una lettera dalla » mia Bella, che mi ordinava di portarmi all’ istante presso di essa ; la lettera veniva daTivoli, ove le biancheggianti vette fanno mostra delle sublimi due torri,e l’onda dell’Aniene siprecipita in ampie lagtJne. In altro luogo poi il Poeta facendo la descrizione patetica di un sogno, finge di vedere, che Cinzia sia morta, tal’ era il nome della sua Bella. Fa parlare l'ombra di Lib.S. Eleg.i 3. Nox media, et Dominac mihi venit epistole^ mstraej Tybure me mista jussit adesse mora; Candida qua geminas ostendunt culmina turres, Etcadit in patulos lympha Anima lacus. Il vero nome della donna Tiburtina amata da Properzio era Ostia, tome rilevasi da' a5a questa, la quale gli ordina, che nel di lei se-, polcro sia scolpita una funebre iscrizione, che essa stessagli detta “ La dove il potnifero A„,nieue parla Cinzia scorce placidamente per le tqrtuose campagne, e dove,1’ avorio giammai impallidisce mercè la potenza del Dio Ercole scrivi nel m ezz P di nna COLONNA, questa epigrafe degna di me che possa leggere il passeggero. Qui giace la bella Cinzia sepolta nel suolo Tiburtiuo Apulejo presso il Crinito nella vita di questo, Poeta :j Sextus Aurelius Propertius, dice Crinito. M., e Tacito maxime acceptus fait. Cum i(i Elegiis, ut inquit Plinius, forct egre gius. Libros quatuor Elcgiarumconiposu.it, in quibus fere suos calarti, et Mosti ae laude m, et formam celebrai ; nam in pucllam Hostiam miro qui dem affectu exars (t, quatn mutato nomine, ut est auctor L. Apule] us, Cyntiam appellare maluit. Corre la voce a tempi di Properzio, ed uriche posteriormente, cirriforme si rileva, da Silio Italico, c da Marziale, che l’uria T iburtina somministrava alle cose ur\a bianchezza potentissima. Properzio ripete questo privilegio da Ercole divinità tutelare dal Paese, e che era in special maniera venerato in quella Città. Il Beroaldo ne' commenti del! accennata Elegia di Properzio alle parole : polle? I N aì>3 la sùa tomba, o Amene, accrébbe decoro J, alla tua fertile sponda . Se io volessi ricavare da queste espressioni di Properzio resistenza di una sua Villa in Tivoli mostrerei forse troppa prevenzione per il Suolo, che mi diede i natali ; ma essendo cer-« to, che quello aveva la sua Amorosa ih quella Città, cbé era amicò di Orazio, e di Virgilio, e che godeva il favore del benefico M., sembra non 'affatto inverisimile, che anch'esso avesse, o qualche cosa di campagna, o qualche altra possessione presso la Villa del sudetto M., frutto, e risultato della beneficenza del medesimo. i tbur ; parla in fai guisa i 'Còclum Tyburti~ num dicebatur rebus praestare candorém pòtentissimum e bori, unde ait Silius: Tyburit dura pascit ebur : Et Martialis, T'ybur ih Herculeum migràvit nigra Tycoris Omnia dum fieri candida credit ibi. Hoc fieri Poeta ait, nu mine Herculeo ; T V bur enim Herculi dicatum, et Herculeum cognohtindtur. Ramosis Ariio qda pòmifér incubai afvis. Et nunqUam Herculeo numìne pallet Ebur', Hoc carmen media dignum me scribe columna, Sed breve, quodeutrehs Vectór ab Urbe legar, Hic Tyburtina jacet bure a Cynthia terra, Accessit ripae, laus, Aniene, tuac. I I a$4 Se è certo, che Orazio, se non è improbabile, che Properzio avessero nel Territorio di Tivoli, e nelle vicinanze della Villa di M. una qualche possessione, non è fuor di credenza, che il Principe de’ Poeti Latini vi possedesse anch’ esso un luogo di delizioso soggiorno. Li Scrittori delle cose Tiburtine hanno serbato su di ciò un profondo silenzio > ed il solo Volpi accenna, ma dubitando, una tal circostanza. Sapendo però quanto M. stima sse, proteggesse, e beneficasse non meno quel grande Poeta, si può, e forse con non debole fondamento asserire, che questo eziandio possedeva presso la Villa del suo Benefattore o qualche abitazione di piacevole permanenza > o qualche altra possessione. Infatti, se Orazio era stato arricchito da M.^ se quanto quello àv$ya, doveva ripeterlo dalla beneficenza di questo,cbe cosa dovrà dirsi di Virgilio, che in meriti letterarj non er? certamente inferiore al Poeta di Venosa, e che ( ij Volpi Latinm Vetuslib. Villani in Ty burle habuisse Virgiliani, suut qui putant, Villae proximam M.; eum tamen neque locum de s igne ni, nec ullus hoc Auctor scripsit, quod quidem perlegcrim, 1 neque ex ipso Virgilio tei hujus lumen ullum ef fulgeat, id asseverare nonausim. ] aveva dedicato a M. il suo dotto, ed elegate poema sulla coltivazione? Di poi non mancano congetture di qualche rilievo per credere ciò, che finora si è detto riguardo alla Villa di Virgilio. L’Ughelli riporta un Diploma, estratto da un Codice manoscritto della Biblioteca del Card» Francesco Barberini, la di cui antichità non è stata finora contradetta. Questo Diploma è legittimo, ed in esso il Vescovo di Tivoli Uberto è confermato nel possesso di tutti li suoi beni, che possedeva nel Territorio di quella Città, e frà gli altri fondi si fa menzione della possessione Virgiliana : Fundus Licerana, Picianus, 'Galliopini, Vicianus, Virgilianus. ’ì Petrus Crinit. de Poet. Latin. . : Pùblius Virgilius adhunc Maecena tetri libros suos misit, qui Georgica inscribuntur, absolutissimum omnium opus, quae in eo genere composita unquam ab alio fuerint. Ughelli Ital. Sag. Hucber,tus Episcopus Tìburtinus vixit temporibus Martini Papae?. Ab eodem Pontifice omnia privilegia ab Anteccssoribus Ecclcsiac Tyburtinac concessa, hoc diplomate revocati meruit, cujus exemplar .,, extat in MSS. Cod. Biblioth. Card. Francisci Barberini. .che quella anticamente spettava al Poeta Virgilio, e che vi era stata qualche Villa di sua pertinenza 7 Difatti quante contrade del Territorio di Tivoli sono anche oggi denominate, Pisone, Cardano, Paterno ec. dai nomi di quegli antichi Romani, che quivi ebbero del- le Ville, e la verità delle quali non può recar- si in dubbio dopo lo scoprimento di monumenti irrefragabili, e. sicuri? Se la località di quel fondo Virgiliano non si fosse smarrita nella notte del tempo, forse agl’ indagatori delle cose Tiburtine non sareb- bero sfuggiti li mezzi, onde verificàre la semplice tradizione •, e coll’ ajuto de' scavi i e coll’ esame di qualche marmo, iscrizione, o altra reliquia di antichità, si sarebbe potuto conoscere il sito, ove esisteva, ed anche la qualità del medesimo ; e non accade così di Nicolai, Jvan.-et Leonis, quae vetustate consumpta renovantur temporibus D. Martini Sum. Pont. Potitific. ejus scilicet an, g., Sugerentc Hucberto Tyburtinae Eccle- siae peccatore, ethumili Episcopo. Clausura universa. .. Fundus Li cerata, Pidanus, Calliopi/ti, Vicianus, Virgilianus. lion poche altre Ville, la di cui memoriaper lunga serie di secoli si vedeva soltanto sotto il velo della tradizione? Nè la forza delle addotte riflessioni, e congetture può essere scemata dal silenzio di tutti li Scrittori Tiburtini, e segnatamente de' più moderni Cabrai, e del Re; conciosiachè è certo altronde, che tanto questi, che gl’altri omisero di accennare -, che Plinio il giovane ebbe in Tivoli una Villa ; eppure è indubitato, che anche una Villa di quell* esimio Scrittore abbelli il territorio di questa Città. Egli ne parla espressamente scrivendo al suo amico A- pollinare,e facendogli il dettaglio de'pregj dell’ altra Villa, che possedeva in Toscana.,, Ecco le ragioni, dice Plinio, perchè io antepongo la mia Villa Toscana alle altre, che '» posseggo nel Tuscolo, ih Tivoli, ed inPre-,, neste ; perchè oltre li soprariferiti pregj 5, vi si gode un ozio maggiore, più abbondan- te, e però più sicuro, e con meno disturbi kl. Non vi é necessità alcuna di vestir Toga; >, non vi è chi venga a chiamarci, e a invitarci dalle vicinanze, ed ogni cosa si fa con pace, e quiete. Torniamo alla Villa di M.. CO Ville di Tivoli Plin. Epist. : ffabes causas cur ego T uscos meos T usculanis, Tyburtinis ; Praenestinisque meis praeponam ; narri super R a 5 S È noto, che il sullodato Poeta Virgilio credendo, che la sua Eneide fosse un lavoro imperfetto lasciò per testamento, che venis- se consegnato alle fiamme, e che Tucca, e Va- rio suoi amici fossero nominati dal medesimo esecutóri di questa sua ultima volontà, conforme hanno lasciato scritto Gellio, Macrobio, e Plinio presso il Volpi. Augusto non permise, che si dasse esecu- zione agl’ ordini di tal natura, senza prima meditare, e ponderarne la sostanza ; perciò essendosi ritirato con li sudetti Tucca, e Va-», rio nel silenzio, e nella calma tranquilla della Villa di M., quivi, previo un esame ma- turo sull’oggetto delicato, fu risoluto secondo Il pensiero di Lilio GiraWi, seguito dal Volpi (a), che ad onta nelle disposizioni testamen- tarie dell’Autore, quell" opera divina dovesse sopravvivere, e trasmettersi alla posterità; illa, qua e retuli, altius ibi otium, et pin- guius, eoque securius ; nulla necessitate togae i nemo arcessitor ex proxima ; placida omnia, et quiescentia: Vedi Marquez Ville di Plinio Porro eam deliberai io n em in hac Villa M. Tyburte su- sceptam ab iis ( Tucca, e Vario ) cor am Au- gusto putat Lilius Gir aldi. conforme frà gli altri riferiscono Plinio, e Sulpicio Cartaginese. Non è fuori di probabilità, che M. mo- risse in questa sua Villa di Tivoli. Egli aveva qui fatto un lungo soggiorno, e si pnò dire an- cora una permanenza non interrotta negl' an- ni estremi segnatamente della sua esistenza; e perciò sembra, che abbia voluto esalare l’ul- timo respiro, dove aveva trovato le sue deli- zie, la sua pace, e il suo sollievo nell' ultimo periodo della sua brillante carriera. Augusto erede di quello, come si è detto, ereditò an- cora la sua Villa sulle sponde dell'Aniene, per cui posteriormente fu chiamata Villa di Cesare Augusto, conforme accenna il Kirker, è dopo di esso il Pitisco E' fama ( dice questo,, Scrittore ) che M. prima di morire i- 3, stitnisse crede della sua Villa di Tivoli lo,, stesso Augusto,al quale nella medesima aveva per tanti anni esibita la sua ospitalità, per,, cui posteriormente, ed anche fino al pre-PLINIO (vedasi): Divus Augustus carmina Virgilii cremati con tra testamenti ejus verecundiam vetu.it. J usserat haec rapidis aboleri carmina flammis Virgilius, Phrygium quae cecinere ducem. Tucca vetat, Variai simili, tu, maxime Caesar, Non sinis, et Latiae consulis historiae. Lat. vet. et nov. lib. 3 > n.4. §.1. R 2 ! o sente giorno si chiama Villa di Cesare Augnasto. Potrebbe ora darsene una descrizione to- pografica, ma su di ciò si farebbe un lavoro del tutto superfluo, nè potrebbe dirsi di van- taggio i nè meglio parlare di quello, che h an- no detto, e parlato li succennati Pitisco, Cabrai, e recentemente Marquez nella sovra- indicata Dissertazione. Se questo valente Scrit- tore aveva dato saggi commendevoli delle sue cognizioni, e del suo criterio nelle opere a quella antecedenti, e segnatamente nel Libro sulle Ville di Plinio il Giovane, e nell'altro sulle Case di Città degli antichi Romani ; nel- le Illustrazioni sulla Villa di M. ha fatto conoscere la penetrante oculatezza del suo 1nge2.no nel discoprire, e disegnare le noti- zie relative airuscnraAntichità;eperciò ad es- se Illustrazioni ritaettramo gli eruditi Lettori. Loc cit. Art. Villa : M. moritu - rus, cum tot jant annis Augustum hospitem in hac Villa recepisset, eumdem Villac haeredem constituisse fertur, ut proinde vel ex hocco - pite non Maecenatis dumtaxat, sed et Augusti C cesar is in hutic diem appclletur. s'6t FEBRE PERPETUA » febris est, sicut Cajo M. . Eidem triennio supremo nullo horae momento contigit somnus . L’Arduino nelle notea questo luogo di Plinio ci previene, che Schenk nelle sue mediche Osservazioni riporta varii esempj d’ Individui, che non viddero il sonno per lo spazio di quattordici mesi, .ed anche per un intero decennio. In Not. cap. 5 a. lib: 7: Plin. : Afjìrt exempla nonnulla eorum, qui mtnsihus quatuOr- ZT 'a 6 Non è mio scopo di esaminare, se cosi lunghe veglie possano darsi in natura, come ancora se possa un mortale vivere gran tempo con la compagnia disgustosa di una febre continua. Questo esame forma 1’ oggetto, e la materia esclusiva di que’ Dotti, che sono nell' arte medica versati, e perciò io mi tratterrò nel vedere, se quel Cajo M., di cui par- la Plinio, è M., di cui si è scritta la Storia; e posto che d’esso sia, si osserverà se sussista la realtà di quella febre perpetua:, e della pretesa veglia triennale. Crinito afferma non esser certo, che il M. allegato da Plinio sia quel Mecena- te Consiglierò, Favorito, ed Amico di Augusto. Notatum est a Plinio ( dice quello ) in- j, ter mirifica Naturae officia eum M. nnmqnam horae momento dormisse per totum trieimium ante obitum, sed hoc non piane compertum est, an referendum sit ad,, alterum M. Al contrario Cenni è di opposto sentimen- to, ed impugna il Crinito in questi termini:,, Ma sia detto cou pace del Crinito, questo dubbio parmi senza ragione. Da Plinio si,, parla del nostro, e non di altri M. decim, qui decennio Coto somnum non viderint Jo.Schenkius Observat. Medie, lib. i. pag. p3. De Poet. lat.. Qicuxi ^ 00 Jsx-Cl o Qg I, Ora è possibile t che questo soltanto ayes-; se la notizia cosi precisa di questi fatti, e che ’ o • (i^Lib.a.Art,t>$ la medesima sfuggisse a Vellejo, e a Cornelio Tacito contemporanei di esso Plinio, e s’igno- rasse da Svetonio, da Appiano, e da Dione, che vissero, e publicarono le loro Storie nel secolo posteriore all’esistenza di quel Natura- lista? Di più Macrobio ne’ suoi Saturnali, opera critica, ed erudita, non omette di parlare di molte qualità personali di Cajo M., delle quali si è fatto già menzione, e serba un profondo silenzio sulla febre perpe- tua, e sulla veglia triennale, di cui si parla. Lo stesso deve dirsi di Seneca. Egli mormora spesse volte, aguzza la lingua nelle sue Opere sulla condotta del Consiglierò di Angusto, ne critica il lusso, le ricche abitazioni, le squisi- te mense ec., ma benché sia contemporaneo di Plinio nulla dice di preciso sul fatto contro- verso. Ma si supponga, che il M. accenna- to da quello sia il M., che è l’oggetto delle nostre storiche ricerche . Sussisterà in questa ipotesi quella febre continua, e quella veglia triennale ? Pareva incredibile al lodato Giraldi questa veglia triennale, e peno- sa del nostro M., e non ne sarebbe giammai restato persuaso, se la sua credulità non fosse stata sorpresa da un’ altro fatto più stravagante s riferito da Olimpiodoro Alessandri-, no, ij quale suppone, che un Uomo vivesse senza mai dormire, pascendosi di sola aria, o di luce. Quindi io giudico ( scrive il ?6q,, raldi ), che proveniése a M. quella è- sica indisposizione di non aver potuto dormir »» mai per no intiero trienoio ; ciò che mi i, sembrava quasi incredibile prima che leggessi in Olimpiodoro Alessandrina che « nn Uomo visse senza mai dormire, pascen- dosi di solo aere solare, ed in conferma di tale portento cita quello l’autorità di Aristatele. Alcuni,frà quali il sullodato Cenni (assono d avviso, che Seneca abbia parlato della sudet- ta veglia triennale di M., allorquando fauna specie di parallello frà questo, ed il celebre Attilio Regolo Veniamo ora ( dice » Seneca ad Attilio Regolo . Perchè la fortn- »> na gli nocqne quando egli diede quel grande argomento di fedeltà, e di pazienza? Trapassano li chiodi la sua cute, dovun- y, que rivolge, ed inclina le sue membra affaticate incontra una ferita, e le sue luci sono aperte ad una veglia perpetua . Cre- : Mine illi (M.) existimo cantigisse, c/uod a Plinio scribitur, ut per triennium non dormieril, id quod ego vix credideram ni ti antiquum apud Olim- piodorurn Alcxandrinum in Phaedonis Commentario legissem, hominem insomnem vixisse, qui solo aere solari nutriretur, atque in eo miracolo Aristotelem citai., di tu, che sia più fortunato M., il quale divorato dagl’amori, c da replicati », ripudj della ricalcitrante consorte, si pro-,, caccia il sonno mercé l’armonia de’ musi- si cali istromenti, che da lungi echeggiano, soavemente? Ma benché egli prenda sonno colla forza del vino, scuota, ed inganni il suo animo col mormorio dell’acque cadenti, e con mille altri generi di piaceri, tnttavia veglierà nelle piume, come Attilio, Regolo nella croce . (Non si comprende però come Seneca in que- sto luogo voglia indicare la pretesa veglia tri- ennale di M., giacché la sostanza dei suo discorso si è che questo, essendo vessato dall’ amore sconcio, e dal carattere inquieto De Provid. Veniamus ad Re- gulum : quid illi fortuna nocuit, quod illud documentimi j Idei, documentimi patientiae fetic ? Figunt cutem davi, et quocumque fatigatum corpus reclinai, vulneri incumbit, et in perpetuam vigiliam suspensa sunt lumina F eli ciorem ergo tu Maecenatetn patos, bui amoribus anxio, et morosae Uxoris quoti- diana repudia deflenti, somnus per symphoniarum caritum a longinquo lene resonanlium quaeritur ? Mero se licei sopiat, et fragori- bus aquarum avocet, et mille voluptatibus mentem anxiam fallat, tam 'vigilabit in piu- ma, quam ilio in croce di Terenzia stia moglie, che egli arnav^ perdutamente, procura di sollevarsi con il vino, con lo strepito piacevole delle acque cadenti dalle rupi, e con altri mezzi capaci a discacciare, o mitigare la noja dello spirito ; aggiunge inoltre, che ad onta di tut- to questo, M. non trovava sollievo, come Attilio Regolo tormentato dalla barbarie degli Africani nella botte guarnita di punte di ferro. É’ pur troppo vero, che una moglie fornita di un Carattere infedele, caparbio, ed incostante potrà tenere in grandi inquietezze un onesto marito, dal quale è amata, manonpare verisimile, nè credibile, che tali inquietezze possano giungere fino al grado di cagio- nare una veglia non interrotta di più anni. Perciò si può convenire nella supposiziqne di [Girald. loc. cit. Porro Terentiam Maccenas miro amore deperiti } .ut Acron, et Porphirion tradidere. Cantei, Not. ad Valer. Max. lib.l. de Relig. Dir is sane suppliciis crucactus est Attilius : primum quidem, et id tantum cibi datum est, un de vitam aegre su- stentaret, et adductus Ltiphas, a quo territus nec animo, nec corpore conquiesceret : tum, praecisis palpebris ne connivere posset, solis radiis'objectus est : in dolio denique inclusus praefixo davi culti, quorum acuti it misere lacerai us inceriti, Seneca riguardo alla' sùdetta Terenzia moglie di M.; si può convenire, che ella sarà stata di Un umore capriccioso, ed indocile ; che M. ne avrà provati disgusti, ed amarezze, e che per discacciarle lóntand dal suo spirito filosofico, avrà profittato di tutte le possibili risorse ; non si può però ragione- volmente, e giustamente conchiudere, che per tal motivo non potesse procacciarsi il sonno per il non breve intervallo di un intero trien- nio; nè si può comprendere^! torna a ripetere, come Seneca abbia nel citato luogo voluto si- gnificare ciò, che Plinio ha riferito sulla pre- tesa veglia triennale del nostro M. i Passiamo alla febre perpetua. La febre è annoverata fra li pallidi morbi > che affliggono miseramente la specie umana. Quell' individuo, che da una febre viene mo- lestato, e da febre di tal carattere, che non abbandona giammai il povero paziente, è impossibile, che possa agire con energia, e trattare affari di sommo rilievo . Da quanto si è detto nel decorso della Storia del nostro M., risulta pienamente, che egli fin dall’ età più verde incominciò a prestare i suoi servigi ad Ottavio Augusto prima del Triumvira- to, fin dopo inalzato al Trono. Si è rimarcato, che iu tutto questo tempo affrontò le imprese le più faticose; segui qualche volta il suo Monarca anche frà lo strepito delle Armi } governò lunga stagione Roma, e l’Italia, dissipò congiure pericolose, ed usò in tutte le i operazioni, che gli furono affidate, eoraggio, fermezza, e straordinaria vigilanza. Se pertanto fosse stato sottoposto ad una malattia di una febre perpetua, come è possibile, che avrebbe egli potuto agire con tanta energica attività per disimpegnare gl’incarichi laboriosi, che tutto giorno riceveva da Augusto? Ola febre è una malattia, o non è malattia . Se non è una malattia tutto è conciliabile, ma siccome non può mettersi in que- stione, 'ch’ella sia un malore, che sconvolge il sistema fisico deirUomo, cosi sembra potersi dire, che Plinio in quel luogo, 0 ha parlato di qualche altro M., o se ha parlato del nostro le sue assertive non possono in verun conto fissare la fiostra attenzione. Impugnando però questo passo di Plinio, noi non abbiamo avuto il pensiere di divenire il censore di quel celeberrimo, e laborioso scrittore della storia naturale. Egli esige tutto il rispetto de’letterati, li quali conoscono, che quella sua opera magnifica gli procacfciò meritamente un posto brillante nel tempio dell’immortalità. Ma in un si grande lavoro, in cui dovette giovarsi, e profittare degli occhi, e delle mani di molti, non deve recar meraviglia, se egli avesse inserito una qualche opinione grossolana, e popólare . Il medesimo dice ancora, che quel Caio Melisso M., Liberto del nostro Cil- [TIRABOSCHI (vedasi), Stor. della Lett. Ital., «io per guarire da uno sputo di sangue, no parlò mai per lo spazio di tre anni. Questo fatto è pure singolare, meno però di quello della febre perpetua, e della veglia triennale . Plin. Jamet sermoni porci multis de causis salutare est. Triennio M. Melissum accepimus silentium sibi imperavisse a convulsione reddito sanguine. L' Arduino nelle note a questo luogo di Plinio osserva, che in alcuni Codici invece di Melissum si legge Messium, conchiude però, che ne Codici più accurati si trova scritto Melissum. Potrebbe dubitarsi se il Melisso, di cui qui si parla, sia veramente il Liberto di M., giacche Svetonio de lllust. Gram. nomina are Melisso Lenèo. Fulgenzio Withol. fà menzione di un Melisso Euboico. Alberto Magno de Anim. Tract. loda un Melisso autore di un libro sugl’animali. E Laerzio. rammenta parimenti un Melisso. Ma il lodato Arduino è d'avviso, che il Melisso accennato da Plinio è il Cajo Melisso M. Liberto del nostro M. : Meminit Svetonius ( Hard, in Ind. Auct. Plin. ) Caji etiam Melissi, quem Maecenati gratissimum etiam fuisse ait, ac Biblidthecarum in Octaviae Portico ordinandarum curam accepisse, a Patrono suo Cajus Melissus M. dictus est . Hic eriim illc est, quem Maecenatem Melissum scribi oportet, apud Pliriium. Cajo Melisso Mecenate. Luigi Speranza, “Grice e Mecenate”, The Swimming-Pool Library. Mecenate.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Medio: la ragione conversazionale al portico romano -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Medio. Porch. A contemporary of Plotino. He wrote a number of essays. Medio.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Megistia: la ragione conversazionale e la diaspora di Crotone --  Roma – filosofia basilicatese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Metaponto). Filosofo italiano. Metaponto, Basilicata. A Pythagorean according to Giamblico di Calcide. Grice: “Cicero argued that anything written in Greek is not part of Roman philosophy; I guess he has a point. Whereas we do consider things written in Latin by Englishmen PART of English philosophy, we do not consider anything written by the Old Britons before the Anglo-Saxon Conquest to be a part and parcel of Sorley, “History of English philosophy’!” -- Megistia.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Meis: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – IL FU MATTIA PASCALE – lo spirito abruzzese – la scuola di Bucchianico -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Bucchianico). Filosofo italiano. Bucchianico, Chieti, Abruzzo.  Grice: “I agree with Meis’s naturalism; he proposes a three-stage development: vegetal, animal, man – his naturalism has a Hegelian side to it, while man is more old fashioned, more Kantian!” Figlio di un medico aderente alla carboneria e di ideali mazziniani, nacque a Bucchianico, dove compì i primi studi: li prosegue presso il Regio collegio di Chieti e poi a Napoli, dove e allievo dei letterati PUOTI, SANCTIS, SPAVENTA e RAMAGLIA. Si laurea e divenne socio degl’Aspiranti naturalisti, di cui diventerà presidente; e poi medico aggiunto dell'Ospedale degli Incurabili e apre una scuola di grande successo, dove insegna filosofia naturale. E poi rettore del Collegio di Napoli. Dopo la promulgazione della costituzione nel Regno di Napoli, venne eletto deputato per la circoscrizione Abruzzo Citra: sostenne la protesta di Mancini contro la repressione operata dalle truppe borboniche contro i manifestanti e l'accusa di tradimento al re. E quindi costretto all'esilio. Dopo un soggiorno a Genova e a Torino, si stabilì a Parigi. Esercita la professione di medico per gli esuli e gli emigrati italiani. Insegna antropologia filosofica lall'università ed entra in contatto con il mondo filosofico parigino, diventando assistente di Bernard e ottenendo da Trousseau l'incarico di insegnare semeiotica. Strige anche un proficuo rapporto con Cousin. Rientra in Italia, prima a Torino e poi a Modena, dove insegna. Torna a Napoli e divenne assistente di SANCTIS, ministro dell'istruzione nel governo provvisorio, e venne eletto membro del Consiglio Superiore della Pubblica istruzione. E deputato al Parlamento del Regno d'Italia sedendo tra i ministeriali. Busto di M. al Pincio (Roma) Non si sa né dove né quando e iniziato in massoneria, è certo tuttavia che e membro della Loggia Felsinea di Bologna. Insegna a Bologna. Il suo naturalismo lo spinse a cercare un fondamento filosofico alle scienze della natura, che egli trova nell'idealismo di Hegel. E anche amico intimo e collega di SICILIANI, del quale condivise in parte la speculazione intorno al positivismo. Venne citato, di passaggio, nel romanzo di PIRANDELLO (si veda), “Il fu Mattia Pascal”. E costruito il palazzo della Biblioteca di Chieti, in piazza Tempietti romani, dedicata a M.. V. Gnocchini, L'Italia dei Liberi Muratori, Erasmo ed., Roma, M. su treccani. Il protagonista del romanzo infatti ascolta casualmente, durante un viaggio in treno, una conversazione fra due filosofi, e dato che è uscita la notizia della sua morte, sceglie come proprio nuovo cognome "Meis", traendolo da "De Meis". Il nome sarà "Adriano", udito dal fu Mattia nella stessa conversazione, che attribuiva a M. la tesi che due statue nella città di Peneade rappresentassero Cristo e la Veronica -- colei che si sostiene abbia asciugato il viso di Gesù durante il calvario. In queste pagine del romanzo pirandelliano, Mattia Pascal prova uno straordinario senso di ebbrezza legato alla propria libertà. Tessitore, M. Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Colapietra, M., politico “militante”, Napoli, Guida, Treccani Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. M. Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. M., in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. openMLOL, Horizons storia.camera, Camera dei deputati. M. di Giacomo de Crecchio, in Biblioteche dei filosofi, Scuola Normale Superiore di Pisa Cagliari. L'Unificazione, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Nella prima edizione di Il fu Mattia Pascal figura qui un GIUSEPPE De Meis, che nelle successive si precisa nel nome di un seguace piuttosto atipico di SANCTIS, il filosofo abruzzese M. Difficile immaginare che questa schelta sia del tutoo casual, altrettanto difficile sondarne a fondo le ragioni e avanzare qualche ipotesi. A meno che non si pensi al saggi in cuil M. (“Darwin e la scienza”) tenta una sistesi tra evoluzionismo e dialettica hegeliana dello spirito; o non si immagini che possa essere la sua filosofia, sull’IMPOSSIBILITA della demo-CRAZIA in Italia, alla radice di uno sfogo politico de Adriano Meis. Meis, del quale Mattia Pascale prende parte del cognomen, e autore di una specie di impegnativo paradosso politico (IL SOVRANO), nel quale sostene la necessita di una REGALITA forte, come punto di mediazione disinteressata tra le passioni laceranti di varia strati della popolazione. E questo E il solo possible filo che riusciamo a intravedere tra lui e questo improvviso (ma forse non del tutto imporgrammato) sfodo di Adriano Meis. Antichità Oggettivismo. Oggettivismo primitive da Talete ad Anassagora Soggettivismo pratico individualista Sofisti. Soggettivismo pratico universalista Socrate Oggettivismo ideale assoluto Platone Soggettivismo incompiuto Aristotile Tempo moderno — Soggettivismo. Soggettivismo pratico intuitivo Stoicismo Epicureismo Scetticismo Ne-oplatonismo Cristianesimo Oggettivismo ideale particolarista Roscellino. Occam Oggettivismo sensibile Bacone. Condillac. Diderot, d’Holbac. Passaggio alla soggettività Hame. Kant. Oggettivismo ideale universalista Anseimo. S. Tommaso. Scoto . » Soggettivismo tendente alla oggettività Cartesio Oggettivismo assoluto Geulinx. Mollebranche. Spinosa Oggettivismo dogmatico individualista — Lcibnitz. Wolf Passaggio alla soggettività —Berlielei/. Kant Tempo recente Soggettivismo assoluto. Soggettivismo trascendentale — Kant Soggettivismo assoluto astratto — Fichte Oggettivismo assoluto Schelling Soggettivismo positivo assoluto — Hegel . La storia della medicina .Cosa è lo Stato? Lo Stato è l'uomo grande; è la società umana individuata. L'ha detto Aristotile: lo Stato è la società che basta a se stessa. 11 che appunto vuol dire che lo Stato è il grande organismo umano, l'individuo grande, compiuto in sé stesso, indipendente ed assoluto. L' uomo piccolo è una scala ascendente di funzioni. Egli ha per base la funzione vegetativa, per cui mangia e beve e si nutre, veste panni, abita un nido e si riproduce: la funzione riproduttiva è l'apice, e la corona della vita vegetativa. Egli è questo il sistema dei suoi bisogni materiali, vegetativi ed animali. Ma 1' uomo elementare non è soltanto un vegetabile compenetrato e avvolto da un animale; egli è anche un animale, un'anima, sormontata dall'unità dello spirito, avviluppata e compenetrata dalla coscienza umana. La riproduzione è la corona della vita vegetale; la coscienza è la corona della vita animale; e la coscienza assoluta è la corona e l’apice della vita spirituale. Come spirito l'uomo è per prima cosa, e per prima base, morale. La moralità, la virtti privata, è la forma più naturale dello spirito: essa è il patrimonio dell'individuo, e resta confinato e chiuso in lui. Il dritto è l’uomo aggrandito; egli è l'individuo che si aggiunge una porzione della natura esterna; ed è una estensione del suo corpo, e della sua anima; ampliazione della sua natura organica, ed esplicazione della sua natura giuridica spirituale. E a tutto questo sovrasta l’IO, la libera coscienza, che è come il perno intorno a cui tutto gira: centro e circonferenza del circolo umano. L'IO è la conoscenza di se. Nella pura coscienza l'uomo conosce sé come sé, come semplice forma; ed egli aspira a conoscere anco l’interno di se, la sua propria natura. E Si conosce infatti: nell'arte, come bello, e per dir così semi-infinito: nella religione, come infinito sensibile; nella scienza, come infinito di pensiero, e sì come pensiero infinito. Tale è il sistema spirituale nell' uomo piccolo, nell’individuo particolare. Nell’uomo grande, nell' organismo politico-individuale che si chiama LO STATO, ci sono le stesse funzioni. Ci è la funzione economica, agricola, industriale, commerciale: produzione materiale, frumento o libro; trasformazione ed assimilazione; circolazione e scambio; nutrizione e consumazione: relazione sensibile fra tutti gl'individui dei quali il corpo sociale è formato. Ci è la funzione morale, non più chiusa nell'individuo, ma estesa alla società, manifestata come relazione attuale fra gì' individui umani. La morale individua diventa dritto comune; materia della polizia, e del dritto penale. Nessun uomo ha il dritto di offendere e usar vie di fatto contro un altro uomo, perchè tutti hanno il dritto che la loro coscienza morale sia rispettata. Il reo non fa contro uno, ma contro tutti; e non è quindi uno o pochi, sono tutti contro di lui: il sentimento della comune natura umana reclama la sua punizione. Nessun uomo ha il dritto di maltrattare un bruto; perchè non è il bruto, è il sentimento della fondamentale unità della natura umana e animale eh' egli ferisce e maltratta in tutti gli uomini civili e sensibili. La morale individua è il rispetto della natura; il dritto morale è l'azione conforme ai fini, ai principii, ai sentimenti naturali. Egli è dunque una relazione psichica, spirituale, poiché spirituale è il suo fine. Ci è la funzione giuridica, ed è la relazione dell'individuo coi suoi annessi naturali agli altri individui similmente costituiti di cui la società è formata. Quello che invade l’altrui, non occupa solo una porzione di natura; egli occupa e viola l'anima di un uomo, la quale è pur quella di tutti gli uomini, membri di uno stesso corpo sociale; e perciò tutti si levano contro l'ingiusto invasore. Questo tutti è la legge, che funziona e si esercita in forma di Tribunale. La legge penale sta di rincontro alla barbarie, alla passione violenta ed alla guerra privata; un tribunale criminale è in realtà una corte marziale. La legge civile è il principio e la regola della pacifica decisione. Essa è la libera ragione che si leva di mezzo agli opposti interessi; e il contrasto troncato in germe, e definito in forma di piato, non solo non giunge, ma neppur tende alla violenza ed alla guerra. La guerra è la barbarie; la civiltà è la pace, perchè è la legge, e perciò questa a ragione è detta civile; e i suoi sono tutti giudici di pace. Ci è finalmente l’IO comune, conoscenza e volere generale; ed è, come tale, una funzione formale a cui servono di contenuto e di soggetto tutte le funzioni speciali. Cosa è dunque lo Stato? Lo Stato è l’insieme di tutte le funzioni materiali ed economiche, morali e giuridiche, in quanto sono unificate nell'IO comune, che tutte le penetra e le regola, ed è il punto a cui mette capo ogni particolar movimento, e da cui parte ogni azione generale. Lo Stato è adunque l'IO, la coscienza sociale. Tale è la forma: il contenuto è la virtù pubblica, il dritto civile, il dritto penale, e la pubblica economia. Lo Stato è il giusto, dice ALBICINI (si veda). Sì certamente; ma il giusto non è che una parte del suo contenuto; è un elemento della sua natura, il quale piglia nell’organismo giuridico la sua forma particolare, e la sua realtà naturale. Ma un principe non è solo un Gran Giudice, e un Parlamento non c'è soltanto per fare il Codice Civile. Giusto io lo piglio in senso di legge: e la legge io la piglio in senso di relazione umana in genere. Ed io allora la piglio in senso di relazione cosmica universale. Bisogna finirla una volta con le idee vaghe ed astratte, e con le parole indeterminate e generali. Lo Stato è la virtti; dice Montesquieu: la virtìi è il suo principio ed il suo fondamento, e il vizio è la sua rovina. Idee generiche, astratte, indeterminate, piene di confusione e di errori. La virtù, la morale, non è che un elemento, ed una sfera dello Stato. Essa ò per se individuale; ma quando esce dall'individuo, e promove o turba e nega l'ordine sociale inferiore, e per così dire individuale, essa allora di privata diventa pubblica, ed appartiene allo Stato. Che se dall' infima sfera delle relazioni individuali l'azione si leva alla sfera giuridica, o se anche penetra nella sfera politica, allora essa perde man mano il suo carattere morale. Un delitto politico è per poco un non-senso, quando non è che politico: e tale egli è quando l'animo è puro. Omnia mwnda mundis: puro vuol dir non-individuale, assoluto, generale. E allora non è a parlar di delitto e di colpa: in politica non ci è che prudenza ed imprudenza, serietà e leggerezza, verità ed errore, successo ed insuccesso. Lo Stato ordina i premi e le pene, e le proporziona alla loro natura morale, giuridica o politica : se non che una pena politica è quasi un non-senso: essa in realtà non è che un semplice fatto di guerra, un puro atto di difesa. La virtù, dirà il Montesquieu, io la piglio in senso di forza, di energia politica. Ed io la piglio in senso di energia magnetica, elettrica, nervosa, muscolare. L’antiche repubblica romana e fondata sulla sobrietà e sulla severa continenza, sulla parsimonia e la povertà del privato cittadino. Roma cadde perchè vi penetrò la ricchezza, la voluttà, il lusso dell'Asia. Quella io chiamo virtù, questo vizio, rilassatezza, corruzione, dice Montesquieu, e ripete Napoleone III, e con lui tutti, dal primo all'ultimo, i francesi. — francesi, questa che voi fate non è la storia, è il fatto; è la materia appena un po' digrossata, non è l'idea che la determina e la informa; è il fenomeno, non è il pensiero della storia. E lo vedrete. Lo Stato è il ben essere, la prosperità, la ricchezza, dice Fourier. Sì, certamente: anche questo è lo Stato: ed egli cura la produzione, promove ogni maniera d'industria, e favorisce il commercio con istituzioni, e leggi, e procedure speciali. Ma la ricchezza non è che il sostrato, il sottosuolo dello Stato. La ricchezza è la materia, lo Stato è il pensiero: 1' una è il corpo, l’altro è l' anima. L' anima fa il corpo, ma non è corpo per questo; e l'Economia politica non è la Politica, non è lo Stato. IL PRINCIPIO DELLO STATO ITALIANO E LA RELIGIONE, è la Bibbia degli Ebrei, dice Aquila di Meaux, e per quel tempo non vola male. Ora però, sarebbe il peggio che si potesse dire. Cotesto ora non è piti un volare, è uno strisciar per le terre, o come talpa andar per le cieche latebre, odiando la luce e il puro e libero aere della ragione. E se Dupanloup pure insiste e perfidia, allora io dico che il principio dello Stato è l'arte, è la Divina Commedia e il Decamerone, il Barbiere di Siviglia e la Trasfigurazione. Tanto ci ha che far l'una quanto l'altra, ed io avrò altrettanta ragione. Il principio dello Stato è Dio, dirà Dupanloup. Sì, certamente; ora finalmente ci siamo. Non è però il Dio della Religione e dell'Arte, ma il Dio del corpo sociale, il Dio dello Stato. Questo è che costituisce i Re, che direttamente o per suoi organi crea tutti i poteri e le autorità politiche; e questo Dio non abita nel cielo; lassù non v'è che il Dio della Natura: il Dio dello Stato abita nel petto del cittadino, ed è a lui eh' egli ubbidisce quando rende ubbidienza alle autorità che ne sono i ministri, il braccio e la parola. Lo Stato non e corpo, è anima. Anima è sapere e volere, coscienza e azione; e la funzione dello Stato come Stato consiste nel sapor di essere, e nel volere essere Stato. Questa non è che la sua forma; ma questa forma è appunto il vero Stato; e la coscienza assoluta ch'egli ha di sé, e l'azione comune in cui questa si traduce e si spiega, è per l'appunto la sua funzione essenziale. La coscienza dello Stato per intrinseca ed assoluta necessità prende una esistenza naturale, e spontaneamente si crea il suo particolare organismo. Essa è l'anima; ed il sistema dei poteri politici è il corpo che si crea, e in cui si fa reale. È una creazione immediata e diretta, ovvero indiretta e mediata, come quella d' ogni principio vitale; ma in definitivo è la coscienza pubblica, ed è sempre lo Stato che crea i poteri e le autorità dello Stato. Questa funzione creatrice è 1' elezione. Ma questo corpo in cui l'anima generale si traduce e si concentra, in realtà non è che una pura anima: è il semplice potere legislativo. Quest'anima effettiva ed attuale creata dall'elezione, si crea a sua volta il suo proprio corpo. Tale è 1! esercito : l' esercito amministrativo e l' esercito militare ; e la finanza è il sangue di questo corpo generale. L' esercito amministrativo serve per eseguire o render possibili tutte le funzioni, che compongono la triplice natura dello Stato: la funzione economica, la morale, e la giuridica. Un magistrato, un impiegato, il ministro, il Sovrano, è un soldato; e il suo onore è d'ubbidir fedelmente alla legge, all'anima dello Stato. L'esercito militare ha un ufficio anche pili essenziale. Esso serve allo Stato per essere, per esistere; gli serve a difendersi dalle potenze nemiche, esterne o interne, che ne minacciano la vita economica, politica o morale. Il soldato è il braccio della legge, e dello Stato; il suo ufficio è di respinger l' assalto o l' insulto di un altro Stato, e di reprimere le passioni colpevoli che si sfrenano contro la legge del suo paese, e le istituzioni del proprio Stato: nobile ed alto ufficio tanto nel primo come nel secondo caso. I due eserciti sono entrambi assoldati. Sono il corpo, e il sangue vi dee circolare. Il potere legislativo è l'anima; ed è perciò che non è pagato. Il Sovrano ha una lista civile perchè unisce in sé le due nature: egli è il tratto d' unione fra il potere legislativo e l'esecutivo, e personifica in lui l'unità dello Stato : ed è perciò eh 9 egli è sacro. Sovranità, potere legislativo, potere esecutivo; tutto questo è forma di forma: la forma essenziale, il vero Stato, è l”IO assoluto, la coscienza e la volontà generale. Ma non vi è la pura coscienza e l'astratto volere, e non è possibile una funzione puramente formale. Si è conscii di essere questo o quello, si vuole e si fa sempre qualche cosa: e lo Stato conosce e fa da un lato, e dall'altro esegue, la legge economica, la legge penale, la legge civile. Il Sovrano, il legislatore, l’impiegato, il soldato, tutti vogliono che lo Stato sia; vogliono che sia prospero, giusto, savio, forte di tutte le fotze morali, e che possa tutte liberamente spiegarle, ed esser felice. L'Io è la forma; la forza economica, la virtù, il dritto, è il contenuto dello Stato. Ma la forma prevale, e domina il contenuto. La morale domina l'economia: la produzione non è possibile, e il guadagno non è realizzabile s'egli è immorale. Il dritto domina la morale: la virtù pubblica impone alla virtù privata. L'Io, la pura funzione formale, domina e modifica tutte le funzioni speciali che sono il suo essenziale contenuto: lo Stato domina e modifica il dritto e la morale. Un assoluto vince l'altro: tutti per sé assoluti, sono fra loro assolutamente RELATIVI (“il relativo hegeliano”). Il volgo riguarda come piti eccellenti gli assoluti inferiori, perchè piti naturali, e di più immediata e più sensibile idealità. Il più alto è per lui l'ordine morale; che sovrasta e primeggia sull'ordine giuridico; 1' ordine politico è subordinato a tutti e due. In realtà il più eccellente è l'ordine dello Stato, perchè più generale, e più assoluto e divino; e quando l'armonia fra i tre ordini e le tre funzioni si rompe, è la funzione formale, la funzione assoluta dell'essere, quella alla quale appartiene il primato, e prende sopra l' altre la mano. Scoppia la RIVOLUZIONE dal basso o dall'alto: ribellione, COLPO DI STATO. Slealtà, tradimento, illegalità, delitto. È vero. La coscienza morale lo riprova, la coscienza giuridica lo condanna; ma v'è (vi può essere) una coscienza superiore che l'approva; e se non è la coscienza politica dei contemporanei, sarà di certo la coscienza politica degli avvenire. La storia approva IL COLPO DI STATO e LA RIVOLUZIONE popolare, quando è vera funzion di essere: quando cioè l' essere apparente dello Stato non corrisponde al suo VERO essere, a quello che esso è nella coscienza del corpo sociale, sia che oltrepassi, o sia che rimanga al di sotto di questa misura ideale. Invadere la proprietà d' un cittadino è ingiusto; ma lo Stato può farlo; ed è una giusta ingiustizia, ed una legale illegalità, perchè in tal guisa realizza il suo essere, il benessere della comunità, o dell’intiero corpo sociale. La ragione e il titolo è la pubblica utilità. Questo è un vedere solo il lato esterno del fatto, che vi è di certo e non può mai mancare, ma non la sua vera ragione. Si vede la comodità sensibile, ma non si vede il suo interno principio, l'essere generale realizzato. Ma non è meraviglia. IL CODICE ITALIANO E POCO MEN CHE TRADOTTO DEL FRANCESE. Le nostre leggi fatte esse pure dal risorgimento, parlano la sua lingua e ne riflettono le idee. Ammazzare un uomo è ingiusto ed immorale: è un violar l'ordine naturale; è un toglier all'uomo una proprietà che 1'uomo non ha creata. Ma lo Stato anche questo può fare. Lo Stato è funzion di essere; egli è, vale a dire una forza: e l' elemento di questa forza è la sua corrispondenza e la possibile eguaglianza con la coscienza generale. Lo Stato è debole quando il suo concetto resta al di sotto o supera quello del corpo sociale. Il secondo, e non già il primo, è di gran lunga il caso dello STATO ITALIANO. Egli è perciò che quando la società vede nella pena di morte un elemento di solidità, ed un pegno di sicurezza generale, abolirla è un errore: è una fallace utopia, una velleità teorica, difetto di serietà pratica, scipita sentimentalità, filantropia fuor di proposito; bontà di cuore forse, ma certo debolezza di mente, che ad altro non condurrebbe che a crescer la debolezza, già così grande, dello Stato, accrescendo la distanza che lo divide dalla coscienza pubblica, di cui deve render l' imagine, ed essere la fedele espressione. Quando l'opinione sarà progredita; quando la coscienza dei pochissimi si troverà in armonia con la coscienza dei moltissimi, allora lo Stato e forte, e allora la pena ingiusta, immorale ed inumana della morte si potrà, e si dovrà senza altro indugio, abolire; perchè allora il PAESE, divenuto meno incolto e per dir così più spirituale, avrà cessato di riguardarla come un elemento di esistenza; e non sentirà il bisogno di una garanzia sensibile tanto barbara e immane. Allora non saranno soltanto pochi pubblicisti ignoranti e frivoli, ed alcuni legislatori ridicoli, saranno moltissimi, se non pur tutti, a reclamarne l’abolizione. Si parla sempre dell'utilità della pena di morte. È l'argomento dei sostenitori, ed è l'achille degli oppositori. Questo è da una parte e dall' altra un vergognoso errore. Necessità non è utilità; e quando lo Stato opera in funzion di essere, egli è in una sfera ideale e assoluta, superiore alla regione della utilità e del senso. Ma questo sì vergognoso errore era la verità del Risorgimento; ed è perciò che non se ne vergognava, anzi l'accettava, e ne andava giustameute superbo: il senso e l'utilità e tutta la sua filosofìa, ed egli condanna allora la pena capitale come non utile. Venuto più tardi a miglior sentimento, il Risorgimento respinge l’utilità, e condanna la pena di morte come utile. Egli scambia per utilità la necessità ideale; e non si vergogna, perchè questo sofisma è la sua verità: egli è il da ubi consistam della FILOSOFIA positiva. Ma se ne vergognerà di certo quando di risorgimento sarà passato a secolo decimonono. Ammazzare un uomo, turbarne i dritti, e violarne il possesso, attentare all'esistenza dello Stato, che è quanto dire alla vita delle sue istituzioni, è immorale ed ingiusto; e sarà assai di più ammazzare moltitudini di uomini, insignorirsi, recare in sé il dominio (e sia pur l'alto dominio) delle loro proprietà, e distruggere uno Stato. Questo il cittadino non lo può, non lo dee fare; ma può e dee talvolta farlo lo Stato. L' usurpazione e la violenza privata è ingiusta; la violenza pubblica e la pubblica usurpazione non è giusta; è più e meglio di questo, è politica; e si chiama guerra e conquista, e non più violenza ed usurpazione. La guerra è buona, e la conquista è giusta legittima e veramente politica, (e dico buona, legittima, giusta per convenzione, ed in mancanza d'altre parole) quando in esse lo Stato opera in funzione di essere: quando guerreggia e conquista per vivere per essere, o per diventare quello che è in sé, e deve anche attualmente essere. Vi sono società naturali, che la violenza, l'arbitrio, la passione, il caso in una parola, divide in più corpi sociali, per cui DI UNO SI FORMANO PIU STATI. Ma in tutti rimane la coscienza della loro identità politica, e della loro natura storica comune. Yi sono ancora società originariamente separate, in cui l’accidente, cioè l'arbitrio, la violenza, le passioni umane, col concorso di altri accidenti ed opportunità naturali, crea una coscienza comune. LA LINGUA ITALIANA, vale a dire la comunità e la somiglianza fondamentale dei DIALETTI ITALIANI (non mai la loro identità, che non e' è mai, e non può esserci in natura, ed è una finzione assurda dei pedanti) è l'organismo sensibile, e l'espressione approssimativa, e la meno inadeguata, di quella nuova coscienza. La comune storia è il processo per cui di un gruppo accidentale di popoli e di Stati si forma a poco a poco un tutto naturale e vivente con una interna unità e un' anima generale. LA GEOGRAFIA è la condizione esterna dello sviluppo, e l' occasione più o meno accidentale di questa formazione ideale. La comune coscienza che si è conservata dopo lo spartimento dello Stato unico originario, non è più coscienza, ma tende a ripigliare l'antica forma e la primiera attività; e la coscienza comune che si è sviluppata in un gruppo di Stati eterogenei non è che il sentimento della loro comune unità: e nell' un caso e nell'altro questo sentimento è la nazionalità, la coscienza nazionale. E nell' uno come nell' altro caso ciascuno Stato si trova diviso in se stesso; è un' anima scissa, con due coscienze distinte ; che l' una è la coscienza propria di Stato, l' altra è la coscienza comune di NAZIONE. Esso è dunque in realtà due anime, due esseri, uno attuale, e l' altro possibile; il primo è Stato, l'altro non è che nazione. LA NAZIONE E LA POSSIBILITA NATURALE DELLO STATO. Ma esso anche quest'altra parte di sé vuol recare ad atto; esso ha bisogno di esser tutto il suo essere, e irresistibilmente aspira a far della sua coscienza politica effettiva, e della sua coscienza nazionale astratta, una sola coscienza reale. Egli è perciò che lo Stato fa la guerra, e conquista gli Stati connazionali. È la buona guerra, e la legittima conquista; ma è ancora il processo barbaro, violento, inconsapevole, passionale, irrazionale. Era altra volta la buona soluzione; ora è divenuta cattiva: il decimonono secolo è tempo di coscienza e di ragione, e non ammette che la soluzione consapevole, volontaria e razionale. Questo succede quando in tutti i corpi sociali si sviluppa più o meno egualmente di sotto alla loro particolare e diversa coscienza politica la comune coscienza nazionale. Tutti allora aspirano, e tutti finiscono per fondersi in un solo corpo di nazione, in una stessa società, in cui l'antica coscienza nazionale si eleva e si perde ben presto nella coscienza politica comune. Non è più. la soluzione forzata, è la soluzione spontanea e razionale. Egli è nel primo modo che si sono costituite le nazioni moderne; formazioni accidentali, prodotti di guerre e di conquiste senza ragione, e di nozze fortunate. Tu felix Austria, tu felix Gallia, etc... nube. La coscienza nazionale non esiste, è venuta dopo. L'Austria felicemente accozzava delle società affatto eterogenee, fra cui non vi è stato che un principio di fusione. Si è formato senza dubbio nella Boemia, nell’Ungheria, nella Iugo-Slavia, una coscienza austriaca. Ma la vera coscienza politica è la coscienza boema, ungherese e slava; e ciò perchè l' austriaca è una coscienza astratta, occasionale, non è una possibilità naturale effettuata e completa; non è lo sviluppo e la realtà della coscienza nazionale. La Francia riuniva con lo stesso metodo delle nozze, delle guerre ingiuste e delle astute diplomazie, degli Stati meno inomogenei, in cui pur v’era un avanzo di un'antica LINGUA COMUNE – FIGLIA DELLA LINGUA MADRE LATINA, testimone di una comune coscienza, di politica rimasta puramente nazionale, reminiscenza di una potente antica unità; IL FRANCESE E UNA LINGUA AVVENTIZIA E FORZATA, ma che ha finito per essere adottata -- coscienza avventizia, ma che era pur venuta, ed aveva finito per essere LA COMUNE ESSENZIALE UNITA DEL MONDO ROMANO. Ed ecco perchè quei corpi insieme posti finirono per formar le membra di un solo corpo morale: fatte però le dovute e ben note eccezioni. Ora la Francia avrebbe l'intenzione di seguitare in questa via, ed applicare ancora il metodo antico, barbaro, medieyale. Ma si oppone la natura e la ragione. La ragione è la coscienza nazionale, è LA LINGUA, ed è la storia. La natura è la geografia: un fiume non è un confine, ma una via ed un mezzo di unione. La Francia è fuor dei suoi confini naturali e nazionali. La soluzione spontanea razionale e naturale delle quistioni nazionali e serbata al secolo della ragione; ED E L’ITALIA CHE NE HA DATO AL MONDO L’ESEMPIO, ed è il suo onore immortale, e il suo vero primato civile e morale. Questo esempio la sorella dell'Italia, la Grecia, si appresta ad imitarlo. La natura lo richiede. La greca penisola è un tutto geografico perfettamente circoscritto; si direbbe una regione, un nido apprestato per una sola razza. La ragione lo esige e lo impone; lingua, storia, coscienza nazionale, solo in parte venuta a coscienza politica, tutto è comune alla Grecia; e v' è un altro comune principio che la unisce, ed è la religione. Tutto dunque chiede l'indipendenza e r unità della Grecia, tutto vuole che la Nazione Greca diventi lo Stato Greco; ma l' Inghilterra non vi trova il suo conto, e con tutte le forze si oppone, e l'Europa delle crociate, divenuta la positiva e irreligiosa Europa del Risorgimento, custodisce e protegge con una edificante unanimità il barbaro e immondo straniero, il musulmano oppressore. L' Italia è stata piu fortunata. Un grand' uomo uscito dal suo sangue, pervenuto ad. assidersi sopra un nobile trono straniero, rammenta l'antica madre per la quale giovanetto aveva pugnato, e pugnava ancora per essa, e le dava la mano a farsi di una nazione astratta, uno Statò reale. ITALIANO, IO NON SO CHE QUESTO. Tutto l'altro io l'ignoro, perchè la Storia non è ancor venuta, e non ci ha giudicato sopra. Ora non vi è che la morale e il dritto, e le piccole passioni politiche dei francesi, tutti incompetenti nella quistione. Ma di quel che il grand' uomo ha operato per l'Italia siamo competenti noi; e non sono ingrati tutti gì' Italiani. L'Italia per viriti propria, e per generoso aiuto, che appena è che possa dirsi straniero, è salita dalla coscienza nazionale alla coscienza politica. Ma se quella è forte e potente, questa è ancor debole ed incompleta. Le sette antiche coscienze politiche, nelle quali la sua coscienza nazionale era scissa, non si sono tutte egualmente amalgamate in una coscienza politica comune. Le deboli sono scomparse; ma ve n'è qualcuna forte, che resiste e permane, ed è L’ANTICA COSCIENZA PIEMONTESE. Il Piemonte ha tre coscienze in lotta fra loro. La coscienza nazionale, che in lui era, ed è senza dubbio ancor forte, non si è pienamente trasformata. Essa è rimasta nazionale, astratta; ed ha solamente prodotto di sé una coscienza politica italiana debole, parziale, incompleta, poco men che astratta, piena di riserve e di eccezioni. Essa è incompleta e debole di tutta la realtà e la forza che rimane alla VECCHIA E TENACE CO-SCIENZA PIEMONTESE, di cui la permanente è l'espressione. Questo SAMMARLINO (si veda) lo ignora ; ed è in una perfetta buona fede. Egli in travvede in lui una forte coscienza nazionale, e allato a una profonda coscienza municipale (certo indebolita da quello che era prima) vi trova un chiaroscuro di coscienza politica italiana, e dice: io sono quanto si può più essere italiano. E se lo crede. Sammartino non ha tutti i torti : egli è senza dubbio italiano; ma quel suo quanto si può essere, o quanto altri sia, è una sua ESAGERAZIONE.. Nobile esagerazione, inganno volontario e generoso, illusione che genera in lui la coscienza nazionale, la quale fa sentirgli il bisogno di giustificarsi ai proprii occhi e agli altrui. Ma in tanta complicazione il valente uomo non ha tale abito e tal forza d'analisi da rendersi conto del proprio essere, per cui diviene il giuoco della sua immaginazione. Egli è perciò che è in buona fede. Tutti gli uomini ci sono qual pili qual meno allo stesso modo. Ma il tempo è galantuomo; e s’egli ha potuto sviluppare in tutto il mondo antico una COSCIENZA ROMANA: se sulla vera coscienza magiara, czeca e jugoslava ha potuto inserire una coscienza austriaca; se finalmente nella tedesca Alsazia e nella Lorena punto del mondo francese, ha potuto (incredibile a dirsi, e mostruoso a pensare) destare una coscienza politica francese: ben saprà creare una vera coscienza italiana in quel Piemonte, che pure è il primo fra tutti i paesi della moderna Italia: in quel Piemonte, che nel momento in cui la grande storia italiana del Medio Evo ha termine, quando tutto intorno tace, s'avviliva e s'abbandona, e la nazione intiera scende nella tomba della servitù straniera e papale, egli solo non s' abbandona; e che rimasto jnfino allora nell'ombra, sorge a un tratto giovane e vigoroso, e ripigliava in sua mano il filo e creava la nuova storia italiana, e per lui ed in lui l'Italia vive ancora. E quando a nostra memoria si riapriva 1' antica tomba, e l'Italia vi scende di nuovo, rimaneva egli solo sulla breccia, e lottava animosamente, eroicamente, e compiva alla fine il destino della patria: onore a cui dalla provvidenza della storia era visibilmente riserbato. Ah non tutti gl'Italiani sono ciechi e ingrati! Certo il tempo saprà identificare la coscienza piemontese, che dopo tanta e così grande storia, fuor di proporzione con la materiale grandezza di quella nobile provincia, è naturale sia permanente e resista alla grande coscienza politica italiana. E sarà allora galantuomo davvero. Quando ciò sia avvenuto, e che in tutta l'Italia non vi sarà che una sola coscienza politica, allora non vi sarà più soltanto una grande nazione, ma un vero e forte Stato Italiano. L'Io, la coscienza sociale, è adunque il vero e proprio elemento dello Stato; ed è una funzione puramente formale che domina e modera e modifica la funzione giuridica, e la funzione morale. Lo Stato toglie la vita, e turba e invade la proprietà del cittadino; fa la guerra per esser quello eh 9 egli è, o quel che dev'essere, e toglie la proprietà, la vita, l’essere indipendente, allo Stato vicino. Tutte cose che l'uomo privato non può fare, e che gli sono permesse, doverose anche talvolta y quando, divenuto uomo pubblico, la sua coscienza s' immedesima e si confonde con la coscienza assoluta dello Stato. Allora è illecito e reo tutto ciò eh' egli può far nel suo particolare interesse, ma è lecito e buono tutto ciò che fa in vista dell' interesse generale. La fusione e l'amalgama succede sempre in una certa misura, ed è tanto pili completa quanto l'uomo è più alto locato, finche nel capo dello Stato i due interessi non ne fanno più che un solo. Dal momento che si separano, il tiranno è perduto: egli allora non è piu lo Stato, è un altro; è un corpo estraneo contro a cui l'intiero organismo si solleva, e scoppia la crisi. La crisi, la rivoluzione, è un processo di guarigione. Il morbo è la tirannia, l'anarchia: forme dello stesso disordine; tutte e due passione e sfrenato arbitrio; ed anarchia tutt' e due. U&rche non è né questo, ne quello; né uno, né pochi, ne molti, ne tutti: l’arche è la ragione. Il principio dello Stato, la sua vita, il suo vero essere, non è il giusto, non è il morale, non è l' economico. Tutto questo egli lo contiene in sé; ma come Stato egli è l'unità consapevole organizzatrice e moderatrice di tutte le forme, di tutti gli organi, di tutte le funzioni sociali. Questo è lo Stato, e qui finisce l'attività politica, la vita pubblica; ma qui non finisce la vita umana, e non è anche tutta la storia. Sotto allo Stato vi è il dritto, la morale, la pubblica economia; ma vi è sopra allo Stato un mondo piìi etereo, piìi,assolutò ed universale che non è il suo; vi è il mondo dell'arte, il mondo della scienza, e il mondo della religione. Il mondo della verità è di sopra al mondo della natura e dell'azione. Lo Stato è l'unità, la coscienza, la forma pili alta, e la pili perfetta e più generale esistenza delle funzioni a lui inferiori. Lo Stato non è che la base e la reale possibilità delle funzioni a lui superiori. L'arte è una funzione naturale, e perciò rimane affatto individuale. Vi è un mondo estetico, ma non vi è una società artistica: vi sono soltanto degl’artisti e dei poeti; e la parte dello stato è di render possibile lo sviluppo del talento estetico, e rispettarne la spontaneità ed il libero giuoco. Egli non ha dritto sull'artista se non quando egli abusa e tradisce l'Arte, ed esce dalla sua natura. L'Arte non è la morale o il dritto, e può essere immorale e ingiusta a sua posta: ma finché rimane Arte la sua immoralità non contamina, e la sua ingiustizia può esser sublime, atta solo a sollevare e fortificare i caratteri, non mai ad avvilire e degradar l' animo umano. Ma dal momento che essa esce dalle sue condizioni di Arte, essa non è pili che immorale ed ingiusta, e allora lo Stato interviene: interviene in nome della giustizia offesa, e della morale violata; funzioni inferiori, che gli sono tutte e due subordinate, ch'egli dirige ed ha in sua tutela. L'Arte non è la religione, e può a sua posta essere empia ed irreligiosa: ma la sua irreligione è sublime ispiratrice di grandi e puri pensieri, e di religione vera e pura. Che s' ella trasgredisce le proprie sue leggi, ed esce dalle sue condizioni vitali, e non è più che semplice e sguaiata irreligione; in tal caso lo Stato non interviene. Egli dirige e modera le funzioni che sono al di sotto e dentro di lui, ma non amministra la verità religiosa che gli è superiore. L'Arte non è la Scienza; è in un certo senso il suo contrario: che s' ella esce dalla sua natura di senso ideale, e si atteggia a ragione e a idea; tanto peggio per lei. La Religione è una funzione dirò così spiritiforme: la sua natura è sensibilmente spirituale, ed il suo carattere è di essere naturalmente universale. Egli è perciò che mentre l'arte rimane nella sua inconsapevole particolarità, la religione viene a coscienza, e si forma un Io sociale superiore all'Io dello Stato: e di fuori e di sopra alla società politica si forma una società religiosa. Il luogo di questa alta società non è la terra, è il cielo: l'uomo religioso ha i piedi su questo umile suolo, ma la sua anima è altrove. La sua funzione è tutta celeste; essa è riflessione e adempimento del destino umano: contemplazione della infinita natura dell'uomo, rappresentata nel mondo infinito della grande fantasia; conseguimento della infinita felicità mediante il possesso dell' infinito della religione. La funzione religiosa dello Stato è di render possibile la formazione, e libero lo sviluppo e l'azione, della società religiosa. La religione non è né scienza, né arte, ne economia, ne morale. Essa può dunque essere a sua posta inestetica e goffa, creare simboli mostruosi e informi, miti ributtanti e triviali; PUO PROFESSAR TUTTI GLI ERRORI FILOSOFICI astronomici, teologici, politici CHE VUOLE. Tanto meglio per lei; sarà più creduta, e più stimata e rispettala. Può la religione professare tutte le assurdità morali e giuridiche che le piace. Può attribuire a Dio tutte le passioni umane, sopratutto le piu barbare, e pu perverse e colpevoli, quelle che l'uomo moderno pih si rimprovera, e maggiormente arrossisce quando se ne lascia sorprendere e dominare. Sarà per lei tanto meglio: maggiore sarà la riverenza, il terrore religioso, il timor di Dio. La religione può a suo beneplacito credere ed insegnare che i figli sieno responsabili dei peccati dei padri, come lo insegna e lo crede Mosè, in un tempo ed in un paese in cui non v'E ANCORA IL DIRITTO ROMANO, e il Codice Civile era di là da venire. Se questo vi fosse stato, non sarebbe venuto in mente a Mosè una siffatta idea, e non avrebbe insegnato un così sterminato errore. Quella era pertanto la verità giuridica e la verità religiosa del suo tempo: due gradi e due forme non per anco distinte, confuse ancora in una verità sola. Oggi la distinzione è avvenuta: la verità giuridica del Codice Mosaico, convinta e condannata di falsità, è sostituita dalla verità giuridica del Codice Civile, nel modo istesso che all'astronomia di Giosuè e del Santo Uffizio è sottentrata l'astronomia di Copernico e di GALILEI. Ma come verità religiosa è rimasta in piedi: crede il popolo ed il comune che l' innocente è colpito col reo dalla vendetta divina. E si crede anche oggi come tre mila anni sono il dogma che insegna che la colpa del primo uomo s' è naturalmente trasmessa a tutti gli uomini. Questo dogma non è che l'applicazione in grande del principio giuridico-religioso di tre mila anni sonò, e quel che lo rende piti meraviglioso, e perciò più credibile al popolo ed al comune, si è che quella colpa era la curiosità di sapere, il bisogno di conoscere il vero : jcolpa grave, imperdonabile agli occhi del dogma religioso. Un dogma simile viola apertamente il Codice Civile, e violentemente urta ed offende il 'senso morale; ma non è che una offesa ed una violazione religiosa, e lo Stato non interviene per far rispettare il Codice Civile ed il senso comune. La rappresentazione succede in una sfera superiore, e lo Stato ne rende possibile lo sviluppo e libera la manifestazione, e la rispetta qualunque ella sia. Ma se l' azione religiosa esce di questo campo, e deposto il proprio carattere, si spinge nella sfera dello Stato, e diventa irreligiosamente immorale, ingiusta ed impolitica, allora lo Stato interviene, e si fa rispettare. Questo inevitabilmente succede alle religioni che di spirituali si fanno temporali. Peccato è loro e non naturai cosa: di loro è la colpa e non dello Stato: e perciò tanto peggio per loro. Finalmente, al di sopra dello Stato, e sì dell'Arte e della Religione, vi è la scienza, LA FILOSOFIA. Ma qui l'individuo s'identifica e si perde nel puro assoluto universale, per cui l'Io filosofico non prende alcuna forma naturale. Non vi è quindi una società filosofica, vi è soltanto il mondo della filosofia, il mondo del pensiero, della verità assoluta. Lo Stato non interviene in nessun caso in questo ultimo empireo: egli né il dee, né il può; egli è natura, e non ha presa su ciò che non è naturale. Lo Stato non può entrare nella sfera della scienza senza disertare la sua, senza perdere il suo carattere essenziale, e cessar di essere Stato. Lo Stato del decimonono secolo lascerà dunque insegnare chi vuole, e checché vuole, anche il Prete ed anche il Demagogo? Non già; non mai. Insegnare non è pensare e recare in mezzo il proprio pensiero; è invece agire, educare e preparare all'azione, ed appartiene quindi allo Stato; e insegnare un principio repugnante e contraddittorio a quello dello Stato, è uno scalzare lo Stato, che non può certo trovarci il suo conto. Lo Stato è funzion di essere, di vivere; e nessuno ha gusto di lasciarsi ammazzare, sia di ferro o sia di veleno; e i cattivi principii sono velenosi allo Stato. Il principio politico dei Gesuiti è la Religione, la loro; e quello a cui in ultima analisi tutto mette capo, ed a cui il cittadino ubbidisce, è l' autorità religiosa. Il principio dello Stato moderno è invece l'Io, la ragione; è la coscienza pubblica, la pubblica opinione; e quello a cui il cittadino ubbidisce, è lui stesso: in ciò consiste la libertà civile. Il principio del Demagogo è la libertà sensibile, e l’eguaglianza materiale. Il principio dello Stato moderno è la libertà ragionevole, l'eguaglianza assoluta, ideale. Egli è perciò che lo Stato limita e nega la libertà del Demagogo e del Prete, e li pone tutti e due fuor dello Stato — né elettore né eleggibile — e fuor della scuola — né maestro pubblico, né insegnante privato. Il giornale è una scuola, e non può quindi godere una libertà illimitata. Ogni cosa ha il suo limite nella sua propria natura, e la libertà ha il suo limite nella natura dello Stalo. Questa è la libertà vera e buona, perchè concreta: la libertà indefinita, astratta, è la stolta, .assurda, micidiale e pestifera; e perciò lungi da noi. La libertà non appartiene che alla libertà. Solo quella stampa, queir insegnamento, e quella qualunque siasi attività dee poter liberamente agitarsi e spiegarsi nella sfera dello Stato, che ne osserva e professa il principio generale, e vive dello stesso elemento assoluto. La religione, l'arte, la scienza non sono assolutamente libere che nel proprio elemento, e nella loro sfera speciale, e qui lo Stato non può, non dee, non ha facoltà di mettere il piede. E però quando io vedo un Ministro chiuder la bocca a un insegnante né demagogo né prete, ma liberale, perchè professa delle particolari idee che in un certo mondo — Dio sa che mondo — non sono ricevute ed accettate; io lo rispetto troppo per dir eh' egli abusa delle sue facoltà, ma dico che varca il limite, ed oltrepassa la sfera dello Stato : dico che agisce in nome di un principio particolare, religioso o scientifico, io non lo so; so soltanto che non è il suo; e non ha come Stato facoltà di porvi la mano: e che il Ministro mi scusi, e mi perdoni il Consiglio Superiore. Lo Stato non è adunque che la possibilità effettiva e naturale della vita artistica, della società religiosa, e della pura attività scientifica. La sua funzione consiste nel renderle tutte e tre possibili mediante l'Istruzione e la Pubblica Educazione ; ma non ha ufficio, e non può altrimenti intervenire nell'arte, a promulgar le leggi del gusto, e prescriver la rettorica e la poetica mediante decreto: e così non può decretare la verità religiosa. Non vi è, non vi può essere, una religione dello Stato: cotesto è un controsenso, un non senso, un errore. Sent from the all new AOL app for iOS Opere di M. Studi su M. - Opere ed articoli che a lui accennano - Recensioni di suoi scritti » La vita e la storia del pensiero di M. . La famiglia e i primi anni Nel R. Collegio di Chieti La vita intellettuale a Napoli Le scuole private. Gli studi letterari, filosofici, scientifici M. a Napoli. I suoi studi. La sua scuola privata . Gli avvenimenti a Napoli Le vicende di M.. Il processo e l'esilio. La dimora in Francia. Il De Meis medico A Torino «quando l' Italia era colà » . M. e i suoi amici: SPAVENTA, SANCTIS, MARVASI. La corrispondenza col De Sanctis. L'attività intellettuale di M. e la sua metempsicosi; M., professore all'Università di Modena. Il ritorno a Napoli M. a Bologna. L'insegnamento. La vita famigliare, sociale e politica. La morte. Il testamento La personalità di M. Lo svolgimento del suo pensiero. Perchè la sua opera è frammentaria I momenti di sviluppo del pensiero di M. Il Dopo la laurea. La storia della filosofia esposta dal M.. L'antichità o il periodo dell' oggettivismo. Il passaggio dall' oggettività alla soggettività. La filosofia moderna o soggettiva La filosofia hegeliana giudicata da M. Rapporti fra medicina e filosofia. La medicina hegeliana . Influenza dell'hegelismo sulla scuola medica napoletana. M. e gli altri hegeliani di Napoli. Limite tra la fisiologia e la metafisica, Le opere scientifiche e la filosofia della natura. .Il Dopo la laurea e l’orientamento filosofico. Gli scritti scientifici, Lettere geologiche sul M. Majella negli Abruzzi, Sul sessualismo e la fecondazione delle piante in coerenza alle dottrine della morfologia, Saggio sintetico sopra 1' asse cerebro-spinale e la diagnosi delle sue malattie per rispetto alla loro sede. Intorno l'asse cerebro-spinale. Considerazioni anatomiche sul salasso locale Teoria dell'ascoltazione Dello stato e del carattere attuale delle scienze naturali; Nuovi elementi di fisiologia generale speculativa ed empirica; Del principio vitale; Idea della fisiologia greca; Le opere scientifico-filosofiche; Idea generale dello sviluppo della scienza medica in ITALIA nella prima metà del secolo. Del metodo delle scienze mediche ( Considerazioni sopra l'infiam. Il momento rivoluzionario e il momento moderato del De Meis. L'evoluzione delle sue idee politiche e la trasformazione del partito liberale italiano li. L* idea dello Stato. Lo Stato come campo libero all' arte, alla religione, alla scienza e alla filosofia. Lo Stato e l'indi- viduo. Stato e nazione. Stato oggettivo e Stato soggettivo. Il limite dello Stato; L'idea della sovranità. Il culto per la dinastia Sabauda .La lotta contro il pensiero e contro 1' azione del partito progressista. Il suffragio universale e lo scrutinio di lista. II giurì. La legislazione e le ingiustizie sociali. Il socialismo secondo M. Contro l'abolizione della pena di morte Il divorzio. La donna I rapporti fra lo Stato e la Chiesa. L'abolizione delle cor- porazioni religiose. Le corporazioni religiose e l' insegnamento. Le spese del culto e i culti non cristiani. L' Italia e il papato; Lo Stato e l'istruzione pubblica. Insegnamenti obbligatori e insegnamenti facoltativi. I tre gradi di ogni insegnamento scien- tifico. Le facoltà universitarie. Il liceo Magno e l' istituto tecnico inazione dei vasi sanguigni. I mammiferi. Fisiologia. Prelezione al corso di fisiologia dato nella R. Università di Modena nell'anno scoi. Gl'ippocratici e gli antippocratici Lettere fisiologiche Le opere scientifico-filosofiche La jatrofilosofia. La medicina sperimentale. La medicina storica o razionale. La medicina religiosa. La natura medicatrice. La patologia storica IV. Jlncora il terzo periodo. La filosofia della natura. La creazione secondo M.. La lotta di M. contro la teoria darwiniana. Il suo metodo trimorfo. La dimostrazione dei suoi principi. L' accidentale e il necessario nella sua concezione filosofica. Le idee politico-sociali e pedagogiche. medico. L'insegnante unico. Gli esami. La libertà d'insegnamento. I malefici della cattiva coltura e di Mazzini. Due discordi Sacerdoti d'idee: M. e il Mazzini. Le idee estetiche e religiose. La coltura letteraria. Il suo stile. Il suo epistolario. I suoi giudizi sulla terminologia scientifica, sulla lingua italiana, sull' affratellamento delle lingue e sull' uso del fran- cesismo. M. critico letterario II. La profonda religiosità del De Meis. La sua negazione di un Dio personale e la sua critica del Dio cartesiano, dell' antinomia kantiana e dei dogmi dei Santi Padri. Il suo giudizio sui culti non cristiani, sul cristianesimo e sulle varie forme di esso III. La «metempsicosi» dell'arte e della religione nella filosofia secondo M.. La storia del genere umano: oriente, antichità, tempo moderno o cristianesimo. Il tempo moderno : medio evo, risorgimento, secolo XIX. Il mondo latino e il germanico. Il risorgimento o negazione e i suoi prodotti : il romanzo, la filosofia positiva, la musica. Il secolo XIX e l' unificazione di tutte le correnti umane. La religione e l'arte considerate come gradi e forme del vero. Valore degli argo- menti storici e logici addotti da M. Ottimismo e misticismo del De Meis. Rapporti tra il suo hegelismo e il suo misticismo e la sua mentalità scientifica. Significato e valore della sua filosofia della natura. Lettere geologiche sul Monte Majella negli Abruzzi, nel Lucifero, Gior- nale scientifico - letterario - artistico - industriale, Napoli, Filippo Cirelli, Anno IV, Uomini utili alla società: Samuele Pierantoni, nel giorn. // Vigile di Chieti, Sul sessualismo e la fecondazione delle piante in coerenza alle dottrine della morfologia. Memoria letta alla classe fisico-matematica della Reale Ac- cademia bavara delle scienze dal Prof. Martius, dal tedesco voltata in italiano da M., nel «Filiatre-Sebezio» Giornale delle scienze mediche diretto e compilato dal cav. Salvatore De Renzi, Napoli, Tip. del Filiatre-Sebezio, Saggio sintetico sopra l'asse cerebro-spinale e la diagnosi delle sue malattie, per rispetto alla loro sede di A. C. De Meis socio dell'Accademia degli aspiranti naturalisti e medico aggiunto dello Spedale degl'Incurabili. Presentato al 5° congresso degli scienziati italiani - convocato in Lucca. Na- poli, Coster. Intorno l'asse cerebrospinale. Memoria di Giuseppe Meneghini tradotta dal latino da A. C. De Meis per cura e per uso dello studio privato del prof. Pietro Ramaglia, Napoli, Barnaba Cons, Considerazioni anatomiche sul salasso locale, presentate al VII Congresso degli scienziati italiani celebrato in Napoli, Napoli, Stab. Coster, Teoria dei fenomeni acustici della respirazione, Napoli, F. Vitale, [Dedicato a Luigi La Vista]. Teoria dei fenomeni acustici della circolazione, citato dall'Autore in Teoria dell'ascoltazione, Torino, Pomba, p. Vili [La Teoria dell'ascoltazione (v. infra) riunisce sotto un titolo comune questa dissertazione e la precedente]. Dello stato e del carattere attuale delle scienze naturali. Discorso di M. presidente dell'Accademia dei naturalisti di Napoli - detto nella pubblica adunanza, Napoli, Stab. tip. all'insegna dell'Ancora, M. deputato di Abruzzo Citra agli elettori della sua provincia, Napoli. Discorso inaugurale di A. C. De Meis neli'assumere l'ufficio di rettore del Collegio Medico. Pronunziato e pubblicato dagli alunni del Collegio Medico, Napoli, F. Vitale, Proposta di un nuovo sistema di insegnamento pel Collegio Medico. Napoli, Federico Vitale, Discorso di A. C. De M. ex-rettore del Collegio Medico nel deporre il suo ufficio, Napoli, Vitale, Nuovi elementi di fisiologia generale speculativa ed empirica. M. già deputato al Parlamento. [Manifesto]. Nuovi elementi di fisiologia generale speculativa ed empirica di M. già deputato al Parlamento Nazionale. Del principio vitale. Napoli, F. Vitale, Lezioni orali, raccolte per cura degli uditori ed amici dell'Autore, e, lui assente, da essi pubbli- cate ». (Cfr. la bibliografia che precede la Teoria dell'ascoltazione, To- rino, Pomba). Sono nove lezioni, dedicate a Pietro Ramaglia]. Chiarimenti al teorema di Hamberger sull'azione dei muscoli intercostali, Napoli, Fisiologia generale. Evoluzione logica del principio vitale. Idea della fisiologia greca per A. C. De Meis ex-deputato, Napoli, Stab. tip. all'insegna dell'Ancora, [Dodici lezioni in conti- nuazione dei Nuovi elementi ecc.]. Teoria dell'ascoltazione, Torino, Cugini Pomba e comp. edit., Idea generale dello sviluppo della scienza medica in Italia nella prima metà del secolo. Note di A. C. De Meis. Torino, Tip. Pavesio e Soria. [Dedicate alla memoria di Luigi La Vista e di Casimiro De Rogatis]. Del metodo delle scienze mediche. Lettera al professore Carlo Demaria, To- rino, in Giornale della R. Accademia medico-chirur- gica di Torino, anno VII, voi. XX, Torino, Favale Considerazioni sopra l'infiammazione dei Vasi sanguigni nel Giornale della R. Accad medico-chirurgica di Torino, Tip. di G. Favale e Compagnia, Torino,Torino, Torino, [Nella seconda, nella terza e nella quarta puntata il titolo è : Considerazioni sopra la flogosi dei Vasi sanguigni. Nella quinta puntata e nelle successive il titolo è : Considerazioni critiche sopra la flogosi ecc.]. / mammiferi,Torino,Tip. del Picc. Con. d'Italia. L'opera è preceduta da un'affettuosa lettera dedicatoria « al professore Francesco De Sanctis a Zurigo. Sulla copertina dei Mammiferi si legge: « Quest'opera si com- porrà di tre volumi : il primo conterrà YIntroduzione, il secondo i Generi, il terzo le Specie dei mammiferi, e sarà pubblicata a fascicoli di circa 5 fogli a ragione di centesimi trenta per ciascun foglio. Tutta l'opera sarà composta di circa 70 fogli... »]. Fisiologia, Torino, Franco, Estratto dalla Nuova enciclopedia popolare del Pomba). Gl'ippocratici e gli antippocralici, nella Rivista contemporanea, Torino, dalla Società l'Unione tip. editrice, Lettere fisiologiche. Lettera I, nella Rivista contemporanea, Torino, dal- l'Unione tip. Editrice. Definizione della vita], . [Il De Meis, sotto la data di Modena, espone l'idea del corso di fisiologia iniziato in quella Università « e che con dispiacere sono ora costretto ad interrompere ». Cfr. infra: Prelezione al corso di fisiologia ecc.]. Agli elettori di Manoppello, (ppNapoli Prelezione al corso di fisiologia dato nella R. Università di Modena nel- l'anno scolastico Napoli, Stabil. tipogr. di T. Cottrau, Il Collegio Medico-chirurgico di Napoli e la « Monarchia nazionale », Na- poli, Stab. tip. F. Vitale, [Polemica anonima contro il giornale la Monarchia nazionale. Reca la data del 2 gennaio 1862]. Degli elementi della medicina, Prelezione di M. professore di storia della medicina nella R. Università di Bologna, Bologna, Monti, Della natura medicatrice. Lettera prima al prof. Cesare Taruffi, in Bullettino delle scienze mediche pubblicato per cura della Società medico-chirurgica di Bologna. Bologna, Tipi Gamberini e Parmeggiani, La chimica fisiologica, Lettere, Fano, nel giornale L'Ippocratico). [Sono due lettere: I. La vita; La chimica inorganica. - l De Meis si era proposto di scriverne dodici, e di pubblicarle pei tipi del Le Monnier. Questi insistette molto, anche per mezzo di Marianna Florenzi-Waddington, per averle dall'Autore ; ma invano]. / naturalisti, Dialogo 1°, nella Civiltà Italiana, Firenze, Niccolai, dir. da A. De Gubernatis, La natura a volo d'uccello : Forza e materia, Dialogo, nella Civiltà Italiana, Firenze, Niccolai, dir. da A. De Gubernatis, La natura a volo d'uccello: Un nuovo corpo semplice, Dialogo, nella Civiltà Italiana, Firenze, [Questo dialogo e i due pre- cedenti sono citati nei “I Tipi animali” col titolo: “I tipi naturali.” De Meis deputato di Chieti ai suoi elettori, Bologna, Monti,Reca la data: Bologna tipi VegetaU. Ad uso delle scuole italiane, Bologna, Monti,[È, dedicato alla contessa Teresa Gozzadini]. Lettere [il testo: lettera] sulla patologia storica. Lettera I. Si dimostra che l'uomo era in origine assolutamente sano. Estr. dal Bull, delle scienze mediche di Bologna, Delle prime linee della patologia storica, Prelezione al corso di storia della medicina per M., Bologna, Monti, Il sovrano, nella Rivista bolognese, periodico mensuale di scienze e letteratura, compilato da Albicini, Fiorentino, Siciliani e Panzacchi, Bologna, Monti, [Ristampato, con notizie e documenti della polemica a cui lo scritto diede luogo tra Carducci e Fiorentino, da CROCE, nella Critica, Vili Dichiarazione nella Gazzetta dell'Emilia, [Si riferisce alla polemica ora accennata. Fu pubblicata anche nel giornale La Patria di Napoli, a. Vili; e fu ri- stampata dal CROCE, nella Critica, Vili sovrano. Al signor G. B. Tahiti. [Articolo Il|, nella Rivista bolognese, Bologna, Monti, [È una lettera, con la data: Bologna. Dopo la laurea - Vita e pensieri [parte prima|, Bologna, Monti, Bologna, Monti, Le prime cinque lettere erano state pubblicate qualche anno prima nel giornale L'Ippocratico di Fano. L'Intermezzo pubblicato nella Rivista bolognese, prima della pubblicazione del volume]. La natura medicatricc e la storia della medicina, Lettera al prof. Salvatore Tommasi, Bologna, Monti, (Estratto dal fase. 8° della Rivista bolognese, Bologna. [Fu pubblicata anche nel Morgagni, Della medicina sperimentale, Prelezione, Bologna, pubblicata anche nel Morgagni di Napoli, Lo Stato, nella Rivista bolognese, Deus creavit, Dialogo I, nella Rivista bolognese, Della utilità dello studio della storia della medicina, [Prelezione], Estratto dalla Rivista Partenopea Testa e Bufalini. Lettere IV, Fano, Lama, 1870 (estr. dall'Ippocratico). Sintesi ed episintesi, Prelezione, Bologna, Monti, Pubblicata sotto il titolo di « Prelezione » nei Tipi animali. I tipi animali, Lezioni, [parte prima], Bologna, Monti, [La Prelezione era 3 stata pubblicata prima (v. Sintesi ed episintesi). La lezione fu pubbl. nel Giornale napoletano di filosofia e lettere, dir. da Spaventa, F. Fiorentino e V. Imbriani, col titolo: I tipi animali (Da Linneo a Darwin)]. Prenozioni, Bologna, Tip. di G. Cenerelli, Del concetto della storia della medicina, Prelezione, Bologna, Monti, La medicina religiosa, Prelezione, Bologna, Monti,pubblicata anche nel Giornale napoletano di filosofia e lettere, scienze morali e politiche, diretto da Fiorentino). All'onorevole signor commendatore Gaspare Monaco La Valletta senatore del Regno, presidente dell'Associazione costituzionale di Chieti, Bologna, Monti, [È, una lettera, con la data: Bologna, Il canonico di Campello e la stampa tedesca, nella Gazzetta dell Emilia, [Anonimo. Si finge tradotto dal tedesco]. La malattia dell' on. Sella, nella Gazzetta d'Italia, [giorn. di Firenze], [Anonimo]. Agli elettori del 1° Collegio di Chieti, Bologna, Monti, Filosofia e non filosofia, Discorso inaugurale per la riapertura degli studi nella Imperiale Accademia di Krenztburg del dott. E. K. Mayow, prof, di zoologia in detta Università, tradotto dal tedesco, Bologna, Monti, Francesco De Sanctis, Bologna, Fava e Garagnani [Estratto dai nu- meri 8-11 della Gazzetta dell'Emilia, opuscolo di pp. 18, in -16°, firmato « Camillo ». Ristampato nel volume In memoria di Fr. De Sanctis, Na- poli, Morano, XVII Spaventa [Necrologia di], nella Gazzetta dell'Emilia (Monitore di Bologna). Fiorentino, Necrologia, Bologna, Fava e Garagnani, [Estratto dalla Gazzetta dell'Emilia, Opu- scolo. Spagnolismi e francesismi. Note di Ange i Antonio Meschia maestro elementare in Zangarona Albanese, Bologna, Monti. Darwin e la scienza moderna, Discorso del prof. Camillo De Meis per la solenne inaugurazione degli studi nella R. Università di Bologna nell'anno scolastico, Bologna, Monti. [Stampato anche neWAnn. della R. Univ. di Bologna]. Rialzare gli studi, Estratto dal giornale L'Università, Bologna, Società Tip. già Compositori, (pp. 12, in -8°). Repubblica o monarchia (Da un album), nel Sancio Panza, Bollettino quo- tidiano di Bologna, stampato e redatto nella sede dell'Esposizione Emiliana, N. Primo; segue una polemichetta nel giorn. cit. numeri [La pagina d'album e la polemica furono ripro- dotte in un opuscolo, edito a Bologna, Fava e Garagnani,]. Corso di storia della medicina nella Università di Bologne - Appunti sul- l'introduzione al corso e sulla medicina orientale, nell'Università, Bo- logna, A. Idelson, . [Uscì pure in un opuscolo, estratto dall'Università, Bologna, Azzo- guidi]. Lettere di M. a Spaventa, pubbl. da G. GENTILE, Napoli, Melfi e Joele, 1901, per nozze Salza-Rolando [Tre lettere ed un telegramma di M. sono state pubblicate in Maria Teresa di Serego-Allighieri Gozzadini, seconda edizione ampliata con pref. Di CARDUCCI, Bologna, Zanichelli, (la prima è la dedicatoria dei Tipi vegetali); una lettera da G. CANEVAZZI, Autografi inediti pubblicati per le auspicatissime nozze del tenente nobile Orazio Toraldo di Francia con la gentile signorina Gina Mazzoni, celebrate in Firenze il III luglio MCMXI, Modena, Soc. tip. Modenese. Altre lettere di M. sono state pubblicate da CROCE nel volume Silvio Spaventa - - Lettere scritti documenti, Napoli, Morano, 1898; e negli articoli su // De Sanctis in esilio - Lettere inedite, nella Critica, ed una in FRANCESCO De SANCTIS, Lettere da Zurigo a Diomede Marvasi, Napoli, Ricciardi, Il Croce preparava anche, sin dal 19i4 ('), un florilegio del carteggio inedito del De Meis per gli Atti dell'Accademia Pontaniana. Molte lettere del De Meis sono possedute da Bruto Amante, e saranno probabilmente pubblicate a spese del Consiglio Provinciale di Chietij). La religione cristiana è già distrutta nel mondo civile latino. Vive solo nell'ancor barbaro mondo germanico. La riforma è il secondo medio evo germanico. Il soprannaturale non illude più. All'epica religiosa del medio evo, ed all'epica giocosa del risorgimento, parodia generica del -- Questo pensiero risulta dalle pagine del Dopo la laurea, pur senza esservi enunciato esplicitamente, e chiarisce le apparenti contraddizioni notate dal GENTILE, La filosofia in Italia, Le idee estetiche e religiose -- soprannaturale nel principio, poi caricatura smaccata e cinica della religione, succede la drammatica senza soprannaturale. La distruzione è compiuta in Italia; in Francia erano irreligiosi i pochi uomini colti, ma la nazione era incolta, e per questo la riforma potè attecchirvi, come vi attecchì nel secolo XVII il giansenismo, una riforma mitigata; ma nel secolo XVIII la Francia, divenuta centro di coltura, fu anche centro di incredulità. Il secolo XVIII è il secolo della filosofìa sofistica e negativa. Alla tragedia di Voltaire, priva di vita poetica quando ha per fine l'irreligione, ed a quella dell' Alfieri, in cui tutto è umano e naturale, succede la lirica moderna, che non lascia alcun margine fra sé e l'assoluta riflessione, e giunge all'ultimo limite della poesia. Anche in Germania, in parte per riflessione spontanea e in parte per influenza del risorgimento italiano divenuto sudeuropeo, si è iniziato il risorgimento, che DIFFERISCE DAL LATINO in quanto non è la semplice rappresentazione del naturale, ma la negazione del soprannaturale, rappresentata e sviluppata nelle sue conseguenze. Secondo M., i due risorgimenti, IL LATINO e il germanico, che già nel sec. XVII reagivano l'uno sull'altro, si fondono in un solo risorgimento, un solo mondo di poesia e di pensiero, in cui la religione, divenuta indifferente, è appunto per questo perfettamente tollerata. E a questa fusione delle due Europe in una sola Europa spirituale seguirà certo fra non molti secoli la fusione in una sola Europa giuridica e politica. Il secolo XIX durerà finché duri l'uomo. S'inizia nel secolo XVII, quando a lato a Bacone — che mettendo fin da principio fuori causa lo spirito non lo ritrova più in seguito, e nega la possibilità di conoscerlo, consolidando la opera del risorgimento negativo, — sorge Cartesio, che con [Dopo la laurea, [Le idee estetiche e religiose.] verte subito il dubbio nell'intima certezza di sé, del pensiero del suo pensiero, Il vangelo di Gesù è quello del cuore, il vangelo di Giovanni quello della fantasia, il Discorso del metodo è il vangelo dello spirito. Tu es Petrus. Il cogito cartesiano è la pietra su cui sorgerà la vera Chiesa cattolica, un edifizio che avrà le proporzioni dell'universo ed accoglierà tutto il genere umano, destinato a formare un solo ovile sotto un solo pastore, il pensiero. Dopo Cartesio, il moderno Anassagora, viene Kant, il Socrate moderno, che leva di mezzo la metafìsica e la natura, e parla dello spirito, uno spirito fenomenico sì, ma dal quale egli fa scaturire la vita, la virtù, la morale, attribuendo alle cose dello spirito un pregio infinito. Vero è che questo infinito, questo divino, questo assoluto e universale non è che individuale. Ma solo per Socrate. Dopo di lui viene Platone — leggi FICHTE —, che con profonda intuizione vede come l'universale e il particolare di Socrate si compenetrino in una sola unità. E dopo Platone viene Aristotele, viene Hegel, che nulla concede alla intuizione e alla fantasia, procede con rigore, esattezza e precisione, tanto che il suo regno non durerà solo diciotto secoli, come quello dell'antico Aristotele, ma diciottomila, o meglio finché duri questo attuale genere umano.Hegel, ponendosi nella posizione di Cartesio, rifa per intero il processo della conoscenza e trova il processo della creazione. Questo grande movimento, che si compie nel nord, si era iniziato nel sud; ma il sangue di BRUNO (si veda) era stato versato invano ed VICO (si veda) non era stato compreso da nessuno, [Pel giudizio di M. circa il sistema cartesiano, v. qui addietro, ; e cfr. Cfr. qui addietro, V. Dopo la laurea, Le idee estetiche e religiose.] un po' per colpa del papato e molto più pel carattere delle loro creazioni, che sono intuizioni isolate del genio, più che momenti di uno sviluppo storico ordinato e necessario. La storia della filosofia moderna è una storia tutta settentrionale. La Germania è la nuova Grecia europea. Nel MONDO LATINO non giunge che tardi l'eco indebolita e sfigurata della grande filosofia. Cartesio, il padre della filosofia moderna, non procede da BRUNO, non è inteso da VICO, né da GIOBERTI finché egli non si e “spapificato. Spinoza fa rabbrividire l'Italia e la Francia. M. ritene che a Napoli si fosse sempre conservato, in mezzo al risorgimento, un fil di tradizione di BRUNO e di VICO: la quale, così guasta e superficiale come era diventata nelle mani degl’avvocati, pure erstata bastante a farne un paese a parte; ma crede che i germi gettati dalla filosofia italiana avessero germogliato in Germania. SPAVENTA si era molto preoccupato del problema della filosofia nazionale. E M. accoglie in questo proposito l'opinione del suo Bertrando, da lui ritenuto il primo filosofo vivente dell'Italia, e forse di tutta l'Europa, la Germania inclusive Ora che la storia della filosofia moderna sia concentrata tutta esclusivamente nella sola Germania — concedendo soltanto un posto al cogito cartesiano — è una opinione che Spaventa, e a traverso Spaventa M., accettano dai romantici tedeschi. Ad essi, e a tutti coloro che hanno fede assoluta di essere nel vero, il nostro Autore rassomiglia anche in questo, che il valore di ogni singolo filosofo è per lui in ragione diretta della distanza che lo [SPAVENTA, La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea, a cura di G. GENTILE, Bari, Laterza, e Frammenti di studi sulla filosofia italiana nel secolo XVI, nel Monitore bibliografico di Daelli, Torino, V. Dopo la laurea, Le idee estetiche e religiose.] separa dalla sua propria concezione. Caratteristici in questo proposito i giudizi circa SERBATI e la evoluzione del pensiero giobertiano. Dopo Hegel, secondo M., religione e poesia cedono in Germania il posto alla teologia e all'estetica. Nel MONDO LATINO la tradizione cartesiana si è dispersa; è rimasto padrone del campo il risorgimento sofìstico, ateo e negativo. Ma l'uomo non può vivere senza un Dio, e il tempo moderno, quando il risorgimento ebbe distrutta la religione cristiana, si volge al passato, al medio evo sacerdotale e simbolico, e moltiplica gli sforzi per creare una nuova religione. Sforzi vani, che la religione cristiana, religione di Dio, del vero spirito, della sua trinità, della sua umanizzazione, è l'ultima di tutte le religioni, e solo potrà trasformarsi e purificarsi. Mentre questi vani sforzi si compiono nella Germania volgare — non in quella pensante —, nel sud, dove un elemento pensante manca, la parte più elevata, non però pensante e moderna, tardivamente inaugura il secolo XIX: è un secolo XIX non filosofico, perchè non è rischiarato che da un debole raggio di riflessione ; è pseudo-religioso e pseudo-poetico; si apre col Concordato e col Genio del Cristianesimo, parti infelici della riflessione travestita da immaginazione. La riflessione, non avendo piena coscienza di sé come nel mondo germanico, coesiste nel MONDO LATINO a fianco alla poesia; e dà origine ad una pseudo-epopea, al romanzo, genere ibrido, anfibio, tra la storia e la finzione, tra la poesia e la prosa, tra l'arte e la scienza. Il romanzo, genere equivoco EQUIVOCO GRICE, compare per la prima volta nel principio del secolo XIX dell' antichità, ricompare nel nostro se [Dopo la laurea, [Dopo la laurea, Dopo la laurea, Le idee estetiche e religiose.] e rinasce in Germania, col Goethe, genio equivoco, tra la poesia e la prosa, in cui l'universo si riflette tutto intero; si sviluppa in Inghilterra, paese equivoco, tra latino e germanico, e raggiunge la sua perfezione in Italia, paese equivoco anch'esso, mezzo liberale e poetico e mezzo prosaico e papale, e precisamente in un uomo, come Goethe a cui somiglia, equivoco: MANZONI. Si osservi che M., una volta stabilito che il romanzo è un genere equivoco, trova che sono equivoci tutti gl’individui e tutti i popoli presso i quali il romanzo fiorisce, prendendo — si noti — la parola equivoco nella accezione di misto e complesso, sì che ad ogni popolo e ad ogni individuo potrebbe indifferentemente applicarsi. Dopo Scott e MANZONI, il romanzo perde il carattere epico, e diventa sempre più storico, riflessivo e prosaico con l'Hugo e con la Sand, finché in Kock e Poe la prosa assorbe ed avviluppa in se la poesia. Nel risorgimento moderno, come nell'antico, la lotta comincia antireligiosa e finisce antifilosofica: prima la riforma, uno scetticismo che distrugge 1' Olimpo cattolico ; poi il deismo, uno scetticismo più progredito; infine l'ateismo, uno scetticismo assoluto, la pessima delle filosofie. E non è finita ancora la triplice serie, osserva M., fedele sempre alle sue triadi. La Germania è per tre quarti protestante; la Francia è prevalentemente deista, e in parte atea. L’ITALIA HA UNA VENTINA DI MILIONI D’ANALFABETI, TUTTI PAPO-TEMPORALI; i semi-analfabeti sono in gran parte demagoghi. Il risorgimento produce quella filosofia che è la bestia nera di M., la filosofia positiva. E la filosofia che gli ha preso fra i suoi artigli, strappandolo alla fede hegeliana, un caro amico — rimasto tale malgrado la irreconci[Dopo la laurea, Le idee estetiche e religiose.] liabile opposizione delle opinioni filosofiche. Villari, al quale così frequenti e amichevoli frecciate sono dirette nel Dopo la laurea; e la filosofia che accoglieva la teoria dell'evoluzione del Darwin; e la filosofia opposta alla hegeliana nel principio, nella essenza, nel metodo. Mai M. si lascia sfuggire una occasione di combatterla : trova che la filosofia scettica dichiara irraggiungibile la natura delle cose; ma la filosofia nuova, la filosofia positiva o iperscettica, non ne fa neppur materia di dubbio o di discussione, ed è una filosofia dell'apparenza, cioè una filosofia antifilosofica. Il risorgimento iperscettico non può trovare la verità, perchè ha l'occhio sempre rivolto alla natura esterna, e non mai alla natura interna, al pensiero dell'uomo, che è la verità stessa. Secondo M., la filosofia sedicente positiva è di fatto negativa, poiché nega il negabile, la conoscenza dell'essenziale, e non pone che la conoscenza dell'apparente, del reale e dell'accidentale, che nessuno ha mai pensato a negare. Questa pseudo filosofia si sviluppa come la vera. Il primo atto è il principio. La scena è in Italia: TELESIO scopre l'apparenza come principio. Il secondo atto è il metodo. La scena è dapprima in Italia, poi in Inghilterra; il metodo galileo-baconiano, ovvero induttivo sperimentale, ha due parti: la descrizione e la legge dei fenomeni. Il terzo atto è il sistema, che ha pure due parti: la classificazione e la filiazione dei fenomeni. La filosofia positiva è una terza corrente, che si caccia fra la corrente poetica e la filosofica, ed è il sangue della [Dopo la laurea, passim; VlLLARI, La filosofia positiva e il metodo storico, nel Politecnico di Milano; e SPAVENTA, Scritti filosofici, nota, per quanto si riferisce alle critiche mosse a questa pubblicazione dal WYROUBOFF, dal MAIANI, dal FIORENTINO, dal TOCCO. Dopo la laurea, Le idee estetiche e religiose] filosofia; l'osservazione e l'esperienza ne è lo stomaco; l'induzione baconiana il polmone sanguificatore. La legge positiva il torrente della circolazione. Ed essa, la filosofia, è il cervello, in cui il sangue positivo diventa anima e pensiero speculativo. Giorno verrà in cui lo stomaco baconiano non avrà più nulla a digerire, né il polmone a respirare; e la natura divenuta tutta sangue circolerà dentro dell'uomo. Allora questa terza corrente, tutta e sempre prosaica, sarà divenuta un mare, ed avrà confuse le sue acque col mare della religione, della poesia e della filosofia. La terza parte del gran dramma della filosofia cristiana è il tempo nuovo. Dopo la riflessione negativa del risorgimento, la filosofia moderna, come ogni filosofia, muove alla ricerca di un principio. Il nuovo Talete è BRUNO; il nuovo Pitagora è Leibnitz. Per passare dal naturalismo dinamico di BRUNO e dal neo-pitagorismo e, per così dire, dall'atomismo ideale leibnitziano, dal principio naturale al principio umano, occorre un nuovo Anassagora, e venne Cartesio. Il principio cartesiano, come tutte le cose del mondo, nasce non perfetto; in Cartesio è uovo o tutt' al più embrione. Il secondo atto della filosofia moderna si volge al metodo. Nel perfezionare il metodo antico, l'antica dialettica, proporzionatamente alla più perfetta natura del principio moderno, e nell' esplorare più completamente il principio, consiste il lavoro del secondo atto del secolo XIX, che termina poco dopo la fine del secolo XVIII. L'atto terzo è il sistema, è il principio di Cartesio e dello Spinoza, del Kant e dello Schelling, corretto e metodicamente sviluppato. Ed è nella sua essenza, se non nella sua esecuzione, il sistema più compiuto e perfetto, ne altro ve ne potrà mai essere in eterno. Il principio è il germe e l'assoluta possibilità dell'universo, ed è quindi uno, come uno è l'universo; tutti [Cfr. qui addietro, Le idee estetiche e religiose. i principi a traverso ai quali la riflessione greca è passata non sono che le forme e i gradi della sua cognizione. E uno è per conseguenza il metodo : e quando si giunge a un punto nel quale il principio contiene in se il tutto % e il metodo si confonde col processo evolutivo del principio, e il sistema è il tutto spiegato; quando la filosofìa giunge a comprendere il creante e il creato in un attivo processo di creazione, non ha più dove andare, a meno che non voglia indietreggiare, come fa la Grecia dopo Aristotele, o uscir dell'universo. E se il tempo moderno non vuole indietreggiare, bisogna che si contenti del suo nuovo Aristotele. Non è possibile un terzo Aristotele, perchè il tempo antico ha ricevuto nel moderno il perfezionamento essenziale, il solo di cui fosse capace : di oggettivo è diventato soggettivo, di totalità immobile vivo processo di cognizione e di creazione. Vivo di riflessione filosofica, non d'immaginazione. Un sistema, per concreto che sia, è sempre un'astrazione, e l'astrazione è la morte dell'anima umana. L'anima vive finché la fa, ma quando l'ha fatta, quando della realtà vivente, ossia di se stessa, ha composto quell'estratto che si chiama pensiero filosofico, allora l'azione si arresta, e con l'azione è finita la vita. Quando Aristotele creato un grande sistema, perfetto e compiuto per l'antichità, lo spirito antico vi si chiude come in un sepolcro per secoli ; e torna alla vita solo quando ricomincia a sentire e a fantasticare. Quando la Germania crea il vero sistema del mondo, e recata la religione cristiana nella forma di un cristianesimo assoluto, allora la vita si congela nell'astrazione, e lo spirito germanico rimane assiderato. Ma presto si scuote, e, brancolando nel buio dell'astrazione hegeliana, trova il risorgimento negativo ed ateo ed il risorgimento negativo-positivo. Congiungendosi col primo, produce mostri filosofici ed aborti strani; col secondo la medicina naturali- [Dopo la laurea, Le idee estetiche e religiose.] stica e la storia naturale materiale. Ma la Germania materialistica e naturalistica è più morta della Germania hegeliana. Come la pura riflessione, così la pura contemplazione è la morte. La vita è pensiero apparente, è unità di riflessione e di contemplazione, di metafìsica e di filosofìa positiva, di poesia e di filosofìa. La storia universale è una sequela di creazioni, identiche fra loro quanto al ritmo e alla legge, sempre più pure e perfette quanto al contenuto, che comincia dalla pura forma dello spazio, e termina nella forma più pura del tempo. Ogni creazione ha come fine la creazione successiva ; ciascuna vive di quella dalla quale nasce e serve di alimento a quella a cui dà origine, che le si sovrappone e l'avviluppa in se stessa, senza distruggerla. Così dalla natura nasce il regno vegetale, da questo l'animale, dall'animale l'uomo finito e particolare, e da questo l'uomo universale. Tutto questo è il regno umano inferiore, e tutto si spiega nella forma dello spazio, e coesiste come nella natura. L'uomo di sopra, il regno umano universale, ha esso pure la sua storia, ed è una serie di sfere, che l'uria avviluppa l'altra; prima l'arte, poi la religione, poi lo spirito, che universalizza la natura, e dà valore assoluto e infinito al particolare e al finito. Tlàvta qsI . Eterna è solo l'idea ed immortale è soltanto la natura. Come la natura, così l'uomo, lo spirito umano, natura anch'esso, ha una legge inflessibile e costante. « Sono due nature diverse, certo, e ciascuna ha la sua legge particolare e propria, ma in fondo è una natura sola, ed una sola legge naturale. Le forme e gli elementi naturali ed umani sono del pari indistruttibili, e la legge comune della loro attività è immutabile: nascere, crescere, decadere e perire è destino comune agl’uomini, agl’animali, alle piante Dopo la laurea, I tipi animali, Le idee estetiche e religiose. e ai sistemi planetari. Ma gl’elementi della natura sono l'uno fuori dell'altro, e anche quando si combinano non si compenetrano. Quelli dello spirito sono compenetrati ed intimamente unificati, ne mai si scompagnano nella realtà, variando solo quanto alla proporzione. E il prodotto piglia forma e natura dall'elemento preponderante e più attivo. La natura è come una scala a piuoli. Lo spirito come una scala a corda, che raggiunta la meta si raggruppa in se stessa. Nell'uomo-cosmos gl’elementi spirituali sono tutti in uno stato di assoluta quiete e di completa indifferenza. Solo il genio, l'immaginazione e attiva da principio. Poi entra in attività il senso. Anche la natura, poiché si muove, deve avere il senso naturale, nella forma inferiore di senso chimico ed in quella superiore di senso meccanico. Poi l'uomo di sistema solare si fa pianta. Nella pianta l'unico elemento spirituale attivo è il senso chimico. Nell'animale v'è il senso meccanico in nuove forme; v'è un arco diastaltico, di cui l'impressione, il senso naturale è il primo atto, e l'ultimo è il movimento, la contrazione; e nel sommo dell'arco cominciano ad entrare in azione gl’altri elementi umani: immaginazione, sensazione, memoria, e ristretta in una sfera tutta animale una piccola induzione, e per poco la famiglia umana, e talvolta la società umana in forma animale. Finalmente nell'uomo entra in attività la coscienza, la riflessione, e con questa gli elementi spirituali superiori, la poesia, la religione. Manca la riflessione della riflessione, la scienza; predomina il senso (vegetale, animale ed umano). Questo è lo stato naturale di cui parla Rousseau. Nel secondo tempo l'attività passa alla fantasia, e si conciliano le disuguaglianze fra gl’uomini. Queste si vanno poi via via accentuando per opera della riflessione, che si è andata rinvigorendo alle spese del sentimento e dell'immaginazione. Ma contemporaneamente a questo processo di divisione e di analisi, si compie nella storia un lavoro di unificazione e di sintesi. La grande ragione avviluppa la piccola, poiché è sempre la facoltà superiore che unifica in sé e dà la sua forma alla facoltà inferiore, da cui riceve in contraccambio LA VITA. Questa seconda coscienza non è un trovato della odierna metafisica, che anche Aristotele parla di due vovg, l'uno poietico o attivo, l'altro patetico o passivo ; e nel secolo XVI qualcuno e arso vivo per aver parlato di quel secondo spirito. La vera vita dello spirito, unità vivente, è in una moltitudine di individui ad un tempo ; e però la storia dello spirito si compone di una successione di grandi unità. Il primo stato embrionale del genere umano è la natura (M., hegeliano e medico, prende spesso come termine di confronto l'organismo umano); la vita fetale è il vegetabile e l'animale. Terza muda è quella dell'uomo positivo, l'infante del genere umano. Egli con la sua piccola positiva riflessione vede intorno a se un mondo finito, e si fa un Dio finito e positivo; non soddisfatto di questo breve corso mortale, senza scopo in se stesso, sogna una seconda vita, ha fede in essa, ed è religioso. Questa religione, questa fede, si trasforma a poco a poco in un ideale, in un caro sogno poetico. Poi dalla prima nasce una seconda coscienza, e l'uomo intuitivo diventa quarta muda l'uomo riflessivo e intellettuale. La nuova coscienza, mentre si appropria la coscienza finita e positiva, imprime in tutte le diverse funzioni umane il suggello della sua infinita unità, pur lasciandole nella loro distinzione naturale; e così permangono l'agricoltore, l'avvocato, il medico, e via dicendo. Ma nella sfera superiore le due coscienze si unificano, ed il poeta ed il prete rimangono assolutamente identificati nel pensatore, perchè una volta sviluppata la coscienza intellettiva l'uomo non può più deporla per ritornare uomo positivo ovvero semi-uomo, così come non poteva deporre la coscienza positiva e tornar ad essere [Dopo la laurea, Del Vecchio-Veneziani - animale. E la poesia si trasforma in estetica; la religione in critica e in filosofia. Oggi la poesia non c'è più al mondo, perchè essa non è una combinazione di fantasia che afferra e trasforma e di natura afferrata e idealizzata ; ma è una sola unità, « è l'universo pervenuto a grado di spirito, che inconsciamente si trasforma e si purifica nella conscia anima di un solo uomo, spettatore più che autore della sua propria trasformazione ». È un fatto di ragione che la vita umana comincia con l'assoluta barbarie, col puro senso materiale e col semplice istinto naturale; e termina nella riflessione intellettuale, che è la vera vita e l'assoluta e definitiva civiltà. È un fatto di osservazione e di ragione che si va dall'una all'altra passando per la forma intermedia della immaginazione. La religione e l'arte è il regno dell'immaginazione: è una barbarie civile ed un senso spirituale. L'epica è la poesia immaginativa e barbara, e perciò più perfetta; la lirica è la poesia riflessiva e civile, e perciò più imperfetta; la drammatica è la forma intermedia. Essa è più riflessiva dell'epica, e sviluppa un elemento di questa; è epico- religiosa nell'antichità, raggiunge la perfezione nel risorgimento, e decade nel secolo XIX, nel greco-romano come nel latino-germanico, per eccesso di riflessione. Analogo arco descrive la lirica, che sviluppa un elemento della drammatica, e, finita come poesia, durerà come lirismo filosofico finché duri il secolo XIX, ossia finché duri il genere umano. La poesia sensibile ed oggettiva è la barbarie dello spirito umano, la filosofia intellettuale e soggettiva è la sua civiltà ; dall'una all'altra si passa a traverso la forma intermedia della religione, che è tutt'insieme oggettiva e soggettiva, è sensibilmente intellettuale, è la barbarie civile dello spirito umano. La religione più barbara, più naturale, più oggettiva e più epica è la religione indiana; la più civile, più umana, più soggettiva e più lirica è la cristiana. Tra la religione epica orientale e la religione lirica occidentale, la religione passa per una stazione intermedia, la Grecia, e vi prende una forma intermedia, la forma drammatica. Nella religione indiana troviamo tutti gli elementi e tutti i caratteri di un sistema religioso completamente sviluppato; il politeismo greco è la prima caduta della religione, la quale risorge nel tempo moderno. L'oriente moderno, ossia il medio evo, pone gli elementi essenziali della religione, che sono quelli stessi del pensiero, nella vera forma religiosa; l'antichità moderna, ossia il risorgimento, spezza questa forma; il secolo XIX, il vero tempo moderno, li pone nella forma di pensiero : invece della riflessione filosofica del medio evo è una filosofia religiosa. L'oriente è essenzialmente epico; la Grecia è, nella sua stessa epopea, principalmente drammatica; il tempo moderno è tutto umano e tutto divino ed è tutto lirico e riflessivo. E del tempo moderno il medio evo è religioso ed epico; ma è un'epica lirica, ispirata dalla grande riflessione: tale è la poesia dantesca. Il risorgimento è irreligioso e drammatico. Il fantastico si cangia nel meraviglioso; poi il meraviglioso stesso sparisce dalla poesia. Il secolo XIX è di nuovo religioso ed è tutto lirico: il principio è epico-lirico; poi viene la drammatica, che comincia storica e finisce cittadinesca e domestica; e all'ultimo viene una lirica tutta stravolta per voler essere ultra-poetica. Ormai la riflessione ha superata l'immaginazione; il sentimento e la fantasia sono stati oltrepassati e ravviluppati dentro al pensiero; quindi quella del nostro tempo deve essere una poesia lirica, drammatica ed epica ad un tempo; il prodotto di tutte le facoltà riunite, la filosofia vivente, poetica e religiosa, la filosofia dell'universo, cioè dell'uomo. 11 secolo XIX, cominciato lirico-poetico, termina lirico-prosaicofilosofico-poetico-religioso ed assolutamente cristiano. La poesia non è morta; ha subita una metempsicosi, uscendo dalla forma di immaginazione per entrare in quella di FILOSOFIA, e in quella vive ed eternamente vivrà. La forma e l'elemento della poesia e della religione è, come abbiamo visto, l'immaginazione. Quando il risorgimento ha distrutta l'immaginazione, allora il sentimento, che prima era in germe, assorbe tutto l'uomo e tutta la natura. E sorge la musica f 1 ), forma di poesia della quale il sentimento è solo elemento e sola sostanza, e il tempo V unica forma. La musica è l'ultima delle arti ; la poesia è la prima. Le arti plastiche usano una materia più naturale, meno ideale, debbono sostenere con questa una lotta più lunga, e giungono più tardi a perfezione. Viene prima la scultura, poi la pitiura. Certo la musica è nata, come tutto il resto, con l'uomo; ma nel medio evo antico è un esercizio secondario, subordinato alla poesia e alla religione ; nel risorgimento sofistico è bensì un'arte, ma rimane di gran lunga inferiore alla scultura e alla pittura ; nel medio evo moderno la musica è epicoreligiosa, e rimane subordinata alla religione. Solo nel risorgimento moderno la musica si sviluppa, mentre le arti plastiche decadono: dapprima, nel risorgimento drammatico, la musica non è che un compimento e un aiuto del dramma ; acquista un proprio assoluto valore solo nel risorgimento lirico, che è il tempo della negazione del pensiero, ossia dell'essenziale, e quindi è il tempo del nulla. Questo vuoto sentimento si traduce in un vuoto suono, che diviene arte e poesia. La musica è dunque una lirica vacua, è un'arte oltre-lirica, è l'arte del nulla. È l'ultimo prodotto del risorgimento, ed è quello che meglio ne scopre il carattere, poiché il fine è il grande rivelatore. Ma il nulla al quale il risorgimento mette capo, se in apparenza è la fine, in realtà è il principio, quello stesso dal quale in origine usciva l’universo. Da quel punto istesso l'universo, ossia l'uomo, rico- [Dopo la laurea] mincia da capo, tutto intero, in seno alla filosofìa. Questa nuova creazione è il tempo dell'essere, il secolo XIX, che ha per necessaria preparazione il risorgimento progressivamente negativo e per divisa: negazione di negazione. Il secolo XIX nega quel vuoto universo di suoni ; fa della musica quello stesso che già prima ha fatto della poesia, la dissolve a poco a poco ; comincia dallo snaturare la musica a furia di sapere e di meditazione, dando sempre meno alla melodia e sempre più all'armonia, e la riduce ad essere una scienza musicale. Questo è già avvenuto in Germania, dove allato al risorgimento scorre il tempo moderno; nell'Europa italo-celtica prevale ancora il risorgimento lirico, e tocca ormai l'estremo punto dell'assoluta negazione; già la musica si avvicina al suo limite prosaico ; già il pensiero positivo comincia a sopraffare e ad assorbire il sentimento e l'immaginazione. Il tempo moderno è la vita che rinasce dal seno della morte, la fede che spunta dalla negazione. Non il tempo moderno dell'antichità, perchè sopravviene nell'anima romana, mentre il dramma del risorgimento si era combattuto nell'anima greca, ma il vero tempo moderno che è la continuazione e l'adempimento del risorgimento cristiano. In questo secolo il sentimento dell'umanità, che è un aspetto del sentimento della natura, prenderà la sua vera forma in una nuova poesia, nella quale la lirica, la drammatica e l'epica saranno ricomposte in una unità assoluta e definitiva. L'unificazione non è però avvenuta ancora nel campo della poesia, né in quello della religione e della filosofia. La poesia primitiva o naturale, invariabile come la natura, sussiste presso il popolo analfabeta; e c'è la poesia medioevale e quella del risorgimento, immodernate e ormai vuote. Così è delle forme religiose. Analogamente delle forme filosofiche : esiste presso il popolo apostolico primitivo la filosofia primitiva o religione ; ed esiste pure la filosofia medioevale, la scolastica, e la filosofia del risorgimento, con tutte le sue gradazioni progressivamente scettiche e negative e con tutte le sue forme positive. Abbiamo oggi la massima complicazione di indirizzi e di forme ; non è però difficile distinguere le diverse funzioni storiche in atto, né prevedere un continuo avvicinarsi ad una assoluta unità. A questa teoria di M. si mossero da Spaventa e da altr’obbiezioni, che possono ridursi sostanzialmente a questa. Come può lo spirito umano perdere due delle sue funzioni essenziali, l'arte e la religione? M. risponde che SPAVENTA ha ragione se, basandosi sulla filosofia kantiana, afferma che lo spirito umano sarà sempre tratto a fare degli assoluti giudizi religiosi ed estetici, ad unire al concetto della mente la intuizione che deve dargli corpo e vita; ma ha torto se crede che la intuizione da accompagnare all'ideale debba essere sempre fantastica e falsa. Nel principio l'intuizione religiosa e l'intuizione estetica è creata dalla fantasia, ed è a vicenda distrutta perchè non è la vera, non è assoluta, e non agguaglia l'assoluto concetto; e di qui nasce da una parte una serie di capolavori tutti relativamente perfetti — se son davvero capolavori —, perchè l'ideale dell'arte, come finito ch'egli è, può accordarsi con una intuizione finita; e ne viene dall'altra parte una serie di religioni tutte imperfette e però tutte transitorie, perchè l'ideale religioso è infinito, e la fantasia non sa creare che delle immagini finite. Ma le due serie hanno una legge, perchè [Dopo la laurea, e cfr. Poesia ed arte, Lettera di FRANCESCHI a M., nella Rivista bolognese. Franceschi dice che M., togliendo all'uomo la religione e la poesia, lo abbassa all'abbaco e al pane ; egli non comprende che M. intende anzi di innalzarlo alla sua filosofia religioso-poetica. Le idee estetiche e religiose. hanno un termine: e il loro termine non può essere che la vera e reale intuizione corrispondente al concetto dell'arte ed all'ideale della religione. E difatti abbiamo da un lato una serie di forme estetiche l'una meno perfetta dell'altra, e sempre meno rispondenti alle condizioni assolute dell'arte; e sono sempre meno naturali e spontanee, meno epiche e fantastiche, sempre più spirituali, liriche, filosofiche e reali; e sì l'intuizione dell'arte è sempre meno lieta e bella, e più trasparente ed immediata all'ideale. È, dunque una serie regressiva e discendente. La serie religiosa è al contrario ascendente e progressiva. Ogni forma religiosa è meno fantastica, più razionale, più reale della precedente. Per cui l'ultima, la cristiana, è assolutamente vera e perfetta; in essa al mondo della ragione corrisponde un mondo fantastico quanto esser può più adeguato e spirituale : il cristianesimo non ha altro difetto che quello di essere una religione. La religione cristiana si va sempre più perfezionando; e il suo perfezionamento consiste nell'essere sempre più storia, più realtà, più verità, e sempre meno religione. E così per contrarie vie, l'una scendendo e l'altra montando, la religione e l'arte corrono al loro fine, al vero. Il vero è l'eguaglianza della realtà e dell'idea, del pensiero e dell'intuizione. L'intuizione estetica, da principio fantastica e non realmente assoluta, diventa a gradi sempre più somigliante al concetto assoluto dell'arte, finché raggiunge l'assoluta e reale intuizione. Allora la natura è concepita come un solo essere vivente, indipendente, assoluto; e ciascuna sua parte è intuita come membro dell'intero, ed assoluta essa stessa : giacché le due intuizioni ne fanno una sola. La intuizione religiosa, essendo finita, non è adeguata alla sua idea, che è infinita. La verità religiosa non è mai la vera, perchè è una combinazione di finito e di infinito, anzi che di infinito con infinito. Ma la intuizione religiosa si va sempre più allontanando dalla forma naturale, e si fa sempre più veriforme fino a diventar vera ; il che avviene quando l'infinito ritrova se stesso, ed è a un tempo concetto e intuizione. Allora al falso succede il vero, e la religione finisce. Questo non è perdere una funzione; è risolvere e trasfigurare. Le funzioni inferiori dello spirito, come la morale, il diritto, lo Stato, conservano una esistenza separata, perchè partecipano ancora della qualità della natura; ma la religione e l'arte hanno per oggetto il vero; sono i gradi e le forme del vero pensiero, e perciò quando il pensiero acquista una esistenza distinta, esse la perdono e rimangono unificate in lui. L'arte è per sua natura illusione e la religione è per sua essenza errore ; ora l'illusione è fatta per trasformarsi in certezza e realtà, l'errore in verità. L'arte si trasforma nella vera cognizione naturale ; la religione nella vera cognizione spirituale. In questa trasformazione consiste la storia; il suo compimento è il fine della civiltà ed il limite del progresso umano, che è temporalmente indefinito, ma idealmente determinato. L' ideale è provvisorio, e sparisce nell'idea. Così termina la parabola religioso-poetica, della quale il primitivo oriente è il ramo ascendente; l'antichità pagana, tutta arte e mistero, è la cima; ed il ramo che discende è l'era cristiana, in cui la religione e l'arte vanno progressivamente diventando più riflessive, sino a ridursi ad essere, oggi, il pensiero e la scienza cristiana. L'uomo moderno cerca l'ideale e trova l'idea, cerca il concetto dell'arte e trova il vero concetto, cerca il divino fuori di se e trova in se l'umano; cerca il sovrannaturale e trova il naturale. Il nuovo uomo crede e pensa; e pensando ricrea l'universo, dal suo pensiero una prima volta creato. Questo nuovo universo è un'opera d'arte in cui la forma eguaglia il concetto ; ed il concetto fatto conscio di se vince la forma, ed è bello e sublime ad un tempo. Questo nuovo universo è un capolavoro, di cui il nuovo uomo, poeta e critico insieme, intende il magistero; è un tempio, di cui il pensiero umano è il nume [ Le idee estetiche e religiose. ] e ciascun uomo il sacerdote, che a quel Dio sacrifica ciò ohe è in lui di non buono. E il nuovo uomo continua questa creazione con azioni generose ed alti pensieri. Ed è così che egli è più che mai non sia stato religioso e poeta, quando non è più che scienziato e libero pensatore ». L'uomo parte dalla tenebrosa unità della natura e del senso, e, a traverso la piccola riflessione e la grande immaginazione, giunge alla luminosa unità della riflessione intellettiva, avvivata dalla fede religiosa e poetica, che sole restano della religione e della poesia. Naturalmente gli argomenti logici addotti dal M. a sostenere la sua tesi della « metempsicosi » della religione e dell'arte nella filosofia hegeliana sono validi solo se si ammette l'esistenza di un concetto assoluto, universale, definitivamente vero, al quale le intuizioni estetiche e le religiose possano gradatamente adeguarsi; solo, in una parola, se si accoglie l'hegelismo dell'Autore. Il compendio di storia del genere umano tracciato per convalidare queste argomentazioni non raggiunge lo scopo, perchè in esso non la storia conduce alla dimostrazione, ma la dimostrazione, se pur non modifica la storia, certo la coglie nei momenti e negli aspetti a lei giovevoli, sorvolando sugli altri. E le molte e molte pagine che l'Autore consacra alla dimostrazione della sua tesi riescono invece a dimostrare questo : che egli ha avuta la somma fortuna di trovare nella sua concezione dell hegelismo la sua filosofia, la sua religione e la sua poesia. M. è certo che le tre grandi correnti umane, — la contemplativa religioso-poetica che nasce dalla natura e la riflessivo-filosofica che, nata dalla precedente, si suddivide in altre due : la filosofica positiva o filosofia della sostanza e Tanti filosofica negativa che bentosto diviene afilosofica, negativo-positiva, pseudo-riflessiva o filosofia dell'apparenza, dopo aver proceduto isolate fino al secolo XIX, suddividendosi in altre molte correnti o scienze pseudo-positive, accennano oggi a ri convergere. L'unità dell'apparenza e del pensiero, con la precedenza di questo su quella, è l'unità del pensiero. Per avere l'unità della natura non basta che le due filosofie astratte si fondano in una sola filosofia concreta; bisogna che la corrente religioso-poetica mescoli le sue acque con la corrente unificata della filosofia. La corrente filosofica, scaturita dalla religione e dalla poesia, torbida in principio, si allarga, si purifica, diviene trasparente sino a perdere ogni potere nutritivo; ma poi, a poco a poco, invade e travolge il tutto, l'uomo e la natura, la religione e la poesia; e fa di tutto una sola unità vitale. E allora la filosofia sarà la vita, sarà l'unità spontanea ed armoniosa della natura : un pensiero pieno d'amore vivificherà una natura piena di fantasia, l'amerà come natura umana, e l'adorerà come natura divina. Qui alcuno potrebbe chiedersi : in questa identificazione della filosofia con la vita, non subirà la filosofia stessa un assorbimento analogo a quello subito dall'arte e dalla religione ? La forma superiore non sarà la vita e l'azione ? Ma M. non distingue dalla vita quella sua filosofia dell'avvenire. Egli afferma che è difficile precisare come tale unificazione vitale si compia, e perchè quest'opera è appena cominciata, e perchè avviene nella profondità del pensiero, al di sotto della coscienza. Sono cose tanto lontane dic'egli e c'è di mezzo una tal nebbia di tempo avvenire, che è impossibile vederci chiaro: bisogna contentarsi di averne un'idea generale, a Ma —soggiunge — a questa generalità io ci credo, e giurerei, tanto ne sono certo, che le cose passeranno così in generale ; e che tutto anderà a terminare nella fusione di tutte le forze, di tutte le conoscenze, e di tutte le realtà, in una sola vita umana. La sua filosofia sarebbe forse un atto di fede? L'uomo è un sistema vegetativo, un sistema riproduttivo, un sistema animale e un sistema spirituale. Ciascuno di questi quattro sistemi umani è attivo e si muove; ed ha, come naturale, la causa del suo movimento fuori di se, nella natura. La natura della causa esterna che move è corrispondente e proporzionata alla natura della sfera interna che è mossa; mentre è una stessa natura che fa l'una per l'altra, ed è sempre la seconda che move se stessa con la prima natura. Ma se l'accidente, esterno o interno che sia, se la irragionevole cattiva natura interviene, e rompe la legge, e viola la ragione; se l'arbitrio umano o naturale modifica la qualità della causa motrice, e ne muta la relazione, e ne altera la proporzione con la interna sfera umana, questa si altera e si disordina. Il disordine della sfera direttamente colpita si comunica alle altre, ed è una successione e una complicazione di morbi; ma, isolati o uniti, non vi sono che quattro morbi umani essenziali: i vegetativi, i riproduttivi, gli animali, gli umani o mentali. La patologia preistorica dice che di questi quattro morbi il primo è stato il morbo vegetativo. L'uomo primitivo, uscito sano, valido ed innocente dalle mani del Creatore, rimane sano, finché rimane innocente; non ammala che per irragionevole arbitrio estemo o naturale ; non è esposto che agli accidenti meccanici, alle malattie traumatiche. Ma l'animale umano è, a differenza degli altri, capace di colpa; egli trasgredisce il precetto e oltrepassa la natura: felice colpa, perchè lo fa accorto di poterla oltrepassare. Di là dalla natura l'uomo trova se stesso : trova la sua libertà e la sua propria natura, e fa della necessità animale, istintiva ed involontaria, una necessità umana, spirituale e volontaria: e così di colpevole ritorna innocente. Ma non è più la primitiva innocenza dell'animale ignaro e meccanico; è l'innocenza dell'uomo che si vede nel suo interno, e si sa libero ; e liberamente vuole se stesso, ed ama e venera la sua propria natura. Ma bentosto egli oltrepassa questo se stesso, supera questa sua natura, e diviene di nuovo colpevole, e si rifa sempre di nuovo innocente, finché non abbia raggiunto tutto se stesso e la sua vera natura spirituale, e non sia compiuto il fato umano. Così l’uomo naturale diventa in principio civile, e poi da una civiltà passa in un' altra. La civiltà ha certamente i suoi morbi; e sopratutto nel momento del passaggio e della colpa il morbo si impadronisce dell'uomo, e cresce e si moltiplica ed imperversa. Allora l'uomo è annoiato di se stesso, e perciò si corrompe. E il morbo, fecondato dalla corruzione, genera nuovi e più crudeli morbi. La corruzione sensuale moltiplica i morbi vegetativi ; le voluttà naturali e preternaturali generano i morbi riproduttivi. Le cause psichiche non moltiplicano solo le cause naturali, ma operano anche per proprio conto, generano per diretta azione le malattie nervose e le psichiche. D'altra parte, nelle nature più elette, invece di una corruzione sensuale, nasce un principio di fermentazione intellettuale, che dà origine alle malattie dello spirito. Ma tutto questo avviene con una certa legge. Tre grandi civiltà si succedono: la prima naturale, la seconda umana, la terza divina. E ciascuna ha il suo proprio carattere e la sua particolare natura; e ciascuna si corrompe, ed ha le sue proprie e particolari malattie. La civiltà naturale quando è nel suo primo fiore e nella sua perfezione originaria è senza morbi, altro che accidentali e meccanici ; ma la sua corruzione porta seco le cause fìsiche e chimiche, e genera morbi fisici e morbi chimici: cause cosmiche, naturali, che danno origine a morbi naturali, sopratutto vegetativi, prima ai morbi nutritivi, e più tardi ai morbi formativi. La civiltà umana — il paganesimo — nel suo fiore è di nuovo senza morbi ; ma la sua corruzione porta seco le cause umane, sensuali, passionali, e dà origine ai morbi riproduttivi ed ai morbi animali: ai nervosi prima, e quindi ai psichici. La civiltà divina la cristiana nel suo primo fiore è del pari senza morbi ; essa è la reazione della medicatrice natura umana, è la guarigione dell'anima e la salute del corpo, rimedio radicale di tutti i morbi umani. Ma la reazione eccede tosto il segno della umana natura, ed è principio di nuovi morbi. Mistica e tutta entusiasmo e religioso sentimento, essa reca le cause mistiche, che danno origine alle malattie psichiche mistiche e religiose. La corruzione cristiana riproduce la corruzione pagana, e con le cause passionali rinnova le antiche malattie. Ma di sotto alle rovine del primo spunta il secondo cristianesimo, la nuova e vera civiltà divina, e riconduce le cause spirituali e le nuove malattie mentali. Quando quest'ultima civiltà avrà raggiunta la sua definitiva perfezione, allora sparirà il male e l'uomo spirituale sarà di nuovo senza morbi, come era in principio l'uomo animale. Tale è il primo e più generale risultato, la prima legge della patologia storica : l'uomo ha quattro vite, quattro anime, ed ha quattro qualità di morbi, che sono le categorie primarie della patologia. Ma ciascuna anima può oltrepassare nell'uno o nell'altro senso quei limiti della sua attività entro i quali ha luogo la oscillazione normale ; ed allora concepisce un morbo positivo o negativo, stenico ovvero astenico. Sono queste le categorie secondarie della patologia. La categoria primaria, la natura e la qualità fisiologica del morbo, è l'essenziale, e mai non manca, né può mancare ; invece la categoria secondaria, il grado e la quantità innormale, può mancare, e manca infatti, o non è sensibile ed apparente. Certo non vi è qualità senza quantità ; ma nelle piccole applicazioni cliniche la quantità innormale può mancare del tutto, perchè è supplita dalla quantità normale ; nelle grandi applicazioni storiche la categoria secondaria trasparisce sempre dentro alla categoria primaria. Le categorie primarie e secondarie ci danno la pianta della patologia storica; non l'edilìzio con tutte le sue parti. Le quattro grandi sfere contengono minori sfere, i quattro grandi sistemi contengono sistemi sempre più piccoli : apparecchi, organi, tessuti, elementi istologici: le anime generali non esistono veramente che nelle anime elementari o cellulari. I fatti sono complessi organici e naturali di categorie, le più generali chiuse nelle più particolari, e queste ricoperte dalla loro buccia innominabile ed accidentale. A forza di aggiungere categorie a categorie il vacuo si riempie e si consolida l'astrazione. La patologia storica congegnata da M. è veramente originale; e sebbene, volendo dedurre da pochi principi e compendiare in pochi schemi tutti i fatti umani, abbia talvolta dell'artinzioso, non è certo nel complesso senza genialità, e coglie con acume i nessi che legano i singoli morbi alle varie forme della civiltà umana. Ancora il terzo periodo — La filosofia della natura. La creazione secondo M.. La lotta di M. contro la teoria darwiniana. Il suo metodo trimorfo. La dimostrazione dei suoi principi. L'accidentale e il necessario nella sua concezione filosofica. M. non puo limitare la sua speculazione entro l'ambito della jatronlosofìa. Dalla sua stessa concezione di [Delle prime linee della patologia storica, Prelezione, Bologna, Monti. Della sua patologia storica l'A. scrive (Delle prime linee della patologia storica): Sarà vera o falsa, buona o cattiva; ma sarei curioso, e ben vorrei vedere chi di questa bazzecola, come d'ogni altra mia piccola cosa infino a una menoma parola, sarebbe capace di reclamare la priorità. Nella prel. qui cit. l'A. non tracciò che lo schema generale di questa sua costruzione. Ma svolse poi l'argomento nel successivo corso di lezioni universitarie, mai dato alle stampe. Cfr. SICILIANI, Gli hegeliani in Italia. Per gli argomenti trattati in questo paragrafo, si vedano: / naturalisti, La natura a volo d'uccello: Forza] questa, oltre che dall'indole del suo ingegno e dall'influenza dell'ambiente filosofico nel quale era stato educato, egli doveva essere e fu infarti condotto alla costruzione di una filosofìa della natura. Ma se egli parte dall'affermazione che l'essere è pensiero, e non vede chiaro il significato di questa identità e non ne deduce logicamente tutte le conseguenze, se egli pone le fondamenta in modo arbitrario e nelle singole parti confuse e cozzanti fra loro, non può innalzare un edifizio solido e fermo. E la sua filosofìa della natura è infatti un castello in aria, sebbene edificato con ingegnosità, pazienza e tenacia ammirevoli. Sono pagine che succedono a pagine, volumi che succedono a volumi, e rivelano una profonda conoscenza dello svolgimento di tutte le scienze mediche e naturali, dai tempi più antichi fino a quelli in cui viveva l'Autore: geologia, chimica, fisica, zoologia, anatomia umana e comparata, fisiologia, patologia, terapia; e sono ipotesi e conquiste scientifiche messe in relazione con sistemi filosofici e con periodi storici. Sono analisi di animali e di vegetali, di specie, di classi, di ordini, di generi; e descrizioni di organi, di funzioni, il cui nascere e modificarsi vuol essere spiegato dal crearsi della idea divina. Ma in tutta la costruzione si risentono le conseguenze della incertezza fondamentale. M. afferma che creare è diventare, è spiegare successivamente le forme di cui si ha il germe nel proprio essere. Il pensiero originario compie la propria creazione, e di semplice essere si fa a poco a poco pensiero assoluto. Ma poi aggiunge che il pensiero è il fondamento, il tetto e e materia, Un nuovo corpo semplice, I tipi vegetali, Deus creavit, I tipi animali, Filosofia e non filosofia, Darwin e la scienza moderna, ecc. Deus creavit, Dialogo I, nella Rivista bolognese] la travatura dell'edilìzio della natura. Egli viene così ad ammettere che il pensiero non basta ad esaurire tutta la realtà, perchè il fondamento e la travatura non sono tutto l'edifizio. Non resta dunque fedele alla concezione idealistica, secondo la quale la natura è un momento del pensiero, che si risolve interamente nel pensiero stesso, e senza la quale lo sviluppo del pensiero non sarebbe né completo, né possibile. Egli distingue nella natura due gradi e due modi di creazione: l'una sensibile, individuale, l'altra tipica, ideale, individuale anch’essa. La prima creazione è quella che l’idea dell' uomo fa dell' individuo umano; ma 1'idea dell'uomo è naturale, e le idee naturali restano latenti finché l'idea divina, prima causa di sé e della natura, le renda attuose, le fecondi e ne determini la trasformazione. Quando l'idea divina è naturata nell'uomo, la creazione cessa nella natura e ricomincia nella storia, finché l'uomo si è ricongiunto al suo principio, e l'idea divina esiste tutta in forma di idea spirituale. Anche l'idea spirituale esiste solo legata all'accidente, cioè come individuo. Quindi, come nella natura, così nello spirito accade una doppia creazione: quella dello spirito individuale e quella dello spirito universale. Il primo ripercorre le forme storiche passate dell'umanità sino all'attuale, l'altro crea le nuove e più perfette forme storiche. La storia della natura umana, quella della natura vivente e quella della natura cosmica sono le tre forme vitali di uno stesso assoluto individuo temporale, il mondo. Sono tre creazioni : una divina, eterna, infinita; l'altra essa pure ideale, ma temporale e finita, universale e particolare insieme; la terza materiale, individuale, accidentale. Dio si realizza nel mondo, e il mondo nell'individuo; quindi anche Dio si realizza nell'individuo. L'universo fa nel tempo come Dio fa nell'eternità: comincia nella forma più semplice del suo essere, la natura; si divide in due forme opposte, il vegetale e l'animale, e infine si raccoglie in una [Del Vecchio-Veneziani - Le opere scientifiche e la filosofia della natura. ] forma completa, lo spirito umano. Le forme dell'idea divina passano eternamente l'una nell'altra, senza annullarsi; e così pure le forme dell'idea naturale; ma nella materia una forma esclude l'altra, e però nell'individuo sensibile, pur rimanendo tutte idealmente, spariscono via via sensibilmente. Come un mammifero passa per le forme animali inferiori e le protovertebrate prima di assumere ra sua forma specifica, così l'individuo umano principia selvaggio, e poi riproduce le tre forme moderne essenziali, ed è prima immaginativo, indi ragionatore, e finalmente pensatore: medio evo, risorgimento, tempo nuovo. L'uomo ordinario, nel suo sviluppo, si arresta alle forme storiche già create; l'uomo di genio crea forme nuove, opera come spirito universale, traendo da Dio l'impulso e l'ispirazione creatrice. E sempre esisteranno oltre ai più, agli uomini evolutivi, anche i pochi, i creativi, finché, come la natura, anche l'umanità non sia giunta alla sua forma vera, già tracciata da Dio. E perciò ora coesistono i vari gradi e le varie forme in cui il tipo divino si squaderna nella natura. Questi gradi sono una scala di mezzi e fini, in cui la forma inferiore è organo e mezzo all'esistenza della superiore. Il ciclo tipico concepisce il moto creativo e produce il ciclo superiore. Quando la natura è fatta, comincia la vita; e quando è chiusa la creazione vitale comincia lo spirito umano. I cicli secondari, anche prima di essersi svolti interamente, cominciano a produrre i tipi corrispondenti del ciclo superiore. E la creazione ideale è creazione sensibile; la creazione di una specie è produzione di molti individui in cui appare la nuova forma. Il concetto precede l'esecuzione, e la successione effettiva e naturale presuppone la successione logica, ideale. La funzione è la vita, la forma è la natura, che precede il contenuto vitale, e non se ne lascia tuttavia assorbire e soverchiare ; e quando il contenuto sparisce la forma rimane. Nei tipi superiori la funzione assorbe e domina sempre più la forma, ma la sua vittoria non è mai completa. L'equilibrio fra la forma e il contenuto si ristabilisce non nel corpo, ma nello spirito umano. La vita passa come il tempo; la natura è più tenace. Altra è la successione di tempo, altra di idea. La successione naturale va non da ciclo a ciclo, ma da tipo a tipo; e perciò in tutte le epoche della creazione tutti i tipi primari sono, più o meno completamente, rappresentati. Ogni tipo incomincia col riprodurre i tipi formali che lo precedono, indi prende la sua forma propria, e infine arieggia al tipo che gli deve succedere. Anche diverso è il modo di accrescimento nella natura, nella vita e nello spirito. Essendo la natura pura esteriorità, i corpi inorganici crescono per moltiplicazione quantitativa esteriore, e non hanno altra unità che la loro forma comune. Nello spirito, che è pura interiorità, la esterna moltiplicità diviene interna e qualitativa. Infine, essendo la vita uno spirito naturale, un misto di esteriorità e di interiorità, di apposizione e di intuscezione, Tessere organico si sviluppa per una moltiplicazione quantitativa ed esterna e per una moltiplicazione interna e qualitativa, con prevalenza dell'una o dell'altra secondo che si tratti di una forma più o meno prossima alla natura. Mai la vita è tanto esterna che non abbia la sua interiorità ; mai la forma organica è tanto molteplice che non abbia la sua unità. Ma quest'unità è diversa nel vegetale e nell'animale. Nel vegetale la vita di ogni individuo elementare si unifica nella vita comune dell'aggregato; nell'animale deve prevalere l'unità dello spirito umano, e l'individuo, semplice e libero al di fuori, è molteplice e tutto qualificato al di dentro. Le forme superiori [sono la chiave I tipi animali,, Bologna, Monti; Lettere sulla patologia storica, I tipi animali] necessaria a spiegare ed interpretare le inferiori, per se stesse oscure, indistinte, indeterminate; e sono alla loro volta spiegate dalle forme inferiori in cui appariscono nella primitiva semplicità. Ma il riscontro non è utile se non cade sulle forme fra le quali corre una particolare e più diretta e più intima relazione tipica, secondo il vero metodo evolutivo, in cui l'idea unisce le forme ed organizza le serie, non col metodo empirico, capace solo di conclusioni generali arbitrarie, artificiali, ovvero, se alla vacuità sostituisce il preconcetto darwiniano, di una inestricabile confusione. Come Hegel combatte e denigra Newton, così M. lancia in quasi tutte le sue opere strali frequenti contro il Darwin e i darwiniani. Il naturalista inglese è per lui un genio, ma il genio dell'ignoranza, perchè pone il cieco caso in luogo della ragione vitale. Egli pretende che tutte le forme dell'intera serie animale sieno venute l'ima dall'altra per l'aggiunta di sempre nuove particolarità organiche nate a caso, e perchè utili ritenute nella selezione naturale, e trasmesse dall'eredità, senza che mai in una forma nulla preesistesse dell'altra che da essa proviene. M. afferma che qui c'è un progresso sul Lamark, in quanto la modificazione dell'essere vivente è primitiva, spontanea, in- [M.dice che la proposizione in cui si compendia la scienza dell'astronomia: I sistemi solari sono i primi uomini, il cosmos è il mondo umano primitivo... non è possibile che alla filosofia della natura: motivo per cui Newton, il divinissimo astronomo, non la sapeva altrimenti; egli nel cielo ci vedeva Dio, e per questo ci voleva poco, ma non ci vedeva l'uomo. - Dopo la laurea, li, [I tipi animaci, pel giudizio di M. circa la teoria darwiniana, Dopo la laurea, Deus creami, Darwin e la scienza moderna, I tipi animali; Filosofia e non filosofia, Lettera sulla patologia storica] genita, e non prodotta soltanto da agenti esterni; ma egli non sa comprendere come si possa affermare che tale modificazione è casuale, irrazionale, e che la ragione c'entra poi, introdotta dal caso. Ammette che in ciascuna delle teorie di Mosè, Zaratustra, Firdusi, Diodoro, Lamark, Darwin, è qualcosa di ragionevole, cioè di serio e di vero. La verità più ragionevole, sebbene espressa in modo goffo e materiale, è quella di Mosè: Deus creavit! — la meno ragionevole è quella darwiniana. La teoria adattativa del Lamark e quella selettiva di Darwin, pur essendo tutte e due sbagliate, hanno di vero lo schema comune, ed è questo: gli animali formano tutti una sola famiglia naturale ; il principio che unisce e lega le forme è l'eredità; il principio della divergenza delle forme è la variabilità. Se non che questi tre punti debbono essere integrati rispettivamente così : gli animali sono tutti in fondo uno stesso animale ; la generazione è creazione; la variabilità deve essere determinata, perchè nella natura e nella scienza la potenza sta nella determinazione. Secondo M., è vero che l'individuo varia senza legge e senza ragione, fuorché quella di essere individuo accidentale; ma varia anche con ragione, perchè è posto fra la cieca necessità della natura e la conscia assoluta libertà dello spirito umano. Dio è il grande modincatore, il vero e solo creatore dei nuovi organi e delle nuove funzioni vitali, perchè una funzione è un'idea, e per creare un'idea ci vuole un'idea. Il non essere non può creare l'essere, l'irrazionale non può creare la ragione, la natura ossia l'accidente non può creare i tipi e le funzioni. Senza l'idea divina non potrebbe nascere dall' antropoide 1' antropo, intercorrendo fra loro una differenza ideale anche, e di gran lunga, maggiore dell'organica, e neppure potrebbero nascere nuove forme, perchè ogni fonma ha un suo proprio valore assoluto, e si sviluppa secondo il ritmo assoluto del mondo, secondo il disegno eterno della creazione. L'idea, e non il sangue, fa l'unità delle forme vitali. Fra coloro che non riducono la scienza ad una storia accidentale, alcuni i seguaci della scienza antica, essenzialmente religiosa e intuitiva ammettono due storie ideali, una fuori della natura e del mondo, un'altra secondaria, riflesso della prima, sviluppantesi nel seno della natura e dell'essere vivente; gli altri, i seguaci della scienza moderna, riflessiva, non riconoscono che la forma e la storia intrinseca alla natura, all'animale, allo spirito umano, considerando la storia extramondana come un effetto ottico operato dalla intuizione. Vi sono tre maniere diverse di considerare le forme vitali. L'una consiste nel distinguere fra gli elementi comuni a tutte quelli che sono propri di alcune soltanto. E si considerano questi elementi formali come caratteri costitutivi di un tipo più o meno comprensivo. È la maniera astratta, quella di Linneo, di Jussieu, di Decandolle, di Cuvier, di Milne Edwars, di Owen. V'è una seconda maniera, che si riassume tutta nella frase : una forma è simile ad un'altra perchè il figlio è simile al padre e il padre all'avo. Questo è pel I. il finis Poloniae, la comune e l'internazionale della scienza moderna. Vi è infine una terza maniera, che consiste nel cogliere la forma nel suo movimento, e considerare i vari tipi come i momenti evolutivi di un tipo ideale assoluto, il quale è l'unità, la verità, la ragione, il principio e il termine di tutte; e questo tipo è il vero animale. È la maniera concreta, quella di Schelling, di Hegel, di Oken. Dopo di loro il solo Baer l'ha presentita, ma non ne ha fatta una applicazione sistematica e conseguente alle varie forme animali. M. dice che egli intende di fare un tentativo di questa specie. Secondo lui, tutte le forme preesistono idealmente l'una nell'altra; tutte preesistono in una forma [I tipi animali, Le opere scientifiche e la filosofia della natura] germinale di cui sono lo sviluppo creativo, interno, spontaneo. La creazione consiste nella determinazione ideale originaria di schemi indeterminatissimi, e nella loro delimitazione naturale, ossia accidentale. Una forza interna a un dato momento, aiutando le condizioni esterne da lei stessa preparate, trasforma l'embrione in larva e la larva nell'individuo completo, facendolo attraversare una serie di forme l'una più perfetta dell'altra, immagine della palingenesi universale. Questa forza ricevette una prima spinta dalla generazione. L'uomo dà l'impulso prima alle forme semplici e generali, quiescenti l'una nell'altra, che sono nella natura e pur non sono naturali; le desta, le crea, le differenzia, le delimita; dei puri e semplici momenti della legge formale fa delle forme vive, reali, accidentali; muove la materia informe a creare il sistema solare e l'uomo a traverso alla serie delle forme cosmiche e vitali. L'uomo eterno, l'uomo intelletto umano, è dietro al caos ed a tutte le forme, è la forma, l'anima, la forza, la spontaneità pura, assoluta, in cui lo stesso accidente, il limite indifferente, l'assoluta particolarità esiste, ma nella forma di principio, di universalità, di necessità, ed in questa contraddizione consiste la sua attività creatrice. Il pensiero assoluto si trasferisce e si effettua nella realtà dell'universo, e lo fa a sua immagine, e seco vi trasporta il metodo assoluto della sua evoluzione attuale. La forma è un principio e una forza indipendente dalla funzione; e questa forza ha una legge che ne determina lo sviluppo e l'azione, ed è la stessa*legge dell'universo, è il metodo della natura, del vegetabile, dell'animale e dell'uomo, il metodo insomma di tutto il creato, perchè è quello intrinseco alla divinità creatrice. Secondo questa legge, ogni sviluppo essenziale si fa in tre momenti: tesi, antitesi, sintesi. Al movimento puro, assoluto, astratto, corrisponde il [I tipi animali, Le opere scientifiche e la filosofia della natura] movimento concreto della forma, ai tre momenti ideali corrispondono tre tipi sensibili : amorfo, antimorfo, teleomorfo. E perciò l'universo è una gran trilogia: è amorfo nella natura, antimorfo nella vita, teleomorfo nello spirito umano. La natura (amorfopan) è indifferenza senza opposizione essenziale; è tutta forma senza unità, senza fine, senza ragione, senza la forma della forma. La vita (antipan) è essenzialmente opposizione fra corpo ed anima, fra molteplicità ed unità, fra vegetale ed animale. Esiste fra vegetale ed animale una doppia antitesi : l'una di natura e l'altra di funzione (antitesi psichica e antitesi corporea). Lo spirito umano (teleopan) è teleomorfo. Lo spirito è 1' opposizione spinta all' estremo, poiché l'antitesi non è più solo fra corpo ed anima, fra senso e sensibile, ma fra intelligenza e intelligibile, fra Dio e l'uomo. Lo spirito comincia con l'opporsi alle idee e finisce per riconoscersi in quelle, e con lo stesso colpo si riconosce nelle cose : sì che egli è l'unità reale e distinta delle cose e delle idee. L'anima nella natura è interna, nel vegetale apparisce al di fuori, ma è corporea; nell'animale diventa corporea, ma rimane particolare; nell'uomo diviene assoluta, universale e puramente ideale, e la opposizione è finalmente risoluta e conciliata. La natura, la vita, lo spirito umano hanno ciascuno a sua volta il proprio sviluppo trilogico essenziale. Questo metodo trimorfo, come egli stesso lo chiama, è per M. il filo ariadneo che deve guidarlo a traverso al labirinto delle forme vegetali ed animali. Per lui tutte le forme e i tipi più eterogenei e dissimili sono in realtà uno stesso identico animale in via di formazione : l'uomo. E dei tipi animali egli vuol tracciare la storia ideale, perseguendola a traverso alla descrizione. Confessa che la descrizione gli riesce troppo completa e determinata, mentre ogni tipo è sfumato ed evanescente innanzi alla sua realizzazione, è il mobile oscuro che da dentro fa forza e opera lo sviluppo creativo, cominciando da sé, creando a mano a mano le proprie determinazioni. Invece i sistematici ordinari, tutti intenti alla diagnosi delle forme, poco si curano delle differenze di quantità ; essi hanno bisogno di caratteri qualitativi specifici, possibilmente esclusivi, precisamente quelli più materiali, che non significano nulla appunto perchè non passano in altre forme. Tipo è forma con significato. Questi sistematici hanno una logica difettiva a forza di astrazione; non pensano che nel quanto è rinchiuso il quale. Seguono la vecchia tendenza separatrice, diagnostica, artificiale, bisognosa di abissi e avida di caratteri esclusivi, isolatori. La nuova morfologia invece cerca le comunanze e le transizioni, benché non arrivi ancora a ravvisare la transizione ideale dove manca quella materiale. Per la vera morfologia il primo è la forma, che pone i lineamenti generali dell'essere; poi viene la funzione ideale che la accomoda e la modifica; e in ultimo viene la funzione reale e la selezione naturale. I darwiniani invece ignorano l'omo [I tipi animali] Dopo aver chiarita la differenza fra le due morfologie, Meis soggiunge che il suo scritto è un lavorìo tutto di pensiero, condotto con un organo che nel cervello dei naturalisti, darwiniani o antidarwiniani ch'ei sieno, dev'essere assolutamente atrofizzato: « è tutta da capo a fondo (apriti cielo)... una ricostruzione a priori. Ma lo scandalo sarà piccolo, perchè non ci sarà di certo chi ci si voglia rompere il capo. Questo scritto non si fa per stamparlo, si stampa per farlo ; e si fa per uso e consumo esclusivo, e per supremo divertimento dell'autore, che quando sarà tutto stampato tirerà tanto di chiavistello sulle pochissime copie che ne avrà fatto tirare. Le opere scientìfiche e la filosofia della natura] la formale; per essi la funzione è tutto e fa tutto, ed è una funzione prodotta dall'organo, la nutrizione, non la funzione essenziale, «principiale)), a loro ignota e inconcepibile, Le dottrine materiali non hanno nulla a che fare con la scienza, perchè questa non è la ragione dell'uomo che la fa, ma la ragione della cosa. Il caratterizzatore vede crollare come castelli di carta le sue classificazioni più o meno inge-gnose. Il rimedio è uno solo: a Non caratterizzare, non classificare; pensare e ripensare. Seguendo il metodo trimorfo, si riconosce che nel vegetale l'amorfofito è indifferente ed informe; l'antifìto è il centro della formazione, il punto in cui si spiega l'opposizione fra il corpo e l'anima vegetale ; nel teleofito le due sfere sono egualmente sviluppate. Il vegetale amorfo è l'alga, prima chimicamente e poi anatomicamente semplice, indi molteplice, ma tutta disgregata nei suoi elementi cellulari. 11 vegetale antimorfo è da un lato la felce vegetativa, dall'altro il fungo riproduttivo. Il vegetale teleomorfo è il cotiledonato, in cui la forma vegetativa e la forma riproduttiva sono egualmente sviluppate. Analogo è lo sviluppo tipico dell'animale. L'amorfozoo è informe e indifferente; nell'antizoo, punto centrale di tutta la formazione, si sviluppa l'opposizione fra corpo e anima, fra sistema vegetativo e sistema riproduttivo ; nel teleozoo i due opposti sviluppi sono riuniti e in giusta proporzione fra loro. L'amorfo animale è il protozoo, cioè il rizopode e l'infusorio; l'antimorfo è il radiario, il mollusco e l'articolato; il teleomorfo è il vertebrato: pesce, anfibio, rettile, uccello, mammifero. I nomi di amorfozoo, antizoo e teleozoo sono preferibili a quelli di vertebrato ed invertebrato, che esprimono solo la presenza o l'assenza di un elemento secondario. Finché M. sta fedele al suo programma di dimostrare solo col farli muovere i principi filosofici ai quali [I tipi animali, Le opere scientifiche e la filosofia della natura] crede, egli lavora a meraviglia: originali le applicazioni alla scala degli esseri viventi, alle varie forme della vita, della scienza, della filosofìa, della storia; particolarmente geniali e nuove le applicazioni alla patologia. Ma a volte — rare volte, è vero — egli sente il bisogno di tentare una dimostrazione logica di quei principi, e riesce invece, senza avvedersene, a dimostrarne 1' ìnsuffìcenza, 1' arbitrarietà, la nebulosità. Ciò gli accade nel Deus creavit, e nei tre dialoghi : / naturalisti ; Forza e materia ; Un nuovo corpo semplice. Nel Deus creavit — già lo abbiamo visto — egli tenta, senza riuscirvi, di dimostrare che il pensiero è fin dal primo momento essere. Nei Dialoghi affronta lo stesso problema in forma più concreta : ricerca il punto in cui l'essere ed il pensiero si identificano, lo ricerca con la sicurezza di chi sappia di rintracciare cosa esistente nella realtà ; e con lo stesso metodo, lo stesso procedimento, lo stesso linguaggio, e quasi la stessa mentalità con cui un naturalista potrebbe studiare un essere da lui non visto ancora, ma del quale, per descrizione autorevole e per indizi indiretti e certi, gli fosse nota l'esistenza e i caratteri.] vero lutto è l'uomo, l'uomo come pensiero, in cui l'uomo della natura, che in sé ricompendia tutta la natura, si risolve ed unifica perfettamente. Ma come questo pensiero eterno passa nel realizzarsi per tutti i gradi della natura ? E che è questa natura ? Quale il suo primo grado ? Retrocedendo nella storia del processo naturale si perviene ad un muro saldo, incrollabile, oltre al quale non si può andare: quel muro è la materia. Certo la materia suppone lo spazio; ma spazio senza materia non ci può essere. Chi dice spazio [I naturalisti, Diagolo 1°, nella Civiltà italiana, Firenze, La natura a volo d'uccello: Forza e materia, Dialogo, nella Civiltà italiana, Firenze, La natura a volo d'uccello: Un nuovo corpo semplice, Dialogo, nella Civiltà italiana, Firenze, Le opere scientifiche e la filosofia della natura. dice tempo, e chi dice tutti e due dice moto; e dir moto è dir qualche cosa che si muove, è dire insomma la materia, moto immobile, forza latente ed inerte dell'universo. La forza diviene sempre materia a traverso un suo sviluppo : da forza chimica, semplice affinità, a forza fìsica, e da forza fìsica a forza meccanica, e infine corporea. Ogni forza è la materia della forza inferiore ed il germe della superiore : e così il moto è il tempo materializzato; il tempo è lo spazio divenuto più materiale. Sempre la materia è la realtà, il limite di una forza; e la forza è la materia nel suo spontaneo svolgimento. La forza del pensiero da principio non pensa ancora, ma si vuol pensare, ed è chiusa nella forza semplice in cui tutte le forze speciali sono latenti ; e come la più forte, le urta di sotto e fa uscire la forza chimica, che si comunica a tutta la massa della forza semplice, sì che tutto diventa forza chimica reale, affinità e materia puramente chimica ; e fa di questa affinità informe un imponderabile informe, e di questo un informe ponderabile, un corpo semplice informe. L'uomo senza influsso di esterno accidente, mentre egli era da per tutto ed era tutto, non poteva scegliere un punto del tempo e dello spazio in cui operare la trasformazione della materia semplice in corpo sémplice. E l'operò in un punto del tempo e dello spazio che erano tutto il tempo, tutto lo spazio. Quell'attimo, quello spazierello» si riempì di materia reale, naturale, diventò da spazio ideale spazio reale, interminato, e con esso cominciò la natura. La forza del pensiero, come ha trasformato il moto, la forza semplice, in forza chimica, così trasforma questa in forza fìsica, e la forza fìsica in forza meccanica; e dallo stesso oscuro fondo fa scaturire dietro a quelle forze la materia chimica, che si trasforma in materia fìsica e indi in meccanica; e all'ultimo in vera materia, in corpo chimico imponderabile, ponderabile. È la materia semplice che successivamente si modifica e si realizza; è la proprietà chimica, è la speciale natura Le opere scientifiche e la filosofia della natura.] fisica, è la figura meccanica, geometrica, cristallina, che si aggiunge alla forza chimica imponderabile, ponderabile, e le dà un primo corpo ed una nuova realità; gli è un corpo incorporeo, una materia immateriale, una realità non sensibile. Le forze, e le loro forme, le loro proprietà, sono semplici, indifferenti, indistinte; esse sono avviate all'atto, alla esistenza naturale, ma non ci sono giunte ancora. La forza è molto pensiero e poca natura, e non ha tal realità e tal valore da fare di uno spazio-pensiero uno spazio-natura; ma la proprietà è più natura che pensiero ed è perciò atta ad empire di se lo spazio ; onde appena il pensiero umano dietro a quelle tre forze fa scaturire quelle tre semi-materie, subito mette fuori lo spazio, e lo distende, e vi spiega le tre proprietà; e queste vi portano seco le loro forze, e le disseminano egualmente in tutti i suoi punti. Non perciò lo spazio è pieno ed ha compiuta realtà. Egli è estensione, è materia, ma non corpo, perchè non è ancora sensibile. Il primitivo pensiero umano ha dentro di sé un limite che è esso stesso pensiero, ed è il germe e l'origine del senso; di questo limite fa lo spazio-pensiero e il tempo-pensiero, e il moto, la forza-pensiero, e persino il qualcosa, la materia pensiero: e tutto questo rimane dentro di lui, rimane lui stesso, ed è ancora poco men che pura ragione e semplice pensiero. Ma poi egli, premendo di più su quel limite, fa dello spazio-pensiero uno spazio-estensione, e di questo un corpo sensibile prima al corpo, e poi, per mezzo del corpo, anche all'anima. E poi, facendo del moto-pensiero un moto reale, farà del tempo-pensiero un tempo durata; e poi farà tutta la natura, e la vita — il vegetale —, e l'anima — l'animale ; e all'ultimo si rifa pensiero, e pensa se stesso e l'opera sua. Di quel suo limite originario, che era un senso-pensiero, egli ha fatto a poco a poco un senso-senso. E di questo senso farà nella natura formata vari sensi distinti, e così farà dell'anima. Se noi facciamo la storia della natura, troviamo all'origine della forza e della materia uno stesso identico germe, il quale è in uno pensiero umano e senso umano originario. Quel germe, pur mantenendo sempre la sua originaria identità, si sviluppa di grado in grado, ed è prima natura, poi vegetale, poi animale, e da ultimo uomo; e in ogni grado conserva quelle due cose opposte, la forza e la materia, sempre distinte e sempre unite in una perfetta identità. Nell'uomo, nell'io, nel pensiero reale, l'unità delle due cose opposte è naturata, personificata, e incorporeamente corporalizzata. Questa unità veduta nella nostra natura ci fa più facilmente riconoscere l'unità dei due elementi nelle nature inferiori, la psichica, la vitale, la naturale. Nell'afferrare ciò consiste la scienza. Questa è la storia della natura amorfa, in cui tutto è quiete ed immobilità, in cui non c'è che un corpo semplice, omogeneo, uniforme, informe. Poi — dice l'Autore — verrà la natura antimorfa, lo sviluppo delle forze e delle materie, il caos. Infine vedremo sorgere una nuova forza, che a tutte le forze del caos darà una legge e una norma, a tutte le materie una forma comune ; e sarà la natura olomorfa, il cosmo. E vedremo la forza cosmica trasformarsi nella forza vitale, e la forma cosmica divenire la forma vitale, vegetale. E con questo programma egli termina il secondo dialogo, Forza e materia; ma non pubblica più che un terzo dialogo (*), nel quale riassume la storia del pensiero umano, che da prima tutta interna, tutta dentro un punto, si squaderna poi nello spazio e si sgomitola nel tempo, e all'ultimo si ritrasforma di natura in pensiero, e si riduce di nuovo ad un punto, e questo punto è l'io. Come in principio il punto originario, così ora il punto individuale si trasforma tutto; ma la trasformazione non si fa, come allora, tutta in un atto, [Il dialogo (Un nuovo corpo semplice) è preceduto da questa nota. Il presente dialogo è indipendente dai precedenti », - Sappiamo già che M. lavora spesso frammentariamente. Le opere scientifiche e la filosofia della natura.] bensì successivamente. L'io è un animale naturale, individuale; ma gli ii sono molti, e sono come molti punti, molti tempi in un solo tempo, e tutti fanno come uno spazio intellettuale nello spazio naturale, La trasformazione umana universale, come quella dell'individuo umano, si sgomitola nel tempo e si srotola nello spazio, e intanto si raggomitola e torna ad arrotolarsi nella storia. E perciò la storia umana è una storia naturale di tempo e di spazio, è una cronologia e una geografìa. La storia umana e la storia della natura, essendo creata dal pensiero, è in ogni sua fase totale e universale ; solamente non appare e non diventa reale che in certi punti di tempo e di spazio: in certe epoche, in certi luoghi, in certi corpi e in certi ii. È facile scorgere che M. non è felice quando vuole risalire ai principi sui quali ha fondata la sua costruzione. Invero non si capisce come quel suo pensiero originario, avendo nel senso un limite interno, possa non avere anche un limite esterno, e tutta la natura, che invece deve ancora nascere; ne si capisce come quel pensiero, a furia di premere e caricare sul proprio limite, possa fare del senso-pensiero un senso-senso, possa, in altre parole, trasformarsi da forza in materia. Ma l'Autore non ha il più lontano dubbio di star tentando la soluzione di un problema forse insolubile, certo insoluto. Che forza e materia sieno due cose distinte ed opposte, ma unite ed identiche è per lui una verità certa, positiva, reale. Egli dichiara che non ha la pretesa di dimostrare, ma solo di far presentire la verità, come la presente egli stesso: e certo di quella verità da lui presentita non riesce a dare una dimostrazione logica. In una pagina che onora il suo senso poetico più che la sua GENTILE, LA FILOSOFIA ITALIANA. Forza e materia, I naturalisti, Dialogo] profondità filosofica, egli afferma che il corpo è un vegetale, è l'inferno, l'anima è parte materiale e parte immateriale ma sempre naturale, il pensiero è il paradiso, e di pensiero noi siamo tutti uni in Dio ; e per descrivere il suo paradiso tratteggia con poche belle linee il paradiso dantesco. Come Dante non può significar per verba il trasumanare, così egli stesso non può chiarirci come 1' universo si unifichi nell'uomo; solo ci dice con slancio lirico che quella è la sua fede. Alla fede in quanto è davvero tale e solo tale, ed è ardente, profonda, incrollabile, sarebbe certo vano, se pur fosse possibile, 1' opporre argomentazioni. Ma ai principi che di quella fede sono oggetto, e vengono posti a fondamento di una costruzione scientifico-filosofica, si può e si deve chiedere se sieno suscettibili di avere dall'esperienza una conferma o dalla logica una dimostrazione. La risposta è negativa. Quanto alla conferma dell'esperienza, M. dice che con le idee si scopre, è vero, la sostanza delle forme e si tien dietro al loro movimento essenziale ; ma il controllo è la stessa realtà che deve rimanere inalterata ed intatta, ed è il fatto che deve essere riprodotto nella sua integrità, e con tutte le sue condizioni essenziali. Ma se l'Autore ammette l'esistenza di realtà e di fatti che non sono idee, e che solo con le idee possono venir scoperti nella loro sostanza e seguiti nel loro movimento, dovrebbe indicare un terzo termine, atto a valutare la rispondenza fra gli altri due. Non lo indica. Ma è chiaro che il terzo termine non può essere per lui che la stessa idea, giudice e parte in causa. Il controllo di cui egli ha parlato manca; e non poteva non mancare. Nell'ambito dell'idealismo assoluto non può esistere un controllo esterno, ne si può senza essere [I tipi animali. Cfr. Dopo la laurea, Le opere scientifiche e la filosofia della natura. incoerenti ammettere l'esistenza di una realtà che non sia l'idea o il pensiero.Quanto alla dimostrazione logica dei suoi principi, abbiamo veduto che le rare volte in cui M. la tenta non la raggiunge, e cade in contraddizioni, come quando, dopo aver affermato che il pensiero è l'essere, ne ragiona come di un pensiero che pensa l'essere, e considera l'essere come puro essere e non pensiero ('); o incorre in errori, come quando afferma che il pensiero originario ha nel senso un limite interno senza avere un limite esterno; ovvero si appiglia ad ipotesi degne di un alchimista ostinato alla ricerca della pietra filosofale, come è quella della forza che diviene materia premendo e calcando sul suo proprio limite. La sua filosofìa della natura, riposando su principi che possono essere oggetto di fede, ma non possono avere dall'esperienza un controllo né dal ragionamento una conferma, è una costruzione che può essere, ed è difatto, ingegnosa e bella, ma è del tutto arbitraria. Di ciò mai ebbe alcun sospetto l'Autore, sempre fermo nella sua fede hegeliana, vita della sua vita, anima della sua anima. Egli non intendeva di cercare una soluzione nuova; solo si proponeva di svolgere ed elaborare una soluzione già da altri raggiunta. La sua opera è fallita perchè aveva come presupposto e come base quella conciliazione dell'essere e del pensiero, della forza e della materia, che contrariamente a quanto egli credeva non era stata raggiunta da nessuno, e meno che mai poteva esserlo da chi, avendo studiata analiticamente la natura, si ribellava a tagliare il nodo gordiano negando la natura stessa o riducendola a una mera forma spirituale. Deus creavit. Forza e materia. Della medicina sperimentale; e cfr. tutte le opere di M. M. non è d'accordo col Berkeley, che « sopprime la natura»; Del Vecchio Veneziani Una costruzione speculativa della natura, quale l'idealismo assoluto e la riduzione della natura a pensiero esigono, dev'essere tutta una deduzione necessaria per considerarsi compiuta e riuscita. E in una deduzione logica e necessaria l'accidente come tale non può trovar luogo. Non si dimentichi, del resto, die l'idea dominante in tutte le assidue e lunghe meditazioni del M. intorno alla natura, l'idea informativa di tutti i suoi studi era, come egregiamente la definiva Fiorentino, « l'idea di contrapporre al predominio dell’accidente, che è il lato debole del darwinismo, una spiegazione più intima e più razionale delle forme, attraverso delle quali progredisce e si dispiega la vita della natura... una ragione superiore, che regola lo sviluppo dei tipi della vita naturale, finche non si dispieghi, e non si allarghi nell’uomo e nella coscienza. Si trattava dunque per M. di superare quello scoglio contro il quale, a suo vedere, naufragava il darwinismo; di evitare la trasformazione dell' accidente in Deus ex machina, al quale far ricorso perchè o dove non soccorra una ragione superiore o una spiegazione più intima e razionale. M. appunto dice e ridice, anche per quanto si riferisce alla natura, che la filosofia vive nella sfera della necessità e della certezza assoluta; ma in contrasto con questa esigenza afferma anche l’indispensabilità dell’accidente in tutti i momenti della creazione. Ora l'accidente, che è dichiarato indispensabile, o è razionalmente necessario, cioè deducibile a priori, e allora deve rientrare nella costruzione speculativa come elemento interno, e non esteriore, sicché non può più dirsi propriamente accidentale. O è la né col Fichte, nel cui sistema la natura c'è soltanto quanto basta per far la coscienza, ed è quindi ridotta ad una espressione astratta. Cfr. Prenozioni, La filosofia contemporanea in Italia, Dopo la laurea, negazione della necessità razionale e della deduzione a priori, ed in questo caso la dichiarazione della sua indispensabilità costituisce il confessato fallimento della costruzione speculativa. M. oscilla fra le due alternative, senza sapersi appigliare né all'una né all'altra. Questa non meno di quella avrebbe significato il riconoscimento della contraddittorietà della sua impresa. Invero l'accidente sembra necessario per lui a costituire nella catena dello sviluppo creativo l'anello iniziale e gli anelli di saldatura tra i frammenti non altrimenti congiungibili. L'anello iniziale, poich'egli dice che quando non c'era la natura e quindi l'accidente » era impossibile all'uomo (ossia all'idea di Uomo, che come fine deve precedere e determinare lo sviluppo), senza arbitrio e « senza influsso di esterno accidente, di scegliere un punto del tempo e dello spazio in cui operare la iniziale trasformazione della materia semplice in corpo semplice. Gli anelli di saldatura, in quanto dice che l'accidente, elemento costitutivo della natura, è necessariamente compreso nel processo della funzion ; che ogni tipo vivente è già idealmente quello che dee succedergli, ma non basta a crearlo, a produrlo realmente nella natura, senza il concorso di cause accidentali e d'esterni influssi. E in generale tutto il processo e lo sviluppo della natura per M. consegue la realtà solo in quanto l'accidente interviene e concorre con l'idea alla produzione del risultato. Il fatto è anche idea, ma l'idea non è reale e non esiste che nel fatto; « il principio e la potenza della vita... è sempre unito a un qualche elemento materiale e meccanico che lo fa reale e particolare, che è quanto dire individuale ed accidentale. Forza e materia, / mammiferi. Prelezione al corso di fisiologia dato nella R. Un. di Modena. Degli elementi della medicina. Le opere scientifiche e la filosofia della natura. M. considera i vari tipi carne momenti evolutivi di un tipo ideale assoluto, l'uomo eterno. Crede che tutte le forme preesistano in forme germinali di cui sono lo sviluppo creativo interno e spontaneo. Ma la creazione non consiste soltanto, nella determinazione ideale originaria di quegli schemi indeterminatissimi », sì anche nella loro delimitazione naturale, o sia accidentale. E molte volte ripete che la natura è accidente e che l'idea spirituale esiste solo legata all'accidente. Ma qui appunto si potrebbe obiettare alla nostra osservazione, che noi dobbiamo approfondire il concetto dell'accidente che M. afferma. Legato all'idea, intrinseco alla natura, l'accidente che egli fa entrare in campo a determinare e spiegare lo sviluppo non è, come l'accidente dei darwiniani, puramente estrinseco e meccanico. Ha anzi esso medesimo una necessità interiore ; è il momento della antitesi, senza il quale non potrebbe svolgersi la sintesi creativa. L'uomo eterno, dice appunto M., è « la forma, l'anima, la forza, la spontaneità pura, assoluta, in cui lo stesso accidente, il limite indifferente, l'assoluta particolarità esiste, ma nella forma di principio, di universalità, di necessità : ed è in questa contraddizione che consiste la sua attività creatric. Per questa via parrebbe risolversi la difficoltà nella quale ci appare impigliato la filosofia di M.. Che se anche altrove egli identifica il puro accidentale col male, non vi sarebbe contraddizione con la universalità e necessità riconosciuta sopra all'accidente; ma distinzione di due specie di accidenti o di nature: l'interna e l'esterna; necessaria la prima, accidentale in senso proprio la seconda. M. difatti parla esplicitamente di una natura esterna che viene Deus creavit, (/ tipi ammali. Le opere scientifiche e la filosofia della natura. a dare l'ultima mano alla natura interna, di un agente esterno ed accidentale che non era compreso nel processo della natura interna, non era calcolato nella evoluzione vitale, e oltre a modificare, sia pur solo superficialmente e quantitativamente, le forme, e favorire la trasformazione, e provocare la nuova interna creazione e lo sviluppo di germi latenti, « può fare e fa certamente di più, v'introduce qualche cosa di accidentale e di naturale. Di fronte a questo accidente, esterno sta l'interno : « vi è già — soggiunge M. — nella forma latente un principio di accidente. Essa è semplice ed una, ma nella sua unità vi è un germe di differenza e di moltiplicità, vi è l'attitudine e la disposizione a dividersi in molti e diversi, ed è un accidente indeterminato e scolorato, pura possibilità di farsi, più che non è, accidentale. L’accidente esterno feconda 1' accidente interno e gli dà corpo e colore, e ne fa una realità accidentale e naturale. Gli agenti esterni stimolano, promuovono, determinano, ma Dio opera la trasformazione. L'accidente può render conto delle differenze secondarie, non giunge ai veri gradi della formazione. Esiste dunque una storia interna, essenziale, ed una esterna, accidentale; ed esistono due sorta di accidente: uno necessario ed essenziale, l'altro secondario e individuale: il primo, l'accidente necessario, assoluto, realizza l'evoluzione creativa ideale, intrinseca, assoluta della forma animale; accompagna ogni realtà, circoscrive esteriormente le forme, e fa esistere gli individui; l'altro, l'accidente accidentale, nasce dall'intreccio dei processi e dal cozzo inevitabile delle cause na- [Lettera sulla patologia storica] Cfr. Deus creavit, passim. Dopo la laurea, tipi animali, tipi animali, Cfr. Deus creavit, Deus creavit, Le opere scientifiche e la filosofia della naturatura] li, delle quali una è la darwiniana concorrenza vitale, da cui deriva la formazione delle varietà, delle specie, dei generi, ma la sua azione non potrebbe estendersi fino ai tipi. La natura finisce per essere, come la società umana, una lotteria. Finisce, ma non comincia; e non è una lotteria da capo a fondo », perchè ha le sue basi ideali e le sue leggi necessarie. Se non che arrivati a questo punto noi possiamo domandarci : l'obiezione che abbiam detto potersi muovere al nostro rilievo delle difficoltà inerenti al pensiero del M., è veramente risolutiva? Questo approfondimento del concetto di accidente, questa distinzione delle due specie di esso, interna o necessaria ed esterna o accidentale, elimina veramente la contraddizione nella quale ci era sembrato che questa filosofia della natura si involgesse ? L’accidente interno consiste nella indeterminazione e molteplice possibilità della forma latente. Ma intanto M. più volte afferma che senza il concorso di esterno accidente la possibilità non passerebbe all'atto, non si farebbe realtà di natura. Tra la potenza e l'atto bisogna che s'inserisca un mediatore perchè il passaggio avvenga. Sicché l'accidente esterno è da lui riconosciuto indispensabile non soltanto per l'esistenza degli individui, ma anche per la produzione reale dei tipi nella natura. E del resto la stessa molteplice possibilità in cui è fatto consistere l'accidente necessario, del pari che l'intreccio dei processi dal quale si fa nascere l’accidente accidentale, possono essere a loro posto in una concezione puramente causale e meccanica della natura (per esempio in quella cartesiana), ma non sono più a posto in una dottrina finalistica, nella quale il termine finale, l'uomo eterno, pre-esiste a tutto il processo di sviluppo e lo genera esso medesimo. Voler dimostrare che nella natura si compie uno sviluppo teleologico, e non saper negare che vi sia anche qualche cosa di ciò che il Darwin vi scorge, ossia che la natura finisce per essere, come la società umana, una lotteria, è contraddizione non conciliabile tra l'intenzione e il resultato. E si potrebbe anche aggiungere che una contraddizione è nello stesso intervento dell' accidente esterno a spiegare la patologia. L'intero edinzio della patologia storica costruito dal M. crollerebbe, se non intervenisse l'accidente accidentale, perchè solo «se l'accidente, esterno o interno che sia, se la irragionevole cattiva natura interviene, e rompe la legge, e viola la ragione; se l'arbitrio umano o naturale modifica la qualità della causa motrice, e ne muta la relazione, e ne altera la proporzione con la interna sfera umana, questa si altera e si disordina. Ora si ricordi che per M. la malattia corrisponde al passaggio dall'innocenza alla colpa, a cui succede il passaggio ad una forma superiore d'innocenza, alla libertà. Se questa forma superiore, che è il fine dello sviluppo, non è raggiungibile che attraverso a questo processo, il processo è necessario, e necessari, non accidentali sono i suoi momenti : la tesi, l'antitesi e la sintesi. Ma allora come può il momento dell'antitesi essere un accidente violatore della ragione ? In un idealismo assoluto, e particolarmente nel ritmo dialettico che si svolge nel movimento degli opposti, il momento negativo non è meno necessario che il positivo a dare con la negazione della negazione la più alta realtà. Come può dunque in questa concezione filosofica trovar luogo l'accidente accidentale di M.? Come può un accidente siffatto, cioè un accidente estrinseco, che rompe la necessità e viola la ragione, essere costitutivo della natura quale dev'essere intesa in un idealismo assoluto, cioè come pensiero o ragione ? [Delle prime linee della patologia storica]. Queste contraddizioni si collegano con una profonda, inconciliabile contraddizione interna del pensiero di M.. È in fondo il contrasto fra il naturalista e il filosofo idealista, contrasto che si svolge anche nell'antitesi fra l'ardente e costante aspirazione a ricongiungere ed unificare la fisiologia con la filosofia, e lo scrupolo della divisione del lavoro, che talvolta si riaffaccia: la metafisica ai metafisici, a noi la fisiologia. Questo è il suo conflitto intemo non superata, che si potrebbe estendere ben oltre il suo caso individuale. Invero se la natura è, come M. sostiene, idea e natura a un tempo, la divisione del lavoro non è possibile: il fisiologo non può essere tale se non è prima filosofo; la fisiologia non può essere costruita se non è costruita prima la metafisica. E costruita non da altri, ma dal fisiologo stesso, come altrove M. riconosce. Perchè, secondo il principio vichiano ed hegeliano, per M. il fare soltanto ci dà il vero conoscere : criterio del vero è il farlo. Dal che sarebbero pure derivate conseguenze contrarie alle conclusioni di M. intorno ai rapporti fra la teoria e la pratica medica. Infatti come può la separazione della jatrofilosofia dall'attività del medico pratico conciliarsi con l'unità del vero col fatto? Se la vera scienza è la storia, perchè è la realtà vivente, non varrà anche per la jatrofilosofia la massima che criterio del vero è il farlo ? E non sarà quindi contraddittorio il dichiararla disgiunta dalla pratica, e quindi inutile come tutte le cose eccellenti, virtù, giustizia, arte, religione, scienza ? Ed ecco il criterio della verità della jatrofilosofia nella pratica, nella clinica, nella cura delle malattie, secondo voleva TOMASSI. Anche qui M. Lettere fisiologiche, Cfr. Dopo la laurea, là dove si riconosce come necessaria, sia pur soltanto al sapere positivo, la divisione del lavoro. [Idea della fisiologia greca ; e altrove. La natura medicatrice e la storia della medicina] mostra di non aver raggiunta la piena coerenza del suo pen- siero, né la piena consapevolezza delle esigenze dei suoi principi. Egli, come ogni naturalista, riconosce la funzione del- l' accidente ; ma il rapporto e il contrasto fra il necessario e l'accidentale, fra ciò che è conoscibile e costruibile a priori e ciò che è dato solo dall'osservazione sperimentale, rimane in lui insoluto. Ed egli non riesce a vincere le difficoltà che anche Hegel aveva incontrate nel costruire la sua filosofìa della na- tura, la quale è certo la parte più debole del suo sistema. L'errore fondamentale del M. è consistito in questo : che egli ha attribuite le deficenze della filosofìa della natura hegeliana a cause fortuite e soggettive, e non ha scorto che le cause erano intrinseche al sistema, per se stesso tale da non consentire che vi fosse inquadrata una filosofia della natura compiuta, razionale e concreta ad un tempo. E andò cercando per tutta la vita una soluzione non raggiunta ancora, sempre credendo di lavorare solo alla dimostrazione e alle applica- zioni di quella, che egli stimava già scoperta da Hegel. Grice: “De Meis’s theory resembles my pirotological progression, heavily! I like his generalisations. I wish we had at Oxford such a freedom to generalise!” -- Camillo De Meis. Angelo Camillo De Meis. Meis. Keywords: implicature, citato da Pirandello in “Il fu Mattia Pascal” “Chi lo dice? – gli domanda forte il giovane, fermo, con aria di sfida. Quegli allora si volta per gridargli: “Camillo De Meis!” –-- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e e Meis” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Melandri: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale -- le forme dell’analogia – analogia nel convito di Platone – Reale – filosofia ligure – la scuola di Genova -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Genova). Abstract. Keywords. Filosofo ligure. Filosofo italiano. Genova, Liguria. Grice: “One of the ten items he lists in his ‘Contro lo simbolico’ is ‘lo simbolico’ itself!” -- Grice: “Melandri takes analogy more seriously than I did – I do list ‘analogy’ as part of what I call ‘philosophical eschatology – the third branch of metaphysics, along with ontology and category study.” Grice: “Melandri focuses on the Graeco-Roman tradition of analogy, which he pairs with two other concepts: proportion, and symmetry – re-interpreting mainly Aquino’s reading of the Aristotelian tradition in a semiotic approach.” Grice: “Melandri also takes Kant seriously on this.” Grice: “If an Italian philosopher wrote ‘contro la comunicazione,’ another wrote ‘contro il simbolico’!” --  Grice: “He has studied Buehler; I like that!” Laureatosi a 'Bologna, è lettore a Kiel in Germania. Insegna poi a Lecce, Trieste e Bologna. Parallelamente all'attività universitaria, collabora con Mulino e alla rivista omonima, per le quali ha svolto attività di consulenza, con traduzioni e curatele, pubblicando con essa alcuni dei suoi saggi. I suoi saggi vertono sulla fenomenologia di Husserl, sul concetto di analogia e sul principio di simmetria. Tra le sue curatele, anche presso altre case editrici -- Cappelli, Faenza, Laterza, Ponte alle Grazie, Giuffrè, Pitagora ecc. -- ci sono studi che vanno dalla scienza politica di Ritter e di Habermas, alla fenomenologia di  Schütz, dalla logica di Copilowski e dalla filosofia del linguaggio do Hoffmann o dai paradossi di Bolzano (e poi la storia della logica di Scholz), agli studi di metodologia scientifica di Pap, a quelli di psicologia della percezione di Meinong o di Ehrenfels, e dall'estetica di Trier alla metaforologia» di Blumenberg ecc.  Ha istituito un gruppo di studi su Leibniz, in seguito affiliato col nome di «Sodalitas Leibnitiana» alla Leibniz-Gesellschaft di Hannover. Ha anche collaborato attivamente alle attività del Centro di studi per la filosofia mitteleuropea con sede a Trento; partecipando  alla realizzazione della rivista Topoi. Da vita agl’Annali dell'Istituto di discipline filosofiche dell'Bologna, poi trasformatisia nella rivista semestrale «Discipline filosofiche», ancora attiva e di cui è stato il direttore. Tra i suoi saggi, spicca per centralità di pensiero “La linea e il circolo,” definito d’Agamben un capolavoro della filosofia.  Il filo conduttore di tutta la riflessione di M. è il rapporto tra pensiero logico e pensiero analogico. Mentre la logica tende a svilupparsi mediante un concetto d'identità elementare, legato alla discontinuità del principio di non-contraddizione, l’ANALOGIA si fonda invece sul principio di continuità, legato alla figura oppositiva della contrarietà, che ammette una transizione tra gl’opposti. Ora, queste due forme di ragionamento non sono affatto inconciliabili, ma complementari, in quanto fondate, non su una struttura assiomatica, ma su una diversa direzione costitutiva dell'esperienza. Questa diversità prospettica si realizza, secondo M., nella fenomenologia husserliana, di cui egli tende a evidenziare l'empirismo radicale connesso alle strutture costitutivo-trascendentali della soggettività e ben distinto, dunque, da quell'idealismo entro cui troppo spesso si è voluto rubricare l'atteggiamento fenomenologico. In ultima istanza, congiungendo istanze aristoteliche e husserliane, M. assume una concezione dell'essere fondamentalmente equivoca, nell'ambito della quale l'intenzionalità si presenta, al tempo stesso, come principio formale logico e funtore operativo analogico. Inoltre, M. espone questi contenuti filosofici attraverso un metodo d'indagine e d'insegnamento del tutto particolare, che viene così descritto da Besoli, filosofo a Bologna. A lezione, si può dire che M. non parlas, ma pensas ad alta voce dando l'illusione, quanto mai benefica ed essenzialmente terapeutica, di pensare insieme con lui. Si ha l'impressione di assistere, dunque, a un pensiero in corso d'opera, e più propriamente ciò che accade e un'esperienza di pensiero condivisa, giacché la condivisione e appunto la condizione stessa della buona riuscita di tale esperienza  Altri saggi: “I paradossi dell'infinito nell'orizzonte fenomenologico,” -- introduzione a Bolzano, “I paradossi dell'infinito”, Cappelli, Bologna; “Logica ed esperienza,” “La scienza come criterio storio-grafico,” “Note in margine all'organon dei peripatetici; “Considerazioni critiche sui syn-categorematica – co-predicabili – negazione come avverbio, la congiunzione ‘e’ come co-predicabili, la disgiunzione ‘o’ come co-predicabili, l’implicazione ‘se’ come co-predicabile -- ” in "Lingua e stile", “Esistenzialismo,” “Logica e Logistica”  Enciclopedia “Filosofia,” Preti, Feltrinelli, Milano; “Psicologia galileiana” -- poi in Sette variazioni in tema di psicologia e scienze sociali; “Foucault: l'epistemologia delle scienze umane", in «Lingua e stile». “E corretto l'uso dell'analogia nel diritto? Zoon Politikon. Bolk e l'antropo-genesi, Che Fare, “La linea e il circol: studio logico-filosofico sull'analogia, Bologna: Mulino  rist. Macerata: Quodlibet, prefazione d’Agamben, appendice di  Besoli e Brigati, Limongi. Nota in margine all'episteme di Foucault, Lingua e stile, La realtà e l'immagine, in Barth, Verità e ideologia; Sulla crisi attuale della filosofia, Mulino,  L'analogia, la proporzione, la simmetria, Isedi, Milano. I generi letterari e la loro origine, Lingua e stile, Quodlibet, Macerata, L'inconscio e la dialettica, Bologna: Cappelli, Freud: L'inconscio e la dialettica, Sette variazioni in tema di psicologia e scienze sociali, Bologna: Pitagora;  L'inconscio e la dialettica, Macerata: Quodlibet. Bühler. La crisi della psicologia come introduzione a una nuova teoria linguistica, in Animo ed esattezza. Letteratura e scienza, Marietti: Casale Monferrato, Variazioni in tema di psicologia e scienze sociali, Pitagora, Bologna; Matematica e logica in psicologia: applicazione propria determinante o im-propria analogico-riflettente, L'inconscio e la dialettica, Macerata: Quodlibet, Per una filologia del sublime, in "Studi di estetica" (Grice: “I like that; surely there must be an ordinary unpompous way to say or mean ‘sublime’” – “Go thorugh the dictionary!” -- La novità degl’ultimi tremila anni, Mulino", "Faenza" e Marisa Vescovo, L’oblio affligge la memoria; La comunicazione e la retorica, Contro il simbolico. Lezioni di filosofia, -- Grice: “The ten ‘concepts’ he chooses are less important than the generic remarks he makes about the whole ten.” Grice: “While in his study on ‘analogia, proporzione, simmetria,’ he is semiotic, in this one he is thoroughly hermeneutic!” -- Quodlibet, Macerata, postfazione di Guidetti; Sul concetto di descrizione nella psicologia fenomenologica, in "Intersezioni", Su quel che è dato” (Grice: “A good analysis of a phrase I overuse, ‘datum,’ as per sense-datum’! in "erri", Le ricerche logiche di Husserl: introduzione e commento, Mulino, Bologna, Su quel che c'è, e quel che immaginiamo che ci sia, o della principale equi-vocazione del termine 'rappresentazione')", in Discipline filosofiche, Il problema della comunicazione, Paradigmi, Tempo e temporalità nell'orizzonte fenomenologico, Discipline filosofiche, La crisi dei grandi sistemi e l'avvento della filosofia esistenziale, Questo nostro tempo -- studi e riflessioni sull'evolversi della nostra epoca” (Bologna); Filosofia come critica della conoscenza e impegno interdisciplinare, Tratti, Besoli, Il percorso intellettuale, in Studi su M., Faenza, Agamben, Archeologia di un'archeologia, in M., La linea e il circolo. Studio logico-filosofico sull'analogia, Macerata: Quodlibet, Agamben, Al di là dei generi letterari, in M., I generi letterari e la loro origine, Macerata: Quodlibet,  Ambrosetti, Sugli stoici, Roma: Aracne; Ambrosetti, Una lettura di Epitteto", in "dianoia", Besoli, "Il percorso fenomenologico", in  La fenomenologia in Italia. Autori, scuole, tradizioni, Roma: Inschibboleth; Besoli e Paris (Faenza: Polaris); Bonfanti, Le forme dell'analogia. Roma: Aracne. Cimatti, "Postfazione: Psicoanalisi e rivoluzione", in L'inconscio e la dialettica, Macerata: Quodlibet  sinistra in rete.info cultura’ Lagna e Lévano, "Contro l’isomorfismo. Il rapporto soggetto-oggetto, Philosophy Kitchen, Matteuzzi, "Prefazione", in Ambrosetti, Sugli stoici, Roma: Aracne); Palombini, "Dal chiasma ontologico al chiasma trascendentale. Forme di razionalità in «Philosophy Kitchen», Possati, La ripetizione creatrice. lo spazio dell'analogia, Milano-Udine: Mimesis. Sini, "Lo schematismo figurale", in Besoli e Paris. Solerio, Le opere di  M. edite da Quodlibet, edizione completa. Discipline Filosofiche, rivista di filosofia. Enzo Melandri. Melandri. Keywords: Bühler, l’aggetivo ‘galileano’ -- le forme dell’analogia, Grice – analogia – problema della comunicazione, Buehler, teoria di Buehler, analogical unification, lacomunicazione, implicaturaproblematica, aquino, kant, mill, jevons, maxwell, Perelman, abcd, haenssler, dorolle, lyttkens, Reichenbach, newton, cellucci, marramao, aristotele, platone, convito, reale, grice, analogicalunification, owens, ross. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Melandri,” The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Melanipide: la ragione conversazionale e la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia pugliese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano. Taranto, Bari. The author of a number of tragedies. He appears to have practised a relatively ascetic version of Pythagoreanism. Grice: “Cicerone argues: Melanipide spoke Greek, not Latin; therefore, he is not an Italian. At Oxford, we are a bit more inclusive: Gellner spoke French, he is a Jewish philosopher who teaches at some London red-brick!” -- Melanipide

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Melchiorre: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – il corpo – la filosofia dell’amore – amante ed amato – il convito di Turolla – la scuola di Chieti -- filosofia abruzzese --  filosofia italiana -- Luigi Speranza (Chieti). Filosofo italiano. Chieti, Abruzzo. Grice: “I like Melchiorre; while I refer to bodily identity in my “Mind” essay, Melchiorre has dedicated a whole treatise to ‘the body’ – he has also explored semiotic aspects and come up with nice oxymora: ‘nome indicibile,’ ‘immaginazione simbolica,’ ‘essere e parola.’”. Grice: “Melchiorre’s first explorations on the concept of body is Strawsonian – corpore e persona -. What led Melchiorre to this reflection is what he calls a meta-critique of love – Socrates did his critique of love in the Symposium, and Phaedrus – Melchiorre analyses this from a body-theoretical perspective.” Dopo essere stato ammesso al Collegio Augustinianum, inizia a frequentare la Facoltà di Filosofia all'Università Cattolica del Sacro Cuore, dove si laurea.  Terminati gli studi, nel medesimo ateneo inizia la carriera accademica come assistente volontario di filosofia della storia, per poi insegnare a Venezia.  Richiamato a Milano, ha ricoperto  la cattedra di Filosofia morale, per poi insegnare Filosofia teoretica. Ha diretto, presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università Cattolica, la Scuola di specializzazione in Comunicazioni sociali. Altri saggi: Arte ed esistenza, Firenze’ Il metodo di Mounier, Milano; Il sapere storico, Brescia; La coscienza utopica, Milano; L'immaginazione simbolica, Bologna, Meta-critica dell'eros, Milano, Ideologia, utopia, religione, Milano, Essere e parola, Milano, Corpo e persona, Genova, “Studi su Kierkegaard, Genova, Analogia e analisi trascendentale: linee per una lettura di Kant, Milano, Figure del sapere, Milano, La via analogica, Milano, Creazione, creatività, ermeneutica, Brescia, I segni della storia, Ghezzano Fontina, Al di là dell'ultimo, Milano, Sulla speranza, Brescia, “Ethica,” Genova, Dialettica del senso. Percorsi di fenomenologia ontologica, Milano, “Qohelet, o la serenità del vivere,” Brescia, Essere persona,” Milano, Breviario di metafisica, Brescia, Il nome indicibile, Milano, Profilo nel sito dell'Università Cattolica del Sacro Cuore. Recensione del volume Essere persona. Natura e struttura di Rigobello, in Acta Philosophica, Rivista internazionale di filosofia. Unità e pluralità del vero: filosofie, religioni, culture. I diversi volti della verità Relazione di M., Convegno del Centro Studi Filosofici Gallarate, video integrale nel sito Cattedra SERBATI. M., Rai Educational Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche.  Grice: “Melchiorre, while quoting the necessary German sources for an Italian philosophers – Eros und Agape, tr. N. Gay – he dwells on Enrico Turolla’s beloved (by every Italian schoolboy) version of “Convito” – which Turolla published under the ostentatious title, “Dialogo dell’amore” – Melchiorre typically finds some mistakes, since Turolla was no philosopher – and no lover of Sophia, and no Sophos of love!” -- Virgilio Melchiorre. Melchiorre. Keywords: il corpo corpi e personi, meta-critica dell’eros, il convito di Trolla, il fedro di Turolla – amore – il riconoscimento come identita – la dialettica dell’atto amoroso – l’amante e l’amato – l’amore reciproco, amore e contramore, erote ed anterote --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Melchiorre” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Melesia: la ragione conversazionale e la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia basilicatese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Metaponto). Filosofo italiano. Metaponto, Basilcata. A Pythagorean, according to Giamblico di Calcide. Grice: “Cicerone complained that Melesia spoke Greek, not Roman!” – Melesia.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Melisso: la ragione conversazionale e la scuola di Velia -- Roma – filosofia campanese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Velia). Filosofo italiano. Velia, Campania. A pupil of Parmenide di Velia. The cosmos is not physical and change is an illusion he attributed to the unreliability of the senses. Luigi Speranza, “Grice e Melisso”, The Swimming-Pool Library. Melisso

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Melli: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale -- AVRELIO – filosofia italiana – la filosofia a Roma nel tempo di Pomponio – pre-ambasciata -- Luigi Speranza (Roma). Abstract. Keywords. Filosofo. Grice: “I like Melli; you see, Italians feel that Marc’aurelio is theirs, so Melli puts his soul in his essay on Marc’aurelio, while his essay on Socrates is rather neutral! For us at Oxford, both Marc’Aurelio and ‘Socrate’ are just as furrin; Locke ain’t!”. Altri saggi: La filosofia di Schopenauer, Felice Tocco, Firenze, Il professor Tocco, Firenze,Commemorazione di Villari, Firenze,  La filosofia greca da Epicuro ai Neoplatonici, Firenze, Socrate, Lanciano. I primi contatti tra i filosofi romani e i filosofi greci non sono amichevoli. Essendosi parlato in senato dei filosofi e dei retori il senato consulto da incarico al pretore Marco POMPONIO (si veda) di provvedere “uti Romae NE essent [FILOSOFI greci]”. Semi della filosofia greca sono sparsi dagl’esuli ACHEI, tra i quali era anche Polibio, venuti dopo la guerra macedonica. Pochi anni dopo, ci e l'ambasciata della quale fa parte Carneade. Anche questa volta vedemmo come CATONE (si veda) s’impensiera dell’efficacia rovinosa che quell’abile parlatore puo esercitare sull'educazione nazionale. Ma Carneade ha un grande successo e l’infiltrazione delle idee filosofiche grechi e già cominciata, specialmente dopo la conquista delle città della Magna Grecia come Crotone – sede della scuola di Pitagora --, Taranto – sede della scuola di Archita --, Velia – sede di Parmenide e Senone – e dopo l’isola della Sicilia – Girgenti, sede della scuola di Empedocle --, e Leontini, sede della scuola di Gorgia. Nei ditti, tradotti o imitati, i filosofi romani senteno parlare di questo ‘amore di sapienza’, filosofia, e degl’amanti di sapienza, filosofi. Un motto si trova in un frammento di ENNIO (si veda), nel Neottolemo. Philosophari mihi necesse est, sed degustalidum de ea, non ingurgitandum in eam. Col progredire della cultura, con lo svilupparsi dell'eloquenza, nasce il bisogno di far istruir i romani presso questi pedagogi schiavi ditti amanti di sapienza. Alcuni grandi personaggi, come SCIPIONE Emiliano (si veda) e il suo amico LELIO (si veda) divieno protettori dei questi pedagogi detti ‘amanti della sapienza’ e li ammettano nella loro familiarità. I giureconsulti trovano un'utile disciplina nella dialettica, studiata nella lingua strainiera, non in romano. La riforme di GRACCO (si veda) -- Gracchi -- e ispirata da idee di questi ‘amanti di sapienza’. Quello che i filosofi romani domandano a questo ‘amore di sapienza’ e 1'orientazione nelle questioni pratiche e una cultura necessaria o utile all’oratore,  al giureconsulto, agl’uomini di stato. Cominciano ad essere conosciute le diverse scuole o sette. Una delle prime ad essere trattata in latino e la dottrina dell’Orto. Sono nominati un  AMAFINO (si veda) e un RABIRIO (si veda) come espositori delle idee, dell’Orto, ma con poca arte. Più tardi è pure ‘edonista’ – sostenitore del piacere -- un certo CAZIO (si veda), “levis quidem, sed non inineundus tamen auctor”, secondo Quintiliano. Ma non ne sappiamo nulla. Il grande interprete dell'edonismo presso i Romani è LUCREZIO (si veda), che segue Empedocle. Altri ‘amanti di sapienza’ sono M. BRUTO minore (si veda), l'uccisore di Cesare, che parla della virtù e dei doveri, e il dottissimo VARRONE (si veda), che insieme con Bruto, sente Antioco in Atene, e in psicologia e in teologia segue più il PORTICO che l'Accademia. Ma tutte queste sono semplici notizie. Il gran nome che oscura, tutti gl’altri ed è per noi il vero rappresentante e inter-prete della filosofia presso i romani è CICERONE (si veda). I primi contatti tra Roma e i filosofi greci non furono amichevoli. Abbiamo già accennato al senatocon- sulto del 161, nel quale, essendosi parlato in senato dei filosofi e dei retori ch’erano in Italia, si dava incarico al pretore Marco Pomponio di provvedere uti Romae ne essent. Pare che i primi semi della filosofia fossero sparsi dagli esuli achei, tra i quali era anche Polibio, venuti * dopo la guerra macedonica nel 168 a. C. Pochi anni dopo, nel 156 ci fu l’ambasciata della quale faceva parte Oar- neade, e anche questa volta vedemmo come il vècchio Catone s’impensierisse dell’efficacia rovinosa che quegli abili parlatori potevano esercitare sull’educazione nazionale. Ma ebbero, come sappiamo, un grande successo ; e l’infiltrazione delle idee greche era già cominciata con la letteratura, specialmente dopo la conquista delle città della Mago a Grecia. Nelle tragedie tradotte o imitate, e LA FILOSOFIA PRIMA DI CICERONE 201 anche nelle commedie, i Romani sentivano parlare sul teatro di filosofìa e di filosofi. (Ricordo il motto che si trova in un frammento di Ennio, nel Neottolemo di Euripide: Philosophari mihi necesse est, sed degustan- dum de ea, non ingurgitandum in eam). Ool progredire della cultura, con lo svilupparsi dell’eloquenza, nasce il bisogno d’istruirsi presso i filosofi. Alcuni grandi personaggi, come Scipione Emiliano, il suo amico Lelio, diventano protettori dei filosofi, li ammettono nella loro familiarità. I giureconsulti trovano un’utile disciplina nella dialettica stoica; le riforme dei Gracchi sono ispirate da idee filosofiche: quello che i Romani domandavano alla filosofìa era l’orientazione nelle quistioni pratiche e una cultura necessaria o utile agli oratori, ai giureconsulti, agli uomini di Stato. Cominciano ad essere conosciute le diverse scuole. Una delle prime ad essere trattata in latino dev’essere stata la dottrina di Epicuro, perchè sono nominati un Amafinio e un Rabirio come espositori della filosofìa epicurea, ma pare con poca arte; e più tardi, ai tempi di Cicerone, è pure epicureo un certo Catius, levis quìdem, sed non ìniueundus tamen auctor, secondo Quintiliano. Ma non ne sappiamo nulla. Il grande interprete dell’ Epicureismo presso i Romani è Lucrezio. Altri scrittori di filosofìa furono M. Bruto, l’uccisore di Cesare, che scrisse della virtù e dei doveri, e il dottissimo Varrone, che insieme con Bruto aveva sentito Antioco in Atene, e in psicologia e in teologia seguiva, pare, più gli Stoici che l’Accademia. Ma tutte queste sono semplici notizie. Il gran nome che oscura tutti gli altri ed è per noi il vero rappresentante e interprete della filosofia presso i Romani è M. Tullio Cicerone. 202 LA FILOSOFIA A ROMA L’uomo politico e l’oratore non ci appartengono, ma sui filosofo dobbiamo fermarci un momento. 2. - Cicerone nacque nel 106, fu ucciso dai sicari di Antonio nel 43 a. C. Studiò in Atene e a Rodi, udì maestri delle varie scuole : Fedro epicureo, Filone di Larissa accademico: lo stoico Liodoto divenne suo ospite per più anni, e diventato cieco morì in casa sua: udì poi ad Atene Antioco di Ascalona, l’epicureo Zenone, e a Rodi lo stoico Posdonio. Cli uffici pubblici e la vita tempestosa di Roma in quegli ultimi anni della Repubblica lo avevano distolto dagli studi filosofici, ch’egli del resto aveva considerato sempre come una preparazione necessaria all’oratore e poi come una nobile distrazione dello spirito; ma le vicende della vita pubblica, l’ozio a cui è condannato dopo la battaglia di Farsaglia, e sventure domestiche, tra cui specialmente la morte della figlia Tullia amatissima, lo riconducono alla filosofia, nella quale egli cerca un’occupazione e una consolazione. Bisogna aggiungere a questi motivi quella che chiamano la vanità letteraria, e ch’è la passione dello scrittore di razza, di uno scrittore di prim’ordine e che gode di una grandissima autorità presso i suoi concittadini; egli vuol far parlare in latino la filosofia, toglierne il monopolio ai Greci, darle il diritto di cittadinanza in Roma rivaleggiando con loro, e si rivolge ai giovani ut huius quoque generis laudem iam languenti Graeciae eri- piant; ed egli si dà come l’iniziatore di quest’opera, di conquistare alla letteratura latina questa vastissima provincia del sapere. Già prima, (lai 54 al 52, egli aveva scrìtto i suoi trattati politici De repuìflicci e De legibus, e prima ancora, nel De oratore, era proclamata con molta energia 1’unione della filo- sofia con l’eloquenza : Cicerone in un luogo del De nat. deor. si vanta di aver sempre filosofato: cum minime videbamur, tum maxime philosophabamur ; ma i suoi libri propriamente d’argomento filosofico li ha scritti negli ultimi anni della sua vita, dal 45 al 43. E quali siano questi scrìtti filosofici ce lo dice egli stesso in un passo del De divinalione, IX, 1. Egli comincia con un trattato dal titolo Consolatio, composto dopo la battaglia di Earsaglia e la morte della figlia, indicando nel titolo i servizi ch’egli si aspetta dalla filosofìa: era fatto a imitazione di un libro simile di Orantore accademico raspi, raévOoo;, eh’ è detto altrove un libro d’oro, da imparare a memoria. Poi scrive VHortensìus, introduzione ed esortazione allo studio della filosofia, difendendola dai pregiudizi romani. Ortensio, ch’era un grande oratore suo contemporaneo, vi combatteva lo studio della filosofìa, Cicerone la difendeva calorosamente. Il libro era molto ammirato. S. Agostino lo ha conosciuto, e la lettura di esso contribuì alla sua conversione. Questi due libri sono perduti. Le opere che ci rimangono sono : Academica > in due libri, importantissimi per le controversie dibattute fra Stoici e Accademici intorno al problema della conoscenza e specialmente per le opinioni degli Accademici più recenti fino ad Antioco. Ce n’ora una prima redazione in due libri; poi l’opera fu rifatta, in quattro libri, e dedicata a Varrone che vi entra come interlocutore. Il caso ha voluto che noi possediamo il 1° libro della seconda edizione, e il 2° libro, il così detto Lncullus, della prima (che si sogliono citare Ac. post. I, e Ac. pr. II). È deplorevole che non ci sia, e sarebbe desideratissima, un’edizione italiana commentata di questi libri. De Finibus honorum et malorum, in cinque libri. Vi sono esposte e criticate le teorie delle diverse scuole greche sul problema fondamentale dell’Etica, il sommo bene o il fine delle azioni. Nel 1° libro Torquato espone la dottrina di Epicuro, nel 2° Cicerone ne fa la critica; nel 3° è introdotto Catone, quello di Utica, a esporre la filosofìa stoica, nel 4° se ne fa la critica ; il 5° libro espone la teoria accademica e peripatetica. È una delle opere più istruttive e forse meglio composte di Cicerone. Le Tttsculanae disputationes, in cinque libri, dalla villa ciceroniana di Tusculo, in cui si suppone tenuto il dialogo, pure d’argomento morale: il 1° tratta de eontemnenda morte, il 2° de tolerando dolore, il 3° de aegritudine lenienda, il 4° de reliquis animi perturbationibus, il 5°, continua Cicerone, eum locum complexus est qui totam phil osophiam maxime inlustrat, docet enim ad beate vivendum virtutem se ipsa esse contentam. Seguono i tre libri De natura deorum, importanti per le teorie metafisiche e teologiche degli Epicurei e degli Stoici. Un epicureo, Velloio, espone la teoria di Epicuro; Lucilio Balbo stoico la teologia degli Stoici; Aurelio Cotta accademico combatte gli uni e gli altri dal punto di vista delle dottrine probabiliste della nuova Accademia. Si connettono col De natura deorum i libri De divina- tione, nel 1° dei quali il fratello di Cicerone, Quinto, difende dal punto di vista stoico la verità della divinazione, e nel 2° F augure CICERONE (vedasi) la combatte con una gragnuola di argomenti vivacissimi ; e così pure si connette agli stessi argomenti il libro De fato, che ci è pervenuto disgraziatamente con molte lacune, nel quale sono esposte molto sottilmente le quistioni intorno al destino e il modo confesso possa conciliarsi con la libertà umana: anche questa una delle controversie dibattute fra Stoici e Accademici. Ci sono poi degli scritti minori, Oato maior de senectute, Laelius de amicitia; anche i Paradoxa, scritti prima, nei quali Cicerone si diverte a sostenere in linguaggio oratorio, come un avvocato, sei dei piu famosi paradossi stoici; e infine il grande trattato di morale pratica De officìis, in tre libri. La filosofia sociale e la teoria del diritto erano state trattate prima nei libri De republiea e in quelli De Legibus. Questi sono gli scritti filosofici di Cicerone, dei quali egli stesso dice in ima lettera ad Attico: àT:óypacpa sunt; minore labore fiunt; verba tantum afferò, quibus abundo: sono riproduzioni, derivano da fonti greche: le quali parole sono state prese da alcuni molto alla lettera, senza tener conto di quello che Cicerone ci ha messo di suo, oltre le parole latine, e senza badare a quest 7 altre parole sue (De fin. I, fi): non interpretum fungimnr munere, sed tuemur ea quae dieta sunt ab iis quos probamus, eisque nostrum iudicium et nostrum scribendi ordinem adiungimus. È noto il giudizio del Mommsen e di altri-: giornalista, dilettante, compilatore frettoloso e confusionario. Un altro tedesco, lo Ziegler, ha detto : il solo suo merito è di aver trovato parole e frasi latine per rivestirne i pensieri greci, un merito che può essere stato utile più che ai suoi contemporanei, agli scolastici del medio evo e ai latinisti moderni. Questi giudizi non sono giusti, non corrispondono alla realtà. Cicerone non è un filosofo di professione: è un spirito colto, agile, curioso, che ha il gusto delle idee generali, e considera la filosofìa come una parte essenziale della cultura umana, importante soprattutto per la vita pratica. L’opera sua si può considerare o come contributo alla storia della filosofia anteriore, o per le dottrine e i risultati a cui egli è giunto. Come storico, Cicerone ha conosciuto direttamente e sin da giovane le dottrine più recenti: lo stoicismo, l’epicureismo, i nuovi Accademici fino a Filone ed Antioco : oltre a questi, ha letto certamente scritti di Aristotile (probabilmente quelli che si dissero essoterici, di carattere popolare) e di Teofrasto, conosce anche alcuni dialoghi di Platone, si è provato a tradurre il Timeo, conosce Senofonte, gli è familiare la figura di Socrate. Ora è un fatto che per tutto il periodo postaristotelico, Cicerone è una delle fonti secondarie più importanti per le preziose informazioni ch’egli ci dà sulle dottrine e le controversie di quel tempo : egli ha letto libri che noi non conosciamo più; e non sono nemmeno senza valore le indicazioni e notizie ch’egli ci dà, perchè le trova nei suoi libri, sulla filosofia anteriore ad Aristotile, anche sui presocratici. Cosicché, coi soli libri di Cicerone si può ricostruire, ed è stato fatto più volte, tutta una storia della filosofia antica fino a lui. Si dirà: non è una storia attendibile, non è una storia del tutto esatta: ha bisogno di essere controllata, commentata e corretta. Ma si può domandare: qual’è lo scrittore o doxografo antico di cui non si debba dire lo stesso, a cominciare da Aristotile e da Teofrasto, che pure erano filosofi di protessione, e scrivendo di storia della filosofia ci hanno dato notizie e interpretazioni del pensiero altrui molte volte discutibili. Sarà sempre uno studio interessante il cercare le fonti di cui può essersi servito Cicerone e come se n’ è servito: si potrà trovare che in qualche punto s’inganna, che può aver lavorato in fretta, che parafrasando o accorciando gli è accaduto di fraintendere in qualche punto la dottrina che espone: tutte cose su cui si può discutere caso per caso ; ma dal dire questo al dire sommariamente che non capiva niente di filosofia e non sapeva leggere i libri che aveva davanti, c’è una grande distanza. Come ha detto benissimo il Giussani, è diventata una specie di moda o di mania quella di parecchi critici di scoprire a ogni momento prove dell’ignoranza o della irriflessione di Cicerone. Piò volte invece accade che una più attenta considerazione può provare che chi non ha capito è il critico. Ma questa non è nemmeno la cosa più importante. Anche ammessi tutti gli errori parziali o di fatto che si attribuiscono a Cicerone, quello che non bisogna dimenticare è che le idee e le dottrine della filosofia antica andavano ripensate per poter essere dette in latino, e sono state ripensate e rielaborate da un cervello non scolastico, coltissimo, aperto, ch’era anche un grande scrittore, un maestro della parola, e si rivolgeva a un gran pubblico, non fatto per le disquisizioni sottili o le finezze di scuola. Questo ripensamento e questa trascrizione delle idee greche in un altro linguaggio non è il primo venuto che poteva farla. Non solo ai suoi concittadini e contemporanei, ma durante il Medio Evo, per quanto poteva essere conosciuto, e più specialmente dalla Rinascenza in poi, le opere di Cicerone hanno reso all’umanità tutta quanta, alla cultura umana, un servizio immenso. « Le esposizioni delle dottrine antiche che noi possiamo ora trovare superficiali o anche in qualche punto inesatte, erano fatte con una grande chiarezza e in una forma attraente. Per uomini che non potevano leggere, e che anche potendo non avrebbero capito Platone e Aristotile, che pure tutti citavano, Cicerone fu una guida preziosa. Lo stesso carattere eclettico della sua opera era un pregio di più : vi si trovava quello che gli antichi avevano pensato di più nobile, di più grande e di più accessibile. Si direbbe che Cicerone avesse preparato per gli uomini a cui la barbarie aveva impedito per più secoli di pensare, un nutrimento intellettuale eh’essi potessero assimilarsi, a dir così il succo della filosofìa antica; che li preparasse a comprendere i filosofi greci quando fossero stati loro accessibili, e li preparasse infine a pensare da sè » ] ). Questo servizio, come interprete vivo, facile, eloquente, del pensiero antico, egli ha continuato a renderlo anche dopo il Rinascimento, continua a renderlo tutti i giorni, in tutte le scuole, dovunque s’impara a leggere e a pensare leggendo le sue opere. - Rimane a sapere qual’è il valore di Cicerone come filosofo, che cosa ha pensato lui) Queste parole sono del Picavet, nell’ Introduzione alla sua edizione, con note, del II libro De Natura deorum (Paris, Alcan)] ( qual’è e se c’è un contributo suo personale alla storia delle idee. CICERONE (vedasi) non è e non pretende di essere un filosofo originale. Sa di essere scolaro dei Greci e si trova davanti a dottrine discordanti, quando già nelle scuole greche stesse è cominciato quel processo di ravvicinamento e di fusione che le porta a diventare eclettiche, ciascuna a modo suo. Qual’è l’atteggiamento ch’egli prende? Cicerone si professa accademico, dice di aderire alla teoria della conoscenza della nuova Accademia. Non già ch’egli creda suo compito il trattare ex professo di questi problemi, riflettendo per conto suo sulle condizioni e i limiti della conoscenza umana, come ha fatto Cameade; no, egli non ha di queste ambizioni; ma trovandosi davanti al contrasto delle sètte e delle opinioni su quistioni spesso sottili, su problemi difficili a decidere, l’attitudine più savia gli pare quella del dubbio prudente, raccomandato, com’egli crede coi suoi maestri, da Socrate e da Platone: egli non è scettico ma probabilista: è la dottrina o meglio la disposizione di spirito ch’egli chiama, meno arrogante, la più aliena dalle arroganze dogmatiche; ed è anche conforme alla sua abitudine di sostenere il prò e il contro di ciascuna causa, richiede agilità e versatilità di spirito, e si presta agli sviluppi oratori, mentre nello stesso tempo lo tiene in guardia dai paradossi stravaganti, e lo mantiene in contatto con le opinioni popolari. E infine diciamo pure eh’è un’attitudine conforme alla sua natura ondeggiante e diversa, al suo carattere spesso indeciso anche nella vita pratica. Ma intanto quest’adesione al probabilismo accademico gli ha giovato a mantenere lo spirito libero, a non farsi seguace di Una setta, a non giurare nelle parole di un maestro: Vipse dixit dei Pitagorici non gli piace: nos in diem vivimus : vuol conservare l’indipendenza del suo spi- rrito: la disciplina accademica non solo gli pare la meno arrogante, ma la più elegante e la più coerente, non nel senso eh’essa importi un sistema chiuso di dottrine che non si contradicono, ma nel senso eh’essa suppone una disposizione di spirito che, dando la sua adesione a ciò eh’è più verisimile, rimane sempre conseguente con se stessa: il che gli ha permesso di prendere quello che gli pareva buono in ciascun sistema, di libare tutte le dottrine, di essere insomma l’interprete e il volgarizzatore dei grandi pensieri di tutte le scuole antiche. Questa disposizione di spirito, piuttosto che scettica, si potrebbe dire liberalo e non settaria, senza partito preso, e Cicerone la descrive con parole che meritano di essere ritenute : (De nat. deor. J, 12): « Noi non diciamo che non ci sia niente di vero, ma al vero è mescolato il falso, bisogna essere canti nel giudicare e nell’affermare : diciamo che ci sono molte cose probabili, le quali se pure non dànno scienza certa, generano una convinzione che basta a guidare l’uomo savio. E in un luogo molto bello del libro II dei primi Accar- demici, al cap. 3° è detto: « Fra noi e coloro che credono di sapere la verità delle cose passa questo divario, ch’essi tengono per verissime le loro opinioni, mentre noi abbiamo sì molte cose probabili da seguire, ma non ci attentiamo di spacciarle per certe. Così rimanendo assai più liberi e sciolti nel giudicare {inteff tu nobis est iiidicandi potestas ), nessuna necessità ci costringe a difendere delle dottrine prescritte e a dir così comandate ; mentre che gli altri si trovano incatenati ad alcune dottrine prima che sappiano quale sia la migliore: l e trascinati sin da giovinetti, nell’età più debole, da un amico autorevole* o . presi dal discorso di un maestro eloquente, giudicano di cose che non conoscono, e quasi fossero sbalzati dalla tempesta, s’attaccano come ad uno scoglio al primo sistema di cui hanno sentito parlare : ad quameumque sant disciplinavi quasi tempestate delati, ad eam y tanquam ad saxum, adhaerescunt ». O come dice altrove (De nat. deor. I, 5): obesi plerumque iis qui discere volani, auctoritas eorum, qui se decere profitentur. Quest’attitudine di riserva prudente egli mantiene specialmente nelle quistioni di fìsica, che del resto non sono di sua competenza, e sulle quali le opinioni sono tante e così discordanti. Latent ista omnia. Noi non conosciamo abbastanza nè il nostro corpo nè che cosa è l’anima, se è fuoco, aria o sangue, se è mortale o eterna: nam in utramque partem multa dicuntur. Non possiamo penetrare nè nel cielo nè dentro la terra. Tuttavia non crede che lo studio della fìsica debba essere messo da parte. L’esame e la.considerazione della natura sono una specie di nutrimento (pabulum) per lo spirito. Diventiamo più grandi, ci solleviamo al di sopra di noi stessi, sdegniamo le cose umane tenendo l’occhio e la mente rivolti alle cose divine e celesti. La ricerca, anche nelle cose più oscure, ha una grande attrattiva e procura una voluttà umanissima. Ma da buon romano, nonostante quest’elevazione dello spirito, egli ha poco gusto per la speculazione pura: apprezza di più la scienza eli* è utile alla vita. E quanto più si avvicina allo studio dell’ uomo e ai problemi pratici della vita morale e sociale, egli sente il bisogno di affermazioni più decise. E tra il contrasto delle opinioni una sorgente o criterio di verità, o vogliamo dire di probabilità massima, gli si apre, ed è la coscienza naturale, quello che la coscienza comune e non falsificata di tutti gli uomini rivela a ciascuno, e che trova la sua conferma nel comensus gentium. Egli ricorda il ‘conosci te stesso’ dell’oracolo e lo interpreta in questo senso: tutta quanta la filosofìa è un commento, uno sviluppo della conoscenza di se stessi, di quello che la coscienza ci rivela. Gli Stoici e in un certo senso anche gli Epicurei avevano parlato di nozioni comuni, che si formano naturalmente in ogni coscienza. E Filone di Larissa deve avergli insegnato che ci sono delle nozioni evidenti, perspicue, impresse dalla natura nella mente e nell’animo di ciascun uomo. Egli trova che fra gli uomini nessuna gente è così fiera, così selvaggia che non abbia il concetto della divinità, anche se non sappia quale ne è la natura. Egli non ignora che anche qui le opinioni sono discordi, e conosce pure le difficoltà del problema; e se gli domandate, quid aut quale sit Deus, egli vi risponderà come Simonide, il quale interrogato su questa quistione dal tiranno Jerone, domandò un giorno per rifletterci su, e poi due e poi quattro, e finì col rispondere: quanto più ci penso, tanto mihi res videtur obscurior. Ma ciò nonostante non è una credenza arbitraria: Omni autem in re consensio omnium gentium lex na- turae putanda est. E oltre il consenso delle genti, è anche molto plausibile, il più plausibile fra tutti, 1’argomento delle cause finali, ricavato dall’ordine e dalla bellezza del mondo, ch’egli espone con molta eloquenza, quantunque non trovi sempre concludenti o del tutto convincenti le argomentazioni degli Stoici per provare la provvidenza e l’ottimismo, e che sono fatte più per rendere dubbia la cosa che per chiarirla. Ma insomma egli crede agli Dei, anzi a una divinità unica: è un’idea alla quale la mente degli uomini è naturalmente condotta. E lo stesso si può dire dell’anima umana, che dev’essere una natura singolare, diversa dagli altri elementi terrestri che ci’sono più noti. i^Toi non possiamo vantarci di conoscere la natura dell’anima; ma gli elementi dei corpi che noi conosciamo, l’acqua, l’aria o il fuoco non potrebbero spiegare la conoscenza, la memoria, la previsione dell’avvenire, le altre funzioni psichiche: e dalle opere di Cicerone si può ricavare un piccolo trattato di psicologia, che non sarà quello degli scienziati moderni, ma che contiene delle descrizioni eccellenti, e sempre vere, dei principali fatti della coscienza, compresi gli affetti e le passioni umane, ricavate dall’osservazione interiore e dall’ esperienza della vita, seguendo anche in questo naturalmente i suoi maestri, Platone e Panezio e Posidonio. Egli difende la libertà umana contro il fato degli Stoici, e crede anche nell’immortalità come una cosa infinitamente probabile. Quod si in hoc erro, libenter erro. E nel Sogno di Scipione, dove sono descritte le sfere celesti e la loro armonia, e la sede dei beati, è affermata con gli argomenti platonici l’immortalità delle anime umane. Soprattutto quello che la coscienza ci rivela è la legge morale, eh’ è una legge della ragione, la quale ragione è il privilegio dell’uomo sui bruti, l’attributo divino nel- l’uomo, e il legame che lo congiunge ai suoi simili. Così Cicerone crede di avere scoperto nella coscienza stessa del genere umano i fondamenti di cui ha bisogno per la sua dottrina morale. Opinionum enim commenta delet dies, naturae iudìcia confirmat. E ricordandosi dei dubbi accademici, egli scrive, avendo appunto in mente i problemi morali, quelle parole così caratteristiche: perturba- tricem miteni harum omniam rerum Academiam liane reeentem exoremus ut sileat. È la dottrina ch’è stata chiamata del senso comune, ch’è riapparsa più volte nella storia della filosofìa. Ma l’interesse storico dell’eclettismo ciceroniano sta appunto in questo: che noi vediamo com’esso è nato. Quello che Cicerone presenta come rivelazione della coscienza comune è il precipitato di tutta la speculazione greca anteriore, risultato di quella fusione che s’era venuta operando tra le tendenze affini delle tre scuole derivate da Socrate: platonica, aristotelica e stoica, e che hanno per base la concezione teleologica, il valore cosmico e antropologico che attribuiscono alla ragione, e il pregio eminente in cui tengono la virtù come il massimo dei beni o la condizione essenziale della felicità. Rimane esclusa, come ho già avvertito, da questo processo di fusione la scuola epicurea con la sua concezione meccanica e con la sua formula pericolosa della voluttà, che si presta ai malintesi e agli eccessi. E nel fatto CICERONE (vedasi), indulgente e tollerante con tutte le scuole, combatte aspramente, fino all 1 ingiustizia, L’ORTO, trovandolo inconseguente in quello che può avere di buono, e pur avendo la più grande stima del carattere di Epicuro stesso e di alcuni degli Epicurei ch’egli ha personalmente conosciuto: io combatte anche, oltre che per tutte le altre ragioni, perchè l’Epicureismo non possiede secondo lui una base su cui fondare i doveri civili, che a lui stanno tanto a cuore. Ma tra tutte le altre scuole egli trova che le affinità sono maggiori e più importanti che le differenze, e sceglie e adatta quello che gli pare più utile e più conveniente. E lo guida, oltre il talento straordinario dello scrittore e dell’oratore, un grande buon senso, una grande rettitudine, e un certo istinto generoso che lo porta verso ciò eh’ è nobile e grande. 1 _ E una volta eh’è sul terreno della morale, egli non si \ tiene sulle generali, ma costruisce in tutti i particolari un trattato di morale eh’è fino al giorno d’oggi un perfetto manuale dell’onest’uomo e del buon cittadino: il De of - Jiciis. Nel quale segue, come abbiamo detto, lo stoico Pa- / nezio, e inclina egli stesso verso lo stoicismo nel proda- ^ mare il pregio incomparabile della virtù : ma i paradossi stoici urtano il suo buon senso; ed egli tempera la dottrina morale con la misura dei peripatetici, ricollegandola anche ad alcune delle speculazioni e delle speranze del Platonismo, come quella dell’immortalità. Proclama la virtù gratuita, disinteressata, e illustra la dottrina con esempi presi dalla storia romana, esempi di disinteresse, di forza d’animo, di disprezzo della morte, di fedeltà al dovere, di amore alla patria. Traduce il xaXóv dei Greci con l’honestum, e considera come parti dell’onesto le quattro virtù cardinali, su ciascuna delle quali dice cose sapienti, non dimenticando la beneficenza accanto alla giustizia, la charitas generis Immani, e non dimenticando i doveri del deco rum, di ciò eh’ è conveniente e della cortesia, il che rivela il buon gusto oltre che la coscienza delicata. È un trattato compiuto di morale individuale e sociale; e soprattutto le tesi sociali dello stoicismo egli si assimila esponendole con la magia e col fascino della sua eloquenza. Già nel De republica aveva esposto la teoria del governo misto, come il migliore dei governi, trovandone la conferma e l’applicazione nella vecchia costituzione romana. E nel De legibus aveva esposto le basi lìlosofiche del diritto: su queste idee, attinte ai suoi maestri stoici, egli ritorna sempre. La vera legge è la diritta ragione, conforme alla natura, dappertutto diffusa, costante, eterna. £Ton ò altra in Atene e altra a Itoma. Ohi la rinnega rinnega la natura umana, rinnega se stesso. Questa legge eterna e immutabile è il fondamento di ogni diritto, la regola e la misura delle legislazioni umane. Essa stabilisce fra tutti gli uomini, che partecipano della ragione, una società naturale, una società di giustizia e di amore. Espressa da quest’oratore e uomo di Stato, la grande idea dell’umanità e del diritto umano esce dall’angustia delle scuole per entrare nel mondo della vita e della cultura, e agisce nei secoli a traverso tutta la storia T ). Ho accennato ai giudizi di alcuni tedeschi. Giustizia vuole che si dica che non tutti i tedeschi la pensano allo stesso modo. Uno di essi, 1’ Hiibner (Deutsche Rundschau), citato dal prof. Pasdèra nella Prelazione alla sua edizione del Sogno di Scipione, parlando dell’azione eser- *) Jankt et Séaillks, nini, de la Philosophie (Paris, Del agrave).] citata da Cicerone sulla cultura dei popoli dell’ Europa, dice: Pure ammettendo che la grande maggioranza delle persone colte non legga più gli scritti di Cicerone nè prenda esempio dalla bellezza della loro forma, certo non è perduta per l’umanità la profonda influenza eh’essi hanno esercitata sul pensiero e sulla parola di tanti spiriti illuminati, non è perduto il sentimento di nobilissima umanità che in essi vive. Il che vuol dire che Cicerone è stato e sarà sempre un grande educatore, del quale bisogna parlare con rispetto e con gratitudine. SENECA 1. La scuola dei Sestii - 2. Seneca, le sue qualità di moralista e di scrittore - 3. Le sue idee su la società, Dio e Tanima umana - 4. Seneca e S. Paolo. 1. - Dopo Cicerone, la filosofìa acquista a Roma una grande importanza tra le persone colte, diventando sempre più pratica e popolare. Cicerone scriveva alla vigilia delle ultime proscrizioni delle quali egli stesso doveva essere vittima, e nei suoi trattati c’era ancora l’eco delle dispute agitate nelle scuole greche; dopo di lui, terminate le lotte della vita pubblica, stabilito l’impero, la filosofìa risponde al bisogno di tutti quelli che vi cercavano un rifugio, una consolazione, dei principi salutari, una regola di condotta. Sotto Augusto cresce il numero dei suoi adepti: poeti e storici, giureconsulti e uomini di Stato se ne occupano; Orazio stesso, che qualche volta deride i filosofi per i loro paradossi, è filosofo a modo suo, molto savio e di molto buon gusto, ora stoico ora epicureo, e fa spesso il suo esame di coscienza, ha delle preoccupazioni morali, maestro nell’arte di vivere. Nelle grandi famiglie i filosofi entrano come precettori, consiglieri e consolatori, hanno cura d’anime. Seneca ci parla di un condannato a_morte, che andando al luogo del supplizio, è accompagnato dal suo filosofo, prose- quebatur illum philosophus suus, col quale s’intrattiene dell J immortalità dell’anima. Quando Livia, la moglie di Augusto, perde il figlio Druso, essa si rimette per essere. consolata nelle mani di Areos, il filosofo di suo marito: era il confessore, il confidente dell’uno e dell’altra. E c’è pure un insegnamento pubblico di filosofia, che da Cicerone a Seneca è rappresentato da un gruppo di uomini, i quali fecero l’educazione della gioventù d’allora. Sono innanzi tutto i due Sestii padre e tìglio. Quinto Sestio era un romano di buona famiglia, che al tempo della dittatura di Cesare andò a studiare filosofìa in Atene, e poi venne a professarla a Roma. Attorno a lui e a suo figlio si formò una scuola, la cosiddetta scuola dei Sestii, che ebbe un certo splendore, esercitò molta efficacia: essi lottano con energia contro i vizi del secolo, e mettono in uso certe pratiche inorali come l’esame di coscienza, una pratica già raccomandata dai pitagorici, i quali pare che i Sestii seguissero anche nell’astenersi dalle carni di animali. Altri professori illustri della stessa scuola furono So- zione di Alessandria, che s’avvicina ancora più al pitagorismo insegnando la metempsicosi, Attalo stoico e Fabiano Papirio, un declamatore del tempo di Augusto, che s’era fatta una grande riputazione nelle scuole, trattando quelle cause immaginarie su cui si esercitava allora' l’eloquenza dei retori. Fu convertito da Quinto Sestio alla filosofìa, e continuò a declamare, a parlare pubblicamente di argomenti filosofici. L’insegnamento così non fu più limitato a un gruppo d’iniziati o di adepti, ma diventò una vera predicazione: la filosofia s ? indirizza alla folla, diventa eloquente, cerca di essere persuasiva ed efficace. Fabiano Papirio specialmente ebbe un grande successo: aveva una fìsonomia dolce, una maniera di parlare semplice e sobria: 10 ascoltavano con un’attenzione rispettosa; ma a volte V uditorio, colpito dalla grandezza delle idee, non poteva trattenere delle grida di ammirazione. Un altro che attirò l’attenzione della gioventù romana fu il cinico Demetrio, ille semimidus, cencioso, come lo chiama Seneca, con la stranezza delle sue maniere e la foga della sua parola, tutto energia e disprezzo del dolore e della morte: riappariscono i Cinici, che sono come ' sempre l’esagerazione degli Stoici. Del resto, qualunque sia il nome che portino, tutti questi filosofi erano più o meno stoici. Non si trattava per loro di scoprire verità nuove, ma di applicare le grandi verità morali e le massime di condotta già fissate dagli antichi saggi. Come dice ancora Seneca, i rimedi dell’anima sono stati trovati prima di noi: non ci resta che cercare in che maniera e quando bisogna applicarli. La tristezza dei tempi e il dispotismo imperiale che diventa sempre più pazzo e violento dànno, come ha detto 11 Boissier, un terribile, a propon allo stoicismo, il quale diventa una fede ardente, la religione delle anime libere: l’anima ha bisogno d’irrigidirsi nel sentimento della sua forza e della sua dignità in mezzo a quelle sventure e a quei pericoli che a ogni momento la minacciano. Per questo la filosofia ebbe l’onore di essere odiata dagl’ imperatori : essa e la Storia erano, come dice Tacito, ingrata principiòus nomina. La filosofia ebbe i suoi devoti e ì suoi martiri, a cominciare da Catone, che rifiuta la vita cercando libertà, e venendo alle vittime di Nerone illustrate da Tacito, come tra gli altri, Trasea Peto, assistito negli ultimi suoi momenti dal cinico Demetrio; e poi lo stesso Seneca, sul quale dobbiamo fermarci ] ). L. Anneo Seneca, figlio di Seneca il retore e di Elvia, nacque a Cordova. Venuto a Roma col padre che non ama la filosofia, e avrebbe voluto farne un oratore, è scolaro di quei moralisti della scuola dei Sestii, Sozione, Attalo, Fabiano Papirio, la cui maschia e severa dottrina fece sopra di lui la più viva impressione. Si fece conóscere per la sua eloquenza, entrò nella via degli onori, fu accolto e apprezzato nella più alta società di Roma. Sotto l’imperatore Claudio fu esiliato in Corsica per gl’intrighi di Messalina; dopo otto anni è richiamato per opera di Agrippina che gli affida l’educazione del giovane Nerone. Del quale dunque fu precettore e poi ministro: caduto in disgrazia nel 62, morì nel 65 per ordine dell’imperatore. Mescolato agl’intrighi e ai delitti della corte imperiale che non seppe o non potè impedire, il suo carattere è Stato molto discusso, special- mente per le immense ricchezze eh’ egli possedeva, in gran parte donategli dall’imperatore, e per la parte che può avere avuto nell’assassinio ! di Agrippina per opera di Nerone, in nome del quale Seneca scrisse una lettera giustificativa al Senato, presentando la morte di Agrippina come un suicidio. Ma quali che possano essere state le J ) Cfr. Martha, Les moralistes souti l’empire romaìn; Boissier, La religion romaine d’Auguste aux Antonina; Havet, Le Cliristianisme et ses origines, * 2° voi.; il capitolo su Seneca del Pichon nella sua Hist. de la Lìti, latine (Hachette) ; o uno studio del prof. Pascal nel voi. Figure e caratteri (Sandron). sue debolezze, egli le riscattò da filosofo con una bella morte, eh’è raccontata da Tacito. Impeditogli di far testamento, diceva di lasciare agli amici l’immagine della sua vita. Non fu senza ambizione e senza vanità, e non uscì immacolato dalla vita, in quei tempi e in quella corte; ma non gii si può negare un certo entusiasmo sincero e l’aspirazione verso il bene. Le opere di Seneca che si riferiscono alla filosofìa sono i trattati morali: de provìdentia, de comtantia sapienti», de ira, de vita beata, de olio, de tranquillitate animi, de bre- vitate vitae, de elementia, de beneficiis; le Consolazioni ad Marciavi, ad Polybium, ad JSelviam matrem; le Lettere morali a Lucilio che sono 124, l’ultima, la più matura e la più importante delle opere di Seneca; e infine le Qui- stioni naturali, che trattano di argomenti di fisica, fecero testo e godettero di molta autorità durante il Medio Evo; ma vi si tratta anche di argomenti morali., Seneca si prolessa stoico, e degli scrittori latini è l’interprete più compiuto della dottrina stoica, di cui riproduce i dogmi con una certa enfasi, non scevra di declamazione e di retorica. Ma è eclettico anche lui e impara da tutte le scuole: Cita spesso anche Epicuro, verso il quale è più giusto degli nitri Stoici. Egli stesso confessa: Solco in aliena castra transire, non tanquam transfuga, sed tanquam explorator. La sua specialità è il genere monitorio e precettivo; e il suo capolavoro ò una raccolta di consigli e precetti morali a Lucilio, suo amico, un cavaliere romano ch’era procuratore in Sicilia, amministratore finanziario della provincia, e ch’egli guida e dirige da lontano coi suoi consigli. * E' 1 Biblioteca Comunale “Giuseppe Melli” - San Pietro Vernotico (Br) SENECA Seneca non ama la folla, non pensa al gran pubblico: Satis sunt mifii patiti, satis est unns, satis est nullws. La sua opera non è di un predicatore, ma di un direttore delle coscienze. Ed egli sa adattare il suo insegnamento secondo le persone e le circostanze. Aliter cum alio agendum: egli consola quelli che hanno bisogno di essere consolati, spinge all’azione le nature fiacche e molli, ridesta la forza di quelli che s’annoiano, predica il ritiro e la solitudine a quelli che amano troppo la vita mondana. E in quest’opera di moralista pratico egli porta una grande conoscenza della vita, l’esperienza di un uomo che conosce il mondo, la corte, le passioni, le inquietudini e i bisogni del cuore umano: sicché i suoi trattati e specialmente le sue lettere sono importanti non solo per le verità morali che contengono, ma anche come studio dei caratteri e delle passioni del suo tempo e di tutti i tempi. La sua psicologia è molto più raffinata di quella di Cicerone, e c’è in Ini una preoccupazione della vita interiore e della perfezione morale, in ciò che ha di più intimo, che non c’è in Cicerone. Egli propone come un ideale di perfezione la virtù stoica, ma sa adattarsi alle circostanze, e consente quando occorre alle debolezze della natura umana: di qui le contradizioni che gli rimproverano, e che derivano dalle condizioni speciali in cui si esercita il suo insegnamento. S’aggiunga, per spiegare l’impressione che fa Seneca, l’efficacia di uno stile non senza artifizio, ma concettoso, sentenzioso, energico, a frasi spezzate e serrate, con qualche cosa di brusco e di veemente. La grande frase, il periodo ciceroniano si spezza: ne prendono il posto dei periodi brevi, a scatti, con frequenti antitesi, e sentenze aguzzate e raffinate, piene di energia: anche questo un carattere che lo ravvicina al gusto di noi moderni. La morale di Seneca, guardata nel suo insieme, è, come . quella di tutti gli Stoici, un’àpologìà perpetua della volontà morale di fronte a tutto ciò che tende a limitarla e asservirla. La fortezza dì fronte agli attacchi della fortuna, il disprezzo dei beni esterni, la serenità davanti alla morte, questi e gli altri temi abituali della predicazione stoica sono anche i suoi : egli ne rinfresca l’espressione col suo accento passionato e concitato, che dà a quelle massime forza e rilievo.Soprattutto non bisogna dimenticare quel sapore di attualità che, come abbiamo accennato, avevano le idee stoiche in quella condizione dei tempi e in bocca di Seneca. Già questa attualità o riscontro nella realtà comincia ad essere un fatto anche con Cicerone. Il quale, quando scrive nelle Tusculane de eontemnenda morte o de tolerando dolore, non scrive di temi astratti e retorici, ma di pericoli imminenti, in tempi già diventati iniqui e tristissimi, tra gli orrori delle guerre civili e delle proscrizioni. Con l’impero, dopo Augusto, la situazione si aggrava, diventa intollerabile. In mezzo a quell’orgia, a quei delitti, a quella tirannide che non ha più niente di umano, la sola cosa che l’anima umana può salvare è la sua libertà e il sentimento della sua dignità. La filosofia compie l’ufficio suo predicando la forza della volontà, la purezza interiore, il disprezzo di tutto ciò che non dipende da noi, il disprezzo della vita. He nasce una situazione violenta, che si riflette anche nello stile di questi scrittori, come ha osservato con molta finezza l’Havet. SENECQuando noi leggiamo in Seneca e negli altri stoici che la povertà, V esilio, le torture, la morte stessa non sono nulla, noi diciamo eh’ essi declamano; e in un certo senso è vero; ma la loro declamazione è come imposta dalla situazione, è l’espressione esagerata di un sentimento legittimo e naturale. Essi declamano perchè sentono il bisogno di sii dare la forza brutale che dispone di tutte le maniere per far soffrire. In quella declamazione non tutto è effetto dei vizi letterari del secolo, c J è anche qualche cosa di sincero. Il filosofo è portato a prendere un tono veemente: la sua enfasi, le sue ripetizioni insistenti, il gesto concitato che sembra accompagnare la parola, sono altrettante proteste di una coscienza che la forza vorrebbe far tacere, e che non tace, ma ha bisogno di gridare per farsi ascoltare. 3. - È di Seneca la sentenza che dice : Non scftolae sed vitae diwimus. Salvo che questo motto non va inteso nel senso ' utilitario in cui oggi è così spesso ripetuto. Nemmeno Epicuro lo avrebbe inteso in questo senso. Quando i moralisti antichi dicono di voler insegnare a vivere, hanno in mira la salute e la perfezione dell’anima, non gli agi, le comodità, l’apprendi mento delle arti utili alla vita: la sola arte eh 7 essi insegnano è l’arte stessa di vivere: artifex rivendi, come dice Seneca del saggio. Un’altra conseguenza di quella situazione che abbiamo detto è che le differenze esterne fra gli uomini spariscono. Nella servitù comune, nella quale tutti gemono e temono in quelle vicende inopinate della fortuna, i grandi non hanno più ragione di disprezzare le miserie dei piccoli, nè gli uomini liberi quelle degli schiavi. In Seneca le grandi tesi sociali e umanitarie dello stoicismo sono riprese con un nuovo accento, più forte e più intimo. Egli vede negli schiavi degli amici di condizione inferiore, humiles amici; sono degli schiavi, ma sono degli uomini: imo homines. Egli condanna i giochi dei gladiatori, che Cicerone, quantunque non li amasse, giustificava ancora come una scuola di coraggio per fortificare l’animo degli spettatori contro il dolore e la morte, quando quelli che si vedevano combattere erano dei malfattori. Seneca non li può soffrire sotto alcun pretesto, non vuole che s’insegni al popolo la crudeltà: quest’uomo è un brigante, merita di essere punito; ma tu, disgraziato, che hai fatto per essere condannato a questo spettacolo? E in quest’ordine d’idee trova la meravigliosa espressione: homo res sacra homini; e condanna pure la guerra, dicendo che la natura ha fatto l’uomo per la dolcezza (mitissinutm genus), dimenticando forse che ci sono delle guerre giuste e anche pietose, quando bisogna difendersi dai briganti e dagli assassini. E celebra con parole che hanno del mistico la solidarietà umana e i suoi dovevi: nell’ep. 95: membra sumus corporis magni. Natura nos cognatos edidit: di qui l’amore reciproco e ciò che ci rende socievoli: la giustizia e il diritto non hanno altro fondamento : è più miserabile il nuocere altrui che l’essere offeso: siano sempre pronte le mani a giovare, e abbiamo sempre nel cuore e nella bocca quel verso: Homo sum, nihil Immani a me alienum puto. E aggiunge: la società umana è come una vòlta che cadrebbe se le singole pietre non si sostenessero a vicenda. Esorta alla bontà, alla clemenza, al beneficare, al perdono delle offese. Ubieumque homo est, ibi benefica locus est. Non desinemus opem ferve etiam inimicis. Alteri vivas oportet si vis Ubi vivere. Questa morale, che con la sua umanità e la sua mitezza si stacca sul fondo di quella tristezza di tempi crudeli e violenti, ha già un carattere e un’ispirazione religiosa. Questo caràttere religioso si accentua ancora di più in alcune delle idee che Seneca esprime intorno alla divinità, alle relazioni dell’uomo con Dio, e al destino dell’anima umana. Anche per lui, come per tutti gli Stoici, il concetto di Dio oscilla tra il panteismo e il teismo. Quid est Deus? Mens universi. Quid est Deus ? quod vides totum et quod non vides totum. Ma nella sua opera di moralista consolatore e direttore delle cosciente egli non può a meno di mettere in evidenza gli attributi personali della divinità, concepita non solo come ragione universale, ma coi suoi attributi morali di bontà, di clemenza, di sollecitudine per gli uomini. Nulla è nascosto a Dio, egli è presente agli animi nostri, vicino a noi: prope est a te Deus, tecum est, intus est. Sì, o Lucilio, egli continua^ nella lettera 4P, saeer intra nos spiritus sedei, malorum bonorumque nostr orimi ohservator et custos. Dio non si onora coi templi nè si rende propizio sollevando in alto le mani supplichevoli, ma con la purezza del cuore e della vita : vis deos propiUare ? bonus esto. Satis illos coluit, quisquis imitatus est (Lett. 95). È dunque sulla virtù che si fonda questa relazione tra l’uomo e Dio, del quale è detto: patrium Deus habet adversus bonos viros animum, et illos fortiter amai. Un Dio cosiffatto non è una pura astrazione filosofica, ma è oggetto di adorazione religiosa : il rapporto religioso è un 1 rapporto intimo tra due persone, l’una delle quali si sente dipendente dall’ altra. Dio comunica con noi, risiede in noi, ci ama ed è amato da noi: colitur et amatur; e noi P invochiamo perchè, com’è detto altrove, da lui ci vengono le risoluzioni grandi e forti: ille dat constila magnìfica et creda: c’ispira e ci sostiene: si direbbe che in queste parole è toccata o intraveduta la dottrina della grazia. Notevoli pure sono i concetti intorno all’uomo, alla natura e al destino dell’anima. L’uomo non ha ragione di vantarsi, di essere orgoglioso: idem semper de nobis pronuntiare débébvmus, malos esse nos, malos fuisse, invitus adieiam et fiutar os esse . Peccavimus omnes. E solo a traverso gli errori noi giungiamo alla virtù: anche il migliore fra noi ad innocentiam tamenpeccando pervenit. E l’inìzio della salvazione è la conoscenza del peccato. Initium est salutis notitia peccati } una sentenza di Epicuro, che Seneca si appropria. La vita è una lotta, una milizia: c’è dentro dell’uomo una lotta continua tra la carne e lo spirito, tra il corpo, eh’è come un peso o una prigione, e lo spirito sacer et aeternus che aspira alla sua liberazione: gravi terrenoque detineor carcere. 1 Ohi mi libererà da questo corpo di morte?’ griderà S. Paolo. Nell’anima stessa c’è qualche cosa d’irrazionale: quel dualismo platonico che Posidonio aveva introdotto nella dottrina stoica, è conservato da Seneca, e n’è resa più acuta, più accentuata l’espressione: diventa il contrasto tra la carne e lo spirito, eh’è tanta parte della concezione cristiana. SENECA La vita è dunque una guerra continua. Nóbis militan- dum est, ed è un genere di milizia che non consente riposo. Bisogna essere vigilanti con se stessi, bisogna combattere con le passioni, col dolore, col piacere, con la fortuna, con la povertà, col nostro proprio cuore: Proiice quaecumque cor tuiim laniant ; quae si aliter estrahi nequi- rent, cor ipsum cimi illis revellendum crai, parole energiche die ricordano quelle dell’Evangelo: se il tuo occhio destro ti scandalizza, strappalo e gettalo da te. Seneca ha il sentimento più vivace della miseria umana: Omnis vita supplicmm est. Per questo la morte è una liberazione, e come il porto nel quale troviamo il rifugio dal mare agitato della vita. Dell’ immortalità Seneca non parla sempre allo stesso modo. Ipotesi, speranze, le opinioni diverse s’avvicendano nei suoi scritti. MS, non di rado, specialmente quando si rivolge ai suoi corrispondenti per consolarli della morte dei loro cari, egli prende un tono più affermativo. La morte è l’inizio, il giorno natale di una nuova esistenza. IMes iste quem tanquam extremum reformidas, aeterni na- talis est. Il corpo è un breve ospizio dell’anima: si dissiperanno le caligini che circondano la nostra esistenza, la luce divina ci apparirà nella sua sorgente, e con essa la grande eterna pace. Si potrebbero moltiplicare le citazioni, ma basteranno. Sono queste idee che hanno fatto credere a una ispirazione cristiana degli scritti di Seneca. Seneca saepe noster, diceva già Tertulliano. 4. - Qui bisogna sapere una cosa. Kel 61 d. 0., quattro anni prima della morte di Seneca, giungeva a Roma un piccolo ebreo, Paolo di Tarso in Ciiicia, il quale accusato e perseguitato da altri ebrei, si appellava, nella sua qualità di cittadino romano, dal giudizio delle autorità imperiali in Giudea, a quello dell’imperatore. Fu condotto davanti al prefetto del pretorio eli’era Burrus, amico e collega di Seneca come ministro di Nerone. Giudicato favorevolmente, l’apostolo fu lasciato libero o quasi libero durante due anni, dei quali profittò per diffondere la sua dottrina, e pare che facesse dei proseliti anche nel palazzo imperiale, fra gli schiavi o i liberti della casa di Nerone. Si disse per esempio che Atte, la giovane eh’ era stata amata da Nerone, e che poi abbandonata fu la sola che ne cercasse il cadavere, quando egli fu obbligato ad uccidersi, per dargli sepoltura, fosse stata convertita al Cristianesimo. Atte, come sappiamo da Tacito, era personalmente conosciuta da Seneca. Bisogna aggiungere che anche prima della venuta a Poma, Paolo, accusato dagli ebrei di Corinto, s’era trovato a contatto con un proconsole romano, ch’era quel Gallione di cui parlano gli Atti degli Apostoli, e che si rifiutò di dare ascolto ai suoi accusatori, trattandosi di cose die non lo riguardavano (polemiche religiose tra Ebrei). Ora si dà il caso che questo Gallione era fratello di Seneca, e si chiamava così perchè adottato da un Gallio, di cui portava il nome: il suo nome di famiglia era Anneo Novatus, ed era fratello maggiore di Seneca. Fatto sta che a poco a poco si formò la leggenda che Seneca e S. Paolo si fossero conosciuti, anzi fossero diventati amici, e che l’apostolo avesse convertito il filosofo, e si fossero scambiate anche delle lettere, 14 delle quali sono giunte fino a noi: e in base a queste lettere S. Girolatno, nel quarto secolo, enumerando gli scrittori ecclesiastici dei primi secoli, vi mette anche Seneca. È una leggenda che ha avuto corso per tutto il Medio Evo, e anche alcuni moderni vi hanno creduto. I^a qui- stione è stata agitata più volte l ). Le conclusioni sono queste: La corrispondenza è certamente apocrifa, scritta in un latino che non è nè classico nè argenteo; e del resto è insignificante, e qualche volta buffa. Per es. c’ è una lettera, la 7% nella quale Seneca informa il carissimo amico Paolo che l’imperatore è stato molto colpito dalla sua dottrina, e che sentendo leggere un certo esordio di Paolo sulla virtù, avrebbe detto: mi meraviglio come un uomo che ha ricevuto un’istruzione regolare possa avere di tali sentimenti. E nella stessa lettera gli scrive: lo Spirito Santo ti fa dire delle cose sublimi, ma appunto jier questo mi piacerebbe che avessi un po’ più cura della forma, ut maiestati earum rerum cuìtus sermonis non desti. E in un’altra lettera, da uomo soccorrevole, gli manda un libro de copia verborum. E non parliamo delle risposte di Paolo. Sono inezie da una parte e dall’altra. La corrispondenza è certamente una falsificazione, e anche poco abile. Rimane la quistione se Seneca e S. Paolo si sono conosciuti. E se per conoscersi s’intende il semplice fatto di vedersi, incontrarsi, scambiare qualche parola più o ] ) Si possono consultare un libro dolLAutìERTiN, Sénèque et S. Paul f e un articolo magistrale di Ferd. Bat.tr nella Zeitschr. f. wias. Tipologie, t. 1°, 1858, ristampato da Zeller in un voi. dì Abhandlungen del Baur; e più brevemente quello che ne dice il Boissier nel libro che ho citato : La religion ro inaine.] meno insignificante o per ragioni di affari, non possiamo dire nè sì nè no, non ne sappiamo nulla. Quello che importa è che, anche dato e niente affatto concesso che Seneca abbia conosciuto o avvicinato l’apostolo, certamente non gli deve nulla nè per quello che riguarda le idee, nè le espressioni. E questo per le seguenti ragioni: ! 1° ed è la ragione più ovvia, le idee di Seneca sulla provvidenza, sulla natura dell’uomo, sulla vita morale si trovano già nelle opere sue anteriori a questa pretesa conoscenza con S. Paolo ; 2° quando si leggono quelle idee, non come frasi staccate ma al loro luogo, in connessione con tutto il resto, fanno parte di un discorso nel quale Seneca continua a professare le dottrine stoiche, alle quali ha sempre aderito; e non c’è nulla in quelle idee stesse di sapore cristiano o che sembrino tali, che non trovi il suo riscontro non solo nei vecchi stoici, ma in tutta la tradizione filosofica anteriore, in Platone, in Epicuro, in Cicerone; 3° e soprattutto, se Seneca e S. Paolo si fossero conosciuti e si fossero messi a discorrere di filosofia e di religione, non si sarebbero intesi affatto, in nessun modo, per la differenza radicale e insanabile che c’è tra i due modi di considerare il mondo e la vita. Già Seneca non avrebbe potuto comprendere nulla di tutta la parte storica e dogmatica del pensiero di Paolo, voglio dire di quei fatti e di quei dogmi che sono come i cardini del suo apostolato: il peccato di Adamo, la venuta del Messia, la morte e la risurrezione di Cristo, la redenzione di tutti gli uomini fondata sulla fede in questo fatto della risurrezione: sono fatti così miracolosi, e interprelazioni di questi fatti così lontane, così aliene da una mente educata nel razionalismo greco-romano, che Seneca, quando pure non avesse sbarrato tanto d’occhi per la meraviglia, non avrebbe potuto comprenderne nulla. Ma a parte questo, anche sul terreno limitato dell’Etica, j le due concezioni, quella di Paolo e quella di Seneca sono, .= nonostante le frasi analoghe, lontanissime 1’ una dall’altra. Seneca si riconnette a tutta la tradizione classica e pagana, che considera la virtù come una perfezione della natura, una conquista e un trionfo della ragione sugl’im-1 pulsi inferiori dell’uomo; e tiene fermo alla formula stoica: seguire la natura, che egli concepisce come qualche cosa di essenzialmente razionale. S. Paolo e con lui il Cristianesimo insegna la corruzione originaria, radicale, della volontà naturale dell’uomo, e in- . segna la rigenerazione possibile solamente per opera della ; grazia divina, che redime e rinnova la creatura, ricrean- dola a dir così dalla vita della carne alla vita dello spirito. Per Seneca come per gli altri Stoici la legge morale è % una semplice legge della ragione che s’identifica con la \ legge cosmica; per S. Paolo la legge è nel senso preciso della parola un comando, un imperativo, espressione della volontà divina; e il peccato non è la semplice distanza che separa la realtà empirica dall’ ideale morale, ma è sin dall’origine una ribellione al comando di Dio, della sola volontà che sia santa. L’autonomia e l’autarchia del saggio stoico non sono parole cristiane. La conseguenza è che il saggio stoico, l’ideale di Seneca, manca della qualità propriamente cristiana, non è umile; può sentire più o meno la sua imperfezione finche quell’ideale non è raggiunto, ma non c’è propriamente abnegazione in lui, anzi egli pone il suo orgoglio nell’affermazione della sua volontà razionale, e in questo senso egli si sente simile a Dio. Il santo cristiano invece sa che nulla gli appartiene, non ha orgoglio, nega la sua volontà, la sente spezzata e ri-generata da una forza onnipotente, e si umilia pregando: fiat voluntas tua, eh’è qualche cosa di più della semplice rassegnazione stoica a quello che vuole o porta il fato. Ohi vuole misurare con un’occhiata sola tutto il contrasto, guardi a queste parole di Seneca: non video, in- quam, quid hàbeat in terris Jupiter pulchrius, si convertere animum velit, quam ut spectet Catonem, iani partibus non semel fractis, stantem nihilominus inter ruinas publicas recium. Il saggio stoico con la sua forza d’ animo e la sua virtù eroica è glorificato in modo eh 7 è lo spettacolo più degno e più bello che Dio possa ammirare. E badiamo che Catone è un suicida: perchè, come dice Seneca, ogni vena del tuo corpo è una via aperta alla libertà. Il suicidio, per un cristiano, è la ribellione più aperta alla volontà santa di Dio, e non c’è altra gloria che la gloria di Dio, e il fare la sua volontà si chiama dovere, obbedienza, morire a se stessi per essere partecipi della gloria di Dio e della vita eterna. Sono due concezioni diverse. Seneca non deve nulla a S. Paolo. Quello che c’è di vero è che l’accento religioso che prendono in lui le dottrine antiche è un indizio che segna* l’avvicinarsi dei tempi cristiani. Dopo Seneca, contemporaneo più giovane di lui, è da nominare Musonio Rufo, eli e nato a Volsinia (Bol- sena) nell’ Etruria, visse sotto Nerone e poi ancora sotto gl’imperatori Vespasiano e Tito. Dell’ ordine equestre, coltivò e insegnò la filosofia seguendo le dottrine stoiche, come dice Tacito clie lo nomina più volte. Fu un maestro tutto pratico, stimando inutile ogni scienza che non giovasse alla vita. Esortava alla filosofia uomini e donne, poiché la filosofìa non è altro per lui che la ricerca della xaXoxàyala pratica di ciò eh’è onesto, e senza la filosofia non si può conseguire la virtù. Anche il contadino dietro il suo aratro può filosofare in questo senso, e dare lezioni ed esempi di saggezza: faceva un elogio dell’agricoltura come un genere di vita più acconcio alla filosofia dei costumi corrotti della città. Il suo insegnamento e la vita intemerata gli dettero nome, e dovette esercitare una grande efficacia, se dobbiamo giudicare specialmente dal modo come lo ricorda Epitfeto clie fu suo scolaro; e basterà averlo ricordato anche noi, senza insistere sui frammenti e precetti particolari che ci sono stati conservati di lui. 2. - Il grande e più celebre rappresentante dello stoicismo nell’ epoca imperiale è Epitteto. Epitteto nacque a Hierapoli, nella Frigia, verso il 50 dell’e. v. Venne a Roma, dove passò la sua giovinezza, come schiavo di un Epafrodito, che fu probabilmente il liberto e favorito di Nerone dello stesso nome. Lo stesso nome di Epitteto non è in origine un nome proprio, ma vuol dire schiavo (!tuxt7]tq£). Era zoppo e, secondo un aneddoto celebre, per effetto dei maltrattamenti del suo padrone. Un giorno questi gli avrebbe messo la gamba in uno strumento di tortura. Bada, gli disse Epitteto, che finirai col rompermela. E siccome l’altro continuava e la gamba si ruppe di fatto, Epitteto si contentò di aggiungere: Te l’avevo detto. Questo tratto d’insensibilità stoica fu tanto ammirato, che più tardi Celso, l’avversario del Cristianesimo, apostrofava i cristiani : Forse che il vostro Cristo, nel suo supplizio, ha mai detto niente di così bello? Al che Origene, lo scrittore ecclesiastico che scrisse contro Celso, rispose: Nostro Signore non ha detto niente, e questo è anche più bello. Il giovane Epitteto, ancora schiavo, potè istruirsi e seguire le lezioni di Musonio Rufo. Fatto libero, rimase a. Roma, tentando anche lui l’insegnamento o la predicazione morale, finché non fu obbligato a lasciare la città quando l’imperatore Domiziano con un senatoconsulto del 94 d. C. fece cacciare i filosofi da Roma e dall’Italia. Epitteto allora si ritirò nell’Epiro, a Nicopoli, dove visse fin verso il 125, povero e senza famiglia, ma circondato da molti discepoli, e venerato per la santità della vita, come maximus più losophorum, secondo Aulo Geli io. Uno di quelli che lo udirono, e per più anni, fu Ar- riano di Nicomedia, lo storico, che fu il più attento e il più entusiasta dei discepoli. Arriano aveva scoperto di avere dei gusti e uno spirito affine a quello di Senofonte, volle essere un Senofonte redivivo, e, come l’altro, scrisse la sua Anabasi (di Alessandro), e i suoi Memoràbili: Epit- teto diventò il suo Socrate, e nei Discorsi o Dissertazioni di lui (Storpipoi o Xóyot) raccolti molto fedelmente da Arriano (in 8 libri, dei quali ce ne rimangono 4 e frammenti degli altri), la figura di Epitteto già vecchio rivive con. la vivacità del suo spirito e l’energia del suo carattere e del suo insegnamento. Più tardi, visto il successo delle lezioni di Epitteto, Arriano le condensò in un piccolo volume: è il famoso 1 Manuale di Epitteto ’, che nei tempi moderni comparve dapprima nella traduzione latina di Angelo Poliziano, nel 1493; il testo originale fu pubblicato nel 1528, a Venezia. Non ho bisogno di ricordare eh’ è stato tradotto in italiano dal Leopardi. Epitteto è anche lui un maestro tutto pratico: non è un pensatore che ricerchi o discuta i fondamenti teorici della dottrina che insegna: le ricerche sistematiche, le discussioni di scuola non sono il fatto suo. Egli vuole agire sulle coscienze, rinnovarle ed educarle. Seneca è uno spirito curioso e un letterato, che pure mirando a un fine pratico, ha coscienza della sua abilità di scrittore, e si compiace di aguzzare in forme ingegnose le sue massime, le sue osservazioni, i suoi consigli. Epitteto non mira a brillare, non vuole applausi, non ha mai pensato  TO'*, C 1 1 " L 1 ^ y h  t,. :'yY £VsE S, àtàeXcpol  Un primo documento di quest’attività greco-ebraica è la traduzione greca della Bibbia, che si disse dei Settanta, perchè secondo una leggenda sarebbe stata fatta da 72 dotti mandati dal Sacerdote di Gerusalemme a Tolomeo Filadelfo, che voleva avere nella sua grande biblioteca i libri di Mosè tradotti in greco, e questi 72 traduttori, chiusi in tante camerette separate, senza poter comunicare fra loro, avrebbero tradotta da capo a fondo, come per un’ispirazione divina, tutta quanta la Bibbia. Il vero è che la traduzione rispondeva al bisogno della comunità ebrea di Alessandria di leggere il libro suo nazionale nella lingua diventata oramai comune nella colonia. La maggior parte non leggevano nemmeno più l’ebraico. Questo libro si può considerare come il primo travasa- mento di idee giudaiche in un contenente ellenico 1 ), ed ebbe una grande efficacia sulla propagazione posteriore dell’Ebraismo e poi del Cristianesimo. Un ebreo di Alessandria, che in filosofia era peripatetico, Aristobulo è ritenuto da molti il primo scrittore in cui apparirebbe una vera connessione di filosofemi greci con le idee e le tradizioni ebraiche. E influsso d’idee greche è stato pure notato in uno dei libri apocrifi del Vecchio Testamento, nel Libro della Sapienza di Saio- mone, che si crede composto da un ebreo alessandrino verso il 100 a. C. Ma il principale rappresentante di questa filosofia grecoebraica è Filone ebreo.0 Castelli, Storia degli Ebrei (Firenze, Barbèra). ti.: FILONE EBREO 265 2. - riione nacque in Alessandria fra il 30 e il 20 a. C. da una famiglia sacerdotale ch’era delle più ricche e ragguardevoli fra gli Ebrei di quella città. Ebbe un’istruzione compiuta ellenica ed ebraica: consacrò tutta la vita agli studi teologici e filosofici, dedito alla vita contemplativa, ma senza trascurare i legami col suo popolo e i doveri che la sua posizione gl’imponeva. Doveva godere di una grande riputazione per la sua pietà, per la sua scienza e per la sua eloquenza. Verso il 40, già vecchio, fu messo a capo di un’ambasceria presso l’imperatore Caligola per chiedere la liberazione dei suoi correligionari di Alessandria dalle persecuzioni a cui erano fatti segno. Tornato ad Alessandria, scrisse egli stesso la relazione di questa ambasceria, e morì forse verso il 50. Scrisse in greco molte opere che ci rimangono. Alcuni degli scritti di Filone sono d’argomento storico e ci fanno conoscere quale fosse io stato della colonia giudaica di Alessandria: gli altri sono per la maggior parte un commento filosofico ai libri mosaici. Filone dunque sta tra la scienza greca e la rivelazione. Per lui non si tratta di ricercare e scoprire la verità con la semplice attività della ragione: la verità è quella ri velata da Dio nei libri santi. D’altra parte Filone è anche uno spirito esercitato alla meditazione, grande studioso e ammiratore della scienza greca : ha un culto per Platone: egli ritrova nei filosofi greci le verità rivelate dalla Bibbia, e legge la Bibbia a traverso i concetti della filosofìa, la vede in quella gran luce di verità creata dal pensiero greco. È naturale che la fusione di elementi così disparati e d’idee di così diversa provenienza non fosse possibile senza un certo sforzo, il quale importava due cose: una finzione e un metodo particolare 2 ). La finzione (in buona fede, s T intende) è che i filosofi greci come Pitagora, Eraclito, Platone, e anche i poeti più antichi come Omero, Esiodo, avessero avuto notizia dei libri di Mosè e attinto dunque alla sapienza ebraica: una finzione che si trova già in Aristobulo; ed era avvalorata da alcune falsificazioni: si attribuivano ai poeti mitici come Lino, Orfeo, dei versi di fattura posteriore. Il metodo è quello dell’interpretazione allegorica, non inventato da Pilone, applicato già prima di lui fra gli Ebrei alessandrini, e del quale anche gli Stoici gli davano l’esempio. Pilone distingue dapertutto un senso letterale e un senso spirituale o intelligibile, e ritiene il primo come simbolo del secondo; la relazione tra i due è quella che c’ è tra il corpo e V anima. Per esempio, Adamo è lo spirito (il vouc), e il Paradiso è 1’^epovtxòv xfjc; 4^/jA nel quale egli è messo per coltivare gli alberi, che sono le virtù; la creazione di Èva significa il nascere della sensibilità, e così via: quel metodo d’interpretazione allegorica che si può dire fantastico e non critico quanto si vuole, ma che ha contribuito a spiritualizzare le credenze e le idee. L’uomo ha cominciato col concepire Dio a sua immagine e somiglianza, attribuendogli occhi e mani e voce e passioni umane. A poco a poco il concetto del divino si spiritualizza. Per Filone, Dio non solo non ha forma nè attributi umani, ma è al di là di ogni determinazione, una realtà, ! ) Dkussen, Die Philo sophie der Griechen.] assolatamente trascendente, sia rispetto al mondo da cni è separato, sia rispetto alla nostra intelligenza alla quale è inaccessibile. Noi siamo certi della sua esistenza, ma non possiamo comprendere la sua essenza. Filone lo designa con la parola di cui si servivano gli Eleati e Platone: tò £v, l’Essere, o con l’espressione aristotelica: l’Essere in quanto essere; e trova il riscontro di questa denominazione in quello ch’egli stesso, Dio, dice di sè nell’-Z&odo; J5V/o sum qui sum: èyw eijxt Ó wv. Dio dunque è l’essere universale, eterno, immutabile, semplice, libero, pago di se stesso, assolutamente trascendente e separato dal mondo. Ma d’altra parte egli raccoglie in sè tutte lo perfezioni, e tutte le perfezioni delle cose create derivano unicamente da lui. Egli è la causa prima di tutte le cose create: riempie e comprende tutto. C’è una doppia esigenza in questa concezione: l’idea dell’assoluta trascendenza di Dio, e quella dell’assoluta dipendenza delle cose finite da Dio. Dio è uno, ma possiede forze infinite, mediante le quali crea e governa il mondo: le due principali di queste forze sono la bontà e la potenza, e l’ima e l’altra si uniscono nel Xóy oc, o ragione divina, eh’è come il pensiero di Dio prima della creazione, e che si manifesta poi in questa come la parola di Dio. Il lòyo- o la ragione cosmica di Eraclito e degli Stoici non è per Filone il primo principio del mondo, ma è a dir così il figlio primogenito di Dio, il suo verbo, l’intelligenza divina stessa iu quanto personificata, qualche cosa che sta in mezzo tra la pura essenza di Dio e il mondo eh’ è creato da lui. Filone ha bisogno di potenze intermediarie per colmare l’abisso tra l’assoluta trascendenza di Dio e il mondo delle cose finite, e queste potenze intermediarie sono rappresentate dal Logos, dalla parola di Dio. Quando un architetto costruisce una casa, ha in sè il suo piano, la sua idea. Il Logos di Filone comprende insè le idee, i modelli ideali delle cose, e insieme le forze generatrici e formatrici degli esseri: le idee platoniche e le ragioni seminali degli Stoici. È il Logos che divide in parti la massa di cui si compone il mondo, dà alle cose le proprietà che le costituiscono, determina i mari, le isole, i continenti, fìssa le specie dei viventi, stabilisce bordine nella diversità: compie l’ufficio o gli uffici della ragione come rivelazione di Dio e della sua provvidenza nel mondo. Filone tiene fermo al dogma della creazione, ma formula la sua fede servendosi dei concetti della filosofia greca: in questa mescolanza, in questo ripensamento delle idee greche in una nuova atmosfera spirituale sta l’interesse e l’importanza storica di Filone. E che cosa è l’uomo in questo sistema? Secondo la Scrittura Dio disse: Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza; e poi aggiunge che Dio formò l’uomo prendendo un pugno di terra, e soffiandovi sopra un soffio di vita, l’uomo fu fatto in anima vivente. Filone si domanda in quale misura e in che senso l’uomo è la creatura di Dio, e conclude dai due luoghi biblici che bisogna distinguere l’uomo celeste, ideale, creato da Dio a sua immagine, e l’uomo terrestre e sensibile. Il primo è un essere intelligibile, senza materia, nè uomo nè donna, è l’idea dell’uomo in quanto uomo, di natura incorruttibile; invece l’uomo terrestre, plasmato dal fango della terra, e non da Dio direttamente, ma dalle sue potenze o ministri, è di natura sensibile, materiale, naturalmente mortale, capace del bene, ma anche del male. L’uomo intelligibile è un riflesso diretto del Logos divino, quindi possiede tutte le virtù che lo fanno simile a Dio. L’uomo terrestre realizza solo in parte quest’idea, perchè l’anima, partecipe dello spirito divino, si trova ad abitare in un corpo mortale, fatto di forze inferiori. Di qui la doppia natura dell’uomo: egli si trova come al confine dei due mondi, del mondo sensibile e del mondo intelligibile. Per esprimere questo concètto Pilone riproduce a modo suo la distinzione aristotelica dell’anima vegetativa, sensitiva e razionale; oppure la teoria stoica dello rnsOpa, che pure conservando nell’espressione la reminiscenza del suo significato materialista, si viene sempre più spiritualizzando: è lo spirito, il soffio divino nell’uomo; soprattutto, si ricorda delle immagini platoniche che il corpo è come una prigione dell’anima. Quello che più importa a Filone è l’opposizione tra la parte irrazionale e quella razionale dell’uomo. Che cosa è l’uomo? Tutto per la sua origine divinò e il suo carattere razionale, nulla per la sua natura mortale e finita. Api>arisce come un’incomprensibile mescolanza di grandezza e di piccolezza, il più vicino a Dio, ma anche capace di male, miserabile, mortale. Mentre tutte le piante rivolgono o dirizzano le loro corolle verso il sole, l’uomo può, pianta celeste nudrita di elementi divini, elevarsi verso il cielo, ma questa sua libertà è come appesantita dal peso del corpo. E qual’è dunque il compito e il destino dell’uomo? Il restaurare in sè l’immagine di Dio, il somigliare a lui, il seguire la natura, clie sono frasi platoniche e stoiche, ma con un nuovo significato. Pilone combatte gli Epicurei, e considera il piacere come il massimo impedimento alla vita divina; accetta la formula stoica del seguire la natura, e distingue le quattro virtù cardinali, che trova simboleggiate nei quattro fiumi del Paradiso; insegna non la sola metropatia ma l’apatia, è insomma l’ideale del saggio stoico, salvo che il seguire la natura diventa per lui obbedire alla volontà divina. La morale è aneli’essa rivelata: essa si trova tutta quanta nelle leggi generali è particolari che emanano da Dio. La virtù dell’uomo è un’ombra della volontà divina; e lungi dall’essere un Dio, il saggio riceve la virtù come un dono della grazia divina, e un dono sempre rinnovato. In quest’ Etica teologica le quattro virtù cardinali ricevono il loro compimento nelle virtù religiose, che sono la fede e la pietà; e la vita contemplativa, di cui fanno parte le virtù religiose, è superiore alla vita attiva, che consiste nella pratica delle virtù cardinali. E come l’anima, allontanandosi da Dio, s’è legata in questa vita dei sensi, così essa può ritornare a Dio ; e l’ultimo grado della perfezione umana è l’unione conDio, la deificatio, la visione estatica. L’ uomo può sollevarsi al di sopra dei sensi, al di sopra delle idee; e-poichè l’essenza di Dio è inconoscibile, così quest’unificazione con Dio non è possibile mediante la conoscenza razionale, ma avviene per la grazia di Dio che si comunica a noi, in una specie di rapimento eh’è in noi come il furore dei coribanti, dice Filone con frase platonica; e i limite della felicità, la più alta aspirazione dell’uomo è, mediante quest’estasi, il riposare in Dio: sv jaóvcj) Osm axf;vai. Questa è nei suoi tratti fondamentali la filosofìa di Filone ebreo, eh’è in fondo anch’essa una filosofia eclettica, in quanto profitta di tutte le filosofie anteriori; ma è caratterizzata specialmente dal suo carattere religioso e dalla mescolanza d’idee greche con idee o credenze ebraiche. Le stesse tendenze religiose e mistiche, che abbiamo visto in Filone ebreo, ritroviamo sul terreno greco in quel gruppo di filosofi che si sogliono denominare Neopitagorici e Platonici eclettici più o meno pitagorizzanti, che si possono considerare anch’essi come precursori e preparatori del Neoplatonismo propriamente detto. L’antica scuola pitagorica, come un complesso di dottrine, era estinta sin dal quarto secolo, al tempo di Aristotile; ma come forma e metodo di vita, che si diceva appunto vita pitagorica, come disciplina di pratiche morali pure e austere sanzionate da credenze religiose, il Pitagorismo doveva aver conservato dei fedeli, tra i quali abbiamo già nominato i due Sestii ed altri. A cominciare dagli ultimi cinquantanni che precedono Péra cristiana e poi nei due o tre secoli che seguono, il Pitagorismo rinasce e si diffonde: non solo si cercano i libri degli antichi pitagorici, ma se ne scrivono anche degli altri,-che si attribuiscono a Pitagora stesso o ai suoi seguaci: tutta una letteratura apocrifa, come i Versi d'oro di Pitagora, che sono una serie di precetti morali, il trattato di Timeo di Locri a\\WAnima del mondo, quello di Ocello Lucano sulla Natura del tutto, in parte, se non interamente, i libri attribuiti a Filolao e ad Archita di Taranto, anche ad alcune donne pitagoriche, come la famosa Theano e altre, perchè una delle specialità dei Pitagorici era di avere un grande rispetto della donna. Sono opere dovute a falsari di buona fede, i quali ri- spondendo ai bisogni del tempo, senza nessuno scrupolo critico, e attingendo a tutte le filosofie contemporanee o anteriori, davano una filosofìa completa, delle idee intorno a Dio, il mondo, 1’ uomo, la società, la virtù, mettendo queste idee sotto il patrocinio di un nome illustre e autorevole: il bisogno di appoggiarsi a un’autorità venerata era uno dei bisogni del tempo. La stessa leggenda di Pitagora si compie in questo tempo, si arricchisce di nuovi tratti meravigliosi: la sua vita diventa un mito. JB oltre poi alle opere apocrife, ce ne furono delle altre pubblicate dai loro autori coi loro veri nomi, e che sono appunto i Neopitagorici. Si possono e si sogliono citare come rappresentanti di questo indirizzo un NIGIDIO FIGULO (vedasi), eh’è nominato da CICERONE (vedasi) come rinnovatore del Pitagorismo in Alessandria, Sozione, scolaro dei Sestii, che abbiamo pure nominato, poi più specialmente Apollonio di Tiana, Moderato di Gades, e M- comaco di Gerasa sotto gli Antonini. La figura più importante e caratteristica che possiamo prendere come rappresentante di tutto questo indirizzo è Apollonio di Tiana, nella Cappadocia, il quale nacque sotto Augusto e visse fino agli ultimi anni del primo secolo dell’e. v., e la cui efficacia si estende molto al di là del tempo in cui visse. Più di un secolo dopo la sua morte, nei primi decenni del 200, ne scrisse la vita un sofista di quel tempo, Filostrato di Lemno, in una specie di romanzo che vorrebbe essere storico, a richiesta dell’imperatrice Giulia Doinna, moglie di Settimio Severo, la quale era una bella donna, originaria della Siria, ambiziosa e colta, che non solo faceva, occorrendo, della politica, ma aveva il gusto delle lettere e della filosofìa, e raccoglieva alla sua corte un circolo di persone istruite più o meno illustri. In questo libro Apollonio è presentato come un tipo di perfezione morale e religiosa, secondo i precetti della filosofìa pitagorica, come un essere più che umano, non filosofo solamente, ma qualche cosa di mezzo tra la natura umana e la natura divina. Ha una nascita meravigliosa e fa anche dei miracoli. Cosicché è difficile, da questa vita dì Filostrato, sceverare la parte storica dalla leggenda, quello eh’è stato realmente Apollonio da quello ch’è diventato nell’immaginazione dei suoi ammiratori. Ce lo possiamo raffigurare come una specie di riformatore morale e religioso che, dopo essersi istruito nella filosofia e avere accettato quella di Pitagora o che passava per pitagorica, esercita un apostolato predicando la conoscenza del vero Dio e il culto che gli è dovuto. In un frammento di lui che ci è conservato da Eusebio, egli dice: « Per onorare degnamente la divinità e rendersela propizia e benevola, non giova, al Dio che diciamo primo e ch’è uno e separato da tutte le cose, offrir sacrifizi nè accendere fuoco nè in generale consacrare alcuna cosa sensibile; giacché egli non ha bisogno di nulla, e non c’è pianta che la terra produce nè animale eh’essa o l’aria alimenta, che non sia inquinato di qualche macchia. Quelloche dobbiamo offrirgli è il meglio di noi, il discorso della mente, non le parole che escono dalla bocca, ma invocare da lui, eh’è il migliore degli esseri, il nostro bene con quello che abbiamo di meglio in noi, lo spirito, il pensiero (il vo0$), che non ha bisogno di un organo con cui rivelarsi Al di sotto di questo Dio primo ve n’ ha degl’ inferiori o secondari, primo dei quali è il sole, la più pura manifestazione visibile del divino. L’uomo è d’essenza divina e può per la saggezza elevarsi fino a Dio. La sua anima è immortale, anzi eterna: essa passa da un corpo in un altro, ma in ogni corpo è in prigione, incatenata ai sensi e agl’impulsi disordinati, da cui la filosofìa ha per oggetto di liberarlo. Bisogna conoscere moralmente se stessi per arrivare alla virtù e alla saggezza. Colui che pratica tutte le virtù, che conserva la sua vita interamente pura, e sa adorare Dio con adorazione vera, s’avvicina sempre più a Dio, diventa partecipe del divino. Ora è qui che comincia a lavorare la leggenda: questa dottrina non è solamente insegnata, ma è vissuta da Apollonio, nella biografia che ne scrive Filostrato: egli stesso è l’uomo divino, la personificazione vivente della perfezione spirituale e della potenza a cui può giungere l’uomo. Gli abitanti del paese di Tiana, dov’egli è nato, pretendono ch’egli è figlio di Giove; Filostrato non lo crede, ma afferma che venne al mondo in condizioni straordinarie, dopo che sua madre ebbe appreso in sogno che portava il dio Proteo, il dio dellà divinazione, in persona. Dopo avere abbracciata la vita pitagorica ed essersi formato nel silenzio per cinque anni, viaggia per il mondo, in Oriente, in Grecia, a Roma, in Egitto, in tutti i paesi allora conosciuti, conversa coi sapienti di tutti i paesi, istruendosi e ammaestrando gli altri, preceduto da una gran fama e facendo delle cose maravigliose. A Efeso ferma la peste facendo lapidare un vecchio mendicante, il quale difatti non è altro che un demone camuffato, nel quale s’era incarnato il flagello. Ad Alessandria riconosce istantaneamente in un corteo di condannati a morte un innocente. A Efeso pure egli sa e annunzia la morte di Domiziano nel momento in cui questo è colpito a Roma: un bel caso di telepatia. Non solo sa delle cose sconosciute a tutti gii altri uomini, ma dispone di un vero potere sugli elementi della natura: sulle rive dell’Ellesponto ferma i terremoti. Parla tutte le lingue senza averle imparate, scaccia i demoni, si trasporta istantaneamente a grandi distanze, s’intrattiene con le ombre degli eroi, fa cadere i suoi ferri in prigione col solo prestigio della sua volontà, richiama in vita una ragazza che passava per morta. A Corinto, apre gli occhi di uno dei suoi discepoli perdutamente innamorato di una donna molto bella e ricca in apparenza, ma ch’era in realtà una lamia, uno di quei cattivi demoni femminili che si fanno amare dai giovani per poterli divorare a loro piacere. E non già ch’egli sia un mago, uno stregone, che operi prodigi grazie all’intervento di spiriti maligni; no, Filostrato si dà una gran pena per escludere questa interpretazione. Apollonio fa dei miracoli in virtù della sua scienza superiore e della sua cola unione con gli Dei; e per arrivare fino a questo punto quello che occorre è una virtù austera, un’estrema purezza di costumi e l’osservazione di una disciplina rigorosa. Così egli ha la conoscenza delle cose più nascoste all’uomo, predice l’avvenire, e opera dei miracoli. La sua carriera si termina aneli’essa in modo meraviglioso. La leggenda più diffusa intorno alla sua morte racconta che, essendo andato a Creta vecchissimo, entrò nel tempio di Diana e non ne uscì più. Si sentirono come delle voci di fanciulle che cantavano nell’aria: lasciò la terra, salì al cielo. Dopo la sua morte, la città di Tiana gli rese onori divini, e la venerazione di tutto il mondo pagano attestò l’impressione lasciata negli spiriti dal passaggio di quest’essere soprannaturale, che faceva dire ai suoi contemporanei: Un Dio abita fra noi J ). Questo carattere meraviglioso della vita di Apollonio ha fatto credere che fosse intenzione di Filostrato e della sua ispiratrice di opporre una specie di Cristo pagano a quello della Chiesa nascente, che guadagnava sempre più adoratori. Per combattere il prestigio che la storia e l’insegnamento di Gesù esercitavano di giorno in giorno non solo sulla folla, ma in tutte le classi della società, avrebbero pensato di suscitargli contro un rivale in un saggiopagano, che non solo operava miracoli come l’altro, ma che professava una dottrina attinta alle più pure fonti della scienza ellenica. Ora la più parte dei critici non credono a questa intenzione o tendenza del romanzo, nel quale non si allude affatto e non si può dire che ci sia uno spirito ostile al Cristianesimo. Il romanzo è piuttosto interessante innanzi q Cfr. .1. Réville, La veli gioii (ì Home som ìes Sé vèr eh, Paris, Levous.] tatto per il fatto stésso che, alla distanza di poco più di un secolo, la vita di un filosofo neopitagorico come Apollonio sia potuta diventare materia di una leggenda cosiffatta: è un documento interessante non solo di quel- V atmosfera meravigliosa e della credulità in cui si svolgeva la lotta delle religioni; ma soprattutto di quella religiosità spirituale che tendeva a purificare e moralizzare il paganesimo, e del bisogno che si sente di presentare l’ideale \ religioso come incarnato in una figura concreta, santa e beila di quell’ideale stesso, e operatrice di miracoli, perchè avesse più presa sulle coscienze e la forza di comunicarsi. Il saggio stoico o quello di Epicuro sono costruzioni razionali che non bastano più: occorre la figura vivente e reale dell’ uomo che s’india, che rappresenta la natura umana divinizzata. A questo bisogno, a quest’aspirazione religiosa delle anime, rispondono ora le figure di Pitagora e di Apollonio. Del quale sappiamo anche che scrisse una Vita di Pitagora. L’uno e l’altro sono uomini divini, modelli di vita pura e santa, nei quali la verità si è rivelata, i Quando poi questi Neopitagorici cercano di formulare filosoficamente le loro credenze e le loro massime etico religiose, essi mescolano alle idee pitagoriche concetti elaborati dalla filosofia posteriore, platonici, aristotelici, stoici : di qui il carattere eclettico e recente della loro speculazione, e per cui è facile riconoscere quelle falsificazioni della letteratura apocrifa che abbiamo detto. L’idea fondamentale è l’opposizione tra Dio e il mondo: Dio è l’uno, la monade primitiva: il mondo è rappresentato dal due, dalla dualità indeterminata, è il molteplice. Ma siccome nel mondo tutto è ordinato con numero e mitilira, esso si può dire l’attuazione d’idee, che sono pensieri della mente divina, che s’identificano aneli’esse coi numeri; e poiché Dio non può venire in contatto diretto col mondo, sorto realizzate da un essere intermedio, dal- l’anima del mondo in una materia preesistente, la quale pure talvolta resiste a questa penetrazione delle forme divine; ed è nella materia che bisogna cercare la causa delle imperfezioni e del male nel mondo. Questo dualismo si ripete, si ripercuote nell’uomo: l’anima ha bisogno di purificarsi con la vita santa, con le espiazioni, per ridiventare divina. È stato osservato che in/queste speculazioni ora è accentuato il concetto monistico del principio unico da cui tutto il resto sarebbe derivato; ora invece, e più spesso, prevale la concezione dualistica del principio divino e di una materia originaria. Il problema del male s’.è posto davanti alla coscienza religiosa e alla riflessione filosofica, e l’una e l’altra s’affaticano a risolverlo cercando di superare l’antitesi tra il divino e il suo contrario, tra il corpo o la materia e le aspirazioni superiori dell’anima. Il problema in fondo era nato con la distinzione platonica tra il mondo sensibile e il mondo intelligibile. E di tutte le autiche scuole nessuna doveva sentirsi più vicina all’ indirizzo neopitagorico della scuola platonica, per la ragione eccellente che Platone stesso aveva accolto nella sua dottrina elementi pitagorici, aveva finito col pitago- reggiare identificando le sue idee coi* numeri, e speculando su Dio e l’anima e la formazione del mondo materiale alla maniera dei pitagorici nel Timeo, il quale Timeo era quel Timeo di Locri pitagorico, da cui Platone fa esporre appunto la sua filosofia della natura nel dialogo che porta quel nome. Così è che V indirizzo dei Neopitagorici si può dire continuato nel secondo secolo d. 0. da un gruppo di Platonici eclettici, tra i quali, senza citare altri nomi, possiamo ricordare due scrittori notissimi, Plutarco e Apuleio; e poi, per la sua importanza caratteristica, Numenio di Apamea, che ora è detto pitagorico ed ora platonico. PLUTARCO di Cheronea è Fautore celebre delle Vite parallele – la seconda e di ROMOLO --, che hanno educato tanta gente all’amore della virtù e dell’eroismo, e poi di una quantità di opuscoli che si sogliono designare col titolo complessivo di Opere morali. Egli è un poligrafo, moralista principalmente, anche nelle Vite, ma è curioso di tutto, erudito, istruttivo e piacevole: le sue opere sono una specie di enciclopedia, un repertorio di notizie e d’idee su tutta l’antichità classica, che egli, venuto tardi, ammira in tutte le sue forme; e come ha celebrato nelle sue Vite la storia dei suo popolo e degli eroi antichi, così si assimila la scienza, la religione, la morale dei padri, e se ne fa l’interprete ai contemporanei e ai secoli futuri. Uomo religiosissimo, ha nella sua patria e a Delfo funzioni sacerdotali. Ama la filosofia, e l’ha anche insegnata. Si dice platonico, e ammira Platone come il più grande dei filosofi, ma ha imparato anche da tutti gli altri; e da quell’uomo istruito che è, e non nella filosofia solamente, ha qualche volta la riserva prudente dei nuovi Accademici. Il che non gl’impedisce di avere non precisamente un sistema, ma una dottrina eh’è come il risultato di tutte le dottrine anteriori. La sua filosofia ha un intento essenzialmente morale e religioso: egli vuole mantenere e difendere la tradizione religiosa anche nei suoi miti e nelle sue pratiche, interpretandola secondo principi filosofici, in modo cioè che non faccia ostacolo a una concezione pura e degna della divinità. La filosofia è la rivelatrice e l’interprete del segreto sacro e divino che i miti contengono, togliendo le concezioni false e le menzogne che talvolta i poeti raccontano. Plutarco combatte l’ateismo, ma combatte pure la superstizione, quella ch’egli chiama 5esoi8ac|xovfa, la paura servile degli Dei: invece la fiducia e la gioia accompagnano il vero culto eh’ è loro dovuto. Combatte gli Epicurei per il loro materialismo, ma combatte anche gli Stoici, che col loro principio unico non possono rendere ragione del male nel mondo. E qui apparisce il platonico. Non è possibile, egli dice, porre il principio delle cose nè nei corpi senz’anima (negli atomi) come fanno Democrito ed Epicuro, nè nella ragione formatrice di una materia senza qualità. Nel primo caso non si capisce come vi possa essere bene, ordine, ragione nel mondo; nel secondo caso non si capisce come ci possa essere il male, il disordine. D’onde viene il male? Non dal bene, non da Dio certamente. E nemmeno dalla materia, come molti pensano, perchè la materia per se stessa è assolutamente passiva, il sostrato indifferente di tutte le forme, non è nè buona nè cattiva. Per spiegare dunque la cosa, bisogna ammettere che come c’ è un’ anima del mondo che realizza le idee divine, ci sia anche una cattiva anima del mondo, un principio o potenza del male che esiste da tutta eternità col bene, il quale, benché superiore, non può mai annientare quella potenza eh’ è Y origine e la causa di tutto ciò clie v’ lia di disordine nel mondo, e rende conto della generazione del male. Il motivo di questa speculazione è eliminare, di fronte alla realtà del male, tutto ciò che può compromettere la purezza e la bontà di Dio, a costo di compromettere la sua onnipotenza. Di qui im J altra idea affine e connessa con questa. Dio è il principio del bene e governa il mondo con la sua provvidenza; ma questa provvidenza non si esercita dilettamente da lui, ma per mezzo di esseri intermediari che sono tra Dio e il mondo. Al di sotto del Dio primo e supremo, realtà trascendente e inaccessibile, ci sono gli Dei celesti o visibili, e al di sotto di questi i demoni o genii o spiriti che vigilano e governano direttamente le azioni e le sorti degli uomini; e come ce ne sono dei buoni, ce ne sono anche dei cattivi, nei quali la natura divina apparisce inquinata e commista al male. Questa demonologia, clPè insegnata anche da Apuleio, ed è una delle credenze più diffuse in quest’età, serviva non solo a mantenere puro nella sua sublimità trascendente il concetto di Dio, ma anche a giustificare in qualche modo tutte le divinità pagane, e le funzioni loro attribuite, e i riti e gli oracoli e tutte le altre parti del culto che vi erano connesse. E infine un’altra idea domina la speculazione religiosa di Plutarco, quella di trovare a traverso la diversità dei miti e delle credenze dei diversi popoli una verità fondamentale. A quello eh’ è stato detto il sincretismo religioso, il mescolarsi di tutte le religioni, ch’è caratteristico di questi secoli, corrisponde il sincretismo eclettico Biblioteca Comunale “Giuseppe Melli” - San Pietro Vernotico (Br) NUMENIO 283 dei filosofi, i quali aspirano a formulare la verità religiosa comune ai diversi .sistemi e alle diverse civiltà. Non ci sono, dice Plutarco, diversi Dei per diversi popoli, non ci sono Dei barbari e Dei greci, Dei del nord e Dei del sud. Ma come il sole e la luna illuminano tutti gli uomini, come il cielo, la terra e il mare esistono per tutti, nonostante la diversità dei nomi con cui si designano, così vi ha una sola Intelligenza che regna nel mondo, una sola Provvidenza che lo governa, e sono le stesse potenze che agiscono dapertuttó; solo i nomi cangiano come le forme del culto; e i simboli che elevano lo spirito verso ciò eh’ è divino sono ora chiari ora oscuri. Idee affini e tendenze mistiche anche più pronunziate si ritrovano in Apuleio di Madaura, che anch’egli professa ed espone il platonismo, adattandolo ai bisogni teosofici del tempo. Ma di tutti questi filosofi eclettici del secondo secolo quello che segna più nettamente il passaggio al Neo- platonismo è Numenio di Apamea: gli stessi Neoplatonici lo considerano come il loro precursore immediato: lo leggono e lo commentano nella loro scuola. Secondo Numenio, che visse verso il IfiO, la vera dottrina di Platone era identica a quella di Pitagora; e questa filosofia egli la trova d’accordo con quella dei saggi dei- fi Oriente, Bramani, Magi, Egiziani, Ebrei. Egli aveva in particolare la più viva ammirazione per Mose, nel quale trovava tutte le idee di Platone; di qui quel motto che ci è riferito di lui : Che cosa è altro Platone se non un Mosè che parla attico (atticizzante) ?, a quel modo come di Filone ebreo si diceva: o Filone platonizza o Platone fìlonizza. Numenio conosce certamente Filone e adopera lo stesso metodo d’interpretazione allegorica, e ha tendenze affini nella sua speculazione : cosicché qui il sincretismo è completo: la tradizione orientale e occidentale si congiungono a produrre la nuova filosofìa. Dei libri di Numenio, uno dei quali s’intitolava intorno al Bene, ci rimangono dei frammenti interessanti conservatici da Eusebio, e che si possono vedere nel 3° volume del Mullach, Frammenta pliilosopliorum graecorum. Numenio si domanda: che cosa è l’essere, la vera realtà? Non i quattro elementi, nè i corpi composti da essi, che sono realtà mutevoli, cangianti, si trasformano, divengono sempre e non sono mai, come diceva Platone; e nemmeno la vera realtà si può cercarla nel sustrato materiale di tutti questi fenomeni sensibili, nella materia, la quale è qualche cosa d’indefinibile e d’irragionevole (àXoyo?). Per conoscere la vera realtà bisogna rivolgersi non al- 1’ esperienza sensibile, ma alla ragione. Per Numenio la realtà è ciò che è assolutamente, l’ Essere increato e che non sarà distrutto, l’Essere semplice e invariabile. Quest’essere è incorporeo (cèawpaiov), ed è intelligibile (voyj-cóv), si può cogliere con la ragione solamente, non con la sensazione o con l’opinione, come le cose periture e finite. Con questo Numenio esprime la tendenza di tutto questo movimento d’idee: l’opposizione a ogni materialismo, non solo a quello degli Epicurei, ma anche a quello degli Stoici: il bisogno di concepire la realtà ultima come una realtà spirituale diversa e opposta a tutto ciò eh’ è corporeo. Da queste considerazioni metafisiche Numenio ricava la sua dottrina teologica.  NUMENIO La quale, per dire la cosa con tutta brevità, consiste in questo: nell’ammettere un Dio supremo inaccessibile, puro essere spirituale, senza connessione col mondo, eh’è pura agione ed è il Bene in se stesso; poi un Dio secondo, il Demiurgo, eh’è l’ordinatore o l’architetto del mondo; e per ultimo un terzo Dio, eh’è il mondo stesso. Dato il concetto trascendente del puro Essere come 10 abbiamo definito, e eh’è il primo Dio, nasce la solita difficoltà: com’è possibile l’azione di Dio sul mondo. Come Filone unificava le idee e le potenze divine nel concetto del Logos, come gli altri platonici ponevano degli Dei o demoni intermediari tra Dio e il mondo, così Nn- menio statuisce al disotto del primo Dio un secondo eh’è 11 Demiurgo, distinguendo in certo modo quello che Platone identificava: il Demiurgo era per Platone, a dir così, la funzione divina per rispetto al mondo. hTumenio ne fa un secondo essere divino, il quale partecipa della bontà del primo, e ne riceve i semi di tutte le cose che sono le Idee, ma trapianta questi semi nel mondo sensibile formando e ordinando il mondo. Sicché il Demiurgo ha una posizione intermedia : è come un pilota che, assiso al governo del mondo, ha sempre gli occhi fissi sul cielo e 1 gli astri, per assicurare l’armonia dell’ordine del mondo, che dirige mediante le Idee, ossia dunque ha sempre gli occhi fissi al primo Dio; ma d’altra parte, e appunto per la sua fuuzione causale e formatrice sul mondo, il suo sguardo e la sua azione è rivolta verso le cose sensibili, che ricevono da lui la loro persistenza, la loro vita, il loro ordine, le leggi dell’essere loro. E in quanto il mondo è fattura del Demiurgo, si può dire esso stesso un Dio .TTJfcV^VF.286 NE OPITAG ORICI E PLATONICI ECLETTICI Cosicché avremmo: il primo Dio eh’è il padre (icaxrjp), il secondo Dio eli’è il Demiurgo, l’artefice (mr]T%), e il terzo clP è il 7ioùj|i«, la fattura di Dio, il mondo in quanto formato da Dio. Questo è il cosiddetto triteismo che insegna Numenio. ' Del quale un’altra dottrina caratteristica è che l’anima umana è duplice: un’anima razionale e un’anima non razionale: queste due nature sono in lotta fra loro, come il bene e il male, e il male viene all’anima dalla materia,o dal suo contatto con la materia, e tutte le incorporazioni dell’anima sono considerate come un male. Si suppone la preesistenza e la trasmigrazione delle anime; 1’ unione dell’anima con un corpo terrestre è come la punizione di una colpa commessa in una vita anteriore, prima della nascita in quel dato corpo. E l’aspirazione suprema dell’anima razionale è la sua unione con Dio, la contemplazione o l’intuizione del vero Bene, Uno stato di beatitudine di cui possono godere solo quelli che allontanano la loro anima da ogni comunicazione col corpo e coi sensi. Cosicché avremmo qui, e con maggiore nettezza, formulate le idee e le esigenze di tutta questa speculazione da Filone in poi: la trascendenza del divino, un termino o più termini intermediari tra Dio e il mondo, la doppia natura dell’uomo o dell’anima, che da una parte è di Origine divina, e dall’altra è rivolta verso la materia e le cose terrene; quindi il bisogno della purificazione e della liberazione per avvicinarsi a Dio e unirsi con Dio: idee e esigenze che troveranno la loro espressione più compiuta nella filosofia dei Neoplatonici. La Filosofia greca finisce col sistema e la scuola (lei Neoplatonici. Fondatore del Neopfatonismo è ritenuto dagli antichi e dagli stessi Neo pi atonici Ammonio Sacca > alessandrino; nato ed educato da genitori cristiani, sarebbe passato alla religione antica; e insegnò filosofìa in Alessandria. Non scrisse nulla, e non sappiamo niente di preciso sulle dottrine che professava: ci è riferito che secondo lui le dottrine di Platone e di Aristotile, nelle cose essenziali, concordavano, si potevano ridurre o fondere in una sola dottrina. La tendenza religiosa dell 7 uomo, oltre che l’ammirazione che ispirava, si può concludere dall’epiteto di 0£o5iBaxToc, a Deo doctus, che scrittori posteriori gli danno. Ebbe, molti scolari: si citano tra gli altri un Erennio, un Origene pagano che non è da confondere col teologo cristiano dello stesso nome, quantunque anche di questo è detto che passò per la scuola di Ammonio; poi il critico  e retore Longino a cui è stato attribuito (falsamente) il trattato Del sublime; ma sopraffatti importante fra gli scolari di Ammonio Sacca è Plotino. Questi tre scolari principali, Erennio, Origene e Plotino s’erano messi d’accordo di non pubblicare nulla degl’ insegnamenti di Ammonio, probabilmente per non profanarli divulgandoli; ma non essendo stati ai patti prima Erennio e poi Origene, anche Plotino si ritenne sciolto dalla sua parola, e così insomma egli è diventato per noi il rappresentante letterario, il vero organizzatore ed espositore di quel sistema d’idee eh’è il Neoplatonismo. Quali che siano stati gl’insegnamenti di Ammonio, la filosofia neoplatonica è la filosofia di Plotino e poi dei suoi successori. 2. - Plotino è di Licopoli, nell’Egitto. A 28 anni si diede alla filosofìa e udì più d’uno dei maestri eh’erano allora in Alessandria, senza rimanerne contento; ma quando un amico, al quale s’era confidato, lo condusse a sentire Ammonio, disse : è quello che cercavo; e rimase suo scolaro per 11 anni. Nel 243, desiderando conoscere nelle sue fonti la saggezza orientale dei Persiani e degl’indiani, accompagnò l’imperatore Gordiano nella sua spedizione contro la Persia; ma questa spedizione riuscì male; lo stesso imperatore vi fu ucciso ; Plotino potè appena salvarsi in Antiochia, poi venne a stabilirsi a Poma nel 244 e vi rimase quasi fino all’ultimo della sua vita. Aperse una' scuola ' che Ìventò sempre più numerosa. Non tanto il talento della parola, quanto la profondità dei pensieri, la bontà del carattere, la purezza e semplicità della vita gli attiravano la simpatia e la venerazione. Era una natura mite e gentile, meditativo, tutto dedito all’insegnamento e allo studio. Diventava bello quando parlava, e specialmente quando disputava, con grande dolcezza: la sua intelligenza sembrava brillare sul suo viso e illuminarlo. Dovette esercitare una potente efficacia. Tra i sxioi ascoltatori furono persone di riguardo, dei senatori e alcune donne distinte. Ci furono uomini e donne, che, vicino a morire, gli affidarono i loro figli d’ambo i sessi, con tutti i loro beni, come a un depositario o un tutore di cui si poteva avere fiducia: onde la sua casa era piena di giovanetti e di giovanotte. Egli guardava a tutto, adempiva a tutti i suoi obblighi, il che non lo distraeva punto dalle cose intellettuali, ch’erano la passione della sua vita. L’imperatore Gallieno e sua moglie, l’imperatrice Saloniua, lo ebbero in grande favore, 27egli ultimi anni del filosofo fu ventilata pef un momento tra lui e l’imperatore l’idea di fondare nella Campania una città filosofica sul modello di quella di Platone, e che si sarebbe chiamata Platono- poli ; ma non se ne fece nulla. Le condizioni della sua salute peggiorata (soffriva di un’affezione cronica dello stomaco) lo decisero ad abbandonare Roma e a ritirarsi in una villa della Campania che fu messa a sua disposizione. Morì nel 270, a 66 anni, presso Minturno. Al medico, suo amico e discepolo, che venne a vederlo, Plotino morente avrebbe detto : Ti aspettavo, prima di riunire quello che v’ha di divino in noi al divino che è nell' universo. Tutte queste cose si leggono nella Vita che ne scrisse il suo scolaro Porfirio, il quale comincia la sua biografia con queste parole: Il filosofo Plotino, vissuto ai nostri giorni, pareva si vergognasse di avere un corpo. Così pure egli non parlava mai della sua famiglia e della sua patria; e gli ripugnava di farsi fare un ritratto o un busto. Un giorno che Amelio (un altro degli scolari) lo pregava di lasciarsi ritrarre, Plotino gli disse: Non basta di portare quest’immagine nella quale la natura ci ba chiusi? Bisogna proprio trasmettere alla posterità l’immagine di questa immagine come un oggetto che valga la pena di essere guardato? Dobbiamo soprattutto a Porfirio se possiamo leggere Plotino. Il quale s’era contentato per molti anni dell’insegnamento orale, e solo a cinquantanni aveva cominciato a mettere, in iscritto le sue idee. Scriveva rapidamente, tutto assorbito dal suo pensiero, lungamente e intensamente meditato, senza curarsi molto dello stile e nemmeno dell’ortografia: non si rileggeva, anche per la vista debole che aveva. Verso la fine della sua vita affidò a Porfirio i suoi manoscritti con l’incarico di rivederli e ordinarli. Porfirio trovò eh’essi contenevano o se ne potevano ricavare 54 trattati o capitoli, li distribuì in sei gruppi ciascuno di nove libri, e chiamò questa raccolta Enneadi, come chi dicesse Novene, sei Enneadi di nove libri ciascuna. Questa è l’origine dell 1 Enneadi di Plotino, il libro fondamentale della speculazione neoplatonica, e uno dei tesori della letteratura mistica di tutti i tempi. Fu tradotto in latino da FICINO (si veda). Il neo-platonismo è una filosofia essenzialmente religiosa; il motivo da cui è nata si può dire anzi mistico: l’aspirazione verso il divino, il bisogno dell’ anima di sollevarsi dai limiti dell’esistenza finita, e di sentirsi una con l’essenza universale di tutte le cose. L’idea fonda- mentale e dominante della filosofia di Plotino è che tutte le cose esistono in Dio, emanano da lui e ritornano a lui; e questo non come una cosa solamente pensata, ma sentita e vissuta in tutte le fibre dell’anima, con uno sforzo persistente del pensiero di penetrare nei misteri di questa vita divina di se stessi e del mondo. Il punto di partenza e il presupposto di questa speculazione è la distinzione platonica tra le cose sensibili e la realtà intelligibile, la realtà delle idee. È una distinzione che può essere pensata in una maniera sobria, senza nulla di mistico. Tutti in fondo viviamo in un mondo ideale, nel mondo delle idee, quando parliamo di verità, di giustizia, di virtù, di bellezza; e il mondo tutto quanto, anche il mondo naturale, si può considerare come una realizzazione d’idee. Questo insegnava Platone e questo insegnava Aristotile. Ebbene, secondo Plotino, bisogna elevarsi ancora più in su. Le Idee sono una realtà derivata, non sono la prima realtà. Il principio di tutto ciò ch’esiste è l’Unità assoluta, ch’è al di là di ogni molteplicità e di ogni determinazione. Le cose che noi vediamo e che possiamo pensare sono molte, ma tutte queste cose non potrebbero esistere se non avessero la loro radice prima nell’Uno da cui procedono e che le tiene insieme. L’unità è la condizione di ogni molteplicità non solo nei numeri, ma anche nel mondo dell’essere; senza un’unità suprema incondizionata nessuna cosa esisterebbe, e il mondo si risolverebbe in un caos senza consistenza e senz’ordine. Plotino chiama questo primo principio l’Uno, zb gv, nel senso che esclude ogni molteplicità, e gli nega pure ogni determinazione o attributo, perchè* definirlo in qualche modo sarebbe un limitarlo, farne una cosa piuttosto che un’ altra. Si può dire quello che non è, non quello che è: senza limiti, infinito, senza forma nè qualità. È una realtà assolutamente trascendente, rcàvawv, al di là di tutte le cose : una realtà a cui nessun concetto e nessuna parola è adeguata. Questo lo diceva anche Filone ebreo, il quale però, educato sulla Bibbia, non poteva a meno di concepire Dio come persona. Secondo Plotino, non si può attribuire a Dio, alla realtà prima e assoluta, nessuna delle proprietà della persona: nè il pensiero nè la volontà: il pensiero suppone la dualità di soggetto e oggetto e la molteplicità delle idee pensate; la volontà suppone un’attività rivolta a un fine: saremmo sempre nel campo delle realtà derivate, della molteplicità, della differenziazione. Ogni attributo dunque,) personale o non personale che sia, bisogna negarlo di lui.^ Ma insieme con questo esso è ciò che v’ha di supremamente reale e di supremamente positivo, giacche se noi affermiamo la sua trascendenza assoluta al di là di tutte le cose finite e di tutte le cose pensabili, non è per diminuirne la realtà, ma unicamente perchè la pienezza dell’essere non sarebbe compatibile con una limitazione o determinazione qualsiasi. / Si può dire solo di lui eh’è l’Uno, il Primo, potenza c (prima e causalità assoluta di tutte le cose; e anche si può ì \ dire eh’è il Bene, non come un attributo intrinseco a lui ' (come se fosse un essere buono), ma come il fine ultimo a cui tutte le cose tendono. È insomma l’Ineffabile. Un filosofo italiano *) (liceva: * : l’Innominabile Reale. E voleva dire: la vita, il mondo è j un grande mistero: tutte le cose elle noi vediamo e che I pensiamo accennano, sono l’indizio di una realtà suprema che ci supera, ci trascende : possiamo affermarla, non nominarla. Questo è l’Uno di Plotino. Rimane a sapere come procedono gli effetti di questa causalità originaria. Bisogna escludere innanzi tutto ogni idea di divenire nel tempo, come se prima esistesse l’Uno e poi le altre cose ; no, non si tratta di raccontare una storia di eventi che si succedono ; e più specialmente non si può ammettere che le cose procedano dall’ Uno in seguito a un atto di volontà, a una decisione intenzionale, come se l’Uno fosse una persona che pensa e delibera : dunque niente creazione, nel senso ebraico e cristiano. E Plotino non ammette nemmeno con gli Stoici che la sostanza divina, come un fuoco sottilissimo, si comunichi alle cose derivate, permeandole come il miele che riempie di sò le celle dell’alveare : Dio non è una sostanza che si possa disperdere e spartire. Per esprimere la sua idea Plotino è obbligato a servirsi d’immagini.^ È per la sola necessità della sua natura che il primo juincipio dà origine alle cose derivate, si comunica ad esse. Come ogni essere vivente, giunto al suo punto di perfezione, ne genera un altro simile a sè, così la realtà suprema ne fa nascere delle altre simili benché inferiori. Dalla pienezza dell’ Uno si diffonde, straripa il flusso delle q Antonio Tari, professore di Estetica nell’ Università di Napoli. esistenze derivate. Esse procedono da lui, come la pianta germina dalla radice, come dal sole la sua luce. Questa è l’immagine più frequente e in un certo senso la più chiara. L’universo è la fulgurazione (TcepiXajjL^) dell’Uuo, della luce divina. Non è dunque nè creazione nè spartizione della sostanza divina, ma emanazione, intendendo per emanazione non una diffusione che diminuisca la sorgente da cui essa deriva, ma un comunicarsi di forza che pure rimanendo integra in se stessa si comunica alle esistenze derivate. Le quali perciò sono pure manifestazioni dell’Infinito, emanazioni di lui, sono immanenti in lui, mai separate da esso, il quale ciò nonostante non si confonde con le cose, ma le trascende, è al di là di tutte le cose. Dio è dapertutto ed è l’attualità di tutto, senza essere in nessun posto e senza confondersi nè con ciascuna cosa finita nè con la loro totalità. Quando si parla di Panteismo, ordinariamente s’intende quella concezione che confonde o identifica Dio col mondo. Per Plotino Dio, l’Uno, rimane eternamente distinto dal mondo, e ciò nonostante il mondo è tutto pieno di Dio, è un’emanazione della sua luce, della forza divina da cui deriva: si potrebbe chiamare questo un Panteismo dinamico o emanatistico. Prodotto dall’efficacia dell’Uno, il derivato ne è come la riproduzione indebolita, a dir così un’immagine o una copia, una luce più debole, un’ombra. E come l’immagine che riflette uno specchio sparisce quando s’allontana l’oggetto che la produce, così, senza l’efficacia persistente e continuata dell’Uno, le esistenze, derivate si dileguerebbero. Esse hanno in lui la loro consistenza, ma ogni nuova emanazione, pur partecipando del- l’Uno, è meno perfetta di lui ; le cose diventano via via meno perfette a misura che s’allontanano dalla causa prima e aumentano i termini intermediari: la luce proiettata dall’ Uno impallidisce via via fino a sembrare come dileguarsi nelle tenebre del non essere, della materia bruta. Si direbbe un’evoluzione a rovescio, non dalle forme meno perfette alle più perfette, ma al contrario, una degradazione progressiva del divino, un allontanarsi sempre più della luce dalla sua sorgente. E quali sono i gradi di questa emanazione 1 ? Prima e immediata emanazione dell’Uno è l’intelligenza o il vou?, s’intende l’Intelligenza universale,, la Mente divina con le sue idee (il Logos che diceva Filone, e che anche per lui era il primogenito di Dio) : il mondo delle Idee dunque, le quali contengono le ragioni seminali di tutte le cose, terre, mari, fiumi, animali, piante, individui, cosi come possono esistere nella loro essenza, ab eterno: l’Uno, senza cessare di essere l’Uno, si è come enucleato in questa molteplicità delle Idee, che costituiscono il mondo intelligibile insieme con la Mente che le pensa. E come dall’Uno emana l’Intelligenza o il voOg, così da questo emana il principio della Aita cosmica, l’Anima universale, l’Anima del mondo, che da una parte guarda alle Idee, e dall’altra come Natura le attua nello spazio e nel tempo generati da essa, le attua nel mondo sensibile; sicché l’Anima, come il secondo Dio di Numenio, è, si può dire, al confine dei due mondi, del mondo intelligibile di cni essa è l’ultima emanazione, e del mondo dei corpi che emana e eh’è formato da essa; e l’ultimo termine di questa processione è la materia o il sustrato materiale dei corpi, la materia senza forma, in cui la luce divina si estingue in qualche cosa di opaco e di oscuro. Cosicché avremmo come una gerarchia di esistenze che, in ordine inverso a quello che abbiamo detto, andrebbe dalla materia ai corpi che costituiscono la fantasmagoria del mondo sensibile, dai corpi all’Anima, dall’Anima al- l’Intelligenza o Ragione universale, dall’Intelligenza a Dio. Il mondo corporeo riceve la luce dall’Anima, l’Anima dall’Intelligenza o Ragione, questa dall’Uno: così tre sfere concentriche illuminate da un punto al centro, esso stesso invisibile agli occhi mortali, ma eh’è la sorgente prima e il focolare perenne della luce che illumina il mondo. 4. - L’Uno, l’Intelligenza e l’Anima costituiscono insieme il mondo intelligibile, da cui dipende il mondo sensibile; e sono dette con parola tecnica le tre ipostasi, le tre sostanze che nominate a una a una sembrano tre personificazioni: una trinità di principi che sono stati paragonati alle tre persone del dogma cristiano. C’è la differenza essenziale che nel mistero cristiano le tre persone sono uguali in perfezione e costituiscono tutte insieme l’unità di Dio: e in questa triplicità di un solo Essere sta appunto il mistero. In Plotino, i tre principi non sono persone, ma gradi della realtà: il mondo procede direttamente dall’Anima e mediatamente dall’Intelligenza e dall’Uno. Ho già avvertito che bisogna escludere da questo processo ogni idea di divenire nel tempo ; e così pure bisogna escludere ogni idea di spazio, come se si trattasse di un edifizio a tre piani, di cui il mondo PLOTINO: l’anima e il mondo sensibile 297 sensibile sarebbe come il pian terreno. No, sono tutte rappresentazioni in adeguate. Si tratta invece di comprendere V universo, nella sua unità, come la manifestazione di un principio divino unico che si manifesta come Intelligenza e come Anima, come Intelligenza in quanto il mondo lia un contenuto razionale che sono le Idee che vi sono realizzate, come Anima in quanto il mondo è il risultato di una forza generatrice e formatrice che distribuisce l’essere e la vita a tutte le cose che esistono; e così l’Intelligenza come l’Anima sono da considerare come l’irradiazione o l’efflorescenza di quell’Uno originario nel quale vivono e sussistono esse stesse e tutte le cose; e l’ultimo termine di questa produzione, il polo estremo, a dir così, di questa degradazione progressiva dell’Uno è la materia, che non è più luce, ma ombra, oscurità, ma in quanto è materia animata e formata dalle potenze divine, è ombra di luce, ombra dell’Anima e della Mente di cui porta in sè impresse le tracce. Dopo questa veduta sommaria, fissiamo più particolarmente la nostra attenzione su l’Anima, che, come dicevamo, si trova al confine dei due mondi, del mondo intelligibile e del mondo sensibile: li separa e li unisce partecipando di entrambi. In quanto emanazione o espressione dell’Intelligenza, l’Anima contempla in essa le-Idee, e sono queste Idee eh’essa attua, realizza nel mondo dei corpi. Si potrebbedire che ha una doppia funzione, una rispetto all’Intelligenza da cui riceve o riflette o rispecchia le Idee, l’altra rispetto al mondo dei fenomeni che si genera da essa, e nel quale essa imprime le Idee, che diventano così le forme o ragioni seminali delle cose. Per esprimere questa doppia funzione Plotino ne parla talvolta come fossero due anime, una superiore e l’altra inferiore, 1’Afrodite celeste e PAfrodite terrena, e quest’ultima è insomma la filatura (cpuaic;), eli’è dunque la stessa Anima cosmica come j principio della vita universale, come forza creatrice, la cui \ attività non rimane nella sua semplicità originaria : pur [essendo semplice e indivisibile in se stessa, la sua attività si moltiplica, si partisce, si unisce al mondo corporeo, allo stesso modo come l’anima umana al corpo umano ]ch’ essa vivifica in tutte le sue parti. Con questo però, ^che il corpo non è qualche cosa di estraneo, di diverso essenzialmente dall’Anima, ma è una sua produzione, si potrebbe dire una sua esteriorizzazione. Già è essa l’Anima (l’anima cosmica) che con la sua espansione genera lo spazio, e con l’azione successiva delle sue potenze genera il tempo ; e il corpo stesso è una produzione dell’Anima, un’emanazione umbratile di essa, ma è essa che lo illumina della sua luce. Di qui quell’espressione così caratteristica in Plotino, che non è l’anima ch’è nel corpo, ma il corpo è nell’anima, il corpo è l’organo, lo strumento dell’anima, ed è tenuto insieme, animato, unificato dall’anima che lo produce e lo avviva tutto. Questo è vero non del corpo singolo solamente, ma di tutto l’universo. Tutto quanto l’Universo è spiritualizzato in questa veduta: il mondo dei corpi è un’ombra o riflesso dello Spirito, non è fuori dell’Anima, ma un prodotto dell’Anima e quindi dell’Intelligenza e dell’Uno divino di cui essa è ministra. Per questa, a dir cosi, incidenza del mondo corporeo nelle potenze spirituali da cui si genera, tutto nella natura è animato: tutto è penetrato d’intelligenza e delle idee realizzate dall’Anima. PLOTINO: l’anima e il mondo sensibile 299 materia pura, senza forma, senza vita e senz’ anima è più un’astrazione del pensiero che una realtà. Già nella pietra c’è una vita latente: negli elementi stessi c’è qualche cosa di vivido, nella fiamma, nell’acqua che scorre, nell’aria. Ed è sempre l’Anima che in virtù della sua fecondità inesauribile produce l’immensa serie degli esseri, i corpi celesti, i corpi degli animali e delle piante, fino alla più grossolana materia delle cose terrestri. È una vita infinita diffusa per tutto l’universo: lo spirito animatore vi apparisce in gradi diversi : nei suoi generi e nelle sue specie e nelle diverse forme individuali c’è come un passaggio continuo dal più perfetto al meno perfetto; e nelle creature inferiori c’è come la traccia o il ricordo e quindi l’aspirazione e il presentimento delle forme superiori; e tutte queste vite singole, distinte, non confuse tra loro, si unificano pnre nel juincipio unico da cui emanano. Come l’Intelligenza, pure essendo una, contiene in sè tutte le Idee, cosi l’Anima universale contiene in sè le singole anime, tutte le forme di vita che popolano il mondo, le quali, benché distinte individualmente, si unificano pure nella loro essenza, sono manifestazioni diverse della stessa Anima del mondo, come raggi che partono da un centro comune, o come la scienza è una nelle diverse sue parti, e una stessa luce può illuminare i luoghi più diversi. Nel mondo sensibile l’unità diventa molteplicità e l’armonia può diventare opposizione e lotta; ma ciò nonostante l’unità originaria non è annientata: tutti gli esseri realizzano la stessa vita, e sono come le voci diverse che celebrano o riecheggiano la stessa armonia. Dato questo concetto dell’animazione universale e della vita unica che ricircola rimanendo identica a se stessa in tutte le parti e forme del mondo, Plotino si trova in una situazione non dissimile da quella in cui s’ era trovato Platone, di fronte alla realtà della nostra esperienza. Da una parte la tendenza religiosa del suo spirito e i concetti platonici con cui lavora, l’opposizione tra realtà sensibile e realtà intelligibile, lo portano a considerare il mondo sensibile, eh’è nato dalla mescolanza dell’anima con la materia, come un peggioramento, come un’ombra della vera realtà; quindi la realtà empirica e sensibile non è la vera patria dell’anima, la quale anzi aspira a liberarsi da essa. E questa tendenza troverà la sua espressione nell’Etica. Ma d’altra parte questa fantasmagoria dei sensi è pure un riflesso del mondo ideale, è una manifestazione dell’Anima, penetrata d’intelligenza e d’idee; deve avere tutta la perfezione e la bellezza di cui è capace. Plotino combatte espressamente quelli che considerano il mondo dei sensi come il regno del male, di un male originario e insanabile, quasi fosse l’opera di un demiurgo cattivo. Egli è ancora troppo greco per accettare questa condanna. Il mondo sensibile è inferiore al mondo ideale perchè se ne distingue ed è fatto di materia; ma rappresenta pure il suo modello, esprime la vita e la saggezza infinita, è un riflesso del Bene, le cui emanazioni finiscono in lui. Tenendo dall’Anima V essere suo, è un tutto organico in cui l’opposizione e la lotta dei contrari sono subordinati all’unità del tutto. Non solo c’è ordine e armonia, ma connessione, solidarietà fra le diverse parti, non per azione fìsica o meccanica che vi sia fra loro, ma per l’unità dell’Anima e dell’Intelligenza che lo vivifica, e quindi per la simpatia e affinità di natura di tutti gli esseri fra loro. Biblioteca Comunale “Giuseppe M." - San Pietro Vernotico (Br) Plotino proclama con gli Stoici l’ordine e l’armonia del mondo, e scrive una Teodicea per difendere il concetto della Provvidenza. Tutto è bene, anche per lui : la distruzione perpetua degli esseri anche quando si divorano gli uni gli altri, non l’offende, è la condizione del rinnovarsi perpetuo della scena della vita. Sì, è necessario eh’essi si divorino: è come sulla scena; un attore eh’è stato ucciso, che s’è visto morire, va a cangiare di vestito e ritorna sotto un altro aspetto : vuol dire che non era morto realmente. A traverso questa vicenda la vita permane, morire è cangiare di corpo come l’attore cangia di vestito e riprende la sua parte: che cosa c’è di spaventoso in questa permutazione degli animali gli uni negli altri? E così, morire nella guerra, nella battaglia, è anticipare di ben poco i colpi della vecchiaia e la morte naturale: è un partire per ritornare sotto altra forma. Questi massacri che noi vediamo, questi saccheggi di città, queste violenze, pianti e gemiti degli attori, in tutte queste .vicissitudini della vita, non è l’anima del di dentro che cambia, ma è l’ombra dell’uomo esteriore che geme e si lamenta. - L’ottimista, che crede nella Provvidenza, e guarda le cose dal punto di vista dell’eternità, si consola facilmente di questo spettacolo, ch’è così doloroso a chi ci vive dentro e n’è vittima. Kon solo Plotino afferma che tutto è bene, ma ammira soprattutto la bellezza del mondo, e scrive del Bello, e dopo i primi accenni che si trovano in Platone, pone alcuni dei concetti fondamentali della scienza dell’Estetica. Perchè in verità tutta la concezione della natura che abbiamo veduto è una concezione che si può dire religiosa e estetica insieme. Data quell’animazione e spiritualizzazione dell’universo, la realtà o fenomeno sensibile non è altro che un riflesso dell’Idea eh’esso esprime. E il lampeggiare dell’Idea nel fenomeno è appunto la bellezza. Il bello ha carattere spirituale. ISTon è bella la forma sensibile come tale, nella sua esteriorità, non la simmetria, non la proporzione, ma la vita o l’Idea che la forma esprime, quel certo che di spirituale, d’impalpabile, che risplende in essa. E il bello così inteso noia è un oggetto fuori dell’anima, non c’è nulla al di fuori dell’anima, tanto meno gli oggetti belli. È intanto l’Anima, come potenza generatrice, che realizzando le Idee produce le forme belle; ed è un’anima, un’anima individuale, che ha il sentimento della bellezza, contemplando quelle forme. L’anima coglie e sente la bellezza perchè sente e scopre se stessa nelle cose belle; ma questa visione e questo sentimento non sarebbe possibile, l’anima non potrebbe vedere la bellezza, se essa stessa non è diventata bella. È una delle grandi parole di Plotino, che vuol dire: solo le anime pure hanno veramente il sentimento della bellezza, quelle che si sollevano sulle cupidigie e i desiderii inferiori, che sanno guardare con occhi sereni, con una contemplazione disinteressata, le cose belle. Di qui quest’altra parola sua: se tu non trovi ancora la bellezza nella tua anima, fa’come l’artista ‘ che non cessa di lavorare alla sua statua, finché non le ab- . bia dato tutta la sua bellezza. Cosi tu scolpisci e cesella la tua anima, e purifica e illumina tutto ciò che v’ha in essa di torbido, perchè essa diventi degna di sentire la bellezza. La bellezza è un mistero che non solo ci piace ma ci attira, non c’ispira ammirazione solamente, ma amore. plotino: l’anima umana Il che vuol dire che al di là di essa c’è qualche altra cosa. Al di là della forma bella, o per meglio dire a traverso di essa, traluce qualche cosa di cui essa è lo splendore: ed è il Bene a cui l’anima aspira. Solo il Bene può far nascere l’amore, ed è col Bene che l’anima aspira ad unirsi. Come tutte le cose che esistono, anche l’uomo ha la ragione della sua esistenza nel mondo intelligibile, non solo ne deriva, ma ci vive dentro, non ne è separato, anche durante la sua esistenza terrena. Ogni anima deve considerare eh’essa è parte dell’Anima universale, di quell’Anima che ha prodotto tutte le cose del mondo sensibile, gli astri divini, il sole e il cielo immenso : è essa che ha dato al cielo la sua forma e che presiede alle sue rivoluzioni regolari: è da essa che si generano tutti i viventi, le piante e gli animali che sono sulla terra, nell’aria e nel mare. Tutte le anime individuali sono immanenti in quest’Anima cosmica ; ed è insomma lo stesso principio animatore del mondo che vive anche in noi, e che noi diciamo la nostra anima. Sicché ciascun’anima, per questa sua provenienza, è,, come quella che le contiene tutte, di natura spirituale^ ed eterna; la sua esistenza non comincia nè finisce col \ corpo con cui è congiunta. Essa non è un aggregato di atomi, come pensavano gli Epicurei, non è corpo sottilissimo igneo o etereo, come credevano gli Stoici, non è nemmeno funzione del corpo, entelechia o forma di esso, come insegnava Aristotile, e nemmeno armonia risultante dalle relazioni fra le parti del corpo, come opinavano i Pitagorici. Plotino discute e rifiuta tutte queste ipotesi, per concludere die fiamma non Ita bisogno del corpo per esistere: la sua vera essenza è di essere semplice e separabile dal corpo : è di natura spirituale e quindi immortale ; tutte le sue facoltà, la sensazione, la memoria, il pensiero, le * x'-l T qualità morali non sarebbero possibili se fi uomo e la sua -, anima fossero un semplice aggregato di molecole rnate^ riali : tutte quelle funzioni e facoltà suppongono un soggetto semplice, identico a se stesso, non sottomesso alle _ Vicende delle cose corporee: la critica del materialismo che j si trova in Plotino è fra le più compiute che ci abbia lasciato fi antichità, e contiene argomenti che sono stati poi sempre utilizzati. Questa natura spirituale delfi anima importa elfi essa è vicinissima alla sorgente di tutte le cose. Giacché i tre principi che sono nelfiuniverso, l’Anima, fi Intelligenza e l’Uno, debbono essere .anche in noi: essi costituiscono l’uomo interiore, la vera essenza dei- fi uomo. Il quale è un’anima e possiede fi intelligenza, non solo l’intelligenza discorsiva, che procede per via di ragionamenti, ma anche quella forma superiore di essa che intuisce le Idee, la ragione intuitiva. Bisogna dunque che risieda in noi anche quel principio divino da cui emana l’Intelligenza, l’Uno ineffabile, che non esiste in nessun luogo, ma eh’è come il centro e* il cuore più intimo del mondo. L’uomo è un microcosmo, un piccolo mondo, jl compendio dell’universo. È così che noi uomini, nella nostra intima essenza, siamo in contatto con Dio, siamo in certo modo sospesi a lui, respiriamo e sussistiamo in lui l’ anima umanaSe non che, quest’uomo interiore esìste in un corpo, j ha pure un’esistenza terrena e sensibile. Coni’è avvenuta | questa specie di caduta o discesa? \ Qui Plotino bisogna che si aiuti con l’immaginazione, ; come del resto faceva anche Platone, quando parlava di una caduta delle anime che hanno perduto le loro ali. Ci sono delle anime celesti che rimangono pure da ogni - contatto corporeo e beate nella contemplazione delle Idee' eterne. Ma ce ne sono delle altre, che siamo noi, le vere anime umane, le quali si sono rivestite di un corpo, e sono discese in un grado di esistenza inferiore. Come l’Anima universale procedendo nelle sue emanazioni avviva il corpo intero dell’universo, così alle anime particolari è devoluta una parte determinata del mondo corporeo ; il che si può anche intendere come una legge provvidenziale, perchè il mondo intelligibile da cui le anime derivano manifesti ed esplichi tutte le potenze eh’esso possiede. L’anima particolare, sviluppando le sue potenze sensitiva e vegetativa, entra in un corpo, o a dir meglio, se ne riveste, se lo forma vivificandolo e governandolo. {Si potrebbe forse rappresentarsi la cosa ài modo che dice Dante quando nel XXV del Purgatorio descrive il formarsi delle ombre: la virtù informativa raggia intorno e suggella di sè la materia corporea che le si condeusa intorno o eh’essa irradia da sè). Ma comunque si voglia immaginare la cosa, e a parte qualunque mitologia, l’idea e la verità profonda eh’è espressa qui, in questa discesa delle anime nel mondo corporeo, è il distaccarsi dell’anima individuale dalla sorgente di ogni vita, la volontà dell’esistenza individuale, che finisce col diventare un’esistenza separata, e dimentica della sua origine e dei legami che la congiungono col tutto. — Com’è — dice Plotino in un luogo magnifico (il principio della V a Enneade) — come accade che le anime dimentichino Dio, il loro padre? Come accade che avendo una natura divina, ed essendo uscite da Dio, esse lo disconoscano e disconoscano se stesse ? L’origine del lomale è l’audacia o l’orgoglio (xóX[xa), il desiderio di non appartenere che a se stesse. Da quando hanno gustato il piacere di possedere una vita indipendente, usando largamente del potere ch’esse avevano di muoversi da sè, si sono avanzate nella strada che le deviava dal loro principio, e sono giunte ora a un tale allontanamento da lui (apostasia, àTzòa-a,ai % vita a cui l’uomo può e deve aspirare; non costituiscono propriamente questa vita. Non solo la vera virtù consiste non nelle azioni esterne, f sibbene nella disposizione interna dell 7 anima; ma questa disposizione virtuosa è soprattutto una purificazione, una catarsi, una liberazione dell’anima dalla sensibilità e daisuoi legami col corpo. Quest’idea della purificazione è il significato più profondo della dottrina della metempsicosi, che anche Piotino accetta come Platone e i Pitagorici. L’anima che figura nel dramma di cui il mondo è il teatro, e che vi recita la sua parte, vi porta una disposizione a recitar bene o male, ed è punita o ricompensata in conseguenza, secondo quello che fa e secondo giustizia. Salvo che per riconoscere questa giustizia, non bisogna fermarsi alla vita presente, ma bisogna tener conto drtutti i periodi passati e futuri dell’anima, la quale non muore col corpo che momentaneamente la riveste, ma è di sua natura immortale. Chi è stato padrone in una vita anteriore, se ha abusato del suo potere, rinasce schiavo; chi ha impiegato male le sue ricchezze, rinasce povero ; quelli che hanno commesso violenza, saranno a loro volta maltrattati ; chi ha ucciso la madre, sarà ucciso dal figlio suo: l’anima è destinata a incorporarsi in questo o quel corpo, a ridiventare uomo o animale o anche pianta, secondo i suoi meriti e gli atti che ha compiuti in una vita anteriore; e a traverso queste rinascite successive ciascuna anima si purifica, espia, finché non ridiventi degna di ritornare alla regione celeste da cui è discesa. Questa purificazione non si ottiene mediante pratiche ascetiche o mortificazioni, ma facendo si che l’anima non diventi prigioniera delle passioni del corpo, non s’abbandoni ai fantasmi dell’immaginazione, non si estranii dalla ragione, cerchi di sollevarsi sempre più verso quella realtà intelligibile ch’ò la sua vera patria. E da questo punto di vista anche le virtù cardinali o civili acquistano un nuovo significato : diventano virtù purificative, orientano l’anima verso quella realtà superiore, facendo che l’intelligenza domini nell’uomo e regoli tutte le sue azioni e i suoi sentimenti. Ossia insomma più delle virtù civili e pratiche vale la virtù contemplativa, la virtù dello spirito puro. f E lo stesso mondo sensibile può avere valore per il nostro perfezionamento quando sia appunto oggetto dì con- « templazione: qui vengono a confluire quelle due correnti d’idee che dicevamo: l’inferiorità della realtà sensibile rispetto al mondo ideale, e la perfezione e la bellezza di questo stesso mondo sensibile in quanto riflesso delle Idee. L’anima aspira in fondo al bene supremo, e non vi può pervenire se non mediante la conoscenza del vero e del bello. Ma anche le apparenze del mondo sensibile possono servire di gradini, di scala per sollevarsi fino a quel mondo superiore. Tre vie conducono a questo mondo, che sono per Plotino la musica, l’amore e la filosofia. La musica ha per oggetto l’armonia, l’amore ha per oggetto la bellezza, la filosofìa ha per oggetto la verità. Il musicista si lascia facilmente commuovere da alcuno forme del bello ; ma bisogna che delle impressioni esterne vengano a stimolarlo. Come l’essere timido è risvegliato al più piccolo rumore, cosi il musicista è sensibile alla bellezza delle voci e degli accordi ; egli rifugge da tutto ciò che gli sembra contrario alle leggi dell’armonia, e ricerca il numero e la melodia nei ritmi e nei canti. Ma bisogna che dopo queste intonazioni, questi ritmi e queste arie puramente sensibili, egli impari a conoscere le proporzioni e i rapporti intelligibili che sono l’idea e il principio stesso dell’armonia delle cose ch’egli ammira, e ammirando le quali egli possiede come istintivamente delle verità che solo una scienza più alta potrà rivelargli. L’amore è rivolto verso la bellezza, e dicemmo già come l’anima diventa bella, si purifica, contemplando il bello, il lampeggiare delle Idee nella forma sensibile. Ma i anche qui ci sono dei gradini da salire, e bisogna che l’amante si sollevi dalle belle forme corporee alle Idee ch’esse esprimono, e riconosca il Bello anche nelle cose incorporee, nelle scienze, nei prodotti spirituali dell’attività umana, nella virtù, finché non giunga a quel pelago ampio del Bello di cui parlava Diotima nel Convito platonico. Perché la stessa commozione profonda e trepida che noi proviamo di fronte alle belle forme e a tutte le cose belle, ci dice che al disopra di esse tutte c’ è una bellezza superiore, di natura puramente ideale, quella del Bene che le illumina e le colora della sua luce. Quanto al filosofo, dice Plotino, egli è naturalmente disposto ad elevarsi al mondo intelligibile. Vi si slancia portato da ali leggiere, senza aver bisogno, come i precedenti, d’imparare a liberarsi dagli oggetti sensibili. La filosofia non è ridotta a intravedere la verità a traverso i suoi simboli, ma la coglie direttamente e nella sua essenza, senza che la passione o l’immaginazione vengano a turbarne o oscurarne la tranquilla e pura contemplazione. La filosofia rivela e spiega e commenta quelle verità che il musicista e ramante intravedono solo confusamente e come per istinto : ci svela la realtà e la natura (lei mondo intelligibile, concesso è costituito e come procedono i suoi effetti. % Qui si direbbe che siamo giunti all 7 ultimo termine della nostra ascensione. Ebbene no. Al disopra di ogni riflessione e di ogni conoscenza, al disopra di ogni distinzione di pensante e di pensato, di soggetto e di oggetto, e 7 è uno stato veramente incitabile, nel quale l’anima individuale si annega e si perde, come illuminata dalla luce divina, con la quale essa s’identifica. ISon si può chiamare nemmeno visione, ma piuttosto un’estasi, una semplificazione, un abbandono di sè, una perfetta quietudine, infine un confondersi con ciò che si contempla. Come l’amore non si contenta della visione, ma aspira all’unificazione intera delle anime, così l’anima umana aspira a congiungersi con l’Uno, col Bene, col principio di ogni realtà, e vi riesce qualche volta quando nel più profondo raccoglimento dalle cose esterne, al di là di ogni pensiero, nella più profonda pace, aspetta di essere illuminata dalla luce divina, nega la sua finitudine, e come rapita e fuori di sè, essa stessa s’india. Questa Divina Commedia finisce non con una visione beatifica, ma con l’estasi. Porfirio ci dice che Plotino, durante il tempo che furono insieme, aveva provato questo stato di suprema beatitudine solo quattro volte, ed egli stesso, Porfirio, una sola volta. Cfr. YachehoTj Histoire oritique de l’école d’Alexandrìe. La filosofia di Plotino, per i concetti con cui opera, si può considerare come il risultato di tutta la speculazione anteriore. Plotino fia imparato non solo da Platone, ma da Aristotile, dagli Stoici, dai presocratici, specialmente dagli Eleati: ha imparato anche dalle filosofie ch’egli combatte; e mentre riassume il passato, contiene idee, intuizioni e suggestioni che valgono per tutti i tempi: il motivo religioso, da cui questa filosofìa è nata, ne ha fatto una delle concezioni tipiche e caratteristiche di quello eh’è stato chiamato il bisogno metafìsico. Ci sono dei tempi in cui la filosofìa si sforza e non conosce altro compito se non di comprendere la realtà dell’esperienza, la struttura e le leggi di questo nostro mondo sensibile: diventa, come dicono, positiva; ce ne sono degli altri in cui non si contenta di questo, e nemmeno di quella saggezza pratica, che basta a condurci nella vita ; ma cerca di esprimere e di appagare i bisogni più profondi dello spirito o di alcuni spiriti che non mancano mai in nessun tempo; il bisogno di liberarsi dalle inquietudini e dalle limitazioni di questo oscuro viaggio della vita, di trovare la pace e la beatitudine in una realtà superiore. Di questo slancio, di quest’aspirazione verso il divino, Plotino è rimasto uno degl’interpreti più eloquenti; e la sua efficacia è stata grande a traverso i secoli, in S. Agostino e negli altri Padri della Chiesa, nei mistici del Medio Evo, poi massimamente nei nostri filosofi del Rinascimento, in Malebranche e Spinoza, più tardi nei poeti e filosofi del Romanticismo tedesco, fino ai nostri giorni. Intanto non bisogna dimenticare che questa filosofia neoplatonica si produceva in un’età di fermentazione religiosa, tra spiriti sitibondi del soprannaturale, in un’atmosfera satura di superstizióni, in mezzo a quel sincretismo di tutte le credenze e di tutti i culti del mondo antico, fra cui si preparava la fede dell’avvenire: bisogna tener conto di questo fondo storico, in cui il Neoplatonismo s’è formato, per intendere la sua storia posteriore e le sue trasformazioni. Nel tempo stesso in cui il Neoplatonismo era insegnato e si diffondeva nell’impero romano, la Chiesa cristiana, che s’era già cominciata a organizzare, cercava essa pure di definire i suoi dogmi, superando i contrasti che si producevano nel suo seno; creava un corpo di dottrine, le quali fissavano, di fronte alle opinioni dichiarate eretiche, il contenuto della nuova coscienza religiosa: nasceva così la teologia cristiana, una filosofìa del Cristianesimo, la quale utilizzava anch’essa a modo suo i concetti della filosofìa greca, specialmente quello del Logos, che finisce con V identificarsi col Messia come il mediatore vivente tra Dio e l’uomo; si assimilava questi concetti modificandoli e incorporandoli nel sistema delle sue credenze. Ora di fronte ai progressi sempre crescenti del Cristianesimo, clie ai principi del quarto secolo trionfa con Costantino, e finisce col diventare la religione dello Stato, il Neoplatonismo, per gli spiriti non persuasi della nuova religione ft rimasti fedeli alla tradizione pagana, diventa 1 o è utilizzato come la base di una teologia del politeismo : si tenta per mezzo delle idee neoplatoniclie di ristaurare, legittimare e ridurre a sistema tutte le divinità e i culti dell’antica religione. Il Neoplatonismo diventa l’ultima filosofìa del paganesimo, e non solo come un sistema di dottrine destinate a spiegare o risolvere come che sia i problemi di Dio, del mondo e dell’anima umana, ma come il puntello dell’antica religione pagana, con tutti i suoi Dei e le sue pratiche. 2. - Non vogliamo entrare nei particolari di quest’ultima parte della nostra storia; basterà ricordare i nomi principali. Fra gli scolari diretti di Plotino il più importante è Porfirio, al quale dobbiamo la redazione e la pubblicazione delle Enneadi, e che continua la dottrina del maestro esponendola con chiarezza e brevità in quelle Sentenze d’introduzione al mondo intelligibile (’Acpoppori Ttp&s Tic vorjTa), che si trovano molto utilmente premesse all 'Enneadi nell’edizione Didot. Scrisse molte altre opere, tra cui una in 15 libri contro i Cristiani, andata naturalmente perduta. È anche studioso e commentatore di Aristotile; e un passo diventato celebre della sua Isagoge o Introduzione alle Categorie di Aristotile, che tratta delle cinque voci (il genere, la specie, la differenza, il proprio, l’accidente), sarà il punto di partenza delle controversie medievali sugli universali. Porfirio è uno spirito colto, erudito, che vorrebbe riformare la religione tradizionale ; combatte le superstizioni più grossolane, predica un culto puro, senza sacrifizi sanguinosi: raccomanda anche delle pratiche ascetiche. Ea consistere il fine della filosofìa nella salute dell’anima; ma pure accentuando le tendenze pratiche e religiose della scuola, e facendo delle concessioni alle credenze'popolari, si può dire che in lui è vivo an- ’i _ cora l’interesse filosofico. Egli è il continuatore immediato della tradizione plotiniana. Invece con Giamblico, che fu scolaro di Porfirio, avviene decisamente quella trasformazione del Neoplatonismo in un sistema di credenze religiose: l’interesse teosofico prevale: la filosofia diventa ancella della teologia, e della teologia pagana. Giamblico nacque in Calcide nella Gelesiria, non si sa precisamente in quale anno, visse ai tempi di Costantino. È riguardato come il fondatore di una nuova scuola, della scuola siria del Neoplatonismo: ebbe molti discepoli, entusiasti di lui, che lo riguardavano •come un uomo straordinario e divino, dotato di potenza occulta e miracolosa. Giamblico intraprende una ricostruzione filosofica del Panteon pagano, nella quale entrano gli Dei greci e romani e le divinità orientali, tutte all’infuori del Dio cristiano. E alla credenza in tutta questa moltitudine di Dei si aggiungono le pratiche del culto : alla virtù e alla contemplazione, ck’erano per Plotino i mezzi con cui l’uomo si solleva al divino, si aggiunge o piuttosto si sostituisce la teurgia, cioè l’arte di esercitare un’azione sulla volontà degli Dei per renderseli favorevoli, di far discendere in sè il divino per mezzo di pratiche esterne, riti, preghiere, con la virtù di formule simboliche, che ci riedificano nell’unità primitiva da cui siamo usciti. Le formule filosofiche diventano pretesto à stravaganze magiche e spiritiche. Com’è stata possibile la degenerazione di una così nobile filosofìa, concepita con tanta energia speculativa e animata da una così pura fede e aspirazione al divino? Pur troppo il Neoplatonismo portava in se stesso, e già in Plotino, i germi di questa degenerazione: innanzi tutto il metodo delle ipostasi, e poi la tendenza a trovare, con interpretazioni allegoriche, nei nomi o nelle figure tradizionali degli Dei il simbolo dei diversi momenti dell’emanazione del divino. Plotino stesso nomina Uranos, Kronos e Zeus come simboli dell’Uno, del vou* e dell’Anima; e simboleggia pure le due anime con l’Afrodite celeste e quella terrena. Se si prendono alla lettera questi riferimenti, e soprattutto i termini si moltiplicano, si arriva al sistema fantastico di Giamblico. Il quale non si contenta delle tre ipostasi plotiniane, ma al di sopra dell’Uno che s’identifica col Bene, ammette un altro Uno assolutamente incomprensibile, dal* quale deriverebbe il secondo Uno ch’è quello di Plotino; e da questo non deriva semplicemente il vou^, ma prima il mondo intelligibile o pensabile votjtó?) e poi il mondo intellettuale o pensante vosp6?) ; e la divisione continua quando si passa all’Anima: dalla prima Anima ne derivano altre due; e ciascuno di questi termiai poi si tripartisce e si moltiplica in diversi momenti, a ognuno dei quali corrisx>onde una persona divina. Così, abusando del metodo delle ipostasi e dell’interpretazione allegorica, Giamblico trova da collocare una quantità di divinità sopramondane, celesti e terrestri, genii e demoni d’ogni specie, che sarebbero i termini intermediari tra Dio e l’uomo. S’aggiunga poi quell’idea dell’animazione universale, e della simpatia o affinità fra tutte le cose, che contiene una verità profonda, ma che per menti non disciplinate da nessuna critica, apriva facile l’accesso alle credenze magiche e alle pratiche teurgiche. In fondo, anche a traverso a queste esagerazioni superstiziose, non è possibile disconoscere l’antica fede ellenica che tutto è pieno degli Dei, eh’è il motto attribuito a Talete, il primo filosofo. Così il Neoplatonismo uscì dalla scuola e volle agire sulle coscienze, quasi contrastandone il dominio alle nuove credenze. Non fu solamente una dottrina, ma fu l’ul¬ timo tentativo dell’Ellenismo per difendersi da quella religione di barbari, che col suo Dio unico negava tutti gli altri Dei. E si fece campione di questa restaurazione dell’antica religione dei padri, in nome della filosofia, Giuliano l’Apo¬ stata, imperatore dal 361 al 363, morto a 32 anni, che, educato da maestri greci, s’era nutrito dell’antica cultura ellenica, e poi aveva dovuto subire la disciplina e l’edu¬ cazione cristiana; e contro il Cristianesimo si ribellò prima secretamente,' poi, diventato imperatore, apertamente, at¬ taccandosi sempre più all’Ellenismo. Giuliano era uno sco¬ laro degli scolari di Giamblico. Giuliano, da vero greco, adorava il sole, principio di Vita per tutta la natura : ma nel sole materiale e visibile egli vedeva V immagine e come il riflesso di un altro sole, che i nostri occhi non possono cogliere, e che illumina le razze invisibili e divine degli Gei intelligenti. Cosi, alla maniera dei Neoplatonici e col loro linguaggio, egli costruiva il mondo delle Idee e dell’Uno, da cui tutte le cose di- -pendono. Giuliano è stato dqtto un romantico sul trono dei Cesari, perchè aveva gli occhi rivolti indietro, e consumò miseramente i suoi sforzi nella restaurazione di un passato diventato impossibile. Era difficile che il Neoplatonismo potesse fare seria¬ mente concorrenza al Cristianesimo. C’era innanzi tutto questa differenza: che il Neoplatonismo, per quanto tentasse di mettersi in contatto con l’anima popolare, era semplicemente una scuola di dotti più o meno solitari ; il Cristianesimo invece era una Chiesa, una comunione di fedeli potentemente organizzata, e la cui fede si basava su certi fatti positivi, di natura storica, la vita e la morte del Cristo, fatti creduti con una fede ardente, ardente fino al martirio; e intorno a questi fatti si andavano elaborando i dogmi che saranno presto fìssati dai Concilii. Ma la scarsa efficacia pratica del Neoplatonismo si com¬ prende anche meglio se si guarda un momento alle diffe¬ renze dottrinali tra i due sistemi. Una prima e fondamentale differenza è che l’intuizione cristiana tiene fermo al concetto ebraico della personalità divina, e concepisce il mondo non come un’emanazione di Dio, derivante da esso per un processo fìsico o logico o metafìsico, ma come un atto della sua volontà, quindi come creato nel tempo. Dio creò il cielo e la terra: questa • è la base della dottrina cristiana. E a questo primo fatto ne succede un altro : la caduta del primo uomo e quindi di tutti gli uomini, il peccato, che risolve il problema del male; il quale dunque non è da cercare nella materia o nell’ultima emanazione della divinità, ma è aneli’esso un atto di volontà, della volontà umana ribelle al comando di Dio. Di qui il bisogno della ' 1 redenzione o liberazione dal peccato, a cui l’anima aspira; la quale redenzione è resa possibile da un terzo fatto, l’in¬ carnazione del Verbo, del Logos, del figlio di Dio fatto uomo, che prende sopra di sè le colpe e i dolori di tutti t gli uomini, e li redime, per un miracolo di amore, col suo sangue- innocente. Tutta la storia del destino umano è qui drammatizzata in un dramma potente di efficacia. Il ISTeoplatonico, col suo concetto spiritualissimo della divinità, combatterà fino all’ultimo questo concetto dell’Incarnazione, di un Dio fatto uomo, e la considererà come la superstizione più assurda; ma è appunto questo concetto di un Dio redentore che ha una virtù di simpatia e di consolazione per milioni di anime; e apre la via della liberazione non ai sapienti solamente, ma a tutti, agl’ignoranti, agli umili, agl’infelici soprattutto, purché credano nella virtù redentrice del sangue sparso di Gesù crocifisso. Qui si ha veramente un Dio che si può pre¬ gare, invocare, domandargli perdono, ritornare in pace fcon lui, acquistare la vita eterna. Se si paragona questa liberazione con quella che si potrebbe dire aristocratica e filosofica di Plotino, mediante la dialettica e l’amore delle cose belio e l’unione estatica con Dio, si vedrà la differenza. Si direbbe che il Neoplatonismo suscitava bisogni che non poteva appagare. Agostino nelle Confessioni dice: Ho letto nei libri dei Neoplatonici la dottrina del Verbo, ma non ci ho letto ch’egli è diventato uomo, e ha abitato fra noi, ed è morto pei peccatori, perchè tutti quelli che gemono e soffrono venissero a lui e ne fossero consolati. 3. - Tuttavia il Neoplatonismo, nelle sue parti migliori, rappresentava pure una grande tradizione di scienza e di cultura; e si capisce come spiriti non volgari se ne lascias- sero attrarre. t E una pura, nobilissima e innocente vittima delle lotte religiose, nelle quali la filosofìa antica finirà con l’essere vinta e con l’estinguersi, è una donna : Ipazia di Alessandria. . Ipazia era nata ad Alessandria da Teone, ch’era celebre matematico e astronomo. Eu educata e istruita dal padre nelle scienze in cui egli era maestro, ma il vivido ingegno della giovinetta cercava altro alimento, e studiò con passione la filosofìa. Dicono anche che andasse a perfezionarsi in Atene. Quello eh’è certo è che nella sua città essa diventò celebre, ammirata, e rispettata da tutti. La natura le aveva largito tutti i doni, quelli dello spirito e una bellezza non comune. Fu messa a capo della scuola neoplatonica di Alessandria, ed essa v’insegnava Platone e Aristotile, tutte le discipline filosofiche. I titoli di alcune sue opere sono d’argomento scientifico, il che nella penuria di altre notizie ci permette di supporre che con la sua forte cultura essa si tenne lontana dalle stravaganze degli altri Neoplatonici,e che s’erano raccolte in lei le migliori tradizioni dell’ellenismo. Ebbe un grande successo. Per le strade di Alessandria tutti si voltavano a guardare la bella persona quando passava con semplicità e sicurezza, vestita del pallio dei filosofi, e conversando con quelli che fi accompagnavano. Alle sue lezioni affluivano gli ascoltatori, non tutti probabilmente per imparare la filosofia. Della sua eloquenza ci è detto eh 7 era dolce e persuasiva, e ci è riferito pure che un suo scolaro s 7 innamorò di lei, e osò confessarle i suoi patimenti. La nobile donna cercò di calmarlo, sollevando il suo spirito e distogliendolo da desi- derii non degni. Pur troppo noi non la conosciamo altrimenti che da quello che ne dicono i suoi contemporanei. Il vescovo Sili esio, ch’era stato suo scolaro, e le rimase amico anche dopo che fu passato al Cristianesimo, nelle lettere che le scrive e che ancora ci rimangono, la chiama sorella e madre e maestra, e le manda i suoi libri prima di pubblicarli per averne consigli. E nVN Antologia c’è un epigramma {il n. 400 del libro IX) entusiastico e gentile, che fìssa quest’apparizione luminosa, e non pare un’esagerazione. « "Oxav pXénto as, Trpoaxuvco. Quando io ti vedo, io ti adoro, e così quando ascolto la tua parola; come contemplando il segno celeste della Vergine) perchè tu sei cosa tutta di cielo, o nobile Ipazia, con la bellezza dei tuoi discorsi, astro purissimo di scienza e di cultura ». Disgraziatamente, questa storia finisce con una tragedia orribile. Erano frequenti in Alessandria i tumulti per le discordie fra ebrei, cristiani e pagani. 11 prefetto o governatore della città, Oreste, non andava d’accordo col vescovo Cirillo, e ognuno aveva il suo partito: spesso scendevano in città delle compagnie di monaci, che di monaco non avevano altro che'l’abito: erano dei malfattori che venivano a pescare nel torbido. Oreste era uno degli ammiratori ed amici d’Ipazia, e spesso le domandava consiglio. Essa, tutta intesa alla sua scienza e, alla sua scuola, rimaneva estranea a tutte queste contese, e nessuno degli storici nemmeno ecclesiastici formula un’accusa contro di lei; ma nel partito di Cirillo dovette formarsi l’opinione che Ipazia influisse sul governatore, impedendogli di vivere d’accordo col vescovo; e del resto per la sua posizione e il suo insegnamento doveva essere ritenuta come un sostegno o fautrice del m partito dei pagani, e odiata a morte dagli zelanti che non mancano in nessun partito. Fatto sta che un giorno di quaresima del 415, in un tumulto, mentre Ipazia tornava in città in vettura, vide accorrere contro di sè una folla furiosa, e, come racconta Io storico Niceforo, la strapparono dal carro, la portarono in una chiesa, e ivi spogliatala delle vesti l’uccisero, la fecero in pezzi e andarono a bruciarla in un luogo detto Cinaron. Col martirio della vergine pagana si estingue la scuola neoplatonica di Alessandria. Ma riapparisce nel quinto secolo in Atene, e sarà l’ultima scuola. La Filosofia ritorna per morire nella sua patria antica, alla città di Socrate e di Platone; e allo studio di Platone congiunge quello di Aristotile, come già s’è visto in Plotino, in Porfirio, in Ipazia. i) Si può vedere su Ipazia uno studio del prof. Faggi nella Rivinta d’Italia del 1905, e un altro del prof. Pascal nel voi. Figure e caratteri .  -,”;js-w v ; \ PROCLO Fondatore di questa scuola ateniese è Plutarco detto il grande dai suoi scolari, a cui succede Siriano, e poi Proclo, eh’è il più celebre e il più importante. Proclo era nato a Costantinopoli. È un dialettico sottilissimo, ebe al bisogno di sapere congiunge quello di credere; e crede ai presagi dei sogni, alla potenza degl’ incanti e degli scongiuri. Passò la sua vita scrivendo e insegnando. I suoi discepoli credevano sentire in lui la presenza di un Dio. Un giorno, uno .che aveva udito una sua lezione, affermò che aveva visto attorno al suo capo un’aureola divina. Scrisse fra l’altro dei commenti a Platone e un ’Istituzione teologica } che si può vedere nell’edizione Didot di Plotino. La sua opera consiste essenzialmente nel ridurre a sistema tutta la sapienza anteriore. La filosofia di Aristotile è considerata come l’introduzione a quella di Platone, i piccoli misteri che precedono i grandi; e il fondo della dottrina è quello neoplatonico, Proclo dimostra metodicamente come bisogna partire dall’Uno, e come dall’Uno derivano i molti, mediante un processo dialettico che comprende tre momenti : ogni prodotto, da una parte somiglia alla causa che lo produce, e dall’altra se ne distingue, e pure distinguendosene, ritorna ad essa: dunque jjlov'/j o immanenza, TipóoSoc o progresso, iTUKjrpo'f/) o conversione sono i tre momenti di questo processo. Questo ritmo si riproduce a ogni fase dell’emanazione o sviluppo dell’Assoluto, che procede dunque per triadi successive in tutte le sfere dell’Essere, dall’Uno 4 q Cfr. ProCI.O, Elementi di teologia con im’ introduzione di Loia a eco (Lanciano, Carabba). fino alla materia, triadi che si moìtiplicario, perchè ogni momento di ciascuna triade dà luogo a sua volta a triadi (e poi a ebdomadi) subordinate. Ne nasce una costruzione eh’è insieme un 7 architettonica di concetti e una gerarchia di divinità mitologiche, alla maniera di Giamblico : una filosofia compiutamente messa in ordine, coi suoi scompartimenti e le sue formule tecniche, che ha pure trovato i suoi ammiratori. Vittorio Cousin ha pubblicato le opere di Proclo, e Giorgio Hegel ha riconosciuto in lui uno spirito sistematico e. sistematizzatore come il suo. Quello che si può dire in generale è che il pensiero greco vive oramai del suo passato: per parlare con Piotino (e col Windelband), lo spirito greco, a traverso le sue emanazioni, finisce col perdersi in questa scolastica. E la morte naturale della filosofìa antica, per esaurimento, è suggellata da un atto di violenza, da un editto dell’imperatore GIUSTINIANO nel quale si ordinache nessuno insegnasse più filosofìa in Atene. Così si chiudeva per ordine superiore quest 7 ultima scuola, della ([naie furono confiscate le rendite, e i filosofi dispersi. L’ultimo scolarca fu Hamascio, il quale col suo scolaro Simplicio, il celebre commentatore di Aristotile, e altri cinque neoplatonici, ripararono in Persia, dove speravano protezione dal re Cosroe, amico della cultura greca. Poi rimpatriarono, ma la scuola rimase chiusa per sempre. Una filosofia non cristiana era diventata impossibile nel mondo greco. San Pietro Vernotico, Br. Giuseppe Melli. Melli. Keywords: AVRELIO. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Melli” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Memmio: la ragione conversazionale e l’orto romano -- Roma – filosofia lazia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A bit of an enigmatic character. LUCREZIO dedicates his great Garden poem to him. He acquires the ruins of the house in Athens where Epicuro starts his Garden. Gaio Memmio.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Menecrate: la ragione conversazionale e la scuola di Velia -- Roma – filosofia campanese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Velia). Filosofo italiano. Velia, Campania. A pupil of Senocrate. Menecrate

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Menestore: la ragione conversazionale ela scuola di Sibari -- Roma – filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Sibari). Filosofo italiano. Sibari, Cazzano all’Ionio, Cosenza, Calabria. Pythagorean. Giamblico. Menestore.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Menone: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – gl’ottimati di Crotone -- Roma – filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotone). Filosofo italiano. Crotone, Calabria. A Pythagorian and son-in-law of Pythagoras, according to Giamblico di Calcide.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Mercuriale: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – il ginnasio – filosofia emiliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Forli). Filosofo italiano. Forli, Emilia Romagna. Grice: “At Corpus, as it had been at Clifton, cricket featured as my priority, -- philosophy came second!” Celebre per avere per primo teorizzato l'uso della ginnastica nella filosofia. Suoi sono anche il primo saggio sulle malattie cutanee e un'importante saggio, forse la prima mai scritta, di pediatria.  Ritratto raffigurato in "De arte gymnastica.” Dopo aver studiato a Bologna ed aver conseguito la laurea a Padova, dove ha modo di conoscere TRINCAVELLA, segue a Roma Farnese. A causa della sua fama, infatti, i forlivesi lo inviarono come legato presso Pio IV. Pare aver composto il suo celeberrimo saggio sulla ginnastica.  E professore in entrambe le università dove studia. A Padova, in particolare trascorse un periodo molto fecondo, in cui scrive saggi, alcuni dei quali basati sugli appunti presi dagli studenti durante le lezioni. Si reca poi a Pisa, dove divenne tutore di Ferdinando I de' Medici e poté godere di una certa fama. Cura anche altre importanti personalità del suo tempo, tra cui Massimiliano II, che lo nomina cavaliere e conte palatino. Merita di essere citato un famoso episodio che lo vede convocato a Venezia insieme a molti altri filosofi illustri, consultati per decifrare una misteriosa epidemia che colpiva la città. Escluse fin dall'inizio un caso di peste, in quanto solo una minima percentuale della popolazione si era ammalata e il contagio resta comunque molto limitato. Dopo una settimana però la malattia ha un decorso impressionante, colpendo un terzo della popolazione veneziana tra cui anche alcuni familiari del medico stesso. Sorprendentemente però tale evento non ha gravi conseguenze sulla sua carriera che, anzi, durante lezioni che tenne a proposito della peste, continua a difendere la sua posizione riguardo allo sfortunato caso veneziano. Fa restaurare una cappella dell'Abbazia di San Mercuriale di Forlì, trasformandola in cappella di famiglia, da allora nota come cappella M, dove egli stesso venne sepolto. Ai monaci di San Mercuriale, lascia in eredità la sua biblioteca, purché essi si impegnassero a tenere tre lezioni settimanali di filosofia. Ricevuti i saggi, i monaci, per custodirli e renderli fruibili a tutti, aprirono una biblioteca pubblica. A celebrazione ed a ricordo di M., e murata nella cappella una lapide con le seguenti parole. Questo marmo ricorda ai posteri che i c forlivesi commemorando presso la sua tomba riaffermavano il connubio eterno nei secoli tra la scienza e la fede. Saggi: “De morbis muliebribus”, Cultore dell'opera ippocratica, “Censura et dispositio operum Hippocratis,”-in cui discusse in modo critico le opere del medico, “De arte gymnastica,” la prima opera moderna che consideri scientificamente il rapporto tra l'educazione fisica e la salute, ma anche un testo sulla storia dell'attività ginnica. Oltre a questo originale argomento scrive saggi di pediatria, di balneoterapia, di malattie della pelle, di tossicologia. Fra i suoi numerosi discepoli si segnala Bauhin. Alcuni altri suoi saggi sono: “De morbis cutaneis,” il primo trattato sulle malattie della pelle, “De morbis puerorum,” “De compositione medicamentorum,” De morbis muliebribus, Venezia; De venenis et morbis venenosis; De decoratione; De morbis ocularum et aurium Nomothelasmus seu ratio lactandi infantes. Dizionario Biografico della Storia della Medicina e delle Scienze Naturali, Liber Amicorum, Citato in Landi, Credere, dubitare, conoscere. De M. vita et scriptis Victorius Ciarrocchi, Latinitas Opus Fundatum in Civitate Vaticana. Santa Sede Dizionario Biografico della Storia della Medicina e delle Scienze Naturali, Liber Amicorum. “De arte gymnastica” Pediatria Dermatologia, Treccani Enciclopedie Istituto dell'Enciclopedia. Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. M. DE ARTE GYMNASTICA Libri Sex, IN '^VIBVS EXERCITATIONVM OMNIVM \\cii(hii um scncra.Ioca.modi, facultatcs, &: quidquid dcniqucad corporis humani cxcrcitationcs pcrtinct, diligentcr cxplicarur . ^uru cditione comSIiores 3 4uSItoreJ fæfi. Ojuis 11011 nu\i,) nu\1ki$, vcnim ctiam omnibiis antiqiiarum rermn cosnolccndariim,^ et v.ilcnidinis coiiUrna;u)ac ftuJioias .idir.Oilum vtilc. AD MAXIMILIANVM II. 4 IMPERATOKE VENrETII.S, ATVD IVNTAS. MAXIMILIANO II IMPERATORI INVICTISSIMO. HT ERONYMVS MERCVRIALIS pcrpctuam FclicitatcitLD. I quando mccum^ diliircTirius confidcro, MAXiMIlJANE Jnuidjllimcquot, quanraquc Impcratorts, /ummique Princi pcs prohominuui laIutc,,6C tranquillirarc tam bcllo.quam pacc gcfTcrint, in cam facilcdcfccndo fcnicntiam, mcrito, arquc oprimoiurc omncsfcrc gcntcs, 6C nationcs fccilTc, quodcos dignos cxjfhmaruntjquiin Dcoiumimmorralium numcrum rcfcrrcnrur . inrcr ca ucro, quac in humanum gcnus innumcracontulcrunt bcncficia,magnajn partcm fibi vcndicanrarrcs p(oic omncs Iibcralcs,quas maximis propofitis pracmijsnoncxcitaruntmodo.atquc cxtulcruntali quando iaccntcs, fcd ita ctiam carum dignitatcampljficarunt.vt ipfi (oli illarum au(5loics,ct inrtauratorcs propcmodum vidcanrur. Jd facilc pcripiccrc quiuisporcft,qui militaris difcipli2 nac. n&c,leg(nTi fcientiævcafitekmrncju^fine qui-' bus ta bæc noil^fi ferc u icalisiipn effe t Jaudandarum artium ortus, &C increriicnta mctnorta velitrepetere : fed ne Imperatorifapientiflimojquæomnibuspaflim notafunt,reccn-r 1 fcndo fim moIelUts, vnum' mcdicæ artis omnium vtiliffimac exemplum proponam, quac proculdubio aut nulla cflct, aut-ccrto cuhl» qucm hoc tempore pracfcfcrt fplcndorcm, 6C cicgantiam non habcrct, nifi Principum benighitasjfinequa omnis plerumque languefcit induftria,famniisviris illius au(fboribus aflulfiflct. Etcnim quantum a primisillis tempOr ribus quafinafcenti medicinæ attulerint auxi Iij Cadmus, Salombn, Alexander, poftcrioribus vero Attalus, Ptolemæus, Nero, Hadrianus, Cortftahtinus luftinus, alij permulti, compluriura Dodorum hominum^ monumenta tefteintur. Verumtamcn vt aha '»'1, omittam in præfentia, non cxigui momcnKfc^ ti putandum id cft, quod magnificentiftima, comii atque^ ampliflima Gymriafia^ cxftruxcrunt., ttmpJ inquoijsartenL, GymnafticaiTL inftituentes,. pcrlic^ ipfiui magiftros ac prifed:os alucrint, qui H,i homincs excrcitationibus, fi^ ad corporis, (DiaJ 6C ad animi fanitatem. confcrcntibus in^biis ftrucntes ad behe, bcatcque viucndum viam opti eommunircnr » Hæc cnini. ars illa. cft, ' Inc ob quani. olaiL, PerfaruiTL reges, Lacedætarct, monij. Dfllll 3CC( m ii ni [DSti i\m fcosi torcs, monij, Athenienfcs, Romani icain bcllisgcrendisvalucrunt, vtfæpe non maximamanu incredibiics hoftium vires frcs;crint, mnumcrabiles copias fudcrint, tot dcnique rcgna.totquenationes fuis ditionibusfiibicccrint, utnc recenfcri quidcm numcrando facilc quednr. . Hac eadem inftrudi, non dcfucrunt rrincipes, quiaducrfusqucmlibct Athlctamroborclimt. aufi contcndcrc, qualcs fuilVcCyrum, Neroncm, Traianum, Antoninum, 6C Seucrum acccpimus, quos prætcrquanL quod hac fola^ arte fanitatcm conlcruaflc, fortilTimosquc cuafiflcmcmoriæ proditumelt, obhancquoquc cauflani. idcosfcciflc vcrifimiiecfl, vtcactcrosfuo excmplo ad eafdcm cxercitationcsinuitarcnt. Huiufmctartis opcquisignoratprifcos rcgnorum, 6C prouinciarum gubcrnatores Athlctaruni., (SCgladiatoruuLfpcdaculaadfubditosin oflicio continendos prudcnter cxcogitata iiitroduxiflc ? nc plurima alia commoda rcccnfcam, quacg)'mnaflica,quot tempore floruit, ad humanam fclicitatem^ perficicndani. fcmpcr vbcrrimc pracflitit . Scd, qtioplurcs fcimusabhac artc vtihtatcs cmanafle, comagisdolcndumnobis cfl, quibus ncfcio quo mifero fato cummultis alijs optimarum artium fludijs perijt, atquc cxftinda prorfiiscft^undc fit vtvctusilludmilicarcrobur, (SCvcramfanitatcm pcrpauci fint * 3 hoc hoc temporc, quiconfequantar, tbtquemof" borum gcncra quotidie nos infcftent, quot ob cxcrccndorum corporum confuctudincm non cxpertos efTc vetcrcs rationi confcntaneumcft . IIaccautemctfiitafint,dcfpcrandum. tamen non cft, lapicntiffime Jmperator, quincorum fcriptorum bcneficio, apudquos rudis atque adumbrata quædam ilhus delincatio remanfit, ab intcritu poffitvindicari, ac iterum in hominum. adfpcdum, luccmquc proferri, fi dC Trincipum ad hanc rem propenfio adfit, 6Chomincs do(fli, &C antiquitatis periti reperiantur, qui in hoc ftudium incumbere, omncsque ingcnij ncruos contcnderc non recufcn r. Cæterum cur nemo noftris fæculis huiufmodi prouinciam fufcepc rit, fanc pronunciarc non audcorid unum fcio, rcm ficut maximævtihtatis, ita immenfi cfCe laboris. Etcgo, licetmulta cflcnr, quæabca detcrrere me poflcnt, aliquando tamen fum aggrcflljs, quæque Jnter legcndos au nuncperfe(5lius,IocupIetius,(3C pulchrius reditum tuæMaieftatiipfius nomineadferrem . Quamobrcm oro, vt,qua loles incomparabili animi magnitudine,hoc hcet Maieftati tuæ imparmunus, qualecumque tamen tenuitas noftra oflferre poteft, accipere, meque inter tuosnumerare, protegere, acfouere digneris. nam, quamquam me ijs, qui omni difciplinarumatqueartium genere cxcellentes M.T. inferuiunt, comparandum non effe non ignorem : Ci tamen animus Ipeiletur meus,non dubito,quin,ficutnuIIius ftudia in M. T. funt ardentiora,auf nbfcruantia maior, ita aliquo interahosgratiæ tuæ loconon indignus uidcri pollim. Deus Optimus Max.M.T. pro Chriftia ni orbis (aluce dm incolumem, 6C fdicem conferuct. Patauij,KaI.Sexc.Cl3 13 L XXI II. LAVRENTIIGAMBARÆ BRIXIANI CARMEN. tAuxiUo ftctit Phochtgemtoris^ c^ arte y %Artc Coromdcs wcdtdt cclchcrrtmtis oltm vMcmbra, minutAttm patrios dtficfla pcr agros Htppo/yti 3 tAndcm mn72tbus collcgit, Crr' artus Arttibtis aptatitt ?ittcns ^ iutiC7tcmq,carc?jtcm yam lucc acthcria, iam tartara ntgra tc72cntcm Ad fuperas fcdcs ^crcbtreuccauit ab vmbnss Et mcmbrtJ lactos, ocultsq. tnfudit honorcs : ^ucts felttum lumcn fumpfrunt mcmbra tuucntæ: (fonffus ttanuncope Mcrcurialts y C^aura Farncfj afptrantts hcrt collcgtt tn Vnum Gjmnada : qua quo?jdam fc fc cxcrccre rcltSIo (jvrccre maiores y populo fpc&ante y Jolebant . Hæc pars ad ludos fpcflat y pars altera tantum Commcmurat \ tum quts ^tclts fc oHcntat tn armts, Fortts rt euadat mtlcs ^ pars tertta narrat, Stnteay quætncolumes fruent morboq. Vacantes Mortales ^dumytta manet^ docct tvfpcr hatcpxrsy Ordtncquo pofjint homtnes extcndcrc longum Intempus dubtam actatem ^ tardamquc fcmiJam Ducere tnuxpcrtamq. ma/tj curaq. carmtcm; Omnta quac Utuere dtu dtfpcrja, tcnebrtsq, tAbdtta Ctmmerpjs: quæ nttnc dtjitnfla labore ^ Et multo Sludto y tamquam noua fidcra fulgcnt, Scrtptores tnter Cratosy parttcrq. Lattnos . Matth. Dcuari;, avg-ot(7iv ^coov (Tclo^ctTot; npuo^rctiv, Z JiTrOTQi^^y}^ zoiAct X&i^^ctf cc/uvJ)>c^7rip tfx^ot rix^fiC yv/uvctcnfig vvuj ctictX^(ct>C ^TTtTIOV Aov(nTctvov. VvfAVcicnov Tro^vncfig ayoM Trovicov (twv {yfiptc UctVTOioic csropcLSlw UMzJV (Jfii/2xioic OilviTtet T^m arxpSv l\pcavv/ultntus Clcmcns Alcxandrinus Codttis Aurcltanus Columclla Cornelttis (jlfts D.Cyprianus Dtocles Dton Dionyfus iyireopaj^ita Dtonyjius Haltcarnafctis Eptphanius Erafslratus Erottanus Eurtptdes Etifebtus Eujiathtus Galenus Hcliodorus Hcrodottis HerodianuT Hcfodus D.Hteronymus Htppocratcs Homcrus Horatttis loanncs fajjianus D. Inanncs Chryffomtts fof^phus IJtdortiS lultus CapttolifUiS lultus Ftrmtcus lultus Fol/ux lujitutis Martyr Juuenatis Lærtius Laitus Lampridius Ltbanius Lucanus Lucianus Lucilius Lucretius Mar. Aure.CaJJtodorus Marcus Tullius Martiatis Meletius Oribajtus Ouidius n^acuuius D. PauUus Pauilus Qy4eginetA Vaufanias Perfius Petronius arbiter Philofiratus Plato Plautus Plinius T^lutarchus IPolybius ^orphyrius Po/idonms Propertius Pub.Pelleius Pub. VittoT Paterculus ^intilianus T{azes ^fus Sphefius Saluianus Scribomus Largus Senecd Sex. Empiricus Sex.Pompeius Fefus Sidonius A^ollinarts Soranus Ephefus Sophocles Spartianus Statius . Strabo Suetonius Tranquillus Suidas Terentius Tertullianus Themfon ThemiHtus Theodoretus Theodorus TPrtfcianus Theophraflus Valertus Flaccus ValeriusMax. Varro Vegetius Vttruuius Vopifcus Xenophon. INDEX EORVM QVÆ HAC ADITIONE quarta (iintaddita ab aiKftorc. ^ Ccubitus in mcfifa toflcrio-' ribus l{omanisyC^ Græcis prarfrrtirri nobiiioribus ufi" tatiljimus.j i.z.^. B. jiccumbendi modus llebræorum poft liberationc ab ji egypto.y i.i.D. ^ccumbendi modus Hierofolymus vtrttm ef fct qdAiis B^ruanorum in triclinio t\ib is li^isAltioribus.j^y.i.ji. jtccumbcndi uai ia genera, et tex.j z. 2. D. ^ccumbcntcs Vetcres epularifoUtos fuijfe. 67.2.^. Mdiutmcntum de truUnio.jo.^.D* ^tklttæ dtnudabaiAur toticxceptis fubiigacuiis.i-j.B.& C. jiti lct^^^^ iudi qualcs forcnt Cafsiodorus dmjcrte docuit. in ^ilhletica qd magis ualeat r^bur ars. C CEromaaUas aiiprerium iocusubiur.»gchaiv.itrryCh' :!ii acc: bitus lut aitquibus non flaceat» 66.t.E. Chriftus prius quam menfæ accuwberet laua baturyiocufque reponebat.-J^i.V. Chnfiui in mcrfa taceret ne, an jederet . 68.1.D. Conuiui .rurn apud veteres Hebratost&alios genera dmcrja.jo 2. F. toronabantur aiiqui,iicet non pugnajscnt. Crucis tituluscur llcbraicefiracce^atque U tine infcriptus fuerit.j i.i.F. Curfiim milit.bus Diogenes damnauit^ D Emocritus curpcnt^thiis uocarctur. DifctinMndi modus ftpra tciram 7i.l.B. Difcumbir.di mos ?iktn apud yiehræc^s ttm^ pore Chnflijuerit ;& ritalis Medicaci fententia hac dc re expcnditur. yo.i.E* Fnpa qmd effet. Fraucifci Toiedi Cardinalis, et aliorum circa Mariam Magd.iU ii*^m Qhnftipedif lauantemlcntentia.6^ z.t\ Fuiuius rrjhius accepit dgymnafticæ iibris fua dc triciinio C6.1.E. GEntcs J{omanis feruientcs ipforum wtrcs imitabantur.6j.^*P^' deCtnatione Sinecæ JentcntiaCi^diatorum nos nephandus a principibus q oque abuiif ts.l^^.B. Cymnafta in omr.ib^a ferh Cr.iecorum oppi^ dis :.d^r,if.t,jic l\pmæante '\eroras quoquetewpora \().^.& 29. C. Cymnafia num tcmporibus lullns apcri» rentur. in Cymnaftisqui ludiprimum cxcrcerentur^ 224. £. Cymnaflæ an toto femper corpore dcnudu" rtntur. n HEhraci num aciuberent potius quemad modum i\omani,t] Jederent.jl.LX. llcOia^ }{omJnorum rnjn s JcqucbanturtniJi patrvfs i^^ihus ( ontrar la) entur .j i .Z.C licrophiii medid liat ia cum ii Jii umcntis gy mnafUcat.Sfum origoyrrtusyet cur a ludam ai^c fret tur.-j^. i.t, S£dt ndi ad mer,Ja:s cunjuetudo f{p>7^anorum, et aliorum quando ccefta, et ufurfata fiteHtyi.z.^^ Serni,& tibertiin quibus agonibus conten^ derent^ Siteuis ueneris vfus prohibebatnr ante vigi fimum annuw^ Syharitu ornm jo rdidi mo rcs^y U2^C. THcmifiif locusi;orrc^^i4S.y^,c^ Tridinijcur raræ figuræ in marmoribus inueniatur,6j.z.Cn Triilirii\m i^ncrdum Fro^omophrcs: USos capicHtc 6j 2,^. Tridi^ I N D E X. TricHniapeief aUos iabelmUeofqui aut /ig»rosyaut argcntQS,aut aurcos.-ji .lU. rricUimnqnidapHdferuium.Sj.z.B. 7 rictifuum q^tid fucrit non Admodum notum TripcdJS nnejsc tru Hnia.67. z.C. rrcchusud mliitartm qu^i^^c artmpeni* Wibat.l^?*^* Vlrtutum quæ fit prindpMlifsimi. rngendi morrm antiqi4ura pofl bat^ ncum, &ante c$enam Maria MdgdaltfU in Cbrijlo feruduit Ji.i.P. Erophagia quid efscU FIN r s ARTIS. GYMNASTICA. V AMDlv Homincs paucirtlmis rebiiscontcnri lauras mcnfas, &: opipara conuiuia non cognoucrunt, propinarionisciuc poft indudam paullarim confucrudincmpcnirus ignorarunt, (idquod primis illis lacculis cxtitilsc mcmoriac proditum cft ) morbi ncquc apparucrunr, ncquc ctiam corum nomina innorucrunr, fjcurvlquc ad rempora Socratis diftillarioijum,quasGracci Ktcriggovi dicunt,nomcn,c]uonilhodic Ircqucnriuscft, ignoratumc/setradiditPIato.-quadc rctunc temporis mcdicinacaur paucos omnino,autnuIlosvfus, nullaqucpnncipia cxtitif^c cerrum cft: etii Homcrus anriquilliiniis ausTtor fcripfcrir Ac^yprum multashcrbas, multaquc mcdicamcnrahabuifsc. Poftquam vcrointcmpcranriæncfandalucs,coquorumcxqui(itacartcs, dclicatiinma cpularum condimcnra, vinorumquc pcrc^rinac tcmpcraruracintcrhominesiiTcpfcrc, morborum limul varia conrinuo gcncra fuccrcfccntia ad im:cnicndam mcdicinam cos cocCgcrunt : cjua fcmpcr carcrc proH^to licuifsct, nili humana, vcl ponusfcrinaingluuies omnium uiriorum fobolcs cius ufum omniummaximencccfsarium cfrccifstr. Mcdicina vcro tamcrfi primo illo orru rudis admodum, inculraquc fucrit, quando priici illi ( ut Hcrodotus, &: Gaknus rcfcrunt ) ac^roros palam cxponcbanr 'i'" vrvnafquifq.quodutilc,arquccxpciimcnriscomprobarumhabc-r£^^ bat, alrcrumcdoccrcr, poftcrioni)us ramcnfacculis abAcfculapioKpidauriocognomcnro apud (yrcnæos mcdicomiriricc ex ornara fuir, &: quafi cx rultica urbana, concinna rcddira : quam tamcn omnino pcrHccrc is ncquaquam potuit, quippc quiVolis morbolJs, ac languenribus opcram nauans id vnum fcmpc r curandi ftudium habuir: fanorum curam aut vllam dsc ignorauit, aut eam prorfus contempfir : quod poftca fucccfsorcs illi us inrclligcntC5 adco cxiftioucionc dignam rcputarunc, vt medicmam fine hac Qijmnastua. A totam imiicam, nulloqnemodopcrfcaam cflcpoflepcrrpexcnnr. D Arq. hi fucre primi Hcrodicus Seiymbrianus, Hippocrarcs cius difcipulus,cjui curariuac morborum mcdicinæ cofcruaroriam valerudinis paf rcm fcrc circa fana dunraxar corporc fatagcnrc adderc uifi funr, arbirrantes non minus præclarum, arque artiificiofum opus cfse fanos homines a morbispræcauerc, quam iJlos ia impliciros Iibcrare : vndc medicina, quæ antca femper quafi virgofuerar,prægnansabillisrcddirafuir, quandoquidem prius foliscurandisægrirudinibuSjtumfaniseriamconferuandispræfeda ert:. An toram cam medicinæ partcm, quæ &:ad fanos, &c ad uiclus rationemperrinct cxrabellulis, ahjsuc donaris, Æfculapij tcmplo dicatis Hippocrates conflauerit: an vero folamincurandis morbis vcrfmrcm clinicem uocaram, quemadmodum Varro, Strabo, atque Plinius credidifle uidcnrur, mihi plane compcrrum non E eft:ni/iquodfuirmoslibcraros morbisin tcmplocius Dci, quid auxihatum efscr,fcribere:]fqucaprimisillis rcmporibusvfquc ad Antonini imperaroris acrarcm non modoin Græcia,uerum ctiam inltaliapcrdurauit: vri pracccrcriscxrabella marmorca Romæ itiÆfcuIapijrcmpIoin infuIaTibcrinainucnra,& vfqueadhanc diemapudMaphæos conferuara inrclligcrel^cct, inquagræce hæcleguntur. S^ctKTuAovg i7rctico7S/3ri/^ct7vc:, y^' xpcif rlvj^flpct, K^iTflSHvctfjHc iJiovg d^^^\uod^, op^ov iui,eM^i, Ji[Smov ^ctpi^Sivc, K^^v7X^pC/Le{^ov '611 n ro^sctj cipiTcu iyz^ovTO 'fhilS Ji/2ci KMj i^^c^y chuoaia YWj-^^a^tqi^CTaf iuTCOcJzf ^uov . Sdnguwcm reuomtntt JulUno deJfCTAto Abomnihushomimlt4S €x oraculo rejpondtt Dcus y n.^entrct ^ cx ara caperct nuclcospt^ my comcdcreta;na cum melle per tres dics : conualuit ^ ^ rtuens ptibliccgrattas egit præfente populo. ajuxi^ oLAixfvovoc; \6iK0v utToi /uiAtrz^;, Ko^^^vpiov aujb^fivaf, KSH^ f&t^ iuipa^ i7np^i(7af ^ 73 JfAi/3"Cf, j^j ivKA ^ W^aiv ShujoaicL m^ici . i J cft: qua i]uicum(|ue occupabantur, ll^ domcllicos mui cs dilij^cntcr oblt riiabant, ac profcqucbantur. fic ubui. Cratcri mcdici rcruus,rcfcrcntc Porphyrio^nouoquodam morbo caprusfuit Jtautcarncs eius ab ollibus abfccdcrcnrrlic tcmporibusnoftriscxfccranda illa gallica pacnc cxitialis lucsuniucrfas rcgiones ucxarc cocpir : ut nullo pado illud, quod ucl podciiorum hominum culpa, uel torruna auc Dco ira uolcnrc contigir, Hippocraci crimcn artcrrc dcbcar, a quo cum duac iam pracdiclac mcdi j;cinacparrcsad lummampcrrcchoncinproucctacfucrint, diuinis cius manibus immorralcs fcmpcr habcndac funt gratiac . Ampliusq. illud actcrnac memoriac mandandum, quod ambac medicinacpaitcslicutidiueifac rc ucra fiint,paritcruarianomina habucrunt, altcraquc 7r^o^,\ccKTPLH, (iuc vyt^ti^m, altcra S%g^wriKH nuncuparafuit, uocabul.s quidcm his tum abopcrc, rumarccirci quam ucrsdntur,acccpt;s, quac quouiam fapicnrcr, arquc ucrc dcpromptac tucrunt, nullamumquam apud ullos mutarioncmfufccpcrunr: qucmadmodum ctiaui ufquc ail pollcriora tcmporahacc inucrcrata pcrmanlit inrer inedicos coniucrudo, ur omncs duas niedicinacparres prinuirias cfticianr,a!tcramcurariuam, alreram confcruatiuam nuncupantcs, quas ob id communi incdicinac nominc plci umquc comprehcndunr ; quoniam curatiua, quac primo C ob maiorcm ncceiriratcm inixnia fuir, id nomcn adepta ell, quod confcruarjua quoquc ei poltrcino adumcla non modo obrmuit, ucrumctiam apud nonnullcs tantam auctorirarem acquiliuir, ut iudicaucrint hanc folam medicinam ucram appcllari debere:illam inccrram,falfam,mcramuc hominum alios deciperc itudentiuiu impofluram cxfiilerc, nempc quac nudis coniectuiis, infirmisq. argumcntis primo ad cognolcendos morbos urarur : dcindc in co f crc omncsfbrtuira remcdia,incogniraquc medicamenra,ur plurimumadhibeant,i^ dcmum ram in iudicando,qi;;im in curando non raro fallantur, quos raincn in grauillimo crroi c vcrfari faciilimc cognofccnr, quicumq. humanas calamirarcs, morborumq. incommoditarcs, qualcs fbrcnr, ni curatrix medicina fuccurrcret » acquo animo aclhinarc uoiucunr : ut non abfq. lumina rarionc iulianus impcrator hanc pro mcdicislcgempromuigaflc uidcarur. Otfmnasiua, A 3 IHN ^»pu,mcty.iAiovoi^v, if /2ovMb-nzm e^r^py,,uciTcv oi^oyXi^rHg vu^gcv roig XoiTTOic: ;^^ovotc s abomnibuscurialibusminiltcrijsimmunesuiucre. ' c De confiruMkcicfmihus,c Galcno crebro fcriprum reperitur, exercitationcs, tot atquc tanta ad uitam fanam traducendam bona præftare, quot et quanta uix vlla alia medicinæ initrumcr i præftant . Quod fi Hippocrates in lib. de Locis in hominc fcripfit Gymnafticani,& medi cinam cotrarias efre,quoniam altera permutatione opus habet,altera non de fola ea medicinæ part e fcrmone habmt, quac i n medendis decumben tibus clinicc a pofterionbus yocata,folum uerfatur.Plato ctiam,atquc Plutarchus q uando dixcrunc r K I Ai V s. 9 A r. nr cUiascflc c.u.i corpuslu.inaniini vcrfuitcsaitc-s, nicdicinain, &: gymnafticani, non ob id, qncmadniodum Era(iftratus 6c Scdtatorcs> illasfciunxcruncfcd communcm hominum loqucndi vfum fccuti funr, qui, quoniam pollcrius i:\mnaftica mcdicina inticnra, ciq. adncxa clt, cas diucrlas nulla alia rationc diiCti dfiwicbanr.Cctcrum quid fithacc ars cxcrciratoria pymnaftica gracco nominc nuncupara, ab cius dcfinitionc, fiuc dclcriprionc pcrcrc dcbcmus, quam crli luculcntcr cxplicatam apud Piaroncm habcamus,a nullotamcnaho, quam a(^.aIcno nortro cam 6^ brcuius, &:iucidm^s ^^^.^ dcclaratam crcdo, ubi iradixit:» Tfc;^Kii y\Jiiy(tstKH Uut Intsni/M rn^iv -^i •TTiiTiyvyL^WTmJ^iti^fi^ hoccftgymnaiLic a cllquac omnium cxcrcitationumfaculrarcs nouit, aut porius, gymnallicaarscflfcicnria potcntiacomniumcxcrcirationum. Qu )in loco animaducrtcnB dum cft, Galcnum fcicntiam non propric, fcd cf>mmuni:cr, ut plcrumquc auftorcs folcnt, acccpillc, proptcrca quod gymnaUicacumprofincopushabcat, &:fcicntiac nullum opusconlidcrcnt, nccclfario a vcra fcicntia cxcludirur i quamuis alioqui caulfas cxcrcitationis virium facpilfimc contcmplctur : clt mlupcr animaducrtcndum, Galcnum hac dcfinirionc gymnaflicam a pacdotribicadiltinxiifc, quoniam illa ramquam impcratrix&: cxcrcitationum qualirarcsomncs, &:carum cauflasfpccularur, impcratquc, hacc vcluri minillra ilhus cxliflit, pcrindc ac gymnalla crar, quiomnium cxcrcirationum potcnriasprobcnofccbat, casqiiC, prourfanitaxi,&: bonohabitui cxpcdirc iudicabat, diucrfis homi-nibusimpcrabat : pacdotri ba ucro, qui cas, quomudv:» fi-^rc dcbcrcnt,*&:pofscnt, rcipfa dcmonllrabar:arqi:c hoc acni':!maricc cxC plicauit I^olybus fiib his ucrbis: TreuJ^oT^lRxi roU^J^tJ^iaKovciTretix^ ttffctok Kxri f^tiop, iJiK^uf JtKxlt^y ifcrrcrrt. KMTTuy i^oc^up Bii^i^fz^cUy jc u. cariKiA/usxyKetliKr^^tsx: idcft: Pacdotr bac h( c cui ccnt pracuancan (ccundum lcgcSjiniuriam fKcrc iuftc,dccipcrc . furari,rapcrc, viminfcrrchoncftiflimc, &: turpiffimc. Nam ii quisluw irorum, &: ahorum, quia pacdoiribiscdoccbanri:r,adtioncsacftimcr, liquidoconfpicicr ualdcijsaflimilari, quac aPolybo fcripra funr, ficquc gymnaftam, &: pacdorribam noii parum dilfiniilcs faifsc:vcrumramcn, cum intcrdum unus vtriufquc munus implcrct, noii immcrirocxiftimaucrunt aliqui has duas ancsunam, atqr.c candcm cfsc, uduti nonnumquamidcm&:miliris lir.pcraroris oflicio pcrfungitur; arramcn (ialcnus cascfscdilbnCias voluit,dum gymnafticam uocarircfpcituhabitoad folam cxcrcitationis quahrarcm ' « L i u E R. litatumnotitiam, quæ opmtione ipfa nobilior cd; pacdotribi-D cam clici ob aitum ipfum cxcrcendi, vtpote /gnobiliorcm contcndif, haud ahter ac ii dixifscraltcram harum fpeculatiuam, acarbitram,&:iudiccm;altcram pradlicam efse, quæ omnesinterdum vna gymnafticæ appellationc a matcria, circa quam ucrfantur, utpnarmaccurica,fufccptauocarentur;ficutifpccuIatiua,&:praaica mcdicinæpartes unoircdicinac nominefacpenumcroappellantur led quod ucrcficuti dcclarauimus,eymnartica talis efse: gymnaflaq.&pacdotriba difl-crrenr,AriIloteIis tcftimonio quoq. copra Darelicef,(^nipnncipioquaniPoIiticoruhoc fcrip:u rehquit: eV fiftnir" ^ a "r 'i"'^' P'''^us aliqd' pcrfcdc cxMunt vniuseftconfidcrarcquid cuiq. conuenia: g^ncrSeu e^ cac ^ft '^P^^ omnibus.Etcnim hoc gymnaftitarcs opere ipZdoc^"aricuandae^elSptim co^oo ifM "^ ci. Dixi huiusartirtX?/r^ '"'f^'^ pcrfeaam, qiltum? . oo tcft "r"".' ctKuiiutl.ancfciSfnV.bai^f' "1"^ uerfanI Bfit 2(ifl liOQ iit nimi licoj niin, . II A iJCrfantiir > circa quas gymnaftica mcdica,ut in fcqucntihiis fum cicmonftrarurns, quando in iingulis cxcrcitarionum gcneribus cicclarandisquomv)do in vnaquaquc gymnaltica locuin habucrint fcparatim planuni laciam: nihilominus magnopcrc intcr fc dilcrcpanr,caunaqucraliscliffcrcntiacnullaaliacx(i(litpractcrllncmfingu]arum,quoHncomncs lacultatcs diftingui fcripfit AriftotclcsrNain ludorum hnis crat rcligioquacdam,qua Anri(^ui opinabantur fcfc Di)S rcm gratam illis^Iudis tamquam. promiflam fa^uros -crar quoquc populi uoluptas, cui maximc &c rcfpub.&: Rcgcs, ac impcratorcs lUidcbant, quo homincs u )luptarc dcmul11 in ofticio contincrcntur: undcludoiumcxcrcitatoribustantum honorcmtributumcflbfcribitPhnius, ut, dum cos inircnt,fcmpcr aflurgi, ctiam ab Scnatu, in morc cfl^ct, nccnon fcdcndi ius in J Bproximo Scnatui, atcjuc uacario muncrum omnium ip(is, patribufcjuc &:auis patcrnis, quod tamcn fcruis, quando illi (imilcs ludosinibant, conccfliimfui^rc minimc crcdo . I)c his ucroludis quicumquc aliquid cognofccrc optaucrir,librum Onuphri j PanuiniA croncnfishabcbit,qui omnium diligcntiflimcut cflipfcomnium facculi noari in hiltorijs longc ucrfatiflimus, hanc matcriam tradau:t . Arhk tica lincm habuit robur, ut illius ui pofifct athlcta aducr(aiium*fupcrarc,&:coronampracmiaqucpr)polita confcqui: quamuisctiamapud Graccos,&:I.atinos nonnunquam arhlctac uocati funt, tam illi qui in ludis, quam qui cxtra ludospracmij gratia ccrtabant, quos omncs fub nominc uitiofnc i:yinna(ticac ( dcquainfcruisloqucmur ) Galcnus complcxus cftV C:ac:crum qui gratia bclli cxcrcitationcs pracdiclis obibant, id non ob aliud Cagcbant,ni(iquoagiIitarcm, ac pcritiam compararcnt, quibus pollca,cuinopoitcbat,hoftcsin pugna uinccrc pollcnt : atqucliarum cxccitarionum difciplina vfquc adco fcucra apud maiorcs fcruabatur,utciusdo^torcsduplicibus,quod(cribit Vcgctius,rc-, muncrarcntur annonis ; &:qui pr.rum inilla piofccia-ni militcs,iml profrumcnto hordcum cogcrcntur acci^ crc, ncc antc cisin rriticoreddcrcturannona, cjuam fub pracfcntia pracfccti rnbunorum, ucl print ipum cxpcrimcntis datis oftcndiflcnt fc omncs militiac cxcrcitationcs complcflc . Kx quibus omnibus manilw flu ii cft gymnafticamnollram a pracdictis dillcrcnicm clks^cidcolinnma cumrationcanobisinilhus dcfinitionc politum fincmluilVc,qui cftgratiafaniratistucndac,&:boni corporis habituscomparandi. QiKjducrocxcrcirationum omnium trcs pracd^Cii fiiics,a quibus tria gyninafticacgcncraortafunt,apuductcrcscxftncrint,atquc omnes fn^inumpubIicæfeIicitatisfinemrcIatifint,abuncIe JeclaA rauitSoIonapud Lucianumin Anacharfi cfia!ogo-qua una iJIius oratione,tota hacc fententia noftra haberi rata mcrcrctur,nifi Platonis&alioruminfcriusexplicanda teftimoniaacccderent. Degymnafiicæ fubieSIo y icd nonnullas iScpcrcurinas picrrini ad cxcitandani lirini quaciitasefsc pdicat.ltaq. valdc hallucniatum fuifsc Budacu puto, quinifuisad Pandcctas adnorationibus Komanosgymnafioru,&: palacllracexcrLitamcnris minunc vfus, nulla flrma rarioncprobat. De gymfujis Antiqu0rum. Cdp. Vl. '^'mnaltica.liuc cxcrcirarona in ccrtislocis Hcri foliram^qin iupra Ibtumnisaarioni modo conlcntancum cll,quid,loca ipfa,&: qualia lorcncplanu faccrc . Nam ioca illa nil aliud fuifscq gymnalia nuncupata,cx mulris,&: pfcrrim cx vcrbis Galcni infccundo dc tu.va.fcriprismanifc llo c6probaf,ubi narrat gymnaB llum fuilsc publicum in lcparara vrbis rcgionc locum cxllrudum, in quo ungcbantur,tncabanfur,Iu(flabanf Tdifcum iadabant, aut talc quippiamhiL^itabanr,q loca ira nuncupara fucrunt,qm cxcrciratorcs ibi, vt pluriuu"i dcnudabantur.^^fo^flf^K^it^ jnim antiquifTima vox ctiamdcnudari li^nihcarc vidctur,vndc Marnalis librotcrtio. 0} iocfma£jUJiMmeithiCp4rte,recc.ie i /, mdos pjrce videre viros. EtBardcfcncsapud Eufcbiu li.vj.dc pracparat.Euang.c.viij Craccos ait no poiuiflc vlla vi fidcru prohibcn, quin i gymn afijs nudis cxcrccrcnf corporibus. Vc ru an ocs,&: toti sepcr dcnud arcnf q fini ratis tm gra cxcrccrcnf no cft ita copcrruifufpicor rn,Iu(ftarorcs, pugilcs^tq. alios qu(jsda potuiflc dcnudari qucmadmodfi Athlctis in rfu crat,quos rni fubligacula pudcdis tcgcdis ra in publicis, in C priuarisccrtaminibus habuiliccr ufq. ad Homcri tcpora,a quocoru fit mctio,ojs r6dccoriscxigir,&: hilloria Orlippi ab Euftarhio, &: Paufania relata,cui fubligacula dclapfauidoriadcpfcrunt.ut indc poft modu indultr:,(ir ncc ca gcilarc ira accipicda cil ranc| non magnis,&: impcdictib^ /cd paruis,&: nulli'unpcdimcri uri liccrct,quc inorc vfq. ad fua tcpora Komac ^pduraflc fcribir raufanias. Ad h-ec qnq. fub nomine gymna/i; omncm locu,vbi cxcrcerenf, coprehcnfum fuifserepcritur : lic ut poika hacc vox ad alia quoq. traflata cft, qucadmodu apud Iolcp!i^'i vidcrc licct,qui in libris dc bcllo ludaicobalneaaliqngymna/ia nucupata cfsc dcm61lrat,vbi dc Hciodc ita loquif.Naq. apud Tripolim,&: Damafcum,&: Prolcmaidc publi cas balncas,c] gjmnnfia ciKUiu,Ijil>Iidc aut cxhcdras porticus c6di dir.Hacc loca a Virruuio,C clfo,Plinio,atqucalijs Larinac linguæ audtonbus palacftras nucup.ai i inucniorVndc ct coijcio Vitrumj rcCymmfi!^ ^ jj peftate in Italia.vbl raras admodu,veI nullas extiti/Te palæftras,/luc D gymnafia,qnquit]cis libroarchitefluræ earumædificationcsfradiruruslralicæ conluetudinis nofuifleprædicit.-Naqui primi gymnafiæxædificaflrc crt dunf,fucrunt Græci,licrcdendum cft SoDaZt ^P Lucianu, et M. ^TuIIio Ciceroni,qui in fecundo dc Oratorcfcribit.gymnafia deIcdationis,&:cxcrcitationisgratiaab ipfis pnnuiminftituta fiiifTe. Intcr Cræcosautcmprimi cxftitcrfitLace dæmones,ficur Athenacus ex Ippafifententia,&PIatoin Theact. Sc primo de Iegibusincmoriæprodiderur,quosctiain illa ipfa omniumpræftantilfiina,atqucfpcciofiftimaconftruxiflccx MartialisU bro I .intelligcre Iicct,vbi ho§ vcrfus habct. ^rgiuasgenetatus inter vrhes Thibas larmine caiitft,aut Mycenas^ p ^ntclarami{l)udon,aHtlibidinofæt Ledæas Lacedacmonispalæflras ^ QuovcroPhuoinCritia du Atlanticam illai-egiadcfcribit.q^nouc milliu annoru mteruallo ab actatc fua ante floruifle narrat,ibi gy mnafiæxftaOc fci-ibir,qui LacedæmonQinuctuillafacit, cxade di fcerncre nequeo.nifi totaillaCritiæ narrationefabulosa credam*. PoftLaccdacmoniosAthenienfcsquoq.fuagymnafia crexcrunr,in quoru vrbe tria extitilfe tcftant Paufinias,&: Suidas,altcrfi «W»^/w vocatu,in quo Plato philofophiam fua jpfefllis eft;alteru Avxwa^vbi Anftoteles cdocuit,q(f Apollinis Lycij teplu fuiflc icgitur apud Lu In Anach. cianuiah erfi Kiwttgyis ubi nothi,fpurij,ac ignobiliores oes excrccba tur.fi quidcapud Cræcos tanto odio,tataqueinfamiaviles,acfpurij notabant,vt qui vcre lcgitimi.ac nobiles efscnt,cfi ijs cofuetudinc,aut cocm fefc cxcrccdiIocuhabererecufarcr.Pr.actcr hæctria F mctioncfacit aItcrius,quod Canopu uocat Philoftratus in vita Herodis Attici.Dixi in vrbc Athenicnfium tria fuifsc gymnafia, quod hcet extra vrbcm efsent,erantiiihaud longcacdificata,utqproxima efsct urbi, m ea fuifse dici potucrit.ln his etenim mortuos quo que fcpeliendi confuctudincm Græcos habuifsc fcriptfieftapud -i.Epift.ft Ciccronccui Scruiusfc Marcelluinterfcdum in AcadcmiaAthem».epj;,. nienfiimobilnfimo totiusorbis gymnafio fcpeliuiflefcribit Quæ 1^'' antiqmtatis totius pcritiflin-ius inuenifse fcribit in ue tt.gijs Hadriam impcratoris Tibmtinæ viUæ rcpracfenrara.Athe næu,Hcrn,cu,Pan.'ithenaicu, minime gymnafia, vbi corpora exercercnt, tu.fsc puto:fcd loca,in cibus aut difciplinarfi. &c aliaru artiu ftudus opera dabatur,ucl fefta aliqua celebr5.bantur.vt in Panathe naicofcfta Panathcnaica. Corinthum quoque gyranafiu habuifse, Craneum vocatiim,auclor cft Lacrrius libro tcrrio. eaadcm nulliim pcnc oppidum fuit ( iraccorum, quod gymnafium non habcrct, uf Anachar/is diccrc folebat.Komani poftrcmiomniumgymnafiapalacftras vocata in vrbcad Craccorumacmularioncm Varronc aurtorcacdificarc cocpcrunttquostamcn cacrcros quofcumquc tum magnihccntia opcrum, tum inacftimabih pulchrirudinc in hoc gcncrcanrccclTillc, cx illis I hcrmarum ruinis, quar ad hanc vfquc dicm non finc omnium Ihiporc pcrdurantcs, conrpiciunrnr,facilc conuincirur . nc liicam i!!ud ^ quod dc Ncronis gymnalio fcripdt Marriahs lib.vij^ Qnid \frone peius ^ Qitid Thcrmis mtlius ^ctom^jiis ^ atramcp anrc Kcronis quoquctcmporafuiflc Komac gymnafia cx 1'Iauti Racchidibus, B cuiuslocum apponam infcrius,col!igcrc hccr. Nam gvnmafia tora ahquando Thcrmas ob aquæ calidac vfum ibi frcqucntcm nuncu piri,apud audorcs Latinaclinguacncmodubitat,ficutctiamintcrdum Thcrmac fignificantcamgymnalij parrcm,in qua lauaban tur,ubi propnigcu,laconicu,calda lauatiolitac crant,ut cxmulrisau ^torum tt ftimonijs pracfcrrim cx Mai tialis vcrfibus nupcr ci tarisclarc pcrfpicitur.Ciymnafium^thcrmacftadiu cfthac partc. His omnibu* po:c ft iam vnicuiquc pcrfuafum cflc, (juanrum in criorc vcrfatus fit(inuitus farcor)Blondus loroliuicnfis conciuis mcu.squi in fccundo Komac inftaurarac commcnrario rhcrmas folum ad la oandi vfus inftitutas tuiflc lcriplic. Voiio nc quis forfan admirarionc capiarur,quod dixcrim PIatoncm,arquc Ariftorclcm in gymnatijsphilofophari confucuiflc ;[circdcbct in huiufccmodi locis vaC ria hominum gcncra conucnircfolita fuiflc,quacomnia in fcnucnti capircanobis ligillarim dcmonftrabunrur.ranta c nimcrat huiufccmodi locorumcapaciras,tamq. fpatiofa ampIitudo,vrabfquc ullo impcdimcto diucrfac, ac fcrc iiinumcrac cxcrcitationcs, &: corporum&canim^^rum pcragi pofscnr,qucadmodum cx Vitruuij allaradcfcriprionc pcrfpiccrc quiuis mcdiocrircr Iiac in rcvcrfarus potcrit ; quam cum in rcbus plurimis diucrfim cx Odaui; Panlagathi viri tcmpcftarc noftra fummi iudicio in prima cdirioncrradidcrimus,nur ipfa diligcntiusconlidcrara (vt icmpcrcuracpoftcriorcs cfse mcliorcsfolcnr)caftigatiorcm,&:omnibus Virruuij ucrbis cxaiXQ corrcfpondcnrcm cxhibcmus.ad quod agcndum clariflim is Aloyfius Moccnicus, Prancifci hlius, loanncs Vinccnrius Pincllus, Mclchior Guillandinus, uiri tum ob acrc in cunvtis iudiciu, cum ub lingularcm cruditioncm apud omncs fpcctatiifimi, nccnon B 2 Andreas Palladius prifcæ totiusarchiteduracpcntiifiiriusnon pa D rum adiumciuo nobisfuerunt.ita utnon vcrear.quin hoc pado do^is,Vitruuijquefc]entiacftudio/isprobatæucniat,&qucmadmodum ad hanc fcrc diem palæftræ ratio fuit incognita, fic in pofterumclara,afquemanifcfta futurafir,Immo vcro,fi Odlauiusipfcrcuiuifcerct,non dubitarc,uterat homofanfliiftimus^arq. dodilTimus, quin ctiam ipfe huic defcriptioni, Sc Vitruuij contcxtui non mutato.fcd in aliquibus tantum rælius ordinato Jibentiflimefubfcriberet.Placuif autem duaseiusichnographiasproponcre, quiaaudor &: cmadratas,& obJongas ficri pofse docet. De paUeHramm ædifiuttone^fs' xyftis^ex VitruuioLib.V. Cap. XI Vnc mihi videtur ( ramerfinon fint italicæ confuctudinis)paIacftrarumacdificationestradere explicate,&: quemadmodu apud Græcos conftituaturmonftrare.lnpaIæftrispcriftyJia,quadrata.fiue obJogaita funt facicnda,uti duorum ftadiorumliabcantambulationiscircuitioncm, quod Graxi uocnmJ^uuajUv.cx quibustrespor . ^fif"I^'iccsdifponanrur,quartaqucquæad mendianas regioncs cft conuerfa dupJex.ut cum tcmpcftates uento iac Junt, non poftitafpergoinintcriorcmpartcmperuenire Conftituunturauicmintribusporricibus cxhcdræ fpatiofænabentes lcdcs,in quibus pliilofophi, rhctorcs, reJiquique qui ftudijs deJeftantur,lcdcnrcs d.fputare p*flint. Jn dupl.ci autcm porticum F colloccnrur Jiaccmcmbra,Lphcbacum in mcdio (hocluuem eft exhcdraamplil],macumfcdibus.quactcrtiaparteI6g^ lata ) lub dextro conccum, dcinde proximc coniftcrium,a conifte nomvcrfuraporticus frigidalauatio, quam Græci aovW: itafacla,ut in partibua, quac lucrint circa paricrcs, &c quac crunt ad columnas,nurgmc&habcantuti lcmitasnon minuspcdum dcnum,mc diumq. cxcauarum,un gradusbini (int in dcfccnfu fcfquipcdalia marginibusadplanicicm,quac planiticslit ncminus lata pcdum du(K^ccim: Ita qui ucftiti ambulaucrint circum in margmibus noa impcdictur ab cun^^tis fc cxcrccntibiis. Haccaurcm porticusapud Graccc^ jyoii 'lociutur,quod athk tacpcrhibcrna tcmpora jn tcdi$ rtadi js cxcrccniur. Proximc autcm xyllum, et dupliccm porticum deilgncfnrtrhyp^icttirac ambuIationcs^qitasGracc/irtfi/ftf/j^i. /flff^noftri xylb appcHanr,!n quas pcr hicmcm cx xy(h>fcrcno cuclo arhlcrac prodcunrcs cxcrccnti:r.I-ac iunda aurcm xylta lic uidcn tur,ut lint intcr duas porticus (iluæ, aui platanoncs, U in his pcriiciantur intcr arborcs ambulationcs,ibiquc cx opcrc fignino lUrio ncs. Port xyllumautcm Ibdium ira fiuurafum,ut poflint hominum copiac cum laxamcnto arhlctas ccrtantcs Ipcvflarc.Quac in ntocni buincccflariaujdcbanturclfc.ui aptc djlpoiuntui,pcrkrjpil 21 tigura paJacltræ cumpcnilylioqinidrato Occafus g a B s II a •[? 0• D • • 90 Orrus A Pcriftylium in palæftra quadratum&: oblongum habcnsam-D . B Trcsporticusfimpliccs. C Portiaisquartaad meridianas Cacli regiones conuerfa, quæ duplcx eft. D Excdrac in tribus porticibus fpatiofæ,in quibus phiiofophi, rhctorcsdifputabant. E Ephoebeum,ideft cxedra tertia partc longior quam lata. F Coriceum a parte dextcra. G Conifterium. ^ H Frigidalauatio in verfura porticus. I Elacothefium adfiniftram ephoebci. K Frigidarium. L Iter in propnigeum in verfura porticus. E M Propnigeum. N Concamcratafudatiointrorfuseregione frigidarij ion^itudine duplcx quam latitudinc habens ex vna parte Placo^ . 3 nicum QJxituseperiftylio ^ Exaltcra Ocalidam iauationem R Porticusextra palæftramprima exeuntiLus. S Pm-ticusfecunda fpedansadfcptcntrionem duplcxamplifllma iatitudinc&ftadiata. T Porticus tertiafimplexitafadauthabcar. V Margines circa parietes. X Marginesadcolumnas. Z Mediuexcauatumuti gradusbinifintindcfcenfufcfquipedali F « Hypethracambulationcs proximcxyftum, &: duplicemporti-' cum,quacaLatinisxyfta,aGraccisiirt^;/f,^i^uocabantur. D J>iluac ucl platanones intcr diftas duas porticus. y Stationes ex opcre fignino. Stadium itafiguratumutpofsethominum copiaccumlaxamcn to athletas cerrantes fpeaarc. % Locadequibusl etfinon meminerit Vitruuius^ fiufst tamen in palæftrancccfse ut lignarium,iiquarium, uafarium, latriBtc naimihwum ctil«, &: finailk. . Dt '^itrijs Imninum generibns, quæ itj gymtiaJiA comonebAnt. Cap. VIL 25 metli. B Aiua, adcoquc varia hominum in gvinnarijs conucrfantium crat multituao, vr,rcfcrcntc4nihifaf nBrtffn y pJtrijwfj. 7\0kercar, Et ficuti ctiam Galcni tcilmionio comprobatur^qui Tl.cagcnis cuiufdamphilofophi Cynici in Traiani gymnal'H)quoridicpublicc difputantismcntioncmfacit : Triacnim fuidc Komnc h)caJii quiin in lib. bus lirtcrariac cxci citationcs obircntur, cx varijs Ga!cni !il ris colibru C gnofcitur,tcniplum pacisantcquamconflagiarct, gymralia publica, cW^fK. Intcr-quac fcholam mcdicorum appcllatam (iquis rcccnicat mcafentcntiaa vcronon crrabit. fuit autcm ca iii hfquilijsacdificata, multLsq. imat;inibus, atquc rriarm(>fitK>ncs, 5c aliaincdicinac Itudioforum cxcrcijia liimlcquid trad.in folituin iiiiflcatquc nunc incollcgijs vocatisfir, qiiandoficfcholam eiufmodi propnos rai>uUrios habuiife, oftcndit marmor cnm hac infcnptionc Romæ ad D.Scbaftiani rcpcrium. M. LIVIO. CELSO. TABVLARiO SCHOLÆ. MEDICOKVM M. L1 £ R M. LIVIVS. EVTYCHVS E ARCHIATROS. OLL.D.I/. IN. FR. PED. IIIL Alterum genus crar,Adolcfcentcs,qui vr cxcr. itationu obferuationes,atq. modos addifcerct,ad gymna/ia acccdcbar,vbi a gymnallis ipfisquafcumq. cupiebatexcrcirationes, edocebarurj Adole/ceres hbcros palæftra cdifcere folitos fuiiTc facile couincirur ex iJIis Par InEunu-menonisapudTerenriiiverbis, quibusiileCherea fub formæunuchi Thaidi oflfercs air,Fac periculumin lirferis,fac in palæftra,in muficis.q hbcru fcire æquu eft adolefcentc,foJiertc dabo.id q^ cJa,, riusmfra demoUrabo.Tertiugenuserat Athleræ qui ibi feexerccbar, vt in publicis Uidis, fcu in facris certaminibuspoflent&populu dele(aarc,nccn6 vidoria ac præmijs potiri.&: qj-hoc fuerit,prererVirruuijauaorirareSueronius clariilime demonftrat du refcit E Ncronc qiiandoq. gymnafiu ingredi foIitu,vt cerrares arhJcras fpectai ct.Quartu genus crat ocs iUi fiuc nobiJes,fiue ignobiJes, qui ue! miliraris difciplinac,&: forrirudinis,veI tuedæfaniratis,&: boni habituscopamndigratiavarijscxcrcitationugcncribusinciibcbanr de prionbus elt locus apud Cafliodoru Jib.v.epift.2 ^ maJc a Pamclio m adnor. ad Tcrrulliani lib. dc fpe«ft. inrelJeau, vbi ita fcribir Oflenriuucncsnoiha in bellis,qd in gymnafio didiccre virturis.ln Inic' l.^n '^' poflumus, cum fcribat -.c. e anno ætatis fu? tr gefimo quindlo pafllim fuifle luxarione fummi humcn,n paJacflra.Quindtum genus erar corum.qui fricabaruX cer n.fndbones ficrcnr a mu Jris ante rcJiquas cxcrcitationes,nihiJo^irr^smnln quoquc fine vJJa excrcitatione feorfum ab aH;, ut dc C.alcnofridione adexcrcitationcspracpaKuoriaareliqufs diftin S;;Hn^ bihorcs.Hoc tamen intcrerat,qct diuitcs,arq. primarcs Jabra et co lymbuhras^prias in cellis alioVjui comunibiis habcba ^bjf^^ ucrfis tcporibus lauabaru r, mulri crar qui ct folia ucl J.enca vej ar gctcaCqd-rcctat PJinius) fecu ferrcr,nc pcdcs nudos cXc S nJi viJifnmi qu.q. poncbanr, quauis ctia rcftranr nonnuJjXh-hnnm Impcratorc lauan loJitu, vbi plcbs lauabatur quoT& -n^S cX fccifTc cribit Sucronius. Qui vero duntaxatunge7cm?rnuJ^^ gymnafi;s rcpericbantur, quonu uej cxcrcirationTn3l K^^^ grariaungcbanrur. Abhiipoftrcmoonin Cn^ res ( ne nuniflros,dc quibusinfra loq«cmt,r nuncC, cam^ gymnafia conuena banr,qux non ob ^nliud, nifiarvidendos eTe^.;/: . tarores tatorcs ut porc otion,&: nuUis ncgotijs occupati eo ncccdcbar.Qiio in loco id ctiam animaducrtcndum ccfco,dicbus f clhiiis gymnalia ma-islixqucnt:U:ituiirc.qu;UKlc)artificcs,autaIi)sfcrmcijsdctcnti otiantcs in illis ob rcmittcndos Iaborcs,&: uoluptatcm capiundam ucrfabantur. An in Komanorum Thcrmis mulicrcs quoq. ucrlarci> tur,qucmadmodumuiri,nil ccrti aftirimrc auiim,niiiquod Komana maicftatCillud dcdccuilTc vidctur, tacilcq. ficri potcMt impu. rac aliquæ et (peaandi,& ludcdi graria^quod luucnalis.&: Marnalis innuucpublice vcrfarcntur in ^ymnalijs, nccnon in locis lcparatis,quac ibi lauadis tcminis folis cxlli uc^la cn"cnt,pcrindc ac in priua tis balncis honcftac mulicrcs lauarcntur tam ignobilcs et mcdiocri loco natacqua illuftriorcs, cu dc l>oppaca Domiri j Ncronis uxorc LU.c.4.1. referat Plinius, quod ad au^cndu cutis candorO quingcntas aimas B tctasper omniafccum trahcbat, cV balncarum cnam foliototum ^ corpus illo la^c macerabat: quod intcllcxi t luucnalis dum lcriplit. .niir p nguia Poppacana. Saty.^, Spirat et lr:cipit agmfciyitq. Hb laciefonetur Troptcrc^uod/ecumcomiteseducitafelUs. in qucm dcalbandl corporis nfum ihas mulicrcs farinam fiibaccam, alios ninum,aphroni trumuc in balncis vfurpatrc mc minit Galenus. Atqui Spartanorum Primo dc mulicrcs una cum uiris in palacfiris cxcrccri fc confucuillc, practcr aIio5,fatis tcitatumfacitPropcrriushbrotcrtioMultatuæSpartemiramuriurapalæHræ Scdmaj^e vir^inei tct bona^ym^afii^ Quod non infames txetcet lorpore ludos Jntcr luilafjtrs nuda putllas uiros, Cumpii i ueloccs fjUu pcr braihia i^^l.iS^ Jncrepat et ve fnlauis ad tnca trocht, TkluerulChtaq. ad extrtmas fiat ftmina mctas, Et patitur duro vulncrapancratio, 7\(^unc ligax ai cifium gaudentia br,nhia loiis, MiiliUnunc dijcipondus in orbc rotat. Keq. deHoc Spartanoru morequifquam minMi dcbct,quando&: Plato in quindo dc repub.grauiHimis arj:un.cntKs probaiiir ad flli€cm rcrum publicarum ftarum maximopcrc conduccrcfi mulicrcs tamiuuenes,quam fcniorc* una cum viris nudac in pahu (Iris,atquc gymnafijs cxcrceantur, qucd an fapicnrcr dccrc. um f ucrit, ^ an ad conrincnriam tcmpcrantiamnc ex confuctudinc conlequcndam,ut Platoni m animo crat>confcrrci,uon dl iocus cxaminandi. ^"'m qui Augufti Cacfansacrace floruir,folum pnlac % nrasgraccastradiaiflcexipfiusucrbisconftar, quando I' nmidiim Rcrant, c}U;ispoftca cxftru^aas licuii in raulris Gniccorum gymnafijs .'jsnircs fuiiic probabile cft,ita pai-irer veririiiiilc fit Romanos (, vc /olcf cfse poltcriorum in cxcokndis rebus mos) plurafuis addidr(Tc\tj6jac ucl Graccoslatuerant, vclparum ab illis acftimara fu( f>ti>;:tiUOcjixa pai tes gymnailorum magis principalcs cxplicata ftts baudquafjwam folas a Vitruuio fignificatas in mcdium afftram, fcd lihis ni.llo {ku^ ordinefcruato cnarrabo, quai difpedlm ab Auaorilnis tF.uIiras inuenio, quasut rei ipdus rario expoftulare uidcttirio Gruecis,æq, Uomanis palacftris extitiCe : quaquam Vitruuij E au^icrjtasEim nunqua multifacicndam cxiftimaui.nempe quc ■na^ctJ^oiixcyov &i fua actate minimcæftimatum puto, quod enim ab Augufto i.uliis egrcgijs l-abricis, niflfolis Baliftis pnicfectusfuerit, quandofcilicetin vrbc &extra Hrbemmagnifica ædificia cxftrucbanti!r,quod ctanfrFroferc-pofteriorcauaorc nominatus inucniatur,practcrqiia in capituni Plinij libroru caralogo.qui ab aliquibus minimcPIuiianus,ucI fattcm adulrcratusputatur,magnam certe ip Ijuscxiftirnationisfufpicioncm meritGparir. Ergoprimac symnaliorupartcsfucruntporticusexcdris fiuc cubilibus apcrtisplenæ inquibusphilofopiu.&ihctorcs.mathcmatici, et omnis dcniq dilciplinarumamarores difputando,lcgendo,ac doccdo cxcrcc-bantunatq. has non longc ab alijs admodum litas fuifsc conijccrc poflumus tum cxipfa figura,tum cxproucrbio indc nato(Difcfi quam F philolophu audire malut^quod in cos diccbatur, qui in codc aym nafio intcr philofophos fcdcntes.atq. inde difcoru crcpirus audicntcsrcliita fapictiac fchola ad proximum ccrtaminum locum (rumpebanr.ln cxedris philofophorum adolefccntcs arq. pucros illos a difciplinarum ftud ijs opcra nauabant, vcrfaros cfsc rarioni confcntancum cft: quod cfsentillac ucluti icholæ quacda.ubi pofscnt fæillimc poft animoru exercirationcs corpora ad fanirate, uel fortira dincmiuiK:nes&pucricxcrcere/ubindcci.lauari.cmtcr»imLa.fflpridi.jauetorrras. AlexandruSeucru poft Icaionemope raml^ pahuitrac modo fphacnftirio.modo curfni.mocto lemL ludTs dcdiircmoxbalncummtromifse . JntCKhasadnnmerocmJ mcdl corv.m /choIas.Secunda parscrar Ephcbaccm, quo mih. vJdfi^c apparet cos conuemrc.atq. dcpracrt,ij^ ^ c^icrccd. gcncrc padio! ncs : 29A nes facerc (oVxtos, qiii hiTiLiI cxcrcn-i, ac ccrtare uolcbant : qiiamquamfciam Philandrum cius opinionis fuiOc, quod iu hphcbaco pubcrcs cxcrccrcnf. qua in rc ipfum ualdc mchus fcnliflc cxiftnno, quam Guliclmum Chouhim, qui in fuo dc antiquoru cxcrciratio^ nibusUbro in Ephcbaco iuucncs ftudcndi gratia lcdillc lcriptis madauit. Vtrum ucro apud Romanos,qui cum uiris antc dccununi fextumannumpucroscommcrcium uHum habercuctabant, hoc ucru tucrit affirmarc noaudercm . Ncq. itcm ncgarc poiUnnus,GaLi.dc i.c. lcni tcmporc. pucros cxcrccri in palaclba confucuiflc, curs cumfP^^^'damacgritudinis,quamCommoduspucr,atq.lmpcratoristiHu$in palacflraacquiliucrat, mennoncmfaciari Sipracrcrcainfccudo dc tu.ua.lic icribat: oCn Kxiou^ ivporis moribus ita loquitur. l^tgo tihi cjims yigimi fui\}c prtmn cop am DiiitHm longc a pdtd^ipio pc.iim vt effcrres ex acdibus ^ntc folcm cxoruntt m mjt in pMdcliram vcncras Cymnafii Tracfccty haud mcdiQcns pocnas pcndcrcs : Idq. vbi obtigcrat, hoc ctum ad malnm arccjfcb.itur malum Et dilcipulus, magislcr pcrhtbebantur imprubi. Jbi curfu, luctando, hajia, difco. pugiUtn, pila Salicndo fc exencbant maps, q ^am icorto, aut fauifs, C Vndcmihicoijcicndu uidctur pucrissumo mancpalacftraadcudi pracccptu fuiflc,ut uiroru,qui tuc noadcrat,c6mcrciu uitarat,atq. cthttcraruftudijsiucubcndioMumfupcrcirct.etcnim non dcfuifl^i-, qui pucros nudos uidcrc,&: ncfandum coru amorcm libi conciliarc cx palæftns ftudcrcnt,facilc cx ainatorio Pkirarchi iib.colligitur. habcturautcxcitatoPlautiloco gymnadapublica Romac cc fuilfc antc Ncroni5principatu,licut&:cxCatullo,acalijs.Tcrfiaparscrat Coriccu,qui locus(ut mca fcrt fnia),p dcnudadis hominibus,^ ucl cxerccnaicl lauari,ucl ut ruquc agcrc uolcbant,infcruicbat,alias a Graccis iTroJ^urift^.Sc a Calcno yvtJHfccsHgiOP uocatus.Nili cnim Coriceuapud Vitruuiumtalcmloculii^niHcatpalacllrasabipfo dcfcriptas abfq. hac parte omniu maximc ncccfsaria cxtitifsc diccnduin cf5Ct,quanonfoluminpublicisgymna(ijs,ucructiaminpriuatisaf^.^^^ tUifsc crcdo,fiquidcmPliniusCacciliusindcfcriptionibusuillac fuac Laurctinæ ac Tiifcoru apodyteriCinteralia adnumerafrunde D illoru fcntcrias jpbarc ncquco.qui Coryceu in Vitruui; textu legcdu putarfita corycopilæfpecic,quafiibi ludui talis agcrefaut cou riceii pro tortrina, aut corycefi tam^in eopueIIe,&: virgines««f«//« Græcis uocatac exerccrentur.Quarta parserateleothcfium a lulio cpi. Pollucc «AujrT/IfMc^aCæcilio Plinio unauarium uocatum, atq. in ifto ludaturi, &c alias exercirationes, uel balneas inituri ungebantur,redungebanrurq. Sed,quoniaopportunirasrci poftulare videtur,ut dc hoc gymnaftico vngcdi munere ucrba facia, neq. Metrodori Scepiij 'sngt T«j«At/7rT««{.ideft,de ungcndi rationc ciratus ab Arhcnæo Iibcr hodie extar,quatuor cgo dica:primij,quado, et qui ungerenrur: fecundu,quæ cfscr undionis materia:rertiu,cuius finis gratia ungcrcntur: quarrum.quo modo, &: a quibus undio adminiftrarerur. llliquivclloturiuelfefecxcrciraturi in gymnafiuucnicbar,maiori exparrefpoliabaturin apodyrerio:poftea horu nonulli, &: præfertim qui uel lucla, vcl pacrarium inire intcndcbat, (na pugiIatorcs,curforcs5ac alij multi undione no egebant) alipteriu ingredientesungebatur,atq.iraunaiadIocu,ubierarpuIuis,dequo loquar mfcrius, trafcunres pulucrc cofpcrgcbantur, ficq. dcinceps m cxcrcitationes diucrfas diucrfi prodibat^poftqufi ucro fele,qnantum Iibuerar,excrcuifscnr,itcruad undUianiireucrrcnrcs ibi a Mediaftinis,& Reundoribus ftrigilibusferrcis,de quibus Martialis, Tergamus basmfii curuo difling^mre ferro, T^ontam fæfe toet lit.tea fitUotibi, detergcbantur, in qua dererfione olcum, puluis,& fudor, quæ de radcbanrur.fimul mixtain ufum mcdicum adfcruabarur, &:ab At!:h4ci ^'i^ aba!ijsueroWTtffuocabarur, urcxDiofcoridcPliF ii.defim. nio,Gakno,&:AcriofaciIliiueconfirmaripotcft: ramerfi Auiccnme.8..& 4 na libr&-fccundo faciat mctionem eriam fudoris ficci arhlerarum Tib"; et quemputofmfscillum, cui nequcoleum,ncqucpuluisincrat ^,o 3 fim. quamuis Galcni acrarc ftrigilcs adhiberenrur ad balnci vfum ni jT' c. 17. ^'''S''" Plerumquc fponeiac crant, uel linci, nequccommunitcr fempcradminiltrabantiTr.fcd quifq propriumfecum gerebar,& pracfcrrim quicumquc communii cum alijs mihumenra habcre f ugicbar, vr infinuar Pcrfius Sar.v lp»er,7i,ur corporaforriorarcddcrcntur.De Hcrculc nanu|uc,& Antco fcrauncm faciens ait, ^uxillum mrmbtis calidas infunditarenas, Plurarchus in libcllodcprimofrigido huius fcnrentiæfu ifseuidc tur,quod athlcrac in uni^iionibus puluerc urcren tur ru ad rcfrigera da calcfaifta corpora,rum ad cohibcndum fudorc,nc ranropcre dclafsarcnrur. Egoaut cum Lucianocxiftimopotillimuufumpulucris cxflirifse, ne olco manus labcrcntur, fcd facilius cxcrciratorcs fcfc comprchcndcrc ual crcr,neue fudore difflucrcnt, aur ucnri corpora apcrta ingrcdercnrur. atq. hac dc caufsa a Marrialc puluis ilk icfi uocarusfuir,ut ibi(flaucfc]t aphc)undc fi qui aducrfariospcructos, &:lincpulucrc cerranrcs uinccbanr, maiori gloria digni habcban^ tur,qualis fuir apud Plinium Dioxippus,&: Diorcus apud Paufaniamjacxtfw/nomenpromcrirus. cuiusrci menrioncm fecit Horatirvira,\d Macccnarcm fcribcns. Ul^.x.cfiJ Quis circum p^^go^, et circum ccmpita pugna x. Magna coroniri conumnat olympia, cui fpes, Cui fit cond tio duli is fire pulucrc pahuæ Ex quo fatis mirari ncquco Budacu,uiru fane doaifnmu, q I fuis ad Padcdasadnorationib. hoc nouidcrir^malucrirq.flfWm.i.aWflr^^ii wc> (cu finc ccrtaminc limplicircr diHu cfsc qq, &: hoc quoquc non abnuo inrcrdu aliquos cfsc coronaros (inc certaminc, ucl qd* aducr fariusrcmporeconftiruto non comparuifsct, ucl,quod ob robur, &:uinccndi confucrudincm a cuncris uitarcrur, cuiufmodi fuilsc complurcs Paufanias, Diodorus, Hcliodoru#s atqucSuidascommcmorant ««ic^wti proprcrca nominatos. Alijfunr,quicrcdantoIco Oymn^O^ca^ C cxcrci34 ( dc vii. cxerciratoresunftoi ad arcedafrigora.&leuandasIaffifudincs.GaD lenusfentit oleum ram ad exoluenda ptcrita lafTirudincm, &: futura niitiganda.quam ad pparandum ad morus conduxinc. quibus cera addita cum GaJeno opinor,quo oleum aIio u'i^'tuariu,&: couiftcrium cxpJicauimus: nuc ccrcras partiin ab codc prcnnifsas,6i: ab alijs indicatas, parrim ab ipfomct cxplicaras prorcqucmur. hrar iraq. fcxra pars lo cus quida palacllra uocari:s,ubi (Jiccbat I.ydus illc PIai:ti^) curfu, ludado,halla,difc(),p yilaru,piia,(aIicdo fc cNcri.cbar magis,qfcor ro,aut lauijs, 6:ubi k ribir Gal.hascxcrcirarioncspcragi folitas luda,pui;ilacij,appcn(ionc manib.ad runcs,cxcrcitarionc,qua ftabant pcdib. 6c manib. in pugnu uinCtis,casq. alrcri apcricndas porrigcbat,qua podcra manib, aftollcbant,6L ua pciiiftcbanr,c}igcnus haltcres uocarucft,fchiamachia,&:armoru pugna:( »alcno ucro afscnricns Oribalius Pcrgamcnus fafsus clk no modo has, fcd &: alias fcxccnras fuifsc palacllrac cxcrcirarioncs. \'ndcanimaducrrcndu cft, palacftia apud urriufq. linguac auvflorcs nuilta (ignihcarcprimo ro ruipsii gymnalifi,ut cituidcrcpencs Virruuiu;fc(to,locuquccumq. cxcrccdis corporib. idonc u, quopaclo locu uscft ( jceroin f.pift. tcrrij li.ad QJ .prima, &: 2.dc lcgibus,du uilia (iia Arpinatc de (c ribcns,palacftram ibi nominat,nccnon \'irgiliusquinclo Acncidos, Td'S in^^am nns exerctt t ttumbra pulac/ttis^ &c Gcta apud Tcrcriu in Phormioncubi dixir, Ecc fi a iua palacftra cxittbras.Tcrtioccitagymnalij paricin qua cxfnia Plauri,Ga!cnr, 6c Oibalij tot cxcrcirationcs facbs pracdiximus,&: cuiusparu tum fordcscollcihas in panno applicatas furunculosmarurarcfcripfcC runrPlinius,&:T!icodorusPrilci.Hni*^'. iniUM f!VMi:h\ arionc accc^ifse Catullum puro,ubi dixit. Abero foro, palntsira, flddio, et ^^vm asi^s ^ Mtfer ah rr^ijvr . et Atranius lCi ibcns. Efcam '•epelUs tf i'ri mannw pei pj!j( lincos, idcft, Palacftrac ufum (ut air Nonius) callcntcs. Quod auca Palacftrac nuiris^llatui^^atqicolunis ftrigiiKnCi quacda a pulucrc,&: lucianriu corporu concictu il)i f •utac abradcrcnrur, &:in uarios mcdicinacufusfcruarcntur,abiidc tcftati funt Diofcuri dcSjPlini^ &: Gal.q ftrignicnra quadoq; a Judoru m^^ilb arib. ortin gc:is icftcnijsucdira fiiifsc irudir Plini^ Inucnioquoq.cxcrcirario j;c* ipsapalacftraru intcrdu palacllra uocari,rdinarc,&: vcniiltc f'actvsinciapnoi;n;ci4Urlligc rc.iMs^c ;ui^ttorir.uc Lucilij*, cm'^hic ucrs"'' l/cyif .ipud Porphyriouc, iiiUuis iioitt/sji cll uuiurn tcffi n^ij j lfli\i, ucciujn Plato iu Cliarinic^t C 2 pro In Bacchi dibus. 2 cue. Udl. C2p. $ 6. coUc c, 14Dc Berecinchi .a ) li. i.c. ii.T ^Cwcx. incd. Ii.i.dcle glliUS. li. i\c claris Orat. i 3« fto"^?* pi^o Taurcipalænra locu{Tgnificauir,quo uiri doaiad colIoqucii-T) '^** dum difputanduiTiq.conucniebanr. Ad hæc Plutarchus in /ecudo fympos.palæftra uocarufcribit locu,ubi athletac cxerccrentiir, &: in quo lolu luda,&: pancratiu non curfus, non pugilatus agerenrur. queadmodu,&: Gal. quandoq. palæftra nuncupauit, ubi athletac f folum,&: craffitudini corporis ftudenres exerccretur, quo padto accipiedureorapudHipp.quuinprincipio primi Epid.narrat tubercula ijs efse oborta^qui in palæftra,&: gymnafijs exercebanrur.For ml\lp^9 dubirauit aliq uis,an in palac ftra hac puhiis ftrarus efsef, qm Gal.ipfam a loco,ubi puluis crat/'«fAA> dcquoqjacilc conijcitur m fphac: illirio ncdu pilacludos,ucrum 51 ctiam alias excrcitationcs ficri confucuifle, quado et in ipfo.Vcfpafianus fauces,ccrcraq. mcmbra(ut tradit Suctonius)(ibimct adnu>• mt rum dcfricabat. C):taua pars fucrunt uiac illac,quæ inrer porcicus,ac muros,ur cgo puio, litac crant,ab omnibus acdificijs nudac, necnontotapcrillybjareaquac&: ad fubminiftradamporricibus, ac ccllis lucc fadac erant,&: ad fpatiandum, aliasvc cxcrcirationcs obcundas, quac ncc in palacllra, ncc in alro pulu^rc, ncc in xyllis. ^ alijsuc locis ficri poilcnt.Has locum coculcatum paulloante cx Ga Icno a nobis nominarum fuiflcopinv^r ira uocatas,quod nullis lapidibus, latcnbu.vuc ftratac,fcd rudcs&iaciuato tantumfolo forcnt. In his curlum fach'i cxillimo,atquc ad id :um diauli, tum dolichi, a quibus dolichodromi, 6c diaulodromi lormas, atquc tcrminos ibi conltituros, tameriiapud Vi:ruuu'i nil aliud lucrir diauIos,quampe r\'ftilioru quadratcrum circunurio duubus lladijs dcfinita. In ipiis ctiam faltus,&: difci cxcrcitarioncs, quas palacllrac ncijauit Galcnus(ut mea fcrt fcntcntia)intcrdum habcbantur. Nona pars crant xyfti,&:xyfta,na vrraq.apud L'raccos& Larinosnr) parum difcriminis obrinenr, fi quidcm \yftv>i> hi uocat porticus tcCtas ubi athlctac ^ pcr hiemem &: acftarc,tcmporc ludationibus alicno cxcrccbantur: xyfta autcmfubdialcs ambulationcs,ubi hicmc tcinpcftatc lcnic porticu prodcunrcs,&: acltatc fcrc fcmpcr cxcrccbantur, ac ambulabanti atquc has wif i/f ofti/tff a draccis n(>minatasfcribir Vjrruuius,quac dupliccscraiit,aiiacnudac, a]iacplatanisalijsucarboribusconlitacad pracftanduamocnirarcm,atq. illis,qi.i a folcoHcndcbanrur,umbram.dchis loquebatur Miniu.s,dum pl aran(js ArhcM> xx. nisin Acadcmiacambularionccclcbratas fuillc /cribir:i)cijfdcm quoq.Miniusfccunduskrmoncm habuit qiiando in dcpinycndisi.rOean 1 ufcisac Laurcntinauillisfuisxyftostotics dccantar.Ncc ahum lo cum inrcllcxir ifchomacus apud Xcnophonrcm, quandvj ambiilationcminxyftofadam noniinauit,(icuti ncc Phacdius apudPlatoncm, ubi cx Acumcnifcnrcnria fahjLrioiumfacirambularionc inuijs,quam in curlibus (ub hi(cc ucrl)islti#r,frigidarium,rcpidarium,fuda. ^^QJ tioncm calidam,&: calidd lauarioncm : Qu,ic ucro balncis infcruicbancfu.-runi hypocauftu:n,aquariuai,iSido vapore, Ctuda yirgine, Menijq.mirgi. Scio quoque nonnullos, quod laconicum rorundum,ac ueluti turricula in hcmifphacrium camcrata forct, idcm ctm Iphacrillirioi nobisfupcrius cxplicatocffccifsc.quibus plane .-ifscntiri ncqueo. qiioniam mihijrrationabile videtur,utin loco calido fudatfonibus D vE ift li atci;aliasexcrcitariones,quasinrphacriftirio "^' • ''ficric6fueuiflctraditPIinius, exerccrct: fuirsctnamq. (uteftinpro^ uerbio)camino oleu addere, fi excrcitationesper fc corpora ualdc calefacientes in calidillimis locis cgifscnt.De laconico pofsunt ucr baluuenal,intc:hgi,fiucrfusita rcftituatun quidquid dixcrintali;: QuiLacedarmotiium proptyfmate h.bricat orbem: namraxatquendaqd^inLaconici foliocopiofc cxfpucdo efficcret, quo minus in ipfo pcdes ambulantiu firmari uak rcnr.Poft Laconicufequebaturccllacalida labris aquæcotincndacpofitisrcferra. in qua qt^apud Alcxim fuifsc balncoruin partcm, nullo modo probarc ualco : cum idc alias ipfum intcr ^vmnafiorumpartcsadnumcraucrif.nifiuchmuspcncsAnriquojitAWi? F fignificafsc totum gymnafium ipfum . Atquc hacc fL.lIi:ianr cc pubhcorumingymnalijs balncorumpartibus. Fucrunr&iinnumcra fcre priuatoru balnea, quac, &c aliquibus cx pracdidis partibus caruifse,&:alias habuifse uenllmilc cft;;cd dc huiufmodi non cft mftituti noftri ucrba facerc . Quæ autcm loca non cfscnt in tra balncas. fcd ipfis tantuminferuircnt,primohypocauftumconrincbat,quod fccundum Vitruuij dcfcripiionccratfornaxfcu caminataftrudura fubterranea calidario,calidac lauationi,atquc uafario fuppollta, iii qua ad calcfacicndu tum aqua,tu prædida loca ignis fucccndcbatur, ^ ne exftingucrctur a fcruis fornacatori bus ob id in Pandcvilis a Papiniano uocatis,frequenter cum pihs,& glomis picc iUitis cxcitabatur,de Iignis autc in hunc ufum adhibitis narrat PIu tarchus x prob.li b.ijj.fympof.ædiles cauifse,ne ignis balncarum cx olea fudcenderrtur neq. in cum conijccrmir lolium, quod horum nidorcs araucdincmcapiris, 6^vcrtigincslauantibusinuclKinrpracdicU^ pilarumapud Virruuiumlib.v.cap.x.mcntioclara habcrur,ubi do^^ cctfolumcaldariorumitaftcrnendum cfTc inclinatum ad h> pocau fim,vti pila cum mitratur non poflit inrro rcfillcrc, fcd rurfus rcdirc ad pracfurnium^atq.fic facilius flamma pcruagari.fub fufpcniionc. Dc his loqucbatur Statius in dcfcriptionc balncorum Etrufci. Crcpantis i^uditura piUs, ubi hniuidus igms imrrat ^4€dibus, et tenuem ^oluunt hypocaufia uaporcm^ Vndc cuiuis manifcrtum cflc potcft j n quam graui errore ucrfentur ilii,quiHypocauftum,&:Laconicuidcm fuiflccrcdidcrunr. Auftor ert Scncca iij.nar.quacft.cap.xxiiij.ncc no epift.xc}.;tcmpcftatc fua inucntos eflc paricribus imprcflbs tubos, pcr quos circumfundcrcturcalor,qi'iima(imul, &: fummafoucrctacqualitcr: illumucrocalorcm immitri confucuiflc cx Hypocaufto,«d a lurifconfultis mcmo riac mandatum cft,&: ab Aufonio in MofcIIa fic cxprcflUm: Quid quacfulfurcafubnru^a crepidinc fumant Bjlnedyferncnti cum Mulcibcr haullns opcrto rduit auhcht^s tcctoria prr ca:u fijmmas, Inclufumglomnans acfiuixpifante uaporem. Horum autc tuborum veftigia adhuc quamplurima Romæ confpi ciunrurin DiocIctiani^atq.Caracallac gymnafijs . Antchypocauftum via quacda crat propnigcu, quah dixcris pracfurniu a Virruuio uocata.Aquariu cclla crat calidac Iauationi,arq. calidario ad^ ncxa,inquaalucus magnusacdificaruscraradcontmcndaaquacx " aquacduLtibus, autaliundcinucc^am, arq.indcmfrigidamIauatio nc,iS:calidapcrfiftuIascorriuanda. Nonlongcabhocfirum fuitva (arium,vbi vafa confcruabantur balncoru fcruitijs ncccfl"aria,&: vbi aqua pro ipfis calcf^cbat.dc hoc ita rradidir Vitruuuis:Alicnca vafa nb.j « fupra hypocauftum tria copofita fuifTc,u!uim calidarium, alrcrum tcpidarium,tcrtium frigidarium,&: ita c()llocata,uti cx tcpidarioia calidarium,quatumaquaccalidxcxilfcr,influcrct,dc frigidaiioin tcpidarium ad cundc modum. l)c acrc balncoru m,qui cxtrinfccus admitrcbarur,(vrVirruuiusinnuit)caincaliciiflimolocoaucrfo a ^^^, Scptcmtrionc &: Aquilonc fita crant, tum caldaria arquc tcpi daria Cap.io. ab occidcntc hibcrno lumcn habcbar.Quod Oribafium fignificaflc puto, ubi cx Galcni fcntenria Architcftos optimos balncorum domos ad oftauam horam vcrfas conftruxiflc fcribir.Sin autcm natura loci impcdiuifser,utiq. a mcridic,lumcn ucroita capicbatur, ut in mcdio camerdc forame laturclinqueremr^fubquolabrum exftruc D baturxirca labru eratfpatioljquiclamargines,aurporticus,a Vitru uiofcolæ uocati,in ^. ftatu a Seneca, &: l^lurarcho auftoribus i rauillimis fcriptu re} erio, antiqiiioresmoIlibus,acmoderate calidis balneis ufos, ita ut Alex. in lauacro et febrics,Galataruq. mulieres puJtis ollas in balnea fere tes unacupuerislauarctur,&: maducaret; ateoru fcpeftare maxime calidas in pretio habiras f uilsc, adeo q. tarint> qualis Tucca a Martialc fub his vcrfibus dcrifus. 7s(ow fdice duro,flru^ili ve cæmento^ 7iiuucnrusRomanæxercclxit«rJybcriprop|nquuc^ftirucriV^^ ne longius ad dcponcndas mrrr cxcrxendifm c*)jirTaar;rs(tirdcs jrc Lih.i. dA cogercnrur,qucadipodum fcnbir Vcgctius:ira,poftqgyninafia ob rc iiiiiit. cxcrcirationes1nftitutarucrunf;:ic(^ij^lim adrriundandacorporaconftrucrc.Abhoc autcufu ctiamfcmcl tanrumin dic coenandi,&:in Itraris du cocnarcnt accumbcndi, ut infcrius copiofc demonftrabo,con{ucrudo inrrodudra fuir.Poftcriori rcmpoic maiorcmhominum partcm balncis ob dclicias, arquc molhricm ufam efleclai-ecoa(l.it',& pracfcrtim tcpidisquibas cxficatas, Sc ab cxcratationibus, Vdfolcvcl Frigorc aracrcscorponspartcsattemperabant.Ncc folu dulcibus aquis,fcd 6c mcdicatis ob dchcias yfos homincs tcltatur Galcnus in principio tcrti/ dc medicamcntis localibus.Jialneisaliquosvti confucuiikMpiod non poflcnt .ncquc fcrrcnrciboscapcrcnili loti.auciorcil Plutarchus.qui T.tumlmpc ratoreiuic dc cauirainrcri)tl"c,cxrclationibuscoru,qui acgrotanti tu. va. miniftrarinK,prodidit.Ouod ct qui inualidum ad concoqucndasci bosvcntriculQ habcbant.cius corroborandi, &:cibos conficicndi cratialauarcntur,aPolidoniomcd»corclatumcft,vtnorcmcrc I li „p. nius in medicos inucctus lit, quod pcrfualiflcnr balncis ardcntibus u.i^.c. i cibos in corporibus coqui,a quibus ncmo no minus ualidus cxn ct, obcdicntiilimi ucro ctlcrrcntur.Summatim ob quatuorciufas balB ncain vfuexftirilVcfcribit Clcmcns AIcxandrinu.MlM^afwWojm x^fKt^«« vocarunt.Cahdis&tcpidis ad conciliandum Li.j.pnefomnu;lngida Luubant,&: ob vohiptatc,&: ut robulVorcs rcddcrcd^i.ci,. tur,calorq. naturalis intro repuUus maior cuadcrctiidcoq. krc poft calidas balineas ca adhibcbat.quc vfum primos ouim Huphorbuin lubacrcgi$,&;Antonium.\Iulam.Auguftimcdicos,rratrcs,yK')ftralfcrcfcrtPlinius lib.xxv.c.vij.Channis quoq. mcdicus Malhlicnlis, damnato calidoi um balncorum vfu, hibcrno t pc ct frigida lauari hortabaf,atquc in lacus ægros mcrgebat,qua dc rc cxtat .Scnccie adllipulatio,;(cfc pfychr )lu r: u')C.ari.s.ptcri";qd ct( vtrclcruntPhC nius,&; Agathinusapud ()ribali&)ad jprogada vita, multaq.alia pftada.fi igida lauationc cofcrre opinati sut; hæc.n. dc (cipfo rctcrt « 4. Agathinus. Equidc racpcnumcroa cacna cuacgrcin foinuu dclabor.pp acftum,in trigidam dcfccndcrc coiucur. &C mirabilc cft qua iuciidam noacm tra^iiligaiu.Qu.i balncasingrcdicbanrurpublicas,^ ancc dccimum quartum annum niiiil foluillc.tcftatur luuciuhs., T>{ec pActt criJiu.t,nl's . Sjt », Alij quadrantcmbalncatori dabant.&ol) id baincu rcmquadrautariam uocauit Scnec.i,dc quo riacci; . Dum tn qHadrantclau.itum l^cx ibis. ->t. 6. Cacdt:reSiluanop9*cim,q'adrantelauaii. Qucritur tn .Martialis.quod plurisiibibalnca coftarcntubi fcribir, LiVio. jSulrKapuJtdtcimaiiilajjo ficniHmqucpdutitHr, Qudirantts. Q^od forfan uel ob diuturniorcm moram.vel alrerius rei graria, &: ipcontingerepoterar. Sar eft,quadrantem coe pretium fuifse:quin et Antoninum Pium balneum finc merccde po pulo coftuuirre, tradit lulius CapitoIinus,& Athenæus viij.dipnos. lcribitapud Phafelitasfuifse legem.utpcrcgrini cariuslauarcnt.ppterea cum ita uili pretio licerct, nulUim genus hominum a publico balneo arcebatunpucri iuuencs,uiri fenes, decrepiri, nobiIes,&: ignobileslauabantunfed prac cæteris,phonafchos, cytharocdos, '''lrlE-r^T*'I^=e"farebalneafolitosrefert »ed.i.e. (^al.quod noccmoblæfam,&a/Tiduis vocibusexafperatam aquarumduIciumhumedlationecurabanr integramq.feriiabar.HocfimiJiter uidetur Martialis in his de Menophilo uerfibus fignificafle. Iiib. 7. Mcnophilipenemtam grandis fibula veflit, ^ ft ftt comoedis ommbus vna/atis . Hmcego credideram { nam fæpe lauamur in uno ) Soluitum vociparcere FLicce fuæ . Dum ludii mediapopulofpeaantepalæflra, Delapfa efl miferofibula, verpus erat . Qiii Mcnophilus comocdus crar,& ficut cacteri.Iicet recutitus, inSll'nT ''k '^f cum Martiale in communi therma 1 ba neo auabatur. Muhercs Lacedæmoniorum in balneis gymna ' ^vnT T^ Perfpedum eft, &: nedum in his, uerum et vna cum v,nsprom,fcue:quod tamcn non in cundtis euenifse cre tZl^^r.fn'^''"f^^ balnci mulie! orjs mcntioncm ibi facit. «UMis eas ingrcdi ob ralubriiatem uciitum apparetrquod ptcr turptudmemetacorporibusmuIiebribus.acracnllruncremcmL " SSmA ''''''•T/'"Sr.^fcum ftarim coru molrm m cT "uii -f 1 'f'' cuin unis h non cudemlauacro, codein falccm / A faltcm loco ctlam antiquirus lauilTc comprobat,qui libro dc analo gia fccundo tradit in balnco coniunda fuiifc acdiHcia bina, ununi ubiuiri,altcrum vbi mulicrcs lauarcntur:practcrca,C.(jracchus in orationcdcpromulgatislcgibus idcm confirmarc uidctur, cuius vcrbaapud Gcllium italcguntur. Tudorcnim noparicbatur vtruii.,o. quc fcxum iimul lauari,fcd commoditasconiungi dc(idcrabat. Nifidicamusilla omnianon dc publicis balncis,quac tunc ucl nulla, ucl angullillima, &: vilifli iia cxllitcrc,fcd dc priuatis cflc inrclligcn da : qiTcmadmodum forfan Vitruuius intcllcxir, vbi vtriulquc fcxus jlauacra coniungcnda monftrauit. ucrum cnim ucro pollcrioribus facculis mulicrcs promifcuis balncis yfas cflc, quamplurimaru probatifTimorum auctorum tcftimonijs comprobari porcll, intcr quos primo fcfc orfcrt Iuucnalis,qui diflblutos Romanarum focminarum ^ morcs carpcns hacc fcribit. Cramf occurfu.tactcrrima Vkltu Balnca ncBcfubit, conchss et caftramoueti T^lBc iubct, m^gno g^uiet fudare tumultu, Cum lafTatagraui ccctdcrunt brachia maffa Caltidas et tnliæ ii':*itos impreffit Aliptcs, ^4cftimm4m dominæ femur excUnure cocgit, cx quibus ncmincm cflc cxiftimo,qui non uidcat mulicrcs tcmporc luucnalispublicas balncas adiuillc, ibiquc ^S: cxcrccndo, &: lauandolinc pudcrc ullofc virrs immifcuifrc.(]nod (imilitcr ciiis tcmpcftatc Martialisconfirmauit. Omnia fotmincis quarc dileda cateruis Lib.ii. B-ilnea dcuitat Blatara ^ 6c Cum tc lucerna balneator exfitn{}4 li. 3 in Vc ^dmittat intcr bufluariasmoechar, tuftinauu Clcmcns Alcxandrinus, qui fub Antonino &: Scucro floruit, in co, ^ qucm Pacdagogum infcripfit commcntario non modofocminas communcsuiris balncas,atq.publicas in ufu habuiflc tcftarur,fcd omni pudorcdcpofitocxtcrnisquibu/quc libidinisgratiafcfc nudas in ipfis fpc(ftandas pracbuifsc. Quos morcspoftca dctcftans Gaccilius Cyprianus hacc in libro dc uirginum habitufcripta rcli quit . Quid ucro quac promifcuas balncas adcunt : quac oculisad libidincm curiofis pud(Ti,ac pudicitiac dicata corpora proftituut, " quac cum uiros,ac a uiris nudac uidcnt turpitcr, ac uidcntur, non" nc ipfac illcccbram uitijs pracftant. Cui fcntcntiac multa ctiam fi" millimaa D. Hicronymoin I:pitt. ad Lactamdcfiliacinftitutionc " fucrc prodita . Hisitaqucomnibuscuiuispcrfpcdum cfscpotcft, non pauco icmporccum morcm&: Romac,&: ahbipcrduralfc,tu Cymnaflica. D fcminæ atquc uiri in promifcuis baineis Jauarcntunquando etiam D non dcfuerunt qui intcrdum hanc mulierumimpuramprocaciratem coerccrc tcntarint: qualis fuit Hadrianus princcps, quera fcribitDioCaflius viros difcretosafcminisJauariuo]uifle:ficut&:Mar cum Aurelium Antoninum balæa promifcua fuftulifle, eadcmqucabHeliogabalorenouaraAlcxandriimSeuerumprohibuifle, refert CapitoIinus,&: Lampridius.Ob quod item aliquando cenforia lex Jata traditur,ut mu lieres a promifcuis balneis abfl:inerct,ncc commune lauacrum cum uiris libidinis caufsa intrarenr, fub repudij,&: dotis amiflionispoena : quod poftea in I.fin.titul.dc rcpud. &: inaurhcntico dc nuptijsprofancitorcccpttmfuit. Quarationcfieripotcft,utbalneæaIiquæ muliebres in foeminarumdumtaxat: ufumfucnntcxftrudtæ,quaIes Agrippinæ AuguftacNcronismatns:nccnon Olympiadisin Saburra,& quas Ampclidem,ac Prifcil E lam trans Tybcrim ad euitandum forfan hominum confpedtum ha buiffc refcrt Viaor. Tcmpuslauandi poenesvetcres,quemadmoEpift> 87. dumnarratScnccafuir, quod quotidie brachia, &: crura abluebant:tou nundinisfolum lauabantur, Cætcrum poftM.Pompeij ætatcm coepcrunt fingulis diebus toto corpore lauari. Hora uero vfque a temporibus Homeri fcre a pluribus obfcruata f uit paullo li de tre. antcquam cibus fumerctur.non dcerant tamcn Galeni tcmpeftate, "fQh ^^ ualetudinis habita ratione lauarentur. ob q^ jpfe ngorem fine febrc uifum tempore fuo narrat,quem ætate antiquiorum medicorum,cumraripoftcibumlauarcntur,non elseuifumfcnbit, Vtplurimumautemmaiorpars liberorum hominum prms exercebat.deindc baIneaingrediebantur,nonnulIi fine exer Iniib. de ciratiombuslauabantur.AdnotauitGalenus,antiquospoftpilæIu F KL*" b'^'"eis lauari confucuifle : quod fimiliter ante illutn Lib.4. innunifse Marrialcm co uerfu vidcri poteft. l\eddepilam,jo:iatæs thcrtnarum, luderefergis ? yirgine visjola lotus abire domum, NamdumhorabaInearumappropinquaret,tinrinnabuloquodatn figmficabatur,quo pilælufores.atqucalij exercitatorcsftatim accurrercnt:aIioqui in gclidiflima Virginc, qu am &: tadu iucundilliii.3i.c.3. mam,ficuthauftu Marciam,rcfcrtPIinius,&: fic diftam quod nullis fordibus pollucrctur traditCafliodorus 7, Var.iam claufis thcrmis lauabatur.fcribit enim Capitolinus,antc Alexandri Seueri tempora numqua thcrmas ante auroram apcrtas fuifse, &fcmpcr antefolis occafum claudi confucuifse, ipfumq. Imperarorcni publicarum thcrmarumluminibus oleum addidifIe,quo&innoftepatercnt. 1 BHi bfl m Phi opi inli culi W col isfc obi crai Cp:)& igd cisl bui iiitii iieii hai aq : n A qiiodctla fcciflc I yconcm philofophiim imicniri gMCCnc fcrihit Lacrtius in ciiis vira, Non mc larct qiiofdaalijs horislauifTc/cd ucl cxrra gymnaiia,ucl in gymna(i)sgratian!icuiusafrcdionis,autaItcrius rci ucl confuctudjnis,utfcribitMartiaIisdc Fabiano. iii>.^. LaJJus ut in thcrmjs dccima jcfius, Ima Te Jn]"ar ippjc yCkfn lat(Cr ipjr Tiu Hoc CCrruin eft,quod \'irruuius loco cirato mcmr riac mandauir,tcmpus Jauandi maximc a mcridianci ad ucfj>crum fuiffc conftirutum. t um cnim fcmcl dumtaxar in dic (aturaiciitur Maiorc\b, nulhiin tcmpushoc ipfoopporrunius habcharur,qu()d circat^dtauam dici hcrampaulloantccocnam crar,ut Martialistclla:umrcliquit. Suffiiit in ». I rtm rrifiiiis cctiUta p/tlænris, et j^;^ ^ Octauam pctf'i5 jcutaic ^laycbim'*r vna, Iib.ir. B Hadrianus Cacf. rcfcrcnrc Spartiano antc Osftauam horam neminc niii ac^^rum huari voluit, quam horam criam lulium Cacf prioribus facculis (cruafTc, conijccrc pofsunuis c\ Kpiflol. Ciccr. ad ArriLf.i^.Ep. cu,ubi dc Cacfarc loqucns, hacc ait : lllc rcrrijs Saruriiahbus apud Philippum ad horam fcptimam > nec qucmquam admilit, rationcs „ opinor cum Balbo ; indc ambulauir in littorc, poll horam ocbuam „ in balncum,tumaudiuit dc Mamurra,non muranir ; uuctus cit, ac„ cuhim,\yLvriKU¥ agcbar, iraquc &. cdir, &: I>ibit «Acic, iS: iucundc. „ Scd an pLrpctuo ilhim uirac rationcm (cruarct Cad.haud clarc cx „ co loco habcrur ; quando ci us folius dici rationcm c\p :>nir, in qua isfccundum mulroramconlucrudincm u jmcrc ddtinaucrar, atq. obid «A»ff i.finc timorc,&:iucundccdcrar,bibcratquc,ur ( quod crat mcdicorum pracc cprum) uarij gcncris poru,ciboquc rcplcrus . C pof>cr,dumircrdorm;tLim,uomcrc.iranunqLic locusillc ( iib.d^fai? agcbat) mrcllii;iiudiciomcodcbct:quod licuri AiCiTHT/ic« a C.rac'j'^"-* * cislimphci uocabul > dicirur camcdicinac rari(>,quac in rcbusad * ' humanum uichim fpcclanribus fira cft^iSL: K^i^^iKn. quac ad cxinanitioncs pcrrinct; haud fccius J-utTixil > clt illa iyoayk y liuc rario, quac in rcbus,(Si: modis uomitum paranribus collocara cft. Tot iraquc dc balncis ^^ymnafiorum, ac prmaris brcuircr didta fuHiciant, quorum ufus cum apud anriquiorcs rarior cfscr, Afc lcpiadcs Pru(icnlisactatc Pompcij orator habituscx ilfa artc nullumquacftum irahcns, cum ad mcdicinam fc contulifsct, in caquc magnam ^Ioriam, &:au(5toritarcm brcui comparafscr, ob blandimcnta^qulbus acgroscurabar,ob pcrpctuam finitaris rirmiratcm, 6i:quf)d Romac lib.i.c^. qucndampromortuoad fcpulturam clarum miro gcnrium ihipo"a. rCjUt CcI/us^Plinius,^: Appulcius tradidcrunr, uiucrc cognoucrat, IJIfio?' D 2 cum fiiii eumfrequcntiorcmreddidit. Vndccima,ac omnium poftrcmain D gymnafijsparsfuit Sradium, ubi populus cum uoluprateathlctas certantes: fpedabat: nilq.aliud erat,quam hcmifphoerium quoddam, multis gradibus conftru6lum, unde poterant commode fpedatorcs^qui fcmperplurimi eoconflucbant, certatorcs intueri. an autcm intcr ipfum &c xyftu, fcu peridromidasmurus intcrcederet ; atqueindcpcr oftiumex platanonibus gymnafiorum arhletacin arcnamftadijprodircnt, etfi a Vitruuionilcxplicatumhabcatur, rationitamcnconfcntaneumuidctur, uniucrftim acdificium, nc cuiuispareret(quod eriam fupracirati Capitolini reftimonio comprobari porcft) muro conclufum,&:proptcrea agymnafio ftadium murifcptodiujfumfuifTe. De alijsgymnafiofereneccftarijslocis, reluti lignario, uafario, latrinis, triclinijs, atque eius gencris muL tisnonloquor, quodhorumin palacftrarum dcfcriptione mentio E non habcatur, ad noftrumque inftitutum minus pertineat; ficut nec qiiomodo ambulationesillæ fubftratis carbonibus,atque cloa cis proximisexftruercntur. Quæomnia^tamquamclara,autalibi commodius explicata,a Vitruuio in defcribendisxyftisprætermilTaputo. luxra publicas thcrmasinuenio exftrudas fuifTepopinas,quas Ifidorus lib. etymolog. xv. cap. ij. tradit huic inferuiife, iir,quiob cxercirarioncs, autlauacrælfcnt admodumexinaniti, diflblutiuc,habercnt,ubi ftatfrnrcfici poflent. atque hasforfan Plinius intellexit Epift. iij. lib. j. quando poft balneum, &c triclinia popinarum meminit . Hadenus dc antiquorum gymnafijs. De AccubitHs m coena antiquorum:, ^ femel dumtaxat in die ceenandtconfuetudims •rigme. LFVON1A M balncorum explicatorum occafio iam fuadet, nosquc fupra polliciti fumus de coenandi fcmel in die,& in coena accumbendi antiquorum confuetudinisorigincfermoncmhabere; fi cxtraremnoftram videatur,atquc a Galcno de accubitu nihil explicatum habeamus: haudprætcrmirrcndumeft,quin lcntcntiam noftramin medium proponamus, alias eam libcntiflime mutaruri, fiquis meliori ludicio,ac eruditionepracdirus, ucriorcm aliquam,&:magisrationi confcntancamdcmonftrauerit. Quod etenim maiorcsnoftrimanccxiguumquid comedcrcnr, quodprandiumuocabant, &:ue. fpcrc tanrum (arurarcnrur, dum coanarc dicebanrur, (exceptis ijs, quicoituufuri erancquibus amedicis vcfpcrecocnarcinterdiaQ fuifle A fulfse fcrlpfic Ariftotcles,& cxccptis SyracufanIs,qiios bis in dic ci^^nlc. bis implcri,quifi rcs noiM cfscr,tradir Plato ) fLuis ab Horatio, Marj;^ j tialc, Plururcho, atquc Galcno ( nc mulcos alios nomincm ) comDioncm. probatum ell: fcd dc bis tulius mclius in uarijs lcdionibus nollris tradarum cft quod fimilircr tcrcomncs cium cocnabantm flraris accumbcrcnt, pracrcr lapidcs Romanos id clarc ortcndcntcs, doAiflimusPhilandcr infuis in Vitruuium commcnrarijs audorurn antiquorum tcftimonijs clarum fccit, vt id amplius dcmonftrandi laborcmmihiomncmdcmplcrir. Cctcium vndc nam hac duac confuctudincsprincipiumacccpcrinr&quomodo vercaccumbcrcnr, ncmo, qiicm cgo vidc rim, (luc cx anriquis, fiuc cx rcccntiori-bus, ira appolirc &: dihgcntcr dcclarauir, quin poftcris dubirandi, &:plura dcfidcrandi occafioticm rcHqucrir. Quod an ob rci ohfcuB rirarcm,an ob ncglcdum cucncrir,ignc)ro. Ego fanc urra(quc illas, &:accubirusl(:ihccfAupii^.indic cocnac cofucrudincsa balncorum ufu manafsc c\ntimo.& primo ur ita dc accubitu fcntiam, pliiribus, ijfquc non fpcrncdi.s conicilurisadducor, quarum prima cft, quod Homcri tempqrc „ qyando nofn adco frcqucnrcr bahicis vrcbarr^ur, coenaruri fc^cbanr,vt m conuiuio Procorum apparct. tfjft^i^otr^ Kcci^. . -it*. id cft, cyJt proci ingrcJjL /urit^ qui mox mdc /upcrhi OrdincfedcYunt lc^tmms, (5" ordmc throms &: ubi Tclcmachus,ciulquc focjU5 a Mcnclao holpitio acccpti poft lotioncmcocnant fcdcntcs. i^ovwi l^oyro wimmorralcs gratias agcrcHtcnim ei qj' Plurarchus dc lo co c6fulari,nec no dc tnbus triclinioru lccVis diifcruir>iam non obfcurucft,quam mirihcc quadrcr propoiira triclinij Rhamuufrani figura.Simiiitcr,&:qab Horario dc conuiuaru liru varijs inlocisnai^ C rantur,n6ahundcmchusintclligi pollunr,p(crrim quandofcnbir. Sacpe tribiis lc^is videjs CQcnarc quaieiraQs : Efabi44Vf.: ' "is jfpcrf^crc cnm ijs Tfdctcr cu) ^ . .iqujLm. Qucm locu dum Lambinus exponcrct, cur anriquos cofucuiflc in quolibct Icifto niagoa cx partc quarcrnos cacnarc pala aflcrucrir, f^nc miror, quafj non (ir cuiq. pcrfpcc^iflinuim, vr narrar Varro. lcg^s cxftitiflc quac numcnun conuiuarum nouc cxc cdcrc,ncc pauciorcsrribusclfc vcrabanr,hcut &:adagium illud vulgatiflimum, fcptcm conuiuiu,nouc conuicium,atrc(brur.(^mimmo lulius Cap/roUnus rcfcrr L. Vcrum Impcrator:pracrcr cxcmpla maiorum, cupi duodccim folcmni conuuiio prinumi accubui(ic,ira vt prionIhis facculis porius fcrnos,atquc pauciorcs adhuc (ingulo 1 ccto con uj^asdifcgmbcrc fo|itosfuifl'cconuiacatur:ni/icpula pjblica ' ' 1) 4 nuptialcs S4 i. i iS h K nuptiaTcs cænas cxcipiamus.in quas cu magna hominu copia conD • uenircr,nequaqua accumbcntiunutficrusfcruari poterar,vrcx PJu tarcKo, ac Rhamnufiano lapide colhgirur,quo vcl epulu pubhcu, velnuptial^cocnamrepræfentari non eftdubirandum,urob hoc Chacrephon apud Athenæu in vj. vidcatur admitrcrc couiuas rriginra dunraxar innuptijs, in quibus vcriiimilc eftnecefTarium fuine uocatorcmiIIum,cuius meminit Senecalib. ii/.de ira cap. xxxvi;. &: qui fecundum cuiufque dignirarem conuiuaS ad loca dcbita vb-' cabar. Quodaurem Turnebus,&Lambinusidem dcpuero aquam pr.æbcnrc funt in tcrpretati, cquidcm non i mprobo.at forfan ncc abfurdum hicrir,fi Flacci vcrba dc eo puero cxponarur, qucm tana. omncsfcre mcnfarumfculpruræ antlquacquam poeraru reftim nia conuuujs femper frigidam,& calidapræbuifrc oftendunr,qUeque cundos, ne ab ipfo male rra(Sarenrur, reucriros eifc, et a quo E mordendo abftmuifre vcrifimilc fit. Jam fcfo M.iria Magdalena u t ftansrctropcdcs Chrifti coenantislauerit, atq. loannesfupra ciuf-dcmChnfttpcaus recubuerit,cxhaccademRhamnufiani triclin,j figura,fecus quam pidorcs antiquarum rcru ignari faciat, 6c quam, Gaierarms Gardmahs murilirer commenratus cft,fadlec6iicitur ctenimhebræos,acaKiftumaccun,bendiRomanort,mconS^^ dmem.obferua/le practer Architriclini accubitufq.: nomen • gehjs fæpe vfurpatu etiam id tcftari poteft, quod Læi freqic^tcJ Rom.ac conuerfarcntur,fimiiiterq. Romani L Iudaca,ac in vfu no Xuo£r"! Marriahsfigt^ificare hoc dV •, ) -.J ; Omi^ia cim retro pueris obfonia tradas, F 1 1 Cur riM ntenfa tibl ponitur a pedibus i -'Siquidc.n coen anribus alrc iaccnribus fpacia rfetro rcjinquebarur in qu.bus fcru.s uana miniftranribus mulra offcrrc, et ab?ata rcci pcrc faclc crar,feruos namqucad pedcs cænanriunrftareac ob?d a^edibus vcl ad pedes vocari /oluos ex mulrorum fc^Sci r gcre hcct.Sencca hb.ii;.dc bcncfici;s. Scruus (j cocnain id ocde; ftcrerat_,narrat quod mter cocnam ebrius dixiit.MarSs Mixta lagænaad pedesreplct uino.Suetoniusin Galbi r,, . namverovfq.coabundantcm vrrnnl.i V ' "-'"fercoecircumfcrri mbcrcs Lraia n^^ paraacr.bushurctS d^ndrefmt^l^Spt^" buitimpudcnti.dequoctiaAthen-ir^ncinV I u P^"^^"Sed practer alia mox di autfuturam laflitudincuirandampoftmodicum tcporis inreruallu lcdos intrarcntjatq. ibi modo nudi,modo laccrnis,aljjsuc in id paratis uclUbus induti cænarct, atq. inde mox aufta baincorum cofuctudmc vfq. adco accumbcdi morcm crcuifse, ut nobiliores in dclicijs maximis cum habcres,lcd:os nunc marmOreos,nuncargcnteos (quod dcHcliogabaloferunt) inidfcparatim exftrui curannr,neq.inijs,inquibustamenqua plures, (utdc Lucio Vcro ImperatoretraditCapitoiinus,&pfcrrimpauperesdormire conAieuifse puto) fcd in cubicuiarijs uocatis dormire uolueH rinr.quc morcm accumbendi poftca uiiiorcs, &: paupcres ad diriolib ii.de ^l^^yi^^f^^ifn ^ balncisquaiiiori, itafrcqucnriflimum efTeteruiV.c.i ccrur,ur^Coiumclla praccipcrc coacfrus fit,ne uiilicus nifi facris dicbus accubcns cocnarer;in qua rc no fecus corigir, ac cuenifsc cofpi citur in baincis,arq. piurimis aiijs rcbus,quæ in honcftum ufum, et quafincccftitatc quadaprimurcpcrtac,dcinccpsadluxu, iafciuia, Uolupratc,aliosq. ufus rradudac fucrunr. Quis eft, qui ncfciar ucrercs in couiuijs ocs propc cxcogitafse uoiuprares, nihiiq. rcliquifsc, quodaddclinicndos animosfaccrcrrfic enimfermoncscouiuales ad animi inrelligcntias afficicndas magno ftudio inuencrut, ad audirum oblcdandu muficac uaria gcnera adhibuerut, ungucra preProb'^!^^ tiofiflima odoraruidicarunr, ficut,&:coronasexfoIijs,floribusquc 6.cr fimp.c6rcxras,quas modo manibus,modo coilo, modo capirc u r iapidcs F c.de anj. Romani,Pluiarchus,GaIcnus, iSd Clcmcns AIcx. teftantur,tcncbati Rieda. ^i'^gi'5ria, colorc naribus, atq. oculis arridercnt,fomnu concap.8. «^^l^iii^cnt^cbrictarcuirarcnt.quantuporrocibis^&potibusdclicatiflimisc6quircndisftudiuadhibucnnt,nonmodofidcfaciuntfcxii.7.c.ir. decmiillacduliorumgcncra, utcxVarroncrcfcrtGcilius alonginquisrcgiombus Romaaducda, atq. alia quamplurimaa iulio Poiluce nominaras, ucru ctia mulra, et prope innumera AuAorum de rc coqumaria comcnraria ab Arhcnaco cirara.De antiquoru io dic fcmcl ranru fcfc cibis implcndi c6fucrudine,cius ctia opinionis fum,utcuad cmundanda corpora quotidie anre cibo5,urfnperiori CapircdixnTius,ucrcrcslauaricogcrcnrur,6^aIotioneIcdlosin-rcdercntur,uixfcmcl comcdcndi iii dicotiuipfisfuppcrcrct: quo^liia fi priuata cuuifq. negotia fpcdcmus, li 6c cxcrcitationii. et baincorum, . s9 A rum.accubituscj. apparatum c6fidercmus,magna tcporisparsipfi? infumirur, ut li ois in dic fiiturari uoluifscnt, aut ncgocia omi ttcrc, aut balnca intcrdum ucntrc plcno adirc, aliosq. multos errorcs, &c in ualctudinc,&: in alia uitac rationc committcrc fuilscnt coa^fli . Comcdcndi uero horam,& modum balncorum tcmporcatq. com moditatcmctiri inftiturum fiiifsc pofsumusa Galcnointclligcrc, ^ qui liintcrdum obacgrotantium infpcclioncstardiusfc lauandum ciubitabat,pancm manc fumcbat,quo ccanac tcmpori fufticcrc ualc ret,quadoaIijllmili dc caufsa,pancm,uinum,oliuas,aut quid aliud capiebant,uti non modo Galcnus f ilsus clt,fcd ctiam Horatius,vbi defcfcribir. Tranjus non auide ^ quantum intcrpclUtinani ymtre diem durare, B Quod porro vefpcrtinam horam cænæ dcdicarint,in caufsa fuifsc præcipue uitæ commoditatcm cxiftimo;fiquidem difticiie fuifsct poft excrcitationcs,balnca, &: cibum,agcdis rcbus opcram nauarc; practerea cum accumbcntes cacnarcnt,alij ftatim fomno capicbaa tur, a!i j modico temporis fpatio uigilantcs dormitum ibantrcx quo adhaccomnia nuUa opportunior hora quam ucfpcrrina inucnicbatur, quamquam ctiam nonnullos, &: pracfcrtim mcdicos in hoc ualctudinis quoquc rationcm fpcclafsc opinor, quando in noAc melius, quam intcrdiu, cibi conficiuntur, tuncque pcrfpicuum eft plus cdendum,quando plus coquitur . Hacc funt quac dc accubitus,A:cacnac antiquorumorigincmihi w^ftfj^is diccnda uolui. 6$ A quc corpori afrcftiim parcrcnt hi,nofccbat.Aclcrant fcriii fricandis corporibusdefl:inati,qui ad pracfcriptum gymnaftacautpacdotribac,modo nudis manibus, modo vndis, modo cum lintcis alias duri5,alias molhbus,alias afperis,aliasmcdiocribus,uario,ac diucrfo modo,proutopuscrat,corpora fncabant. Poft hoscrant&rcundo rcs itaa Phnio,ac Cdfo nuncupati,quod corpora ia cxcrcitara vnli.j. c.^y. gcrcnt,reungercntuc.hos,fucrc qui crcdidcrint,a Paulo Acgineta iirrfOAu7rT«c vocatos:fcd dcccpti funt, cum alium lUiflc ab his iicr^^wTTwoilcndcrimus. McdialHni quoquc uyumafijs miniflrabant paumicta cuerrcnrcs,nccnon multa aha pro lcruitijs gymnaliorum obcuntcs.Pyrrhus Ligorius intcr alia antiquitatis cius præclarillima monumCta hanc infcriptionchct,mqua Mcdiadmorufit mctio. DIIS. MANir>VS. S. B TITO. PLAVIO. OLENO SERVO. ET. PROCV R AT BALNEL T.FLA VI AVG VCf. MEDIASTINO VIX . ANN. XC. MEN "VTID. VIIIL T. FLAVI VS. T. L. POLVMNESTV S MEDIAS TINV S AVG. N. FAC. CVR Adcrant ferui balnearcs,Iotos in balncis primo cum fpongijs, modo purpura tinctis,vr rcfcrt Plini us,modo candcfacli^, dcindc cvm C lintcis cxiiccantcs.hos quoque arbitror cgo confucuiflc flrigihbus corpora cxercitatorum diftringcre, atquc a ftrigmcntis dcpurarc. Adcrantpilicrcpi,qui fpliacris piccobh'tiscurabanr,nc ignis balncorum cxftingucrctur. quidquid alij dicanr,qui pro piiicrcpis lu; fcrcspilac, vtpotcobftrcpcntcsinrclIigcndospuranr,maIc fc nrcn-.tias Matrialis &c Stati j,dc qui bus nos locis fuis loqucmur,inrcrprctantcs. Alipili,qui(ut rcfcrr Scneca)ad vcllcndos ab aliquibus corEpift. poris parribus, et pracfcrrim alis pilos adhibcbanrur: nili uclimus, vrdo(tti uiri ccnfucrunt,pcdicrcpos,& alipcdosapud Scnccamlcgercqualiin gymnafijs cflrcnr,qui a pcdiculishomincs purgarcnr, &: inrcr occidcndum ipfos magna vocc fingulos cnumc rarcnr,i(a vt Scnccaab huiufccmodi vocibusoffcndcrcrnr.quornm tamcfcntc tia non probo,quod luucnalis ccrro rcflaru faciar,fuiflc' in thcrmis, qui ab alis pilos aucUcrenr, ubi fcruos fuos dcfcribcnj Pcrfico ait: T^ec pu^iUarcs dcfcrt\in balnca raucHS TcHi^ulos^nK, yelUndas iam præbuit alas. 5«t. is« F Atque U 11 B E R Acquehos mo do volfcllkrfdirf ob(?unrfumvfo5eflc:nuncre/ina, D (hanc enim m eueilendi^ vrronim corporibus pilis maximum hoIi.i4 c.io. |ukcioncscKpliccn;,ucrumcciam illamaba!i)s, quAclimilcm naturampcrindc,acnmcn obtincrc uidcnrur, ira diftinguanr,nc lcctorcs acqiriC uocarionc dcccpti, ucl circa rcs ipfas iiilignitcr dccipiatur.(^ idc® cum nos izymnafticam ucram tractarc prf>fM>{ucrimus, quac racdiCiJiac pars clfc dchnita iam a nobis tuir,ahacq. lint gymnafticac cir ca cadcm fci c ucrfaurcs . ncccflum arbkror dc his tplis fcrmoncra liiccrc,quohabiro pofsit diucrliras ounuum 'faciUnnc inrcrnolLi. jcj^ctcnt^sigiturquic fupcriusdiicimMs, ircs llatu i mu s gyiniuJiic;>c4:oriiisfpccics gymiiifticain ucram fcu lcgirinum ( urcanr, nihiloininas tinibas, -quor um graria fiivgulac infti tur-»c fuiu. m:i;;nopciX', licut ctiarci fupra monlha-tiimui^ diflcrunr . Num gy.iauuftica JmiplcNj^i: mcdic>nac pars i«l folum ourar, ur bomincs cwpcitawontim modcraraiam ©pc,&:fani* arcmacquiraiu,rucanturuc;&: bonumhabinnn adipifcantur; c^cAo>« ( diccoat Plat )) rtc wAAcc, (cAA« t^^-rgut^^ll^^ yj(xH'.€i aiS^iTiotz, idcft, 1 arc jr haud r 2 multas, fcd modcratas cxercitationcshominibus bonum habitiim D inkrcrc . Hoc ua eire quoniam Gale nus tu in libclJo ad Thrafvbu-, lum, tumin libris dc tuendauaJctudinc non minus copiofc, quam JucuJenter demonftrauit,&: nosquoq. fuperius aJiqua ad hanc fpcciem pcrtnicntia dccJarauimus,haud ampJius in ca celebrada vcrbis immcrabor.fed ad BcIIica tranfibo : cuius unu ftudium erat hommcs,pueros,atqueetiaapud nonnuJIos muJieres carundem cxercitationumadiumentoita difponere,atqueaptarc,ut et inbello lck fortiter gcrcre, et hoftcs propulfarc, &patrias tucri, et omnem deniquemilitarcmperitiamtenere ualcrent.quamuis cnimhæc quoqueficut &:f«perior bonum corporis habitum con.pararet, &: lanitatem quodammodo tuerctur, quia tamen proprius illiusfi.nis erat homincs beJIis gcrendisidoncos atque fortcs cfficere,proptc^r^a eandem no cfsc fatis apcrte conftat.quod uero bclli ca gvmE nafticanuIJam aliam naturam habcatprætcra meexpIicatam,locupleti/nmum teftcmPIatoncmin mcdium affcram, quiinfeptimodeIcgibus(poftquamdecIarauitiuucnum, &c puercrumeducationem maiorcm partcm in rcbus pub.obtinere) dcccrnit publicosmagiftroshabcndos,quigymnafticampucros,atquepuelIas. &c uirsmcs edoccar, quod ad afscquendam miJitarem pcritiam nil mclius paJacftnca &:/aJtatoria gymnafticæ partibus inueniatur id quod etiam cJegantillimc in tertio de rcpub. &aJibi Aiepe profecu tus fuit Polt Platonem Ariftotcleslimiliter gymnafticam belli" cam modauo Politicorumcxprcfseindicauitrubi tameas,quac athlerarum habitudinibus corpora iuuenum deformare, et corum augmentationcm impedire ftudent Ciuitatcs, quam Lacones effe ratos labonbus adolefcentes cfficientes reprehendit, eamq. pueris ^ gymnafticamtradendamconfuht,quæmitioribusJaboribus &: magismanfuetis excrcitationibusiIIosrobuftos,&:inbellicisneaotijs uerc fortes reddere qucat. de hacgymnaftica clare locutSm Galcnum non rcpcno, nifi velimus ipfum dum Jcgitimam cclZ brat fub ea iftani comprchcndere . qu^d et ipfa bono habitui comparandoincumbat,hcetadbeIlicamperitiam,&aptitudine^^ dtafuaftudia dingat; atqucilli qui medicinæ gymnaftkaToperam nauant, etiam dum oportct,beIIica uti ualcan^.VetetiSs in^er ZZr'"T ^^""^fti^^ niilit æ,1iTomodo! LsapudGr^^l"^" huiufcemodi ars apuci oraccas,&: Latinas nationes in pretio habita fuerit Pr-i£> ter has duas eft etiam gymnaftica aJia uidofa,& atlilct ca a nuncupata,quæ hominibus robuftis efficicndis(talis enintf.ft Mi! lo Crotomara, et «hktailk, qucm OJympiodorus quarto m te^ rolog. V ^ \ M V S. aut ludarivaut isTctyKgitrtccfmcogcbzmur, iccirco cibo indigebantcorruptu &:.euaporatu dJthcili,cuiufmodi eftcibusex fuilliscarnibus,quibus foli veri athletæ uefcebantur, atquc tareserant> qui inludis,. in amphithcafris, &:etiaminalijslocisob pracmium,&gloriamcertabanr, in hoc acetcris diuerfi, quod folum uincere,&:coronam affequi ftuderent, cum alij ucl bono habi tui c orporis acquirendo, &: fani tati tuendæ ; uel militari fortit:udini,&: peritiæ acquirendæ intenderent,quos /impliciter gymnafticos,&: exercitatos,vel athlctas bellicos nuncupari inuenio, ex. quo conignuraliumefie: (Tmpliciter athletam^^ alium fimpliciter gymnafticum, necnon tres fuiffe artcs in exercitationibus uerlantcs communinomine gymnafticæ vocatas, quarum medicaomnibus magis proprieita di£ta fuit,alteranempe beHica (apud mcdicosloquor, quod alijforfanhancprimariamefTecerint ) minus; tertia omnium mini me nimirum, quæ a pracdi£l:is degenerans,. uitibfaiappellata lit' quacue robori, non fanitatioperam daret : roburenim diuerfum habitum afanitate cxigere, teftis eft Ariftotclcs viij. fed» problcm. vj. quo in loco pinguem habitum robori ^fornitati ucro rarum conucnire fcribir«. /01 tiSl fe, rah t5| TfcT^itio/a Gymna Htca^ Jfut Athretica:, CTa^. Xllir-Oftquam dc bellica gymnaftica, atquc etia dc gymna^ fticalimplici,quantuad præfens negotium:fpcdabar, fatisdifscruimus,iamopporrunum critde athleticafer ' mone habere;.quæ quonia tcporibus Galcni, atq. etia fuperioribusmaxima audloritatem fibi uendicaucratjideoeiopus IKfnas.ad fuit,uteam longiffimaorationcatqucimpuriflimiscontumeliofillimifq. uerbis infectaretur..quod qua fapienter fimulac iufte feccrit, exhis,qdeilliusprofefsorumoribus,alijfq..conditionibus di£Vurus fum, facillime clarum futurum /pcro.&ur aprincipio exordiar,Pli-^ lih.7.c.j lib, ad K07i}(vi(€$, qua artis nomen ei conuenifse dixerit Galcnus, fi quidcm "^**'^^* illius cxercitatores dum fge uidtoriæ, Sc præmij ( quorii gratia qui certa.nu Cpro prii aut v:ni (cti effc val niii doi tat tai ca bi 1 .7.429 !> . vf IffXyi'^ J^utdh^os r« crxt ginrw 7r*j,»t«» KOtii' ret}^ Ktti,, n-flf 'f * J^iOfUKot 6 /fc Kcti KKriX^* 'J'«A«/i«f) fcribcndum dubitan polTctob vcrba fcqucntia,quibus inuit robur cflcfuaptcnatura coniunctum cum pcrnicitatc ; vciumtamcn,ut non inficior ctiam uocem Tfc;(f»«7.i. artis quadrarc, cum ars inaxiinc valcat in athlctica,in qua cam robori iSc inagnirudini primum omniumaddidiflcThcfcum tcllatur Paufanias in .'^cticis, lic non uidcocuraroborc qu.)quc cclcriras fcpaiari.iicqucat cum rcs ipfa doccarplcrofqucviribusmagnopcrc valci c,qiii tamcn inagciulo tardi potius.quam cclcrcs funt..Scd ut cumquc lit chirc patct athlc t'aruomniuinltitutioncm,atq, dikiplinam huc rantum lpc>.'tallc,ut corporismagnitudincm,iobur,atq. cclcritatcmcompararcnr,quibusfoli cctcrosantagoniltas lupciarc,&: pracmio,honorcq. potiri ualercnt. id c^uodlicctpluribus cti-caminum gcncnbus conicnde Jcnr,qulnq. tamcnpi-accipuæranr,in quibusvcl femper.velplcD iimq. ram in facris cerraminib.quain Iudis,amphithcarris,&:publi cis lpcaaculis,fed pracfertim in ftadio,quod fere folis arhietis propnc deftinaru erat,cerrabant,lu6la,pugilarus,curfus,falrus,& dilcus. vndcludarores,pugiles,curforcs,falratorcs, difcoboli nuncupaban tur,qui feparatimin fingulispollerent,ficuri Pacrariafta diccbarur, qui in luaa,& pugilatu valebarrq vero in cudis quinqucperarhlus, &:vocabulo Romanoquinquerriusvocabarur,urdoccr Fcftus;erfi Qilinquertioncs apud Liuiu Andronicu athlctas fignificare fcribat idc Fcftus, apud quc ct peiiodon vicifsc diccbatur is, qui Py thia, lfthmia,Ncmea,01ympiavicinct,nomineacircuitueorrifpc6tacu lorfi accepto.narrarLacrtius Democritum Philofophum efse uoca tum pentarhlum,forfin quod in iuucnrute vicifsct.Erantpoftmodu Haltcres,iacula,arq. n6nullaalia,qucruquoq. certamina athlctæ E obibar,ar in pu blicis ludoru, &: ficroru ccrraminu cclcbratiombus raroillapcragebanrur,vnacxccptamonomachia,q.Græcosfaccr« dotes æftatis rcpore in pergamo excrcere cofueuifle memoriac ^o3.3 ar. 13 didir Galenus.Quamquam monomachos,fiue gladiatorcs apud ve rcresabAthlerisdiucrfosfuinbfcia,quod M.Ciceroreftarumfecit Epift.fam.hb.vij.Epift.j.his vcrbis,N.a quid ego re athleras pure defidcrarcqui gladiarorcscorcmpfcris ? Nifi dicamus qu^^memoriæ prodituhaberura Dionyfio Halic.anriq. Rom. lib.x.arhlcrasalios Imffc leuioru,alios gr.iuioru cerraminfi.arquc hospoftcriorcs fuiife gladiarorcs.Deijsin DigcftoiTiIi. 9. t.l.Aquiliaab Vlpianofcripru rcpcrio: Si in colluAarione vel in pacrario,vcl pugilcs dum intcr fe excrcctur alius aliu occidcrir,cefllit Aquilia, quia gloriæ caufsa et „ v]rruris,noinuinæ,vidcturdamnfidaru.vndcpaterearbitror.'ipud Maiorcs,hac athlctica 1 maxima exiftimationc habira.cuius ea erat ratio,qd' homincsfempcrillasrcsextollerc .ac honore dign.is cfhcercfolct,aquibusvoluptares,acdcIcdarioncsobtinerc ftudenr. ob quod cum arhlerica in publicis Iudis,cctcrisq. fpcdaculis maxi mas voluprarcs publiccafferrcr^in honorc habira arq. a multis exli.i*.c,4. P^f'^^f"^'7q"'in^oathIetisludos ingredictibus vrrefcrt Plinius oes a(rurgcbanr,cr,am fcnatus,ijq. fcnatui proximc fedcbat, necno cu parnbus,auis parernis,a quibusuis muncribus uacabanr,&: ui6to resin patnastriumphanrcsinuehcbarur,immo Athletis ingenuos cædercatciue occidcrc,qd^ilijs vctabanrlcges, non modo licuiffcvcrum er.am hononficum fu.fle audcr clt in lij.hypor. Pyrrhon. Sexrus Empincus Nc dicam, qd^ Eufebius in v.de Pracp.ararion; cuangelica mulro fermone damnat vcteres,f.eo fuperliitionis, arq. mfan..ie,nterdumdcucnifse,vtpugiIes,atqucathIetas,nDcorum numerumiefenent. Quibus ommbusracionibusfatisclarumcfse poteft..uhlctlc.im .uu.quitiis magn.ic auiVoritatis fuifrc : et proptcVca non tcmcrc illam Calcnum mfcaatum cfsc.dum an.maducrfe rct.quantudani exca artis athlcticac reputitionc hununo i^cncu acccclcretiliquidcno mo cuchianimi.vcruC-tcorpons bona;ita ccv rupebatur,ut nihilinucniri pofsct.qcK maius hominib.q. gloriac, 6C pmioru rationc lUa vndiq. ambicbant.dctrnncntu afla rcr, quc ulmodu Euripidcsipoq.clcgcintiirimetcltatushutlubhilccucrbis. O / ^ch^v 0 IxfJv ovcfi utLJviip OiiT ai S^wuAfv^ro^^S^ y^o-lg W ^*ip ^ rvxSn T% S^AoCyVfiSvo^ d^nijnf^^o^y KriiTUfT ULt oA.Sor f . . Msdtuverjati Mortbus y nonfacHe mutantur in mclius. Quibusnihil cftmco iudicio,quod magisatli.ciKMC ftatil prod.if. Ncq. tamcn dctucrut, qui hac pniciofam arcc comcrarijs cckbraC rc mtcrCtur, qualcs tUcruc Tryph6,ac Thcon Alcxandrinus,qui ab athlctica,in qua cxccllcbat, cognita cius prauiratc ad gymnaftica tadc dcfc iuit.Nc racca Platonc,quc Scrums,&: Lacrtius ^pdidcrunt athlcta fuifsc,&: ca dimiisa ad philofophiam (c contuhfsc.Scd quia athlctas pracmi) gratia ccrtarc,arquc vitam millc nccis gcncribus cxponcrc conlucuifsc no fcmcl dixi,id hoc in loco ncqnaqua practcrirc uolo,athlctisnon cadcquocumq. tcporc fuifsc {Smiv>i um gcncra propolira,vcrum,vt Clcmcns Alcxan. ij.Pacdag.c.viij.mcmoriac prodidit,primo fuir J^iaic fcu donnm,fccundo plaufusacrrio h liorum conicaio,poftrcmo cc rona. . f,1 ^ citatcm, et ob fcoenos mores delcnbcTs ait Inter catellas cnferum extalambeutet Tmitur aprigkttduks palæ/iritis, Attamen 1« rd le «!• am ith Btflf /lii ilifl 101 prt lin cap i|iii m cik : 1' pre lii Hij n h bu Ci n ni p B. . 75 A Atf imen iUos in frequcntiorc ufu habuific carncs tu bubulas, tum mcnto o'^^ dur" ic, ac alimcntorum cralTitic no modoubcnos nut.u c.itur. (cd f ri^utiusla.ur. pc,mancrc,u,,uo gcnc.x v.dusanv^^^^ nunil WiJofcj i.nmodicc «tcrctur.cosmorbosm«*?«>.'.t ficcac faginat.on,s athlcta, u, quac ut hc, ct ab ahqu,bus dubitatur, cgoucrofcmpcrputau. xc rophag.a.n .llam apud Cachum &c loanncm Cafr.anum comemoratam.qua.f.hcus ar.d.is, nuccs &nil coctum,n.lhumidufumcbanr,no., placc,itas,uta,r Arrianus in Epiftcto, non frigidum potum, et dc qua Plautus m Moftc'I ma ubi adokfccns quidaita loquitur,(iuo ncquc,ndullr,or dc iuucntutc crat artc symnaftica,d,fco.halb,pila,curlu armis, cquo, uictitabam uolupc parfimonia.S^ duritia. Ordinc h,n,Iitcr nullum . aut pcrpulillum athlctas in comcdOdo (cruafsc,m6c ccmpons nullam rationc habiufsc, fatis cxfuperiorib. clorum cfsc potcft.nil, qd: 4/ refcrt Gulenus eos non æqiie mane, ac uefpere cibos ualidifnmos ij ^ ' accipcre cofueuifTc/cd dfiraxarin coena,nomodo rarione.Meruni[ etiæxpcnentia dodi cibosin fomno.quando calor magis vigerm" tus, facjhus cofJci.alioqui coco-au difficiliimosipfis, cu ob q,ualira^ tem eoru ualde calori rcliftcntc.tum ob im;r,cnsa quadrate. quauis f H.i^c.r,S"ifl^'-itiirfenIinbPJiniiis,quifcnbitut;i'crasmaloi(refcmper ij eosubiq.fomnoIcntosappelIans.Inmotuquoque&:quiefe cM nullam mcnfuram feruare folitos athlctas teftatur Galenus,qui cos tw. modo tota dic laborare,quando.f exercitium rUutf^fiuc KXTccanciiim,pueros quoquc cofueui/Tcin palæftrisexercen,et prncrcrD tim Plato S.dclcg.qui tria gcncrafccitpalacftritarum,pucros,imberbcs,& uiros.Non modo cnim fc arhk rac ad inhibcnda ucncrcm frigidalauabant,vcrumctiam laminas plumbcasrcnum,&:Iumborum rcgionibus ad arccndas ncdurnas poIIutioncs,&: libidinis imIi.34.c.i8 pctusfrangcdosadhibcbacuttcftati funt Plinius, Galcnus,& loanua. c.uic.' '"^^^ CaflianusJib.vj.c.vij.quam rcm ct inTC^Iligerc voluifse D. Paulu arbitror,dum dixit . Qui in lladio currunt,ab o-mnibus abftinent,&: hi quide vt mortnl^' ooronam,nos vcro utimmortalcm accipiamus. lib adfflar Qil^,^cnaiTfis Tcrtullian^ hacc diccbatrNcpe cu&: Athlc tyrcs. ^^^^ icgrcgctur ad Itrldiorc difciplina,ut robori acdiiicado vacer,c6 ^ ^ tinctur a Iuxuria,a cibislactioribus,a potu iticundicirc:cogLitur,cruCiatur,fatigantur,^ D. Chryfollomus i.ad Corint.c.9. atq. Aclianus :Idc(Sy:Clcmcs Alcxan. lib.^.Stromaru^&SimpIicius in comcn^ li. is.c.6. tariofupi\iEpi:l:ctuintcIlcxir,quiRudio coronacathkcasauencre ablbncre fcriplit,ianyh'us H.a:^ca^-foi>i iii, Rom. b^^^v^ HamcrO'Colligi,apud prifcosailos tu.rpc.ha:birum cfecnudos -ccrtarc^rimum aut omnifi Olymp. vv.Kcaihum La^cdacmonixim Olympiacoftadi'0 dccurrcntcm totunvcorpusdcnudafsc,pudcdi$ tancifltiifuWigarib us campcftribus obtcCtis. 77 ilnidjit exercitAtlo, tlf quomodo diffcrAt a lahorc (tj motu. OSTQVAM dc Gymnaftica, quid fic>cius origincnvicc non vcrac,6aquacq. fingulatimcxplancrur. hoc ctcnim fac'to,cum ars(diccbai Ariftotc^.Ethk. lcs,)(it rcda opcrandi ratio,vidcbimus,qu:ic (ir in obcundis cxcrcitatiombus hacc rccla ritio, quomodo iUarum unaquacquc, ucl ad parandumbonum habirum,vcl fanirarcm dcfcndcndamconfcrat. P Excrcirarioncm iraquc dcfiniuir ( iaIcnus,fccundo dc tu. val.& ipfumfccurus Actius, tfscmorum vchcmcntcm,anhclitumalrcranrcm,ub: yvtaict^ K/nw^v.&in-oW^fuic cxcrcirarioncm,morum,arq. laborc in:cr lc diricrrc dcmonltrarrproptcrca qd' morus clt rcs quacdam magis communis,arq. pluribus conucnicns quam cxcrcitatio, cumfacpcmulri moucanrur,ncq. cxcrjcri dicantur,cxcrcirario ue ro non fit, niil vchcmcns morus : fnnilircr labor liccr lit vchcmcns motus.ramcn non omnis labor propric uocarur cxcrciratio, fi quidcm fodicntcs, arq. mctcnrcs laborarc,fcd non propric cxcrccri dicutur; tamcrficriamaliquandocommuniquadam appcllarionc labor,cxcrcitAtio uocarur rqiicmadmodiim (jalcnusab Hippocratcuocatumcfsc ccnfcr,quandoisdixit,Laborcscibumpracccdat> icx. 3 1. ' &:,ubi famcs,Iaborandum non cfiibi cnim vocchanc 7roVoj,quac,&: [^]^^ dolcrcm &: laborcm,liuc damnum,ut Itroriano placui.6Lcxci cira„na,cu7 tioncm fmnificarc folcr,pro cxcrcirarionc dumraxar accipi dcbcre l i tuiva^. iudicar.c^jo cxcrcitaiio iiihil aliudcriccxfcntaiaGaicni,&: Ætij ^ nili nifimomsvehemcns anhelitum alterans, yviivitrm^ Græcisappel-D latus,quod p!ci uq.nudi,aur fliltem cum paucioribus ucftibus cxercerctur;quemadmodum etiamlociiin,ubi ficbat>'t///^(cW appellatum fupcriore libro abundc monftrauimus.Sed quoniam poflct ali quisetiamin gymnafijsab alreropcruim vehcmentcrmoueri,qui tamen nullo padio excrcc i i diccicLur,iccirco hæc Galcnica cxercitationis(paccciusdicam)definit:o haud quaquamintegra eft.&: proinde Auiccnna Arabi m omnium dosftiflimus cum animaduertidethaud plcne cxcrcitationemaGa-eno dcfinitam fuifle,a!iam definitionemin medium arrulit, uid( iicct quod cxercitatio eftmo tus uoIunrarius,proptcr qucm anhc!iti.s magnus, &:frcquens eft ne ceflarius.Quo m loco eos quoq. mcrito damnar,qui leuem quamli bet ambulationem cxcrcitij nomire compcllant : non enim appofuit(vchcmcns)quod,vbi magruSj&LfrcqucnsiitanhelituSjfcmper ^ necefll^riofcqui ur motumiilum vchcmentcmcxfiflere. fed neque hæc definirio Auicennæ mihi plene fatisfacit : quoniam,etfi conueniatomnibus triplicisgymnafticæ excrcitationibus, cas tamcn propricnon complccl:itur:dequibusadmcdicum tradtare fpedtar, &: nos etiam loqui inftituimus : fiquidcm omnia quatuor cauflarum genera haud quaquam compleftitur, cum ncq. materialis explicetur, neque caufla cuius gratia. Accedit item illud, quod multi uoluntarie uehementer,&: cii anhclitu au6to mouentur, qui nullo padio dicentur proprie exerceri,ficuti ferui cum celeritate dominoru mandata exfequcntcs,&: ficuti illi, qui vel inimicoru impetum, uel quid aliud trifte cflugicntcs,&: vehcmenter mouentur, 6c frequenter,ac magnopereanhelant : ex quo Auicennæ definitio haud pcr. fcfte totam exercitationis natura copleditur s ficut neq. illa AuerF rois,qua dixit in libro coIIedaneorum,exercitationem efle mcbrorum motum aliqua uoluntate fadlum. Ideo nos alitcr definictes dicamus,quod exercitatio,de qua medici intereft tradare, jpprie eft moms corporis humani uehemcns,uoIuntarius,cum anhelitu alterato ucl fanitatis tuendæ,uel habitus boni comparandi gratia fa6tus. ita namq. definitio omnes cauflas comprchendit, atq. foli definito conuenit : uerum enimucro poflTet aliquis merito a me fcifcitari, numquid motus equi tando, vel nauigando peraftus exercitaonis nomen mercatur, eo quod non libere a uoluntate hominis, fed ab alio dcpendere uideatur ? cui rcfpondeo, non minus equitantes,&:nauigantes alijs cxerccri dici debere,fi n6proprie,faItcm communitcr,dum modo gratiafanitatis,uel etiam militarisftudij illud cfficiant : quandoquidem propric exerccri dicuntur, qui exercitationcm nuper a nobis definitam fufcipiunt.quibus vero aliqua tx comlraohibiu neccflarijs dccft,illi potius communitcr, quii .propriccxcrceridiccntur,riue i fcipiis, llucab alijs moucanrur, • tafidcm facere inerito lcripferunr &: Flaro, &c Gatexius :fiqtuidem ^illaftatim ac in mundanahanc lucem ueniunt, f efe mouerie, agi tarc, ac faltare confpiciuntur : veluti quoque pueri faititant, qui tamet/iin hoc brufisimbellioresad fruendum hac uita excant,nihilominus &ip/i, quantum conceditur, fcfc mouere nituntur iiitque exmotibus non parum voluptatis accipiunt. qui motus poflmo^ dum crefcentibus annis dum codicionesfupra defcriptasrecipiut, nil aliud planefunt, nHi iplilTima facultatisgymnafticæ opera: vt omninodicere cogamur ipfiim,fi aon a naturafa£tam,faitem fecun dum naturæ propenfionem efsc Huiufce facultatis cum Plato duasprimarias,atc[ue uniuerfalespartes effecerit;proinde allatani ab ipfo gymnaflicæ diuifionemin medifi proponemus, nou quod fub ipfaomniumexercitationum fpccies appofitc contineantur, E fed quodanuUoalioartem hanc mehus diuifiun hucufqueuidcrc contigcrit.nGque nos quifquam rcprehendere dcbet,quod in pluribusPIatonis,quemmedicumncmofanus reputat,au£toritatem in tradanda re mcdicatantifaciamusiquandoGalenus ille, cui no jninusmedici 3,quam Pythagoræ eius difcipuli credere tenentur, fcriptum reliquit, Platonem Hippocratis imitatorem fuifse, nec vfquamabiUius placitis receirifseinam Galenum hoc inlocofe;/>cdtuocauitLucianus; et in gloflario habeturjccrnulat ;6t;,5W, quS uocem et ufurpauit Sc neca Epift.8.etfi cernuat plurcs codiccs habeant. Secunda {^QCiQ% eftfphæriftica,(iuepilæludus.naq(fludentes pila faltarent,præterHomeritcftimoniu,qui fcxto OdyOeæ dcNauficaahæc tradit: TTiaich Hcw(jiKoict?^dj}tcaAQMoc iipX^'^ MoAttw^. idcft: Ludebantpilayvittisvcllisque remotis y Utqne his ^auficaa ob niucas Jpe^abilis vlnas TrincipiiHn ludo dabat. tcftaturquoque Athcnæusex auaoritate Demoxeni,ficutiinferius indicabimus . Tertiafpecies eft opx>i(ng fimpliciter dida, nos limphciccrfaltationem diccrc polTumus. Totahacorcheftica quau is maiores noftri ut plurimum ad uoluptates, ac lafciuiam poti us, quam ad aliud utcrcntur,qui mos etiam ufque ad hæc tcpora pcrdurat, nihilominus gymnafticam bellicam,athlcticam, atque mcdicamilla quoque prorfus non caruilTe conftat, /icutnec ccteraf cxcrcitationes abuUa fereharum triumomifli fuifsc dcmonftrabo, ubi in finguHs cxcrcitationum fpeciebus dcclarandis, quo modounaquacque gymnafticæ illis feparatim ufa fit, indicareconabor . Bcllicam cnim abfque faltatoria non fuifle, locuplctiflimumteftemPlatoncmhabemus, quiin feptimodclegibus faltationcm in tres diuifit, militarem, paci aptam, atque mediam; milirarcmque vocauit corum, qui modo exfilitionibus inaltum,mododcprcflSonibus, modoinclinationibus hoftilium incurfuumin uafio A uafioncs^euirationcfq., imirabanturjquiq. figuris uarijsiaculatorcs, &c pcrculTorcs fimulabant ; atq. hanc tanti fccit, ut uoliicrit in Rcpublicamaginroshabcri, qui mcrccdc publicacondiicti uiros fimu!,ac mulicrcs hanc cdoccrcnr,arbirratus hac una non paruadiumcnti accclVurum ad adipifccndamihtarcpcritia.&:nobihsauthor Quintihanus hb. i.inft.c.z.tcllarur Laccdacmoniosfalrationcquan dam tamq, ad bclhi utilcm intcr cxcrci rarioncs rcccpifsc.QiuJd uc roathlctica gymnallicaintcrcctcrascxcrcirarioncshabucritaliqfi faltationcs,c6probari potcft cx Plini o,qui Stcphanionc togarac fal ^^''^* tationisprimuinucnrorcm vrrifq. faccularibusludis,(!s: D.Augufti, &: Claudij Caclaris (altalsc mcmoriac prodidit : qucniadmodu 6c Plato loco nupcr citato laltationc a nobis mcdia, ab ipfo d^^icfifi" THjL^lw nucupara in facrihcijs, atq. expiarionib. ficri fohra,q a Ma B rincnfibus,&: Arcadibus cora Cyro fiicta rcfcrr Xcnophon, rnidcns, libro i.dt apcrtc infinuarc uidctur, arhlcrica, cuius 6c ludos &: furificioru cc^y'-^^^' lebrirarcs cfic ia dccrcui mus,falratoria habuifsc.( lal.porro ncc mc dicinac Liymnartica falrarioncs a fc rcfpuifsc rainq fanitari, et bono habitui mudlcsplanc conhrctur,quandoquidc in fccundoTrtei vycap.vltim. Hvm' multos imbccillcs ualerudini rcfii tutos a fc ludis, pacrarijs,ialtationibus, arq. alijshuiufccmodi cxcrcirationib, rcfcrr.id qd AnOrib.r. ryllusparircr tcllatum fccit,ubi inicr cctcras cxcrcirarioncs hominibus ad (anitatc conkrcntcs hanc ponit, mcdiamq. intcr chorca, &: umbratilcm pugnam naturam rctincrc, &: ob i d puc ris, mulicribus,atq.fcnibus,quorum corpus mirum in modfi inibccillum,&: gra cilc cft,conduccrcfcribir. An ucro hacc cafir /alrario, quam Plaro up**yixLuu,i\\XQ paci apram nuncupauit,(]uamq. animi in profpcritariC bus,&:inmodcrarisuoluptatibustcmpcraticxfiftcrefcripfir, haud tuto affirmare audco, fat (ir nobis hactcnus oftcndifsc nullum gymnallicacgcnushac laltarionc caruifsc,inquam, &:in palacftncam cxcrcitationum arrcm a Plaronc dmifani cisc iam diximus. De Sph.t€riliica. Cap. /K Altationem incubifticam, fphacrifiicam, &: orchcfticam,fiuccommuni nomincuocaramfaltationcm diuifimus,quarum unaqiiacq. iam nobis fufius dcclaia da lorct. Scd quoniam dc cubiltica ab auctoiib. pauca admodum tradita rcpcrjuntur,omi(sa illa,rcliquas duas prolcqucmur. Atquc primofphacrillica fcfc oflcrt, quac ramctfiHomcri tcmporibusfimplicior cfscr,atramcnpollcrioribusfacculis mirain OymnajtUa. G 3 uaric«4 æratcm acqiiifiuit, m&c ipfa in gyrrKraii/s. t-am locumcSoLfD «5:^0^5 quani pracfcdum awotdpn^/Koif voaitum haberc mcruerit. I.7.C. Jjr. 1« uar pn^HV.op:, quxm pracfcctum arpotfp^i^^Kou. Qiiis vcro primus fphæritticamhanc,fiuepilacladuminucncrit, fcripcores diiic/a fcntiunt. Plinius inter Larinos Pytho cuidam hunc acccprumrcferc. A^alisCorcyreagrammatica Nauficaam ludipihiejnuenrriccm, fcd ignoroquararionc,apud Athcnacum facir.-HippafusLacedacmonijs, DicacarchusSicyonijsinuentum iftud artribuerunt . Ex quo fir, vr ccrri quidquam fcntirc nequcamus,-&:co magis quod TimocratisLaconis,aIiorumuc dehocludo commcnraria non habcmus, quibus forrafiis &:ranracuarictatis rarioncm intclligere,&: incognira prope ludcdi pila gcncra ccrtius cognofccrc poffcmus.in quibus cxplicandis cum huc ufq. fcriprorcs non parum confufi fucrinr, arquc intcrdum a ucriratelonge receffcrinr^nos, quantum ficri potcrit, tradarioncm hac clariorcm, minufq. antiquorum fcripris repugnantem cfficcrc ftudebimus.PiLiiraqucludendi gencnlquaruor duntaxat apud graccoscxftiriffe rcpcrio, uiyct^w T^pajjpcLV, fjLiTtfKVj^pajpoM, yiivbju o-(poijpcJUf, ^ yicopvKOV, fiue paruam pilam, magnam, atquc pilam inancm, et corycum,rcpono corycum inrcr pilac gcncra,quod licct GaIcnus,Oribafius,&: Paullusab illisfccrcucrint, inftrumcntumillud, ut demonftrabimus, nel pila crar,ucl pilac aflimilc . Paruac lufus fccundum Anryllum trcsfpecics diuerfashabuir.prima crar,pila ualdcparua,in quaqui cxerccbanti.r, corpore maximc claro ludcbant,&: colludcnrcs manus manibus proxime admoucbat. fccQda crar pila maiufcula, qua cuhiros cubiris ludcndo immifccbar, ncc corporibus mutuo hacre bant, ncc annucbanr,fcd uarijs modis moucbantur,&:proptcr uarios pilæ iaitus huc,atque illuc digrcdicbantunterria erat pila adhuc maiorfccunda,in quahomincsintcr fc diftanrcsludcbant, &: in qua cum itararia, ac motoria pars cflct, qui manebant,pila cmittcbanr cumuchcmcnria,&:concinniratc. inrcr has fpecicsadnumcraridebcregcnusilludiudico, quodpcncs Athcnacum ifc^r^t901/ &: (poivi^ uocarur, rumquiaa Galcnoin libcllo deparuæpilæ ludo fimul cum alijs id quoquc cxplicarum habcrur,tum quia CleS.facilag. mcns Alcxandrinus, fcripror grauiflimus, ubi dcmonftrarct ludum paruæ pilæ.&: præfcrtnii (puMct, cxcrcitarioncm cflc uiris ualdc accommodatam,cam paruac pilac fpccicm fuiflc hac oratione clarum facit:oV/ inucnTorc . aur>.-n. ^ «.rxx/C.r ^f^»x«,K«^? ^xnzo* /.cuf twsitx» rotwirlt^ yy^zy . K.«xw n.ut tAaCt, f/ ^W . X. ;,x*^r.^cr«x-;uoit-'J^«« i^lmptc,&: com;mn.tcr ludcrc folitos pcfpicuum clhcitur.Hac ir.iq. I:.nr p.Iacpar..ac Ipccics dcquib.isa Gracc.s .ncnt.oncmhabiralcio. .nqu.bus hp.ccncspli.lofophus.ncc non Ocfib.us Clialc.dcnl.s ph.lolophus, nuo cum muhi cx Anrigoni rcgis ra.mliaribus hukd. yrar..i cxlucbantur.mulrum cxcclluilfc dicuntur. Arqiu follux al.ap.lac parU.1C ludorum £;cncra proponit, Aporraxun \ ra.i.am,..! quo (clicctfcrcrccl.na.itcspi!a.n incoclu pro.jc.cbant,& a.itcquarcr' G 4 r-im, - ram attingerct, excipicbant. Coctcrum pilam magna duos quoo. D ludcndi modosnon folum exipfiuspilacmagnitudinc,ueru ctiam ex manuu hgura a fuperioribus diucrfos cfl"ccifrc,Oribafius cx Antyilo rcftatiir, qucrum unuscratludcntium magna,aJiusmaiore, lioc tamcn anibo communc poflidcbant, vt /icuti in cccteris prædiCusJuiorcs fummasmanusscpcrhumcris humiliorcs,ita in hac lcmpcr capiteahiorcs tenerenr, quandoq. ctiam fummispedibus ambuJabant ut manus altius cxtoIlcrcnt,quandoq. falrabant, cum lcihcet pila fupcr cos fercbatur,in qua proijcicnda vchemcrcr bra chia agirabanr Inanisporr6,fiuc vacua,quod tcrtium pilacgenus fecmius,quahs fucnt haud farisexphcaium habetun/iquid rame.i con.cauracxAntyllivcrbisaircquilicct,crcdohancpila,qucmad modum S^coctcras cx corio cofutam fuinc,in hoc ab alijs diffcrcn tam,quod illæ ucl pluma.^uclaliamatcriaihæcfolo venro,/iue E ære plcna forcr,arq. rantac magnirudinis, ur ipfa difficulrcr lude. rerur Corycus uero quis cflct, quomodoue ludus illc perageretur, cumAn yllus apud Oribaiium clariflime exprcfl-erit, e?us orationem huc -duccre ftatui, quæ ita i„ V^aticLo coc^ceT habct . K«,o.x^^ aSzvir(pcoP i,U7Ay^ccru^ yAy^af^^cy, -Hw^^. ^oyrL., .fo^i-npo., i-.^,.e^,^^oJ.oZv:,,n robumonbus arena implcuncins ucrS magnitudo a d 2e cor Pons,&ndacta,cmaccommod«ur,rurrcndrturau7cmin« SXnt it u iS l","!™ ' itcrum rcIrcijcicntcscmit nt.urc rr^, '/if,""';:^^ ' ucntu ruooccunat,adcxt«mnm 1' ? r™';''' "/P°" »,,.;„r,;tr ™.r*,r^ot:'ald[&i^re! troccdat. . 17 A troccdat, c\quo fir,ur quandoq. manibus occurranr, chim propin„ quar,quandoquc ucro pcctorc manibiis pallis,quandoquc vcro ijs^ ad tcrgarcvolut.s. Hadcnus Antyllus.qui ramctii hguram Coryci luporcomnibus tunc remporis nocam non cxprimar^conicdura ta mcnalTcqui polTumus j^ipfum iphacricum ^aucfaltcm rotunduni cx matcria ccriacca cxllitillc, alioqui ii angularc fliifsctin occurfu, &c manus, &: pechis non finc laclio.nc pcrculTifsct . Hacc autcm li uidifsct Fuchfius, (anc inrellixiikt, Valcriolam non finc racionc aducrfus ipfum contcndifsc, follcm,^: corycum paullo minus, quamcoclum,&:rcrramdiflafsc. Ncquc ctiam fatisn.irari folco anriquilTimum lcriprorcm Caclium Aurclianum,qui lib. v. tard. pafl* cap. vlr. dicit variam uolurationcm in palacftra cfsc uocatam a Graccisccladian, atq. coricomachian,nililirin codiccdcprauatilTmo crror,vt puro . Dc hoc intclligcndum crt adagium illud, TTfi^KigvKOpyviJu^d^yrlrKt quo gcncrc ccrtamins Apulcioin Thcfsalia ccrratum cll.Dc hac quoq. cxcrcitationc vcrba tccir Hrppocrarc^ fiucPoIybus,ubijiL(';^/flfy,faI(o a Clornario follcm intcrprcratam,ad artcnuandum corpus prohauitrqucmadmodum &:candcm inrcllcxit Arctacus, ubi pro clcphanr icorum cxcrcitationibus xefv*. KoRox'(ti probnuir,quas bonus i!lc intcrpr^cs,ucfc^io qno fpiritu, pcrac,aurfaccu!i iaauSjincprcfatisrranftulir.Eandcmquoq.nucllcxifsc Coclium Aurdianum cxi(b*mo,cuin ad polyfirci am diminuc damcorycomachiam(fic cnim lcccndumcll)comnicndauit ijfdc propc rcmcdijs vfusqfa' ^b 1 lippocrarc loco cifaro propollta funr. vndcargumcntatusfum,Auctorcficuti cetcra,ita «ccorycomachia C ab Hippocratc mutuatii efse. qtiamufs textus ludicio mco dcpraua ' rusfit. Locum vbi ludcbarur,Cor)'ceumapud Vitruuium appcllari,ccnfucrunraliqui;quorumfcntcnriamp(>Itquam in fupcrionlnis rcfurauimus,nilaliud diccndum cll.Arq. hacc dequatuorpilac lu di graccorum gencribus,vidchcc t pila parua, pila magna,pila inani, &: coryco. quac omnia diuerfa inrc r fc cxditifVc, non modo cx dcfcriptionibus nupcr allaris nuinik rto conftar, ucrum criam cx Galcni vcrbisinfccundodc tucnda ualcrudincfcripris : vbiintcr cacccras gymnafiorum cxc rcirationcs corycum, pilam parua,&: pilam magna,fcpararim rccenfcr,ficut &: Paulus Ægincta iplum imi tatus. quod profcdo non lccifscnr,nili quacda iurcr lc diucrla cxfti tifscnt pilarum gciu ra,&: diucrfac ctiam cum ijs fadac cxcrciratio nes. Quac nunquidomncs in Graccorum gymnalijs cxcrccrcnrur, parumfcHcrcfcrt.farfirinfcUigcrc,mcdicamgymnafticam,atquc bcllicam,& pracfcrtini pi.cris cdoccndis incumbctcm pihu u cxcrciratiorcs if citationcsvfiirpafrcsncque ad valctiiclinem,acngilitatcm compaD randa,augendamiie cas cercris inferiorcs exiftimnfrc. atquead hoc idmaxinrcfacit (]uod Knftathuislcripfit ad Xodyfs, Hcrophilomc dicopolitamfuiflc ftatuam ac propceaintcr alia gymnalticac inftrumcta ct pilam. Admirari aut nemo dcbct, fi nos in fuperioribus fudosintcrathleticasexcrcitationes rcpofuimus,&: fubindc multas quoq. bcllicas,mcdicasq. exercirationesludosvocamus,vtnupcrrime dc pila dictu ci\. a nobis ; quonia et vetcru, &: recentioru tfi Oracc()ru,cjlatinoruloqucndi mos obtinuir,vt multasexcrcitatio* ne5 natJ^iK^^Sc iudos vocarcnt,autquod a pueris g.7r«rA5 Gracce di cunrur,vt plurimil h\TCiit,aut qcf illi.q. exerccntur,non fcrio,(cd io vidcantur,{iucgratiafanitatis,{iucalteriusreiid efficiant. ludi vcro,quos athlcticæ efTc nos dicimus, ita propric uocabatur, quoniam foIatij,&: voluptatis folius gratia in otijs fcftiuis agebfuur. E Dc PiUe ludo fecundum Latinos. Cap. V OSTQVAM pilaludendiGraecis ufitatagencrafatis cxplanauimusjfupcrcfl: &: ea quae aLatinis ; &: in vlu habita,&:fcriptistraditarepcriuntur,explicarc:vnde,in quibusamboconuencrint,&:inquibus diucrlifucrint^ perfpicuum futurum fpera Quatuor igitur fuillc pilae genera ctia apu(i Larinos,quibusludebant5inuenio,follcm,trigonaIcm, paganicam, &: harpaftum, quae omnia fub nomine Jtalicac fphacrae a Coclio Aurcliano medico complexa nonnulli crcdunt. Folhs erat pihimagnaexaluta confcda,(oloq. uentoxeplera, quae /imaior eratjbrachijs impellebatur, &: fimpliciter piJa interdum nuncupaF batur,ut apud Nonium ex Varronc,Purgatum fcito,quoniam uidebis Romae inforo antc ianuas pucros pila expuJlim ludere \ &c apud Propertium lib.3. Cum fUa vcloces faltitper Irachia ui^us. illtcrdum quoq.,pila vclox,ut apudHoratium Sac.Iib.2.Sat.2. scupiU vdox M olllter auflcrum fludiofalkntc labvrefn, Seute difcus agit* Hufufmodictcnimpilaecxcrcitationem licct uidcrein Gordiani tcrtij Imp. Rom. nummis, quos hic dcpirtos adpofuimus,&: ex quibus conijccrc licct,unumquciuqae iufcxmm nropriam pilam habuifle^atq-ueeum luduminfacriticijs Pytlrij^ apud AipoUoniaras adhibitum cir]e,uttumex uoctr ns-ei Atum ex^aima,-atquc facri- ficatorijs uafis colligere non eft difticilc Si vcrominorerat,pugnis cijciebatur^atq. piigilJarisfoJIis, vt apudD PJautu in Rud. cxtemplo HercJe cgo tc foJJcm pugiJIatoriu facia ; uocabatur.lntcrdu quoq. hanc cadcm pilam Folliculum appellari crcdojlicuti a Suetonio in uita Augufti, quem hoc pilae ludo ualdc deletVatum narrat.Quomodo ucro JVIanialisIib.^.dixcrit. Tlumeayfcu laxi partiris pondtra follisy ' cum ex corio ucnto replcto pila hacc confucretur^&non pluma.ut omncsfcrcLatini audtorcs uno orc fitcntiir, quidquid alij rcfpondcantjOpinoregooblcuitatcmfoIIisponderapJumca dixiflc.cuius lcuitatisgraiiancque.pucri, ncque fcncs aJioquiimbecillcsintcr ludcndum vcl nimiuiii quid dcfatigabantur, &:propterca idc IVIartial.alibi fcriptum rcliquir. iib.j^.. Itc froLul muriLS tis mibi connenit aetas, Fotlc dtcct puercs ludere, folle fenes, £ Namuthocgcncrcludicorpora imbccilliora cxcrccri ualcrcnt, nonmodoIcuispilacHicicbatur, ucrum etiamdicarus lufuilocus nullis lapidjbus aut latcribusltcrncbatur, nclabercnturpcdibus ludcntcs,&, fi fortc lapfi eflcnt, cx cafu damnum non patcrentur i &: proptcrca,cum folum minimcpauimcntatum forct,cx cotinuo tcrrac attritu puluis cxcitabatur: quamq, ctia ficri potcft,ut pauimcnta ludcrcnt,fcd pulucre humili &c cxiguo illud adfpergcrcrur,ita ut pi lam rcfilirc non impcdirctur, atq. ludcntiQ pcdes magis firmarcn-^ tur.Nam in pulucrulcnto folo licri hanc cxercitationcm confucuiffe,innuitJVI.irtiaIis lib. i2.ubi Mcnogcncm quendam cx Thcrmis ob dcIcAationem exire ncfcicntem in hunc modum carpit. Ifjugere e Thcrmis, circa balnea non eft, Menogenen, omni tu licet arte v^lis, p Captabit tcpidum dextra lacuaque trigoncm, imputet ex^eptas ut tibi fæpe pilas, Colliget^, et rcferet lapfum de puluere follem, Et ft iam lotus, iam foleatus erit . Numquid autc ludus ifte fucrit unus cx ijs, quos fupcrius fccundunl Graccosauftorcscnarrauimus,uariacfcntcntiac fucrunt.Ahj cnin^ crcdidcrunt pilam magna Graccoru>&: follc Latinorii idc fuiflV, m tcrquosfuitThomasLinaccr,quicumin2.dctu. val.corycufollj traduxifsf't,in fcxto poftuuidum liJ^:o magiiam pilam itcrum folj 2. Jtu.ua. tranftuht, quafi corycus, &: pila magna non diftcrrct apud Galcnu, qui cxprcfsc ^ pila paruam,&: magna,& cory cu diftinxit . Alij maluerunt corycum Graccorum,foIlc Latinoru fuifsc : atq. hanc opimonc maior pars rcccmiorum fcriptorum habuit, intcr quos fucre quidam, qui apud Onbafiu caput Cory ci, de foilc pugillatorio infcribcud di Oi cd hfl dd pah W COiI( liisa con pim bj cai m\ ki Sicn Doni ierl( !crc A kribcadum iudicarunr. fcd hi oC-s m.ignopcrc hiillucinantur:^ primo,qui crcciidcrut follcj^Sc mænam pilam idc fuiirc,duabus rationibus rcdar^uuiuur,quarum ahcra c(l, q Jludctcs magn*i pilafcmpcr fummas manus capitc ahiorcs tcncbant, quandoq. criam fummis pcdibus ambulabant.ut manus ahiorcs tcflcrct : ahcra cft,quo J Oribafigs hidu pihic may:nac no modo acgrotis, fcd cti am coualcfccntibus, atqr bcnc ualcntibus inuiile iudicaui t, quorum ticutrum habuilk folkm,facilc cft cx fupcrioribus iudicarc.Qui ucro iollcm corvcu!nfui(Tccxillimarunt,muhisrationibus&:ipficrralTc dcprchcnduntur.Primo,quoniacorycusc cuhninc gymnahoruinfufpcndcbatur,folhs h bcre emittcbatur . Secudo corycus ficulnco grano^ aut farina,aut arcna implcbacur, follis folo vcnro . Tcrtio loUis in pulucrc cxcrccbatur,cOTycus ucro no. Fuerur itc qui tollc pila i naB nemfupcriusa nobis cx AncyllodcfcripramfuiiTccrcdidcrur. quibu^ cgo libcnter a(Tcntirc,ni(i MartiaJis dixifict, fbllc mitiori actari couenire, &: Antyllus pilæ inanis cxcrcitarionc non admodu facilc,ncq.aptam,&:idaoomirtcndamcfsc ccnfuiset. Colligoigicur cx his omnibus, quod cu follis,ncq. inanis pila Graccoru, ncq.magna corundc,neq. corycus fucrit, eum illos ignorafsc. ncmo cnim c(l, paruampilam follcm rcpuraucrit. Porro Trigonalis pila,qua hidcbatur,parua crar,ita nuncupara uel a loco,ur uoluerur nonnuUi, ubi ca excrccbatur, qui locus triangularis crar; ucl potius a ludctiu ( qj magis crcdibilc cft)numcro,figura, Sc liru.hanc cfsc aliquando pili £mphci nominc appcllaram inucnio, ut aDud Marrialcm lib.vij. TipnpiU^ non foliis^ non tc paganica Tbermis ^ vj Tracparat, aut nndi liipltis icius bcbcs : Vara nec iniiHo crromatc brjcbia tendis, Klonharpalla uagus pulnerulenta rar.is. Si enim fola quatuor pi lac gcnera facimus,ncccfsario cum ceterac nomincntur, Trigonalis fub pila fimplici coplciflctundc hac fimihtcr locutum credo Cclfum, quado dixir,ab aluo cirara ucxaris pila, &:rcliqua fupcriorcsparrc s cxcrccnria conucnirc, quoniam in hujufccmodi ludo parrcs infcriores fcrc fcmpcr fimue mancbanr, fupcriorcs perpcruo agirabanrur . Quomodo ucro pcragcrcri:r cxcrcitatioifta,facilcconijCcrc pofsumuscx Martialis ucrbis,in quibus dem6ftrar,luforcs ita triagulari fitus figura colludcrc foliros,ur manibus urrifque modo fini ftra, modo dcxrra pilam uiciflim cxpcllcrc,&: cxcipcrc ualcrcnr, nc unquam cadcrcr. in quo fumma ludcntiumlaudcfuifseucrifimilcficfitur inlib. 7. ubi Polybum qucnda Uudat ob agiliutcm finiftrac manus in iacicnda,cxcipicndaq.pila. 5)2 &:libro.i2. &libro.i4. Slc palmamtihideTYigone nudo FnHæ det fauor arbiter coronæ, T^fC laudet Volybi magis finiflras . Captabit tepidum dextra, læuaque trigonem. Si memibiiibus Jcis expulfare ftniflris Sum tua ift nelcis, rufiice rcdde pilam. Ex his mcherclc patet confiicuifsc trigone liidcntes a fc inuice mo do niittere,modoexcipcrc pilam, modo finiftris, modo dexteris,eo propemodo, quo nollratespila paruafupra funiculum ludunt,&: quo etiam Antyllus tertium paruac pilæ lufum dcfcripfinGur-vero Mart. tcpidum trigona dixcrit tum loco fupra citato,tum lib.4. Seu lentumcefoma teris, tepidimi4C trignna : haud fatis mihi conftat.artamen,fi quid diuinare conceditur,dicerem proptcrca trigona tepidum dixifsc, dft quod homines ludcndo^ob uchcmentcm utriufquc manus laborem, &c afliduo rootus pi^ Jæ tenore magis incalefccrent: uel quod locus,vbi ludebatur tepidarioin gymnadjs uicinus forct, &: proptcrca ludcntes tamloci, quam pilac tcporcm qucndam percipcrcnt. itiucro fuifse, ucrifimile uideri potcft : cum fupra tum ex Galeni, tum ex Martialis fei;!-, tentia demonftraucrimus, poft pilac ludum ftatim confueuifse balnea calida ingrcdi . Nifi malimus di cerc, poctam trigona tcpidum dixifse,quia ex continuo motu pilac in manibus ipfa tcpida euadebat,eomodo,quoPropertiuslib. i.in Elcgialanuæ conquercntis, dixit Tepidum limc,quod ex cotinuo fupra ipfum ftatu tepcfceret, 7{ulU ne finis erit noflro conce/fa dolori, i^^urpis y in tep^ limint fomnus erit ? Excplum trigonalis pilacmihi uidcturillud,quodin nummis M. Aurclij Antoniniapud Byzantios excuffis hucinmodum apparet. F Quem itc ludum in liicrificijs ApoUinis Pythij Aftiaci adhiberi folitu,mcmoriac proditu eft. dc hac pila quæ dicit Seneca 2. de ten. f.c.ip.efse intcIIigendaputantaliqui.Eundemprope autfimilepaganicæ pilac lufum dcfcribi cxiftimo a Pctronio arbitro in fatyricis,ubi huc in modum fcribit.Vidcmus (cnem caluum tunica ueftitum rufsca inter pueros capillatos ludctcs pila .Ncc tam pueri nos, quamquamcratopcræprcciumadfpcvflaculum duxcrant, quam ipfc paterfamilias,qui folcatuspilafparfiua cxercebatur,nec ea am plius repctebat,q terra cotingcret, fcd foUc plcnu habebat feruus, fufficiebatq. ludctibus.Notauimus ct rcs nouas.Nam duo fpadones in diucrfa parte circuli ftabant,quorum altcr matellam tcncbat ar genteam, altcr numerabat pilas, non quidcm eas,quæ inter manus lufu expcUcntcs uibrabantur, fcd cas,cj[uac in tcrram dccidcbant. Siiccedltpagcinicapilaficappcllatn, quodcflet vuIgari5acfmocfu,D et in uillis pagis uocatis;ucI in pagis urbis ut plurimum in ufu habe retur. Nam Dionyfius anriquiratumlib. 4. rcfcrt, Romam in qua? tuor tribus olim partitam fi.iiiTc,quæ &c pagi,ficut earum habitatores Paganijnominabantur. fiuc igitur ab ifi:is pagis, fiue a uiHis paganica pila dcnommata fir,pari]m rcfi:rre credo.fat efl:,pilam fuifTe ex coriopluma rcp!cto,trigonali latiorcm,non ita tamen ut cfi:foIIis,laxam, fcd duriorcm ; fiquidcm follis, qui uento replebatur^ctfi quantodUriorcrat,tantofaciIiuscoIudcbatur,quanto laxior,tanto difficilius,ut ctiam tcmpeftatc noftra quotidiana expericntia comprobaf,ramcn paganica pila quo ctiam durior elTcr, et pluma rcple batur,&: non i ta rep!ebatur,ut laxa ufquam foret, fed vndequaque dur!flima,&: proprcrca difficulrcr ea Iudcbatur,qucmadmodum uc nuftiflimcMarrialishocdiftichooftcndicIibro H^ic (iuæ diffii ilis turget paganica plumay Folle minus Laxa efl, ^ minus arcta pila ., Sub nomine enim fimplici pilæ intclligi aliquando foIIc,aIiquando trigonalcm, paullo antc fignificauimus . Itcrum illud ignorari hoc in loco nolo, ctiam in gymnafijs paganicæ pilæ exerci tatio^ ncm in vfu exftitifl^CjUt idcm Martialis Iib. y.tcftatum rcliquit. Tipn pila, nonfoUis, non te paganica thermis Træparat, aut nudiftipitis ictus hebes, Namcumfacpiusa nobis indicatum fit,confucuifle fcre omncs» quifefein gymnafijspilacxcrcebant,priuspilaluda|c,& dcinccps tatim balnea ingrcdi,Martialis illis uerfibus demoimrat, inter ceteros pilæ ludos in gymnafijs fe exercentium ad balnca præparatoriospaganicamquoq. adnumeratamcfle. VItimum&:quartun| ^ Latinorum pilæ genus harpaftum fecimus. quod ob nominis fimil litudincmidcprorfusuidctur quod^V^d^oVGræcorumrcratenint pila,quamludcntcsalter alteri eripiebat cuius ucromagnitudif nis,^ cx qua materia forct,haud quaquam ab ullo audorc cxplic:^ tumhabemus,nifiquod Athcnacus his ucrbis manifcftum facit, harpaftum rotundum fuiflb. cA^x^ (panvScL 4;eaAf^TD, 0 otucrir,tum quia ciufmodi accubitus fibi ualde indccorus,atq. a Chrifti vita,^^: moribus alicnus,fimulq. edcndo,& ibi bcndo non parum incommodus vi derctur,tum quia a cuncftis prac fcrnmanriquioribus Euangclij interprc tibus fir penitusignoratus, aut /altcm omiffus, minimeq. coufidcratus, tum quia a piftoribusnumciuamnec fomnioquidcm aut cogitatus, aur ullomodo cxprcflusinuenitur-quafi vcro haud fit verifimilcpotuiflc tato temporc,totq. pcritos artificcs, atqdoftifrmios inrcrprctes iatcrc rcm non ita cxigui ad pcrcipicndam Euangelij vcritatcm momcnti.Pe iriis Cja.conus,6^ Fuluius Vrfinusrcrum antiquaru peritiflimi,quiq. muitis annis poft nicam gymnafticam de triclinio fcripfcrunt,proculdubio ad vcricarem accubitus acccflcrunt,atq. fi acquus Icdor Gollras cogirationesillorumfcriptiscompararc vclir, ccrtc fl:arim. animaducrtct,fcrequicquidhac dcre boni dixcrunt,cnoIlrolibro acccpiiTe, practcrita ramcn memoria, kcus quam fccit cruditiiTimus Galliac occllus Pctrus Fabcr, qui non modo fumma ingenuitæ in libris fuis agonifticis incredibiIidodrinarcfcrris,non: erubuit profitcri fcfc magnopcre cx Iibris-dc re gymnalticanoftris profcciflc,vcrum cciam fcgctcm,quam cgo pi imus illius pcne obliteratac artis rcnouaui,ira fingulari fludio, &c vberratc pt-opagauit, cxonKiuirq. ut ab omnibu^ pro tanxo bcmcficio fibi gratias immor talcsagimcrcatur. Iraquc ut omncm cxanimis dubitantum exi^ mam fcrupulum, &: aliquid maioris lucis tantac rei obfcurirari affcram,acompluribus quoquc rogarus,nonnuIla hocinlocotani deipfo accubendi ritu,quam dc ipfiiis Magdalcnac firu^&: opcrandi modo adijcere dcliberaui, ratus mc hoc laborc id cflfcdairum 9. ut gentcs tyindcm rcipfa melius confidcrata pauliatim rncipiant uctuftum errorem exucrc, arque fimplicibusanimis pidluraueram cius favfli h iftoriam pijs, &: vcritaris amantibus repræfentare . Qir :)d iraquc Vctcrcs tam Græci,c[uanT Latini,arque Hacbici cpa tanrcs accubercnr;, nomcn ipsu apud hafce cun£las gentcs receptiffimum facile pcrfuadere poteft, qucmadmodum a paucis dubitatum iaucniojcpin uiclmiopro commode, &c faciluer edcndo,atAqucbibcndcpairim aliquot fcculisufi fint . Quid autcmpropric antiquis clTct triclinium non ita abomnibus confcflum habctur; Eccnim qui nupcr ad Athcnacum crnditiflimas animaducrfioncs haudlincnugna laudcin luccm mifir CaufKibonus monftrairc fi^ bipcrfu.ilir^triclinium inrcrdum fuilTc acccprum \ jpfo I)..bifaculc\ubi kzY\ (lcrncbanti r,proptcrca(]uc is^uTciK^wcv,J^iKxrsiK^iJ^jiMxrfy ^i^op inucniri nominara, prout pauciorcs plurc!>uc cw js c.ipicbat; ncquc ipfc ui alvnio apud aliquos fuiflc fic appclla' xum, fcd quia in iH j Athcnad conuruio unufquifquc in mcdium 4d proponcrc conabntur, quod infrcqucntius crat, atquc aliqmm Icitu dignam raritatcm habcbat : iccirco cxilbmandum &ianQminAndo inurcndorriclinio cundcm cffc fcnluni fccutos, qrxm&: Kcginaurbium Roma fcqucbatur • Atqucdc Jiocipfo cuni l(;qi.crctur antiquus, &: grjuis icriptor Scruiusiu Comm.adprimumVirgiHanac Acncidos diwt Vctcrcsftibadia .non habuifscfcd Itratis tribus lciftis cpuIaircCundc triclmiurn Itcrni di'tum ) arc]uc eos crrarcqui u Kant tnclinium ipfambalilicam,ucl cocnarioncm . Ncquc minus fatlunrur, qui puiarunt rripodas iilos, dc quibus mcnno cft npud A:1k nacum cx Eubolo comico, a^inquibus duo ucl rrcs cdcntcsrcpracfcntantur inmarmoribusuctulUs fuifsc triclinia, quandoquidcm nulla ibi rruini lciftorum imago, nccucaccubirus confpiciiur, fcdfunt dumta>at fcpulclu-aliiimcocnarum dligies,dc quibus rrafam non rcrro,fcd antc, req. ftantc m,rcd genibus humi procumLcntcm vfquc ad hacc tcmpcra depinx,crunt>& feipfos,& alios (fiita loqrilicct) dcccpcrunr^pracrcrquam cnim quod vix imaginari porcft huiufmodi omnia pcrficiamuIicrcpotuifse,certumcft etiam,ncqueaminiftrantibus illudpcrmi/sumiri dcbuiffcfimulque indecorum ualdc fururum fuifse,fi mulier fubtus menfam gcnibusfefchumiproabluendis, &:cxiccandisC HRl S TI pcdibus ftrauiffer &, quac omnia incommoda cuni euitenrur triclinio, et accubiiu noftri^. ^ haud inrcHigere pofliim, eur debcanta quoquam ingcnio guftii prædiro rcpudiari, eo maximc qnod nuHarurpirudinis Ipccics in ijs fpc£larur, quæ debcar ab ca rc crcdcnda qucmpiam pium dcrcrrcre, quinimo fi accuratc ingrcifus mylieris expcndarur, miniftros, dc accumdifc bcntcs 2« tcm^s latereponm, haud fccus, atqucubi fcfe iii cxteriorc trichnij partc iuxta pcdcs CHRISTI locauit: quod fi aliqiiid in illoaceumbcndimodo non ita laudabilcfortc npparcbacquifquc fibi illiid pcrfuadcrc dcbctctiam quacindccora funtob populi confuctudincmfacpc omncm foeditatcm amittcrc,nam mulicrum aliquibus non cirra noram fpontc conuiiiij publici loci:madirc,ibiqi:c audcrc uiro adlucrcic, eumquc conrrc Aarc vngcrc proculdubio rurpc,& indignum caftitatc CHR1ST1 poruiffet vidcri, nill mo5 propc omniumorientalium caminuitaffcr, Certc Maldonarus inrclliycrc nonpotuir, quomodo dicatur rtctilVc mulicr cicda, qua(i non cntnc lciti-fupcrquos difcumbebanr ira alri,urip:i hcucrirfic ftarc, SC pcdcs cius lachrymis lauarc, inrc rprcrans ftarc pro con/iftcre, Scd lunufmodiofcitantiam conimilirob vcri triclinij ignorantiam,quod pcdcsaltos habuilVcnon cft dubiranduin,ut faci^ Jccxiplapidurac!uccr>&:Virgilius dc Acnca loqucns accumbcntcdixir iniciofccundi libru jrJe toro f^^^^ ^cntas fn orfts jtlto. Arqui Tolcdus Cardinalis ob longam, quam Romæ traxir,moram, uidcndi, audicndi rcium vctultarum pcrirosubcreaioccafioncmhabuit, forfanque noftram fcnrcnriam, &:pi. duram compcrtam habuit, quod cam iampridcm cum do(ftiiriinis lcfuiris, quorum conluctudinc dclcdor magnopcrc „ communicalVcm, priufquam publicarem.undc facile confcnC rirtoros triclinioruin ira alros cxtiriflc, utmulicr nullolaborc pofscr ftans rctro pcdcs cpulantis conrrcCtarc, lachrymifquc abiucrc : &:ccrrc liccr uir doctiflimus noncxplicatc docucrit difcumbcndi modum artamcn ex cius vcrbis vcrirarcm libi raaximc omnium inno,ruifsc parct. Jraquc hoc iam conftirutum fir tricliniuni dictumcfsc, quod rrcslccti ftcrncrcnrur, in quibus ira iaccrcnt, ut vcrlus menfam cubitis finiftris innixi dextcra manu urcrcntur,pcdcfquc in cxtcricrcm partcm protcndcrcnr, ubi miniftri cranr, &:ubi ftctit crcchi MAKlA, qucadmodum difcrtc faris, &:copiofc alil)! cx uarijsfciiproribus declarauimus, &: ficur cx imaginc antcpoiita clari/Time cluccr . Supra quid ucro ftcrncrcnrur lccli, non cftiraproditum, arramcn licct conijccrc facpius fupra tabulata alriufcula clsc c.xrcnios, quac nonnumquam criam apud Hc^ J& 3 bracos cx argento, aurouc conflata fiiifsc colligitur ex pri-D mo capitc Hcfter in illius magnifici conuiuij dcfcriptione, quod paritcr a Romanis hivftum teftatur præ cætcris Plinius lILro xxxi i r. capi.vndccimo, fuifsc ucro fa£l:a Icftifternia primum lignca conijcere licct ab co quodnarrat cxSenccaAgcliuslibro duodccimo, capi.fccundo, nempcSotcrichum lignarium fabrum cxritifsc, qui Icdos tricliniarcs ligncos faciebat, cb idquc data cftoccafio Adagij, vt cum iicllcnt rcm cxigui prccij, ncc multi artifici; frgnificare Soterichi lcdis aflimilarcnt . Nunc ucro fccundumpropofitun^ aggrcdior,fcilicct an apud Hcbræos, quotcniporc CHRISTVS aflTuit cocnæ Pharifaci, mos fucrit djfcumbendiirr triclinijs, quemadmodum Romac, qua de re cum confulucrim Vitalcm Mcdicæum Florentiæ, artemmcdicam fanE (ftac,ac feliciter cxcrccntcm,rcrumque Hcbraicarum longc pcritillimum, ismihiadco dofte,&: diferte rcfpondit, iit in hciiufmodi graui difceptatione uix quicquam doftius,&:eliniatiusdcfidcrari queat : quia tamcn ab fcntcntianoftra noa nihil difccififse vifus cft, pro mca confirmanda ncccfsc putoaliquid in mediumaffcrrc . Etenim dubitare minime oportct, quinapud ucniftilTimos Hebræos uarius conuiuiaagendi mosfuerit, fiquidcm libro Gcncf in cclebri illo conuiuio, quod lofcphus Fratribus, alijfque Magnifice, dcdit, omncs fcdifsc mcmorantur, fimilisquoquc morislibroludith, libroprimo, Rcgum, atque ahbi facpius mcniio clariffima habetur:atquifiThobiac,qui uixit ante captiuitatcm Babylo^ niæ Iibcr Icgatur, ibi accubirus non obfcuram mentioncm fieri cognofcctur, quamquam fortafsc diccrc licerct tunc illun^ apud AlTyrios vixifsc, apudquosinufueratcocnantesaccunibcre. lam vcro dc Troianis,atque Tyrijs fimihtcr exiftimar€ dcbcmus, cum apud ^'rrgilrum primo, &: fccundo Iibn> difcumbendi confucrudinis commcmoratio fiat, ficuti libro' fcptimo,non dubiamcmoria rcperiturfcdendi ad mcnfas vfus fubillis ucrbis Jlæ SacYis SedcsepuUs: hic arteteiæfa Terpetuisfolwpams coufidere maifis. Vbiquamquam inaliquibus eontcxtibus kgatur Ioco(confi. dpe}accumberc, attamcn Seruius cumlocumintcrprætans dixit 71 A Jixlt Malorft epulari confueuifsc fcdenfcs, .trqrc ilftim habuiffcmorcma Laconibus, &Crcrcnfibus, utVarro docuit infibris dc gcntc Pop. Rom.in quibus dixitquid a quaqncrraxcritgcutcpcr imitationcm. Hacc aurcui fcdcndiad menfav conluctudoRomanisccrtcillisuctuftillimisdiu. &:in aliquibus oi:c.ilionibus ufurpata fuit, ficur ctiam monun;cntis rclatwni jnucnitur Alcxandrum Magnum aliquando fcxccntos ut aic Athcnacus, vcl fcxmillc ut cllapud Kulbrhiumduccsconuiuiocxccpif5C,cofquc omncs fcdilibus argcntcis fcdcrcfcciffc. Atqui poftcrioribustcmporibv.s t.iui florcnris Rcipub.qunm IMPERATOR VNI noncddubium nobiliorcs ialrcmaccumbcrcconfucuifsc, idqucpractcrinnumcroslarinac linguac auctorc^ marmora quoquc tclhntur, ur locuplctiflimc alias B dcmonflraui, arqixalij quoqucdocucrunt. (iraccos parircr conftatcundcm accumbcndi morcm cf^c fcdatos, &:quod turpius cll, narrat Athcnacus raatulas pro cxcipicndo a ucfica rxcuntc uino gcil.vrc confucuifsc in triclinia,quas facpc ubi uino incalucraut ad capita frangcbanr, inrrodudo hoc morc a Sybariticis populis fordibus omnigcnis olim dcdiriirimis .Vcrumdc Hcbracis dubirarur an fimilitcr illi ad Romanorum imirarioncm accumbcrcpotius, quam k\\irc loliri fucrinr, ut Jiacrarioncliccat cxiftim.u^c CHRISTVM iri fuifsc loca. tum, ac proptcrcaMagdalcnam potuifsc (l.intcm rcrro pcdcs illius lauarc, cxiccarc, ungcrc. lam ncro complura funr» quac cxfcriptoribus confrat cos a Romanisfuif c muruaros,& lofcphusinlibroantiquir. narrat Hcbracos fcmpcr cfsc fccuC tosrirus Romanorum poftquam fub connn djtioncm dcucncxunr, modo non con-rariarcnrurparrijs lcgibus ur diccbam antca, manifcftum cflcx lacris Iibris anrc captiuiratcm Babyloniaccam gcntcminconuiuijs tam publicisquam priuatisfcmpcrfcdilsc. Vcrupoftquani in Habyloniam duCti fucruntcaptiui vu^oquc modocdcrcconfucucrunr, fcncs fcilicctfcdc; ucs,iuucnes ucroaccumbcnrcs, utmos crat Habyloniac, vcluri Habbini tradidcrunt,apud quosctiam lcgirur accubitumfcrif litum, ucl (Iragulislupra rcrram cxrciis,vcl tapctibusprcciofis«:s: pului naribus, ita utcubitis innixi lirnunn corpus uniucrfum f( ruarcntifacta autcmfuit dcindclcx, vt tcmporc Pafchatisin durac fub Pharaoncfcruitutis, Iibcrntionisq. commcmorationcquifquc accunibcndo cpularcrur ^cr.crcns ucrodicbus liccrct unicuiqucproutlibcrctlcdcndojvclaccumbcndo cocnarc: cx ouo 1: 4 pacct 72 2"patct apudludæos parircr accubitum gloriofum qxiandoque fuifschabitum. Porr6modus,qi!0 Hicrofolymis infecundadomofcilicctpoftlibcrationcm ab Acgypto,atqucpotiflrimumteporc Chrifti conuiuia ficrent, non ita compcrtus eftjillud uero conftat, in vrbc fempcr quinque hnguarum extitifle ufum Hebreæ,chaldeac,Syiiacæ, Graccæ, et Latinæ.quarum Syriacainfrequcntiorivfucrac. Hcbracavcro nonnifi adoiais,&:in difcipIiniscomparandi.vvfurpæa,{icutiolimRomæ Græca,& nunc paflim Latina.Fuit autem in ludacam Syriaca lingua intro dudta,quandodecemtribubusa SalmazaroAflyriorumregc ca ptisinearumlocummiflæfuntinSammariam,partesqueci cir cumuicinasAfl"yriorumcoIoniæ,utlcgiturxvij.cap.quarti libri Rcg.qui ob id ab Hebræis dcinde fcmper funt Samaritani uocati,atque idco aucrfati,quod Idolatræ eflent, mofaicosquc ri1 tus minimcut par crat,obfcruarcnt, ctiam fi a Saccrdoteilluc in idmi/rQinftrudlifuifscnt. Huncergoin modumSyriacalingua apud Hchræos tnduda.propagata, et conleruata cft, qucmadmodum ChaldacamSyriacæ valdc fimilcmipfimctludæiex BabyIonia, ubi i!la vfurpabafur,fponte tranftulerunt. Pofthoc vcro Graccisrcrum potitis, Rabbini dodiorcs ipforum lineuam ita apprchcnderunt.eiufquc copia,&fuauitate funt deicdtati, ut Hcbraicacipflimacquarcnr. Vndcpariterfucccfljt,utplerique eruditiorcsnonfolumGracccIoqucrentur,fedetiam fatiselc-gantcrfcribcrcnt, qualcsfucrunt PaulIus,lofcphus,Philo,afque alijplurimi. KomanipoftrcmocumIudæariifubiugalk'nf,neecffefuit,illc pnpulus ipforum linguam latinam addifccrct, eaque pro ncgocijs agendis utcrcturiquac ctiam fuit ratio,quamo brcmtituluscrucis ChnftiHcbraicc GracccatqucLatincfcriptusfucruilludtamcn dchikelinguis, &:potiflimumdeSyriaca ucic conftat ipfani fuifsc omniuniHierofoIymisufurpatiirimam, atque muhis Graccoruui uocibus pcimixram,fiue id fueritob graccæ dclcdhuioncm, qua ludæi afficiebantur, fiue aliadccaufsa:folcntcnimquipercgrinisIinguisgaudcnr, ficpc illarum uocabula proprijs commifccrc. Ergo hifce conftitutis,cumludæi linguam Romanorum Græcorum, &: Afsyriorum,apudquosin ufu crataccubitus,utcrcntur, vcrifimilceft quoquecofdcmaccumbendimorcmab ijs acccpifse.quodforfan .1 pcruicacibus ncgari potuifset,nifi compuircs Euangclij lo ci,ubi c.iicubitr,s,&:uccubitusfir mcntio,aucrre teftarcntur Vtruip autcm accumbcndi modus Hicroluiymiscfsct, qualis apud Romdnos in triclinio fcilicet Ic6tistribusa(rioribnscirca nv ' flratis ucl ligneis ncl arijcnrcis,aut:iurcis qu.ilcshabii . -lUosnarranrPhnius, Arhcnacus,&:alij,hauJ itaclarum clh Scd ut omittam ludæos ucrcrcs, apud quos forfan uox triclinij vfitara in facris libriscubiculumdumta\\it,in quococnabarur, SIGNIFICARE potcft,dcquo Vitruuiuslib.Archircv^turac quarrotra>:tauir,ccrrc cum in Huangclio nomincrur Archirriclinus,ncgari ncquit ludacosimiratosefsc Romanos,& Græcos,in quorum conuiiiijs crant lstoc^)(ecl, idclt,conuiuij princi pcs. Cacrcrum dodtifllmi uiri,qui accubirumquidcm inconuiuijsPharifacorum conccfscrunt, fcd morc Hebracorum ftratis fupra rerram lclimplicitcraccubirum,nonauremmodum lignihcer,&quod Pharilaci iuxtapracccptum leuitici can. xviij. coua ctur lu cl!sfcfciritibusquibusuispcrcgrinoiuma!icnarc,maxime Ronunorunviuosquoridic inrucbanrur idolisfcruirc vfquc adca aiegedamnaris, Quantum ucroad Magdalcnaca lonce difscnrire, (im ilquc oftcndcrc figuranfi tr*c!inij,.\: accubirus isdefcripram, atquerunc rcmporis pallima Romanisufitaram. v^^isciiimignorat cam fcmper uiguilscconfucrudincm, «t popuii principum morcs,quanrum ficri porcft, imitenrur?maximc uiri n(jbilcs6J in cxilliiuarionc habin, qualcs cranr Pliarifæi ;quos finon ob ahud falrcm uf Hcrodi &:Pilaro runcpro Imperarore Tibcriogubcrnantibus,fimuIquc Romanorummorcs, ut ait Iofcphusinrroduccrcfaragentibus,rcmgratam faccrcnt,ucrofimiIc cftconatosinaccubiru^qui nillcgi rcpugnabar, ficur &:in mulris ilijs forfan minoris momcnri Homanosimitari,quod Chrifti tcmporc omncs Oricnris narionesfaciebant. Quqdporro ilcbraci inalijs plcrisquc Romanorum fcqucrcntur rirus^abfquc multJ laborc indicabo; tumidcju >J imaginanturdcMahahaud qaaquam conliJtcrcpofscmonftrabo . Itaque noneftnegandum poft redadum aPompeiom Roma*D norum potcftatem ludacam, &: poft ArcheJaum iu/Tu Augufti in cxilium expulfum eam nationempcr procuratoresfuifseguber natan^5 qua occafionc Hicrofolymis^atque in orani ludæa innu^ mcrimilitcs, ciucs, atque cquitcs Romani omni tcmporc h^xhi" tabant,quosacquum cftcxiftimarcfccundum Vrbjsritusuixif^ fc atqiicipfis Iudæis,ut contingcre ubiquc foIct,eoscommunicafse,ncque id Hcbraeos potuifsc afpcrnari, nc muJto magisodiumprincipisfibi adfcifccrcnr. Er fi rcdc expendantur quae dc Ronunorummoribiisin couiuijsfcriprcrunc Varro, Ciccro, Scrxca, PIinius,PIutarchus,Su^tonius,Galenus, Arhcnaquod /iaiiJitcr fccifsc Chrillum in cocna difcipulorum mcmoriac mandatum eft. quodctiam dixi in primo de.gymnaftica Romanos/crcfcm pcrIauari,rQCcofqucrcponcrcfolitosprius quam menfaeaccuia bcrent,idcmfa(ftitafsc Saluatcircm ncmoinficias irc ualct. lam dc ungendi ufu polt balncum, pfitpracrcrClcmentcm Alcxandrmum Athcnacus quin^todecirao lib. Dipnofophift. apud qu.emproprium,& odoratum ungucntum finuulis corpori partibus dicatum Icgitur, utob id Mariaquoquc Roman(),&: Gracco moi*curcns,uolucrir,6v: caput &: pedesChrifti, tamuiucntisquammortui ungcix, qui quafi incrcpans Pharifacum quod fimilircr non fccjlsct, ccrtum indiciumacfulicfibi placuifsc Romanorum, &: Graccorum ungcndi confuctudincmuWcruari . Et quod di\itChi'iftus dc illo,qui acccdcnsad conuiuium nuptialc, laccrn.a adhuc indutus ucftcm nup>i.rk'nvnon induifscr, dubio procui cx.ri^bus Romanis torum fuit capium, Dc loc,i nobiliuirc rum m pontificali, tum iu ciuili,rumin confulari conuiuioluib^banjL Romani,ut lurrat jf^iutarchusin Sympofiacis,atq. Macro.bius.,non cxiguum difcrimcn, m inrcrdum mcdiusmcdij Icv^lj, intcrdum imus ciufdcm, arq. primiaobilio.rcsrcpurarcnrur, cuius rci lUuftrccxcmplum eftid^quoddixjtChriftusaducrfusiIlos, qui primos accubitus ambic 2^ 7&: ccruicalibus fuperterramconrtratis,nonautcm alrc pofiris. C^i ucroSyriacc EuangcUum fcriplit, ucl rranfumpllt,cum torLxn nomcn libi haud fuppctcrct proprium, quo explicarc pofsct ucrum Romanorum triclinium/naluir ouod habebar uli:rparc,quam rcm pcnrtusindeclaratam rclinqr.crc . At mhil hcc dl, prac ipfi Magdalenae ingrcdicntir ilanti rctro iecu^ pedcs cius, quac omniauti accommodari nullopacto queunt fifupra tcrram fi ut immcdiatepofiti Iccti, fic trichnit) nofiro iudicandumunicuiquc pcrmitto,quamaptc congruant . Ncquc enim crcdibilc cfl,fifefc mulicrgcnibusin tcrraminclinaflct fuifle idEuangcliftam taciturum poftqiiam mmimc filcndum putaLit,quod Itarct rcrro,&:fccus pcdcsjacl rymifquc cos rigarcrrnamqui tanta diligen[iarctulit,quaccumque ibiconrigcrunr,non dcbcbat ctiam genuflcxioncm omirrcrc,&: mulromiiuis pofi(|uam iam dixcrat jpfam ftcrifsc. Quarc iamlarismonllratumarbitrorChriftoaccumbcnrccumitaaItefuifvclocaruin,ut M A R l A, quac necparuacftaturac crat,potucr?t (lans creftarigarc ipfiiispcdes lac.irymis,nec non manibus cos contrcihirc, 6c c apillis liccarc, d^ r jmquc ungcicQuod toruRiluculcnri/rnnc cxpnmi in aucc|> ^^..A uiviiiiij .iQiui fisura^ueiniacaincgarurumconfido, Cum 7ii L 1 i> r R . Ciin; huaifo/ontioncpcruenifrei:j,iarno.ea j^^c^^m fnfflic0 ne accelcrarer, oWata eft occafio AJphou Salaieroiii^ oUl^ iclui ta? dottiilimi prolcgomcna in Sacroflmdam Euangeiicaln hiftoriamfingulari eriiditionc refcrtalcgere:atq,interlcgcndum cu mihi Canon quadrjgcflimus fcxtus prolegomeni undecfmi occurrinct,ubidircrtilIiniedeuniucrfiiaccubitusrationc, dequo Magdalcne in lauadis atq. ungcndis Chrifri pcdib. GtUynec nou dcloannisin ciufdcm Chrifti hnum recubitu difpuiar,incrcdibi lcm quandam lactiiiam fimiil,& admirationc mihi pcperit, ctenim lactatusfum,quod mcas cogirarioncs,qiKis fcmper nouas5&: forfananeminc alio propofiras cxifrimaui,auirofapientiilimo &:raradodrinaprædito iraclare confirmaras,quafiquc inconcuflasrcddita.sinucncrimjAdmirarioncm vero cacpi non exigua quomodo ricri porucrit, ut in rc ufq. adco obfcura ncc uetufta il E muJ nos conuenire, ac in nulla re difcrepare licuerit; Et li enim quotemporc gymnaftica mca in lucem exiuit^is adhuc uiuerer, quippequemfæpius concionantem RomæaufcuItauerim,ubi cos libros dum Cardinalis Faræfij medicum agcbam, &c compofui,& in Juccm ccjidi, attamcn vtrum eos uidcrit haud quam* quc afiirmare audco, Ncquc uero credibile eft me ab eius fcriptis, quac diflcrui dc accubitu accepifse,cum ea ha£ienus latuerint,ncq.ipfumeadem dcreita dihgcnrerfcripfifse,nefomniarc quidcm ualucrim. Vndcqua^foler efleuerirarisingensuis,puro eodcm fpiriru ambos nos ad ca fcribenda fuiflc impuJfos, &c propterea quicquid ea d^ rc di Antc folcm cxoricnrcm nifi in palacllram ucncras: (jymna-,> fijpracfcclo haud mcdiocrcs pocnas pcndcrcs. Lx quo loco » gymnafiarchum colligitur in adolcfccnrcs^licjuid pcccafscnt, animaducrtcrc magno Impcrio confucuific : ut ctiamclarius,> in amatorio Phitarchus docuif. dc hoc &: Ciccroinfcxta Ver„ riuarum : Dcmolicndiim curaiiir DcuKrriii^ ..iliarchus, cj.iod LLC. zionale Cenlrale di F» quodislocoilli pracciat. Secundum locum habebaf xyftarD cha. hic ambobus xyftis, ftadio, $c dcnique cundis athlctarum cxcrcitationibuspraccrat, ut kriptum rchquitTcrtullianus m hbro ad martyres.&ut cx infcripcionc conijcitur, quæ Komac in foroTraiani in hafiftatuæ Græcis littcris notata,a,not)isiic lauac r.edditacft. DEMF. TRIVM. HE R MAPOLITAM. ALEXAN I) R1NV M. PANCKATIA STEM. P E R I ODL VICTOKEM. P ALÆST R I F AM . ADMIRABILEM. ALIPTAM. PONTlFICEM. TOTiVS XYSTI. PERPETVVM. .\YSTARCHAM. BALNEIS. AVGVSTl. PKA-EFECTVM. PA.£ T R F M M.^AVREL,. ASCLEPIADES. QVL ET. HER" MODORVS. ALEXANDRINVS. HERMOPOLITA. MAGNI. SERAPIDIS. ÆDITVVSPANCRA riASTES. PERIODJ. VICTOR. ALJPTA. (VS^EM. NEMO. DETRVDERE. POTERAJ. INCVLPATVS. XYSTARCHA. FILIVS. PONTIFEX. tOTIVS. XYSTL PER PETVVS XYSTARCHA ET BALNEIS AyGVSTJ. .præfectvs. Alvhoc, fcnfcnria uiea,diucrrus fuit Pracfcaus luftaca Galeno lWT«7r«A«w«Tfl5UOcatiis,qui pcrinde,ac Pacdotrib a quidamliid.intuimdimitaxat magilkr erat, cum xyftarchiisplurium cxcrcitationum raodcrat()r,viPacdi'tribam nominauir,6:in Protagora irafcriptum r cl i q u r : t Ti Tolfw tt^c: to Ctoi^ Trct^o^o r^tHccs TTkykTtwcto hcctcc cwijlx mRi^ri^t ''cXP^T^i fjTTn^iTMJi TH ardos,accx r^narisho^ minibuss clcdosfuif^c rcmporc/iio,iMdit.Prorogymnaliosuidetur Scncca cp1il.83.cos uocafscquiiimul cxcrccmur uocabulo (quod cquidcm fciam)nulli alrcri vlurpato, quamquam MureW.v pr^:'vnmallas kgciidum malucrit in/u sad cumlocumnotis. .AuVwouoquc ab Ariftotclc 2.Ethic.cap.6.a Paulo Ac-li.3.i5,aItcr medicr dumraxarmandara cxfcquirur,parircrPædoiribæxm-iiit:onfi cmniu faculr.Kcm ignorabar, ^ymnaftacque pracccpra foium fa cicbat,vrpotc qui vfum,&:difocnrias,&:modum cxcrcirationum cxpcricntia quadam callcrcr,fcd ob ignoranriamfacpcnu-. mcroabcrrarct, vtinnucre voluit Galenus in libcllodc pucra Ep!!cptico,ubi dixit,difiiciIcfuifseprudcntcmpacdotiibam iniicniic.Manc ^ymnaftac, &:pacdotnbæ dilicrcciam Arifrotclcs quoquc philofophus cognouifsc vf,dum S.PoIiticorum concludir, Adokfccn-.es gymnafiicac atqucpædotribicac tradendos forcrquarum altcraqualcm qucndamf icircorporis habirnm, al.;-: tcraopcrationcsjcSdquartoPolitx.locoanrcacirarordicir: rrot^ roC tsc^iJ^ot^ i&jv kccI rov yviAVxsiKOv woc^acrKW icwlcti, kcc\ rayrm Isirwcf^vixiay. (iymnalrcs itaquc erar pfcctiis excrcirarionu,pædotribauerominificr.&: panific:,coquo, acacdificaroriproportionercfpondcns/accrepanes,obfonia,acdcsfcicntibus quidc, minimc ramen,quid inipfis optimum fit,quid no optimum,inrcl Jigcnribus,quamucfaculrarcmipforum unumouodquc ad ftuii tatcm babcrcr,non dignofccnribu^. Hacc duo nomina apud Ho ji ci unon exfiftcre narrat Galenus:quod,vranrca declarauimus, UA\i\v.:\ dumraxararris gymnafticac tunc rcmporisapparcbant, jxquc arsad rcgulas ac formam rcdasfta,&:prui nde nco, arrifcx, ^,aiirafccrtranc.Adcrat6^ SphacnTricus,cGru,quip;la hidcbr.t, ». qtianim alias rwdens dxuerfis gcneribus jmifari ut vel harmoD nia,uel ry thmo, uel nudofermone ; alias diuerfas res, vt vel mclioresjvel fimiles,ucl detcrioresialias diuerfb modo,vt vcl agcntes, vel introducentes, vel narrantes,atque aut alienam pcrfonam indutos, autnon mutaros;de faltationehæc concludit: ccCrc^J^lrc^svStKa ^^oOvTTcti Xoogis i^ixouicicsyoi rSu Sgyhswp, Kcci 'y^ ovroi rm ct^yLxri^o^ (cit pv^iAmi4i^evt/r(ci:^Kcei TrccSH^KcciHkKcci TTgccfu^. i. Numcro ucro iplofinc harmonia,imitantur faltatores:ifti cnim numerofa gefticulationis uarietatc, morcs, palTioneSx& aitioncs imitanuir. Ex qua oratione apparct, og^^Hctiu^, Huefaltarioncm^ nihil aliud fuifse,quam facultatemquandam motibus„ac gcftibus corporis^artificio quodam,numero, &c ratione fadis imitandi hominum mores,affea:us^ &:aciioncs. qui cnim in /.ciuilium dixcrat,nihil cfsc in rerum natL]ra,quodmagisexprimat rerum.fnTulitudincs^quam numcrum, E &:cantum,.fapi€ntereriamfcrip/it, filtatoresin imitandisadionibusnumcro uri . Quomodohacc per numcrofos morus efficeretur imitario,unus omnium clariffimc poft Ariftotclem expreflir PIu Prob^i. tarchus, qui in ix^Conuiuialium faltationem rrespartcs habuifse fcriplir, iatioucm y figui-am, &:indicationem ; eo quia tora ipfa cx motibus,&: habitudinibus >&: quieribus conftarct, perinde ac harmonia ex tonis,atq. inrerualIis:Iationem dicir ipfc uil aliud fuif fe,quam motionem affcdtus alicuius, vcl adionis, ucl potenriæ repræfenrariuam : figuram uerofuifie habitudinem, difpofirionemque, in quam motio fiue lario rcrminabatur, nempe quando falratores quiefccnres fecundum Apollinis, uel Panis, uel alicuius Bac7>«fcl«& chæ( ureftapud Platonem) figuram difpofiri in corporis fimilibus formis graphice aliquantiilum perfiftebanr, indicationem au^ temfuifse non propric imirarionem,fcd alicuius rci, ncmpe rerrac, cæli,vicinorumnumerofe, arqueordinarismoribusfadam decla'rarionem quemadmodum namque poetæ, dumimiranrur, alias nomintbusfi(ftis,aIiasrranflarisuruntur;dum ucro indicant,propria nomina ufurpant ifimiliter faltatores imitantes, figuris, &: habitudinibus; dcGlarantcs aurem, resipfasprædidis indicarionibusutunrur: adeo ut, fecundum Platoncm, Ariftotelem, arque eriam Plutarchum, tora hæc falratoria facultas in imitatione folo motu fada conliftcrct.iphq.faltarores nil aliud aOirarcnt^nifi quod fefe mouentes numero,&: ordine gcfticulanres,aur lationibus, &: figurismores&: aflcsaus imirabantur,aut indicationibus declarabanr, aut omnibus fimul morcs,perrurbationes,atque adiones hominum rcpræfentabant.unde non abfque fumma rationc Simonidcs r4 toi k DIU dd api m m m k m P7 A dcspoeta faltarioncmpocnm taccnrcm, ficurl pocfimfaltntionem loaucntcm uocarc folcbatiquamquam rcfcrt Plurarchus,rcmpcfta ^-o^^»"»rcluaucramfalrationcmamufica, cui aflfociabatur > dcprauatam fuif^ci atqucacacicfti illa dccidcntcm in tumultuofisacindoc^^iis Thcatris inllar tyranni cuiufdam impcrium tenuifsc,idq. poftraodumufquc ad rcmpora noftra pcimanafsc, in quibus omnisfalra* tio corrupta cft,omncs cordari uiri cognofcunr. 'i^uihus aurem prjnnishuiufccmodi falrationcm hominibusdcmonftrauerir, iatis copcr:umnon habcrur, nifi quod Thcophraftus apud Athcnæum rcfcrt, Androna Carancum ribicinem, dum fonarct, morioncs ar^•pno'* quc numcros corporc crtccifsc, Sc ob id apud ucrcrcs falrarc uocatum hiifsc ficclifsarc ; poft qucm Clcophanrus Thcbanus, &: Acfchylus mulras fataroriac riguras iniicntrunt, quas i^wiciiovt B Sicula uocc appcllatas Epicharmi audorirarc infinuar Arhcnacus. undc hodic apud multas Iraliac narioncs Balli nomc adhuc pcrdurar.Fuitporrohaccfaltario rantacc\iftimarionis,arquc honoris apudantiquioi-cs,ut Apollincm faItatorcmuocarcnt,qucmadmodumPmdarus: O sj^Hscc AyXjaxs i>cij dc quibu^ lic luucnalis» Torfttan exfpecirs ut Gjditana canoro Sat. x i. Inciptat prurire chorOy plaufuq, probatæ icrram tnmulodcfcendat clunc pucllæ, Irritamtntum veneris langtientis, et aird piuitis vrticæ &! huiufcemodi aliæ . Ab inucntorc autcm modo uocarac fucrunr aliac Pyrrhichiac a Pyrrhicho quodam Laconcfcu^ur alij maIunr,*a Pyrrho Achillisfilioinucnrac, in quibus arman falrabant cuni canru, &: llnc cantu. ur uidcrc licct c\ i conc ab antiquis lapidibu5Cxccpto, qucm hic poncndum curai.imus. H 1 A (Pyrrhichias autcm noftris tcmporibus acmulantur illa pugnarum gcncra,quasMorcfcaspopularfuoc'ai3uloai^pclIant.) Atquchac uarianominaobrinucrunt, utOrfitis, et Epichcdios pcncsCrctcnfcs, Carpaca apud Acmancfcs 6c Magncrcs, dc qua Xcnoplion. 6. de cxp. Cyri. libro, apochinosliue madrilmos, quam mulicrcs faltabant,&obidMartypiæ uocabanrur quac Ibbihorcs,^: uarictarcmaiorc pracditac crant, ut dartyli,iambici, molnfiica, cmmcJia,chorda\,ricmnis,pcrfica,phryi;ia,nicariimus,thracius,calabrifmus. Tclclias aquodam uiro TcIclio,qui primus camarmatas falrauir,fic uocara, qua utcntcs Ptolcmaci milircs Alcxandrinn Philippi fratrcm fullalcrunt,aliac rornarilcs liuc ucrforiac, quod lc in circum ucrtcntcs falrarcnt . Erorianus,qui Andr.)macho Ncronis,quodfcribirGalcnus,archiatrocontcmporancuse.\lhtir,has B faltationc5 /ir#t/c uocatas fcnbit.ahac infanac, ut caudifcr, mongas, Thcrmaultris,nccnonanthcma,quamfaltanrcsobibanr,ita diccntes, vbi mihi rofic, ubi mihi lilia, ubi mihi apia : ahac ridiculac, uc igdis,madrifmus, apochinos,&:fobas,morphafmus,C .laux,6dlco: ahacfccnicacqualcs tragica,comic.v,&:lat\ ncaraliac lyricacquakspyrrhichia, gymnopacdica hyporchacmarica. quac omncs quomodo ficrcut, non cft præfcntis tradarionis dcclai arc ; fatis iit inrelligcrchanc rcrriamlalrarioncm rotatqucplurc^adl.uc diucr (as fpccics, quibus libcllum proprium dicauit Lucianus, habuiflc ficut ctiam diucrlis motibus tam pcdum, quam manuum utcbatur. cumcniiujnotusomniscxfcnrenria Ariftotdis cximpullu, arquc 7..Phyr. traducoponafur,falrantcsaurimpcllcbantcorpus,auttrahcbant;, &: hoc furium, ucl dcorfuin, ucl prorliim, \cl rerroifum, ucl dcxr C trorfum, ucl fmillrorlum : a quibus poftca motibus componcbatur limplcxambulatio,flcxus,procurfus,raltus,diuaricatio,claudicatio, ingcniculatio,clatio,iactatiopcdum,pcTmuratio:quil)Hsto:a faltariopcrficicbarur. De finc faltationis^ ^ deloco. Cap. yilV M antiqui inccrraminibus,atq.ucnationibus,pcduni cxcrcirationibusfcrc lcmpcr Itudcrcnt, manibusq.moucndisnullamcuram adhibcrcnr,ucnlj-uilc hr, ut prius faltatoriapancs intcriorcs dumiaxar cxcrccns inucuta iit^dcinccpsj^iifot^c^ft/icquacordinarasmanuum motioucs cdoccbar, ci adiunctaiic, ut una cuin ccrcris pracdiCtis motionil^us mannum conncxioncm, confcrtioncm, coinpcdnnationcm, diilcntio— H ncin ico ncm, complexum, altrmationem falrarores pcragerent : arqucita D vniuerfa faltatio ex motibus tam manuum,quam pedum ad rcprae fentandasresformatisconflata fir. quod autem faitantcspraecipue brachia moucrent, figni£cauit et Ouidius ubi dixit: » . et i de Sivoxefl, canta, fi mollia brachia, falta.arte auia. Brachia faltantis, vocem mirare canentts. HuiusfinisprimariuslicetCvtdixiraus)imitatio foret, nihilominus alios eriam fincs eam habuiffe compcrio ; nam ad rhcatra, &: ad ludosvoluptatisgratia,necnonob rcligionemquandamadfacrifi loc.cit«.s cia in ufu fui nfe practcr Platonem atque Plutarchum teftatur Galenus, qui in principio curatiuac artis uchcmenter contra ful tcmporis homincs inuchitur,, quod faltatoriae nimis opcram darcnt, quafifolisuoIuptatibus,&ludisdeditibonasartesnegligerent. Qupd p paritcradquacrendam corporisfonitudincm militaremqucpcritiameadem filtatione maiores noftri uterentur, tametli fupra ex Platone comprobatum fuerit, tamen addendum eftillud, quod omnisannata faltatiopyrrhichiauocitatano ob aliud inucta fuit, niliquouirtuteilIius;tampucri,quam uiri,&:mulicrcs modo hoHcs cffugerc, modoinuadcrc.aliosq. gcftus bellis gercndis neceflarios pcrdifcerent. unde apud Xenophontcm Paphlagoncs Mimam filtatriculam a Myfo pyrrhicham filtare iulfam confpicati,admira tes græcos interrogarunt, numquid mulicribus ctiam in pugna uterentur.inhocquidemfaltationis gencrecum Phrynicus fe excellenter in fabula gcthifct, illumfibilmperatorem Adienienfcs delegcrunt. Nequcctiamdifficilccftindicarchanc candcmfaltationem, et bono habitui comparando, et fanitati conferuandac no p parum conduxiffc. quandoquidem de nianuum gefticulationc, dc^'Ptumicpcritur&ab Hippocra cur.aon^ ^ ab Arctaco, atqueaIijs, procxcrcendis&:lanis,&: inrerdum «ap 1. ægris corporibus ufurpatam cffc . Temporibus uero nofttisfaltationes alias temporc, ordine,&: ccrto modo fadias talcm utilitatcmpræftarc ncmonegaret, qucmadmodum Galenusfe plurimosfanitatircftituiilcaliofqueincafoliusfiltationisauxilio confcruaffeconfitetur: quifimiliter et faltatorum excrcitationes intcr ceteraa medico petita recenfuit. dum dixit: isx^^&v ctUnCrovciKtvkciis ivttiSK^^ivrxt itlytsx, KCti tSi^tJ^mvvTxt s^icponwvoi ri^isa, Kcet ok^«»> CflecTij IfxvisxvTtu, Kxi nygoofvgtvat, Kxi i/g.c)(i{ov(fiv \m Trrltsov rKCKti>A«. idcft faltatorum uehementcs motus, m quibus maxime fal>>tant,&vclociflriiTicuoIutati circumcirca uertuntur,necnon genua fleæntes furlum exfurgunt, atcpc crura plurimum atrra* hunt £ . loi A hiint>diuAncantquc. ut dubirarc ncmo dcbcat, quln Orclicfticam ingymnalY^ca mcdicinac iurc collocaucrimus; praccipuc quod Socrarcs in conuiuio Xcnophontis fc falratoriam tum ad ualctudi>confcruandamquc, tauTad corporisr)hurcompa randum cxcrcuifsc palam profitctur, cuius quoquc gratia cum fibi amplam domumoptallc tcrunt.Qui uero hanc orchcllicam cxcrcc rcnt,uariosfuiIsc rcpcrio. Cinacdosmaximc omniimilaltandi arti opcramnauafsch^nihciuitPlaifrus : apud qucm Pcriplcdomcnus fcncx lic ait. Tum ad faltandum : non Cinacdus vfquam magis faltat,quamcgo.quamquam Nonius Marccllus Luciiij tcftimonio,atq. ctiamPlaut:,valt, cinacdos didvisa uc crib. faltatorcsipIos,atqucpanromimos, 6c totisuiribuscontcndcbant, utnonrarolic ludantibus ofsa aWqua frangcrcntur, ^Sc luxarcntur, quac illis palaclbico quoB dam paclo ab alijs diucrfo fc rcmirrcrc cofucuilsc rcllarur Galcnus . Hoctamcnanimaducrrcnducfsc duco, C^alcnunon modoluchim arhlctica,qua rclpub.bcnc inlliruras odifsc fcribir, improbafscuciu&:lanirariftudcri: inrcrduparcc laudafscur porc qua roburquidem auecrur, at luxarioni s, ac fractionis ofliu, nccnon lufTocarionis pcriculumimmincat. fmiilircr&:Clcmcns Alexandrinusqui tcmpore Galcni Romac floruit,in iij. Pacdag. lib. ubi cxcrcitarionum traclationcm habct, lu uolutatoriu nuncupabatur, fpcciesq. lucbc erat, na in luda ccrtantcs fefc dcijccrc ftudcbant,rccUq. mancbanr; in pancrario aurcm noUi rarorio humi proltcrncbatur;atq. ibi inuiccm c6plicati,fcq. mutuo conuolucntcs, altcr altcru libi fupponcrc nitcbatur rqucmadmodu clariflTimc moftrant dcpicli hic nummi cuiufdam Salulbj Audoris,, quifubValcntiniani,&: Placidiac Augultac principatu Africac rcgno ui occupato ludos fimilcs, atq. alios ob uiaoriam cdidir. tor A Dc hac cxercirarionc uerifimile mihi fit, AriRorelcm vcrha rccifie, lib. S M ubiiiulhim crcftum,& ftantcm continentcr,&: tuto uiccdcrc po^c '^demonftrar,quia pcrindc fe moucrcr,ut palacrtrirac, qui pcr puliic rcmin gcnua fubfidcntcs procurrunt.Dc hoc itcm ahcui probabiIc uidcrctur,Iocutumcnc Martialcm,ubi dixir. 7>{on diho qui vtncit, / q'a fnci nmherr fiouit Et didt mclius thv ivccKKivoTrd^wj. nihpotius cxponcndu cllct «WAiFOTraAw, rcficxioncsquapalacftrlta rcduii^opcdorc aducrfariurctrahcbat,ac i(!iuilhus dcuitabat,aut potius ( vt crat Pocta fcmpcr obfcoenitaru amator) ca lcdi luclaintcrprctcmur,(4. K?u^07ri?jiv Domitianum vocaflc tradit Suctonius.&: quaafpurcilVimistam uuisq. foeminis cxcrccri confuclTc narrant e^.colle.'?. Spartianus,Lapri dius &: Capi tolinus . Dc codc itc loqucbatur AnB tyllusapud (^ribafiu,du dupliccluCtactrccit,altcracrcLlam,aItcrri fupcr pauimcnto; pro luda lupcr pauimcnto nil aliud intclligcsnili PancratiQ uolutatorium,quod tamen ualdc diucrfum crat ab alfc ra uolutationc,ab Hippocratc ihts^J^Hirm nominc lignihcata,qua ho^ ^j^^: mincs in palacftra humi prolh ati ucl loli, ucl cum alijs circumuolta. ucbantur,&:dc qua Coclius Aurclianws ucrba fccit^ubi uolutatio^.Jdiact. ncmin palacftra pro diminucnda carnc laudauit; fiquidcm inca ncc certabant,ncquc comphcabantur,fcd folum cclcritcr fupra pa uimcntumnitidum, aut pulucrc confpcrftimfcfcrorabant. undc Galcnus cam intcr cclcrcs motus non linc ratione poluir. 2. dc tue. De Pugilatu,^ Pamratio, c> CefiiLus. Cap. I X. ^c^Kjr^^f X yilatoriam 'm/yiJUKH¥ a ( iraccis uocatam antc Troianom?\ rum tcmporam uiu tuiilcjtcftati funr Hmius,&: antc Vli C «j Kjf^ nium Homcrus,qucm ctiam Plurarchus m i.Symp.obProb.u §P--£^if fcruauit, continuo pugilatuml uCtac,&: curfui iccirco pracponcrc, quoniam hoc cxcrcitarionis gcnus pii us iUis origincm accepit,ficuti quoq.Lucr.hoc ucrfu innucrc uidciur. ^fjnaantiq ta manus, yngues.diTitcsquc fmYUvt. Libj. Quid vcro clTct hæc cxcrciratio,quomodoquc pcragcrctur, pauci (quod cgo fciam) diligcntcr cxplicarunt, &: minus cctcris hac rcni intcllcxcruntilli,qui pugnaccftuu,&: pugilatum idcpcnitus cxftitif fc uolucrunt . ex auctorum tamcn (cnptis conicLtura cofcqui pollumus in hac cxcrcitationc homincs nudos conccrtarc cofucuillc, pu gnisq. ftrictisuclnudis, ucl acnca,ucl Iapidcafphacraplcnis,undc ^^fCf«t;^t^, uel loris,laminauc circumlcpti fcfc inuiccm pcrcutere, modocaput,mododoihim,modobrachiapetcnres,ncque vnqua fcfe mutuo c oniplicantcsi in qua pugnafupcrabat qui ucl aduerfarium pugnorum idibus in terra profternebar,vcl grauius &: damnoD a. ^ymp. fius fcricbat;quamquam non defunt qui ct calcibus huiufmodi puPf«b. gnamfavfliratamtradant,obidq. apud Senecam cpift.Si. non o-qui hanc rcdiligctiflimc tra(flauit,nullum poc* E ncucrbu de hac exercitatione habi]i.t,/icuti ncc vllus alius fidc dignusmcdicus exccpto Arctæo, qui in ucrtiginofis pugilatu comeuarus. Qupd fipugilatus mcdicæ gymnafticac excrcitationis gcnus cxftitifset,æquii ccrte crat,non adeo ab oibus filcntio practcriri.Altera ratio eft,quod,fi natura pugilarus exa*5te fpeftemus ^ cii pcuflioncs, &: euitationes bellum gcrentib s necefsarias acmulctur, ut diccbatPIutarchus,cdocearq.quin militarem pcritiamagnope re adiuuet,infitiari non pofsumus; at cu iolum brachia,atq. pugnos cxerceatjinterdumq. potius plagis,ac grauibuspcrcufl^onibuscor pusofTcndat^quomodo ualctudinis conferuationi,bonique habitus acquifitioni cofcrrc poflir,no uidco : ut tuto diccndu fir,pugilarum in gymnaftica mcdica exiguu ufum habuifse, in militari ucro mul^ tum,in athlctica plurimumrcuius principes,&: au(5lorcs fuifsc Amycum,atque Hpcum,prodidcrunt PIaro, &:Galcnusi ncc noninqua adeo Glaucus Caryftius cxcclluit, ut quinta &: vigefima Olympiadecoronatus pi(flæ,i. pugilatoris nominc pcr excellentiammerucrit uocari . Pugilatorcs iftos pinguedini comparadac opcra de\a f"|^c.^^S*^P^'d Tcrcntifi.quod agcbat, utgrauiuspcrcutere ua3, * lerent,&:plagasip(isillarasminusfcntirent:cftcnimcxpcrientia&: ratione coprobarij, obcfos minus ex carnibusiniurias fentire . Cur autcTcfprio illc Plaurinus,ab Epidicointcrrogatus,quomodohcri lis filius ualcrct,rcfpodcat>pugilice atq. athlcticc, no cft admodu j.dealim. dilficilc conic(flura cofcqui.quod eria Galcnus fcripru reliquit, Lufacc.i. £tatorcs potiiriinu athlctas ueros cfse uocatos,led pauUo antc ipfius 'tcmpora etid-codc noininc appcUacos fuilse pugilesA pacrariaftes, qua dc rc ficri por ut Plauri acrate pugiles ab athletis (liiicrfi cfTcnt, ^'J^u i evtriq. tamcn robori, &: corporis crallitiuiludcrct^iSd iccircorcruus illcmcritopugilatum,&:athlcticam fcparaucrit,hcriimquc fuum robuilum, tSc pinguiucntrccflc llgnihcarit. Exluvla (5^pugilatu tertiumquoddam cxcitationis gcnus componcbatur, quod pancratium communitcr gynmaflici omncs appcUabanr,in hoc( ut tcllatur Arillorclcsprimo Rhcroricorum)qui cxcrccbanrur,aducrfa-^^^* rios,&:pugnis rcrirc,&: comprimcre,&:contincrc,&: dcijccic (hidcbantrnam pugilcs lolis pugnis conrcndcbanr,ncc umquam compli cabanrur>ut commcndanda iit urbanitas Horatij,qui ^.SaryrJi.x. ucnuitcadmodumphrcniticos, quod pugnisminiilros,&:adilarcs fcrirent pugilesvocauit.luclatorcs comphcabantur,&:comprimcbant,ut dcijccrcnt,fcd pugnis minimc pcrcuriebant, pancratiaflæ ^ tumurroqucutcbantur,&:tumcriamquacumquc aliararionc, ut dcnribus,gcnibus,calcibus,rahrris, dcniquc toto corporc ( ur dixit Paufania5)aduerfarium uincere contcndcbanr,arquc in eo a pugili^^-i clu, libus dirfcrcbanr. quod iUi pugnis llrivftis, hi digirisfohimmodo in flexisccrrabanr. atquc hoc iiiznihcarc voluir Oalcnusvbi fcrinfit: ^-^J^ %i A iKXso: TJu: in pancrario protcndcrinr. tahs ctcnim manuum hgura prchcnfan'> dis aducrfarij.scui maxime ftudcbant pancratia(bc,ut nomen quo» que lignihcarc uidctur,ualdc accommodata crar,his dc caufis cxcr citatio hacc Trcmioiyav uocara cflquandoquc,(icuti iMato Eurhydcmum 5rflrftfat;^0Kdixit,nccnon ambobus ditHcihus ccrramcn habcba C tur,ob quod C lalenus in 6.Hpid.vbi renibus atfcdis cxerci tationeni commcndar Hippocrares, fub tali cxcrcitarionc non dcbcre pancratium ob magnirudincm laboiis intclhgi crcdit. qua itcm rarione pcrmotum opinor Plaroncm, dum dc lcgibus lua ilhi paru al> ahquibus approbata fcminas excrcendi rationcdudus, mulicrcs folummodo pofl nubilcm acrarcm pancratio cxcrccri confulir. de Pancrarij fpccic quapia loqucbarur mcafcnrcnria Galcnus,quandoincommcnrarijsfupcrhbcllum defalubri diactadixit,gymnaftas fere,quos impinguarc uolcbant con(liruil]c,inrcrcxcrccndum TT^ ouis ncfcif,maiorcs noftros intcr alias cxercitationes,utdVputatPIu:archusij. Sympof. v. ad fpcchiculat, ad miIirarcscxcrcitationcs,adianos habirus acquircndos inflirutas curfum quoquc habuifsc? cui locum pcculiarcm in gymnalijs allignatum nullum uiderc licet, quod hacc cxcrcitario m uijs ipforum communibus, dum ab alijs non occuparcntur, ficri pofscr, atquc ctiam quandoquc in loco, ubi alrus puluis llrarus erar, (i crcdimus ^ Luciano,aiZcrciur.ncquccnim pcridromidasad curfum,crfino-InHbioga mcn innuat" fcd ad deambularionis ufum inftiruras fcimus cx fupcrioribus.Athlctacqui ludorum &: ccrraminum gynmicorum cclcbritatcsrcpracfcnrabanr,ufqi:eadcocurrcndi uimintcrdum acftimabant,ut (quod rcfcrt Plinius) licncm (ibi iplis inurcndum curali.i i c.57 rcnt,quominus illc currcdi cclcritatc,(icuti folcr,impcdircr. Huiufcc curfus ccrramcn, (icur 5c luctac primos Elcos linc ullo uctcris iDCmoriæ cxcplo infli ruifsc audor cft I^aufanias : apud quc fimiliy.&^.Eiu ter legitur,Endymionc filijs dc impcrio ralc ccrtamcn in Olympia .E|»ai. fe,quado et Senecaintercxcrcitationes eorporis,quarurationehabcndacenfuit^primu locum curfui dedit, etfi non admodum percipio,quidcpift.3. indicarcuolucritdumfc Hieram fecifscquod raro euenit curforibus, aiirnam fi (vt eruditilGrausMurctus putat) pro Hiera mcdiaftadij lineam cocipiamus,. quomodo curfores cx raro ficcrc dicat,non fatisafscquor.Huius trcs tantumfpccies cflre-^ cifse AnrylJum rcpcrio, altera in anteriora currcdi, aJtera m pofterioras, B riora,altcrain orbcm.quauisitcapud Galcnu,&: (loIichu,&:diauIu i do!icliusdup!cx unocurfu ftadiui diaulusduplcx, ic ipfc ftadium, fcd rcflcxo curfu.ut ficri poflc cr^da pcryftiljj intcnonsambituiiuqucm diaulum,ob duorum ftadioru mcnfnrani uocatum tradit Vifrimius,huiulccmodi curfui infcruific . Quaproptcrfalfum illud cflc dcprchcndirur,quod apud Suidamfcgiriir, ftadiodromus longiorcm tradumctiri curfu dolichodromis,cum huius conlrariu manifcfto intclligar cx Parmcnioniscpigrammatc> M'i>.d moucro&:2rauiorapondcrainrcrdumfupracapiir, nonnunqnam fupra humcros,aliquando in pcdibus gcftafsc. qucmadmodmn uidcrc cft cx hac ucruftac tabulæ pi^ura, in qua faltanrcs appofiriffimc repracfcnraniur : quamquc ur anriquain,&: ucram a Ligorio acccpiixius.. i2t A dccorarcnt. Erar quoq. q, fupra vircs oleo un£tos &: ui no plenos pcdib.falrarct;inrcr quos uidores ij ccfcbanr, q. ita fcfc dcxtcrc gcrebar,vt plubricitarc humi no cadcrct.atq.hijp uic^toriac pmio vtrc cfi vino tcrebatiq. vcro rcrra narib.pcuticbar,n6 linc magna uolupratc fpcAatorib. risiimoucbat.Ici auranriquirus obfcruatuinludisiiaccho dicatis,quos«\ioc(iurccvSx TTfof TwKflCi^f «F.i.hic fub dio fupra vtrcfalra,& Eubulusapud Ariftophanis intcrprctc Kcti7r§oarq.iIlos ipfos ne torpcfccrct i marislitrorc (clc difcis,atq.iaculis,taq mili tib.apris,cxcrcuifsc:quafi fi no lacdcdis hoftibJaltCu.niac agilirari jpforu c6paradac hiuoi cx:crcirafio accomodata cfscr. Athlcras ucroi cofc cxcrcuifsc,nccn6ipublicisccrtaminib.c6rcdifsc,manitc (IQ faccrc pot coisaudtorum liua,qui intcrarhlcraru ccrra.minadifcumocsuno orcadnumcrar,&:pracrcr hospic^luni/iuahic damus. SECVNDVS. 122 ficiit ctiam Galcnus,Acrius, Paullus>&: Auiccnna inrcr cxcrcirariones fanitari &c bono corporis habitui confcrcntes difcum reccnfcnt . Scd, priufquam longius progrediar, rarioni confenrancum puto admonerCjDifcum pcncs fcriptorcs uaria fignificafse, na ccftarur Suidas, discum fuifle inftrumcntum quoddam rotundu,quod aliqn adco grauc crar,ut uix ab uno holc elcuari pofTctiucl uri a D. Hicronymo dc fcipfo fcriptu cll. Dc hoc cquidc locurum opinor Solonc apud Lucianum, ubi intcrrogans Anacharfin, nunquid in gymnafio globQ qucndamiaccntcmacncum,atq. tcrctc,in paruifcuti figura formatum,ncq.lorum,neq. balthcum habcntcm uidiflct,qui grauis,&: c6prchcnfu dilficilis crat, cum manu furfum cxtortum in acrc ahquos iaculari confucuiflc,fubiugit:Aliqnct inucnio,inflrumcntLi illud figura foHs corpori fimilcm habuiflc,quod ab Aicxandro in ij. probl. (rfucisAphrodificnfis,fiucTrallianus,qctmagisfufpicor,cxftiterit) foliscorpus /loxdj uocctur. Vocatus fimilitcrluir difcusquadra rotunJa,quæpulacin mcnfasfcrcbantur. V ndc (/^i^K0cu fcrrcus, crat,mafsam uocabir.Huic artcftari uifus cft Manialis his ucrfibus, Spicndida cum rolii mt Sp^kmni pondera difci, isif procul pueri, ftt fi mcl ille nocrns, ' Alij.quibus cgo afscntior,credidcr jnt difcum fuifsc laminam quadam trium ud quatuor digitoru cralfitudinc, logiorcm paullo phis C pcde,alias lapidca,alias fcrrcam,Cacncam quoq. ex fcpulcro Marci Mannij Philopatris Athlcrac in via Salaria pofi:o fc uidifsc.tcftatus cft nobis peritiirimus Ligorius) cuiufmodi maiorcm parrem, nc, du cx alto rucrct, fragcretur,fuifse puto, planam, quafi lcnris fpccic rc fcrcntem,quam in acrcm proijciebant,fcd modo a iaculorfi milTionc diucrfo,fiquidcm inmitrcndisiaculisbrachiapandcbant,mox prorfum impcUcbant contra in difco manu adpedus adduda, atq, cxtrorfum U dcorfum rcdu£la, rorationis inftar illum in acrcm ciaculabantur, ut pcrbellc cxplicauit Piopcrrius hoc ucrficulo. M jffi^c nunc dtjci pondus in orbc rotat . Quod cnim difcus figuram,quam diximus, lcnti fimilem habucrir, practcr Diofcoridcm Icnticulam J^icn/ov nuncupantcm,cxprcfsa hic comprobar Difcoboli marmorea ftarua, quæ hodic Romac ia acdibus loannis Bapriftæ Viftorij fcruaiur, in cuius manu difcum figura a nobis cxprcfsapofitum uidcrc licet. qj* itc oftcclit altcniis difcoboli brachiu Lapidcu hodie in mangi Tufciac duc is acdibus Pitris u ocatis fcruatu, cx quib. fimihtcr difcu eiacuhidi modu inieUigere licet, ut prudctcr nos monuit dodiflimus Peirus Vittorius ætatis noftræ ornamctu,quibrachij figura ad nos miiit. . nj^ H.-irum fbtuarufimilcsaliasdiK-isdifcobc^Iorfifuiflt ucrifimilc cfl. qrarumunacxacrc Myroncm pracclarilfimiim (btuanufinxifle. a Quinftiliano cclcbratam,alii 1 aurifcum pictorc illuftrcm cxccllcntcr 1215 Icnter pinxjflc,refcrt Plinius-Hanc forma difcl una cu prædiO:is te fUnrionijsriuidiflctjacmaturecxaminafrc^^GulielmusillcChoulus, nuqua ccne affirmarc aufus cflet>difcii pila rotunda in mcdio pcrfo rata fuiflcjnifi bonus illc vir nomine pilæ qualibet re orbiculatara practcrl atinaclinguæ vsuintellcxerit. Atq. hoc dicojqifi D. Cyprianus in lib.dc fpcftaculis difcu uocat orbe acneum, &: in Marci Aurclij Imp.numis quibufda Apolloniæ lllirij cxcuflTis, quoru cxeplarfupra pofiiu cft,hLiufmcdi Difcobolorulufusrepracfcntatur, in quo difcu quadra quanda orbicuIata,& in mcdio perforata fuif feapparcr.Vt hinc conijcia,n6 vnadifcoruformacxftiriflc,qua fiuc in facrificijs,fiuc in gymnafijs vtcrcnf.lllud attamc prætereudu no eft,in difco iaculado artc quada,vt Pindari interpres oftcdit,neccflaria cxftitiflcjalioqui lacularorcs laudcfruftrati deridcbarur,&: facpe damna infignia fpeftatoribus afl^c rcbat, quod a Phoebo adiu fuit,quc difco HyacinrhuinrcrfccilTe fabularur. Difco fi^milc erar al rcru excrcirationis genus,^AT/Jf»«; a Græcis appellaru, qd*" in palacftra aditari folirufcribir Galcnus.hoc ab halrcribusfupra nominatis,quosfaltatorcs,vt vehemcntiusfiltarcnt,manibus coprehcdcrc c6fucuiff^e,dem6ftrauimus,diuersufuifsc aperte declarauit Antylluscuius, verbaapud Oribafiuita fcriprarcperiurur in capite TFtfi iiKTUvo ^u^coi/r%, Koci av yKocyiTrrQ u^oou, h Kgctrovyrxi ^iivov \\/ 7rgcrccfecundum dorfi aflenfum manibus uiciflim fe fleacbat. Ex qui bus vcrbis plane indicari vr,quod,Iicet halteres huiufccmodi ex eadcmatcria,atq. eadc forma,quafaItatorum pon dera eflc poflcnt,nihiIominus ab illis diftcrebat,quod n6 modo ma nibus,ut laIrarores,renerenf; uerum eria uarijs modis emitrerentur, pcrindc ac rcporibusnoftrisapud multosin vfu habef,quifefe excf ccr,aur pila,autlapidc vel fcrrcu,vcl plumbeumanibus,ac brachijs extcfis,&: circumadis in alru mirtcntes, de quibus locurus fuit Aretacus,aua:or no minus probatus,qua antiquusuibi in dolore capitis •f •cAT(/f(i)vi3 tum pro modoprofcdusgrauiores.Exquibusuerbis elicitur Halteres fuifse maffulas quafdam, fiue manipulos ex uari js materijs modolcuioribus,modograuioribusconfedl:os,eamagni* tudine,utmanu quilibet caperetur. qui mcafenrentianedumfolis manibus, uerum etiam funiculis halteribus ipfis circumfufis,deindeinter-proijcicdum explicatis,emirrebatur,perindeac faciunt hifce rcmporibus mulri, qui fic aut rotulas ferrcas, aur cafeos, aut quid aliudfimilcproijciendo certant An uero ^ATwftsaPlarone interccterasadforrirudinemmilirarcm comparadam excogitaras cxercitationcsnominenrur,nihil cerre explicatumhaberur: opinor tamenegOjipfumubi 8.dclcgibus>hæc dcmulicrum propri js ^ CKcrcimionibusknbit,KaUiktsl(X)^ug(!Q nilaIiudanimoconcepifle,nifi quod jllæ tumlapidibusamanibus, tum a fundis emillis inter fe cerrare dcbercnr. nam, et «Arwftfi aliquando lapides erant, quos a manibus excrcitatores cijccre confucuiflc indicauimus ; undc fub nomine lapidis a manibus «m Hi^AT«^ I30 tes,ac primo tendcntcs,deindc remittentcs illas eiaculabantur^atq. hi coramuni appcllarionc rojwTxi^ucl rofhcci uocahantun vndc uencnum quoddimrofiKov nominari fcribit Paullus Acginctamcdic-us,quod Barbari fagitras ad fcriendum lethali us illo inficcrcnt:laculatio ucro non modo finc amcnro, arcu,ba!iftaue efficicbatur,ue rum etiam grandiorcs fagittas, craffiorcfquc virgas,& plcrumque graucs palos rcquircbatjquinimmo fagittarij folis brachijs fcfc mo ucbanr, dKOvrilc.riQ aurcm fiue iaculatores iniadu brachia contorquebant,cxrendcbanrq.&:practcreadorfum,necnofifemorapedibusimmotis flcdcbanr,agitabantq.qucmadmodum tcporibus noftris, quos pali iaculatorcs appcllant,fasftirare confpicimus:utrique tamc in huiufccmodi excrcirationibus obcundis no paucis viribus ll.deærcj indigcbant, unde non fine rarionc Hippocratcs, multos ex Scythis locls^' ^ pracimporcnria humidirarishumcrum,neq. arcum intendcrc,ncquctelumcontorqucre poruilfe mcmoriæ mandauit,quiparirer in initio libri dc fradiuris diccbar brachij figuram aliam eflc Iukkou' rKTyiZ K(crcccfvjtu,cc^^oJ^t ivotqrkuJ^oPHiriv.KAMj^l \v M6o£iO\imv,%Kko\v7rvytAn. idcft,in iaculationc f undarum, S>c lapidum cmiflionc,nccnon pugihitu.Habcbantucro,quific excrcebantur,terminos,&:fcoposfibi propofitos, quos modo præterirc,modo attingcrc, uiaoriæ gratia quifque conabatur.quod explicauit Horatius hoc ucrfu. Sæpe difco, Lib. i.car. ^^t^pf trans finem iaculo nobilis expedito. ' Ccrerum hoc in loco id prærcrirc nolo,quod balifta fuit tormcnti Iib. de re quoq. gcnus,quo fccundum Vcgctium Iapidcs,&: fagittac eiaculaiTic^c 1 ^f^^ &:quodfimilitcrfagittas catapultis, &:fcorpionibusanti^ quos cijccrc confucflc fcripfit Vitruuius,dc quibu^ tractare ad inftitutum nolhum minimc pcrtinct: quas ucro nos fagirtationcs, &: iaculationcs travftamus,illac funt,quas gymnaftica ficultas tamquam propriasfibicxcrcitationcs complcctitur, Quod cnimmcdicinæ gymnafticaiaculationcs, atqiagittationcs prolanitatis adminiculisin vfuhabucrit, (licctapudauclorcs rarofcriptuinucniatur) ininfuaf. dciamcn conijccrc poflumus, quod antiqui, refcrcnte Galeno, ad bo.ar. cofdcm mcdicinac &: fagittationis, iaculationisuc DcosApolIinc ncmpc,atq. Acfculapium cffcccrunt. At iaculationis vtriufquc tam cum arcu quam finc, praccipuum in bcllica gymnaftica vfum apud prifcos fuifse, locuplctiflimum tcftcm Platonem habcmus,qui mulicrcs,& virosfururos bcllisaptos hifcc in primis cxercendos curauit, id quod mulicrcs Scytharum antca faccre folitas fciebat, quas Loco cit. Hippocra,&:pcdibus, &:cxequisarcubusuti,&:lagittasciaculari conA confacuifscfcriprum reliquit; ur filcam Homcrum, qui Myrmidonas Achillis militcs, dum a bcllo uacarcnt, fcfc iaculado excrccrc, nc pcririam milirarcm amittcrcnr, finxir.quam pcritia quanropcrc iaculandi, &:fagirrandicxercirario,adii:uct,quanrumq.cadcm roboris laccrris affcrat,clarc indicauit Vcgcrius in i.dc cxcrcirarionc militari lib.Arhlericam ncq. iaculandi cxerciratione caruifsc,Hcr culcsilliusaudor rtdcm faccrc porcft, qucm faLMttadi pcririirimum ca tacultare ccnraurum Kcf^um quamuis rcmorum 6l cc ruam acri pidcm transfixifscharpyasq.uolucrcs m mcdio acrc confccifsc,rra dit Scncca; atquc cum co alij . Ad hacc criam diucrfac illac,atquc mulripliccsbclluac,quas in publicisfpcdaculis,acludisathlctæ modoljgirris,modoalijs armis intcrimcbant, clariflimum argumcnrum pracbcnt, ccrtatorcs illos athleticos iaculationcm quoq. B cxcrcuifsc, ncc modo ignobilcs, ucrum ctiam maximc illuftrcs uiros, arquc ctiam Impcratorcs ipfos, inrcr quos duo adnumcranrur, Commodusuidcliccr raullinacrij &c prioris Taullinacfiliac, &: Marciprincipisfilius; nccnon Domirianus,quorum hunc ccntc«as uarij gcncris feras in Albano fcccfsu fagirris plcrumquc mulris idcnnbusconfodilsc,fcril)jt Tranquillus;iIIum ccnrum ictibusin arcnatoiidem fcras Ihauifsc, ram ualidis niribus, urmultasuno conficereri6u,tradir Hcrodianus: qui fimilitcr fc ribiradco illi ccr ram n^wnum fbilsc, ur, quidquid oculo dclbnafscr, iaculo 6c fagirra contingcrer . hrgo iacuIarioncm,& in bcllica,6c in arhlctica, &:iii medicinæ gymnaflica locum habuifse, compcrrum cft; cuius quidcm iaculationcs duo pori llimum mftrumcnra fuifsc, diximus, arcum,&:fagittas, quosalij Scyrhcn louisrihum, alij Pcr(cnPcrfci C filiuminucnifse dicunr . lamucro fagitrarummulraslpccicsfeciPiinius. mus,alias lubriles,&: cxnlcs^^quæ arcubus,^^ balilbs ciaculabanrur, ^ quafquc plumbaras fuifsc cxiltimamus:quamplurimorum,quin manifclic apparcar nos dc gymnafticaarrc nKdicinacfubiccta,&:non dc ullaalia rra6c cxcrcirarionum,^: in viucnd6,ac conucr fando arhlcricorum morum prauitatcm cognofccrc,co£niram dcKftari,arquccuirarc liccrcr* VANTVM commodi humanac huic uirac dcambula* tio pracftcr,faris apcrtc (apicntillima natura dcmonftrl uit,quac mirihco quoda arriricio,iini;uIariquc^&: prope diuma prouidcntia nobis pcdcsnonob aliud fabricauit,mli ut dcambularc, arquc dcambulanrcs avftioncs illas, ad quas nari fumus,pcrficcrcuaIcrcmus.quod cum Pracdo illc circaCoraccfium Pamphiliac animaducrrifscr^ ne homincs,qui m cum incidcbanr,ambularc amplius>&:rcliquauirac munia plcnc,honcftcq. obirc ualcrcnr, pcdcs illis> ficur rcfcrt Cklcnus > mcmorabili partmm. quodamcrudclirariscxcmploampurabar.l)cambuIariocrgo,qu5 vclurinccc(sariam,arquc in primis comittodam fiuc natura Jiuc Dcus nobis rribUcrunr,quanro ftudio cuftodicnda,arquc adiuuan da fir, nullus non uidcr, co pracfcrtim, quod fi ullac cxcrcirarioncs corporisinucniunrur,quacvalcrudincmconfcruarc,imbccilliraurmamorbocontraaampcIlcrc,&:bonum corpori habirumcompararc ualcant, quacq. apud omncs homincs>omncsq. narioncsirt licqucnriori ufu iinr> una profcdo cxfillir dcambulario > quam non K -f modomedlclpræcipuam corumgymnafticæpartemefleceriinf', D tjerum ctiam antiqui omnes ufque adco acftimarunr,ut intcr cetera priuatis excrcitationibus dcftinata,&: in gymnafijs, et extra loca, nullius maiorcAn curam gcffifrc, nulliq. magis ftuduifse uidcantur. quam utaccommodataomnitcmporc deambulantibus Joca cxæ-, dificarcnt. Nam(vt ccteros audtores fide digniflimosomirtam) Vitruuius quantopcrc in deambulacris fabricandis inuigilandum ccfuerit, unufquifq. cx eius fcriptis facile comprehendct ; cgo ccrtc ante, et poft Vitruuij tcmpora i»numcra in urbibus dcambulationibus loca magnifice extru6l:a lcio. quac omnia apud me tribus generibus compleduntur, quia uel porticus crant, uel fubdialcs loci, ucl fubterranci. Porticus enim quandoq. theatris,quandoque tem pIis,^a. liter fuifleporticusambulationi dicatas,fcribit GaIenus3quandoE quefolac&feparatæ exftruebantur,qualcsplurimæ Romae olim fucrunt, quarum ueftigia nunc admirationc Ipcdatoribus pariunt, et qualis tiiit Pumpciana,de qua &c Ouid. Tt4 mado Tompeia lentus (patiMre fub ymbra. &propcrtiuslibro 2. Scilicet vmbrofts Jordet Tompeia columnisy Torticus aulaeis nobilis ^ttalicis &lib.4. Tu nequeTompeia fpatiabere cuUus im ymhra, 7^c cum lafciuumllernet arena forum. et Mattial.li. I r . €ur nec Tompeia kntus fpatiatur in ymbra. Exquibus triumpoetarumuerbiscIarepatet,Pompeianam porticum ad deambulationes cxaedificatam fuiffe, quemadmodum, &: quampluresalias iwid conftrudasefTe, apudCiceronemtcrtiode F oratore libro difputatur. Quod porro lubdiales quoq. iocos ad de ambulatium tam commoditarcm,quam iucundiratem maiorcs noftri cxtruerent,atqueiIlosmodoarboribus confererent,modo nudosrelinquerenL,praetcr,Vitruuium,qui cosin gymnafijs, &: extra gymnafia quomodo ficri deberent^copiofifTime edocuit,argumento quoq, sLit xyfta illa a nobis fuperius declarata,&: praecipue deambulatorium illud Arhenicnfium in Acadcmia, quod pulcherrimis plaranis confitum ad id fuilse fcribir Plinius,& ad cuius imitationcmAlcxandrum Seuerum nemora in publicis rhcrmis,atque infuisaluifse cxiftimo.Subtcrrancosucrolocos quofdam ambula tionibus deftinarosfuifse,quosob id hypogaeos Hegefippus,&: Pctronius uocarint, haud uero dilfimile uidetur rquoniam temporibus,quibus mirum in modum luxus creuerat,ficripoteft, ut una cum cuminnumfrisalijsblandimcntisexcogirari finr achiitanda^aent wi caloi is molcftias. nifi cos porius creda^mus fiiifTc crypro porticus vndiq. paricribus redas, iccirco in eam tormam fabricatas,ne ambuhir.tcs a ucnris,&: a rcliquis aeris iniurijs lacdcrcnrur, qualis ho^ dic Romac in uiridario Varicano uifirur,^: quales fuii^e illos ucrifimile eft, quos fc i nrer rui nas uillarum LucuUi ram in agro Tufculano, quaminmonrc PaufilippouidifTt', tcftarus cftnobisLigoriusi quosue Plinius (ccundus in uillac fiiac Laurenrini, &c Tu1 lcorum dcfcriptionibus plunbus ucrbis dcpinxit. Dchis Varro apud Nonium,Non uidcs inmagnis pcriftylis,qui cryprasdomi non habcnr,fabulum laccre a parierc,aut Huripis,ubi ambularc poirinr^ Qui cnim ambularionibus fcfc cxcrccbanr, omncs fcrc fag nitatis gratia illucl agcbant,ur neccflario cogerenrur fecundum tcmporuin murarioncs uarios locos habcre,quibus cirra ualetudinis oftcnfioncm ambulationcs pcrficcrcnr. Softrarum Gnidium architc^ftumcelebratinimum ambulationcmctiam pcfilem primuin omniumGnidifccin'c,rcfcrrriiniuslib.xx xv i.cap. x i i. Nam athlctasambularionibusnumquam uri folitosexeo crcdcre dcbcmus,quod ncquc in ludis, ncquc in amphithcatris, ncquc in facris cerraminibus, quibus omnibus infcruicbanr, vmquani tos ambulandoconrendifle legitur. Quod filocusin gyranafijs arhJctarum cxcrcirationibus,a^ Iocusambularionibusdcftinarus,qucm Xcnophon,& Vitruuius Xyftum uocarum fcribunt,uicini crant,non idco inferre dcbcmus, arhlctas dcambulando cxerceri folitos,(ed alios in Xyftis ambularcarhlcrasfcorlumexerccri confucuilfctnifi Q dicamus arhlcras quoquc poft uehcmcntcs cxcrcirarioncs ambuJafTe, atquc illam ambulationcm apud mcdicos aVfl^tfflrTrwVuocatamcflc, &:nonpropriccxercirationem :quid autcmapucherapiaforct, infcrius dcclarabimus. Milirari limilircrpcririac ftudentcsambulationem parum curafle credcndum cflcr,|>oltquam ncc Plato ullam eius mcntionem fccit, nec in ullo bcllorum »;cnerc ad iumcnruin cffatu dignum pracftarc uidcrnr, nifi Vcgctius cdocuiffct ualdc militibusfururis cx u(u cfscurafliduo cxcrcitati ambulam fe celerircr,&: acqualircr difcanr,arquc (^b id uctcrcm confuctudinem permanfiflc,ncc non I).Auguftini,arquc Hadriani conftuutio nibuspraccaurum >fur(Tc,ur!nmen(c ram pcdircs,quam cquircs cduccrcnturamI?uIarum,&:non(oIumin campis,fcd cciam inciiiiofis^arduislocisdc(ccnderc,arqucadfcendcrecogcrcnrur,quo nulla rcs ucl cafus pugnanribus accidcrc pofscr,qua non antc boni militcs aflidua cxcrcirationc didiciflbnt.Habuit ucro hacc cxcrciratio ratio multas fpecl es lum a narura ilJius, tum a loco, rum a /ine drD fumptas ;a natuia qui Jcm, quoniam, cum ambulationcm dcfinic^ de ufu rit Galcnus cx crurum moru, ac quiere conftare, motus ilie, &: per vaitmm. confequcns ambulatio, autcrar magna, uel parua ; aut uelox, ucl tarda,aut uchcmcnis, ucl rcmifsa : a loco autem uariabantur paritcr ambuIationumfpecics,quandoquidcm modo inurbefiebant,&: in gymhafijs,modo cxtra urbcm, qucmadmodum Phædrus,&: In Oeco. ProdicusapudPlatoncmfacicbant,ncc nonlfcomachusapud Xc* nophontcm, qui dum in agrum pedibus fcruum fuum equum duccntcm fcquereriir>mcIiori fecxcrcitatione uti diccbar.quam fiin xyftoambulaflcr j modo in iocispIanis,modoafperis,modoareCoclius j^^jj^^ paralyricis Afclcpiadcs, Eraliftratus, ac Themifon Chran.2. malc commendabant,modo æquahbus,modoinacqualibus, moc.j.lib.dc dolongis,modobiTuibus\dc quibusomnibus copiolillime difserc amCis 5.probI.parti. A fine dcmum accipicbantur deambulationes, nempe quando velut auxilia (anitatis,ac boni habitUs adhibebatur, vcl ad corporisrecrcarioncm peragebantur.poftquani enim grauiorcscxcrcitationcs confcccrant,nc ftatim ad quierem tamquam a contrario ad conrrarium rranljtus ficrct,ambularioncs paucas,&: remiftiores adhibcbanr,ficut et poft medicamenra,ac uo miriones>arq. uniucrfum hoc cxcrcitationisgenus iTro&^tar/^riKof appcllabantrquamquam ctiam gymnaftæ in mcdijs laboribus, porirtimumq* in ijs,qui graucs uocarascxercitationes obijfscr,apo3.*tu.va. fherapiainrerdum urebantur,quodGaIenus fummoperelaudan' dum iudicauir. Apud Varroncm quoque, ur mcminit Nonius, habctur> aliquos ad cxcirandam (icim ambulatione ufos efse. nam in lcgc Macnia ira fcriptum crat:Excrcebam ambuIando,ut liti capacior ad cænam uenirer gUttuK An Erettum fhre Jit e^ceratath. tap. 111. VI rcrum ipfarum naruras Icuiter perfcrutati funt, iiihilambulationi ip quampedibuscredum ftarc iudicaruni. At quoniam profun^ dius quacrentcs in hajic fcntcntiam eunt ^ ereilosj.pedlbuTi^antes fi non ambulSt, fLiltcm aliquo pado moucrijproptcrcaquc ftarum huiufccmodi ab cxercirarionum ccnfu cxcludi minimc dcbcrc i idco eriam dc hoc fcrmoncm faccro dccf cui ; co præfcrtimquod multi faUis rationibus duCt^ hanc opinionem ira animis imbibcrunt> ut pcrtinaciter circdant> ftantes pcdibus nullo modo madofcfccxcrccre,fcntcntiam fuam hunc in modum probanrcf» uidclicct quod dcHnitum apud omncs audorcs rcpcritur,cxcrcita tioncmmotumcxlirtcrc, cui motui (hitum planc contrarium cfse: practcr cctcros Plaro ubiq. pracdicat,dum inrcr prima rcrum prin laSopK* cipiaftatum&: motumuclutiduo contraria collocar, quostamcn apcrtilllmc allucinan facilc conuinciruriquandoquidcmomntsil li,qui pcdibus crccli ftanr, licct moucri icnlibilitcr nullo modo uidcantur, attamcn ratio ipfa,quod aliquo pado moucantur, ccttilfimc pcrfuadet . Nam &c multorum uctcrum fcntcntia tuif,non quac moucri uidcantur, camoucri fola, fcd multa immobilia apparcre unum eundcm locum obtincnria, quac nihilominu^ mcucri ctficaciHimisrationibus,ac fcrcfcnfu ip(odcmonllrantur . Aucscrcnim non tam quando modofurfum, modo dcorfum uolitant,in motu B efscccnfcntur,quamdum in acrc locum unum fcrc immobilircr occupant . id quod iic probatur, quia li auis quac IKirc in acrc immobilitcr uidcbatur, in co ipfo inllanti moriarur, protinus in tcrramdccidit (utdcapodc illaauc manucondiata, quamniiimortuam in tcrris uidcri, 6c uiuam lcmpcr in acrc mancrc fcrunt ) non obaliam profcdo caufsam. nili quoniamcorpus illud in fublimi inotusalicuiusabanimaincorporc faCti auxilio confiftcbat, quo moru poftca priuatum corpus,arqucnaturacfuacdimifsumad ccn trum dcclinat,licuti dum cotra narurac fuac inclmationcm furfuni fuftmctur, haudquaquam cadit, ncquc itcm pcrfcCtc quicfcit, fed quali duobus motibus contrarijs ai;irarur, alrcro corporis dcorfum a narura a(fti,altcro animac furfum conrra naturam corpus moucnris. Idcm fcrmc cucnit in hominibus crcctisllantibus,quorum Ccorporibnsnaruraad rcrram inclinantibus, Sc anima contrafurfumilla fuftincrc obnitcnrc, morus quidam lcnfui immanifbftus fuborirur, cuius indicium illud habcrur, quod li aninui a corporc crcilo ftantc cxcat, illico ipfum in tcrram dclabitur,quia motus illedcficit,cuius bcncficioanimacorpus oaturalitcr ad tcrram incli narum, furfum clcuatum contincbat: ur his rationibus omnino cuiuis pcrfuafum cfsc dcbcar,cos,qui pcdibus crcCti IhuUjob conti nuos,&:conrrarios animac,corporisqucobnixus aliquo pa:tomoueri,arqucipforum mufculos omncscorpusgclhnrcs, &c a ccrra atrolcntcs,crigcnrcfquc uchcmcntcr intcndi :cuiusinrcnlionis,arouccriam ipliusocculri morus racriro poftca cfficirur, ut ftarcma^ iorcm laborcm,ac lallitudincm molcltiorcm pariat, quam ambularc,licuti pracclarillimc a Galcno fcriptis mandatumcft. Ncque ri.ætre.. Plato ubiintcrprincjpia rcrum Itatuin pcrmdc;ac motuicontræt riwm Lrium colTocauif^ucraprorfus locutuscft, cum Ariftotcles. 5. Phyfi^ corumlibro longaorarione ncn ftatummorui, fcd motum motui contrarium eflTe demonftraucrltiniti potius aliquis dicar,Plaronem aliud gcnusmotusacftacus myftice (ut fo!er) inrellexifle, cumex ipfisnaturas quoque diuinas ccnftare aHerar. Siigiturtot rarionibus fatis comprobarur ; eredos ftantes aliquo pztito moueri, atquc intc rdu non modicc laborarc, confenraneum uiderur,ut non ob id ftatus ab cxercirationu ordme remoucdus (it, quod cxerciratio defi m'aiur cfTcmorus, &:ipfcminime motus appcllationcm mereatur, quinimmo ficuri quaplures morus,qui fanitari, &: bono habitui cofcrre iudicanrur,ct(i uerc ac proprie exercirarioncs non ftnr,c6munirer ramen efTca nobis fupra abunde oftcnfum fuir : fimiliter &c ftare eredum communi notione exercirationem cfTc cenfemus. Vnde fapienrijTimus Hippocratcs, qui vlccra curanda quicte indigere alias prædicauir, ftarc&fcdere ipfis inimica efsc fcripiit : quafi innuereuoluerir, dum corpusfurfumueUedendo, uel ftandodetinetur, mufculos magnopcre conrendi, atque etiam motum quendam interanimam &:corporis naturam generari, qui ulccra ipfain cicatricemcoalcfcereminimepermittat.atquchoc efTepnro^quod aCoelioinEpilepfiaccurarione rtans exercitium uocatur. Num ucro antiqui gymnaftæ inrcr alias corporu cxcrcirariones huiufce modi ftatum rccepcrint, nil ccrri affirmare audco . Athlcrac enim cumnullumferc ufum in ftando haberent, nifi quando Milonis imitatoresrcdi ftantcs fefe ceterisaloco dimoucndos oftcnrandi roboris gratia pracbebanr, vel ftaru non pcr fe, fed ob alium urebanrurrideohaudquaquamfeipfos in hoc gcncrc excrcuifse mihi iierifimilereddirur. Qupdquæfo cerrameninftandofolumefre6lum ccrnipotcrar,quod autfpcdtaroribus delcdarionem afrerrer, aur facrificijs, ucl alio modo amphithcatris, aut ftadijs infcruiret, uthorumgratiaathlctasfefe exercercuclcertarc ftantcsfohtosdi camusfftabant tamea qui athletas ccrtantcs fpe amphithcarris,atq. alijs pu blicis ( c C ri 10 ra idi do ad ao Ddc m OQI nok tili ttiu tc bt fc( H .,4, A cisccrtaminibus,fpcdaculisq.coronasuiclomcconfcqucmur,pa pulumq. obledarcnt;uclutoptimum corporis lKibitum,atq.f;inira lcm ipfam acquircrcnt,tucrcturq. Hos apud Kufcb.viij, Hift. EccL cap.xviij.M«;(«Tpiom.ichia,hoc cft armorum fi^ta confrixio ^ ^j^ B uocata,necnonad diminucndam7roAic/us anim.aris&iinanimis carcjmas nuquid nosob corum,qui ^> nobifcum cxcrccanrur,ino;Mam,aducrfui. n )fmctipfos verc vmbratili puena certarcaudcbii>uis.&:poltipfum Plurar.in 7. Prob. con„ . Uiuiahum :«AA(7fc»,u;Ttt^ vfiKQotovsiot^rccr Hd'Hquafiæremnoticædcns. lam ucrononminustelJs^quapugniSj ] et brachijs nudi^ huiufcemodi cxercirationem ufurpata cfse rationi cft confentaneum . Hac itaq. fucrunt duæ pugnæ fpecies^quaf maiores noftri cxercitationu loco in ufii habuifse rcperitrita ut nulla gymnaftica cxftarct,q inter alias excrcitationcs hanc no rcceperit.quod cnim athlctica uctuftilTimis vfq. temporibus pugnandi armis incidcntibiis exercitationc urcretur, locuplctiftimu teftcm Plu z.VtQb, tarchu habemus,qui in 5. Sympof. fcriptu rcliquit, antiquitus monomachiam.f.aut fingulare certamen in Pifa ciuitate,&in Elide Pcloponnefiregionc iuxta AIphacumfluuium,circa quam quinfto quolibet anno^hoc cft,ut Pindari intcrprcs tcftatur, alternis olympiadibus,fiuemenfibusquadragintaodo,autquinquaginta, cerramina olympica loui facra celebrabatur, vfq. ad mortcm dcuidoru, cadcntiumq. iugulationcm proccdcre cofueuifrc.Practcrea narrat GaIcnus,facerdotes in Pergamo prifcum morc retjnuifsc, ut æftatis teporc monomachias uocatas cxercercnt,quas ne quis credat fo li Gracccrri nationi proprias exftitifsc, adcudus cft Athenacus,qui in quarto dipnofophifton auftoritate Nicolai Damafceni Philolophi pcriparetici referr,Romanos monomachoru fpr£>ncula no modo in feftis,arque amphithcarris,ucrum ct in conuiuijs a Tyrrhcnis confuerudinc muruaros adhibuiffc; quamuis Romani no monomachosjfed gIadiatorcshosocsnuncuparemaIuerint,quos lulij Cæfaris ærate in foro nouifsimc pugnafse,quofq. pugnarcs Smaragdo lib. NeroncfpcftaffcfcribitPIinius.Hi quoniam arrcplurimisabfurdis 18. et lib. plena excrcebat,ut a ceteris pugnanrium cxcrcitationibus integre 37.C.J. dignofci poirinr,nonnulla dc ipfis brcuirer cxpona, Nam illud primum dcreftandii plane habcbanr, quod ccrtantes qua grauius poterant,fcfe fcrire ftudcbanr,&: non iolum( quod fcripfir Scribonius Largus,qui*'Tibcrij Cacfaris,&: Mcflalinac ætate medicina Romæ cxcrcuir)c6rufioncsin lu(ftarionibuspaticbantur,fed crianon raro vfq. ad altcrius, ucl eriam amboru pugnanrium inreriru ccrtamea protcdcbarur: quemadmodu,pracrer Athenacumjarq, Plurarchfi, 3.decr>p. Calcnusquoq.rcftarur,quifcgIadiarorcsgi-auircr vulneraroscumc.pgcri. rafle, &: ob id a fuac ciuitatis potificc in eoru mcdicum coopratutn Li.7.ca.3. fuiflefcribir. Quin auctor cftGcl!!us,gIadiatori compofiroad pugnadupugnac hanc propoficaforrc fuifse, aur occidcrc fi occupa uiflcr,autocciabcrc,ficcfsafsct.vtid ucrumpurarc dc bcamus,quod M.Tullius.2, Tufculanaruquacftionumcmoriac mandauir,athletas ctia vulncribus confcdos ad dominosmittcrcfoIitoSjqui quærcrcnt,quid ucllent,(i fatis^a^^lu ijs cfsctjfc ucllc dccubcrc. nam ufq. adeo A AdcomojTem.acviilncrA inrrcpidc obibanr,utncc inscmffccrcnt . ncc multu mutarent.humfmodi ucro ncfandas hominfi cacdcs cum' fiiftmere ocuhs no poflcr optimus Impcraror Anronin», nanar Di6 cu cdu^o cau.flc,ut glad.arores no acutofcrro . fcd obrufis gladijs. et tcrcnbus d.m.carcnr quod hodic fadirant, qui pu.nadi art d ^ fcendæopcranaiKi„t.Sccundaturpit.Kiinisfpcc.cLuamo,,o^ mor ac prod.d.r glad.arorcs hordcarios vocaros quia antiqu.tus ' 'r.c... hordco u.d.tabant, ucut l>oft Plini.,m Galcnus cofdcm 6, da, &: nandun .nft.tutum crat, .n ipfo ccrtaminc fangu.nc cx vulncrc aducrfar. j b.bcrc.ra.nquam,;s ad confi. mandf,animu, et uircs cfficaTn A Tl^'s,pracclarc admodum fic a Cvp,ia« nodcclamatucfl Pnr.>turglad..itoriusludus,utl.b.dinccri,dcl.ul^^^^^ pus, &: a ru.nac horismcbroru .nolcs robulb pi.,gucfcit,ut fa-.natus,n pocna canus pcrcat . Homo occiditur in homin.s LoIupur!s " et ut qu.s po(r,t occdcrcpcritia cfl.u fus cft.ars cft,fcclus no,i ar„m " gcnri,r/cd doccr:qu.d potcft .nbuman.us.quid acabius d.ci T " Jud.oro tcqualccft ub. fcfcrisobi;c.ur,quos ncmo damnau.^Jcra" tcmtcgra,honcftarat.sfurma.ucftcprcr,ofa v.ucnrcsin vhro^eum " funus ornantur.mal.s fuis m,fcri slonanf, pugnanr ad bcft.as nc, cr " ni.nc fcd ruxorc:ipcdanr hlios fuospatrcs, rn^ ^ pracfto cft,&:fpcCUcul. hcctprcriu largior muncr,s.xppa,-:tusam! " plj^hcer,urmacror.busfuismarcrinrc./fr:hoc.prohdoIor,,mtcr&" rcd,m.t,&: .n tom,mp,;sfpcftaculis,raq. d.nscffcfc non purantocu " l.sparr.c,d.as.Hadcnusuir.IlcC:hnflia,ius, cuiusorariinchiccx" fcnbcrcpIacu,t,qdadgIad.aro.-,accxcrcirariou,sp,au,rarcollc,;-" dendam,n,l luculcnt.ushabcri poflir. Quat,-, prauiratc illud,nihi ualdc turpms cx,ft,mare in mcntc ucnit,qd et Kcipub.Iibc-ratis &: Impcraroru tcmpon bus rar, fucrinr fiuc nubilcs,fiuc ignob,lcs,f,uc coluIa.cs.f,uclmpcratorcs,quifpcdacuIaadcoinh.inK.na,acomni flas.r.o,&:facu.r.a plcna l.bcnrc.-, atq. maxima cu,n uuluptatc non inrucrcntur . Numqu,d autcm cuiufuisgcncris homincs.an i^no.b,l,H,m. dumtaxat.glad.aror.a cxc. cc. c„r,anccps ualdcfum.quod cn.m LcntuIusCapu.-icut rcrunr,g!ad.arorcs alucr, quud C Tc " ir-cr. rcnt.us Lucanus, auctorc Plinio,gladiatorum quadrag.nra paria in furo pcr triduum auo fuo,a quo adopratus fucrat,dcdcrit,quod ucoymr.jUca. L nales cflent,&: tria illa ncfanda a nobis prædida profirerentunmi1 hi ccrtc perfuadcnte exomniumhominumignobiliflimo fimui, ac impunllimo gcnere,ueluti feruis exftitiflc.Ex altera parte cu Galede frac nus rcferar,f:icerdotes monomachiamcxerccrc fohtos,cum Atheklhhu nacus fcribar iUuftres uiros, atq. Duces monomachiam cxercuiflc, cum Herodianus, arq. lulius Capitolinus Commodum hnpcratore Spartiagladiatorcm eximiumfuiflc,&:inpublicisrhearris,fpreta hnpera7eno" ^& ^ dignirarcgladiaroris parres adimplcfsc fcribanr,ciim tradant AibmL alij Impcrarorcs ad bellum profedturos munus gIadiatorium,ac ucnationes ederc confueuiflc,ut ciuiufanguine fic effiifo pugnæ quadam imagine Ncmefis fe,idcfl: Forrunæ uis quædam explcrer, uel ut infuefcerent milires vulnera,atq. cacdcs in/pedare. qua item ra tione SolonapudLucianum narratlcgem Arhenienfibusfuifle,ut faAaach. iuucncs cothurnicibus fiuc qualeis, ac gallis pugnantibus fpettadis fliudium impcdcrent,quo illi uolucrcs vfq. ad extremam uiriudcfeaioncmroftriscertantcs intuentcs,ad fortiterfubcundapcricula,&:contcmnenda vulncra ^neauibusingencroliorcs apparerent, inflammarentur,cuius ftudij mentionem quoq, fccit Æfchines c6tra'Timarchum,&:CoIumcllaIibri o6bui cap.2.Cuminquam hacc omnia mentecontemplor,quaficrcdere cogor,tum nobiles aliqn^ tumignofciles utplurimumathleticamhanc atq. gladiaroriam pd gnandifpcciem excrcuilfc iquando criam apud Athenæumrepericnonnullos teftamenro cauifle, utr pulcherrimæ eriam puellac monomachorum inftar dccertarent, aut qui in delicijs fuiflent impuberes.ScdgratiæDcalmmortahfunthabcndæ quiad abolen dum huiufmodi nephaadum morem quoq. principes impulerit,q(f primumabHonorio Impcrarore fadu ertc perhiber Theodorerus ca.26.hb. quintihiftoriæ ccclcfiafticac .Atque exhisclare patct, armorumacutorumpugiiam inter athlerarum exercitationesadnumerandamcfle.quos fciamachiamquoqueinterdum,fiue umbrarilempugnamexcrcuifse,inde faris conijcercpoflumus>quod Glaucus Caryftius arhlera ftixnuusnon minus ob pugilatoriam, quaminumbra pugnandi cxceilentiam celcbratus fir, ciqueftatua habiru, formaque in umbra pugnanris erefta, ut Paufanias narrat, tradarur : nifi cerrius comprobarent illud hæc Dionyfij in cap. libro de diuinis nominibus ucrba : oVe/) 0 cro^o^ bx. z^vovriaraA /uj^fiTa^^ TTid^' r^^TS)VoiOAyj7iivol7rCipovUou;,04c:!ro?^M^^ d^ofek ^ja^ rii^ airctyomg-a^ vdf^ticvc tjyroQi/i^uOi, % cLTcl 70 Jb^coLtS € nv^oc; ^-toi/to^;, axiTOvq aiq (nncLixa.')$iuj» nc;, oiovTOJ^ tHv airiTroLAcov ojutwv jcwtpa.T/;tcvaf : ideft. Quod fapicns minime intcUigcns incxpertos uinccndi. athletas imitatur, qui fæpe . Afacpe antagonlftis imbecillas cflTc fupponentcs, prout Ipfis vidcriir, nccno aduerfus cos abfenres fbi tircr vmbratili pugna ccrtarcs,aduerfariosipfosuiciflcpurar» Habuir6in ipfisq. mulicrcs &c uiros claborarc uolucrir. Hanc rudibus armis faCtam milirarc monomachiam illam fui fsc, quam Hcrmippus Manti nacos inucnifsc,&: Cyrcnæos acmularos efse fcribir, Athcnac» cgofcrmccrcdo.iicuri limiIircrcxirtimo,quamfcrimiam uulgusdi ^^^-^* cir,cam ipfam,&: non umbratilcm pugnam, ur Kudacus in Com. ad C Pandcdas, Guliclmus Choulus,&:aIij nonnullifalfoautumarunr, cfse,dc qua locurus PJaro mea fcnrcnria uidcrur, quando in Lachcrc fcripfir,iuuenibus coduccrc, ur armis pugnarc difcanr, quoniam lic habitus corporis robullus acquirirur, ncc ulla cxcrcitarionc infcriorhæceft,aurminuslaboriofa. In hac haudquaquam ccrtatorcs,qacmadmodum gladiarorcsfc ufquc ad ncccm fcricbanr, fcd rudibuS reljs quafilcfcpctcre iiUiiccmfunuIanrcs,quandoque cria rc uera fcricnrcs,&:plagarum inflidlioncs,&:aucrfioncs rdifccbant. Aliquando ramcn cum umbra armis ct pugnabarcquod Cdtas pofl coenam fach*tafsc,Poflidonius audor clhl^im ucro omnium frcquctiirimc pugnam aducriuspalum cxcrccbanr,qui milirarcm difc ipli nam compararcoptabanr,quam cxcrcirarioncm ita faditaramfcri ^ fe bir Vci:crius,quod a lingulis ryronibus finguli pali dcfigcbaiuurin tciram,iru ur inic.-r" iDn pr/vr, &rooo-ip ol r£jg7retXai^piijC ^etUiurig 7raj(^ovT^CyO rcaf i^zir oiiu(poripa>v ?\y^(p6(z^Tig 'i^zcovTcif eig tcI cvavTict.i. Paullatim enimproccdcntcsin mcdiumamborum ignoranter cecidimus,& nifi aliquo modo nofmctipfos defcndctcs eua mcmoriacproditum cft. 1 m 1 li.i.fer.^. li.i.fen.^ iioc 2.C.2. j.de bclJo ciuili. DeVociferatione y ^ ri/u.. VILNTER cereros,quos plurimos,atquc neceflTarios in humana vira vfus habcr fpiratio, non infimum locum obrinuirvociferario. quaccum nilaliudfiti quamacrisuehcmcnspercufl^o,rammatcriam, quam cflcdorcm,&: lormam,ueI a refpiratione foIa,vcl faltcm non abfquc ipfa fuppcditari,|AriftoteIes, &: Galenus pracclariirimis in i d cdiris commenrarijs probarunt. &: iccirco non ab re fururum cflc duxi, fi, poftquam defpiritusretentioneuerbafcci, ftarim uocifcrarionis rraftarioncm fubiungerem. Neque enim ab hac me remouere dchuir, quod Galenusmcdicorumprincepsaurnulla, aurquam pauciflfima dc vocifcrarioncfcriprisiradiderit, quafiquceam intcrexcrcitarionesnumerari dcbere non cenfucrir: quandoquidcm AnrylOribafium mcdicus cclcbrariflimus non modo camexercirationcmcfleuoIuit,ucrumctiam cumad morborum diuerforum curarioncm,rum ad uocis ipfius culrum ualde æftimatam fuiffcfcripfit. qucmadmodum itcm Ætius Amidcnus, &: Auiccnna Arabs uno orc poftcdoribus facculis comprobai unr. Nunquid ucro athIcticacprofeflorcs,aurmiliraris dilciplinacftudiolihoccxcr cirationis gcnus in ufu habcrcnt, U li^apud nuUum audoi cm noratumaducrtcrim:pcrfuafumtamcnmihi cft, ncurros horumuocifcrationcm taniquam propriac ipforum profcflioni aut conucnicntcm aur filtcm rtcccfliiriam cxcrcuifle . Qupd fidicatquis, &:arhlctasinccrtaminibus, &:milircs in pugnis confcrcndis clamoribusnonfincutilirare vfos, quando Cacfarhaudfruftra anriquirusinftirurumfuilfcfcribir, utinbcllo committendo fignaundique concinercnr, clamorcmquc vniucrfi roUcrcnt, quibus rebus, &: hoftcs rcrrcri,&: fuos incitari exiftimaucrur: proptcr hoc minimc fcquitur, uocifcrarionis cxcrcimtioncm, dc qua nos agimu^> miliraridifciplinacadttifccndac confcrrc. Duofolum humiiul gcncra uocis cxcrcirationi fcdulo opcram dcdifsc rcpcrio, hirtrionicæ uideIicetprofclTorcs,&: mcdicorum gymnafticos.Hillrionicam enim profitcnrcs,fubquibuspracconcs,choriftas,rragocdiarum,&: aharumfabularumlimilium rcciracorcs, ncc non uocibus ccrritcs CoUoccqocifcrarioaibuscxcrccri foliros.locuplctiifimus tcftiscll Platoin lonc^ Anllotclcsinproblcmatum libris,in quibuskgip^^;^^/^' tur,Phiynici, ncc noncriamantiquionbusrcmporibus tragocdias, comocdias,dithyrambos,arquc lcgcs ipfas cantu rccitari^:onfucuif fe.ob quod uocis cxcrcitatio tantæ cxiftimarionis fuit,ur,(icuri de athlctica monftrauimus,pubHcæ uocifcrationiscerraminaaCoc''j^'"^B lio Aurclianofiib modulationis agonillicac nominc intcllcaa, j> " pofuis uidori pracmijs,inftirucrcntur.qucm morcm ufquc ad Galc ni rcmpora pcrdurafse,ex eo conijcerc pofsumus,quod 7.dc mcdicamentorum compod. fccundum locoshb. muhamcdicamctarcccnfct^uibus antiqui mcdici in ijs,qui uocc contcndcrc dcbcbat, tum antc,rum poll ccrramcn urcbantur,ubi fimihrer narrat, temporefuophonafcosomncs,cirharacdos,f.pracconcs,ncc non rragocdiam,ac comocdiam pcrfonatos rcpracfcnrantcs,qui magno uocis excrcitio utebantur, li quando uuccm contcndcndo oblæfilTcnt, balneismultis,&:cibislcuibus,atquelaxantibusuti fohtos.Exquibus ucrbis cuiuis intclligerc licet, non modo hillrionicæ profcflbres uocc,&:cantu(quod dixit Plaro)limpIicitcr in rccitandis dram^^"«^maribus,rhapfodijs,aIijsuc imitationibus fuis, uerum etiam alra uo ^ ce ufos,atq. ijs intcrdum uniformibus,i nrcrdu uarijs,&: muraris,ucluriin rra^ocdiaad macroris,calamiratisq. magnitudincmaugcndafav^uniohm,(cribit Arillotclcs.Qiiarcmirari dcbctncmo,quod ^^^Pa«i ^oc aZ^ncnv y^^ivira^ •rfsyou rivci yu/uvoLcnoL rolc a-raiuoLcnv -i 1? 7^ rov vrv/uuoLroc KaL^i^tc^TrOieiiiwl^tJLU rolc TTOvovaiv, ocrv/u/SoLfvc-i (t rolc TroLf^iofc ^ravo/u^oic • idcft : Pucrorum uerodiltcnfioncs arquc ploratus,quiin Icgibusprohibent,haud rede faciunt, confcrunrcnim ad incrementum, cum fint quodammodo cxercirationes corponmi,lpirirus nanquc cohibirio labcranribus robur parit, quod etiam pueri^ inter plorandum diftenfis . iTrecho,Pctawo,^riUmJleo. Cap. IIX. 1 ca omnia,quae antiquis tcmporibus vlirat.i,ac,vt fic di1 cam,pcruulgatacrant, autad nos pcrmanus tradita, ficutdcanatomicaarrc narrat (ialciuis, pcrucnilfcnt, i.jennat. lutab au«ftoribusfcriptismandara no intcrijncnt.mul-admini.ia C tos profccto labores, qiios homiiics qiioridic m oblciiris, ac anriquarisrebusadliiccm rciiocandis fuftincnr, cirra vUam iaeturani crtiigiflfcnr . fed quoniamalia rcmporis di ururnirarc, afpcrirarcquc obfoleucrunt, alia difficiliobfcurirarc dcprauarafunr,aliafcripro. ruminrcriru dcfeccrunr, alia communi quadam lacculorum ncgligcnria numquam proprium nitorcm rccupcrarunt, hinc fadum cil,ur in d ics coganrur homincs obfolcra rcnouare, dcprauata rcformare, abolira rcficcre, randcmquc ncglcctis 6l dcturpatis fplcndorcmicftitucrcncc non inranra obfcurirarc coadi, (omniantes quandoquca ucrirarcprocul abcrrarc.iiucr quos cum cgo quoque limilcm prouinciam fufccpcrim, qui arrcm gymnafticam elim iii magno prctio habiram,nunc pcnirus obfcuraram, &: cmorruam ad luccm rcduccrc ftudco, mihi ranromaiorcexcularionc di gnus vidcor, quantopauciorcs^aurfcrdnuliifcriptorcsfupcrfunr, M 2 aquibus inftitutum mcura dirigi qucat.ne flleamplurima exercita D tionum gencra, quae quod temporibus noftrisdefueucrinr, ucterumq. pcragcndi casrationon habcatur, quomodoficrcnr, quaJesueefsent,diiiinandumcftporius,quam ccrtiquidquamaffirman dum. Qucmadmodum deCricilafiaatque trochocontingit. Nam icfwA,«ra)?s;t«aM o'4^?o? o>Vo^o? '^cWTuyjj^x^^aiyipyct^irc^yjcyj^ShvlwT^ ^'^vx»,, idcft, Habcatuero circulus diamctrum hominis longitudine minorcm, ita ut ipfius altitudo ufque ad mammas pcrtingat, neque fccundum longitudinem, fcd in tranfuerfum jmpcllatur,fit aurem impulfor fcrrcus ligneam aufam habens. Nonnulli rcnucs annulos rorae circumpofitos fuperuacaneos efse purarunt : at hoc minimc i ra fe habct, quinimmo fonus ab ipfis gcnitus reIaxationem,atque uoluptarem animoparir.Exquibus ucrbis clare patct, in hac excrcirarione homincs circulum quendam magnum,cuiuscircumfcrcntiaeannuliparuiinfixi crant,quadamfer^ rca uirga anfam habcnte in tranfucrfum latus impellere confueuiffc,a quo duda mctaphora M.Ciccro ij. epift. ad Atti.ix.fcripfir. feftiuc mihi crede, &: minorc fonitu quaputaram orbis hic in rcpub. eft conuerfus.fcd cum hac actate in ufu non habcarur^pofTumus fane aliquid diuinarc, ar cius formam,&: condirioncs pcni tus cognofccre minimc liccr.quod cnim trochus graccus fucrir,de quo Hora tiusiibHuscnt. et Curinliis ia /.J.tn cnr annulus mbe vagathr . ibidem. C(dn Jtarg.itit obnii turba trocb^s. et l y tii tJtn /.I.V.' 'I?, C iiiitif quam culus ahen i, jib 1 1. 0,,jmteU'rar^iitO(iulfonatiUreirotbus. in rroch ) namq. primocrat circulus,&: in circulo anulus,qui fono fpcctatonbusuoluptatcm atfcrcbat.adcrat Cx: impulfor cumanfaa rropcrtioclauisuocatus.ubidixit, Inirenat et ver i cUu s adu.bina M 4 Curuitis 7.ACueiil. Curuatis fcYmfpatijs,flupet infcia turba, D Impubisque manus mirata uolubile buxum Dant animos plagae, minime trochum cfTcur uolucrimt nonnuIli,ficuti,& excrcitatio ilhviuae hodic fupra ligneas tabulas pannis contcdas una cum ligncis pilis efficitur,& truchus nuncupatur,trochi antiquorum apud mefimilirudincmparuam gerir.Nam rrochusprimoin publicisgy mnafijs,alijsue locis peragcbatur.Secudo is annulufcu annuios habcbatftrepitumcdcnrcs, ur homines pcrviamambulantcsfonitu audiro longius ab incurfu trochi cauerenr. Poftremo ex aere conflabarur,atque clauem aduncam habebat.quæ omnia nec feparatim,nec fimul in rurbine/eu rrucho noftrisrcperirisefusipfe docer. urmcriro crcdcre debcamus,ab hislonge diucrsuantiquorumtrop chu exflirifrc,quem(vtcgoputo,apprime repræfenrarhæc figura. a Ligorio ad nos mi ffa^quam fc cx forma in vctuftiirimo,atq.'ampIif fimocuiufdamComici vcl Saryricipoctac monumcnro cxprdrain uia Tiburtina.ppe Romaaccepifreretulir.nifi quodprærer annulos denresquofda circuIoinfixos,&: mobilcs monftrat. quos adftre pitumaioremedendumappofirosfuifrc uero confonar. Trochum aute cu Horatius inrer excrcitariones connumerer in arre poerica, Jndoctusq. pilæ ydifciuCy trochiue quicfcit, 'HS ipiff^^ rifum tolLant impune coronæ: Cumque Propertiusinter gymnafiorum cxcrcirariones rccenfeat: procuiaubio ad gymnafticam aliquam pcrtinuifrcconfcntancu rationiuidctur.&: ob id cum ncquc milirari,ncqucathlcricac iurcat tnbui qucar, fupcrcft nicdicinac ^ymnafticac cxcrcitarioncfuiflc, et illiuspracfcrtim^Cipucriscxcrccndisopcra nauabar.IWscrtamc cxillimarictiamadmilirarcmaliquopadopcrrinuifscquod rcfcrat Ammianus MarccUinus li. 2i.iulianQ Cacf. apud Parifios uai ijs fcfc cxcrcuifsc motibus in campo, ^ inrcr alios quodam qucm du faccrct axiculis quis orbis crar compaiiinatus in uanam cxcuds anfamrcmanlilsc illam,quamrcrincnsualida manu ftringcbarrcxquo loco Turncbus fummi ludicij, &: crudirionis iurc ccnfuit ciufmodi cxcrcitarioncfuifsctrochum.Hisdillimilcmformahabctcxcrcitationis illud gcnus,quod,non multis ab hinc annis in Rcgno Ncapo g litano inucntum,hodicq. in uniucrfa fcrc Europa ufitatu, apud Iralos Pilam &: mallcum uocanr.in hoc crcnim primo brachia, &: dorfum cxcrccnf,qn mallcis ligncis pila ligncam longc pcllcrc coguntundcmum cx ambularionc,quac rali cxcrcirarioni pcrpctuo afsociatur,ca commoda fcrc rrahunrur,quac anbulantcs homincs pcrcipiunr.urhisrationibus, licct antiquum non ht,minimc contcmni mcrcarur. quamquamaliquisanriquoscriamhaccxcrcirarionc no caruifsc forfan contcdat,cum apud Auiccnnam inrcr cercras cxcrlocckxdt cirationcsunumnomincrur,quod uirgis rcrortis divflis alfulcgiaa cumpilamagna,aurparualigncacflicicbatur,quasconditioncsap primc noftra pilamallco conucnirc unufquifquc uidct, nili alias tacucrit Auiccnna,quod fuo rcmporcnotilfimaccf^cnr. C Dc Equitatione. ACTENVS cas cxcr^ irarioncs profccud fumus,quas hominesafcipfis cirra alrcrius rei adiumcntumobibant. Supc^ ''^•ft modo fcrmoncm habcrc,in quibus homincsquidem fponrc,^ quodam modo libcic moucbantur,ar coru morus al tcrius moucnrisopepcrficicbantur.quod cnim Galcnusiftis duo^.dtuva. bus addidir gcnus cxcrciiarionis a mcdicamcntis favTtum, minimc adinftirutum noftrumpcrtinctridcoilludfempcrdimifsumhacra tioncintclligatur.lntcr haccpoftrcma primum locumiurc fi')i uiii dicat cquiratio a Graccis mcdicis iTTTrccaU uocara, ncpc quac cctc risdignior/ir,&:Iibcrumhomincm,urfcriprir in Lachctc Plaro,ma ximc dcccat,nccnon vrriufq. cxcrcitationis naturam, illius fciliccr, quæ anobisipfis,&:iIlius,quacab alijs in nobispcragirur,fccundu Galenifcntcntiamfapiar. Equitationisprimuminucntorc Jicllorophontcm exftitifse,auaor eft Plinius.poft Bellorophontem ThefsaD li.xc. y^. |j j Centauri nuncupati cquitationc in bcllis uti coepcrunt, q lib.^ acre paullatim ufq. adeo creuit, ut Hippocratis tcpore ocs fcrc Scythæ aquis&io cquisucherentur.quicumob afliduas equitationescoxarum dolo ribus cruciarentur, per uenarum poft aures incifionem ab ilhs curati,ad coitum ualdc impotcntcs cuadcbant; quamqua multi erant infaccunditatcm eam a Dijsproficifci fufpicaics,quos Hippocrates redarguit, quod diuitcsfcmpcr dijs amici, pauperes uero minime fint,(ut etiam Ariftoteles id ab Hippocrate mutuatus confirnuuit,) i.Rheto. g^pi.optereaacquumfuifsepotiusinopes,quam opulentos eouitio corripi, cuius tamcn contrarium cucnicbat.Poft Hippocratis tempora cquitatio fempcr, quemadmodum in Hippia a Phitone traditur,in maxima exiftimatione habita fuit,^ iccirco omnes gymnafti cæfpecicseam inter rehquasfuascxcrcirationcsrecepcrQt. Nam quod in circis 6c ludis maiores noftri equitationis cerramina adhiberent,præter01ympicosIudos,inquosuicefima quinta Olympiade equorum curfus certamen mdudum iradunt;tcftatum facerepofsuntquatuor illac Romanac faCtioncs.AIbatifciiicct, Rufsati,Vcneri,&:Prafini,quæ tum in circis,rum in ludis,ac alijs cqucftri buscertaminibusadhibirisequisjfiuc ad equitationem,fiueauriga tionemfemperccrcabant^tantumq. ftudiuequis oprimis eligendis, ac parandis cxhibebant,ut Galcnus dixcrit,Vcnctæ,ac Prafinæ fa 7. Metho. ^^iQj^i^ homincs ctiam ftercora cquorum odorare folitos,quo cx illisanimaliuhabirus,atq, tcmpcraruras internofcere,&:cognitisinde mclioribus uti ualcrcnt, fi quidcm harum fadionum conrentioncs potiundi uidoriæ cayfla talcs crant,quæ ncc uUis fumptibus, p ncc vllis laboribus ac ftudijs parccrc qucmqua pcrmittcrcrreo magis qd' totaurbsquafiquadripartita crat,alijsuni,alijsaltcrifa(ftio nifaucntibus^nec ullapnrs ciuiratis repcricbatur,aur ullushominu conucnrus,in quibus ccrraminum temporc dc huiufcemodi fadionibusaur ftudiofiflime non difccptarctur,autfaltcmfermonon haberetur,quemadmodum *ex Plinij lexta noni libri Epiftola,atq. his Marrialis ucrfibus quifque conicfti.ra afscqui potcft. lib.n. Sæpius ad palmam Vrafinns pGjl fata l^cronis VtruLnit,& viitor pracrnia phira nfert, I nunc liuor cdax, dic tu ceffiffe T^crom . ficit nimirum non l^ero, jcd Trafmus, Dc Vrafvio co/iun^a meas, enetoqiic lonuetUY ^ 1S{€V fadcht-qucmciuam pocula no^lrateum . quamquamluuenalis maiorcm Romanæ ciuitatis partem Prafinacfadio16* B A næfacrionifuifsctcmporcfuo, quando Maitialis quoque flomit, teftari uidcatur hisucrfibus. Touvi hodie l\omam CircHs capit, et fr-ignr aurem TercutityCMcntum viridisquo colbgo pMin. T^am fideficcret, mæftjni,attvnuamrjue vtderes Hanc v)b(tn, veluti Cunnarum in fulucre vMiS Confulibus. Has ucro in f aucndo diucrfis fa(ftionibus hommum acerrunas contcntioncs indc ortas fcmpcr cxiltimaui, quoniam Romanorum quorumhbctucftimcntaqu.ituordumtaxatcoloribus tcxcbantur, vclrubco,vclalbo,ucluindi, uclucncto,icdpraccipucrubc()magis fufco, ut Martialis hifcc ucrlibusindicat, dc Canudna lana rubca tufca fcrmoncm habcns, I{pma magis fufcis veRitur, Cj//m ruHs, libM. EtplaccthicpHcris, miittbiisivicculor. &:obhocquicumqucci ta^ioni taucrc cogcbarur.quacfibi fimilcm colorcm profitcbatur . Etfi huic fcntcntiac rcclamarc uidcantureaOuidijucrba. Cuius equi venicnt,fai.'.toftudiufc requiras,,. je jrte XVf mora,quifiuis etic, cns fauet illa,fau'. auundi. Scd dc equitationc ludorum,&:fpcaaculorum,quam et arhlctica uocarc licct,plura non dicam : quoniam cruditillimus Painiinus luculcntirtlmc fimul,& copioliilime iu libris dc ludis ^iuos iam cdcre parat.uniucrfamhancmatcri.im pcrtradauit. Ad bcllicam gymiufticam acccdo.quam ad acquirCdam cqucltrcm pro bcll-s difciplinacquitationiscxcrcitioulamtuifclocupIctilhmctclbtuscflPIay.Jdcg. to-ubi non modo uiroscquis armatos,acq. incrmcscxcrccri fiatuit, r ucrum pucllis quoq. talcs cxcrcitationcs iniic concclTif, cafq. intcr cctcras bdUcacgymnafticacfpccics, fiuc partcscuidcntcr collocauit ficuti Xcnophon paritcrfcntiieuidctiir.apudquc ilchomachusuitac fuac rarioncm Socrati cxponcs fic loc|Ufnr:;/tTa A t« iuoarxrw rxts ^ r£ w»Ai/Aii «fxyKxicM iTTTTXirixts o vTt TcxxyiDV ovTt kxtko rm,^rrr.rx £ R Trai-T*,^o; JJ,x«^.Tr^. lioc cft . Pcrlunoncm olfchomachc fic agcndo ni.h. placcs,quandoqi,idem uno tempore coJlcdim fanita ti, atq. robon acquircndo opcram nauas, nec non ad bclla te exerces, diumj/quc accumulandis inuigilas, quæ omnia admirarione digna nnhi plancuidcnrur. Exhiscnim, &:Ifchomachi, &:SocratisfcrmonibusclarillImumargumcinumcIicirur,antiquosadbclJicas dilciplinas comparandas cquirarionibus ufos.Quod uero medicorum gymnalhc cquitarioncs ad nmiratem rccupcrandam tuendamuc, nec non ad oprimum corpori bus habirum ingeneran^^'^"' fcdimonium fufficcre dcbeicr:qui inrcr rdiquas gymnaftr E cac exercirationcs minime infimum locum eam obrincre, cum ncdum corpus fcd etiamfcnfuscxcrcear,fcribit:ni/Iquoquc Anrvlli LoccKac. Act«j,&poftremo Auiccnnæ comprobatio acccderct, qui tam n'rrr "''opportunas cxcrcirarioncs rcpoluir.nam&GermanicumTiberij hnpcraroris ncpotcm, cumcrurum renuirate dcturparcrur, cquirationc a medicis impcrariHam curafsc mcmonæ prodidir Suctonius:ut hoc excmplo pcrfuafi cre derc debeamus, cquirarioncm ramquam utililllmam a mcdicis fcm pcr magnopcrc cxiftimaram fuifsc:quamuis et apud ipfos ualdc re.ZllZT,"^ r V"" "^l"^ "chcrcnrur, et iJlis an gradarijs, aa afturconibus,an fuccufsatarijs,an concurrcnribus:quorum omuiurn diuerfas operarioncs fuo loco explanabimus. F DeCumliruefjiatione. CIXIMVS duo cfsc cxcrcitarionum gcnera, alterum in quo homincs a fc ipfis folum moucnrur, alrcrum ab alijs, hiic, ut Anftordis morc loquar,alrcrumin quofuapte natura,a!rerum in quo alio moucnrc fcfc cxcrccntcs mo ucnrur Dc primo fupcriustradauimus, dcalrcroquod geftatir a Cocho Aurchano: &: Plinio communi nominc, ab Antyllo, Herodoto, GaIcno,aIijfqucantiquioribus mcdicis Graccis diiex » de tfie ^^•^"'^'^»^"^ "«^rl^-i ^^accrc polhc.ti fumus : atquc iam de ^^:^cq"'^^"'0"c,quamGaIcnus mixtum motum fccir,fc.-moncmex. • phcau.mus. adal.a.gitur rranfcuntibus primakfcoircrrin curribus ue^tutio,quam antiquillimam fuifsc, ncmo inficiatur.fi quidem ut 171 A vt Ar^ti uetuftiis intcrprcs tcftatur,primu5, ciui equos curribus iunxerit fuit Ericluhonius, quem ob id intcr caclirum imagincs rclatu fcribit Maniliusprimoallronomicorum. Porroforma,&: modus curruumdiucrfusexftitit.Nam Pliniusmatcriam cunibus faciundis idoncam abietem probat, rotarum ucro axibus Ilicc, fraxi num, atque vlmum . Vnde elicitur uetcrcs cx huiufccmodi lignis currus fabrica(Tc,qui prioribus illis facculis duabus tantum rotis conllruebantur.alias duas audtore Plinio addidcrunt Phrygcs. Scythas po-^^-^-cj^ ftca ct fcx rotis currus conftruxilTc mcmoriac tradidit uctuftilfimus j-^^ ^^^^ auctor Hippocratcs.quæ rotac Homeri tcporibus ftanno ornabanaqui$ et tur,at porterioribus facculis no modo rotas,fcd tota uchicula cborc ||'^*^*^ ornatafuilVe,legimusapud Plautumin Aulularia,ficuti Plmij tcpcftate tota efTeda atq. uehicula auro,ac argcnto indgnita confpicieB bantur. Varijs practercarcbuscoopcrtafuilTcucrifimilcuidctur, plcrumq. autcm pcllibus,qucmadmodum in probl. Romanis fcri-* ptum reliquit Plutarchus : licuti aliquando equis,aIiquando mulis, aliquadobobusintcrdum uirisagifolita lcgitur.Quin Hcliogabajnu^J^j^^g lum non modo uaria,3i: moftruofa animalia,(cd ctiam fbcminas nuliogab, das curribus iunxinc,ijfquc ipfura ucdum c(fc,tradunt.Hacc porro geftatio in currib. facta olim Romac inter mulicrcs in maximis delicijs habcbatunad tantumq. luxum aliquando pcri!cnif,ut cas ipfa vtifenatufconfultouctarc,coacii finr Romani. cuius rci gratia cum muliercs ira percitac inter fcfc confpirallcnr, nc qua eorum concipcrct,ncue parerct, atq. ita uiros ulcifccrcnrur, Romanos muraffc fcntcntiam,a:q. itcrum illis curribus uti permilifsc,fcrip:is mandauit Piurarchus . In quibus dcinccps nc fcdcrcnr, ncuc cquis pcr urC besuchcrentur. M. Aurclius Anroninusphi[ofophus,matronarum confulcns modcftiacdcnuo prohibuit. Ncq. minus apud gymnafti cos hæc ipfa geftatio acftimaia n pcrirur:quado,fiuc ]udos,&:facra ccrtammafpcdtcs, fiuemcdicorum librospcrfcrutcris,inomnibus ca uhrata apparcbi t.Quis quacfo nefcit nona 6c nonagclima Qlympiadc curruum ccrramcn in Olympicos ludos inucCtum. Quis igno ratSynoridas,quibusanimas nollras Platoin Phacdroclcganninmc alfimilauitjncc non bigos, quadrigasuc curruum gcncra in publicisfacrisfrequcntcrcerrafsc?quodpoftea ftudium ira apud Romanosexcultum,arqucau6tumfuir,utpauca,ucl nuUafcrcpublicafpcdacula edcrcnrur, quin curruum certaminibus honorifica præmiapropofita (pcctarcnrur . OJb quac rcfcrr Plinius in quadri^'.c.t garumcertamine,quod Larinarum fcrijsin Capirolio cclcbrabarur,pro pracmio uiftorcm abfmchium bibcrcconfucuilfc, quafi fanirafanltatem inpræmium dari ualde honorificum arhitrarenturmaD iores. An vcro gratia bellicæ difciplinæ adjpifccndæ ucaatione in curribus utercntur ueteres, nil certi affirmare audeo . Exiftima ^ pæd. tamen cum ab Homeri ætate vfque ad Xenophontis tempora, atqueetiapoftenoribusfæcuIisperduraueritmos,utinbeIlisecurribus quoq. dimicarcnt, quemadmodum in equitatione exercebatur,quofierent bcllisgcrcndisaptiores: fimiliter&incurribusfe exercerc ucteres confucuifle, ne, cum pugnandum erat, tamquam inexercitati J&: diuerforumagendi currusmodorum expertesfuperarentur. Cctcrumquod medici gymnafticifimilemuedtationem tam pro fanis conferuandis, quam pro aliquibus ægris curandisinufumrcceperint, clarillimc tcftatifunt Galenus, Antyllus, h^Yil ^^q^Auicenna : qui non modo eam inter gymnafticæ uerac exercitationes reponendam volueriinr, immo et febriciE tantibus (quod paucillimis exercitarionibusattributuminuenitur) tamquam maxime commodamcclebrarunt. huius etenim quaii vafrn^altcru,inquahomincsueai va.cii. fcdcbant.alreruinquoiaccbanr.atqueutraquchaccraroinurbe, frequcntiflime per uias, &: extra urbem pcragcbanrur. iccirco fcriIn probl.ptum eftaPIutarcho, Romanoscoaaosfuiflcin Scptimontij fefto ^o^prohibcre, ne ea die vchiculo uti liccret, ut vrbs,&: fcfti celebratio non relinqueretur. Nunquidautemfanifimul,&:ualerudinarij in ijfdemuehiculisexercerentur, indicafle mihiuidctur Herodotus apudqucmlcgirur, febricitantescurribus, qui manu ducuntur, ' ncc non bigis geftari foli tos, atque illos a pi-incipio pcr triginta fta diamoucri, deindeca conduplicare; hos a ftadijs triginta, aut quadraginta initium duccre, &: ufque ad fpatium altcro tanto P maius progrcdi confucuifle . Sanos ucro omnibus curribus, &: teais, &: apcrtis fine ullo difcrimine ufos cfsc, ucrifimile fit : etfi fortafscprincipcstcdispotius, quam dctcdis ucdtoscredere pofsumus, quadorcfcrt Dion hiftoricus, Claudium Cæfare du profpera ualctudine utcrctur,caputq. trcmulu,&: manus,ac linguatitubantes habcrct,primu olum Romanorfi vehiculo undiq. obrccto gcftatfi ef fcficuti Pliniusiunior ob oculoruinfirmitatc fc aliqn vsu illo tcfta^ tur Epiftolarum lib.7. ita kribcns ad Cornuru fuum: Pareo collcga,,clariflimc, &:infirmitatioculorum,utiubcs,confulo.Na&:huc tct\o,, uchiculo undiq. occlufus, quafi m cubiculo pcrucni . £x his igitur oibus cuiq. cognofcci-c licct,talcm cxcrcitationcm no minus ccteris gymnafticis probara fiiifs?, quippc quos, &c non aurigas moruu ommum cxhac gcftacionc contingentiufaculcares, &: conditiones probe intcUcxifrcfcribir Galcnu Je//a. Cap. X U ECTiCAM, atq. fcllam ob commoditatem potius eorum, qui vcl fcncviutc, vcl morbo impcditi ambularc pcdibus non potcrant,ucl ob dclicias, quibus fcmper homincs lluducrunt,inucntam fuilTc^t^ob aliud,non dcfunt qui opincntur: ncc forsa finc ratione;qnquidcm nuUa apparct probabilior caufla, qua indudi uctercs huiufcemodi inllrumcnta cxcogitaucrint, \ quod cquitarc,^ pcdibus ire ncqucuntcs,aliqua rcm optaueriiif, qua do mo cxirc.p vrbcs uagari>iter faccre quam commodc ualcrcnt: nifi dicamus,impcratorcs,Rcgcs,atq. Principcs nc in facicndis itineribus a folcui ucnto, pluuia tcmpcrtatc, atq. fimilibus oflcndcrcntur, lccticas,&: fcllas vndiq. obtcgi,6c rctcgi aptas inucniflc,quas alij po ^ ftcadiuitesluxus,ac uoluptatis,fiuecommoditatisgratia,&:pollremo mcdici,gymnaftacq. ad vfumhominufibiipfisconcrcdirorum traduxcrint.vtcumq. fit,conftat,quosnupcrrimc diximcdicos,atq. gvmnallas illas ad cxerccnda fiicpc ualctudinariorum,rarius fanoriim quoq. corpora vfurpafle.Scncca cnim Epilt 5 6.ita dc gcllationc loquitur. Agcftationc cum maximc ucnio non minus farigatus,q, fitatumamI>ulaflcm,quantufcdi:laborcftcniin diu fcrri,ac ncfcio, an co maior, quia contra naturam cit; quac pcdcs dcdit ut pcr eos ambularemus,ocuIos, vtp cos vidcrcmus. Dcbilitatc nobis induxe rc dclitiac&quod diu noluimus,poflc dciiuimus,mihi tamcn ncccf fariumerat concutcrccorpus,utfiuc bilisinfcdcrat faucibus difcu terctrfiuc ipfe cx aliqua cauflii fpiritus delior erat,extenuarct illum iaftatio, quam profuifsc mihi fcnfi.Quac ucro tam lcdticac,qua fcN læforma fucrit,nil itaccrtuhabcf,quin dubitarccuiuis liccat, at« lamcn vcrilimilc cft,in capulumar,&:lcdulum ftratum fuiflc,quo &: iaccrc. JL i B £ k iacere,&fcdere,&:prout Iibebar,quigeftarentur,pofIenr.anm cete D ris fucrit noftræ diflimilis, uel potius fimilis jcredo non admodum diflimilem exftiriflc^nifi quod noftras a mulis,uel equis ferc fcmpcr geftatur, illa antiquorum ut plurimum afcruis kx portabatur, atq. ob id Hexaphoros nuncupabatur, uri ex his ucr/ibus Martialis Lib.s, pcrfpicuum fit,inquibus Afrumquendainpauperem,&:iuueneiu deridet,quod Icftica gcftari uellct. Cum jis tam pauptr quam nec mijerabilis Irus, Tam iuums, qnam nec Varthenopæus erat, Tam fortis, quam nec cum uinceret Artemidorus, Quid te Cappadocum jex onus effe iuuat ? f^deris, multoque magis traduceris ^fer, Quam nudus medio ft fpatiercforo, 2{pn aliter monftratur ^tlas cum compare mulo » Quæque vehit fimilem hellua nigra Lybin, £ Jnuidiofa tibi quam fit ledica requiris ^ T^on debesferri mortuus Hexaphoro : fimilitcr &: ubi Zoilum carpit, quod lc£kicam fandapilac fiue feretro mortuorum fimilem habcrct. tlh,!, Laxior hexaphoris tua fit le^ica licebit, Cum tamen hæc tua ftt T^oile fandapila . Lib.^. Nam exhisliquido intclJigerequifq.poteft,le(flicamferefempcr rcmfulm!^qucm vlum Cappadoces Marrialis, Gcrmanos TerruIIianusadhibirosfcribunt)fiqueinterdumaliquis lcdicariorum numcrum augcre uoluifset, prorinus fuifse norarum, qucmadmodum idem Marrialis indicauir, ubi Philippum qucnda infanum uocat, quod ab odo fcruis Icdica eius ob quandam diuitiarum inanem oftcntationem pcr urbcm geftaretur, OBaphoro fanus portatur ^uite Vhilippus, F Hunc tu ft fanum credis ^uite,furis . Cumitaquclcdica antiquorum itafchaberet,nonmodoprofedc commoda, uerum ctiam conciliando fomno,dum claudebarur infcruicbar,ur luuenalis reftatur his ucrbis. Tslamque facit fomnum claufa lcHica jenejira. tamq. frequcnsillius crat ufus,ur caftra Ie£bicariorum,qui folum gc rendislcdticis, ucl criam marronis in eis dcponcndis,ac gcftandis, ur eft apud lurcconfulros mcntio, dcftinabanrur, pluribus in locis habcrcnrur,in quibus&:iuraipfisdabanrur,&: aliaincaftris ficrifolitaagcbantur,quamquamlibcrtis omnibus Icsftica perurbemge ftariuerirum crcdam, Sucronij audorirareinduilus, quiClaudiu Impcrarorcm Harpocratilibcrro ledica per urbcm uchcndi fpefta culaq. publiccedcndiius rribuiflcfcribir. ArquifcIIam duplicem fuiffc . J7$ A finffctradidit Antyllus,fiucpotiusciusintcrprcs;aItcrani,Hi qua fc^»'i-chro. cicbant,c]uac ucl coopcricbatur, ucl apcrta lincbatur,&: a nonnullis,ucluti a Coclio Aurcliano,porratoria fclla,ac fcrtorium diccbaturuilrcram in qua iaccbant.primam quoq. tcmporibus noftris uidcrc licct,cum podagrici,diuitcs, atq. alij principcs dclicijs nimis dcditiillaquotidicuchantur,quaitcm uiros magiftrarum gcrcntcs olim gcftari confucuiflc,atq. indc currulis fdlac, in qua ranrum fcdcbatur,nomcn cmanaflc arbirror:fccundam,in qua iaccbar,non habcmus^quod cgo fciam,nili dicamus lc€ 17:6 Dc Agitdtione per lcCios fenfdes, Gr* ^er cunas faCta de ^ Scimpodio Ca^. Xlh VOD agitationcm pcr ciinas, &: Icftulos pcnfilcs, quos d uos fub KhivH^ vocabulo a Græcis complexos fcntio,fo dtam inter gymnadicæ excrcitationes recenfere velim, lorfan aliquis mirabitur^cum hac tempertatc cunæ iolis pueris cblandiendis inferuiant,p aucilTimiq. finc, quibus medici pcnfiieslcftulos parari iubcant rucrumtamcn ismirari definet,{i Galenum,Hcrodotummedicum,Actium, &: Auicennamdiligentcr icgcrc placucnt : qui cum hui ufccmodi agitationcs inter alias corporumhumanorum exercitationcs adnumerarint, cur amefiIcntiopræteriridcbcant,nonuidco. Nam cunas ob pueros potius,quam adultos excogitaras fuiflenon equidcm diffitcor,fcdpu-^ to talem motioncm interdum ui ris cum ad lcnicndos dolores, tum adconciliandumfomnum non parum adiumenti pracftarepofse, Oriba lib. u t pracclarc fcriptum eft ab AntyIlo,&: Ætio, apud quos lc6tus fiil^ h^fte. cramobiliaiuxtaangularcs pedcs habensnilaliud meafemcntix fignificat,quam cuna^s ipfas,quas etiam intellcxit Cclfus,vbi dixit,(i „ ne id quidcm eft,uni lcdi pedi certe funiculus fubijcitdus eft, atq. „italea:ushuc,&:illucimpellendus.&:fi Oribafij interpresnomen jtAiF^spro Icdtica transferre maluerit, et iccirco omnes illosprorfus falli crcdo, qui in gymnaftica medicorum eas nullum ufum habere cenfear. Quibus fimilis quoq. eft exercitatio illa puerorum,duni in vlnis a nutricibus geftantur, quæ ic a medicis, &: a Platone pro ^ ipforumualetudine miruminmodum probatur. Eadempropeeft U.'2.^.ca.3. tamlcquiavulgatæ,&:omnibus manifeftæ clsent . Quætemporibus noftris cum a plerisque ignorcntur» opcr^e opcrnepretlum me fadurum fpcro, ii bi cuiicr, qujd fcnrio, in mcdium artcram . Kam ck* lcchilispcnlilibL.sqi-ev piiinum ab Afclepiadc cxcogiiatos rradit Plinius, opinor cosruiflclcctos quofdam^ ! paruosmodo c\'ligni:>,modocx acrc, modocxar^^cnro (maiorcs nollros criam argcnrcos lcrtcs babuifle A ripfir Plinius) conftruftos,qui quatuor angulis runibiisadcubitium Inqucaiiaalligaban tur,ita ui rcrra fubla'^i aliquantulum,qua{i in acrc.pcndcrc uidcrcn tur.Balncafimihtcr^f^enhlia a Scrgio Orata,tc(lc plmio^primum inlib.^.c.r^ iicnra,non quac fuprauClAtkbanr^ai^rconcamcrata l(>ca, ut uoluc runr aliqui;,lcd nuIlaa!iat"uin*ecrcdo, qiiani labra illa ucl marmorea, uclacnca>ucl Ifgnca^ad lcc>ulorum imirarioncmlaqucaribus appcnfa, quo mmimo qucliber manunm impii!fu,a!ias!enitcr,a!ias uchcmcnriusagirari ualcrcnr. quod Scnccaad LuciIIum fcribcns B nobis manifcrtauit hisvcrbis. Jjalncarum fnpcnfura inncntacft: nequid ad lautitiam dccflcr . His igirur moribus quolcumque cxcrccri mcdici praccipicbanr, huic uni porifTimiMn iludcbanr, yr morum citra Jaborcm, Jalfirudmcmic ullam aflcrrcnr: dcincepscurabanc.nciniexcrcirationc iliaiucundiras dcliderarcrur, quac profcLlomaglia in lcflulis, armaximain l.alncis rcpcricbatur, ncmpe quac pracfcr luauillimum iHum morum,aquac dclcdiaiioncm addcbanr, dum ca molliiTMic, blandaquc ntillarione quadam (ingula corporis mcmbra rangcbanr. fi namq. balnca pcnfilia eafuiflcinrclliganrur, qunc fupratcifta ficrcnr, quomodo in illis maior illa uolupras, ob quamlccundum Scnccam&: Plinium excogirata tucrunt, rcpcrircrur,quam in alij5>,non uidco . Dc pcnlili lccto dixir Hcrodorus, gcftarioncm in illo t.imdiu facicndam C cfsc, quadiu quifpiam in fclla gcitaius quadræinra Itadiorum ircr conficjcbar.alrcri ramcn ciufdcmaucttorisfcnrcnriac hbcnrius acquicfco>vidclicct huiufccmodi cxcrcirarioncm,quatacfse debcat, facile numcro dcriniri non pofsc. quod non rantum in his, fcd &: in omnibus alijs fcnrio obvarias, acdiucrfas acgroranrium affeitioncs, quibus non cadcm vJlo modo conucnirc* pofsc, oinncs vel mcdio critcr in mcdica arrc pcriri uno orc pracdicanr . Lcftulo pcnlili fimilcaliud inflrumcnrum uctcrcs habuilsc iiuicnio,quoJ QKitiTriJ^m Gracci, fcimpodmm Larini codcm vocabuloappcllarunt. huc licctnufquamappcndcrcnr, crar tamcn vcl lcdtusparuus, vcl quidinformam lccti pcnfilis conftrudum : arquc ipfopcr Yrbcs,& pcruias ram uiri quam muhcrcs gclbbantur,ur Dion hiftoricus dcmonftrar,fcribcns,primo Aug'iliu,ac Tibcrium in fcimpodijsquandoq. uchi folit05,cuiufmodimuIicrcs rcmporcfuo gcN 2 Itabanrur, 178 L 1 £ R ftabantur, fecundoquod Seuerus, dumBritanniamobirer,fcimpoD dio undiq.obtcdoferebatur. Ceterum quahshuiusinftrumcnti figura exftiterit,haud fatis conftat: putandum cft tamen fellam f uffe ita fabricatam, ut ledum plumcum paruum caperet,ita ui nxftum, utpenderc viderctur, inquofinonpenitusfaltim exaliquaparte, qui ferebantur,iacebant, &c vndique^ ne ab æris iniurijs læderentur, coopcriri poterant. hoc intcllexiffe meo iu dicio uidctur luuenalis,cum Crifpinum quendam mordcns diccbat. Sat. I. dedit crgo tribus patruis aconita, vehatur Venftlibus plumis, atque iliinc defpiciet nos ? dc eodcminterpretanda efthæc infcriptio quam mihideditAldus Manuiius Paulli dodiffimi, &: eloquetiflimi filius cruditiflimus, quamquc Parma ad Andream Naugcrium olim allatam retulit. E D. M L. ÆMILI. ViCTORI. QVI. PRI DIE. NATALEM. SVVM VICESIMVM. ET. SECVNDVM. PRVNA. I N. PENSILI POSITA. VRGENTE. FATO. SANVM. IPSE. NECAVIT. SE. L.ÆMILIVS. VICTOR. PRINCIPALIS.ET ÆLIA. VENERIA. FILIO. PIENTISSIMO E T. S 1 B 1 Mcth. neque aliud fignificauit Galcnus, quando balnea ingrediendi mo-dumhedicispracfcribens haccfcriptismandauit: ccggCfjsoOt/rccSQu-^ TioiAcci Ko^i^^ai ^iv \ial rov cmiiATroJ^o^ltsriHcchccniou, idelt, ægrotantemuolo portariin fcimpodioadbalneum. nequealiudLibanius Li.j^.c.io rhetorin librodefuaipfiusvitaintellexir, dumdixit:cLidomi fum, F in le^to iaccoivbi vero in fchola,in fcimpodio.ficut etiam idem intellexi t GcIIius,ubi fcribit, fe Frontonem Cornelium pedibus grauitcracgrum infcimpodioGræcienficubanteminuenifle. Patet itaque non modo ob delicias,atque uoluptates a maioribus noftris iedlulos, ac balneas penfilcs, nccnon fcimpodia ; uerum ctiam, &a medicis gymnafticis ad cxercenda valetudinariorum corpora vfur pata fuiflc . Quale porro fuerit inftrumentum illud machinamentu li.3.c.^.& raptorium,&: macron fparton a Coelio Aureliano uocatum,quaIii11. y.c. yJt. apud eundem rccufsabilis fera Italica nominata, quibus duobus geitabantur, nonduii) mihi plene compcrtum eft, cum a nullo alioau(5loreipforum mentionem hucufque faitaminuenerim. nifi tucrit. utfupra diximus,petauruii>, uclpotiusfic Coelij contextus deprauatus. De O^AUigiitiotiey Ti/cAtione. . NTER gcftarionisfpccics,quacplurcscxerccndis corporibus cxftitcrunt, nauigationcm quoq. rcpofuit Antyllus, quem fccurus Ærius, 6i poft cum Auiccnna manifcftccampro cxcrcirationc habitam dcmonftrat; id quod utriqucnon ramabcxpcricnriamcoiudicio dclumpfcrunr, cjuam ab antiqua diuini Hippocraris fentcntia, qui nauigationcm &: moiicrc corpus, pcrrurbarc dixir. ni(i quod Auiccnna nauiga4.Aph.i4 tioncm inrcr dcbilcs cxcrcitarioncs adnumcrauir, Hippocratcs ue ro eam corpus magnopcrc pcrturbarc afscrir, id quod potius uche menris quam rcmilli motus argumcntum vidcrur . Hac nauigationis excrcitarionc duas pracfcrtim gvmnafticas, fcd non admodum B ufasinucnio, mcdicam fcihccr,&: bclhcam . Mcdici ca utcbanrur ucl ad ahquorum fanorum habitus confcruandos, ucl ad nonnullorum acgroranrium fanirarcm comparandam, ad (anos urcbanrur nauigationc,quod(i!t ab Ariftorclc fcripnim cft) marcob placidas i partjV. afpirarioncsfalubriratcm inligncm facit,undc nauiganrcs fcmper coloratiores exliftunt,qu;im m paludibus dcgctes.Ad acgroros ucro,quoniam idcm humorcsputridos, ac nocuos rum uomitu,qucm frequentiftinxinfucris præfcrrim parir, rumucnris,ac vaponbus ficcisex/iccare narum cft.quare dicebar Auiccnna nauigarioncm 3'''^oc.i, lepræ,hydrop](i,apoplcxiac, ftomachi frigidiratibus,nec noninflarionibusciufdem magnopcrc prodcfsc. Plinius ucro&phrhifi-Jj^P cis,&:fanguincm excrcantibusadiumcnrum afTcrrc Annaci Gallio * nisportconfulatum iracurati exemplo rcfta^us cft . qu: ircmab huC iufccmodi affcclis Acgyprum peri non ob rcrram ipfam,fcd proprer nauigandi longinquirarcm ccnfuit ; utcriamcius NcposPlinius fccundus ZofJmum libcrrum fanguincm rciCLtanrcm co fc mi^ ^ ^pi^* fifse,&: confirmarum a ualerudineredijfsc narrar. quamquam audor illc nomine Plinij falfoinfcriptusin libro i.dcrc mcd. Icnfc-^-*^'^rir phrhilicis utiiius c(sc in faltibus m( rari, ubi pix nafcitur,qua in marinauigarc&cmarinaloca uifirarc. quod etiam tradirumcfta Marccllo mcdico. nam &: Galcnus ix.dc linipl.mcdic.ubi dc rcrra Samialoquirur, mcmorar, multospulmonc vlccraros Koma obid in Libyam profcclos, annis aliquot inculpatos uixifsc, poftca ucro morbum recruduifse, ubi non pari cura uuicbant . Modus in nauigationc ualcrudinarijs obfcruatus /ic ab Hcrodoro dcfcribirur, ^ .^, quod afcxagintaftadijsincipicbanr, i?cin duplum Iiorum dclincbanr.Porro luuiijationis plurcs fucrunt durcrcntiac, quando aliac Oynwtilica^ N J in iso in mari,aHæinfluminibus, aliæinmagnis-, aliac rnpaf uisnaui-a bus,aliæ remis,aliæ remulco, aliæ uento, aut uchementi,aut plain lib. de cidiorefiebant. De nauigationcperflumina traditumefta Plutar^^aufliiua» cho, cam minus naufeam producere, quam mare, quod tam odor, quam timor c maris adfpcdu proficifcenres corpora pcrturbant,arqucfic uomirumcicnt, quæ resa fluminibus minime contin^it. conrra Coclius Aurclianus in inueteratis capitis doloribus cctcris practulit longam pcr marianauigationcm> quoniam (vtipfe inquit) fluminalcs, ucl portuoliic nauigationes, ncc non ftagnorum, incongruac iudicantur, nimirum quæ caput terrcna exhalatione humcclantcsinh*igidant,maritimacuerolatenter,atq.fcnfimcorpus apcriunr,&: falfac proprictatis caufsa corpus adurunt, atq. eius habirumquadammutationercficiuat.Hicigitur fuitapud gymnafticosmcdicosnauigarionis vfus, quam paritcr bclUcacftudiofos E amplcxos fuifse diximus. quandoquidcm Naumachiac illac, quæ a Romanis in circo,uelaIiquoterræ finuprope Tibcrimmanufa&io tali cxcrcitarioni dcfignato rcpræfentabantur, fuerunt quidcm ad populum obIc(Sandum (ccundum aliquos praccipue infti^ tutac, qualcs ilhicquas ab impurilfimo Hcli ogabalo in Euripis vi £.Y vrbe ad marc huc prodimus pjbuiituyyt, procxcrcitio Gymna(lico,&: Palacftrico hoc habcmus.quactamcn pifcario cum a Plaronc improbara (ir,quod ncquc animus.neIn fopnift quc corpus in ipfa cxcrccarur, lurcmcriro cam ramquam nulli uriJcm omncs fcrc gymnaftici rcicccrunr,nili quod ^jalcnusipfam ini.itu $5. tcrcxcrcirationcs,quac limul opcrafunr,rcpofuifsc uidcrur, iicut ^P-'« et Auiccnnaingrcdicnrcm pifcaroriasnaucs dcbilircr cxcrccri ccfuir. quorum fcntcntias duabus dc caullls infinnas rcputarc debcmus,rum quia ncurcr corum cxplicatc, quid boni affcrac pifcario, Q declarauir,quali excrcirationcm huiufccmodi non admodum probarcnt > fcd communcm porius quandam fcrmonis confucrudincm fcqucrcnruri tum quia ipfcmcr Galcnus pifcatorum habitus du^ ros,arquc aridoscflc dixic.cuiusaridiratis rarionc Ariftordc pifcamcd^mL tores marinos pilis ruris pracdiros cfse anrca fcripfcrac.unde mcdi3» p^rtic ci,qui bonum habirumcorpori cxcrcirarionibusacquircrcftudit, quomodo durum, ([^aridumcfticcrcpifcarioncuclint,non uidco ; pracccrquam quod cunctac propc pi(carioncsfub(olc,&:inlocis facpe maloacrc plcnis pcraguntur, una cxrcpra maricima : ut his omnibus crcdcrc cogamur, pilcationis laborcm mcdicos parui ælhmafsc. Ncq. ramcn dcfucrunt Jnipcrarorcs,qui cxcrciratioius cuiufdamgratia inrcrdumpifcarcntur,ccu dc Cacf, Auguftofcriprum cft a^Sucronio,6«: dc Alcxandi o Scucro a Lampridio, dc (luo ira fcribitrVfus uuicadi cidcm hic fuir. piimum, i;t /i faculLis cfsc r,idc/lli cumuxorc non cubuifscr.marurinishorisin hu i'; fuo,in quo N A &:d:uos «2 et diuos pnncipes,fed optimos eledos,&: animassadiores,;m qucis et Apollonium,&:,c[uantumfcriprorfuorum temporum dicir, Chriftum,Abraham,&: Orpheum,&: huiufcemodi dcoshabcbar,ad Maiorum effigiesfacrafacicbar. Si idnonpoteratproloci qualitarc, vel vcd:abarur,vcl pifcabat,ucl deambulabat,uel uenabarur. Hæc Lampridius.Quid aurem fucrinr pifcatorij ludi,qui quotannis mcn fe iunio rrans Tyberim a prætore urbano pro pifcaroribus Tyberinis,au(5tore Fcfto,agebanrur, nonduin ira cerrus fam,ur turo affirma re queam,arhlericam gymnafticam, cuius ludos fui(se,diximus,pifcationis exercitium habuifse. De Natatione. V. AGNA,&:fereincredibilis apud ueterefuitfempernatationis exiftimario, tanrumque per plura fæcula illius vfus uiguit,utnonminus pucri narandi arrcm, quam primalirrerarum elcmenta edocerentur. quotempore cum nullamaior ignorantiæ nota inuripofset,quamdum aliquis nec lirteras,nec natare fcire diccbatur, fadum fuit,ut pofteriores il lud in prouerbium conrra bardos, &: prorfus inerres continuo recc perint, adhucq.iraloquediconfuerudopermaneat,quando naran di peritia,fi non eofdem honoresobriner,quibus anteadtisfæculis afficiebarur,falrem nec penirus neglefta, nec inurilis iacet. Ratio enim, qua impulfi maiores noftri narandi fcienriam ranti fecerunt, hæcunaiudiciomeoexftirir,quodprimis illis remporibusapud 5c£ rcfpub.quafcunq. viri fortesprac cæteris,ut fcribit Ariftoreles, ho Prob.y.& norabanrur,qua(i ab hisloIis,&ciuitatum filus,&: imperij propaga 2.Rhc.c:.4 ticpendc rer:&: ob id quifq. uel faltem maior nobilium, arq. eriam aliorumparscomparandæforrirudiniufque aprimis incunabulis incumbcbat . Quocirca,ut in naualibus quoque pugnis,quæ runc frequcnriuscommitrcbanrur,in rranfeundis uadis,ac fluminibus homincs nandi arti confiii pcricula magis euadcre pofsent,minusucformidarcnt, (quando facpcnumero milites mare ingrcdi coadi ob nandi ignoranriam fuffocabanrur, qucmadmodum exerDc Cyri cit^-^i ^yi*i cucnifsc memoriæ prodidir Xenophon ) ficq. forricres minons jntcraquarum pcricula ficrenr,natarionispcritiam exrulerunr;qua «^pc^i^ctiam rarione Komani uerercs,ut Vegerius fcribit,quos ror bclla,&: continuapericula miliraremdifciplinam docucrant,campum Mar llb.i dcrc tium Tybcri vicinum dclegcmnr,in quorum alreroarmorumexer miii.cio. citationcs inirenr,inalterofudorcm,p-uIueicmq.diIuerent, acfimul if, A mul natarepcrdifccrent >uthisrarionibus,ac VcgcrijauAoritate facilc lit iudicatu,militarcm gymuafticam nat.mdi cxcrcjtacione noncaruifse. Cctcrumpoflcnori tcmpore non modonaranoob difusrationcsufurpatarcpcntnniicrum etiamob ualctudinis con fcruarioncm,nonnullarumquc adcdionum curationcm mcdicis gy mnallicisipfiim probatam hiific Antyllus tcftatum rclic|uit. q:i". J itcmfcnfillc uidctur Galcnus inprimo ad Glauconcm,ubi Liboranribustcrtianafcbrc conccdit,utungantur,&: balncum ingrediantur, ibiq. madcfiant,&: li uclint, ctiam natcnt . Qiiod cnim natatiocxcrcitationisloco habita tucrit,practcr Oribalij ^uidoritatemdccaintcrcctcrasexcrcirationcstradantis, &:alauationc,dc: qua libro pollca dccimo fudirunc fcripiit fcparantis, ipfa qnoquc ra tio pcrfuadct, ncmpc quia in huiufccmodi morionc infignitcr uiiiB ucrfum corpus,&: mouctur,uc duobusmodisnatabant, ucl inpifcina,qLiam m frigidario luifsc /upcrius dcmonftrauimus: (tamctfipifcinasapud Varroncm,&:aIios La:inæ C linguacauvftorcspropriclocapifcibusalcndis, ^faginandis dicata fignificarc crcdatur)ucl in labris illis amplis,quac adhuc Rouiæ uifuiitur . Qu^od in pilcinis, quac in frigidario tlicrmarum acdificatæ erant,quafquc thafio lapide aliquando circundiitasfuifTc tra dit Scncca,iiatarcnt,omnium clarilfiaic ollcndit Ciccilius Plinius, Epm. 7,9^ qui in Epi(t.li.2.viilamiuam cxacliifimc dcpingcns,dc balnciscius itafcribit. indc balnci cclla frigidaria fpariofa,&: cf}afc,cuiusin contrari js parictibus duo baptiftcna ucluri cieda linuantur, abunde capacja fi innarc in proximo cogitcs, adiacct undormm, hypocauftum, adiacct propnigcum ; balnci mox duac ccliac magis clcganrcsquamfumptuofac.Scdhoc clarius explicat li.^.ubi Tufcos luos defcnbcns iiitcr ccicra hacc habet . Indc apodyrcrium balnci „ Iaxuin,(5(: hilarc cxcipit cclla frigidaria,in qua baptirtcrifi aniplum, natare Iatius,aut tcpidius udis. Ex quibusomnibusfatisapcrtum cft, tdyin gymnafijs fiue balneisueteres nare folitos,atque in higidan} D baptifterio alias pifcina uocata>de qua menrioncm kcit TertuUianus in lib.de baptifmo, et dc qua exiftimo locutum Galenum dum in y.Merhodi ficcitatcuentriculi laborantescurandiratione edoces,magis laudat lotionem in balneo fada Iv rocgHoXviJiHSg^is . ideft, inpifcinisnatando inftitutis,quam h70i\i4iKgotQm/tMig,c[[iamquam etiam pifcinaminterdum in area gymnaliorum acdiricatam credo, ut teftatur Plinius loconunccitat Ojinquopoftdidaucrbaait. In areapifcinæft:&: ante Plinium Maitialis, quili. 5. Liguhnicuiuf* dam infuUi importunitatem dcfcribcns dixit) In tht ftncjs fu^io Jonasai aurent > Vifcinam peto, non licet natare . ni uelimus Martialempotius de publica pilcinalocutum cflc,quam fuilfe RomaCjCx multis, &maximecx Regionum fragmcntofub E porticuCapitoIina intclligcrc poflUmus,vbi Vici publicac pifci* nac clara mentio habetur,de qua ita Feftus Pompeius.Pifcinæ pu blicac hodicq. nomen manet,ipfa non exftat, ad quam &: natatum, cxercitationis alioqui caulTaueniebatpopulus: unde Luciliusait, Pro obtufo ore pugilc, pifcinenfis res eft. L)e huiufccmodi pifcinis fcriptum efta Dione Maccenatemomniumprimumm urbeaquarum calidarum naratoria inftituiflc . Quod ucro in labris illis fimiliter natarcnt,ucl faltem natantium inftar mouerentur,conijcio, cQ ex magnitudinc labrorum,tum exuerbisGalcniin i. adGlauconem,quandoin tcrtianæcuratione natationemin aqua commendat:quoddc pifcinis gymnafiorum nequaquam intelligi dcbet ; tum cx Coclij Au rcliani uerbis, qui in capitis dolorc, atquc etia in p arrhriticis curandis, natationem minimc fub dio fad:am > nec non fcruentcm, atq. ctiamfrigidam probans,duo demonftrat;primum in locis claufis, &: ctiam apcrtis, qualis crat arca pifcinac, altcru ta in aqua calida,quam frigida natari folitum, unde clicio natatione feruentem folum in labris faditatam.cf fi Plinius in locis paulo ante citatis pifcinæ calidac mcntionc fccit,fub hifcc uerbis,Cohæretpifcinacalida mirificcj exqua narates mare afpiciunt,dc calcfa ^ta ui foIis,&r maritimo fituporius^quam de fcruclac>aab igne,ut intcIIigitCocIiuSjUerbafcciflc uidetur. Quac extra gymnafia,fiue priuata balnca cfficicbatur natatio, modoin fonfibus latifl]mis> modoinlacubus,modo in fluminibus, modo in ipfo mari agcbatur. dequibusfcrmoncm habens Ariftotcks,dixii,nichi?s ir mari, ' quan\influuionitari,diutiusqucibi moramrrahi,quoniam ucluti mare aquæfuæ corpulcria,cra(Tnieq. maiora>quam dulccs aquæ fLliiA fuftinct oncra,ita facilius corpora hominum cleuata tcn'cr,& confe qucntcr minusilla pcnctrarepotcft, cuin dulcesaquaco!) rcnuirale luam citius,&: lcnius illabatur . Hxrra balnca quoq. apud aliquas nationcs loci pcculiares nando confti ucbantur, et idc(. KoXvitSHd^xL uocabarur,ftcuri legirur npud loanncHuaniZcliftamdc Jcfu ('accocap/p.. dicctc,«Tflc)/t,wcTiiy icMvfcJ};I^fflw/ TQ\/ ciMixiJL K(c$ w^itijubi nacaroriam Silocanriquus intcrprcs iranlluli:. lraq.na:aLioncarccdismorbis,fanifq. corporibus cxcrccndis,&: confcruadis vfitaram fuKTciam Luis parcr: quando itc Ariftotcles fcripfit naranrcs in maii filubritcr cxi naniri . vcrumramcn illud animaducrri uolo, plcrumq. ob dclcsflationc,6i: ad ardorcs,&:liccirares rcmpcrandas,h()mincs nararc conlucuilfc,cuiU5 graria in acftarc dumraxat natan folitum luir. DcVcnatione. (ap. XF. RÆCLAR IS SIMA cxrat GaIcnifcnreria,cxomnibus corporum cxcrcitarionibuscaproculdubio vtiliffimam vidcri, quacncdum corpusfarigarc, verum criamanimam oblciflarc ualeac, 6c iccirco fapichtifIn lib. dcludo parluc pilac. iimos illos haberi dcberc, qui in ucnationc cam cxcrccndi corpora formam inucncrunt, in qua mirifico quodam modo laborcs uo* Iuprarc,quafiq. laudis cupidirarc ira rcmpcrantur, ur tacilc iudicari non podir, maior nc fit corporis, an animi motus . Acccdit huic^ quod natura ipfa, quac animalia cuncta hominis caulla produxit, ueaarioncm quafi praccipcrc, &: acccptam habcre, ut lcripfir Arii. PoJiu Q ftoteIcs,uidc'ur,quumin ipfa propriaspoflcllioncsacquircrcconc^ tur,fpcLtacuiumq. nullo fcclcrc conraminarum cxhibcatur, fcd fimul,&:corporisrobur,&:animi uigoraugcarur . Exquoncmonoa uider,quam j rudcnrcrfcccrintmcdici,(]ui pro cxcrccndiscorpo-* ribus,ijfq. ualidis,&: lanis conferuandis, ucnationc ranroperc acftimanmr,cuius nimiruftudio antiqui illi mcdicinac parcntcs Ciiiron,Machaon,PodaIirius, AcfcuIapiusufqucadeo,ficut rcfcrtXcnophon, arferunr, ut non minus in ea laboris, quam in arcibus, in qLibusualde cxccllcbant, (ibi impcndcndumquoridic purarcnr, Ncq. ucrofolam medicinac gymnalticamhuiufccmodi cxcrcirationcm,fcd bcllicam quoq. &: achlcticam rcccpifsc,proba(scq. credcndum cfti fi quidcm uel dclcvflationcm, &: gloriamAiuarum gratia arhletac Iaborabanr,ueI milirarcm pcririam,&: f(.rrirud:nc,quibuibeilicacgymnafticac cxercirarorciinuigilabant/ifpcAcmuSj^ cumu. n6 cumuhti/Iime omnes in ucnationis cxercirio reperiuntur, atqueD ineopraefertim^cf noninauibus dccipicndis, fed in terrcftribus animalibus fiiie dolo capiundis Jaboriofe uerfatur,dcquomagis noftramhanctraftarionemintelligi dcbcreuolumus. Etncfineilli .ftrii:mau£lorum teftimonijs hancfcntctiamaudad( ri.in:isproferrcuidcar,quomcdounaquacq. gymnaftica uenandi excrcitationc ufafic, iaminccptam uiaminfcqi.ensdcmonftrarc conabor. Qupdenimilla bellicacfortitudini affcqucndac maximumadiumcntum pracbcrc putarerur, locuplcf /fime teftarum fecitPIato, quipoftquam in Thaceteto^&y. dc lc^ibus /cnandi difciplinam in trcs fpccics, aquatilium fcili( et, uoIatiJ «um, Sc terieftrium animalium diftinxiflct, improbaiisaijjsduabusproiLuenumeducationc,detcrret'iuinucnatione in h le 7. dclcgibusita concludir. J^' w -mv ^TTcwuzLTcL ^cW^ \x^cr^^ci^^v(TiTc^ii^] Trdiyumq^iT^ i (piKoTTOVH 4t/ „ viv.v\ ;:^fv CtTlCCVniV jyjtpA^cn J):>6^uo/Cy (t TiXnya^c: y(t /SoXajqcwTix^^Hpi^OrpXov-ngofjOi^aiJ^ieicxA yy ^ OeioA ^^;weA^c.idcft,Solum itaque tcrreftrium ucnatio,capturaue, „ athletis noftris rcliqua cft,atque harum,quae dormientia animalia yy peculiari uocabulo nodurna uocata pcrfequitur, fcgnibus conue5, nit,nulJamq.mcrcturhiudc,ficuti ncc iIJa,quae laborum intcrmif„ fioncs habens, rctibus, &: laqueis non laboriofi animi uiftoria fera5, rum robur cujnccrc conarur.unde folam ilJam optimam eflc rclin5, quitur,in quahomincs quadrupedia equis,canibus,&:proprijscor „poribu$i]cnatur,quosomnesfuperantini,qui fortitudinisdiuinae F 5, poifcliilonem curantcs proprijs manibus currendo,fcriendo,&: iacu yy lundo ucnaiioni opci-a nauant. Ex qui bus uerbis clarc pater,quan„ tum 1-Jato in comparanda fortitudine bcllica diuina ab ipfo nuncupata, vcnationem dixcrit cxcrcitatoribusinilitaribus confcrre. quosqnomodoipfcfub dOXY^iiiV nominc comprchendat, fuperius indicauirnus. Euidentius,quam Plato,locumhunc cxpJicafleuidctur Xonophon, qui dc Cyro in eius pacdia ita fcriprum reliquit: T?^ TToXiM^-ihg Ji lv}}ca dcniY\or to; OY\pav [f^yof, bWtp icryteiv rctZrct fivn yy ;!^ rcw^rl^v n^^bf/^iJO^ € jAce^c a^ic^lw icTTtYKTiy ttoMuixZv ^tvcLf, iW/jcTicJidAnCv/.Wlw. idcft, Excrcitationisautcmbellicacgratiaeos ^ ad ucnacioiiem cduccbat, quos haec cxercere oporterc cxiftimabar,hanc ratus &:omnino bcJlicarum cxercitarionum optimam, ' &: cqucftns ucrifiimam. Quo ia loco nemo non uidct, quaiu apcrcc A apertcucnarioncm ad exercitationcm bcllicamomniiun nuximc conducerc ccnfucrit . undc poftca in lib. dc vcnarionc iuucnc.s ad capclTcndamhanc cxcrcirarioncm duabus praccipuis rationibus adhorrarur;tum cf corporibus bonam ualcrudincm comparat : tum cf cosad bellum maximcinltituit^drcnuofqucmilitcs^&cctcrisrcbus agcndis idoncos rcddit . At Arillotclcsnon tantum bcllicac iib r exercuarioniucnandi lludium conduccrc uoluit, quinimo illud ^ ipfiuspartemmanifcltaorarionefccir : ut nullaamplius dubitat io fuperfit, quin intcr cctcras nulitari gymnafticac infcruicntcs cxcrcitarionesuenatio quoquc locum obtinuilVc dicatur. Quod vcr« . nec athlctica profcflio huiufcc gcncris cxcrcitiocarucrir, vcjk-: nes in amphithcatris ab Imperatoribus facpcnumero rcpraefcnra tac,&:apud Latinosfcriptorcs miru in modum cclcbratac dcir.ouB ftrant: quac liccrab hac noftra nuilrum diucrfic fuilTcanpai canr; illius ramcn fpcciem praefcfcrcbanr, nt mpc cum bcftianj,arq. alij mortisfupplicio condcmnari co prorfus modo aducrfus fcras, vfq. ad alcerius intcritum (ur rcfcrt Suctonius)contcndc:cnr,quo vcnatores contraminus immancs bclluaspugnarc confucucnir.t . Dc medicorum gymnaftica, quod fcilicct ucnaiioncm ualerudini, Sc bono corporis habitui comparandis, tucndifq. probarc u, ncmini non conftarc arbitror, quando,practcr Xcnophonris lcnrentiam i Jctnfiu citaram, practcr Galeni aucloritaxm, qui inrer cxcrcirationes corporisfaniratiinfcruicnrcscamrcpofuit, ludoq paruac pilacin hoc ludo parfoluminfcriorcm fe':ir,quod maiori appararu indigcar,proptcrca " nec arrificibus,nec ciuilibus ncgotijs implicitis conucniat; practcr iuniorcmPlinium, quiuenationc corpus fanum confcruaflc inii-li y.cpift, ^ nuar, practcr aliorum argumcnra, unum Ra/is Arabis mcdici cruditiirunitcftimoniumfufHcercporcft, apud qucui icgirur, contigiflVin quadam pcftc, ut, dum omncs fcrc pcrircnr,foli vcnarorcs, in jo.coa. obfummam ualctudinem airiduisexcrcitationibusparram^incohimeseuafcrint.ncfilcntiopractcrcaLaccdacmonios, a quibusolim ad coenam Dionyfius Syracufanus acccptus, fc cibis appoliris dde Aari negauir. cui flarim rcfpondir coquus idco illud cucnifsc,quia nec in ucnaru,ncc in curfu laboraucrat, &: idco fiti, &:famc carcbar,quibusLaccdacmoniorum cpulac condicbantur. Itaq. mirari nullopado debcmus,fi Mithridatcm,qucm ufq. adcofanitaiis,&: uitac ftudiofum fujfsc fcimus,vcnationi ita auidc opcram dcdifse lc gimus,ut fcptcm annis, neque vrbis,ncquc ruris rcdo vfus (it . Ergo nianifeftuna cuiuis iam cfsc potcft, quantum in cxerccndis pro uaicrudinc corporibus ucnatio apud uctcrcs acftimar^i fucrit. cuius cum multac cflent fpecies, quanim aliæ rctibus, aliac laqueis, uifco,& aucupijs, aliæcarniuoris,&:rapacibusauibus,aliæcanibus, fagitfis, uel puris, vel rindis ; quas ideo Gallos uenatorcs hellebo^ roinficereconfucuiiretraditPlinius, quia circumcifo vulnere can.xy.c. y. rotencriorfcntitur : aliac armismodo in uolarilia : modoin rcrrcftrcs belluas peragebatunilias ucnationcs aptiorcs cxiftimaras arbl tror, inquibushominestampcdibuseunres, vcl currcntcs, quam equis vcdi fcras canibus, &c armis infcdabantur ; nempc quas tum corporamagisexercere,tumfenfusomncsacucrc, tummaiorcm animisuoluprarcmafrcrrcncmoncgarit . Eam enimuenarioncm, quaccumaccipitribus&afturibusaducrfusaucshifcc temporibus exercetur, an commendarint antiqui mcdici, affirmarenequco, 7.de his. quod,IicetAriftotcI.memoriacprodidcrit,incaThraciac partc» ' quæ olim Ccdropolis uocabarur, homincs focietarc accipirrum perpaludes aucupari confucuiiTc ; nihilominus gcnus illud venationis noftræ ualdc diflimilc fuiffe uidetuv; quandoquidem illi iplilignis, quacmanibustcnebant, arundines&:fruteramoucbant, undc aues ob ftrepitum cxciratas, euolaresq. accipitrcs dcfuper infecLabantur,quorummetu aucspcrculfæ terram repercbanr,ibir. quc pcrcufTæ baculis a vcnaroribus capiebanrur, &c earum parres' accipitribus diftribuebantunnoftrum ueroaccipitribus,atque aftu ribusedodtispcragirur • quodantiquos ignoraflc, et Conftantini Imperatoris actaie inuentum eflc, infinuat lulius Firmicus :_ ficutr etiam ignorarunt cam uenarionem, quac canibus arte quadam m-^ ftrudis, &: rctibus aduerfus cjualeas,pcrdices, &. faiianos cxercctur. Sed dchisfatis. Exflicit Liher Tertinj* .0 m H?9 "De ratione agendorum ^ ^ dc exercitatiom ryS. Cap. L VM gymnafticæ origincm^ciufque fnccics» &: fpccicrum(ut (ic dicam) fpccics ab antiquis traditas,ac inufu habiras,iam clara,quantum conccditur, cfTcccrimus, ad pcrficiendum tradationis noltrac inftituru rclinquitur, prius U!iiucifa!cs,communcsuc cxcrcitarionumomniumrcgulas tradcre,quarum dudlunon modo li '•gula cognofccrcs Ycrumctiam vti unufquifq. pofTit : dcinceps ad parr\-n!.:ria,&: magis propria rranfcudum c rir,ur in llngulis cxcr citationibus,quid boni>&:quid malirclkicat, flicilitcr pcrnofccrc, &: cogp.itum partim amplcdijpartim cflligcrc valcamus.luiflct profcctoinanispropcIabor,acuanum ftudium cxcrcitarioncs vfquc adcoapud vetcrcs cclcbraras pcriicftigaflc-,niiictiarautiliratcs,&: commv>da,quori:m gratia totam gymnalticam,&: c6didcrunt,&: in quotidianuaimcdicorumufumcduxcrunt,pcrfpc^ta,&:cIarahabe rcnt iIli,qiiibushaccnoftralcvttirarc,ijsquc ad faniMtis profcCtum non ofciranrcr uti placucrit.Arq. in hoc idc ) magis inihi clabciran dum efle cenfco,quoniam Galcnus Hippocratis arque Plaronis pla ^ citafccutus^in omnibusquidcm artibus,lcd pracfcrrim in mcdicina, uniuerfalcsmcrhodos parurn iuuarc clamar,nifi particulanum tractationcs,ac indiuiduorum fpcculationcs accelTcrint, quibus rii r€s communi mcrhodo inucntac ccrrius contirmcntur, tum carum fimilitudincsac diflimilifudincs,unde omnis iiumana deccptio,ut in Phacdrofcripfir Plato,principiumfumir,probc difccrnantur . Hanc igitur ab anriquis philofophis, atquc mcdicislaudatam uiam incedcntcs,tractandorumomnium ab iplius cxcrcitationis narura initium capicinusrquam cum dcfinicnmus morum qucndam corpo ris clfc, atquc omncnrmotum ncccllai io diffcrcntiac nonnullac fcquantur,nimirum vchcmcntia,rcmiflio,ccIcritas,tarditas,&: limilia: &: proptcrca in quouis motus localis gcnrrc corpus quod moucndum cft,Iocus ubi moucri dcbcf,tcmpus in quo moncarur,ac iplius morus mcnfura,atquc modus cx nccclHtatc rcquirantur, confutaris corum,quidccxcrcitarionibu5 maIcfcnfcrunt,opinionibus,primo diffcrcntias illas excrcitatione confequentcs dcclarabimusrfecunD do,quæ fint corpora excrcitationibus apta,& quac inepta, dcmonftrabimuiittc rtio, qualis efle dcbcat locus,ubi jJli excrcitationibus operam nauare dcbent, qui uel confirmandac, vel conferuandæ ualetu dmi ftudent: quarto, quodnam tcmpus cxercendis corporibus opportunum habeatur; ficuti namque corpora omnia non omnem excrcitationisfpccicmpcrferunt, ita fimiliter non quiuislocus,nec quodlibct tcinpus cuicunquc aptanrur.Sed,quia jmpcrfedahæctraaatiorcmancrct,nifimcnfuracxercitationispracfcribcretur,ideo qujnfto fubiungam,quantum cxcrcendum fit.Addam &: fexto modum,quo exercitatio adiri debeaf,atque fic ad particularium cxcrcitationum qualitates examinandas dcfcendcns nihil relinqucre conabor,q^ in hac materia iurc dcfiderari qucat,&quod l ædieca. ab Hippocrate,fiue Polybo pro laboribus,aut cxcrcitationibus tra E dandis cognitu necellarium pofitum fucrit. Scd hoc antequam aggrediar,illud prius hoc in loco præfandum efTc, iudico, ea omnia, quæ in hoc quarto volumine tradituri fumus,tati in vniucrfo exercitationum negotio mojnenti cxfiftercut, ijs uel ignoratis, vel negledis, excrcitationesdetrimcntapotius,quamcommoditatcsuIlasinferant.-innumeræquandoquidemcxcrcitationes, utpræcla1. J tu.va. re fcriptum eft a Galeno opportune ac prudentcr adminiftratæ,er ^ liSo. ^^^^^ naturæ in corporis tcmperie fadtos, tum hominum in ui&mac.ruc! procuIdubioefsentilli, quinatura corporis imbccillimi funt, qui cum ab exercitationibus utilitarcmcapiant, ceterosquofcumqucabijfdemiuuari, &:iccircoillis uti dcbere confequens cft.His crgo rationibus pcrfuaii cundispaffimhominibusantecibumfaltem iniungendas excrcitationes ef'fe prædicabant: fed&ipfiapcrtiirime hallucinati deprehenduntur, Qiioniam cumhominumnaturæ,&:conditioncsufqueadeo pcl^«^lHicrlac fint,ut neminem inucnire (fiturfcripfic Galenus) alteri fiE milem prorfus liceat, fintque quibus medicamcnta noceant, quib. 5^. Epid. profint,quosimmodicuscoitus,fiucAc illos,qui hoc alfcucrarunt,toto caclo abcrrafsc^quamuiscxcrcitarioncm commu nitcr acccpram, prourquaflibct ucl minimas corporis agitariones compIcdirur,ncmini fano ncgari pofsc farcamur, quando nihil fanitati tam hominum,quam brurorum acqucperniciofum, &:lcrale, ^ im:cniri:r, arqcc cuiufli iK-r motus cclsario, confumatumue orium, quibusnon tanrumuniucrius corporis habitus mfignircr rcfrigcra tur,calor natiuus hcberatur,humiditatcsfupcruacuæcrcfcunt,mo Icftusquc quidamomnium uirium torpor connurritur,ucrumcria, lib.dcdb. utdiccbat (;alcnus,cunctamcmbratcnuia,dcbilia,atquef1accida ^cuadunr,& fubindc nonrarocxiriaIcsmorbinafcuntur,qui,abhui"'^c-cau, moribus frigidis plcrumq. origincm duccntcs,ucl ad mortcm, ucl ndpcrpctuamualctudinis offenlioncmpcrducunr. N 4 K^' a.Aph. T^darguu7itur^qui ajfueto Jolum exerceri uolebant. Caf. III ESTAT falfa eorum opinio condcmnanda, qui affuetos folum cxcrceri debcre,inafluctos minimc cxcrcendosefrc iudicabanr. quorum fcnrentiatametfifpecicm ucrirarisquandam præfeferat, cercrisque duabus iure anrcponi mercarur,haud tamen prorfuscrrorcuacar,dum alTuerudini nimium rribucre, quafique fupra narurac condicioncs illam ftatucrc uidcrur. Ccrerum ne honimplacitainiuftcrcfcllerc crcdamur, &rariones, quibusadducliin eam fcntentiam iucrunt,&:crrata,quæ commife runtjin medium proponcmus,vt vcritas facilius cluccre acquo iudi ci pofl^t.Iftiitaq. cum legiffcntapud mcdicoium principcmHippo cratcm,eos,qui confuctifuntfolitos Iaboresfcrrc,etfifucrintimbccilles, et fencs non confuetis, fortibus, &c iuucnibus facilius ferre ; quacq. cxlongo rcmporc confuerafunt,erfidctcriorafinr,inafluetis minus incommodare,affeueranrer pronunriarunt, ncminem iaaf fuctum cxcrcirationibus,&: laboribus committi dcbcrc,aIioqui ma ximopcre offcndi^fcd dumtaxat aflueros, ncmpc quos partcs cxcrci tatas robuftiores habere,& proptcrea laboribus finc damno refiftere experientia demonftrat. addcbant his rationcs, primo quod omnes illi,qui cuilibetrci infucfcunt, raagna ex partenaturæfuæcouenientem confuerudincm deligunr;quoniam lædentia expcrri, il la rcpudianr,&: iuuantibus adhacrcnr.unde excrcitationibus vafl^iic ti in illis tamqua fibi familiaribus confcruari debennqui ucro quie fccndi confuctudincm contraxcrunr,ab illanullopadofunrremouendi,quafi tales expcrri fint ab cxcrcirationibus fc ipfos ofrcndi,&: aquierc utilitarcm capcrc.Sccundo,quodiuxtaphiIofophorum,&: mcdicorum placitaconfuerudo in naruram rranfit, &:iccirconon fccusconfuerudincm pcrmuranrcsobIacduntur,atquciIIi, quinaturam pcrucrterc, &: aducrfus illius impctus obrcnderc conantur . Tcrrio quod fi confucti quicfccrc longo rcmporc fani ira uixerunt, ucrifimilefir,in eadem quictc rcliquum uitæ curfum ipfos fanospe ra£luros;exaducrfo ucrendum cflc, nc ijdcm ægritudines diucrfas incurrant; fiquidcm pcrmutantes in contrarium uiucndi rationem, &c alia ipfi confcquentia in contrarium ftarum pcrmurari, nccefTarium vid etur . Huiufcemodi crgo rationibus indudi, ifti conftantcr affirmarunt, confuctudincm non debcrc murari, &: ideo folitos cxcrceri cxcrccndos cflc, &:foIitos quiefcerc in quiete permancre dcbcrc. Scd,urdixi, liccthiinifuisculpantiam fcntcntlanifcciiti fmr,att.uncnncqiicipricrroril)us carucrunt,c]uia Hippocratcsin i-Apluytf omnibus ad inallucta tranfcunduin cllc iudicauir,nc quando ad illa dcfccndcrc coaocratiscitataaudtoritasineofcnfuaccipi dcbcr,ut uolucrit,qucmad^ modum&:nos,vclimus,nolimus,aircntiii cogimur,afluetainfolitis minusturbarc, ncquc proptcrhoc interdixcrit, quin ad infolita quandoquctranfcundurnfir,6jpracfcrtim cumafsucta ualdcpraua funt,&: inafsuera mulro mcliora.Piinlacitaquc raiioni rcfpondc mus,a{TumptumfaIfumcfscuniucrfahtcrintclIcdum, quoi;iamlicuti multi coniuctudincm naturac corum conucnicnrcm induunr, ita quamplurcs ucl dulccdinc allcdi, ucl ncghgcntia, aut alijs detcnti ftudijs,ucl prac nimia ftupiditatc fcfc lacdi non fcnticntcs,iii malis confuctudinibus, &c naturac ipforum inimicis pcrfflunt; qucmadmodumfaciuntquicfcendo, &:afsuctJ,6d dcdiri,qui quictisuoluptarc dclibuti non fcnticntcs ofrcniioncm cialfucucrunt ; non aurcm quod cam tamquam fibiipfisconucnicnrcm clcgcrinr, nimirum quam iam antc hominibus cundis inimicam probauimus. Adfccundamucrorationcm dicinius, narurainprofcdo,& confuefucrudjncm parum diflcrrc ;haudtimcn fcqui cx hoc,quod numquamconfuctudo mutari dcbcat: quandoquidem fi mcdici naturas prauas, idcll naturalcs intcinpcrics cincndarc, in mcliusq. permurare omni aite contcndunr,ur faniratcm,&: habitum bonum Q corpori ingenercnr,cur itcm pclfimac confuctudincs ab illis in honclliorcs, &: falubriorcs pcrmu tari ncqucant, i gnoro ; co pracfcrtimquodfacilius cxfuuntur,quac confuctudinc fucrunt conrra£ta,quaraquac aprincipio orcus anatura tradita. acccdit huc, quod otiandi confuctudo pcrniciofa cll, quia ( vr diccbat CcHus ) I ib. r. poteftincidcrc laboris ncccflitas. Tcrriacpracrcrca larioni oppo^^i' ^ nimuseos,qui inprauisconfucrudinibus pcriiftunr,tamctliob iu.cunditatem non aducrrant,pcrturbari, ur mnucrc uoluit Hippocra tcs,dum haudquaquam inalsucta dctcriora non rurbarc, fcd minus tiirbarc dixir ;ncqucproprcr hoc Iaudari,45^probari dcbcrc,quod multo tcmporein fimihbus confuctudinibus uitamfanam traduxc rint : quoniam ficnti diccbat Galcnus,illi,qui cibis mali lucci uicb* tant,longo tcmporc maligniratcm intus alcntcs,tandcm qualibet uel minima occafionc pcflimos morbos incurrunr, fimiiitcr iquoquc in pcirimis confuctudinibus pcrfcucrantcs facpcnumero .dealini. mtus 2CO intusmaloshabitnsconcipiunt, quos pcraliquod teinpusnonpercipiunr,quoufqiic humores praui orionuiriti, &fupra niodumaudi incurabilcs^&molcfblfimas acgrirudincsinducunt. Qiiarnobr^ claborandumclt,uniucrfJsfiinam uitam optantibus,utmalacconfuerudiniinnutritiminimcfe uoluprare, atque damni ignoranria decipi linant,immoquamprimum ab earecedcrc, paullatim tamc, et ut dixit Hippocratcs iKTr^odxyooyHt ftudeanr,illud procompcrto habentespotiuscumaliqua molellia pcrmurandas cfse pcrniciofa^ confuctudincs,quaminiIliscum delcftationc pcrfiftendunK Atque hæc pro male de Cikcrcitarionibus fentientium refutationc diifcafufficiant. Tcmpus modo cft, qude corporæxercitationibus accommodentur,quod tcmpus,&vjUilocus, dcmonftrare: fcd antcquam hoc aggre Jiamur,diffcrentias,ut fupra promifimus, ipfiusquc tradatioiiis ordo expoftulat, cxercitationum breuitcrpcrcurremus. exercitationHm differentijs. Ca^.V. ViCVMQVE cxantiquis excrcitationum facultatem fpecul ari)&: fcriptis tradere aggrclfi fuerfir,tres primarias illarum diffcrentias effcccrunt^ quarum aliamTraf«(rxw/«si;cflV;j4//xf/poft ^/TxJ^ mærores infcruiebat; &c proindc hic motus a Galeno cxtrcma fO| A cxcrcicatlonis pMrs nominatus rcpericnr, quoniam fcrc fempcr po;l magnascxcrcitaciones.ncad concrariamquictcm illico tran(gredcr"cntur,ipfamadhibcbant,ucporc qui ol) carditatcm,6^ trcqucntcm intcrpolitamquictcm mcdium inrcr cxcrcirationcm validam, ^ &: conlummatam quictcm tcncrcr. Porro cxcrcitatio limplcx apud ^;i.cVp"g. inedicosgvmnaflas multasdiricrcntiashabui(fclcgirur,alias ab cxtrinfecis,aliasab vtcndi rationibus,aliasa motusipfiiistum quanritaicrum qualicatibus dcfumptas: quac ab cxtrinfccis accipicbaa tur,plcrumqucalocononicn f^rticbaiKLr, quando uc! lubdio,. vel (ttb tccto, ucl in mixta umbra, quam CTroavi^iiyn Gracci uocant, cxercitatio pcragebatur : itcm quando aut locus crac calcns» ^^utfrigidus, aut^mcdia tempcric, &: practcrca auc planc ficcus^ aut humidus, auc mcdio modo atcempcracus . Diifcrcntiac ab B uccndiracionibusacccptac huiufccmodi cxllitcnint,quoniam aut continuus erat motus, aut inrermiflus.ct li concinuus, æqualis, ucl inæqualis;fin intcrmifsus,aucccrroordine,aut cirra ordincm,prac^ terea vcl linc puluere ficbat, ucl cum pulucrc, acquc co alias mullo, alias modicoi finuliccr agcbatur ucl linc olco, ucl cum ulco, atqueipfoaliasexiguo, aliasmulto. Quac autcm ab ipliusmotus quantitacibus acccptac inucniunrur dirtcrcntiac, talcs func, quod cxerciracioncsucl mulco ccmporcdurabanr, 6c multac diccbantur,vclbreui, mcdiocri, arqucpaucæ, &: mcdiocrcs uocabantur. Diffcrentiac amocus quancicatibusdcfumpcacillacquoque fueruncquacauimorricc accipiebancur: nam li uismagnacrat, magnacxercicacioilin parua,parua ; lin mcdiocris,mcdiocrisappellabatur. Porro a qualicacibus ica dirtcrctias a Galcno captas in^ g"^" r ucnio, quod aut in breui tcmporc mulcum fpatij mcticbatur cxcr«p.io . cicacione, liuc brcuc (parium lacpiusinmodicoccmporctcrcba^ tur,atquehæc cxcrcitaciocclcr,acuta, &: vcIoxnuncupab:uur, qualis curfus,umbrarilis pus:na,achrochiri(mus, lufus paruac pihc, fi^coryci^kicTAt^fi^uk^-BrrrvA/^w^, &:quacin paladkis ai^tirabancur humi rircumuoiucarioncs i auc multum tcmporis in brcui fpatio infumebatur, tardaque &:lcnta cxcrdcatio talis motus nominabatur, ut lcnta ambulatio, ucdatio in Icctica; aut in mcdiocri tcmporc mcdiocrc fpatium, iiuc brcuc plurics moucndo pcragcbatur, licqucmcdiocriscxcrcitacio cuadcbacrprætcreamagnai-umalia præccr uim, cclcricatcm quoq. adncxam ^QVQh:ixUc2 racelerirer agirari; al/a fine velocirate fiebar, et Ivr^,;^,,!> idcltva!cnsexeraratiouocabatur,ficurfodere,peraccliuiaanibu. lare.quatuor equos habenis llmul coercere, funem manibus apprcheniam fcanderc,haIteres,omnefque Milonis exercirationes.quod emm uchcmens,& ualens cxercitatio communi nomine magna diaph/"^-^ mtclligcrc liccr, quæ Galcnus fcxto popularium morborumlcnptarciiquir, vbiinter cnumcraras exercitariones, &: equirationem magnam uocauir . Similitcr Sc paruarum alia cum ahquauelociratchcbar, &:rcmifni,fiucixA«T«f /ocabarur, alia fineullacelcritatc, 6c «V/^(lf,'iue Ianguida,aur imbecillis dicebatur,cxquibusduobiisgcneribus eranr uec curam habcndam cllc iuGcrunt, ut quod morbofum corpus, quæxerciratIonc, &:qua quiete indigeat,ne ullasperturbaD tiones,motioncsq. fuftinear, optime pernokatur. Quocirca fccundum iftos corpora, quæ immodica intempcrie calida Iaborant,nuI lisuehemcnribus,rcmiirisue exercitationibus accommodantur, quod calor, qui diminui debet, ab jllis potius augmentum fufciLp^iu^' pit, quemadmodum Galen.de Primigene fumma caliditate laborante narrat, qui ncdum,a uchcmentioribus cxcrcitationibus, immo,& ab exiguis dcambulationibus in porticu ante balneum fadis magnopcrclædcbatur. undc mcrito condcmnandus eft AfclepiaLK2.C.14. des Pruficnhs,quiin ardcntibus fcbribus;refcrcnte Ccl/o;gcftationibus utcbatur, in alijs uero fcbribus, &c raorbis mcdicamcuta, ac uomitioncs tollcns, inedia, fiti, uigilia, luce primis dicbus ægrotantcs inftar tortoris, cxcruciabar,alijs autcm diebus ambulationibus,geftationibus,baIneis,Ica:ulisquepenfilibuscxercebat. Inhis E ctenim Galeni, &: Antylli fcntentia cxftat, acuta fcbrc laborantes ab omni motu rcmoucndos,in longisfcbribus,atquemorbis(quos omncs nonnulli ex antiquis mcdicis aliptarum officio tranfmittenIn prooc. dos, ut rcfcrt Coclius Aurclianus, falfo credidci unt ) ubi acccfno lib^hron. urget,nullo paifto cxerccndos, at in interuallis decubitum non • fcmpcr confcrrc,imino aliquando utilcs cHe inotiones,exercitationcsciue ; quod innuifle Hippocratcm arbirror, dum in feptimo cpidemiorum diccbat,aliquos inueniri infirmos,qui nepenitus torpeant, a lcfto expellendi funt. quod item innuere uoluit AriftotcCi.i6. leslibromoraliumNicomachiorumdecimo,ubi fcripfit febricitantibus in uniucrfum diætam,atque inediam confcrre, ahcui tamcn forte non ita conducere. Qui præterea corpus aridum,ac infignitercxficcatumhabent, ficxerccantur, aridioreseuadunt, &: F ideo illis quics apprime congruit, quam humcvflandi uim pofndeLoc. cltat. rc ncino ignorat,quamquc Hippocrates dum cahdis naturis conue nircfcribit, necimmodicccalidas imtemperiesintclligit,necjau(ao j c GaIeno;quamlibct motus,fed uehementioris tantum ceffatione, ficuti nos hic deficcis corporibus intelligimus,quæ geftationibus, &c ueCtationibus aliquibus, atno magnis motibuscxcrceri poffunt, dummodo uires permittant,cxcrcitationesq. modcratæfint; alioqui ficur ex modcrato motu calor cxfurgit,cxcitaturq.,nec non huinorcspaularim cuancfcutiparitcr eximmodico calorinfirmus exftinguitiir,humiditatcsq. magis diffunduntur . Corporaitcm calida, &:ficcaimmoderatc nullis exercitationibus aptanrur,minus quoquc caIida,&:humida,ncmpcquægrauiori quam cctcra morbo fubi jciantur,maioriq. curaopus habcant,Frigida porro,fimulq. ficca corpora ucl nullis cxcrcitationfbus, ucl minimls, Sc naldc rc^ miiTis cxcrccri clcbcnt»cum fcmpcr practcr morbi pcculiarcm affli-, €lioncmimbccillcsuircshabcanr,ExcrcirationibiTs non iraofrcnduntur corpora H igida, licutj ncq* himiiila. At frigida&:humida aliorum omnium maximc cxercitarioncs fuftincnr; quod morus cx liccando, 6c calcfacicndo ucluri quoddam rcmcdium /ir,modo tamcn non cxrra modum adhibcatur. Arquc hacc omnia diCta inrclliganrur dc illisacgroris dunra\ar,qui uniucrfum corpiis imrcmpc^ ratumhabcnr,quoniamfiqui$infolacorporis partc mcmbrouc, autinplunbusintcmpcriem patiatur,rcpcririq. pojrumodus, qua parrcs fanac citra acgrarum offcnlionem cxcrccanrur,procu]dubio huicacgrotoexcrcitariomagis. accommodatacririquippcquac fa narum parrium habitum bonum confirmans, infiriuis criam confcB qucnria quadam auxilium pracftct.ColJjgcnrcs igitur dici nuis,nul lum corpus intcinpcrie quauis laborans magna,(5c uchcmcnti excr cirationcgaudcr.cjfcdahq(f rcpcriri,cui cxcrcirationcs cxiguac, et ualdc modcrarac auxilium arierant inrcrdum. qualcs ucro cxcrcitariones linrillac, &: qualibus in morbis,arquc corporibus unaquacque congruat,in fcqucnribus libris dcclarabjmus,ubi parncu larcs fingulaxium excrcirationum faculcarcs ubcrius cnarrabimus.. Dcmorbolisobmalam formationcm corporibus fimili propcuia) dcrcrminari dcbet,modo illi nona gcntrarionisprincipjjs,lcd nu-> per,&: cafu(ut ira dicam)ortum duxcrinr . Hacc ctenim fiuc totam corporisfiguram deprauatam.ut in lcucQphlcgmaria,fiuc parrcm aliquam.deformaram habcanr, niii aHTcdus alij impcdicnrcs aflb^ cientur, ab excrcirarionibns utiluarcm. capmnr, ncnipc quac&: ^ contrjrra dirigcrc,&:a(peralenirc,OS&: toto corporc, et cruribus extcnuaD fn ^.obid. tos curafle, gloriatur GalenuSy Ccutitem Germanicum, a tenuitacom.j. iQ crurum^equitarionis bencficio,liberatumaIias diximus . CorpoSecudodc raiubinde, amorhoin numero corrcpta> fmc isfuperfluus, fiue iTtu vf fit, excrcitationes cx fe rainime recufant, et tunc præfer""tim,.quandofimilismorbushaud eft innatus,ueluti inlapilhsrenum, quiexuehementi motu^concuffioneque ab anguftisrcnum tiijs ad latiores, tandemq.ad ipfam ueficam defcendentesmagnas ægrotis moleftias adimunt. Corpora uero ægritudine in fitu laba fantia,modo nou ab ortu, nullum fereexercitationis genusadmittunt, quod membra dum proprium locum, atque fitum amiferunt» non modo rcponendafuntin propria fede, uerumetiampoftquani repofitafuerunt,tandiu ab omni motus gencre arcenda, quoad optimeconfirmata priftinum habitum repararinr, alioqui fimo*J ueremur, maiori nocumento: afficerentur. quo fit, ut hac infirmitate captimajoriex parte exercitari non debeant. Atque hæcde lecundo morborum genere,mala formatione fcilicet laborantibus corporibus divflafufiiciant. Remanent corpora tertio.genere morborumcontinuatisuidelicet folutione correpta,quæ folutiouel in cute,uel ia carne, uel in oflibus, uel iiineruis,ac huiufcegeneris fimihbuscontingere folet, atque modo>lbla,modofebribusaflociata i ubi corpusaliquam exhis folutionemfebri alTociatahabet, nulIomodoexerceridebet,quandoquidem, firaro febricitanti* busexercitationesconueniunt, quantominus coauenieru:,abi alijsmorbis turbabuntur? Qiipdfi citra fcbrem fola: contiauifo-, lutio adfit,eaq Jit iaparte nobiU,atqueuitæ maximencceflaria, ue p luti cerebro,uentriculo, iecore, acfimihhus,proculduhiæxerci~ tationcsquæuis maximeaocent,nempequæ,&:fpirituspartiafreftæ necefl-arios. ualde diftrahaat, &: humoresomncs tuncagiteat, quando firmos,&:quictoscfle conucniret,neob eorum atHuxuni morbus magisincrudefceretj^liamcmbraigaobiliorafipatiantur coatiauitatis diuifionem,poteruntægri mediofcriterexerceri,.modo ncc infignis lit affeftus,nec pars laborans excrceatur.. Suntnonnullihac acgritudinc capti, qui noaparnamutilitatemamoderatis, immoderatisque exercitatiombus pcrcipiunt^quales fcabioh,, quorumcutiscumabhumoribusfaIfis,&:acutisdi{ciadatur,ex ma tuuehemeati efficitur, ut humores illi tam per fudorcm, quaav pcroccuJtam tranfpirationem euacueatur,atque ipfiscuacuatisa morbo libereatur. (^amobrcmacri iudicio diligeatique aaimadijcrfioneiahisomnibusopuseftjquo optime cogaofcatur iaqtiibus morbofis corporibus congrua!KCxercirationcs,& in quibus mi nus lubita fempcr prac oculis uniuerfali hac rarionccuiusduvftu rarillimc contingunr errata, pofsuntquc parricularia ira dirigi, ut numquamlocoauxiliorumdamnafuccedant> n^cc9r^orihHtUAlctuMndrtjS^(^/enihhus€xerc€nclis^ C^p. IIX. \' AMV IS apudmcdicos(urfiipradiximus)inrcrcorpora acgra,arqiic fana rcponanrur ncutra, iilaq. in mul tiplicrsdiflcrcntias parriantur, quia ramcnparumad noftram rradationcm pcrtincnr, corum loco ualerudinaria Itatucmus, cum quibus comprchcndi uoliimus tum omncs ilB los^qui rcccnrcr amorbis,ac dccubitu cuafcrunr^ncc dumpcrfctfle antiquumhabirum recupcrarunr; tum fencs plerolquc, ncmpe quos Galcnuscodcm modo,quo ualerudinarios, curari dcbcrc Jctue. pracccpir; nec abfquc rarionc,fiquidem fenc(flus,auLtorc Ariftotc"nirieme lc,eft quidamnaturalis morbus. undc.qui funt acratc graucs, cam c. uk. viucndi rationcm fuftinere nequcunt,quam fani pcrfcrunt. E^^-ncr' goualctudinarijsillis,qui moxa morbiscuafcrunr> intcr cctcra rccap.4. iwedia pro intcgra ualcrudinc ipfis accomodara praccipua cft corporis cxcrciratio,aquamcmbræorumlninanrur, humorumrcliquiac inaniunrur, calor cxciratur, et dcnique torus corporis habilus reftituirur . Elt ramcn omnc ftudium adhibendum, ut a principio lcncs, brcues, tardi, ac remilfi morus cxfjftant, dcinccps, prout uircs magisinualcicunr>fimilitcr,&:magnirudo, ac longirudocxcr Ccitationisaugcacur,randcmque inmcnrcillud XKTrgo^Ttty^yi^ ranropere abHippocrarc dccanrarum fcmpcr habcndLui crit,ncob imporrunumabcxrremo, ad cxtrcmum rranfitum maiora crrata eommirtantur, &: prouirium rcftirurionc imbecillitasmaior,fiuC profh-ario fucccdar. proindc mcrirodamnandusucnit Aucrrocs,^.coiied. qui morbofa corpora quoridic cxcrccnda cfsc ufquc ad fudoris ^^P'^inirium,arquc anhclitusclcuationcm nimis libcrc confuluit: ita tnimuchcmcns cxcrcitatio tantumabdU ut ualctudinarijs, fiuc morbofis (qucmadmodum ipfc uocar) ullum clTatu dignum bencficium pracftct, utpotiusuircsadhuc dcbilcsmagisconftcrnet, caloremquc natiuumcxmorbo uixrcuiurfccntcm fcrcexftinguar, aut faltcm infignitcrhcbcrcr ; /iqiiidcm bonuscftin conualciccniibus,fcd cxiguus ( ut fcribit dalcnus) ianguis^atquc unacum ipInartc io fpiritus uitaliSjCii: animalis ; ipfac ucro particuiac folidac ficcio' P 2 rcs, aio^ resj&confcquentcr corumuiresfunt imbec^iHiores, atque earumD dcm rationc corpus vniucrfum frigidius. unde ad cmendandam huiufccmodi indifpofitioncm neceflaria funt quæcumque probumatquefccurumexhibent alimentumi &c præter hæc moderatimotus,qualcsvehicula, amibulationeslenes ; non uchcmentes raotus,qui ficuii folidaspartes arcfa^ftasficcioresreddunt, ita calorcm diminuunt, &:liircs imbccillas confufnurit. Cetcrum fcncs, quorumactasplurimamob caloris dcfcdum,cxcrcmentorumcopiam coaccruat,cxcrcitationibus magnopcfc gaudent,'tumad exf urganda huiufcemodi rccrcmcnta, tum ctiam ad confcruandum, atq.plAcidi cuiufdam ucnti inftar cxcitandum,acccdendumuecaloirem^ qui fccusnimio torporeexftinguipericlitarctur . Attamefl, in præfcribcdis fcnum exercitationibus quatuor animaducrti debcnt, uircs, corporisafTedlus, confucrudo, &:iiitia particularia, E quacplcrumquefenumcorpora infeftare folent. ratione uiriura^ quas fcncs fcmpcr imbecilliorcs habent, acutas cxcrcitationcsjuec n^.v.hcmcntes, &: mukas, quæ corpus ftccant, extenuant, &: infirmant,,itu itmaximoperccaucredebent/equi veromitiores,quaIesfuntgcfta;.^.^':,^!trojac intralairitudineminambulatio.Prodicusenim qui ualetudi-' utlicx^S nis ftudiolidimus^exftitit, &:ob id ( Ariftoteleau»5iore ) ea omniai quibuscctcri cum voluptateutunturirecufauit.,iamingraucfccntcactatc(ut rcfert PlatoinPhædro)Athenisad Megaræmoenia ibat, indeque domum reuertcbamr . quæ excrcitajtionis menfura. haudquaquam.ommbus fenibus accommodari polTct, cum Plato ipfc cum,&:fibi,&:alijs nimio oiercendi ftudiomolcftiampeperide dicat. Antiochusparitermcdicus^annosnatusplufquamoiioginta, quotidie fcrc, ut fcribit Galenus, domoad forum ftadiorum F trium fpatio, atque intcrim ad uifendos acgrotos pedibusambulare folcbat.quod fi ci longius ire neceffe crat,fclla,aut uehiculo utebatur. Ad hacc narrat Plinius fecundus, Spurinam urrum in uiuen.MUr. do maximeprouidum, quique,aurium, &:oculorum uigore integro,nccnonagili ac viuido corporc,feptuagdimurafeptimumannuniattigitjhanc regulam conftantiflimcfcruaffe, utmane ledulo continerctur, hora fecuda inducrctur, ambularerque millia paffuum tria, mox lcgcret, ucl colloqueretur, dcinde confideret, tum uchiculum adfcendcrct,pera£bifq. itafeptem millibuspalfuumiterumambularetmille, iterumrcfideret, uclfccubiculo, autftylo rcddcret ; ubi hora balinei nunciata foret, quæ erat liyeme nona, j)it ni æftate odaua, in Solc, fi caruiflet ucnto, ambularet nudus, deinde pi la mouerctur^uchemcntcrA diu poft modumlotus accumberer, Jii A&paulifpercibum diftcrrcr, Ob rorius corporisafTcflum cxcrciMtioncsfeiiumin hunc modum dctcrminari dcbcnt, quoniam corpus optimi rtatus, ficutin iunentutc ad vchemcntifTimos quofque laborcs idoncum maxime cll, ita in fencdla fc habct ad omncs niediocrcs, quiucrofcnesaut cralusfuntcruribus, authitopcdtore, aut cruribus, ulrra quod par cft, gracilibus,aut quorum corpus cxiguo clt thoracc, aut admodum angufto, aut valgum cft, uarumue, aut alio quouis pado a mcdiocri tate rccedens, id ad eas omnes excrcitationcs incprum rcddirur, quac uitiofa mcmbra maijis ofTcndcre, quamiuuarc polTunr, ut vocifcratio thoraccm, ambulatio crura.dLiimiiitcr. lam vcroconfuctudo maximamlibi ucndicat partenidd excrcitationisfpccicm dchgcndam,quando Hippocra tcs dixit,cos,qui foliti (unt laborcs fcrrc, etfi fucrint imbccillcs,uel B fencs, non confuctis, forribus, atquc iuucnibus foliros facilius fcrre. nam (icuti confueta minimc lalTant, quos cxcrccnr, immo criam delcctanr, parircr infucta tum moleftiam adf crunr,tum lafTant . Senes igitur omncs confueris laboribus cxcrci rari dcbcnr, (c d tamcn uehcmcntia corum rcmifl-i,quia, (i corpora fcnilia vigorcm, calorcm,. robur, et omnia denique diminuta habcnt,iuuentutisrcfpcvfcuexcrcitationcsquoquc minorcs rcquirerc, rarioni confcntancum cft. Vltimo uiria corporum fcnilium propria cxcrcirationum ipiis ncquaquam conucnienrium gcnus dcmonftrabunt. quac cnim ex lcui caulfa, a vertigine, comiriali morbo, graui ophthalmia, auditus imbccillitate capiunrur,cxcrcirarioncs caput oricndcntcs cuirarc nccclTc eft : fimiliter &: in omnibus alijs affccti^ bus, non folum fenes, ucrum &c cuiufq. ætaris homincs ita fc gcreCre dcbcnt, vt ijs cxcrcitationibus fcdulo abftincan t, quac paticntcs parrcs magis cxcrccrc,&: pcrrurbarc natac funt . Si c itaq. dc valcrudmarijs, ac fcnilibus corporibus cxcrccndis itatucndum crit. T)e corportLus pims exercendis. Qtp. I X. V I CVMQVE corporis cxcrcitationcs fanitati inutilcs minimc rcputarunt,in fanis cas prac cetcris comcndandascfTcdixcrunt,tamquam nccclTarium propc cx/iftat, /i cxcrciracioncsad bonum habirum comparandum, atqucualcrudincm confcruandam non ignobilc auxilium pracftanr, ut in {anis maximc adiumcnrum oftcndcre polfint. Hoc tamcn ucrum cft, antiquos mcdicosmulras fanorum corporum diffcrcnriascflcci(sc, intcr quasprimum locumobtinct corCymn^ifiica. P 3 pus 2»» X PusiIIiidperrc(aafaniratcpracdituiTi,quodmenfura,&regul^ tcris pofitum fuit,potiufquc mente defignari, quam in ulla rcgione i.dctue. ^pf^l^^u^niri potcft: ctfi Galenus multa corpora temperata in Mal.cap.7, regionc inueniri memoriæ prodiderit.De tali namquc corpor^cnuUibicxiifteatcfcrmonemnon fum habiturus, feddeillistantum agam, quacirapracfcntefanitatefruunrur,utvalcantline la molcftia cuuvftas illas aftiones obire,quac communitcr ab omni^* busexercentur. cum enim medicus arrifcxfenfiliumrerumexfi-. llat,quacfcnfuifefc produnr,&: non quacfola cogiratione comprchcnduntur, tradtarc debct . Hæcitaquc corpora fana,quoniam quotidiecomedunr,atquenutriuntur,nccclTariomuIta cxcrcmcntagcnerant, quacnificontinuoacorporcperexercirationcs educantur,tandcmprauas difpofitionesingenerant : undeprudcnrcr ^.aph.zs, fcripfir Galenus, homincm, fi vraturmcdiocri cxcrcirationc,&beE ne concoquat,corpus a fupcrfluitdtibus mundum rcdderc . Vcrum enimvero infanisquoqucplurima confidcrationedignafcfc offerunt, tam cx partc exercitationum, quam ex partc cxercitandorum. Ex parte excrcitationum fciri dcbet, nullam exercitationcm, nec vrolentam,neque immodicam cfreideberc, utinlibro i^^gi lUKgcc^ c^)«/f«2adnotauit Galen. &:propterea excrcitationcs.foflorum mcllorum ncminifcrc eorum conucnrunt, qui profpcra valetudinefruuntur;ccleresmotus,&: vehcmcnresinrobuftiscommendan^ tur, qualis lufta, difcus, pila, &: huiufccmodi, co magis fi confueti fuerintj moderati omnes quibus vis fcre aptantur . Porro cx parte corporum exercitandorumhismenrcm adhibcri oportet, confuetudini, ætari, habirui vniuerfali corporis, parriculari rationi uiuendi,necnon temperaturac . Dc confuetudinefacpius diximus F ctiam in omnibus obfcruari dcbcre, fiquidem quæ confuetac funt cxercitationcs, licct fint aut nimis vchementes, aut nimis rcmiflæ, inaffuetis maiorcmutilitatcm,atque dclcdationcmpariunt;atfi quis vcl minus,ucl plus quamconfueuit^intcrdum excrccatur, protinus molcftia cuidcntcr afficitur,ita ut non raro fcbrcs hac ratione ll.decaufconfingere, fcripferit Galaius,dum excccicatioacs confuctæ dimittuntur. Quod vcroadactatcmpertinet, iam diximus, prouercb.cz?^^ (flos,&:fencsremifliorcs quam ceteros,&:pauciorcs excrcitationes pofccre ; pueri, iuuencs, atque uiri motibus fcrc omnibus pro fua quifqueactatefufficiunt,modoaliud quid nonprohibcat, autmodum corporibus priuatorum, &: non athletarum conuenientem minime exercitationes tranfcendant. luuenes cnim ( diccbat Hip-^ pocrates,fiuc Polybusinprimodemorbis) fiplusconfucto laborcnr» iti A rcnt jConuuIiionibus fortibus, &: rupruris uarijs carnium, uenarumque ftarim.i?^ magis,quam fcncs tcnranrur ; quod corpusroburtum,t^ liccum habenr,carncmdcnfam,ualidam,onibustcnacitcr adhacientcni,cui circundata cutis uoJdc tcnditur. quac omnia mi nus fcnibus inlunr, &c propterca illi rarius huiufccmodi mahs capiQ rur. Dcuniucrfali aurcmcorporishabirullcdcrcrminandumccnieo,quod pingues,6i: obcli^quanromagis cxcrccanrur,ranro profpe l^pirth -riorefaniratc utuntur,quandodiccbat Ari(torcIc$,moru pingucdiiicm cliquaruquodfi criamcxcrcitationcslinc uchcmcnrcs,arquc acurac,nihil omninonoccbunt. Nam Hippocrarcs corpulcntorum irincrauclcKia dcbcrecfl*cuohiir;quinctiam(}alcnusinrcr cttcra, M-Mcth. quac ad cxtcnuandum uii um illum obcfum quadraginra annos na tumadminiftrauir.fccurfum udocem adhibuillcrcfhitur . Conrra Cjracilcs in confummara fcrcquictc dctuuri poftuhmt, quia licuri^cQlL corpulcnti cralii contrarias habitudmes cx conrrarij^ortas ha^J,'*" bcntvitdconrraria proipforum falurcexpolccrcuidcnrur,ahoqui i.icuua. niagoopcrckcdun Mjcahqui funr,quibus cxcrcirarioprodcf* k mdicctur,ij pro^ ^ -lu pauca,0^: ualde rcmilla opus habcnt.un defapientitliinus Hippocratcs iummarationciulHr,urgracilcsiter ^CJ. diæ faCturi lenns pal]ibusincedar,quosircm Mangoncs,& Mcdici craf" j^ (efaccreuoJcnres,uirgis ucrbcrabanr,ur carock'uarctur,&:ad cam ;ihinentum rrahcrerur.Qui ucrointcrpingucs,v!s:gracilcs,ucI lv(rjgfii,iiuei]uadrati,uel parumadalteramparrcmdecUnantcs exillur, mcdiocrircr,aut criam uchcmcnrcr, modo nr^n immodicc cxerccantur,utilitatcm inligncm pcrcipiunt ; nimirum cum corum ca. lor iramagisconfcrucrur/upcrfluiratcsquequotidianaccxhaurian ^ tur.Deparncularimcmbrorum habitu idcdiccndum, craflas,fcilicet partcs magis excrccndas, renucs minus, nili carum renuiras ex nurnmcnti dillriburione impcdita,ucl dcfcctu proricifcatunquo in cafu, 6c exerciratio conuenit, 6c gcnus illud ungucnti, ctiam pilis aucllcndis a mcdicis cxcogiratum,Dropax uocatum, dc quo MarUalisiib.j. V/llothro i^^LUuKjuc 1.1'iJs y C dropace calu^m . ' I' Jsjunquidto/Jurcm GJtrgiliar^etimcs > et lib.2. Lættts dropjce ta qHoUdmno, Hirfktisegtitrurtbyr fgetiisif. Paritcr,&:partcsomncs corporismcdiac inter graciles, &: craflas cxcrccndacfunr, In ratione uiucndi hoo infupcr animaducrri dcr bvtrUr qui parum ct>nK'dunt, parum cxcrccantur,iuxra Hippocratwic^cnijubi tunulaboraudupiaont-Uj uui itcm uigilanr,a]j I I cxercitationibusarccndi, ncmagis cxficccntur, neue molcftfacD molcftia maiorfupcraddatur,contra qui multum comcdunt, multumcxerccri dcbent,quoniam diccbat Hippocratcs,non potcft homo comcdcns fanus uiucre,nifi laboret : in talibus cnim opus cft mult o calorcut niultum concoquant, multus calor ab exercitatioi.^tu.va. nc,diccbatGaIenus,facilefuppcditatur,practercamuItum mandu cantcs magnam cxcremcntorum copiam aggcncrant,quac nifi magnis,&:muItisIaboribus diminuatur,in prauas difpofitioncs cofpusdcducunt.qui fimilitcr multum, et profundc dormiunt,multisquoqucexcrcitationibus indigent,quandoquidcm in iftispcrfpirationes rctincntur, atque adco fanguinis copia partcs extcriorcs dcfcrir,lubitqucinteriora, utadaftocultcllonon acque cfflue3.5hifto. rcuaIcat,qucmadmodumfcribitAriftoteIcs,& obidfomnolcnti ^^ omncsdecolorati cuadunt,unde hos faris cxcrcirari nccclTeeft, quo pcrfpirarionibus aditus parefiat, fanguisue ad extcriora fcruan daarqucnutrienda rcuocctur. Dcmum ob tcmperaturæ rationcm fic dc cxercitationibusiudicium fercndum credo,ut ficciucl nihil omnino, ucl lcnte fatis, et minimum laboriofe excrceantur. nam cxcrcitationes,quas fuaptc natura exficcare conftat,fi in ficcis corporibus adhibcantur, quin intempcricm augcant, ncmo fanæ mcntis dubitarit. CaIidiquoquc,&pracfcrtimacri,acmordaci calorepræditi exercitationcsmodicasrequirunt, ne a motu pius 4.Aph.i3 æquoincalefcant,ipfisquc,utfcribit Galcnusfolacin necelfarijs ^.epid.co. adionibus obcundis motioncs fattac fufticiunt . Vndc Ariftotelcs, ^anic' quacrcns, cur ali j fcdcndo pingucfiant, alij macrefcant, ideo eueProb.i. nirc dicit, quoniam alij frigidi funt, alij calidi, ali j cxcrcmcntofi, p ali j non ; et qui calidi funt, pingucfiunt fcdcndo, cum corum calor fine motu cibi concononimmerito dubitari poflct; co quod Ariftotclcs fcriptum rcliquit, corpora humida a laborc fi]flbcari,qiiia a caliditatc motushumidum in uaporcs conucrritur,qui mox copiori,&: lcruidicflcdi calorcm nariuumfuffocanc: atramcn ratio fccuspcrfuadcrc ui derur, quæ dcraonftrar humida corpora cxcrcmcntis abundare, et propterea iplls laboics ualidos congrucrc, tum ad cxubcrantcm humiditatcm confumcndam,tum ad fupcrfluirarum co~ piam adimcndam . Quaproprer, ficuri notat Pcrrus Apponcnlis, icntenriamAriftotclis dc illis inrcUigcrc oportct,inquibusquatuor concurrunr, ut fint humidi, &c calidi, ut humidi tas lir irulra, cuaporabihs,atquc circa puImoncm:talcs cnim filaborcnr, &: multumexcrccntur,pcriculum cft,ne humidiras a calorcinrrinfcco acutoin uaporcs conucrfa pulmonis,&:cordis rcgioncmoccupan^ dofuffocarioncminducat . Quiab his humidam corporisrcmpcricmpoiridcnr,nullum nocumcnrum,quinimmo cgrcgiamurilitatcmabcxercitationibus,&: laboribus percipiunt;arq.hacratione cx mulieribus humida tempcric in uniucrfum pracdiris illac faniorem, &: minus molcftam uitam dcgun r, quac diurius, 6c ualcntius elaborant, &c cxcrccnrur, ficut &: cacdcm apud quas gcntcs,&: in quibus locis laborarc confucuerunt,facilius pariunt, ut kribit Ariftotclcs ; neque utcrum ditHcuItcr gcrunt, cum labor ca rccrcmcnta confumar,quacinmuIicribusotiofis,&:fcllulanjs augcntur. Quaccunquc ucrocorpora calida(imul,6^ficcafunt, nullopa^to cxcrccriconucnit;quæ calida,&: humida, cxcrcitationcm admittunt,atmodcratam,nonuehcmcntcm,noncitatam : frigida,&:/icca rationc frigiditatis cxcrccnda lunt, rationc autcm ficcitatis neC quccelacs,ncqueuaIidosmotusrcquirent, fcd modcratos,&:potius lcntos: fngida atquc humida omnium maximc ab cxcrcitationibus uchemcntibus, &c uclocibus iuuaniur, quippc quac fupa -a.cancam humidiratcmabfumunt,&:calorcm natiuum cxcir.inc.augcntquc. Sicigifurdccorponbuscxcrcendisinuniuerfuui dctciminatum lit. Dc locfj In quil^HJ excrcitationes ficri debent. Cap. ^y^.ffK A N T A cft locorum uis,atquc proprictas,quibus rcs ia iplisfaciacuarijsmodisdilponuntur,utnon modoplan tarumnaturac,ficuri Thcophraftusfcribit,non modo ^^c.brutorumfacultatcs,qucmadmodumaudorcftAriftotclcs,ucrum et ipforum hominum corpora,atquc animi, fccunduin Hippocratis,&:Platoni5fcntcntum,prout indiucrlislocisucl nafcuntur, 2il.mai;ishvpcrhron conimcdarunr, quampordcus,(S^hypogacum,licut,6c Phacdrusapud Plaroncm in diaiogo iplius nonunc infcripro cx fcntcncia Acumcni mcdici, cuius ctiam a Xcnophoncc cclcbris hc mcntio, dcambulationcm, cx[l^ ti-a ciuitaccm iaLhun ci, quac in ciuiraribus ctH. i iir, pracrulit hifce tt^VCrbis '.ti \,yu£ mI cSTruiiyiW^ AKOVtAivui KcciccTccs oJ^Jx/^ TTcioOyLCti ToOi Tr^rrccTOv^^cfHffi yxg iKOTroort^STotiv Ivtoi^ J^^ot^n^ iivcti, jdcli:, McO auccm, 6c tuo obcdicnslodali Acumcno, m vi)s ambulationcs facio : has cnim dixic minorcm lafruudmcm parc rc, quam illas quæ hn curribusagancur, Dc hoc cnim Placoms loCo cum luprapromifcrimus, nv"^s plura diduros, iam occafio poliicira fcruandi opporru na fclcurtcrr, cosmagisquod Marlilius Fic!nus,uiralioqui doctilliB mus,dum Phacdrilcnccnriamcnecrcdidit, uc hiciiiorcs linrambulacioncs, quamcurfus, dupliccm errorcm rurpiccr commific; rum quia rcxtiis (Sracci lirceram,ai]t non inrcllcxir, aur linc ncccflicatc cranlnuitauic, dum loco t»v IvToi^J^^iyiOi^, pcrindc cranrtulit, ac(i ccxcus habuilVcc TivJ^^itmy ciim quia Phædro Acumcno ridiculam propc rcinlc adlcripfiirc nonanimaducnit :quis cfuæloadcomruHus,(&:ignarus cll, quin cognofcac ambularcfacibus clVc, quam currcrc ? Mchus igicur lanus Cornarius, qui nupcrPlatoncm Latinum iccit, fentcntiam illam inccrprctatus cft, cum Phacdrum tcccrit diccntcm falubriorcs cllc ambuhirioncs in uijs,quam in curlibusfactas. quod uc accipicndum,atqucintclligcndum (ir,uarias inucni doclorum hominum opinioncs; alij namqucarbicratifunr, «/^fo/nwj fiue curfuii apud vetcrcsGraccos fuific Qin urbib. uiasplanas,lcdoblapidcsftrarosafperiufcuIas, &:brcucs ita appellatas ob frequcntiam hominum pcr cas ambulantium i co padito, quoctiam hodicrnadicapudmultosciuirarum uiacmagis irequcntarac Curfusnuncupanrur. cui fcntcntiacopitulari uiderur Hippocratcs 5. Epid.-.ibi mcntioncm ciiiufdam facif,qu' propc cur fum habitabat his vcrbis: 0 7roc§i tov J^giiJLov opcioQVyTHS wktoqcchjuic li^i' daf. idcft, quidc propc curlum habitans nocte languincm euomuit, ucro liue uias dixcrunt fuiflTc quafcunquc uiascxrra ciuitatcm nulla artc fabricatas,nullis lcgibus llratas,(cd inacqualcs,mini mc planas,&: dcniq. talcs,qualcs ud narura,ucl cafu fadac rcpcriutur : atque ideo Acumcnum magis ambulationcm in uijs, quam in curfibus probaffe : quoniam ficuri fccundum Cclfum, 6c ipfo anrilib.i.ca quiorcm Ariftotclcm forraffc Acumcnum in hoc fcciirum, Tfl2t^ jV/yJ"^ TF^iTriroovoi KWfdCiiJ^Qy^iKOTrii^ioi wii/oiivi^Mi rHv irjSuHv. Idclt ambulationum lllacminusdelafsant, quæ fiunt inuijsinæquali. bus, quam re(ftis, cum ambulantes pcr loca plana, &c æqualia fempcr ijfdem membris laborcnt, ambulanres u cro per inæqualia roticorpori laboremmagis diftribuant, &:iccircominusdefatigcntunitaambulationcsper uias fadac, ut potc inæquales fadtisin curlibusnimirum acqualibus exli^eiTtibus facilioreseadcmratione cxliftunt. Alij dixerunt rot/ffc/^fJ/iovc r^xftitilTelocaquædam tra£l:u brcui ambulationibus dicara, limilia ijs, quæ in palneftra anti-» qui ob ambulandi commodita.em acdificabar, quacquc IniJ^goiAic^ajuocatas rradit Virruuius, &c quorum clarifrinam menri ;ncm fecit Eupolis, apud Lærtium m Platon Iv IvjkIoi; J^goptcurt akccJ^H'' lAOvSiov^ ideft, inambulacrisAcademi Dei umbrom. uiasuero exftuif e dlas, quas paullo anre ex prædi(5l:)rum opinione indicauimus, et ob id Acumcniim rede fcniifsc, dum ambulationes in vijsminus, quam incurlibus defatigarc ccnfuit; quandoquidem . Ariftoteles fcriprum rcliquit, eos ambulando magis defatigari, quipcruiasbrcueseuntcs fæpe, ac facpius repeccre coguncur, quam illi, qui longas uias pcrambulantes numquam repetuat, cum illi priorcs modo quiefcentes, modo euntes ab inæquali mo' tione pcrturbentur, quod minus iftis euenire perfpicuum eft . Hos poftrcmos melius cctcris fenfifse, femper ego putaui, non tam quod ambulano in uijs perada eligibiliorfit, quam in curfibus, tum ob rationcs prædidas,tum ob liberiorem, et puriorem ærem, qui non in locis breuibus,&: occlufis, fed in vijs apertis crebrius infunditurrquamquodcurfum ita Platonemin Phædro intclligere,uerifimihus cft, quando &: in principio Thcæteti fimili uoce in cadem prorfus fignificatione uti uidctur fub hisverbis: tegnyxg ltf rS^ooJ^gcfieo HMl(povroW£tgoir\rmgovroi ttCroO^ KxiccCrity vvv&: loca fccundum mare ad mcridicm,aut occidcntc fpc^ftantia tiigicnda crunr, c]uoniam, Virriiuio auctorc, caclum mcridia^num pcr acftarem folc cxoricnrc calcfcir, mcridic arder,undc cxcr citarihne magnoincommodoncmoibi poteft. Quodfi fupcrbilfi mac,arqueinnumcræ illæ porticus ob dcambularioncs, &: alias cxercitationes, ut fupra rctulimus, crcftac, fi ampliirima illa gymnafiaad hoc a maioribusnoftris magniricc exacdificata babcrcntur,nuIlusprofcdo locus aptiorinucniri polTct, qui omnibus fcrcexercirarionum gcneribus magis futficcrct :fcd,quoniam illorum ruinas uix nobis intucri liccr, danda opcra crir, ut unufquifq. locum fccundum condicioncs iam cxplicaras cligar, illud icmpcr nicnre rcuolucns, tametfi multæ fint exercitationes, quac loca angufta,&:occIufa expofccreuidcntur, inijsramcn haudparuni B delc(ftum quoquc habcri dcbcre : ut, fi non omncs qualitatcs, aliquasfaltcmcarum, Sc mclioresex ijs, quas inmcdiumpropofuimus, habcant . Quamobrcm fcitiflimc confuhiit Galcnus, ut do^i^mus, in qua cxcrcirandi funr homincs, h\ cme calida, acftate frigi"^'"P-^da, uel fcmpcr tcmpcrara cligarur ; fin mmus, procurctur, ne ipfo pracfcrtim die calidior,frigjdiorucfir, quampublicus totuisurbisær. Quasomncs pracdidas condirioncs unoucrbo complcxuseffc uidcrur Acrius Amidcnus, ubi gcftarioncm, nauigariolib. j.c.7. nem,&: omncm dcnique cxcrcirarioncm in falubri loco,&:puro acreficridcberefcriplit . Aliac fimilircr poflcnr indicari iocorum condiciones,ncmpe inæqualjras litus, planirics,&: huiufmodi: ied,quia parrim cxplicaracfucrunt,parrimfupcruacanca&: teporcmferuarc non poteft. amplius corpo-. ramotupcrfpiratiora,&: folutioracffcda, meatufquc pcrfudationcm patefasfti frigusintima maiore ui penctrarc permittunt, ac* ccditctiamquod fcfc cxcrcentes acrcm continuo permutant, ac ^r. partiu pcrmoucntj&iccirco^uti diccbatAriftotcIes,currcntcs hycmc,ma P prob. 12. gisrigcntltantibus.quod ucr noftra ambiens corpora, cumftamus, ubi lcmel concalcfadus cft,nulla amplius molclliam inkrt; cum au tcmcurrimus, alius atquc aliusfubindcfrigidus*occurrit,iraquc fit, ut magis rigeamus • Paritcr qui in cxtrcmis frigoribus cxcrccn-. tur,uchcmcntius arigorcpcrcutiuntur: nimiuspractcrcacalorcxcrccri uctat,nccnonficcitas immodica,quoniamaltcr calorcmnatiuum, et vniucrfum corpus immodcratc refoluit, altera magis> quamparfit>humiditatcscxficcat. Tcmpusitcm excrcitationibus fcrenum,atquc lucidum cligcndumcnt, fugicndum ucro nubilum, obfcurum, craflum; quando licær dcprauatus ctiamabfquc cxcrcitationc apcrtos corporis mcatusfacilc,fubit, humorcfqucfccum inuchcns mcmbris non finenoxa afligir, et pcr confcqucns grauiora non Imc rationc corpora rcddit, animumquc deinceps gnuat ;qiiodinfcfcno nufquamanimaducrtitur,quln potius al> illo corpora ad morum adiuuari,fpiritusq. fuaptc natura luciditati amicosconfirmari',&: animum rccrcari pci fpicuum cft. id quod Hippocr:itcm (ignifi^ alfe puto,ubi dixit,(?/4«ritrc &:incoctos humorcsconficicnre cxcremcnra paucif(imagcnerantur,atqiic indc minus iIIacducincce(Tariumcft, ncquc cxcrciratioconucnit>quaccxiguam urilitarcm aficrenspencu lum magnum adncxum habetine fcilicet ær hyeme madore opple tus coi-pora moru reclufa illabcns nvignopcrc lædat.Kx altera par teuctuiliirrnus audor Hippocrarcs, iiue Polybus tria cxcrcitandos ^.dctlict» hommcs admonitos u )!uit,ut lallitudincm omni temporc caucrcr, ^utdcambulationibus marurinis corpus exercercnr, urhyemc&:fri gido tcmporc magis ac diurius cxcrccrenrur,ccflanrcs tamcn priuf quamlaatq. ctiamaurumno cor[x)raabambicn Li.i.c nteacrc faris exficcata,fqualcntiaquc rcddita haud amplius pcr motumarcficri dcbcrc,ncqueitemcalorcm alioqui languidum,&:imbccillem magis rctundcndum minucndumuc.Galcnus ucro,muIra ^ ^^-^ rumrcrum, quasmcdicifcquunrur,auLtor bonus ccnfuifTcuidetur, ual.ca.zquod ficuri corpora rcmpcrata in rcmpcraro rcmporc,ncmpc ucrc> cxerceri poftulanr,(imili pavflo corpora frigida in calido, calida inc frigido,humidain (icco,(icca inhumidocxcrccndafinr:qu;ififcmper illud obfcruari dcbeat, utcorporibus adaliquamintcmp^-rie' dccliiumibus tcmpus,atquc locu5 coiurariaiucxerccndo chgati^ tttu R .9. epm. tur.Neque hoc in locoprætermitrendum ccnfeo.quod PIin?us iuT> S Fulcc: 'exercitatione æftaris tempore a fc ficri fc>!ita, ubi a Fufco mterrogatus,quomodo diem acftate in Tufcis difpennirer,in huncmodumrcfponditde cxcrcitationibus.-iibihoraquarta uel quiMta.ncquc cnim certum dimcnfumo. tempus.utdiesfua/itin xy ftummcvcl cryptoporticum confcro.rcJiqua meditor,& didojVc hiculumadfccndo. Ibi quoqucidcm quod anibulans.autiaccns* Duratintentio mutationc ipfa icfeda, Paullum rcdormio,dcmde ambuIo,mox orationem ^ iræcam,! atinamue clarc,&: intcntc non tam uocis cau la, quam ftomachi lcgo, paricer tamcn &: illa firmaturitcrum ambuIo,ungor,exercecr,lauor.& paullo poft. Nonnumqiiam cx hocordmcaliquamutantur. nam (i dm iacui,uel ambulaui, poftfomnumden.umlcaioncmq.nonuchiculo.fcd quodbreums,quod velocius,equo gcftor, ucnor aliquado.ln particuJari por E ro tcmporc excrcitationis dcfcribendo Ariftotdcs aliquando moPk,..nhb.,um cum(vt ipfi ctiam imputat Plutarclius) quipoftfumptum cibu •iit,commcndauit,coquod tunc caloramotu auduscibum mox inot ftumfaciliusconcoquat,cuiustamen contrarium eucnit, quando pcr motum calor a uentriculo ad uniuerfum corporis ambitum rctraausnonfolumnonadiuuat concodioncm .quinimmoimpelocclt '^i'«; r(ii^oMW(tKAvvrM.f,iivH(Cisis ci(m tua cura dapes, Et bomts MCthcrio Uxatur ntBatc Catjjfr > lngcntiq. tcncl pocula plcna manu, Tunc admitte iocos ^^rcjju timct ire licenti, w/f aut fphacrillirio, aur curfui,aur hidarioni„ busmoHioribus incumbcbar, arqucindc undus Iauabatur,ira ut „ caldarijs ucl numquam', uel raro,pifcinisfcmpcr utcrctur, in caq. „ ^ una horapropc mancrcr:bibcrcr ctiam frigidamclaudiam iciunus „ ad unum propcfcNrariii. Egrcflusbahicism i.lrumladiSiSjpanis fu„ mcbar,oua dcindc, mulfum,arq.his rctcdusaHquando prandium „ inibar,aIiquando ufq. ad cocnam diflTcrcbar, pranfus cft ramcn facpius. Horariusquoq.paullodiucrfius, &:fcipfum, Sc ahos hbcrc Lib,i,fcr. uiucnrcs in cxcrcitationibus cfficcrcfohros> arrcftari uidctur, ubi Sat.t^. pollmultahaccfcribit. quartam iaceo ; poH hanc ragor, aut e^o Uclo, v>f wf fcripto, quod me tacitum iuuet, ungor oliuo, 'hlon quo fraudatis immundus V^atta lnccrnis, ^sl vbi me fcffum Jol acrior ire lauatum ^dmonuiry fagio rabiofi temporafigni ^ Tranfus non atude, quantum interpcllet inani, P^entre diem durarr, domcflicus ocior, hacc eQ ^ita jolutorum mijcra ambitione,grauiq. His mt confolor uitlurum fuauius,ac ji QuæHor auusypatcr atque meus ypatruusq. fuiffcta. Illud ramen hoc in loco ncquaquam pracrercundum exiftimo, quod maiorcsnoftri, quorum maiorparsucl cxiguumquid>uel nihii omnino manc manducabanr, fcmclq. tanrum in dic farurabanrur, horaodtiuadici, ucl nona commodc cxcrccri porcrant, aut criam occidcnrc (olc. Cctcrum ærarc no(lra,c]uando uix vnii, aurahcrumcft inucnire, cui non lir in morc pofirum, 8c vcfpere,&manecibisfarurari ; nulla inomni rcmporcopporrunior apparct horii, quam marurina ^paulloanre cibi fumprioncm ; nimirum cum corpora lciwora ySc ub cxcrcmcncis magfshbcra, niagis ob i26 I B R obpræuiiimfomnumualida, magis dcniquc a quibufuisimpcdi-D mcntisfollitafunt^&practei^a minus imminct pcriculum, quin extcrnuscibus probc confcdtus (it: ficut contra in vcfpcrc, cum nondum cibus concoftiontm affccutuseftjcorpufquc fupcrfluitatibus magis redundat,magisq. grauatur, potius quicfcendum, qua li.i.fen 3. cxcrcendumcfTe, quifqueuidct: uti quoquc animadutrtifle AuiJoc.2,c.3 cennam arbitror, ubi dixit:"In hycmc vcro ratioiii conucnicns erat, ut fcrc ufque ad vefperam tardarctur, fcd alia prohibctia hoc uetant. Erit iraquefcre pcrpctuonoftrishilcetcmporibusmane antecibum quibushbet fanisadcundacxcrcitatio,iique vllus auftorinucnictur, quipoftcibum cxercitarioncmcommcndct,mo. do prudentcr confulat, non gratia fanitatis, aut habitus boni comparandi illud faccrc, fcd potius gratia alicuius particularis aficjlionis curandaccognbfcctur. E/t Sc aliud hocinloco magnopere E confiderandum, ueter^s tam Romanos^ quamalios multos fcrnpcrdics, atquenoftes fcparatim in duodccim horaspartitos eflb.; atquc alias dici maximias,ut in acftatc, alias minimas, ut in hycme, Udecitaliasacquinovflialesuocafl^c: numerumautcmhunc fcribit Galemfpcc.no ranquam ommium utjIiflTimum ab ipfis deledum eflb, quo^ titia atq. niam dimidium continct, &:duplum, &: quartum &: fcxtum, 8c «pfj!^* usincredibilia crrata jjT A ta committi folenr,&: plerumque ( urar Plinij vcrbls) infcitia capi^M.n talis cuadit. cumquc nos cxcrcirarionis toram arrcm rradcrc profitcamur, iamquantum vnufquifq. cxcrccri debcat, monftrarcconabimur . Et nc lingula cxplicantibus nimis diuagctur oratio,uniucrlaquantitatiscxcrcitationum tradatio cx hisconftabit, Quis cflc dcbcatcxcrcitationis communis tc rminus: Quantum fortcs, quantum dcbilcs, quantumlcncs,quantum uiri,quantum pucri,excrccri debcant;quantum hycmc,aclbtc,ucrc,&: autumno;quanlum tcmpcratc uiucntcs, quantum humidi, caHdi, frigidi, &: ficci ; quantumualctudinarij ; quantum non alfueti . his ctcnim cognitis nihil,quatcnusad praclcns caput attinct, dciidcrarciurcpotcrir. Sed antcquam rcm aggrediar, adnotandum duco, dc corporibus acgris non hiturum lcrmoncm; tum quia paucas cxcrcitationes B rcquirunt; tum quia fccundum morborum uarictatcs uariantur cx* ercitationum lpccics,atquc mcnfurac;&: iccirco ccrta rationc dcfiniri nequcuiK. Tcrminusigitur cxcrcitationum communis,qucm Galcnus,Oribalius, Auiccnna,&: Actius Hippocrarcm fccuti docucrunr,duplcx cll,U!ms,quandofciIicct uapor fudori aliquantir.dcloclf fperpcrmixtusfcntitur, vcnæ intumcfcunt, atquc anhchtuspcrmutatur:cum cnimab cxcrcitaiionc duorcquirantur, mcmbro^ Ji.i.fcn.ij rum robur, &: caloris au(ftio, qui fuccos concoquat, concodos nutricndis mcmbris diflribuat, atquc dcmum inutilia dillipct, nifi^.cpia.^' cxercitatio tanta fit, &: ad limilem tcrminum pcrucniat: ncque^« bcnc,ncquc pcrfcdc illaomniaobtincripoifunt, altcr tcrminus c(l, ut tamdiu cxcrccatur vnufquifquc, quamdiu color floridus ciusfaciei,&:corporiingeneratur; motufquc acritcr, acquabiliC ter, &: concinnc edit ; ncc ullamcflaru dignamlalTitudincm percipit . quod li calor cuancfccrc incipiat ;vcl corporis moles paullo contractior vidcatur,vcl lalTicudoiamimmincat: illicodcliltcndu cft; ne, fi ultcrius progrediatur, corpus plus iufto gracilefcat : boni fucci unacij maliscxhauriantur:&:tandcm calornaturalisdcbilior reddatur; &: idco loco roboris acquircndi uircspotiusdcftruantur, (imilitcr ubi motuum alacritas,acquabiliras ; ud concinniras rcmitri quippiam, collabiq. ccrnitur; utiquc llatim delincrc opor tcr; itidcm (i infudorcaccidar ulla qualitatiscius,qua!uitati.suc mutatio, quippc qucm, &: copioliorcm (cmpcr, &: fcruuiiorcm cdi parcft,prout motus vchcmcntiorcsfiunt.cum igituris autminor, aut frigidior rcdditur : tum fcito corpus cxhaunri, rcfrigcrariquc, &:ficcari plus iufto. &:proindc corpori cxcrcitando diligcnrcrattendcrc conuc 01% ur, quando pracdittoruni lignorum aliquod apCyn.n.iiiica* 3 parere lam incipiat, protinus cxcrcitatio dimittatur. Atque hi !> funt communcs quidum tcrmini, quos magna fc/e cxerccntium pars continerc dcbct . Succcdunt poftca particularcs, pro quibus ita dccrctum uolo, quod ualidi diutius ccteris (nifi quid aliud obftct) cxcrccripolTunt, quamuisctiamuircs aliquantifpcr fatifcercnt ; nimirum quæ facillime rcfurgcre poffunt. dcbilcs parum ccrte cxerccri oportct, alioqui i\ in his uircs ucl tanrillum pariantur,difficulter, et longo tcmporereparantur ; et iccirco fatipfis crit incalefcere citra fudoris principium.Scncs du fe cxcrcent omni cura fudorcm ctfugere dcbent; ncmpe iicci,&:aridiexfiftcntes, ita maiorem ficcitarem conrrahunt; pracrcrea c um iam dixcrimus, exercitationesiniuucnrutcconfuetasinfcncLtute congrucrc, hoc in loco fciendum cft, fcmper fcncs minus quam iuucnes (oIcbant> excrcendos cffc, omninoque lalfirudinis fcnfum cflugicndum, terE minumq. excrcitationis eorumfamisexcirarioncmponcndum, ficuti Socrarem iam fcnem fe exercirare, donec cfurirer, folirum legimus. Viri, fub quibus comprehcndunrur omnc^ inrra adolefccntiam, et fencfturem exfiftentes, moderatas exercitationes poftulanr: uel enim ofFendunrur, fi plusiuftocxcrceantur, uclpaucum omnino frudum capiunt, fiminus, uel utroque modoprauum aliqucm habitum conrrahunr: quocirca tcrminus communisiamexpofirushisomnibus mirificc aprabirur. Pucri a primo ufque ad tcrrium æraris feptenarium mulris laboribusprobefufficcre poflUnr . quocirca &: incalcfcere, &c anhclarc, &: ludare &: aliquantifpcr defarigari ipfis impune concedirur : excrcmenris enim plurimis ob viucndi imprudentiam cxubcrantcs afudoribus, &: laboribus multis iuuanrur ; uiribus autem ualidis pollentesa F leuibusdcfatigarionibus minimc oflfcndunrur: haud ramcn raoduminlabore pucros umquam exccdcre conuenit, &:tanto minus, quantoprimo fcptenario uiciniorcs exfiftunt^ fiquidem inicmpeftiuæxcrcitationisduritiecorporis pueri,ad auftum, anatura quam maximc comparari inhibcrur auclio, ob quod pæi.Jtu.fa. dorribas nonnullos fui temporis damnauir Galenus; quod plus c^x.7.pol. equo pucrosexcrcerent .fimilitcr, &: Ariftotclcs improbandos iudicauit Laconas,quinimijsIaboribus, &: exercitationibuspueros cfTcratos rcddebant, ficut &: illas nationcs, quac athlctarum ha bitumlaboribusinpueris gencrare ftudentes corumcorpora deformabant,augumcntumq. impcdicbant. Nainter eos,qui Olym* piavicerunt,duo, uel tres tantum exftitcrunt,quiijdcmadoIclcentes> fi^ uiri fint ui inaniuntur, calor naturalis excitarur,&: pcrbclle conco^liones omnes pcrficiuntur. Dcmum uaIctudinarios,qui mox a morbisrefurgunt, cxigua admodum cxcrcitatione utidebcrc, ncmoignorat; quoniamhorumuircsinfirmæ ualde exfiftcntcs,caIorquc debilis, &: membracxficcata,fimulta cxcrcitationc agitcntur, nonpoflunt non fummum dctrimentum fcntire:proinde ifti i ntra anhclitus muationcm,intra caloris aduentum,intra dcniqiie dcfatigationem ^ quamIibetexcrccndifunt:prouttameniftireficiuntur,uircsq. crefcunt,&:mcIiufcuIieflecoeperunt,adijceredebentexcrcitationes. Poftrcmo qui exercitationibus inafl^ucti funt, cum prauam illa confuctudincm dcponi deberc,iam oftenderimus, prius cxpurgari ab humonbus,&:fuperfluitatibusexfcgnitie ortis fecundum Galeni confilium dcbent,alioqui periculum imminet, ne a fluxionum perniciofis morbis protinus tcntcntundcinccps primo parciflTimc exercendi funt pcr aliquot dics, poftea cxcrcitationis modus paullatim augendus, quoufque ad tcrminum illum pcrucntum fit, qucm inafl"uetis fufficcre,&: citra ullam molcftiam calefacere experientia docuerit:cofemper(quod fupra quoque dcmonftrauimus) animaduerfo, omnibus immodicam excrcitationcm noccre, nempe quæ pucris incrcmcntum adimit,&: mcmbra colliquat, uiris inæp qualcs intempcrics gignit, atque febrem interdum, ficuti de illo Calc.^.dcimmodice excrccricoaclo narrat Galenus in libro de cauifis præ i/mp.cau. inchoantrbusjfenibusimmodicabiles Iaflitudines,atq. ficcitatcs pa rit;omnibusque tandcm aliquid fcmper boni cffluere lacit. Quamquam Ariftoteles ij. ethic. ad Eudemum libro, vbi virtute medium eflc probatjCxceflum in excrccndo defcdu magis laudat,licut in cibo cont rariu mjo/^c^t/^inqu lOKoci Tngi to (raipix Iv /u^ rots Tromg vytui/ongoy i VTns^lA^u^liQnsKcci iyyuTigov roi ykaov \v J^i r7i rgoq^n « fcAAu4^2 vTnsSo^HQ &c quac lcquuntur. Immodicac autcm cxercitationis hæc fignafunto,dumarticuIicaIidiore cff"ecli fentiutun dumuniuerfum corpusaridum,&: inacqualeapparct ;dumin motu/enfus doloris cuiufdamulcerofifuboritundum labor coade,&:nonfpontc dimit titur;dum poftfudorcm pallor fuccedit,ficut in athletisimmodice cxercitatiseuenireconfucuiflc au6tor eftAriftoteles;duminfolita denique, prob. Si . f ji A clcnlqncacualdcmolcftalafririido pcrcipitur. Tota itaquc quantitatis cxcrcirationum ra:io liis omnibus nobis pracfcripta fit.Quod limulta particularia a quoquam rcpcricnriavi'iac a nobis aui i^^no rata,aut prætcrmi(rauiJcantur,iIludfciat,nihilquod ad un ucriamartcmncccflariopcrrincat, circ,quia uclcxplicitcuclimplicitc a nobis comprchcnfum habcatur^.juamquam ctiam mulrac cxcr citationcsfunt, quarum quanritaris tcrminum non cxprcllimus, quod a tcrmino illo communi pracfcripto corum mcnfuram accipi uolumus, Dc modo exercer^di. •PRÆTER locum, tcmpus,&:quan:ita:cm, quæ inobcundiscxcrcitationibusfununa curaobfcruari ^ d^t)crcdcmonllrauimus, adcft& modus,qui urin illisipfis, fic in plcrifquc alijs rcbus rc(ftc pcragcndis tantum potcft, ur, nili is adhibcarur, cctcra omniafupcruacancarcddamur, inrinitisquc propc crroiibusiam uia latilfimcpatcat . Qua dc rcmaximead huiustraftationis abfolutionem pcrtinct, ut modum,qucm anriqui in cxcrccndis corporibus tcnucrunt, quoquc tcmponbus noftris unus quifque fanitatis ftudiofus uti non linc fru(ttu potcft, &: dcbct, apcrtum brcui fcrmonc faciamus. Modus igiriir,quo uctcrcs ad fanitatcmufoslcgimus, fuitis, qucm Oribalius Pcrgamcnus lulia^.coiic. ni Impcra. mcdicus, Actius Ainidcnus, &: Arabum doc^^tillinius Q Auiccn. inmcdiumattulerunt. Virinamque,&:iuuencsexercenLi.i.for.j di ubi Iotiopfcctaconcodioapparcbat,faccibusqucaluum cxoncraucranr,maiorparsfcfccxfucbanr, mox fricabanrur mcdiocritcr, ^'ufqucquofloribuscolorin fumma cutc refidcns, &c arruumflexibilitas, arquc ad omncm motum agiliras pcrfuadc bant ; pcrfiicati olco dulci mungcbantur ;quod urmagis ariusquoslibcr pcnctrarct,manibus undccjuaquc prcmcnribus,&:cxplananribus apponcbatur; abundtioncqui luctatione cxcrceri uolcbant,autpancratio, pulucre conlpcrgcbantur, alij protinus in cxcrcitationcm, proutcuiquc alt^rraalrcri uiilior,atquc grariorapparcbac,dcfccndcbanr,pcra(fta cxcrcitarioncpaullum quicfccbant,dcindc fh-igili bus, ucl afpcriufculispannisltrigmcnta a corpore cradcbant,quo fado aliquando rurfum fricabantur, iTroi^gctnwTiKH didta fridionc,nmilirerqucungebanturaliasinfoIc,aljasadigncm,utCornc-liU5 Cclfus tcfUtum facit; ficq. fcrc fcmpcr balneum ingrcdicbantur Lib i.Sci bis bon.& ina.ruc. 2iS JL 1 ii £ R tur conclaui quam niaxinic alto, lucido, et fpatiofo, rariiisfcip/bs D inducntcs ad capicndum cibum accedebant. Atque hic totus erat modus,quouelin gymnafijspublicis, uel inpriuatis locismaior pars liberorum hominum,&: eorum qui valetudini curandæ, et bono habitui comparando folemniter incumbebant, frequentcr utcbaturNecquifquammiretur,quomodo liberi hominesfingulis diebustotcorporiscurisoccuparentur, quando omneshomincs, ncdumclarioresquotidie defricarifolitos, multi audores,& pracfertimCoIumella memoriæmandarunt.de quo defricandi morc,&modo,fiDeopIacuerit,aIiquando tradationem huic adijciemus. Cecerumuerifimile fit quamplurimos ahosexftitifTcqui uel negotijspublicis,priuatisque impcditi juelnecefllirijs uariarumartiumoperibusdetenti ;uel aliqua ualetudinis ratione coa€ci hoc pa£lo minime excrcerentur, fed fridionibuSj&undlionibus ^ dimiffis^quafcumquc poterant exercitationes ample£lerentur;ficuti &: multi reperiebantur,qui pracdidarum cauffarum aliqua nullo modo exercitationibus uacandi otium habebant; quibus omnibus exadiore uiclu,^: fanismedicamentis opus cflb tradit Galcnus. Verumenimvcro cu actare noftra gymnafia illa ob exerccndi com moditatcs ab antiquis fabricata in vfu dcficrint cflc%neque gymnaftas,&: pædotribas,ncque aliptas,&: reundores habcamus,a quibus fricandi, ungendi, tandemque quomodouiscxercendi modos,atque commoditates quæramus, fat erit illis,qui aliqua neceflaria oc cafionc impediti Iibcrefcfeexcrcendiocium ncquaquam habcnt, ut potius quomodocumque poflunt, excrc eantur, quam fcmper in confummataquietedegant; modo tamen hoc unumobferuent,ne ftatim a cibo excrcitationes cas, quas gratia fimitatis facerc uolunt, ^ folicitcnimis adcant,fcdfalrcm aliquot horas intcrponanr, quo quam minimum ficri potcft nocumentum inde fcquatur . Porro quifuæfpontisfunt,&:maioriocio propriorum corporum curæ Iibere uacare queunt,hæc omnia diligenter obfcruarc dcbcnt.pri mo u t corpus tum a fæcibus,&: urinis, tum a mucis, &: fpuris accurateemundarc,caputpcærc,manus,&:facicm ablucre ftudeat, ne excrementa in uarijs corporu cauiratibus,atq. in ipfo ambitu laten tia,a motu cxcitata uaporarionib.oflcndantjftridisq. mcatibus nonunquam infarclxi,aut exercitarionis calore cliquata obftruftiones, fluxionesq, diuerfas pariant.Sccundo ut corpus ijs indumcntis obtcgant,quælaborcm ipfi fupcraddcrc nequcant, quacuc interim a uentis,fiqui erunt,ucl afrigorc tucantunautctiam fiacftus urgear, feruurenullopadoaugerc,fiucfoucrequcantinam indumcnramfi cxercrcitandLs prudctcracc6modcntur,pracrcrimpcdi'mcntri,quocl laboraruris in motu pracftarc folcntiniigncjfaciunt quoquc, &ut motusdchita mcnfura ludcrj6j alia iucomoda rulHiicant;(iqui dcm fudor ita indutoru finc motu multo cucnics, vcluti Arillotclcs i.par.^fb. dirpurat,dctcrior cft co,qui a laborc cmanat. &huiusargumcntum p°t?o pl eft,quod ita fudatcs dccoloratiorcscuadunt, cu humor pcr fumma blc.j. ' corporis pairus,arq. incalcfccns ab cxtcrnoacrcrcfrigcrari nopof. lit,& indc pallorcm tacilc contrahat,(i mulquc corporis pcrfpiratio» a qua graruscaloremanarcconfucuit a ucllimctis inhibcatur. Tcr tioobicruanducrit,ut rcmiflc,ac lcnitcr unufquifq. cxcrccri incipiat,dcinccpsciusintcntionc augcatpaullatim,ufqucquoad tcrmi nu, qui fibi conucnicns uidcbi tur,pcr ucniar, atq. vchcmcntia rurfum pcdctcntim rcmittcrc catcnus conctur, quatcnus fibi iam fitis B fclc cxcrcuilTc dodus cxpcricntia fcntict: na fiibito ab intcnfis cxcr citationibus incipcrc,non folum imbccillibus,fcd ctia robullis cor poribus fummc pcrniciofum iudicauit (lalcnus . Quarto ijs,qui inpu!cp"iicpl ter excrccndum fiidant,curandumcrit,iitpcrada cxcrcitationc ue ftcsludorc madcfaclas cxfuant,&: ficcasrciumat,idqucli ficri potcrit in loco tcpido, aut tcmpcrato, aut faltcm ncquc frigido, ncquc ucnris pcrflatojl ctcnim humcctailla indumcntarctincantur,facile cft carnibus a calorc rclaxaris itcru fudorcs imbibi, ficq. dcnuo corporismcarus ob ftruitiir ; practcrquam quod pannimadidi mox frigcfafti horrorcs,factorcs ac alias molcftias inducunr,atquc inde fcbrcs mtcrdum oriri folcnt. Quindoobfcruandum ciit,nc(ficut criamfupra admonuimus) poftcxcrcitationcm quam primu quicri fele dcdar,aut cibumfumat,fcd bIando,iSc: valdc remiflo potius aliC quo motu utatur,tantumq. a capicndis cibis abftincat,quoad perturbatio illa, quafiquccorporisfiudTtuatioacftuatiouc, ab cxercitarione gcnita proilus ccffaucrit, ciq. tranquillitas quacda, &: icuatia fuccclTcrit. 1 otusitaquc critcxcrcitadi modus^ordo,primocorpusa fupcrfluitatibus quibus vis cmundarc, caputpcctcrc,manus &:facicm ablucrc/caccommodatc inducrc,rardos,&: rcmi(Tos motusincipcrc,ad cclcriorcs,&: uchcmcntiorcs proccdcrc,itcrumquc paullatim rcmitterc, madcfada fudorc indumcnta cxfucrc, blande pollrcmo moucri,&: fcdara cxcrcitationis pcrturbationc cibum ca pcrc . Atquchacc dc uniucrfalicxcrcitationum Ipcculationc mcthodo difputatafufiiciant.RcftatmodoparticuIarcs fingularum cxercitationum naruras, arquc cffct'tus cnarrarc. quod infcquenlibus libris, quanrum ficri potcrit,plcnc pracftarc conabimur. ExpUcit Libcr QHams. AR~ rDeordine agendorum\(^ den(mnHlhsfcituclignis. Qap. L Iciiti nullus ab excrcitationii particularium cognitionc fru(fius cxpcdtandus cfler, nifi rcda arq. vniucrfalis methodiis, quafupcriori Iibro abundefaiis(nifal!or)tradidimus,optimcpoffidcreturi Ita proR do illa infruduofa,ac prope modu uana cuadcret, nifi hæc parricularium fcreomnium exercitationum tradatio, quam g aggrelsuri fumus, illi conne£lcretur ; fiquidcm incerta, ac fallax ea cogniriouidcri potcft, qua cxcrcitatio vniucrfali quodam padto accepra iauareintclJigitur.fed /i qualis cxercitatio,quod nocumetum,quamucconunoditatcpracftareidoncafit,cognofcatur,proculdubio nihil amplius rclinqui conftat, quod exercitationura quarumuis fcicntiam opcantis animum expJere iure debeat . £ t iccirconcinchoataanobis gymnafticæ tradtatio impcrfc(flarelinquatur,infcquentibusfingulos exercitationum iamenarratarum effcftus profequcmur; atq. hos cum ex antiquoru audoru comprobatis experictia rcftimonijs, tum ex rei ipfius narura infpeda, quam 12. Meth. ef e ueracodiriones rcru mueniendi rarioncfcripfit Galenus,dicere conabimur. Et ne citra ordinem totus futurus fermo uagetur,ita matcriahuiufccmodidcclarareinftituimus,utprimocommodain F corpora humana cx unaquaq. exercitationisfpecie emanatia,deindc mcomoda figillarim explicctunna illud, quod quaplurnnis mcdicametis eucnirc ufu c6probatur,ut fi alicui corporis parti,&: affeftui profunt,alijs noccar, in cxercitationib. item contingere, nemo ignorat.lnexplicadis præterca utiliratibus,atq. danisamcbrisfupcrioribusprincipiufumentcs, utplurimu in ultima,atq. infimaferiatim terminabimus,prius tn iHis enarratis, quæ nullum corporis particularc mcmbrurcfpiccrc vidcbuntur.His autcm fic pertradatis,duo me faltcm pcradurum cfsc fpcro:Altcrum cp maiori facilitatc,firmioreq.cognitione quicumq. hacclcgent,animiscorum infidcbunt : Altcrimi 9 habito a ualctudinis ftudiofis excrcitationum alfiduo dclcau, uel nulli crrores, ucl quam pauciffimi committcntur,ficquedemummulticorum pcrnicioforummorborum euitabuntur,c[uos dcCdia, laborum abftinenria,ac cxercitarionis ignora tio non conrcmnendos, quofq. inrcmpclliuus cxcrccndi vfus continuoparcrc foletiillud namquca narura compararum cffc norunt omnCvV,urilla,quaccorporibus nuftrisadmorainliynitcr conduccrcanimaducnunrur, cxdem plcruq. magnum dcrrimcntuintcrat, li ucl nullo paclo,ucl prauo ordinc, arq. omnino importunc adhibcanrur . quod ctiam m cxcrcirarionibus iplis fcrc conringcrc, iudicauit Galcmis,ubi lcriprum rcliquir,cos,quianrccibos,arqucop ^cd porruncfcfcc.xcrccnt,haud exquidra vidusrationc opushabcrc, ^;',5°".^ quin inrcrdum Naturac in ualcrudine commillos dcfcduscorrigc rc,qucmadmodum cxaducrlo iIIos,&:accurariorcuic'tu,(!!;caliiduis mcdicamcntisindigcrcinfupcrquc natiuamfanirarcm corrumpcrc, qui ncquc ante cibos aliquo pado,ncq. ordinc,ac tcmporc fcrB uariscxcrcitarioncsadcunt. Cumiraquc taliordincquacad nniucrf-ira ^'vmnadicam [>crh\icndam fupcrlunr, pracdfclrs adiungcrepropoLtum mihifit, id anrccetcrapracfariopcræprcriumcllc duco, nos in fupcrioribusgymnafticamfaculrarcmnonincuratiua,fcd in confcruariua mcdicinac parte collocafsc. Hr tauK"omncs uctcrummcdicorum(cs.^tas, acpracfcrrim Mcrhodicos, quormn principcsAfcJcpiadas, Thcmiion,&Soranuscxftireruht,incun6tis fcrc diururnismorbis cunndi^ cxcixitarioncsaliquas magnopcrc commcndafscut cxlibrxs Oirncli j Cclii, qui A/clcpiadcm in multis fecurus tuit, nccnon Coclij Aurcliani mcrhodici, atquc Arctaci c^^roclarillimc iQrclhgcrc liccr.quod fimilircr Galcnus,(S^ qui Galcnum in dogmatncorum fcetafuntimirati,magnacx parrc confirmarunr. cd ac ud mc, vcl ilJcrs omncs cTrahc quis putct, ira fcnrcntias noC ftras accfpi dcbcit uolo,qj.f;gyrTTnafticam principaliter circa fanitarisconfcruarioncm ucrlari, ccinfcqucnrcrcirca curariuamrnuUa ctenim cxcrcirationcm,quaIifcumquc lir, u(l]uam rcpcrics,quin iii /aniscorporibus abfqucnoxaadminifti\ uiqucar,atpaucisquibuf. damcxccpris,nimirumambuIationc,gcftationc,uc^tion9,ac limilibus, ulx uha, aiiraltcra inuehihir, quc ægroratibus impune conccdi qucatiimmo illa^quacadhibcnrur^porius ut rcmcdia,quam ut cxercitarioncs commcndantur,cum in fanisonincscxcrcitationcs folum fiant,quo bonani ualcrudincm rucanrur, optimumquc corporishabirum inducanr: macgrotis vcroiccircocacdcnuidminiftrenrur, ur morbo cxpcllcndo aiiorummcdicamcnrorum inftar coopcrcnrur.Quandoigiruranriquorumirl varijsmorbiscxcrcir^^ tionibusaliquibusurcndi confucrudincm inmcdium adduccmus, noD crir,^ullusadmirationccapiarur,uofq. icprchcndar,ra(|tiam' gymnafticam foli conferuaroriæ inferuire ftatuerimu5, quoniam,D &:nosrei ipfiusnaturampræ oculishabentcs,ita dcterminandum cenfuimus,quemadmodum ueteres alias experienti js alliduis,alias morborum coditionibus permotipaullo diuerfiusfentirequidcm uirifunt,fedreucra afententianoftranonrecefrerunt* Aliudinfuperhocinlocofummaconfiderationedignumexiftimo, quod licetinmulcis excrcitationibus diucrfus exftirerit antiquorum mos ab eo, qui hodiein ufucftfere apud omnes, ucluti pilæ exercitatio, luda, difcus, pugnæ, atque fimilia ; nihilominus cu m parum noftra confuctudo ab antiqua recedat,folifq. accidentibus quibuf dam,& non in rei natura differat/crc eofdem eflfcdus, quos illi fuis atrribuunt, nos noftris dare potcrimus,modo vnu, aut altcrum obferucmus, antiquos undiones, ac pulucrcs in multis excrcitationibusadhibere confueuifTcquas nulli hodie,aurquampauciflimifæ ciunt; aique hoc multi momcnti efle ad uariandas utroriique qua2. S dtælitates,quando dc his Hippocrates verba faciens fcripfrt, cxercitata. iuxta tioncs in pulucrc, atque oleomagnas diflcrentias fufcipere, cum puluis frigidus fit, olcum ucro calidum, atquc inde oriatur, 9 hyeme oleum corpus magis augct frigus prohibens, ne quid a corporc demat : Æftate uer.o caliditatis exceflum facicns, carnem liquar, cum, 6c a temporc,&:/.ole6,ac laborc corpus calefiat;qucmadmodu exaduerfopuluisinæftatemagis augct feruoremæris,&:corpo^ ris rcmittens,in hyeme autem f rigus,&: algorcm inducit.præterea maiorparshominumfcmel duntaxat in vcfperefaturabatur, noftratesbiscibosfumunt, quoditcm non parum refcrradiuariandas cxerci tationum condicioncs • Vnde c^ui de noftri temporis exercrrationibus æquum iudicium fcrre optauerits: dcbebit quid un^ J aiones,& quid uiia dici faturatio importent^exaæ penfitare >ro^ tumque illud noftris adimcntes,in reliquis eofdcm,ucl parum diuerfoseffcdusexiftimare. De Jingulomm exercttationis diff^eremiArum eff^e^ihus. IL RES præcipuas cxcrcitationum difreretiasabantiquis Mcdicis excogitatas fuifle fatis conftat, quarum prima excrcitium Trr^fpc^rxwfl^ixif, fiue pracparatorium, altcra (ic7ro6i§ctmvriKh y icrtia fimphcitcr exercitatio nuncupata . Excrc itationcm pracparatoriam, fiKultatem cogendi, meatus corporis denfandi, eorumquclaxitatemcorrigcndiobtinere. fcriptit pfit Galcnus. quadc caufla;ulilctæ,qui Jcfirarc corporumfudo3 ^ta.va, ics impcdirc.&iconfcqucntcr robur confcruarc fludcbanr,antc "^jetuc. jrcrcras cxcrcitationcs pracparatoiia utcbantur.quam ircm ufurpaual.c.3. * bant quaplurcs homincs poil coitum,ut laxirarcm corporis in motu ucncrco gcnitam cmcndarcnr. dc mcridiano coiruloquor, cum cx nodurno oborra laxiras /aris a fomno curarctur. cuius rci yraria magnopc^ftfSocIarum laudarcfolco,c|ui apud Plurarchumnodu ^.Cymp. coirum ob hoc excrccri dcbcrc aducrlus Epicurum mcdicum grapf^^-^uilllmc difpurar.ficuri quoquc Paulli fcntcntiam,Galcni,ar^ lij opinionibuspracfcrrc confucui,dum is conrra ipforum placira Li.i.fcr.i tcmpusconcumbcndi fccundum cibum inucfpcrc antcquamfo mnus muadar,opp()rtunucxfillcrc credidir: quod lalTitudo cxcoitu contraCtaobdormicnri ftatim rcmitratur. ExcrcirationcmapoB thcrapcuruam ram pro cxcrcirationis partcquam pro fpccic ncce pramcorpora ab iramodicis laboribuscxfuita cmollircmcatusq. corporisrclaxandocxcrcmcnrapurgarctraditumcfta Galcno: un j.detuc. dciure mcritopoft uchcmc*riorcscxcrcitationcs,poll uigilias,poft nucrorcs, a quibus corporum mcatus clauduntur, uircsq. non parumdcprimunrur,urplurnnum adhibcbarunin ijs quoquc commcndabarur,qui palacdrac laboribus alfucri, ob uirac negotia cogcbantur illos dimirtcrc, Excrcirationis fimplicitcr acceptac diffcrcnriac,quac ab cxtiinfccis dcfumcbantur, cos ctic(ftus pariunr, quos locorumipforum,aquibus fumunrur, condicionesproduccrc pofl*un::& idco,qui in calidis locis cxcrccntur, magis cxurunrur, cfui in humidishumidiratcm conrrahunr,ficque dc fingulis. corpo^ ra namquc ab cxercitationc rarclacta facillimc difponuntur ad im bibendas quaflibct acns,&: locorum quaJiratcs . De diffcrcntijs ab utcndi modis acccptis in hunc niodum dcccrncndum crir,cj) cxcrcirariones pcrpctuac, fiuc continuatac, &: acquabilcs magis dclaffanr,quam inacquabilcs. rariocftcadcm, quam atrulit Ariftorclcs bic.r&fx inprobleiaaubus,uidclicct mcmbraa mulro moturcfrangi,atquc inulruineflcmotum,qui unus,&:continuuscft,ac acquabilis.inacquabiicTTi ucrononidco fic dclaflarc,quiacxmutationc nafcitur requics^ Jaborq, oinnibus partibus dillriburus a lingulis minus fcntitur : quairidcin rarioncmotus inrcrcifus, acordinatusminorcm defarigationcmparir, nin.irum cum inrcrruptio quicrcm,quics laflirudinisminus inducat. txcrcitarioncs cumolcopcradac non inodo pracfeatcm laflitudincm mitigar,ucrumctiamfururamprohibcnr,ficcitatcmq. arcct, acad morusprompritudincmmaiorcni gcjacrant: cuiusrcigratia Polliononagcnariusactatcmfuamolca cxtiia23« 1. extrinfccusadhibito acceptam rcferebcit, QuæcumpuIucrefiLirit D excrcitationespracterquamquod frigidiora conferualit corpora^, efficiunt quoque,ne ludor itafacilitercff?uat j neucilla tantopcre i^tuva ma apud antiquos fuerunt gencra, quæ fere omnia hodie abolita, uel faltem non uHrata efle cum conftet, fuperuacancum foretfingulorum eflfedlus percenfcre.proinde fateritillaadnotafTcin quibus a,dc difta pracftandis,&: cun£la illa conueniffe, atque etiam noftram conueni propter ii rc ucriftmile uidetun;^tifow/4/flf(/ etcnim fiue manuum gefticulatione attcnuare humores,atque furfum carnes trahcre,placuit Hippocrati fiuc Poly bo.quam fimilitcr in inuetcrato capitis dolore,ubi P^ulLiba.cun latim malumfoluitur,commendauit Aretacus,ueluti, &:in uertigi^^''^' nofis,epilepticis,cocliacis.Saltariodemum,quæ motu uniucrfum corpus calcfacit,arcendis rigoribus, atquc etiam nonnullis trcmoCribus ualde accommodatunpriuatim ubi ftomachus in concoquen do laborat, crudosuc humorcs aggrcgat, utile remcdium exfiftit . prætcrca labantcscoxas,infirma crura,malc tutospedcs,vfq. adeo confirmat,corroboratquc,utpaucainuenianrur,q fimilc auxilium pracftare queant. nequc itidcm altcri ccdit huiufcctnodi excrcitatio in cxtrudcndis a rcnibus,fiue ucfica lapillis. Cæterum quod p-gnatibus mirum in modum noceat, tcftatum rcHquit Hippocrates, in li.de na ^jj^j cantatrici mulicri,quacne calumnias fubiret,utcri foctum abij cere cupicbat.confuluit, ut faltarer,pollicitus ea faltationc concepjtum corruprum iri,vcluti poftea contigit. Quicunque vcro caput debile, ac vcrtiginofis aficaibus obnoxium habcnt, proculdubio ab illis circuitionibus,uerfuris,motibusq. continuis ofTenduntunfimilitcr oblæduntur quibus oculi illacrymantur,aut in uidendo hc betem acicm habet,perindc namq. in tripudiationibus alicui eucnir, acinrotationibus,in quibuslacpeoculitantumdctrimentum p patiuntur,vt nihil omnino vidcant,atquc interdum cadant . Rcnes languidos,&; fupcrcalefados habcntes,fcminisq. Ruxum, y>voggoitt» aGraccisuocatum,qualibctdc cauflaincurrcntcs afaltariotiibus abftinere conuenir:ahoquieorum affca:ionescxmotu calcfacicnte magisrccrudcfcunr.Arquc hacc omnia a mc difta intclligantur de ea faltationis fpccie, quam antiqui fine armis obibanr.quod h quis armatæ,quarn vocarunr,falrarionis condicioncs pcrnofccre aueat, inhunc modumucrcarq. brcuitcr ftarucrc rc porcrir,uidclicet om iiia quæ ab iUa gignuntur ucl bona, ucl mala, cadem ab hac eftici, nifi quod armara uchcmenrius membra cxcrcct, magisque illa in%.itvi.u. calefccrc,&:fudarc facit. ob quod Galcnus intcr uchcmcntcs cxer* ' citationcs non in poftrcmo loco pofuit,dum quis graui armatura te ausceleritcragitatur.. J41 DtluJorum ptUe effe&ibus^ Cap. IV* Vdorum pilac antiquitiis complurcs cum npud Latinos, tu apud Græcos cxilitiflc fpccics, abundc in fccundo li Ca.4. et i ^ bro indicaui mustcx quo nullum opcrac pretium cu hoc in loco,vbi folas cxcrcitationu qualirarcs cxplicarc pro pofuimus,cadcm rcpctcrc :illud duntaxatanimaducrti volo,quod &: li noftra hidorumpilac gcncra vctcram gcncribus undcquaque non rcfpondcant: funt tamcn magna ex partc ualdc (imilia : &: ideo corum commoditatcs,atq. nocumcnta lingulatim cnan arc ftudcbi mus,ut fada noIlrorun\ cu illis coparationc, quid confcrant, quiduc noceant, utraquc fimul cognofci poillr.fcd nc tratfiatio ifta confundatur, iicut alias fccimus, primo graccos ludos, dcindc larinos 3 profequcmur codcm ordincquo (upra ufifuimus.In co ctcnim c6ucnirccunclaharumcxcrcitationumgcncraccnfuit Auiccnna, q» Li.r.rcn.ifortcscxliftut. Hoc pracrcrcacommunccxomnibushuiufccmodi ludis comodum pcrcipi*ur, quod qui in iplis, ud ipforu aliquo fcfc cxcrccnt,promptiorcs ad motumrcddantur,ijsquc uitalcs adioncs roborctunpcculiariter ucro paruac pilac cxcrcitatio intcr ucloccs citra uiolcntiam,(S: robur collocant Galcnus atq. i^aulhis,cuius me ^^: ritocorporacra(Ta,ut limilcs cxercitationcs faccrc didtum fuit,atre nuat. ideoq. apud Noniuin a Lucilio iLriptum inucnitur, Cum ftu» dio in gymnalio duplici corpus iiccalTcm pila.Primaautcm paruæ graccorum pilac fpccics,fccundum Antylh fcnrcntiam, carncfoli^^iidl!" damrcddit,brachijs,dorfoatq pullulantibus coftis magnfi vtilitatc cjp.j». pracftat, cumquc in ca cxcrcitationc crura magnopcrc laborct,ad Q acquircndumroburnon parum proficiunt.Sccunda cxcrcitationis paruac pilæ fpccics pracftantiliima rcputabatur olim, q> corpus fanum, &c promptum ad motus cum roborc coiundo pracftat, adfpcchim hrmat,ncquc caput rcplct.Tcrtia vcrofpecicsoculos, atque brachia iuuat, fpinac proptcr inflcxiones, quac currcndo fiunt, comodum aflcrr,crura proptcr curlum mirum in modum firmat . His poro omnibus paruac pilac Ipccicbus cun(ita illa coucnirc cc/co, quac (jalcnus in libcllo fuoillisdicato, paucisucrbiscoplcxuscft, uidcliccttp tumanimoruin virtutcm pariant, tum omncs corporis partcs accommodatccxciccndo bonam corporis ualctudincm,ac nicmbrorum concinnitatcm cfficiant. Pihic magnac fpecics prima fccundum Antyllum totumcorpusfirmat, cumq.ad dcduccndam infra matcriam uclicmcntcr coopcrctur, capiti in primis, cunclisq. fupcrionbus partibus, non ignobiJc luuamcntum aficrr. dc hoc luR 2 do 242 Llb.^. dofermonettthabuineputo Alexaodrum Trallianum, quandoinD "P-vlti. curationc priapifmi fphæræ exercitium comcdauit, quo mareria i n diucrfum retrahatur,& fpirirus flatulcrus digerarur. Secunda fpc cies,quæ plus iufto magna pila pcragitur dum proi jcirur,&: urraq. manu proprer magnirudinc cmitritur,brachia firmar,fccl nimis duras plagas infert, ob idq. non modoægroris, aut conualcfcenribus eftinutilis,ucrum eriabcneualenresimmodicadefatigarione afficit. Inanis pila,quam rerria effccimusjacquc exerccr,ac mororia,in qua curritur,atramcn non admodum facilis cft,ncq. apta,arq. ideo li.i>.c.vlt. omirrendæameffcconfuhr Oribafius ex Anryllifcntcnria. Pilæ, &magnæ&: paruæ cxcrcirationcm vertiginofisobcffeiudicauic hsc vlti Areræus,quonia capiris,&: oculorum circumuolurioncs, arq. inte' tioncs uerrigincs afferunt.Coryci excrcirarioncm inrcr vcloccs adnumcrauitPauIIus, quascum didum anobisfit corporacrafliora E lib. V chr. aricnuarc,fumma rarione Cochus Aurehanus ad diminuenda po•culf. lyfarchia hanc exercirationc, qua a Graccis corycomachia uocari i.dediæ. fcribir,adco probauirpfccurus in hoc (opinor) Hippocratc,qui corvcomachia,&: chironomiamidcm pracftarCjquodjuda^rradidir. Hoc excrcirationisgenus iudicauit Antyllus mufculofum corpus rcddere, roburq. afferre, et prætcrca uniucrfo corpori aptari, ncc non ob pIagas,quasinfHgit, omnibus vifccribusidoncum cxfiftcre. Arcracusitem in elaphanricis KogvKoSoKm laudauit. firamen quis plagas in pedtore a coryco ficri foliras coniidcrcr, facilc fcnriet,eos, qui pedore debih ucxatur,fimili cxcrcitationc periclicari,& quan doq. contingcrcpo(fe,utinthoraceuafarumpantur.Arq. rot,siir q dc pilac Graccorum ludorum qualitatibus dici poflunt . Succedut lufus Larinorum gcnera,quæ &c ab ipfis quaruor fpecicbus comple ^ xa omnia in ufum fanitatis rcccpta fupcrius dcmonftrauimus . Horum primum locum obtinct cxcrciratio f ollc acla, quac uniucrfum corpus cxcrcct,fcd dum brachijs impcllitur, dorlum in primis atq. li.i.chro. brachia firmat . ob quod Coclium Aurclianum de hoc pilac ludo ^^•^* ucrbafecifscexiftimo, quadoin cpilcpticishumcros fphacrac lufu excrccri mandauit:dumucropugniscmirritur,manibusmaior utilitas contingit: ambo tamcn uifccra adiuuanr, calcuhsq. a rcnibus, &: velica cxrrudcndis mi rificc confcrunt,coxaf3&: crura imbccilHa In ciusui confirmant . Nam Auguftum, qui huiufccmodi affcdibus corporis ta.c.8o.& fQii^;itabatur,corumgratiafolliculicxercitiu(vtrefcrtSuctonius) adamafse opinonqcf cum præcipue fupcriores partes exerceat,ijs, qui citatam aluum habcnt,(Smqucinprimis laboriofamclTc,magnusphilofophus Ariftorclesproy. partlc bauit, vbi currcntem ambulanti comparans, illummagi.slabo! j;e P^^^b38pcrfuadcrc conatur, quoniam elatus, atquc pendcns corpu.^ fupra lc totum fuftinet, ambulansvcro partc inliftcntcuiciffimfuftcnta- tur,qua(iquc paricti admotus rcqui cfcit. qua rationc itcm coringc- rc dixitait currentcs poti us qua ambulantcs cadamus.Curfus præ- P^"i autcni, licct humorcs ad infima la- bantur, illico tamcn ad fupcnora rc/iliunt, ucluti cotingcrc i n pila fuper pauimcntu iac^a ccrnitur, quac fi blandc iaciatur, inibi quic- knifm uiolcntcr,ftatim fupra rcfilir. I)c thoraccauickgiturapud Galcnum, currcntium fpiii :um anhdum, arquc afthmaticum rcd- ^P^- di,necnon intcrdum aliqund ipfis uas in pulmone,aur pedorc rum ^^rMcVho. pi. quodnon tantuminrdligidcbctdciliis, qui ad cum aflVdum prius difpo/iti eranr, vcru dc a^ijs uchcnu ntcrcurrcribus. Achan- rhioenimillc Plaurinus cum ad ChaririUm uclocinimc cucurrif-ln Mcih. fcr, dicit cx curfu rupiffc ramiccm, &: iamdudum fanguincm fputa- re. fubramicisnominc (ut fufius dixmuis primo Variarumlcd. cap.2.)pcdlori5ucnaslariorcsinftar uaricisfignificas. Ahoquifcri- ptum 2j2 ^ Pfob. pf eft ab Ariftorele, eos, qui non concitate admodum currunt, D numcrofcfpirare,quod ipforum motus proportionatus cfficitur, modumq, refpirandi fenfibilcm præftanscxplicare numerum ua- let. iUis, qui uel in bubonibus, ucl alibi rupturas patientur, curfum cauendum præcipit PaulIus.Ad hæc ardorem urinæ ex curfu au-, &c hominesteftaripofrunt,&cerui,quiintercurrendum vf- que adeo huiufccmodi ardorc ftimulantur, ut, nifi mingant, facilc capiantun quam rem animaduertentes fagaces uenatores,eos pro- fequuntur, necmingendi iplisporeftatem faciunt. Curfumitem hepatelaborantibus, nccnon renibusmale afledisinimicum efte, lib»4.c.«* tfaditumeftaCornelioCeIfo,&:abEphefio Rufo.Atque hæcom- niadecurfureclainanteriorafadto a me explicata fciantur. pro }bidcm qu^'^ idfilentionoefTeprætereundum duco, quodi^riftctelesfcri- pro.jtf. ptumnobis reliquiti videIicet,eos,quicurfumconcitare agunt, g conuulfionibus maxime corripi, ubi quis inrer currendum eis ob- ftircrir : quandoquidem ea potiflimum conuelluntur, quæ in par- tem contrariam vehementer trahimus, atquemouemus . unde Ci homini currenti,vehemeiiterq. membra ultrapropellenti quisob uiamfactusobftirerit, accidicut in partcm contrariam earetor- queantur, quæ adhuc ante pertendunt, atque proripiunt . itaquc conuulfio tanto vehementior incidit, quanro curfus conrenre ma- gisagitur. Curfus infuperreila ad anreriorafadtus, atquelongus i.ldiact. abHippocrare nuncupatus, fecundum eius fenrcntiam fi fenfim fiatjcalefacit, &c carnem dirfundit, ucrum corpora rardiora, arquc craffiorareddir,multaq. comedentibus urilirarem præftar. At re- Onb^Ciui curfusinpofteriorafecuadum Antyllum non celerirer mitus,capi- Lococita. ti^ocuIis,tendinibus,ftomacho,&:Iumbisaccommodarus, arque p utiliseft; iccirco nonrepletcapur. Circularisuero curfusfccun- i.dcdiæ. dumHippocratemcarnemminimediffundir, arrenuar aurem, di- ftendit carnem, 6c ventrem maxime : proprercaq. acuriflimo fpiri- tu utenres humiditare in fe iplos cclerrime trahunt. qua ratione ab Irt lib. ic ipfo in ijs commendatur, qui nigra aftra in infomnijs uident, nem- pe quibusmorbusforinfecusimmmeat.Capur valde oftendit, ver- li.de Vcr figincsq. utTheophraftusfcribir, abundcmggerit;thoracem y&c crura uitiar;ideoque rcpudiari omnino dcbct. Sunt curfus per ac- cliuia magis laboriofi, magisq. thoraci, &c crurihus inimici; fimili- ter, &c pcr montcs : pcr decliuia ucro caput uchcmcntius afticiunt, uifccraomniaqualVant, coxasdcbiles pcrrurbant ; perplanacur- fus illa omnia præftanr,quæ iam dcclarauimus . Ccrcrum qui rc- tliocorporc obeunrur, &c fudorem moucado magis humcctant,. 25J tc carncm calcfaciunt .idcoq, Coclius Aurelianus capitis dolore la borantcs,utuc{litos currcrcfaciamus,magnopcrc curandum prad- cepit;qucmadmodum Thcodorus Prifcianus lcriptis mandauit,ci;r L' i aJTi fum cum ucllibus lancis pcrao: um althmaticis prodcflc; hunc tamt 'l'^^;^^^^ dccoloratiora corpora cfticcrc ; quoniam finccrus fpiriius ailabeiis ipfanon depurgar,fcdin codcm fpiritucxcrcentur;audorcftHip- pocratcs.qui tamcn cundcm in illis probauit,qui ftcUas dcficicntcs \^;'' in infomni)s,vidcnt, quod fccrctionem in corpore humidam ac pi- tuitofam factam,&: in cxternam circumfcrentiam illapfamcflc figni ficctur.Qui pono nudis corporlbus efficiuntur,ficuti magnam (udo rum copiam clicmnt,ira gcncrofc pcr occultos halitus cuocant hu morcs,corporaq. magis deurut.quocirca Ariftotelcs ludorcm,qui i.partl«. corporcnudocurrcnti prodicrit, criam fi mmorlit,magis laudat,^^^- 3^« • quam qui fub ucftc lc prompfcrir,argumcnro illorum,qui nudi cur fum aclhuo tcmporc achrant,quiq. colorariorcs rcdduntur.indutis currcntibus non ob aUud ccrtc,mfiquod,vtomnesqui locahbcra, &:adfpiratiora incolunr,mc;iuscoloranturijs,quiimpcdita,&:filcn tiatencnr,fic ctiam fcipfo quilque colorariarcft, cum uclurifpirituiafflanti placide patcr,quam cum pcrftrictus,obduc'tufqueacaIo rc nimio angitur.quod certe ijs accidit magis,qui vcftiri pcrcurrut. &: qui nimis dorm!unt,quippc qui vcluti adftridi, 6^ propcmodum ftrangulati,minus rcliquis lc fc modico fomno rccrcaniibus colore florenr.Curfum vniucrfim acccptum magis hycmcquam æftare ex vfu cflc crcdidir Hippocratcs,liuc Polybus in fccundo dc diacta libro.cx aduerfo Oribafius tnm hycme, tum acftarc mcdia conucnire fcnfir. cuius forfan fcntcntia ucrior mdicabitur, ii fudorcm quis " æftate magis, hycme minus procurandum cum Ariftotele arbitratusfucrir.fcd dc hoc iam fupra abundc difpurauimus,ncc quidquamampliusrcmanet, quod ad finicndum hanc curfus tradtationempcrcincat, ^icipræfit t filtns. Cup. I IX. ALTVM inrcr vchcmcntcscxcrcitationes, quacexrobuftaatquc cdcri componuntur,collocandum iudicauit Galcnus,&: pracfcrtim illum, qui (inc ulla intcrmiffionc iugitcrcontinuatur; qua dc rcipfum calorcm natiuumaugcrc,&: cocoqucndiscibis, crudisuc humoribusconferre apud omnes pcfpcctum cft,licctpoftca capiti,arqucpc6tori noccre 2^4 re cx eo conftet;quod in huiufcemodi cxercitationibusalrerum ve D hemenrcrconcuatur, alierumin inclinationibus, atquedor/iin. flexionibus comprimitur, et ex comprcfflonibus mox uafa ram pedoris, quam pulmonis franguntur: ut eueniffe interdum nairat rMeth.a Gaknus, Hocprætcn afalrui communeincft,utgrauidasmulieIn prin.dc rcs abortiri facillime faciatrncqiic iftud ab Hippocratc folum,cetc '"'•^'""'•risq.vetuftilftmisaudoribus^ubiqueconfirmaxum cft;verum etiam ipfa rerum pareiis,optiraaq. magiftra natura nos vberrime edocuit, nimirum quac capreas,& cctcra brutorum gencra faJtantia firma'^|J^"Tuentisquibufdam ut indicrat GaJenus, muniu t, ne ligamenta, partium. quibusfoctus in utcro condnctur, d iim illafaltarccoguntur,faciliter difrumpercntur j quod munimen cum humani generis foeminis ncquaquam conceHbrit, opinor cam co confilio id efTccifle,ut cognolcGrenthomines,dum nmlicrcsin uterogcrunt,quaflibetfaI E tandi occafiones ipfiseffugicdas eflc. Multac funt faltus fpecies,qua rumduas OribafiusAntyllum fecutusnominauit, exfilitionem uidelicet,atquc faltum ita propric uocatum.dc cxfilitione,quæ quodammodocuriuiadlimilatur, hanc fcntcnriam tulit,illam diuturnis capiris raorbis accommodari,fhoracem adiuuare,cum inflcxionibus ualcntibus careat \ materiam,quæ ad partes fupcriores rapi-tur,ad inferiorareclinare, cruribusimbccillis, fcfenon alcnribus, excarnibiis,ftupidis,atque trcmulispræfidiuraafrerre.hanc eriani ineij^iiitaintelkxiflcopinor Suetonium,ubi Auguftum ambularefolitum, "^" ka,utin exrrcmisfpatijs fubfultim decurreret,fcribit, quafi fic infirmitati coxendicum femoris, et cruris /iniftri, necnon ucficæ calculis,quibusafflidabarur/acpeoccuTreret* De faltu ucroproprie (kappcllato dixit,cummatcriaminfræxa(fliusdeduccrc,fed F quia thoraccm nimis, et uiolcntia motus, et magnis inflexionibus coneutit, ciusafrcdionibusminime conucnire; ucrumtamcn, &: nd motum, et ad adlrioncs promptum corpus ualdc rcddcre ; quod Li.i.c.ii. fi ad natcs ( thciatiir faltus,qualem Lacænarum mulicrum fuifle iam diximubvcaputjCxeiuCdem Antyllifcntcnria,peculiariterpurIi. T.cur. aat,&: pur2,andb ficcat. atquc dc hoc mcntioncm fcciflc Arctacum clir.c. I. o r 1 puto, ubimuctcrccapins dolorclaltum, et fimTrcttAvTou cc;wA«riy laudauit, licut, &: asomncs,atq. ncruos,uaIidillinic inccndi confcfliis cfi.qua i\aione cfHcitur ^utafTatin; corOymna/lica. S pus 2j6 L pus calcfliccrchacc excrcitatio iclonca/ir,&: pndcrtim dorfi m, quod maximc iniadtandis haircribiisfarisfaccre uidciur;practcrca canicm crcar; priuatim ucro fupcriorcs parrcsab ilia cxcrceri mc^.^tiKva. ^^^^iiic mandauir Galcnusicuius rarioncantc ipfum Areræushucap.14. iufccmodi cxcrcirarionc in antiquo capiris dolorc,qui paullatim finiatur,ufuprobauir,ucluri ctiamin cocliacis&: ucrriginofis . Sccl Oribafuis Antylli aucloriratc humcros ipfam cxercirarc,fl:omachoquc,qucm diffluxio infcrtar, quiq. imbccillus cft, &: in quo cibus acclcit,fiuc cumhiborc concoquirur,accommodari fcribit^Iau Li.j.chr. darin arthriricis Cochus Aurchanus,urprimo manibus ccra cmol licndadcrur,aur manipuh tcncanrur,quos palacttriræhalrcrasappclianr,tum primo ccrci,fiuciignci cum paruoplumboinrcrclufo moucndi porriganrur, dcindc grauiorcspro modo profcdus: Ga^.^tnen. lcnus cuidam, qui mordax, praccalidumquc fcmcn inrcr cmirtenva.c.14. dumfcntirc non ranrum fe,fcd criam muiicrcSjCi mquibusrcmha bcrct,rcfercbat, inter cetcra auxilia,fcfc haltcribus excrcerct,fuaK.p. cult. fir: quem poftca fccutus Aicxandcr Trallianusin priapifmo curando huiulcemodi cxcrcirationcm commcndauit,quod animaducrterct ipfam non modo ad rcrundcndum, infirmandum.quc fcirxn, ucrumctiam ad matcriamin diucrfum rrahcndam,fpiritu5q. flatudc comp. I^ntos digcrcndos conduccrc.fimilitcr qucquc Galen.in ulccrum me.pcrge crurum curarionc,nili quid aliud impcdiar,haltcribus pcradam ntn.c2,x. cxcrcitationcmprobauit,proptercaquod fic impcditur, quo miepi. cg. humores viccribus noxijs ad parrcs infcriorcs delabanrur.ldcm eriam,ubi purgatio,aur phicbotomia rcquirirur, ncc eas æras, aut ægrotantis uoiunras pcrmirtir jlocoipfarum fupplcrc iudicauir . Verum enim uero,ncq. capiri,ncq. thoraci fimiicin cxercitirioncm congrucrc uilus affirmarer,quorum aitcrum nimis, arq. inacqualiter agitatur,aircrius autem uafi,nc ob maximam,qua brachia urunrur,uimaIiquo pado labcla(ftcntur, pcricuium imminer. Quain rem fortaffe colidcrans Marriaiis,fo{rionem,quam Galenus,&:exercirarioncm iimul,&: opus fccit,ficur fupra oftcndimu6,huic excrcira tioni propofuir fub hifcc ucrfi bus. lib. X4. Qlfi^ percurjt flulto fortes hattere lacerti i Exercct nicl us uinca foffa vros, Huiuscumfccundolibro rria fcccrimus gcnera,Primum caomnia pracftarc crcditur, quæ iam cnarrauimus : Aitcrum ucro parttculari quadam facultarc crura,neruosq. confirmare35 cuin tamcn Uco coruin apiid alios nndulac plunv bcac,tcrrcacuc,ipiid ahosiarcrcs ac lapidcs jipc /phacrici,6c i;raucsvfurpcnrur,uihiltiguraillarcfcrtad uariaiid )s cdcftus,ctficicdumuc, nc cadciu faculras ram in ufu nolb-(Tum, CjUam in prifcoru inucniariir,co mai:isquod haud fciusqui h.odic fcfc ocrccnrin la pidibus,ucl mallulisproijcicndis, brachia,d )rfu:n, omiu fq. fupcriorcsparicsmoucnr^coniorqucnriicac f;u ichanranriqin halrcru excrjitarorcs. ur hac una rarionc omncscrtc dus a nobis fupra cxpo :n iu)ftr:s criam cxcrcitationibus cxpcctari dcbcanc. ^ Dcdtfci:, atquc tACtilationts cjfcciil us. C^p. X. ^yr^ quamuis apud mcdicinac probaros auch rc5, y \ P^u^Ji^ omnino mcntioncm tac^tmi inucniam,ob idq. W fl forralTch^cusiftc dimirti pollularct i quoniam tau:cna (ialcnoprodirumfuir, diici iachim, ncdum cxcrcitationcm apud anriquos cxftirilfc, in jymnafijfquc ric ri T(;]iram, ucrumcriam inrcr uchcmcntcs cxcrcitarioncs haud poflrcmumlo* cumobrinuillc, arquc hodic quoq. apud mulras narioncs in iifum excrccndorum corporum ucnirc, proindc ilccis ( utaiunr) pcdi* bus practcrirc iUum omnino nolui . Quo circa in priinis fcicnduni erit, hanc cxcrcitationcm, modoin ccrcrisnon dclinquarur,accomraodacccalclhccre, &:proptcrcah-igidis corponbus,arquc illis, quibus ucloccs excrcitationcs ncganrur, pcrfci^tc conucnirc, C nccnonimbccillos, ^ infcrioribus mcmbrisinualidos modcrntc corroborarc. cum ctcnim magni, atquc vchcmcnrcs obnixus in 16gius difcum proijcicndo rcquiranrur, fir ur uch.cmcnria motus, ac mufculoruminrcnfioncartus ma^is folidcfcant, 6c abcxcrcmcntis purgcnrur . cuius purgarionis mcriro confuluir quandoquc Ga^'^P' lcnus,uf, ii quando purgario, Sc phlcbotoniia rcqui rcrcrur, ncc ipiph! facaliquibus impcdimcnrisadhibcripofscnr, earumuiccpcr difcum IdCtj, cxcrcirario admittcrcrur, quac nimirum id pracllarcr, quod in plilcboromia, 6c mcdicamcnrorum purgationc, cxoptarcrur: pcculiarircr autcmcxcrciratio iila brachia, lumbos,ac dcniquc uniucrfum dorfum corroborarc idonca cll, quac fciliccrpar tcsin ipfo maximcoinnium agiranrur; in vcrriginofis quoqucab Arcracocommcndarur. AI)illisucro magnopcrc cuirari dcbcr, quicuinqucautrcncs, aut choraccin inalc aHcCtoshabcnr mamil2 li liferuidiores, atqueflaccidioresredditiincredibilcquandam difD lolutionemcontrahunt; huiusinterna aliquauafa, uttcftatumfecitGalenus, nonraro difiumpuntur . Etnequiscredat,candcm cxercitationcm cxftitiflchaltcrum,atquc difci, fciendumprætcr li.i.c. t i. u^riam utriulque figuram iam a nobis in fuperioribus libris dccla' ' ratam, hoc quoque difcrimen habuiflre,quodhaltercsuarijs contordonibusaltiusagcbantur, difcusuero, etfiinaltum proijcerctur, tamenlongitudofpatijiadationeperadti potiusmetiebatureo fcrmc pado, quo hac tcmpcftatc faciunt, qui fcfc in latcribus oblongis proijcicndis cxerccnt, in quibus ijdem effcaus uidentur, qui ohm in difcobolis uifcbatur . laculatio porro ficuti a difci iadlu par rum in ipfa proicdtione difTerrc uidetur, ita quoque uires fimilcs,&: adnocendum, &adiuuandumobtincrecredendum eft. quofit,ut pauca dc hac cxcrcitatione nobis diccnda rclinquantur . lllud miE nimefilcntio obuolui debcrefcntio, uctcres fcilicct nonfincmyftcrio Acfculapium,atque Apollincm, ambos mcdicinac audlores, ambos fanitatis magiftros arti iacujadi tamquam Deos præfecifse; nimirum hac fcntcntia innuentcs,huiufcemodi exercitationem bo næ ualctudinis confcruationi, bonique habitus acquifitioni ftrenuamopcmaflcrre.cuius exercitationispoftquam plurcs fpecies cffccimus, alias a iaculorum, fiue fagittarum uarietate defumptas, alias ab arcubus fcu baliftis,quibus illæ emittuntur, acccptas, omncscandcm planc facultatem polfidere autumo, nifi quod cos. qui in fcrrcis uocatis palis iaciendis cxercentur,hoc admonitos uchm,ut magnam curam adhibeant ; quoniam fæpe numcro peritonacumdifrumpi,inteftinaqucinfcrotum defcendcre,&:per confequcnshcrniasin fimihbus excrcitationibus generari experientia F compertumcft: cumquein emittendo maximauis, arqucmtenfa fpiruusrctentioadhibcatur, pedori adftrido, atqueinfirmo huiufccmodi iaculationem aduerlari puto.Non eft quoq. illud igno. M randum,quodMarcusTulIiusmcmoriæprodidit,PhiIoætem, lo ScS. dum cruciarctur, non fercndis doloribus propagafse tamen uitam aucupiofagittarumiaculationefaiiOt Dc Df deanjhuUtiomim qualitatiLus. [^ap. X L I vHumcft cxcrcirarionisgcniis, quod illis, e]ui fanirati opcramnauanr,maximcquacrcndum, arquc cognofccndum (it,quodq. ceccris quibufcumquc frcqucnrius a cunctis fcrc hominihus, omniq. rcmpoi e cxcrccarur, un-im proculdubio dcambulationcm cfsc ncmo ncgabir : fiquidc nulluscll,iiuc pucr, (iucadultus, fiuc fcrcx, qiii non modocam pracftantiirimam, fcd folam cxcrci tarioncm non crcdat . pauci ramcn rcpcnunrur, qui ucl rarionc,ucl longo vfu, quibusqiiacquc corpons parribus,&: prolic^u noccar, pcrfc(^tc animaducrttrint :id quod cucnifsc cxillimo, cum ob uarias iHius fpcci cs, rum ob poftcriorum hominumincuriam, qui &c in huiufccmodi rcbus, &: in B quampluribusahjs anriquioribus ncghgcntius, atquc ofcirantius fcfc gc fscrunt . Quamobrcm opcracprctium faclurum mc cfsc fpero, ii, dcambulationum fpccics praccipu as rcccnfcns, confcqucntcr quid unaquacquc tam boni,quam ma!i cfticcrc valcar,dcnionItraucro. fcd duoantc cctcraab omnibus coniidcrari cupio. Primumciuodfacpcmucnirccft apudau(5torcsmcdiunac (jraccos, &: Latinos, praccipi fimul ambulationcs, &c cxcrcitationcs ; quafi illac ab his fcpararacncc cxcrcitationcs linr.quorum fcnrcntias fic intcrprcrari uolo,ut lempcr,dum iplas lciungunt, fub nominccxcrcitationum, cas, quac propric ita appcllantur, fignificcnr; cum ambulationes.communitcr, dc non propric c:ula!ioi1c cxcrccrcrur, i.chronlc. primo tarda, dchinc mcdio tcmporc fortiori, arq. paullo crcdiori at,3/itisnocct ^qu.-^ndoquidcm ol) mmias dcambuKitioncs non raifchiadicosdolorcs 6c podagram gcncrari, fcribir Galcnus ;Hcii:i cx adacrfo icmiJfa n arthrincis, (S^p ^d.^t^n^^S &: ulccribus ini> 4 ternis conucnirc,mfinuarunt Coeliusj et Celfus, ubi deambulatio] nc molli rtramine,coæquato folo pera£tam iplis commendauit.debcnt cnim(vt fcriptu cft a Tralliano)qui podagra, et articuloru affedionibusturbantur^fitTf/fiyc, kottov Trohhoti moueri, potilfimumqucante,&:non poit cibos. Nam lallitudo hismaximcaduerfatur,utquac articulosplusiufto calcfaciat,&:inflammct,ipfiq. aliam rurfus matcriam cx longinquioribus particulis ad fe attrahe tes,arripicntcsq. fluxibus iugitcr caufllim fuggcrant. Multa deambulario lccundum Antylli fcntcntiani iuuat cos,qui caput,ucl thoracem male afTe^ttum habcnt, &: a quibus infcrnac corporis partcs non nutriuntur,quiue in excrcirationibus uehcmctiori motu egct; pauca ucro prodcll ijs, qui poll exercitationcs non lauantur, quibusacibo dcambuIationibusopuscfl^jUt isin fundum ftomachi dekendatj&quibus grauicasin corporcfcntitur. Longa,&:reda ambuIatiominorcm,quambrcuis, molcftiam parit, capiti prodcft :ut Oribarius j^^j^ immcrito Coclius,atquc Cornclius Celfus cpilcpticis curandis Jii>^.i.ca.4. ^^ni ex vlu cflc' uidicauenntiat nmiiscxlugit humiditates,atquc exCeU b^^ ficcat.ob idq. mcrito accufandus cft Thcmifon, qui atrophia labochronic/7 rantes duodecim ftadiorum fpatiu grcflfu conficerc fuadcbat. Longa,5d concitata fingultui comprimendo,fccundum Actij fcntcntia, rtrcnuc prodcfl:brcuis ficuti magis fatigar, cum ( vt diccbat Ariftoteles ) cx motu, &: quictc intcr rcflectcndum orra conftans diucrfitatis illius opcra laborem inferat,ita quoque reucrfionibus illis c6-. tinuis caput labcfadbt : &: proptcrca ab codem Coelio non fine rationc cpilcpticis damnatur;cuiusrci cauflliambulatio quoq. circu Jaris mcrito improbanda eltjUt pote quæ caput ucrtiginofum redProbl.38. dar,&: oculis uehemctcr noccat.Nam CafTuis mcdicus antiquus in liDelloproblcmatri,qucm graccalingua confcripfit, caulfam indagans, ob qua motus rcfto tramitc fafti ucrtiginc non generent, fcd folum circuIarcs,ob id accidcrc dicit,quia motus rccti minimc difllationem matcriæ impediunt, circularcsucroea ficri nonfinunt, quod ær vchcmctius illifus prohibcat;ad hacc matcriac intus agiiantur,qucmadmodii,8^foris.ubicircumlatæ,neque forasprodire ualcntcs motu in capitc uertiginofum cfiiciut.ficuti namquc iilerici omncs externos fapores amaros fcntiunt, &: qui fuflufioncs in ocu lis patiuntur,quofcumquc colorcs rubcus iudicanr,fimilitcr in circularibus motibus,cu in oculis humorcs in orbcm aganrur, omma cxtcrna circumfcrri uidentur,ficque vcrriginofa paflio oboritur.Ex ambulationibus,quac cum intcnfionc crurum calcibus incumbcndofiunt,qucmadmodumfcriptum cftab Antyllo, capiti malc aftecto conucniunt,itcmquc thoraci humidiori,utf ro conuuIfo,purgalioni lupprcflac, parribus infcrnis ab aHmcnto fruclum non capicn tibus,6c oninino quibusmatcria furfum rcpit. Quac ucrocxtrcmis digitisobcuntur,easobfcruatumfuit,propric lippicntibus, &:aluo fupprcflac utilcs clTc.Quac vcro totis pcdibus riunt, cum fub aliqua fcmpcr pracdivitarum diffcrentiarum comprchcndanrur, ipfarum cciamfaculrarcsobtincrcrationi confcntancum dl, Arq.hacc dc fpccicbusabipfo motu dcfumptis. Iterum dc deambuUtiomm qUAlitdtihus.. * NTER dcambulationumfpccies,quac a loco accipiun tur,illac,quæ fiunt in montibus, aur adfccndcndo,aut dcfccndcndo excrccnt.li fianr adfccndcndo,ualdc profccto uniucrfum corpus fatigat ur,quoniam rcfcrctc Ga ^^^^y* icno ar rollunrur co motus gcncrc,&: pcrindc ac onus quoddam fufiinenrur ab i)s,quacprnnum moucntur inftrumcnris,rcliquacorporismcmbrauniucrfa. fcribu Ariitotcl. ambulationcs pcr accli- » ra^tfc uia,tamctfiCnt hcbctiorcsmotus,magisfudorcmprouocarc,quam^^°^ ^ pcrdccliuia,ncc non fpiritum pro(illcrc;quoniam graui cuiquc, ut deorfum lcrri fccundum naturam cll, fic fcrri (urlum conti a natu- ram,itaq. caloris narura,quac nollra prouchit corpora, ut nihil pcr dccliuelaborat,li(- pcr accliucprcfsaoncrc nirirur,acriusq. ob ciuf modi motumincakfcjt, &: fudorcm mouct, &: fpiritum proliltit, cum ctiamcorporisuariusuitlcxusnon nihil atfcrrc caullacpofTit, Q utdircda fpirandireciprocatioaufcratur. qua rationc fccundum Antylli fentcnriam ralis ambulatio ctiam thoraci, qui fpirirum cxi- guum ducar,&: pracfcrtim antc cibum confcrt, maiorumq. cxcrci- tationum uice nonnumquam fupplcr.Lcgitur dc Dcmollhcnccoa fueuiffe iplum adfccndcndo dcambularcarqucintcrambuhldum orarioncspr()nunciarc,qu() lic productac fpirirus c(MUcntioni,qua oratorcs in diccndo opus habcnt^aduclccrct. Vcrimi cnmi ucro i:c nibusinfirmis eadcm ualdc aducrfatur;proptcrca quod diccbat Ariflotclcs,duadfccndimus,non corpus lurfum iaCtarc, diltcntio- ncmquc corporis,&: gcnuum moucrc; ad hacc gcnua ipfa, quac fc- cundum naturam in antcriorcm parrcm llcdi nata lunt,quali coii- tra narura f kfti rctro,ob idq. magnopcrc dolcrc atq. laborarc. Ex altcra partcambulatiodccliuis,quacdcfccdcndoobirur,magisak tcraa cnpirc adinfcriorcs parrcsirahir; atfcmora inualida nc') parii lacdil,*nimirum c^uac, ex ciuldcm Ariaorclis fcntcntia in hoc mo- ^;P|J«^C' tu 2«4 JL i b 2 K tti contra Naturac inclinationcm ante aguntur, quafiq. moucndo D crura uniuerficorporispondus fullincnt, &: proinde uchcmcnrcr fatigantur, Ambularioncs,quac tum adfccndendo,tum dcfccndcn lib.i.ca.i. do pcraguntuf,a Cornclio Celfo comprobanrur,eo quod ita uarie* tare quadam corpus uniucrfum moueatur ;ni/i tamcnid pcrquam imbecillum fir.Quac ucro fiunr inuijsplanis, &:acqualibuscx fcn- tenria Ariftotelisob motus,quamferuant ( utfic dicam) uniformi- tatem^,magis corpuslaboreafficiunt,&: obnaturac,quam tcnent fimilitudincm,ciriuslaborcsfiniunr,necnonad fpiritum,&: ad cor- pus acqualitcr conltiruendum magis accommodatac funr, quam fa (Sæ in acqualibus . Ar dcambularioncs pcr inacqualcs uias fadac non modo minus fatiganriucrum criam utiles ijs funr, qui cito dc- ambulando defiitigantur. arquc hoc Anryllus inrclhgcbat, cum ambtilationcs,quæ in vijs pcragu:Ur,minori cumlaborc fieri fcri^ ^ Oribaflus P^cas,quasin locis deambularionibus dicatisobimus.Hoc Jococitat. id^n^ iilnuereuoluit AcumGnusmedicusapud Platoncmin Phæ- dro,ubi ambularioncm in Vijs, ambularioni in curfibus præpo- fuir, dcquofupra larius difputauimusjieque aliud intcllcxir Ifcho In Occo. ixiachusapud Xcnophonrem,quandoambularionem, qua ipfe ia agrumferuum cum equofcquebarur,ambuhirioni in Xyftisfadæ: præruiir. in his ramcn difterniinandis Ualde rcfcrr, numquid in praris, inlocisafpchs, an in arenofisefficianrur ; quoniam fi fiant in pratis,bIandifiima€proculdubiofunt,nihiI omnirto knfus tcn- tanr i nihilcommoucnr, ar eas caputimplcrc, tum proptcr odoriy luauitarem, rum proprcr humiditatcm, quac illis inhacrct, auctor cft Anryllus.Fadac in locis afpcris caput rcplcnt . Quando aurem inarcna,&: maxime profunda (quod genus cft vchemcnrilTimæ ^ t^crciratioiu*s ) aguntur, magna cfficacia pollent ad omnes corpo- Inviu Au risparres firmandas,corroborandasque,cuius gratia Auguftus dum guih.c 80 coxendice,&:femore, &:crurefinilh"o, non fatis bcne ualcrct,im moficpe ca parte claudicarcr^hac dcambularione confirmabarur. fic enim locum Suetonij inrcrprcrari dcbcrc ccnfco. ubi cum are- narum,&: arundinum rcmcdio ufum rradir,arcnarum quidcm runi ad deficcandasfluxionesjtum ad confirmadam,ur iudicauijcoxam, arundinum ad contincndum,&: claudicationem impcdicndum. quodquomodoficri debcr, cdocuir Cato lib.dc rcruft. cap. 160. Ad maicriam fubmdc,e fupcrnis ad infcrnas parrcs dcduccndum, camque difTipandam potcnrilfimæ cxliftunt, &: idco malc fcrfiin a li.i.chro. Coelioraxatur Erafiftratus,quod dcambulatiohcin arcnofis locis wp.t. paralytieosexercendosfuadiiret.fub porricu fattac ambulationcs, aut. 2. s.c^ fcrrim fi uiridia adiint, quod ralcs magnam fakibritarcm habcant : &:primum oculorum, quod cx uiridibusfubrihs, i^nc cxrcnuatus acr, proprcr morioncm corporis mflucns, pcrhmar Ipccicm, ^ ita autcrcns cxocuHs humorcm cra(Tum,acicm tcnucm, &: acutam fpccicm ichnquit . Practcrca cum corpus in ambularionc calcfcar, humorcmcx mcmbris acr cxuucndo imminuir plcniratcs, cxtcnuatquc dillipando, quod plus incll, quam corpus porc(Hullincrccxquo, ut inhypacthrislocisabacrc humorcscxcorporibus cxugcrcnrur molc(iiorcs,qucmadmodumcx rcrra pcrnchulas vidcnrurrconfuluitarchircCK^rumprinccpsampItllima, &:ornariflima fub dio, hypacrhrifquc ambulando collocari in ciuitaribus acdihcia. Vcrumcnim ucro apud mcdicos fubdialcs hac dcambuC lationcs plunmas diflcrcntias obrinucrunr. nam quando propc mare hunt, &c liccandi, Sc craifos liumorcs attcnuandi uim haOrihaflus bcnt; quandocirca flumina, et ftagna, humcdarc poffunt: fcd utraqucnoccnt, U pracfcrtmi llaizna, idcoquc non rcmcrc has omncsin Hpilcpricis damnauir Arciæus,quando in mcditcrrancis partihus a^untur, qucmadmodum(upradictis(unrpracltantiorcs, ira quoquc tac^is circamarc ccdunt. quando in rorchumcdtanr no finc damno:fcd liin locisauium uolaru Frcqucnrarisambulcs,c:li^ cacifnmusismoruscrir ad cuocandum pcr halirum, adlcuandum, haud fccus,arquc li in fublimibus locis ambulcs . (iuac dcindcfub Dioin locisucntominuspcrflatisambulatio c thcirur,valcrfccundum Anrylli fcntcnriam ad cuocandumpcr halitum, 6,^ ad cxcrcmcnra difpcr^^cnda :itcmqucrcmirtir,ncc fcrir. hanc Actiusincohcisdoloribus a trigida caufla ortiscommcndauir, fcd quac 2^^humqucdi(Tolurum roborat.atque dehacfor^rafsc lo€ip,z. ' quebaturCoclius Aurclianus, dum ftomachicis deambularioncs fub Dio promodo viriumadhibendasconfulcbat, fi fub Auftro, caput rcplet.fenfuum inflrumenta hcberar,a!uum moJlir,atque addifloJuendum ualctrfi 7Gphyrisfpirantibus,talisambuIarioccrcris omnibus, quac in uento funr,prærtar: non enim habctinfuauirares boreac, quin potius manfucrudo fimul, arque iucunditasfunt coniundæ. Quac in Apeliote fir, mala cft, &: fciir, atque irafchabentambulationcsfuL dialesinuerisperadacSequuntur, libi 1^>"el inumbrarquainre audoresdiucrfafcntire repcrio.Cornclius Cclfus, fi capur fcrar, meliorcm ambulationem in fole, quam in vmbra cfsc dixir, &: mcliorcm in umbra, qua E parietes,aur uiridariacfficiunr,quamquærea:ofubcft. Exalrera parre Oribafius au^florirare Anryili dudusimprobat illam, ueluri quæ cffundar, capur implear, arquc inæqualirares gignat . quam fententiamnon auderem alteri pracponere, nifi&rario, &:uere. rummedicorum, praclcrtimq. Hippocratis, &: Galeni audorirates tcftatum fecifscnr, folis radios humanis capitibus maximas noxas infcrre. ncmpc quac fi calida,&: humida, magis calcfiant &c cliquenrur ; fi ficca, ficciora rcddanrur, &: dcmum quæcumque fint, femper offcndanrur, modo vcl ruftici, ucl alij fub fole viuere afsuemorb'^Qi^^^P^obecognofcensHippocrarcsfiucPolybusad euiranda capiris dcrrimenra non quamliber dcambulationem, fcd folaminfrigore, aur in fole peradam uerat. Atqui nonillud tacendumefseduco,fempcrcligi porius debere infolc ambulare, F quam ftare, 8c ambulare uelociter, quam fegniter, ficuri præceprumfuirabHippocrateinlibro defalubri diæra. cuiusreihac Prob" quod cumftamus, calor pcrmanet, ficquc ampliuscalefacir. corpuserenimnoftrum(diccbaris)uapo^ rcmqucndamrepidumdcfe conrinuo mirtit, qui proximum,&: ambientemæremtcpefacit, undc ær pofteaillc corpus calidius rcddit, cum aurcm quis in folc mouerur, flatus excirarur, qui refrigerare nospotcft,quandomorusquifqucfrigidushabetur. Ambulandum potius in vmbra(diccbar Cclfus) quam paricrcs,aur uiridaria cfficiunr, quam quæ rcdo fubcft : quoniam ær aflidua quadam,&:bIandauenriIarionefaIiibriorrcdditur. qui ær quoniam interdum ab arboribus noxijs infici, &: corpora deinde coraminare confueuir,ut dc nucc arbore, arq. Narcifso mcmoriæ prodidit A PlutarchuSjproptcrca hiiiufccmodi umhrasintcrdc.imbulandum s Sympo. fugcrc cxpcdict . Ncquc ifcm curam adhibcrc minorcm oportcr, vtarb()rcsrorcfui]u(;ic vitcntiir,qiioniam, fi pcr ipfas fi-cqHcnrcr qi.ib ambiilct,mcmbra tacilitcr lcpra rcnranrur,atqiichumscam Laitus apud Phirarchum in nat. quacft. attuh t rationcm, quod ros corporibus illabcns ipfa mordcar, arquc cxcorict, ucl potius^quod arorc colliquatis arborum iupcrhcicbusafpcr^oquacdam noxia inde corporibus aflufa inhacrcat,quac parrcs cxtimas ipforum mor dcat, arquc difcindat : ctcnim rori uim colliquatiuam (mKriKovy non J^kKriKQf, &c rc ipfa, &: ucrufto codicc pcrmorus lcgcndum puto) incilc pcrfpcctum faris illud tacir, quod ros bibuus gracilitatcminducit, ut mulicrcscac manifefto dcclarant, quacalioquin obcfac dum tcnuibusucftimcntis,autlancis rori collii^cndo opcB ram nauanr, co in cxcrcitio carncs confumunt . In oinnibus aurcm fcrcprodcritfubijsumbris ambularc, quas cpilcpricis probauit Arctacus vertiginofis, ncmpc /ub arboribus myrro, aur lauro, aut intcracrcsC^ bcnc olcntcs hcrbas calamcnrum,pulcizium,thymum, mentam, maximc quidcm agrcftcs, 6c (pontc nafc cnrcs : lin harumcopiadclidcrcrur,intcrhumanocuItu procrcaras.Hftin hac quoquenon cxiguumdilcrimcn rcfpcctu cadi, quod, dum fcrc* num cft, tunc ambulatio lcuar, pcr halirum cuocar, arrcnuar, bo— namrcfpirationem,i^moucndi faciliratcm parat : dum ucronubibusobtcgitur, grauiratcmaflcTt, pcr halitumnon euocat, tandcmquc caput implct.Dc ambulationibus facicdis,ucl hycmc,ucl acftarc,ucl alio rcmporc,di\imus in libro quarto, ubi tcn^^pus cxcrCjp.n. citationibus accommodarum dc/iniuimus : fupcreft ranrum illud Q adncvftcrc, ambulationcs quaslibcr anrc cibLm ficri dcbcrc, ruin manc, rum ucfpcrc:quandoquidcm matutina aluum cmollir,licrcdimus Antyllo/cgniticm afomnocontr.iotam dilfoluir, fpirirufquc attenuat, caiorem augcr, &c appcti tum excitar : quinimmo Hippoi.dcdiac crates hanc candcm humidioribus tcmpcramcnris cc)ucniiv, quod humorisrranlicuscxinaiiiaiuur, ncquc animac mca*tus occludantur,fcribit:licut,&attcnuarc,ncc non partcscirca captitlcucs,agilcs,ac promptas reddcrc, 6c aluum tolucre conlirmat, ucfpcrtina ucro ad fomnum homincm pracparar, acinflarioncs difpcrgir, caput ramcndcbilcmale afficit,ob idqiic iurc accufarur Scrapion a Coelio,quod cpilcpricos impcraret circa ucfperam amhi larc, ac jjj, ^ ^^^^ rurfum conquiefccrc, &: dcambularioncm rcpcrcre. Pollcibum cap. 4. diximus cxiguam ambularioncm afl^ucris conucnirc, arque illis, 4juibus non fmc laborc in fundum ucntriculi dcfcendit cibus : illis paritcr, i6t i E R ^ ^ warirer, quibuscapiTtrepIcrum cft, lcmam poft cibnm dcamhuD cV.l*! dc ^commcnaauit, Galcnus, fccutus fcrrafsc in hoc Arc«op.mcel. tacum, qui in uctufto capitis dolorc candcm in ufu habcndam uoluit.quamquam lccundo dccomp.mcd.ubi dc dolorccapiris €xcbrictatcagit,ucJir, ncqucmuhum comcdcndum,ncqucftatim a cibo dcambulandum . In rchquis quo modo conucniar,non uidco, 6c proptcrea Dioclcm medicum anriquiflimum, &: cLiriflimumfatismirari n6pofsum,quod phthificos dcambularionc pofl Ccl.lib.i.prandiaucxandoscfscuoJucnt, quac licuti concoAionem ciboruminrcrrurbat, ita muJtosadcaputuaporcscftcrri, arqucibi in humidirarcm conucrfos ad pcc^tus, &: puJmoncm difflucrcliicir, quonihiJphthilicis conringcrcpcrniciofiusporcft: comagis,quod i.dcdiaf.Iicct I-lippocratcshuiufccmodi dcambu/ationcs in humidioribus tcmpcraturis approbct : aluum ramcn, corpus, &c ucntrcm liccarc E confitctur: nciIlaomniainmcdiumadducam, quacdchuiulccgcncrisambuJatione fcripta funt in Jibrodc infomnijs Hippocraii adfcripto . qui Jiber cum muJra fupcrftitiofLi conrincar, forfan aliquis ijs > quac ibi dc ambularionc poft prandium in pJuribus commendata dicunrur,paucam fidcm adliibcar . Hadtcnus dc ambuJa^ tionc, iam cetcra aggrediamur. ^uos ereClum slare ejfefius partat. 'i^O S, qui pcdibus crcvfti permancnt, cxcrccri, quonum alniiidc in fupcriorilnis dcmonftraui mu5,hanc rcm amplius in dilputarioncm rcuocarc prorfus ridiculum forcr. proinde, quot modis luicc cxcrcitatio uarictur,quosq,quacquc pariat ctfcdus, dcclarabo . Quod ctcnim ' hacc cxcrciratiopriuatim dorlipartcsalTiciat, Aucrrocs, intcr Arabas non inhmuSjfarisapcr6 collca. rcdixit . Qiii igirurtllud dcbilca narura, ucl cafulbrriori funt,"P-*fummo ftudio id cxcrcitationis jzcnus cuirarc dcbcntjicmpc quod ( ut (acpius dixinnis ) maiorcm, ciuam ipfa ambulatio^dcf-uigarioncm pariat : quibus etiam in rcnibus inflammatio, ud ulccra orta funr, ncftcnt, magnopcrc caucndum cflc, ccnfuit Rufus Ephcfius. Lidc paf. dtbcntquoq. huiufccmodi cNcrcitationcm aucrfari,quos ucl hcrniac labor lolIicitat,uel i n cruri bus, aut fcroto, uarices dilatantur, ucl ulccra in infcrioribus part ibus orta funt, aut qualibet de cauffaoriunrur,quam fcntcnriam nilimcdicorumauctoritasconfirmaffetiucram tamcn cHc ipfa ratio pcrfuadcrctrquac fcilicctoftcndir, in ftantibus graucs humorcs citra difticulratcm prorucrc,cosq. mo ^ do hcrnias,modouariccs,modo ulccra gencrarc,foucre,&: augcrc: nam quod varices gcncrcntur,ctiam luucnalis pocta cognouit,qui Saty.^. cum quandam mulicrcmlanumrogantem dcamici victoria furura deridcrct,uolcnsfignificareob importunas mulicrupctitioncs haru(piccm,ficunctis !nfcrui(rcr,ftando,((icquifqueharulpcx proalijs rocabat I)cu)non parumlaboraturum,aifVaricofus fict harufpcx, Maruim quoquc fcmiu^ omncs,laboriofum uirucxftirillc,ob quod ^^"^-^ci* fi quis dicat, ei uari ces, quibus afilis.'tabaf ur, in ambobus crun bus ^*"' ortas ob nimios in llando laborcs, cum minus crraturum cxiltima rem. Vcrum cnim ucro,&: in hac cxcrcitationc non paucac diucrfirates rcpcriuntunproptcrca quod tcmpus, Iocus,atquc firus uarias quafi fpccies cfficcrc uidcntur. A tcmporc nafcuntur duac fpccies, quando aut antc cibum,aut a cil)o,quis ftando,is: vcl pauco tcporc, ucl multo cxcrcctur. A locofuinuntur diffcrcntiac^quoniam vcl in ' folc, i7o folc,uel In uml)ra,&: hac aut claura,aut aperta ftatur. A fitu dcmum D euariantur ftandigencra,quando uelunopede,uel ambobus,& uelijs totis,&:planis,uelextremitatibuseorum, calcibusfcilicet,&: fummisdigirisltamus. Ante cibumftare uentriculi cxcrementis inaniendisauxiliatur,afthmaticos,&difficiliterfpirantesadiuuat, ucntrem cmollicurinam prouocat, crura, &c pedes corroborat, &: fiquando deambulationi uacare non concedatur, illius uices fupplerepoteft. Vertiginofistamcn,&:c]uibusad fuperiora rapiuntur uapores, nullopadlioconducit, cum extalierCw1afta:ionefacilius caput afumispetaturrnamtantamad hoccrifiicicndum potcntiam Pctr>A fi^^il^^i^i^habct,utnonnulIi boues,&:cætcra animantia poncnfis (quodfcripfit Ariftotcles) minus homines tuffirc, minusquccatary.partic. rhisuexari crcdiderint.quoniam ipfis mininie crcdtisftatibus haud ita uaporcsnaturafurfumicndentesin eorum capita fcrri pofllint. E QiKi item ratione eo$ omncs damnare uehcmcnter foleo, qui,fi alto capite dormiant,minus a catarrhis fe vcxarum iri putant,cum po ' tius contrarium eueniat,vt fcihcct qui humiliori,&: fcre cctcris me bris æquali capitis fitu dormiunt, uel aliter iacent, minus a uaporibus capitc tentcnt,minusq. a capite ad pcvflus humorcs defluant. Quamuisfccusiudicadum fit,vbiquisvcntriculi in conficicndo cibum dcbilitate uexatur.Quoin cafu Pofidonius apud Actium magnopcre ftudendum efte iulfit, vt in dccumbendo caput altiori fitu contineatur, quo cibus magis in ventriculi fundo accommodctur, &: ob id nutrimcntum minori molcftia coquatur.Atquc hoc intclli gi debctdeijs, quimultum ftant:ftare etenim pauco tcmporc cxiguumquidprodcfl*e,nequcmultumobeffepotcft. Qui porro communi illo effato,Prandia poft flabis, indufti poft fumptos cibos ftaF r dclc61:antur,ij fcire debent,fi mediocri quodam rempore ftctur, defcenfui ci borum in uentriculi fundum id infigniter coopcrari,&: confcqucntcrilloruconcodionemperbelleadiuuarc, nec alioqui ullam cffatu dignam iæfionem afferre: uerum fi multo tcmpore ita qui5pcrmanfcrit,prætermolcftiam,quaob ciborum intcrdupondus,prætcrla(fitudinem,qua exlaborc afficitur,variasitcm offcnfioncs fubirc cogitur.Primo namque maior vaporum copia fuperio rem corporisrcgioncmimpctif,maiorhumorummuItitudoad infcriora praccipitat, atq. indc vlccra in cruribus,gonagras, &: poda gras gcncrat,cicindc thoraccm,atquc fpirationc vniucrfiim non parum Iabcfa&: totam mingendi athoncm uitiant, quando vidclicct crudi humorcs ex fimili fiti ad . J7I A cas partcs dcfcrutunrcncsq.&lumbi uchcmenterincalcfcunr>dcbilitdturq. ut non tcmcrc vidcatur pracccpiflcRufus Ephcfius, ne quis vlccribus rcnum Iaborans,ctiam fi morl^us inchnarc cocpiffcr, ftarct. Statio in vmbra (cmpcr aliquibus cx pracdidis difTcrctijs ad ncctitur,ut fit multa,vcl pauca.ucl a cibo,ucl ante cibum, et proindc qualicumquc adncxa rcpciiccjllius cflTcdus continuo cxprimct, modo umbrac ratione aliquid fccus non acccdar.hoc autcm dico, quia facpcnumcro umbra, vd cft locorum concluforum frigido^ rum, atq. humidorum; ucl noxiarum arboram, ucl alrcrius p"erniciofæ rei,quas omncs corpiis macularc, &: faniratcm dcftrucrc nemo ncgabit.c:actcrum de llantibus fub folc in hunc modum dcter minandum eflc, iudico, quod fcilicet Itare fub folc in æltarc fumg moperc calcfacir.immo fcnrcntia eft Ariftotelis, cum llamusin fo^f^ lenosmagisdcuri,quamdummvOucmur,ctlipcrfcmotus ipfc quo^quc calcfaccrcuaIcat,quodaIiasfuliuscxplK aunnus. Si iijiturita clt,rationi confentancum crticitur,iuuamcnrum infigncualdcfrigcfadis corporibus indc accedcrc,vcluti h\ dropicis,caccdicis, quibusidaCoclio,&();n iibusfcrcmcdici's laudatur. InickTicis Lib.j.ci iteincurandis tali infolationc vfum Archigcncm rcpcrio. ncinte^'v^^f' rimlilcntiopractcrmirranrur ca,quac apud Acrium cx Antylli fcn mcdTu* tcntia lcgu:ur,infolarioncfcilicctvarijsmodis anriquos vfosfuiflc, "P-'' alias cum unJlionc,aIias iinc unctionc,modo fcdcndo,modo iaccn do, modo Itando, inrcrdum ambulando, inrcrdum currcndo : dc ^ quibusomnibusinhunc modum dccretum elt, quod /i infolatio * adminiftrcrurnonpurgatoprius corporc,max:inum capirinocuC menrumaftcrr: undcfacpcnumcro mirari mihi conringit,quogcnio ductus Plinius maior,non modo purgato corporc,ucrum ctiam polUibuminacltarcfubfoIcmancrct, acdcindcinfngidalauare-rcpift tundchac ctcnimlocurosfuilfcmcdicinacaiictorcs arbirror,quan dodixcrunt,ab illacorporaplufquam par lirincalcfccrc,fcbrcs,atquc capitisdolorcsgignir Namliantcaquam corporafolicxponatur, opporrunc cxinanianrur, aut /inc unctionc, aut cum unctionc ricripotclt:hatcura unctioncm,capiri diuturna frigidirarclaboranti fuccurnt,quod illud durius,arquc impallibilius reddar, Sc ob idmcriroinEpilcpiiacuranda a Mcthouicis nonnulliscommcnCcciu.x. datur, modofit inlolatiomodcrata./icutitcm in ca in/aniacfpccie i:iuarccrcdirur,quacafrigidaintcmpcricorrum ducir:pracrcrca occultas difflarioncs augct, ludorrs clicit, carncm confcruat^pingucdincm tollir, ocdcmata oinnia, 6cpracfcrtiin hydropicadcprimit:ncquc tamcn iplu noxis fuiscarct, quandoquidcm mr)ra Cymn^flica. X quacuis 272 quæuis fiibfole bilcm augct,&: confcqucnter ijs, quibus calornacc^^apk. ^^^^ mordaxcft,valdeaduerfatur, ut a Galcno fcriptum cft,/pirilo. tumque crafliorcmjdenlioremue efficicns, afthma, &: orrhopncam i.^tu.va. exacerbat. Cactcrumftabfquc un^ftione infoIatioadhibcatur,in cactcriseofdem efredtusparit,nifi quod corpusexficcat magis.tanquampingui illoadufto,&fubindcmaiori nigrcdine fupcrficicm totaminficit, nccnon carncm inftar caurcrij cuiufdam dcnfasminuspcr infenfibilem rranfpirarioncm cxcrcmcnra diuaporari facit. Li I fcr i*arionc huiufcemodi infolationcm ad minucndam polyfarcap!^*^^ chiam ab Ærio laudaram ccnfco, Vcrumramcn duo hic animaducrfionc digna cfle cxiftimo, alrcrum, quod medicos, ubi fub fole moram probarunt, prærcgi pannis capira uoluifle opinor,quoniam,practcr Coelij audorirarcm,& ratio,&:cxpcricnriademonftranr,capita derc(5ia,fi foli cxponantur, ualdc ofTcndi, ncmpe quæ fupra modum calefa£la vaporcs a toro corporis ambitu ad fcfe attrahuntjficqiic omncm malorumiliadem, &:præ cæreris cararrhosibi gcncranr : quod minimc,ubicapira teguntur, euenire fua.partlc. fpicandum cft, proptcrca quod,utfcripfit Ariftotclcs, indura corrdccauf' Pf^l^4"nuda,cum ab illiusradijsminus fis ^i^rb. icrianrur.atquc hoc torum a Galcno fignificatum crcdo, ubi dixit, eos,qui nudi fub fole mancnr ^uniucrfum corpus calcfaccre, qui uero induti, caput folum • nam dcmonftratum cft a nobis libro tcrtiOjMaiorcsnoftros numquam ferc caput tcgcrcfolitos:nemire' murGalenum,dumindutosfcripfit fub folc, capitctantumualde incalcfccrc dixit. Alrcrumanimaducrfionc dignum cft,quod, ficuri fedenres, &:ftanrcs fub folc uchcmcnrius incalcfcerc, fiueporius deuri expeiientia conftat,quam ambulantcs,&: currcntesiparirer,& cæteras pracdiftas affcdiones, tam bonas,qua malas facilius recipiunt. Atque hæc vniucrfa a nobis dida dc ftantibus planis, ac totispedibus intclliganrur.ftarc namque calcibus innixos non mo dolaborcm acmolcftiam inducir,uerumetiam nuUumiuuamcnrO cfTaru dignum pracftarc crcdirunquemadmodum fimilitrr cos,qui fummis digiris ftarcconantur, practer farigationcm illico fucccdS tcm,parrcs illas callis molcftiflimis aflicerc compertum eft, &c pracfcrtimquandoquis co frcqucntcr vratur j hi fiquidcir 'Mudunum commodu nonnumquam rccipcre uidcntur, ut longins multis alijs profpciaare ualcanr, cuius gratiaab antiquis fpcculator, fiuc Apho.^ nia dcillis,qui non armari ccrtant accipicnda purcquandoarmatum ccrrarc inrcrcxcrcirariones limul,atqi:c opcra ma ifdl • rcpofuir Galcnus,qui limilircr ccrrarc aducrfus u nbram {ctKtctiicc^^ip t-^tu.^u cunt Gracci,) cclcrcm cirra robur cxercirationem cilc ludicauit, |;'^; ut Auicenna quoquc,cV Paullus pollipfum ccnfcrc uili funr. Cum doc.rcii itaquc rcs icafcfc liabcar, pugna non armarorum rim aduc rfusliomincs,quam aducrfus columnam adminillrata in primis magnope rc calcfacir,cxcrcmcnra cducit/udorcscicr,cxr.bcranrcm larncin fupprimit proindca Coclio incuranda polyfarchia adhibcrur, l; dcinceps brachia,atquchumcrosconfirmat,ciura(5»:pcdcs mirum cjp.Tiu inmoduinexcrcet,cctcrum capitadcbilia,6«:ucrtigini obnoxia no parum labcfa^tat .rcnibus ircm laboranrcs huiufccinodi cxcrcitat»oneinfugcrcpracccpir Galcnus. magis cxcrccrc, l 2 &:unn 274 1 et uim maioi em corporibus infcrrcquam iftam: quonia,nt ab Alc D Prcb pcrbcllc fignificaium cft,athlera, fi obnitatur antagoniftac, tortitudmcm ci us augct ; Un ccdat, ncquc rcJudctur, robur ciufdc refoluit. Atquicapugna, quac corporibuspugnanrium armatis cxcrcctur, inrcr vchcmcntcs cxercitationcs collocada eft,quac cu robufta, &c uahda corpora cfficcrc dcbcant, iurc meritoNicias apudPlatoncmin eodialogo, qui Lachcsinfcribirur,dixit,quod Iv STTMi^yi^^wi&r,fiue armatum pugnarc corpora robuftiora, li quod ahud cxcrcitationis genus, rcd^dit, ncq. vllo aho minorem Loco cit. laborcmparit. Dehac quoque exercitationeab Antylloproditu ^ rcperitur,corpus ab ipfo ad morum aptius, et ad carnem fufcipicndam rcddi, uerumramen propriam atquc maximam cius pollicirationcmcxliftcrc,utcorporisfirmitarcm,&:longam rcfpirationcm gignat, cumilli, quifcfe pugnis fimihbusdcdunr^omncmaHam £fpiruuscxpulfionemferrcpoflint: facitautem huiufccmodipugna carncm laxam, &: mollcm, nccnon capiti admodum noxia ert,præfcrrim quando galca plusæquo obtcgitur, cuius pondere preffum nonparumlaborat . illudhicnon ignorari uolo: cTrhoyxtxlav, fiue armarac pugnac exercirationem, nc quis dccipiatur eandem effe cxiftimans cum armata ludatione, oTrhm-miKn ab Acfchylo vo- cata,quandoquidcmhacramquam ludtac fpecics armisin mani- bus nullo modo utebatur, fcd dumraxat ccrranres totis corporibus armabantur, ficque armati inuicem ludabanrur, cuius ludationis arbitrcr uolurarionem illam armaram, fiuccelcrcmagir aioncm, t.dc tue. quamGalenusin numero vchcmcntium excrcirationum repofuit, * ^^' fpecicm quandam exftitiffe . An vcro dc hac armata pugnæ fpecie intcllcxcrit Coclius Aurclianus, quando in curanda polyfarchia F poft plurima alia cxcrcitationum gcncra comprobata dixit . Tum „ hoplomachia, hoc cftarmorum fiifta conflixio: apudmcdubium nullum,ut exfuperioribuspatct, relinquirur: quoniam, et fino- menGraccum hanc ipfam lignificare uidearur, nihilominus, &: nominis ab ipfo illata explicatio, &c ufus demonftratus manifcftum argumcnrum faciunt,cum dcpujTnaillafcrmoncmtaccre.quæ nu- dato ab armis corporc excrcetur,quæq. ad diminucndam carnem a nobis laudata fuir, cum hanc poftrcmam carnem, fed mollcm, SC Jaxampotius augcre Antyllusiudicaucrit. Dc gladiatoria pugna nouidcturhiclocuscxpofcerc, ut fcrmo ulIushabearur,proprcrea quod cum armis incidctibus,ac pungcnribus anriquirus agcrctur, uclinlctaliavulnera,uclinaltcrius pugnaroris, aut eria vrriulquc ncccm,plcrumquc terminabatur . VnUe ncminem non uiderc ar- bitror qiiantnm ahfit, ut fimilis ^onccrtatio iillam pronigandis morlns, tucndacuc fanitati opcm afTcrrc ualcat : ca cnim cft,quæ liodic apud miiltas Chriftianorum nationcs fub Duclli nominc no fincmagna ciuitatum aliquandocladc cxcrcctur, quamq. &:anti- quis, Su noftris tcmporibus ab uno hominum inimicilTimo Sathana rcpcrtam ad pcrdcndas animas fuiflr fcmpcr crcdidi . quod naquc non monachiam antiquorum, ut falfo probarc conari funr, qui huculquc ducllum trailarunt, fcd potius gladiarorium ducllum huiufcc tcmporis rcfcrat, pracrcr multa in qnarro libroa nobis dc- clarata,hoc itcm at cftari vidctur, fciliccrijfdcmarmis,atquc co- dcm propcfincducllarorcsconccrrairc, quilnis ohm gladiatorcs pngnabanr: illud unum inrcrccdit difcrimcn,quod illi tum gloriac cuiufdam inanis gratia, tum præmiorum fpc, fcd fcrc fcmpcr ui B quadam,utpotc ud ad fupplicium condcmnari,ucI in id cmpri,at- €juc cdodi ad ccrtamcn duccbantur : ifti ucro fpontc,&: nuUisco- gcnribus,nifi folius honoris uana quadam, &: faila dcfcnHonc pro- lcdantcaguntur: ut hac rationc minus cxcufationc digni habcan- tur,cum fpontc in propriam ruant pcrnicicm . Vrinam rcllpifcanC randcm homincs, uidcanrquc idquod Haibari krc nulliagunt, ranto minus Chriftianos dccerc rfic profcdo &c multac urhcs, quac ob hoc inrcftinis, &: facuillimis di(Tcn(ionihus cxagiranrur, ad mc- Irorcm ftatum rcuocarcnrur, &: mulrorum anim.iSus,corporibusq. mcliusconfulcrcrur. At nc longius a propoiiro noftra diuagctur ©ratio, hacc fufficicnt, fi illud addidcro, quod Cclfus, Scribo- jii,^ ^ nius, Plinius, Arcracus,atquc alij plurimi rcfcrunt, ab Antiquis li. decop. fciliccrcrcditum fuiffc,gIadiatoris iugulari fani^uincm cpotum lu- "''^i*; ^^ C uareepilcpricos. quam rcm poriusad prodcndam iplorum fcri- nam fupcrftitioncm, quam ut ullam fidcm adhibcndam ccnfcam, li^nificare uohii. 2)e qudTunJxtn altarum exercitatiomm qualitatihus* l II. VLTA apud antiquos cxftltcrunt excrcitati onum gcne- 1 a, quac quoniam non ita frcqucntcr vfurpabantur,ab aucloribus cclcbrata non iiuicniuntur :inrcr haccau- rcin primo fcfc offc rt ri iK^6)^u^il%:ccci, ucl manibus fum- fliis conccrrarc, quod, /iue hituc jpccics aliqua forct, utnon- nuUi crcdidcrunt,fiucicparara quacdam cxcrciratio, urCalcnus ^^^jl^gp^ccnfuifsc uidctur,u ui poft luclam alias quafdam cxcrcitarioncs ad- OymnaHica, T 3 numcrans nummn^acrochinTmum nominaf, facirqiicrnam7cftealii conftar ipfam apud Galcnum, Actium, Paulum, et Aui-. l.ib.3. c j cennam i nrer ucloccs finc roborc exerciraiioncs locum obrinuifle, lill.fen 3*cicndijcorpora tcnuandi,carncs,fuccosq. dctra- doc. i^c.i hcndifacultatcmpolHderc, ut appofircinfinuarc uifuscft Hippo- fitf^cftato P"^^ qucmlcgirLiracrochirifmumatrcnuare,&: carnes /ur-. cap.Ti^^umtrahcrcproprie ucromanus,atquebrachiafccundi;m Gale- Lib.4.c.4 num in ipfæxercitanrur. cxquorir,utilIisconueniat, qi ibushas- locQcitac, parrcscorroborarcin animocft,ficurijs ualdenoccr,quorum chi- nigra,uel aliusmorbus,&manus, &: brachiainfeftare folct. dchoc locutu e(Tc CeIfumquiscrcdcrcpoteft,ubi in ijsqui ab arida luHi exagitanrur, exercirarioriesmanibu speradasprobar. PorroUTrA^- ^f/^^ij^jideftecplerhrizare, a Galcno inrercxercirarionescitraro- *oco cit. bur,6^crccntium,quamCraccihatcro. copiam, vcltrachc! ilmumuocanr,cxcrccri, vcrumramcniIlisma\imc vcrcnda clUalis cxcrciratio,qu! vcl pc^orcvcl dorfo,vcl capitcnoadmodum valcnt.Parictiam paclofi quis(vr Milo factirabar) g conucficrcfc, ojcrcq. dc loco volcnti pcrmirtar,cnira maximc corrob.>rarcpotcrir,qucmadinodum manus maximopcrccxcrccbir,cisq.fortirudincmacqLirer,lipuynum alicui apcncndum, ucl malum punicum, aur talc quippiam manil)us complcxus aufc rcndbmpracbcar:quod ramcn arthriridi,aur chirajiracobnoxijsminimccongruct.Roburaurcm partium rum cxcrccr.rum hrmat,fiquis a!tcrumcomp!cxusmcd;um,aut ctiamipfc mcdiocomprchcnlus, manibusdigirisq. pcdinatim iundis,aur qucm complcciirur abfolucrc fc iubcar,aur ipfc lc a complcctcnrc loh,ar:nih quod in hoc pc riculum immincr,nc vifccra labcfadcnrur c\ nixibus illi5,qui adhibcntur,dum dillolurio quacrirur.lra criam (i quis alrcrijm,(|ui vcrfus ipfum lc inclinct t larcrc aggrcflu5,ilia manibus compIcxus,ccu onusaliquod fublarum inuiccm prorcndar, rcducarq. acinagis,fi C dumgcltar,ipfcnixu, rcnixuq. corporis vrarurnic narnquc fpinam vniucrfam corroborabir,lumbos tamcn,arquc rcncs dcbilcs habcribus noccbir. Acquc vcro qui pcOtoribus cx aducrfo innixi magno fc conaru inuiccm rcrri^ilunr,;;^ qui a ccruicibiis pcndcntcs dcorsu trahunr,vchcmcnrcrquidcm cxcrccnn^r, &: pcrconicqucns robur corpori vniucrfo comparanr:at pcriculum fubcunr, nc thoracis vafa aliqua rumpanrur iplis,ncuc aur capur,aiit collum malc aihcianr. Hacc iraquc oinnia ramcrfi apud vcrcrcs inrcr ccrcrascxcrcirarioncs habcrcnrur, nihilominus haud ira in frcqiicnri vfu fucrunr, 8c pracfcrrim nobilibus,ac illisqui non fincluauirarcquadam fanirati opcram dabanr. h;ic ircm rcmpcfiarc non dcfunr, qui ipfis vranlur,qn )v.jn')d' ' rario,iflhibcarur,pcni:us aiicrrcrc nolo. T 4 De D Def^mtuscohibitiomsfacultatibus^(df. I V* I #n K-K^ ETENTIONEM fpiritusfpecicmquadam cxcrcitatio' * nisefTccumabundc inlibrotcrtiodemonftraucrimus, idampliusrcpetcrenoneftopus:il]uddumtaxat adiuii C gamnonfacilerepcriri,in qua nam difTcrcnda locata fucrit.nifi quod animaducrtcntes nos in huiufccmodi cxcrcitationemufculosabdominis, aque thoracis ualentcrintcndi, &:fu^.partic. binde inpartibus interioribus calorcm augeri,ut Ariftctclcs,&: Prob. Galcnusmcmoriæ prodidcrunt,eam non riciiiinc uchcmcntia 1. dc diac i^^icare poflTumus : &: propter hoc iure ab Hippocrate didum fuit, ^ fpiritus dctentionc meatus difparare, cutcm attenuarc,nccnon ^ 3. dctuehuniiditatcmfubcutcm extruderc poffc. A Galcnofimilitcr,&: ia^bartii^bAuiccnnafcriptumcft, rctcnrioncm fpiritus mcmbrafpirituamcd.c. 87 lia calefaccre,corroborarc,&: cmundare,necnon anguftas cauitadoc 1 c \ ampliorcsrcddcrc. Quod etenimfpirituscohibituscxpurgarc thoraccm ualcat, clare conftat : quippe qui in.ipHi rctcntione undiquccompulfus inanguftosfe rccipcre meatus cogitur, cosq.li ampliustrufus, propulfusq. fucrir, ctiam pcnitus tranfirc, atque extcnuati iam agitationc cxcrcmenti nonnihil fccum arripcre, eo propemodo,quo intucmur opificcs angufta inftrumentorum foraminauchcmcntiore fpiritusinflatucxpurgare:quandoquidemis quanto ulterius pcr uim coadus impcUitur, tantum ab ipfo quæda impelluntur, qiiacdam trahuntur, nam truduntur quac antc occurrunr,attrahuntur quac ad latus funt pofita, impetu ipfo motus vtraquc coada. Qupd ucro ex retcnto fpiriru cauitatcs cuadant latiores,hinc probatur,quoniam fi thorax in medio corporc locatur, fanc illo magna afiqua infpiratione acrc impleto, et dcipccps fuprcmo laryngis ofculo Imgulac opera claufo, nccno mufculis toto tho race prcllo,necclium cft ærcm comprcfTum vndique mcatibus cor poris uniucrli^^ infcri,ficq. inirufum cos undcqnaqiie dilararc,modoinfcriorcs dum iUuc impcllirur, modofuperiores. ficergoper fpiritus retcntioncm cauitatcs corporis amplificantur,pedoris partes cmundantur, ipfæq. atque etiam aliac intcriorcs calorem ici O^nip. ^j^^ipi^ri^^cuiusmcritofrigidacaflrcdioncs, &:prac{crcim inflaPr^? tioncsrcmoucntur. ut non tcmcre Plato fubpcrfona Eryfimachi li.d mcd. ixicdici,nccnon Ariftotclcsmcmoriacprodidcrmt,fpiritumcohiifbroT.d^birumafmgultulibcrarc. quorum placira fccutusGalcnusabco^mp.cau.icm uoiifolumlingulcumjvcrun^ctiain tuffim afrigida inftrumcntorum rcfpirationis intcmpcric conrraiftam cxftlngui tcftatumrcliquit: ciuodaucla in pcvftorc caliditarc cx tali cohibitionc anguftos quoslibct mcarus fpirirus coprcffus pcncrrcr,cun &: ab auribus cxpcllunt : limilircr obftcrriccsiftud rcftantur,quacad parruscxpuIlioncmfaciliorcm,&:ccIcriorcmrcddciidam partiincntcs fpirirum contincrcpraccipiunt . in quoltamcn ipfas facpc crrarc fcnbit Acrius,quando cx nimia hu ytr^h, 4. iulccmodi fpirituscohibirioncancunfinata,liucartcriarumincui[Lli\c. ribilcsdilararioncs incurrur.t in faucibus, nccnon pupillarumin prob. 48. oculis,ut Aucnzoar tcftatus clLDiccbar Ariftotclcs fpiritu rcicnto mdiusaudirc nos, quoniam rcfpirario ftrcpitum qiiCndain moucr, quocum careanrrctmcnxcsiUam, mclius uoccspcrcipiuntrti.ij. c.i C quanuiis CalTius Mcdicus alitcr fcntirc uidcarur. Exftar ircm Plinij aucronras,quod cucrfos,fc anclcnrcsq. ac iaccnrcs, fi quid ingruar, conrraq. i(ftus,fpiritum cohibcrc fingularispracfidij cft. Si igirur afpiritusrcrcntione rot commoda xjriri conftat, prudcnrcrfanc Coclius Anrclianus ipfam allhmaticis, ftomachicis,arquc licis'^|^^J"^*y curandis cgrcgum opcm pracftarc lcriprum rcliquir.Ncquc ramcn ub. ^.c. huic ranrum tnbucrc dcbcmus,quiii ctiam ipfam aliquacx parrc obcflc credamus,quandoquidcm Afclcpiadcs capur opplcrc rcfta lus cft,cuiusfcnrcntia a Gak no ccrre cxplofa fuit . Ego vcro illam prorfus non cfTc rcpcllcndam puto, quoniam manifcftoconfpicimus, dum fpiritus rcrinctur, ucnas,atquc artcrias colli intumcfccre, oculos ampliiicari, gcnas ac uniucrfum vuhum contrahcre ma» iorcm ruborcjn, tandcinq. caput totum compati : quacomniailJius rcpktionijs cUra inditu clTc, ncmodubiiat . txquohr,ul Dioclcin Dioclcm tota uia abcraflTc pro ccrto tcncam, dum fpiritum rctcnD tk.i.«a.4. tumin epilcpfia curanda praclidium afifcrrc dixir:/icut Coclium laudo,qui in ciufdem aflfcdus curationc fpiritus rctcntioncm uitari debcrcuoluitjCumccrrum pcriculumimmincar,nctuncfanguincad caputrccurrcnrcmorbusmagis exaccrbctur. In fanguinis CgcUi.a. quoq. rcic£lationc talcm cxcrcicationcm a Mcthodicisdamnaram inucnio,quibus aiTcntiri cogor^propterca quod rum a calore in pe(floris cauea gcnito,tum cx uaforum inflationc,diftenfioncq. facilii mc debilia,&:rclaxata vafafranguntur, frad:aq. iterum relcrantur. Ampliusqui veliierniasjvel crcpaturaspatiuntur,autpcritonacum, atquemteftmæxrilia,&:fragilia ab ortuobtinuerunt,nullo pacto in rctinendo fpiritu cxcrccri debcnr, quoniam hæ partcs in aclioneifta uchcmcntcr contenduniur,& pcr confcquens, nifirobuftæ fint,citra mulrum laborem diuellunrur,qucniadmodum apcrtifii^ mam fidcm pucri faccre poflunr,qui fi interdum nimis quam par iit flcndOi aut aliquomodofpiritum contineanr, protinus ijsperitonæum, fcrotumuc difrumpicur, 6c dcinccps intcftina dclabcntia, aut flatus intercluii,uix fLUiabiieshcrnias pariunt: quod fimilitcr tu bicinibus, &c cantoribus, dum nimis fpirirum retinerc conanrur, facpenumcrofolet cucnirc,&: præfcrtim quando illi wiJ^ctlguuy ( quod Galcnus ait lib. de mot. mufc. fccundo in finc, ac 6. h\nd. com* 4, tex.24.&:dcquonosin varijslcct.cgimus^ac pluraadhuc dicemus, cum itcrum librum cum rccognitum, atque auclum propediem dabimus) fiue edidum ficere uolunt . Vna feruata ratio ab huiufccmodi pcriculis tucbitur, fi modcratc, aur potius infra mediocritatem (imilisrctentio peragatur, ubiagcnda crir: alioqui pcrfici nequaquam poterit,quin prædida incommoda fc^ quantun De ^octs exercitAtiomm fAcultAtibus 3 tsf primo de rvocifcr^itione^ OCIS multas,fcd unam præcipuam excrcitationemcf feccruntantiqui mcdici,quam gracci t«i^ (cVflf.quoruomniunaturapcrfpcv^ta nihU rcmarc mancbif,quod luiiufcc cxcrcitationis cognitioni arfdi valcat.Er P «l^^jtu^ go prima uocitcrarionibus,qnaccumquc (int illac,adfcripta ab An j| 6'. tyllo,Plutarcho,Paullo, Actio, et Auiccnna codiciocft,quod thoUn, raccm,arquc uocalia inltrumcnta pcrbcllc rxcrccr. diccbat Aucr\-^V'c.s rocs pulmoncm propric a uociscxcrcitio rcfpici . (ubindc naturalc iiki.f.s.d. calorcm augct,purgat,hrmat,arqucarrcnuar,folidas corporispar* "J,';j^* tcs, robultas,puras,&:ort"cnfac mmimcobnoxiasrcddir. addcbarcap.i, ' Auiccnnna hanc cxcrcitationcm colorcm dccorarciquod cnim ca loraugumcntum fufcipiar>indcoritur ;quia fpirrrusalliduomoru, taai actraCtus, quam cxfufflatus collidirur, artcriturquc, licq. cx ca collilionc, 6c atrritionc calorcxcitarur i puriiarucro huiufccmodi cxcrciratio itum quiacarncs raiiorcs,magisquc rraiftabiics cfficir: tumquia cxmoru uocalium inflrumctorum humiditatcsinrcrnac B confumunrur,quod cuidcnriflimc dcciarat dcnfus uapor cx orc v v cifcrantium urodicns, 6c fupcrlluitatcs uctullioruhumoruunicuiqucmcatiii adhacrcntium,quaccxccrnunturnonfolumin pracdi£tis uocifcrarionibus, fed ctiam alijs pkn ibus modis. lam vcro firmarur calor, 6c artcnuacur, quv)niam uafa abftcr^^uncur, nuilti humorcSjUt fputa,muci,(^pitiiitac conlumuncur,quac licut antcacalorcmobfcurabant,dcbihrabanr,&:incra(Vabanr, iracduda cundcm puriorcm,uaIid!orcmq. rc linquunr, &c hinc pollca lolidis partibus maius robur,maiorq. impallibiliras fuccrcKic.Si icaquc hacc ica fc habcnt, racioni confciuancum clt, ijs, qui humidirarc occupatas inrcriorcs parres,quiq. uniucrfum corporis habicum frigcfa^tum habcnr,uociicraciorH*ni gcncrofum praclidium cxliftcrc.qucadmodum.illisprcdictis racionibus cam ab Anc) llo, CoclioAurc!ianp,&: Actio commcndaramfcimusltomachicis, uomcncibus, acidum ru:tancibus,acgrccoiKoqucntibus, cibos faltidicntibus, atrophia Iaboranrjbus.languidis,cachccticis. hydrC'picis,althmaricis,orchopnoicis,phchilicis,diuturnopcctorisauclcpti dolorc uexa tis.apoftemara in choracc rupra habcntibus, mulicribus pracgnantibus,picaobfcllis, autlccundum Alcxandruinctiam parcurienci^/j^^g^'^ busad parcum tacihus cduccndum,non minus n,.chro, affi.iunt,quamcorporis immodicacgcftationes, luuatmfupcr clacap.i. ralcf Q crir,fi rifu fcfc cxcrccrc uolcntcs alas fibi ipiis litillari facicnt ; probi^ «!' ptcrcaqnod magnusinillispartibns ucnnlarum,atquc arteriarum concurlus cxllat, quac tuillatac concalcfiunt,^: fpirirum fu[)indc cxcalcfadiioncgcnirum pcrunincrfumcorpus diflundunr. Ncqnc ucrolatcic qucmqnam dcbct,ualidnm rifum,(icuti dixir Plaro, ma gnam mnrarioncmparcrc, ncmpc dc quo cclcbratnrapud Graccos hicfcnarins. j t Ato; HKccigo^ tyjigcrois (Niviy KccKiv, i d c ft Rifusinrcmpcltinusintcrmortaksgraucmalum. Siquidcmtalis,practcr immodcraram fpiriruum ctiulioncm,pnicrcr nimiam agirationcm,calcf'achoncmuc, nonraro,fccunduiii Ariftotclis,&: Jococftat. Alcxandri fcntcntiam,uchcmcntcm rcfolurioncm indncir:qno. p|^^*|; niam uiralis uis,&:inlitus calorimmodicc foras prodit,ac indcfir, ur /ic ridcntcs fudcnr, ac rubcantfangninis adncntu : calorcm crciiimnatiuum,igncmqucipfnm,ficuti pcr loci appctitioncmfurGymnajiica. V fuiu fum cffcrri, fic pcr alimcnti dcfidcrium ima patcrc ncccfTc cftjgiD turutralibctmoucndi rationcpcrcmpta,calorinfitusinterir5& uis omnis vitalis cuancfcit.ut non abfquc rationc Homcrusfinxcrit oayff. ^ Procos rifu cmori, Arcrf ixmSges dyccvoi X%$S0Cs ivetct^otiwot p/tAo) \kSccvou, idcft, tum Troci illuflrts Mams extollentcs rifu cmoYiebantur ; lU.^pao Nccnon Aglaitidas apud Xcnophontcdixerit,rifum huiufccmodi ^ ^y"moucntcs ^ncquccorporibusjncque animis prodeffc. Porro caput,ac thoraccm pcculiaritcrab huiufccgcncrisrifii offcndi ncmoncgauerit,qucmadmodum interdum laxata maxillarum ofla, dorfumq.oblæfum animaducrtimus. Flctum tamctfi Ariftotclcs in pucris laudaucrit, quaficorumcorporaflcndocontrafta, &:conE a.Tufcul tenfa robuftioracuadant,Ciccroq. fcriprum rcJiqucrit, athlctas, cum cxcrccbantur, ingcmifccrc confucuiffc, ut fc intendcrent ad firmitaremscxiguum tamcn ufum in tucnda bona ualctudine habe rceno fcimusrpucri namqucfortafreaploratuminusofrendutur, quoniam ci a primo ortu infucfcunt, quippc qui ftatim ac ex utcro parenris in luccm uencrunt, plorarc incipiant: cuius caufTam SoInlfa og fimusephcfius cxplicauit cfle ; tum quiatenuis fpiritusaluce concap.17. cutitur :tum quia infuctam tcrram attingant,quandomulieresin Prob. 61. nauibusparicnresmutumcdunt.quamfcntcntiamfecutus Alexandcrmcdicus addidit,iIIos minime audiendos cfse,qui animum dicant, quod amifso caclcfli domicilio corpus inhabitarc tcrrenum occocpit,iccirco infantcm cogcre doIere,atque plorare.Cæterum adultiores qucm nam cx fletu capcre frudtum qucant, nufquam ui^ deo. quod cnim is corpora frigidiora intenta, ac debilia rcddat, \qco citat. pr^ictcr Ariftotclcm ob pracdiita ficntcs acutiorcm uoccm rcddej.Aph.y4 re narrantcm, Galcnusquoque atteftari uidctur,ubipucros,dum plorant, intcrruptofpiritu ob uircsdcfatigaras refpirarcfentit.qui * itcma flcrunonriumquafcbrcsacccndi pcrfpicuctcftatuscft. quatumfubindeoculisipfis dctrimentum atfcrat,mdc conijccrc faciInprok. literpoffumuSjquodlacrymis ab humoribus oculorum (fiCalfio medico credimus) dcflucntibus eos confumi ncccfllirium cft.ut Ilb^ fummacumratione eloquentilfimusauitor Carnclius Cclfuscontfcur.ocu. tinuos fletus oculos imminuere fcriptum reliqucrit ; ne fileam quantum damnum uox recipiat, dum fauccs,ac uocalia inftrumenta intcr flendum madefadla, exa fperataue, cam raucam cfficiunt, tuflcsq.ac noxios catarrhos iatentcr concipiunt.nam, &c apud Coclium Aurclianumlrgitur, ploratum poft cibumuaMcftomciclium labcfactaic. Kx quibusomiiibus colligitur, aut nullum^aut cxiguficmolumcntum a llcru corporibusacccdcrc,(S nes illas cxcitant;in altcris humorcs ad infima dclabentcs eos morbosfoucnt,ac incrcdibilitcraugent. Inde eft,quod Aretacusin curatione epilcpfiacfolam cius vcrtiginis infpcdioncm,quamfacit inftrumentumillud, quod RiptBiKX dicunt, &: dequo fuprafumus locuti epilcpfiam induccrc monuit.Hoc fortaffc exercitationis gc^bro^ I nusintcllcxit Auicenna,quandodixiti Etludcrecum uirgisretor€3^*2^** tis didtisalfulcgiam cum pila magna,autparua lignca, nifi quod illud intcrfortcs excrcitationcsrcponcns, 6c pilam magnam nominansanoftrodiffcrrcdcmonftrat, ncmpc quodfitdcbiIe,foIifquc paruis fphacrulis agatur . Habcmus Sc aliud motus corporis gcnus, quod piHs ligncis cxcrcctur humi dupliciter, uel pilas in circu fcrreum humi dcfixum manibus impcllcndo, ucl cubo lignco cas approximando, quod quidc genus dorfum ob inclinationcs cotinuas E exercct, attamen caput ofFcndit, atque rencs; in quorum ulceribus Inlib. æ IfxTrmkvsiTriKv^^s uitari mandauit Rufusmcdicus,nequeadmoMetue! dum pro ualctudinc probatur. legitur cnim apud Gal.cxcrcitatioual.cap.5 ncsinchnato capite, dorfoueperadlasncquaquaminisconucnire, qui occafionc qualibet Icui ucrtigine, cpilepfia, ophthaImia,auriQ dolorc, guttuns, aut altcrius, capitis, &: colli inflammationibus occupantur . Prædidis omnibus tum notior,tum trcquctior cft pilamallci uocati cxcrcitatio, qua uetcrcs gymnaftas caruiflc nemo nd fatctur ; fcd quanto magis tcporibus noftris pencs cundlas nationcs ipfa inolcuit, tanto magis ncccflarium uidctur illius flicultatcs declarare. Nam quod ex magnis fitcxcrcitationibus,ac uchemctibus facilc cft,&: a laborc,qui fuftinctur in ipfo,&: ab eius natura conijce re; a laborc, quonia fu quam pcr fccrcram difflarionc cxinanirc inrendunt . Cctcrum ncmo,ucl mcdiocritcr rci mcdicacpcritus, lgnorat,valctudmarijs,ac dcbilibus,quorum uircslcui dc caufladc ftruunrur, excrcitationcmilhm minimcaccommodari: tantomiftus illis, quibus capita ma!c aticda funt,aut aliquo padlo imbccilIia. nam,&: qui dorfononadmodum valcnt, quiqucrcncscaIido5, urinasq. acrcs habcnt, cx talibus moribusfummopcrc offcndfitur, licuti quoq. nocct cxcrcitario bacc,vbi parfcsinfcri( rcsinflammationcm,aut abum tumorcm pati folcnr . Summarim poflimt, qui fanitarc fruunrur, ad cam rucndam,oprimumq. habirumgcncrandu pilamallco fcfc cxcrccrc : qui vcro aliquo pafto ab acgritudine occupantur,omnini>abftincrc dcbcnt.illudq.fcmpcr mcmoria tcB ncrc opcracprctium cihcjuac dc cxcrcitationibus bona a nobis pro mittunrur, ucrarcpcriri,modocaratio tcmporis, ]oci,quantiraris, modi, arquc corporumfcructur,quam in ^.libroncccflarramcfle monftrauimus. alioqui fi ncgligatur, mirum non fitjoco bonorum incmcndabilia mala iucccdcrc : qucmadmodum lacpcnumcro in propolita cxcrcitationc cucnirc ccrto fcio,quac cum fcrc polt pran dium a plurimis agarur, nullo falubritatis loci, ac rcmporis habito dclcctu, no fua culpa,lcdcxcrccntium incuria pcrniciofasaflcLtioncs,ac prauos habirus inducit. quo magis omncs admonco,ut diligcntiam, a Maioribus nollris in cxcrccdis corporibus obfcruatam, quaxitum conccdifur,imitantcs,mcIius valcrudini, atquc mcmbrorum robori confulant, ncquc commitrant, u t proprij.s ci roribus, &c fanitatcm /imul dcpcrdant,&:honorcm, dicctc GalcnonoUro mar.dctac C pnum dcdccus illis aXc, qui a narura fanam corporis conftitutionc lortiti cam ob cxcrcitationum,ac rcttc uiucndi ncgligcntiam cor. rumpunr,arquc morhofam rcddunt. Erquoniam hoc in capitcduo diximus,altcrumquod pilamaIIcus,cxcrcctdorfum,aItcrum,quod illis cuitandum crt, quibus dorfumcftnnbccillum, fcicndum crir, Galcnum voluilfc^inlcnibus dcbilcspartcsnumquam cxcrccri,in r.dctuc. alijsfcmpcr dcbcrc.rarioncm, qua indu^^us illud dixir, hanc fuifle ^ cxiftimo ; quoniam dcl)ilitasfcnumcmcndarinonpotcft, cumcx uirtutismotricisdcfcctu proficifcatur,alioruinucrorcparabiIiscft. undc, quandonos aliquas partcs imbccillas minimccxcrccndas confulimus,fcmpcr dc imbccilHtatc confirmata, ac incmcndabili, non autcm dc rcccnri,arquc dc curabili,dida noftra inrclligi uoluBU]s:nca Galcni placiris,(]ucmomnc5mcdicifcqui tcncnturjinhac lcntcntia rcccdcrcuidcamur. (jymfiiiiiica. V 5 DC 291 I T)e equitationibHTfacuttdtibus. CaP. II X. ^ Quifationcm,qua Galenusaliquadointer ca,quæ exercirationcs fimul,&: opcra nucupar,adnumcrauir, ex eiuf dcfcntcnriamagnam cxcrcitarionccfl'e,aperte conftaf# Quo circa,quanru fit cx fc, potcrit natiuu calorcm auge rc,&: cxcrcnicntoru inanitioni opitulari.Efl: aurnoparuadiflrcrcritia,an cquus(fic appellocquLi,mulu,&: aliud qif uisporrandishomi nibusaccomodatum animal)lcnrc,cclerircrucgradiatunanfuccuf Oribadiis fcr;an afl:urco fir,ac ro]urarius,an currat . Dcplacida,&:lcnra equiÆt^iib* ratione fcriptLi inucniturab Antyllo,atquc Actio,fiplacidc equus cap.7! ^ gradiatur,nihilmagis, qua lafTitudinc, &:pracfcrtiminguinibusaffcrrc.dc hac inqua ucrba facics Hippoc.mcmoriac prodidir,continua cquitationc laflitudinc magna parerc, homincsq. infoccundos E &: cocundi impotcrcs rcddcrc,n€C no dolorcs diuturnos,&: claudiProb. ij. carioncs gcncrarc.ncqJccircofcntctiaHipp.danandauiderur,qcf aqu*&!oc! Ariftorclcs cotrario plane fenfu fcripru reliquerit, cquiranres afficap 1 1. Jjje libidinofiorcs cuadcrc; quonia gcniralia continua arrrcdatioprobifii ne,motioncq. incalcfccria fpiritu cocipiunt, ficq. cociidi cupiditas inducitunfiquidc Hipp.dcplacida,&:nimisfrcquctiloquirur,vtpo te q lcni motu no ita calcfaciar, &: pcndctcs coxas,arq. pcdcs oblac tlattAriftotclcs ucro dc ca,q cquo ccleritcr gradicre,&: inrcrdu fuccuflTanrc^fcd noadmodutrcqucrcr cxerccrurjUcrbafacirjUnde particula(afliduc)qua larini intcrprcrcs apponut,cu in Gracco Arif.co dice no inucniatur aufcrcda planc erir.Hacc erenim equirando faU69 cita. io dctcrior cJi, nimirumquacuniucrfiim corpusmoldlc quaflcr, &dolorcscxcircr,auiZcarq. Sicut in Niprns illcfapictiirunus Gracciacfauciusintclligcbat,ubi diccrct. Tedetcntim ite, ^ lcddto vijh nefucceffn Cic. 2. Quo itcm Lucilius pocta antiquusinnuit,dum cquum fuccufllmtcmtactrum nuncupauirhoc ucrfu. Noaius SuL i ii[iatorii t.ie:ri, tariiq, c tballt .Ad hacc fuccuirationcuchcmcntcr caputoflrcndcrc,coI!um,&: dor fum,&: narcSjCxpcriunturilli, qui aliquadoin hunc modu cquitarc cbguntur. Dcniqucli vlla cflcquita:io,quac uifccrapraccipuc( id. Q n.farcrur Ga!c.)agirarc apra iit, proculdubio nfic propofita ralrs cft, ijtu.yi. aqua nofolu intcriora omnia concuti,ucrum criafiifpcndi,qua/iq.cA?-»'» arripi uidcntur.illud unuhabcrciuuamcporcll, ur cibis,atc]Lc cru dis humoribus concoqucndis,aIuoq. cicndac,ac vrinac prolicic4idacnccno a rcnu(q J Auiccnnac placuit)loco lapillis arquc arenu ^.^ lis ad infcnora dcduccclis adiuuarc qucat.Scd,quonja maicribus riamnis comoda hacc c6pcnlantur,ocs ab cxcrcirationclimili ablli cip.vk. ncant cofulo.ln aflurconibus cquirario(ca4n lic appcIIo,quam uulgari nominc portanru,aut trainauocant Itali,&: dcqua itaMartia. Hic breuis ad nioncrHm rjpidos qui coUigit unones j^-^^^ yenit db aunleris gcnt bns aHnr cqu^^s ) qucmadmodummagis corpus, &:mcmbra gradarij cquiucctionc cxcrcct,ita mmorcm molcltiam parir, liquidcm mollis illaalrcrno cruru cxplicaru glomcrario minimum larigat,pcculiantcrq. aluum citarc ufu probatur . Dc cquitatiqnc i;urrcntibus cquis(;i(tta,licct V 4 ' apud Arift.icgatur, ita cquitantcs, quod magis caueant,mlnus caD In hb. dc dercjtamen eam improbarc uidctur Galcnus hac rationcquia fæl«c indo . pe contingit cquitantes in terram deciderc,& nonnumquam ex ca fu emori*fed præter hanc multæ exftant caudæ aliac>ob quas a fa nicatis ftudiofis huiufmodi cquiratio omni diligentia euitaridea ^dixta corpus(vtfcribit Hippo.)nimium calcfacir^exficcat^atquc * extenuat,ob id ad minuendam carnis multitudincm a Coelio Auli. T.c.vir. reliano probara, caput male afficit, fcnfus hebctat, oculos non pa* Sca. ^pb. nmioflcndit:quandoquidcm Ariftor. cauflam indagans, cur, qui cquo uehunrur, quo longius equus dccurrcrit, co magis cmitrcrc lacrymasfolcnr, fignificaridco illud eucnirc,ucl quoniam morus calcfacics valde humorcs oculorum eliquat,&: lacrymas indc cict, ucl quiaficutiuentiaducrfi oculos pcrrurbanr, fic acroccurfans tanromagisfcrircporcft,quanro cquus uclociiis agitatur.Iacdit E practcrcahacc equiratiotam thoraccm,&pulmonem,quam uifcc rauniucrfa. Quod criam rencs maximo dctrimcnto afficiantur, fidcm Hiccrc poflunr multi, quorum alij vrinac ardore,aIij lapillis, alij vlccribus modo rcnum, modo vcficac, modo pcritonaci vfquc ndcoob hanc excrcirarioncm follicitaii fuerunt,ut fereijsaffcctioni bus mortcm obicrintrnc dicam quor luxarioncs, quor ofiium fra^T:urac,quor mcmbrorum diftorfioncs facpcnumcro indcnafcanrur,dum brachia,dorfum,coxac, et crura fupra modum laborant . Vidcant igiturquos currcnribus jatquc mutaris cquisitinera fua obirc dclc(ftar,quot,ijsci. gnuifiimispcriculis^ncdum ualcrudine, ucium eriam falurem ipfam fubijciant, quomodoc]. non ingenuorum,autfanirarcm curanriumac uiram,(cdpotiuspcrditorum hominum,athlcrarum,nihiIq. uitam,qua nobiscarius,aut optatius nil rcpcritur,acftimantium opus cxcrccant. Hadcnus de cquilaiionis fpccicbus, quarum nullam ægrotanribus admodum confcrrcfcripfcrunr Antyllus, arquc Ærius, quasq.necijs, quimcdicinam fumpfcrunr, uUo padto congrucrc mcmoriac tradidit Solodscltat. i-;inus Ephefius, ncquc illis, qui rcnum morbis malc afticiuntur, cap.^i^!^' ucl carum inflanuTiation conucnirc ccnfuit Galcnus. 6,cy\d! Sunt qui in equo fedcntes gcftari dclcdcntur, quac cxcrcitatio paTlll rummalcualcntibus ufui cflc mea fcnrcnriaporcft, nam,utmolliflimc ucharis, tamcn laflfirudo inguinum, Iumborumq.&: durafufpcnfio,cxpIicarioq. percipirur, quando fubpcdancis corpus fijftentare,pcrarduum eft, ne dicam nnpoflibilc. acccclit &:mala,ac dolorificailla concuftio,fiquomodoincitatiusfcraris. Vaknabus m^igis 4onkrrc eadcm porcft, corpus, animum, &c ftomachu^i S S. 2«5 A chum hrmandorfenfus cxpurgando,acucndoq. fcd pcftus.tirquc pc dcsdcbilirar. DegeSldtiontim inHnitierJimnjinbus. Qaf. 1 X. j NTEQV AM gcftationu fcrmoncm aggrcdiamur, illud prius adnotandu lcvfloribus uolumus, nos minimc ignorarc, multos cquitationcm inrcr gcftarionis fpccics rc-, intcr quos fuit Actius Amidcnus ; fcd ncqualiu.j.c. ir. quamhorumopinionemfcquiuoluiflc; tum quia Cornchus CcL antiquus fimul, &: cclebris au(flor, ubi gcftarionis fpccics adima^crauit, nc ucrbum quidcm dc cquitationc faccrc uoluit, qua(i alica gcllationc iudicaucrit, id quod nmltos ahos opinaros fuifle conijcitur cx Antyllo ; t um quia cxprcflc Gal.gclLitioncm, 6c cqui tationc diucrfas cflc dcclarauit in 2.de tu.val.ubi ahas cxcrcitationcsanobisficri tradiditiahas ab cxrrinfcco, ut gcftationcs:ahas mixtasclfc, quahs cquiratio cfl ; tum quia, (i gc(titio, ur dcfiniunt omncsauLlorcs,mixta cft cx motu,&: quictc, phiribus corporis partibusnonmoucri^ apparcntibus^uniucrfo autcm corporc alalionc moto, hacc condicio ab cquirationc longc abcftjn qua fcihcctmanifclhrtimcomncs fcrc corporis partcs moucri confpiciuntur.fcd ifla parum rcfcrunt, quando criam Antyhus, atquc Actius fcparatim dc cquitationc ipfa ucrba fcccrunr.Hanc inquam gcftationcm ab cquirarionc fcpararam,nccnonagraccis4/»f^ uocatam, mulras quid-jm habuiiic fpccics, in fupcrioribus dcclarauiQ mus: at quacomnibusuniucrfah gcftarionisnominc comprehcnfis facuharcs attribuunrur, pr.us cxplicabuntur, dcmum parricularcscftcsftus finguhi adlcripros pcrfcqucmur, fcd prius id ignorari nolo,facpcnumcro apud auclorcs rcpcriri gcflationcs, &: cxcrcitationcslimul nominaras,quafi utracqucinrcr fc difrcranr,quorufcatctiæ dc cxcrcitationibus proprijs,quac vchcmcntiorcs morus gcftationibus cxiifhmt, non autcm dc communircr acccptis inrcrprcrandæ fcmpcr crunt. hlt igirur geftario fccundum Antyhi, Actij, atquc Auicjcnrcntiam,inrcrplacidiffimas,atquc dcbilcs cxcrciralocrsciti. tionc5,&: proptcrca non folum fanis, &c ualcrudinaijs, ucrum criam 16gis,ac inciinatis morbis,&: dcniquc ijs, quibus lenrac morboruin rchquiæ rcmanenr,ncc alircr cliduntur,acc6modatac funr. In acu toru nonnuUiSjUt ab Aretaco in Lcchargicis, ncphriticis probatur. quinimmo tradit Cclfus Afclepiadc ctiam in reccnti, uchcmcnriq. locodj^t, fcbrc >praccipucq. ardcntc ad difcuticndam cam gcftationis ufum comprobaflc. qiiod prof cclo pcriciilofc cfficitur, mcliusq. quicte elufmodi impctusfuftinctur. Infanisctcnim,ac ualctudinariisgcftatiOjCumnccIafTirudincm corporibus ingcncrct,immo caferc magnis cxcrcitationibus /imilitcr moucat, poreft calorcmnaturalcm augcrc,matcriac multitudincm difcutcrchabitum corporis fir marc,actionesrtupidasexcitare,fcgniticm di(ToIucrc,corporis turbationcm fcdarc,ijs,quos uigiliac cxcrccnt, fomnum conciliarc,& contra ctia vctcrnolis,ac diflolutis rcdimm adfc, vigiliasq.pararc* nam fomnum conciliat, cxcremcnta, quac a capitc ad ftomachu«i delabuntur,pcr halitum digcrcndo, quac nhiiirum parrcsfunt uigi liarum praccipuac cauflac : fcd vigilias poftca inducit corporis tcnorcmadfcrcuocando,&:corroborado.&:, quamgua Scnccacpift. L V l.vidcatur gcftationcm faccrc magis hiboriof;mi,quam ambulationcm;ciustamcn oratio intcrprc tanda cft dc co folo, qui ualctudincoftcnfusab omnibusfcrc turbarur. In quibusmorbis dcgC^ ftationcpcriculumfaccrcpIaccbit,fic cxpcriundum cfsc confuluit lo^o cita. Cclfus,{ilingua non crit afpcra,finuIlustumor,nulla duritics,nuU tolus dolor uifccribus, aut capiti, aurpraccordijs fubcrit,&:cx toto numquam geftari corpus dolcns uoluit, fiuc id in toto,(iuc in partecftjnifi tamcn lolis ncruis dolcntibus; ncquc umquam in rcccnti fcbrcfcd in rcmillionc eius.Nihilominus,citra multasobfcruatio ncs,abaucloribus probatasenc inuarijs affcftionibus gcftationcs rcpcrirur.Coclius Aurcl.in libris, quos dc morbis diururnis infcri pfir,cas in incubonc(quo morbo plurimos Romac quali cx cotagio nc quadam aliquando pcrijirc, rcfcrt Silimachus Hippo. fcdhitor) commcdauir,fimilitcr&:inuocisamputationc, inhacmoproicis,in quibuscandcmdamnauirAfclcpiadeSjinafthmatCjin ftomachicis, in clcphantiafi,in colicis,in arthriditc. Thcodorus Prifcianus quoquc, &:antcipfum ArctacusgcftationcsadhibcndasuoluitinmeanchoIia,inatrophia, infplcncricis,necnon in ftomachi doloribus.lifdcm cxcrcitationibus in illis,qui valdc cxficcati funt,arq. re7.Mcth. fcdioncopus habcnr,Galcnum vfum,aIiquandolcgirur.Quin &:ip fcmctCcIfusprofacroigne curando gcftationem laudauir, utnoit fempcr condicioncs ab ipfo dcmonftraras obfcruatu ncccflarias fo re hifce auAoriratibus conuinccrc ualcamus.Non cft tamcn igno* rb % cur randum>magnopcrc rcfcrrcquonam in loco quis gcftationi bus vtd ciiron.c.7 tur. quod Arctacus cocliacorum cxcrcitntioncs dcmonftransv eim cætcritpractulit, quac inrcr Iauros,myrtos,arque thymunref ficitur. Dc gejiationum inn/thiadoi USlicA^dtqut fellapaYtt^ cularibusymbus. X. Xplicatis ijs,quac ab aii£toribus dc gcftationu flic^ltati* businvniuerfumtraditatucrunt, iam ad parcicularcs dcfccndcrc opportunu cll,iiprius illud in mcmoriarc=w^ uocaucrimus, fcriptorcs.f.mcdicinac,qn finc additione gcflationis ulum in fanis,atq, ualctudinarijs nominant,dc qualibcc cius fpccic intclliycrc : qni nuUa fcrc inucnitur,quac ipfis utilitcr accomodari nopolluiquando ucroin acgrotis loquutur,iiucrdum ocs,fcd in rcmiilionibus morboru,intcrduplacidiorcsl]gnificarc, Vchiculoru multa fucrc apud maiorcs nollros gcncra, quoru luxuria vfq.adco intcrdii Romac crcuit,ut,rcf'crcntc Plinio,aurca,ac ar li.^^.cir B gctca taccrc nolintucriti.fcd hoc practcrinftiiutunoftrucft.Nam, quac pro fanis,aut acgris in ufu habi ta funt a mcdicis uchicula,alia ab anmialibus, mulis.f.autcquisagcbantur,aliaab hominibus, U utraq. ucl tardmfculc,ucl cclcritcr.Gcllationc vchiculofa^taquis cctcris acriorc clTc dixcrit Ccllus,njhilominus,fccundu Galcni fcn ii.i.c.i tcntia,intcr dcbilcs cxcrcitationcsrcccnfcrimcrctur.quofit,utfa^^^j" nis,ni(ialitcrcxcrccri impcdiantur,minimcomniucoucniat.Va!c^^d/iuci rudinarijs,atq. fcnibus nugis, qucadmodu Antiochii fcfc cxcrcuiffc,&: Cacciiiu Pliniuacccpimus: maximcucroægrotatibus, dcquibus fcrmonc facicns Antyllus dixit,gcftationcm in uchiculo fadam uimquandaamolicdi,c6moucndiq. morbosftabiIcs,&: pcrmancntcs habcrc.Qua proptcr Scncca cpilij 6.ad bilc taucibus infixa di* fcuticnda,&:ad fpintusdcnliratccxtcnuandafibimirificcprofuifTc C fcribir,qui, fi aliqui fimplici permanenti, &: diuturna fcbre iadentur, tu i.cht. modo uircs fcrant,gcftari pluhmum debet,ut Coelius phthificis co of/bSus fuIuit.quandoquidC geftatio,minus mouens corpora,quandoq. febrcm magis cxcitat, Ergo in fcbricitatibus,qui ad integritatc pcrueniunt, uel quorum longa admodum remiffio eft, uel qui fcbribus tenentur longis, etiani fi non magna intcrualla habeant, conuenit hæc gcftatio.quam fimiliter in multis alijs aficftibus, nempe in dolore capitis;in cpilcpfia,fi fcrri qucar, in mania, in paralyfi a Coelio Aurel. commcndari, ex eius dc chronicispaOionibus inkriptislibris clare habctur. ut ctiam nos tuto, ubi rcs poftulat, fimilibus geftationibus acgrotanrescxcrccrc valcamus, dum tamcn maturo morbo,atquc iam inclinantc illud agarunalioqui, fi,adhuc fæuicn te,aut incipicnrc affc6tionc,gcftatio adminiftrcrur,accidentia acer biora, &: pcriculofiora confcquunrur, quoniam morus, ut diftiparc urilircr concodos humores,ac cxcrcmcnrorum rcliquias potcft, fic Calorcm augcrc, fpirirusquc &: humorcs nondum quieros, &: rcpurgarosexagirare natuscft* ex quo fummumftudium adhibendum cft,ne crefcctibus crudisuc morbis, pracfcrtim calidis gcftario, aut aliaquæuiscxcrcirarioadminiftrerur, fcd in narurisfolummodo, frigidis,atquc illis, qui manfcfte inclinarc animaduertuntur. De leSit penjtlis ^ cunamm, ac Hauis gefiationumfx^ cultatibus. (^ap. XL Vi primuslcaulos pcfilcsexcogitauit Afclepiadcs,duabus rarionibus(utrcfcrt Plinius)illud cfrecifsc uifus eft; tum ut blado eorum iadatu fomnos alliccrct : tum eria, urmorbosextenuarer.quibusrarionibus addudipofteriorcsin curandis acgris corum ufum frcqucnriorem reddidcrunti totfo cic. quamqua grauis auAor Cornclius Cel.cxcrcitationc hanc tantum modo adminiftranda aliquado iudicauir,ubi ncq. nauis,ncq. ledicac,ncq.fclIaccopiadarur:liccrpoftcaJinapoplcxiacuægcrrefurgit,ipfum Icai moru cocuricndu pracccpifsc inucniarur Vcrum.n. ucro AnryIlus,Actius,atq. Coclius, ctia li nil aliud deficiat,^p multis afrcdionib.dcbclhldis^lcaispcnfilibusinfirmos excrceri uoluerunt,quinimmo(quod paucis coccdirur) hanc gcftarionc tam antc cibu^qua a cibo prodcfsc dixit Anryllus.na pri mo fcbricitantcs,aut diuturno morbo dccubctcs, in quo corp.ora columpta fefe crigere non ira valct, autEllcborufumcrcsatali gcftationcutilitatcrccipe Ætms U. reiudicaru eft:dcindc in his,qui vircsa lcbrili aflrcdlioncrccolligere incipiiir,nccn6 in lcthargicis,&: in appctctia ciboru dcicda candc prodcflc cxpcrimctisinucntu fiiit.ncquc dcfucrut,q ipfam in furiolis,ac phthificis laudaucrint . Qucmadmodu,&: Actius,&: Prifcia nus Thcodorus phrcniticisadhibcdaccfucrunt, quo blada illaagi locomat, rationc fpirituu pcrrurbatio lcnircrur,&: fomnus alliccrctur. Ex gcYmQ^i:^^^ nerepcfilislcclilcympodiu quoq. circ,m6lbauimus:&:iccircoubi a Coelio,arquc alijs gcibtioncs I pcfili lcdo ^pbatas uidcrimus, idc ic dc hac i ntclligcrc poterimus.Lcdtulo pclili non diflimilc alia 1 cilofaCta gcilationis (pccic inucnio,quam primus(quod cgofciam) intcr mcdicos Cclfus monftrauir,vbi dcficicnribus cacrcris gcihrio ni dicatisinllruincris, voluir vni pcdi lcdi funiculucflcfubijcicdu, ^ arquc ita Icdu huc, &: illuc manu impcllcndu.id quod criam Amydacnu Actium fignihcarc uoluiircarbitror,quand(j fcriplir,duascfl^cocitac. fc lccti gcftationes, aut pendlcs, aut fulcra mobi lia iuxta angularcs pcdcs habctis. Hoc cquidc illud cxcrcitationis gcnus cxiftimo,qd^ ab Auic.fub cunaru rcuolurionc dcfcripru fuit,arquc idc nomcn uf li.i.ren.j. quc ad rcpora noftra rctinuit: crli. n. ab ipfo inrcr dcbilcs cxcrcirationes rcccfcat,dcmulccdisq. pucris potius cx Galcni fnla,n6 fanis, aut infirmis cxcrcitadis aptu viilc.iturmihilominus ijs c6ucnirc cre dirur,quos febrcs dcbilirarunr, licur ct illi,qui ncc duin fc moucre, nequc federc valcr,quiq.ab hcllcbori potionc valde^pflrarifuerut, aut fccundu Cclfum alicuius mcbri rcfolutionc patiutur.quin,fi talisgcfbtiofuauircr adminiilrcrur,prcr fomni iucudiratcqaffcrt, fla Q tus quoq. difl"oluit,rcliquijsmorboru capiris,vcluri (hipori,&: obliuioni prorfus cxflingucdis,c6ducit,appctitri mouct,&: naruram fopi tæxfufcitat.Auic.i.4.trac.2.c.i5.ad c6pcfccdum niiniij iudorcpci pit,ut acgri ponarur fupcr illud inilrumcntri,quo pucri,vcl iuucncs foict in acrc cocuti, atque ita in acrc frigido c6cuti,q J quidc puro eflc genusillud inflrumcri,cuiusfadacflmcriofuprali,^fub Ofccl laru nominc. Inrcr gcftarionum fpccics vlrimo loco pofucruiu fcrc ocsnauigationc,cj; cacrcraru omniu Icni/lima fccir C:orn.Ccl.fcd.&: Jq^^ huius quaplurimainucniuntur difcrimina:fiquidcn6parri interclt, anquisin llagno,anin flumincan in mari nauc gcratur: &: in nuri, an in portu,an in litorc,an in alto,an turbato,an tranquillo . Nauigatio fadtain ftagnis,lacubus,autpaludibuscactcris in falubritatc poftponiturquonia ut plurimum cx aquis ftagnantibus,nifi fint maris alicuius inlhir,purridi vaporcs clcuarur,qui acrc inficicrcs nauigationc magis fufpcdam rcddunt, Tt non immcritofcriprum lit ab ^ Anlt, ioi ;pirt;c. Arift.paluftrla loca incolcntcs fubpallidos, ac fomnolcntiom cua D probleiti. dcre.minus noxia cxfittit io fluminibus nauigatio, nempe q au^torc in probh PJ^^i^^ho timoribus carcns naufcam ullo pafto non commoueat. wt. uerumtamcn ta hacc,^; illa,quac cxercetur in ftagnis,in capite ma* lib.i. C.I, le affcfto incogruac a Cocl.Aurel.iu dicatur, g> humcdantcs caput tcrrcnæxhalationeinfrigidant.Duabuspracdiciis maritimanaui gatio valde pracftatior crcdif,quonia mari fcmpcr uaporcs ficci, Sc calidi educuntur,qui Iatcnter,ac fenfim nauigantiu corpora rccludunt,necn6falfæproprietatiscaunacxcrcmctaabfumut,atquc ho minu habitus quada facili muratione reficiut,&: i ccirco huiufcemo di excrcitatioincun6tisferc morbishumidis,ac frigidisamedicis probaf,&:priuatim a Celfoin tufliomni,aCoelioac Arctæoindo lorc capitis,! cpilcpfia,fi ferri quc it,in fanguinis fputo,in phthifi, in kl:critia,in hydropifi a Tralliano in frigida vctriculi intcmpcrie coE medatur.Inphthifinamquc praoftantifiimuremcdiumnauigatione Ii.28.c.4 fcmperaMaioribus habita tui(le,tcrtatusfuiiPiinius,quihac ratiolib.3i.c.6 nc phthificos Acgyptupctcre cofucuiffercfcrt, quo cuni Annæus crplV/.'^' Gallio poft cofulatu lam fcre phthificus, &: ZofimusPIini js nepotis libcrtusfiuiguinis rcicftatione laboras profcdli c{renr,ad fanitatc rc ftitutifucrunt:qqbarbarusilleau6tor Plinij Sccundinomincfalfo infcriptus h.dc rc mcdica lib. dicatphthilicismagis cofcrreinfal tibus,vbi pixnafcitur,habitarc,q in marinauigari.Porrocx maritimisnauigationibusIcnifiimadixitCelfuscam,quæinportu efficitur ^q tamcnin capitisaftcctionibus una cuflLiuiali,&: (tagnali improbauit Aurclianus. Quac uero in litoribuscxcrccrur nauigatio iucundifiima habctur,dcquacclcbratuhoc proucrbiQ narratPlui.Sympo. tar, 7rAoOsiJilvi7rctso!yuvy7a%gi7rxTogitis,oculoru,pcdo ris,&: denique omnibus,jpptcr quac bibitur cllcboru,mcdctur. Vc rum gcftatioin alto mari pcrada rcliquaru uchcmentifiimacxfiftit, &: mutationcsplurimas, atq. maximasfacit,nimirum, cum animus mixtos affedus habcat,&: triftitia,&: /pc,timorc,atquc periculoano do gaudcntibus,&: lactis,modo in anguftijs,&: pcriculis ucrsatibus, lib.^ cau. nauigatibus,quac fimul omnia magna uim habcnt,vt quoq. Plutar. cognouirjngentcs uomirusconciMndi,ac confcquenteromnc vetcrcm morbum prof ligidi : &: proindc iurc dixit Auic.nauigationc hanc adcxllingucndas pracdictas acgritudincs cfficaciorcm cflc. quin&mixrioilla motus,&:quictis, quapracdita cft,fiquid aliud, probc corpus nutrirc idonca cil.Quac tranquillo mari pcragiturin nauigcftatio nonadmodii(diccbat Antyllus)magnam rurbarionc,Oribafiw ncquc coculfioncm atTcrtrcx quo Kr,urt*crmcacc6modata (it ijs,qui-^*^'^'*^ bus ctiam gcftatio in cui ri bus c6ucnir:ni(i 9 hoc nugis habct, iti purgato acrc,ubi n6humidi uaporcs,fcd ficci,6 halitii euocarcfirmarccalefaccrc attcnuarchomuu mq. tandcm niuriæ minus obnoxiu faccrc p6t:a Plinio fcriptii cft kixata homi^ nucorpora,& quadrupedunatado in cuiuflibctgencris aquafaciU rmciL«sredux^NatatiocaUdæmoiIircindurata,c;to^^ ios A fngcnta crcdlra cft.&ob id a CocHo Aur.in curadis arrhrlricisconicndaca,ab Actio cx uiciitc Gal. in i)s,qui cutcm corporis dcnfLita liabcnt^at abca'caputoiTcndi,uircs(]Uodapattocncruari,ncmo ncgarct : alio ctia non carerc uirio dixit Coclius.uidclicct Inimorcs lundcrcncc ipfos rcfolucrc. Fri^ida ^ intns calorcnariiium rcpc!- Icnsiplitm ualidiorcm cfli iatciborumoprimam,iS^cita cocodio- ncmpracltat: cxubcranrcs humorcsdilHp.it, et intus rcfrigcratas parccscalctacit. undc iurcctia ipf-im in arthritici.slandauit Aure- lianus car.itionc mo:us,oua Hippoc. frii;idam rc ranoaflfcaislargc artuiam rcmcdium cfTc rcgio morbo labo- rantib^sinacftatc,(S(: Hcrodutusapud Actium ad euitandumacftu frigidam natationcfn commcndauit. cxpcricnria ramen confl:at,(i quis ca frcqucntcr utarur ncruos lacdi, 6c inrcrdum furdirarcm c6- B trahi, quod Agarhinus apud Oribadum confclTus cft . Atquchacc omnia a nobis dida accipianrur dc illis narationibus,quac ad gym nallicam quidcm mcdicapcrrincbanr,fcd m inimcfcmpcr in i^viti- nafijs cxcrccbantur.illac ucro, quas in gymnalijs iplis ficri confuc- uiffcin 3, lib. probauimus, (iuc in pifcinis, (iucin ampIilHmislabris agcrcnrur, duos praccipuos fincs fccundum opiniorcm noftram ha bucrunr,alrcrum ut motuillo blando^quo narantcsagitatur,aqua magis corpora pcrmcarcr, licq. mcmbra copiolius huincC"tarcnrur: alrerumutmaiorcuoluptatcin moucndofcfcfrucrcnturquando- quidcm aqua mota, pracfcrtim balncorum fuaui illa artrcdatio- nc fingularcm quandam dclcctationcm artcrt.Dc pifcatoria cxcrci tationc,quam diximus cx Platonis fcntcntia ncc animo,ncc corpo- Ii.jTm^ ri prodcflc, &: proindc ab illo optari, nc iuucncs huic incumbanr, Q pauca ucrba faciam, tum quia fcrc fub nauigationcm rcducirur, ut cadcm rcpctcrc non lit opus : rum quia a mcdicis propc nullis cam tnufu habitacflc coftarnificf Auic.intcrdcbilcscxorcitationesad-^^^® ^*"- numcrauir, quando quis in nauicula pifcaroria moucarnr,&:ob hoc g pi fcationc nullam calorc natiuu augcrc crcdcndu clt,cum &: Arifl. pr^ob.x! * icrip(crit,pifcatorcs marinos,idco rufo colorc cxillcrc,quoniam in- tus frigcnf,cxrra ucroquafiadururur:habcnr.n.qui in maripifcan- turhanc praccipuam c6moditatc,q» coru corporaualdccxiccatur, &c proptcrca minimcomniucorruptionibu.s/ubijciutur: quin fipu- trcdo aliqua intus larear,protinus cxugitur, cofumiturq. ut magna cu rationc fcripfcrit Gal. pifcatoru habirus duros, ac ficcos cflt, co- i-dc dmp rumquc vlccrapcrindc cxiccata cotinuo apparcrc,ac /ifilitaforcr. "'^"^^*^- i}upd ucro (cripfit Sucr.Auguftij intcrduhamo pifcari confucuiflb,mcj^. r7' id poti' animi laxadi caufa, qua ualctudinis gratia ab co a^cbatur X 2 nc De yenaiiomr conditionibus. Cap. xni. D libro i.dc paruæ pi tæ ludo. .ENATIONIS cxercitationcm comparansludopariiæ pilac Gal. illudfoliiminteripfasdifcrimenpofiiifse ui- dctur,9 altcr modico apparatu indigerct, et ob id cuius ^ excrcitatufaciliscfsct:a!tcra vcropluribusinftrumentis opus haberer,neq. ab omnib.fcd ab ingcnuis dumtaxat,atque diui- tibus cxcrccri poffct.hoc aiit hcct Galcni forfan tcpcftarcatque ct in ahqua ucnationis fpecic tcporib» noftris ucru forct,nihilominus in maiore cius partc fccus rc fcfc habcrc compcrru cft, qn facpenu- mcrounOjUciduobuscanib.aurpauUo plurib. inftrumcntisrufti- cos, atq.paupcrcsucnadicxcrcirationcfrcqucrarcconfpicimus.ut hac rarionc ipfa minores laudcs pilac ludo n6-mercarur,neque pau \fT^^' eicrib.ucrbis cius facultarcs a nobis cxphcari dcbcant.Cum.n.Gal. ^^^' ' ucnationcintcrca,quæipfecxcrcirationcs&:opcranuncupauit, rcccnfucritxumq. illiuspcrfpcaanaruramanifefte monftret,n6ab. fque uchcmcntia,magnitudine,arquc celeritate ipsa cffici,nimiru in qua mulrac ahæ cxercitationes,curfus uidchcet, ambularioncs, fahus,iaculatio,uocifcrario,& aliæ ncccflario rcquirantur, rationi confcqucns cft cam his faculrarib.pracdira cflc, g> corpora uchcme tcr calcfaciar,cxcremcra dirtipcr,carncs,&: fuccos exubcrnanrcs mi nuar,fomnosprofundosgcncrer,&:proinde concoqucdis cibis,crudisuc.humonb.magnoperc conferar:quodq. ait Xcnophon,auditu ac vifum acuat,fimulq. fenedutc rctardcr.ob quas cgrcgias faculta tcs illud cflc ucrum cxiltimarc dcbcmus,cf Razes Arabs audor gra In vcon. uiffimus cx Gal.fcntctia memoriac mandauit,uidcHcet in quadam ^ tin. irac/ pcftc contigi flc,ut omncs fcrc pcricrint,&: foli ucnatores o b afliidua Li '5^^* cxcrcitatroncincolumcs cuafcrint.Caetcrum quoduchemcnribus *' ^ excrcirationi bus a mcdicis attributum repcrirur,neque Tcnancii la- bor carcre viderur, vt fcilicer caput offcndcndi ui poUcat maximc, fi importunc cfficiatur,quemadmodum in 4. dc acutoru vi£lu apud illum audtorcm lcgitur. Quantum ucro ad parricularium ucnatio- nisfpccicrum qualirarcs arrinet,de duabusfoluucrbafaciam,tam- quam i n his folis rora ucnadi ad fanitatcviut acgritudinc pertmens faculras confiftatiillae funt,cc|ucftris,ac pcdcftrismam fciut omncs, qualibct ucnarionc,fiuc canibus, fiuc rctib. fiuc auib.fiue arcubus, fiiic ali js inftrumcnris excrccatur,ab hominibus agi, cpi aut pcdib. proprijs cant,aut cquisinfideant.Equeftrcm igitur(italiccar mihi appcU irc)vcnarionecxcrcctcs,cum modo currcntib. equis,modo radicntiL>.agant,modo uocifcrarc,modo quiefcere cogantur^omnib. cpil njb. partlb.labonre uidcrur,&: iccirco multi hac exerciratione crc didcruntcorroboraripeftiis, ftomachum,inrcftina,dorrum,atc]ue crura: cgo vcro ca cuirarc iUis praccipio, quibus capur facil.tcr of- lcnditur : quibus fradionis ucnarum in pcdorc pcriculu immincr, quibus lapilli in rcnibus aggrcganrur,quibuspcritonacum dcbi'e, aut uUahcrniac fufpiciocft, i4id tc frcna iuuant temcrana f Jacpius illis Trifcedatum ef} cquitcm rumpere, quam Uporem. Porro vcnario pcdcftris cadcm fcrc c6moda, 3i: incomoda in cqueftri repcrra contincr, nifi s», dum curfibus, ac faltib. fcras inicdatur uenator,per montes,per uallcs, pcr deuia, pcr filuas, pcr filtus, minori cerrc pcriculo, quam in cqucftri, fubijcirur : ar maiori labore Q afficirur,magis incalclcir, magis pcdes, &: crura corroborar :pracrcr haec lihidinis ftimuIos,cocrcct, quando Hippo!\ tum ftudiouirgiSencca m nitatis hoc ucnarionis gcnus cxercuiflcfcrunr.Excirar quoq. ucna"^S^* tio appetirum,(icur coquus illc Dionj lio dapcsaucrfanti rcfpodir, ipfidcfuinl' laborcmin iicnatu, qui appctirum gcncraficr. Ncurra tamen,g» uchcmcnrior cxfiftar,lcnibus,aur dcbilibusaccomodata inucnirur, fcdillis ranrum,qui robuftasomncscorporispartcsfortiti finr,quiq.oprimc ualcar.urnon abfquc iudiciofuramoCorncl. u. i.c i. Ccl. dixcrir,fanum hominc, lic bcncualcnrc modo nauigarc, modo cpiihiib. > ucnari dcbcrc . quod li Plinius ncpos fanitarcfuam uenarioni, qua ruri in Tufcis objbar,aliquandoacccptani rcruiifsc uidcrur,iudicandum eft, aur iJla modcraiilTimc ufumfujfsc,autporiuscorporc robulto,ac fano ita ualuifsc,ur nullo padlo a tanti laboris uchcmcntialacdcrerur.Eritiraq. ommb.hanc cxercitationcmmirc cupicntibus tibus duo neceffanum diligentcr confiderare, prlmum an corporis D roborc polleant,inculpataq.fanitate fruantur:fecus,ne grauiflima t3ericulafuftineant,iuredubitandumuidetunfccundum,numquid modcftia quadam,& iucunditate, aut potius citra dcleaumuUu, 8c cafuquodam,ut plcrumquc fit,vcnationi opcranauct.Qaicuquc.n. fuarum uirium, aeris, temporis, quantitatis, loci, &c modi rationem aliquam habere uolimt, multa profcao corum malorum uitarc poffunt, quibus cctcri cafu fcfe excrcentcs fubijc.untur : eo magts. quod u^natio Ulud praecipuum in fc habct, quod nulla aha cxcra ?atioineummodumobtimufl-eapparct, utfc.hcct totum fcrcd e nonrarof.birequirat. vnde aut vcnatorcs mter excrcendum cibum capcre, &c a cibo magnos laborcs aggrcd. coguntur, quo ualctudini nihil pcrniciof.us effc poteft ; aut tota d.eic.unant, quod tamctfi fortafleminusoiTcndat, ncquc tamcn ipfum noxapenitus b circt,quando practer confuctudincm illud efficitur.nccnopoftca ufquc adco prac fo.nccxfaturantur, ut uentriculum concoqucndo mirum in ./odum fatigcnt, f.cquc &c cruditates, &c aha mnumcra malafubcant. Artis Gymnafticæ finis. fcx artis Gymnaftica:Jibroriim clcnchus, cjuorum primus libcr continct . r: E prwc pijs Mcdicina. Capiit prifnum, \ De t Ofi/eruatiua Vartihus, et (jtiid tr.iBjfuiuni . Cilp. X. ^t}dfitgyr)ifia§U(a (^r.otiipUx. f.3. Dt ^ymrajttcx ftbu^o, et tius laHdibi*s cap 4, SiHr ttmpore,et quo pa^o caperit CymnaHica c^P*')' Dc Cyn:n.iS 'S annqui rum cap. 6. Dc V. 1 Ps hiniinum j^t nerilus y qux in gyn.na/iaconurnicb^nt ^^P^J* De^yfnnalioTHdiucrfis partlbus. f.8. DepuU^ra, et alVjS gymnasi» part.bus cjp.^. Dc h^b eis ^ymnafiorum, atque etiam dejiadto cap. 10. De accuf iius in ccma antiquori m, CT Itmd dimtnxjt in die cpundi cor^ fuc'udinii origine De au^oribus gymnaflicjt, fjr ^ymna" ftorum mth:fiiis cap.li. De t*ium ^^yvihuflicdt ffefie*urn d.jfi' tcniui.beUicaJtji^iuma fiue mediia^ CT vitiofa feu athlt tica cap. 1 3 Dc vitiola gymf.aslica, ftue ^thlctnacaf.l^. Dc riuendi ^thlctarum ratione Qf^id fit excrcitatiQ,Cf q^o differat ^ a Ubore,& r/iottt. cap. l. Dt vyonMitic^ mcdi^je dhificne cap.i. Defaltatoria car.]. Defphxnflica c^p.^. De piU ludo fccundum l^thos dp.y GymnafticA, De orchifiica, fiue ttrtia faltatottapar te cap,6. Dt finefaltationisy C^ de loco cap.j. DeluSatoria cap.9. De pugilatu,& Tancratio, et Caiiibus cap.^. DcLurfis cap.io. Dc faltu cap.11. Dc difcOy& halteribus cap. i De lAcuiatione. cap.i^, {TirS. Dt agendis, et dc rationc prufentis trati^tionis cap.i. De drary.bulatione cap.2. ^ncrcclum slate fit exercitatio cap, ^, Dc pu^narhmgeueribus cap.j^ De nofinuliis a.tjs e.xtrcitationum ipe^ citbits cap,^. De Ipiritus cohibitione cap,6. De vociftratiot.c, et alijs vocis cxerci'* tatioribus cap,j. De Cric ljj:a, Trocljo, et Vilamailco cap.S. Dc eqmta tione cap.g^ De curruii vcctatione cap, i o# Dcgffiatio^'C in ititica,& flla . c,i i. De agjtatn nc per ia tos ptnfilcs, C^ per cunxs facta,^de sciv.podio. ca.tt. De nauigationc,& pifcationc. cap. i j . Dc natatione cap. 1 4. Dcvcnatione capij» D LIBE !{ Qr^riTffs. E rationc agrndorum, et deexer* iUaiionis vfu cap.t, r €on* Confutatio opiniows eoritm, qui exeni^ tationem in fanis damnabant; et de exercendi necelfitate^ atquc commo^ ditate ^ cap»2, Jmprobatio eorum quiomnes homines cxerceri debere ftntiehant cap. 3 • J{edarguuntur qui affuetos folum exerceri voUbant cap.^ De exercitationum differentijs ctrp. 5 . De corpdrum morborum, et fanuatis generibus cap.6. ^n corpora agra vllo paUo exemrt co ueniat cap.j. Decorporibus valetudinarijst&fenili' hus exercendis cap.S. T>e corporibus fanisexercendis cap.c). De locis in quibus excrcitationes fieri debent cap.io. De tempore cxercitationibus apio, cap. 11 Qumta fieri debet excrcitatio cap,\ 2. Demodoexercendi cap.12* DEordineagendorum y &de nonnullis fcitu dignis cap. i. De ftngularum exercitationis differen' tiarum effcciibus cap>2. De faltaiorui: effcHibus cap. l . De ludorum pilx cjfeBibus cap.^. De luH^ commoditatibus,& incommo' ditatibtts cap.^. Depu^ilatus,Vancratij^& Cafluum fa cultatibHs cap.6. Dc curfus natura ^^pl' Quid praflet faltus ' cap.i» De halterum conditionibus cap.pta Abrnhi vt Dc* jb Aicx. Sc fo cbjtur lii d Aiaci;nua Pljtonisi».c Av nbitus con.uttudn viidcnunant 5 3 b AvCubitUN viroi u fomw S > et dcmccps Accombcnimm numcrus quis tflci. 54.oribus palam cxjhjhcbaniurA qiia dc cauf» I c Ac^yptus, Homcro aatorc,mu!ta$ hcrbjs ic mcdicjmcntj habuit » b Actcct rxiri'.rcs.uscorp^iri .iccidcntib.6. f Ac:as i cxcrcitationc cit c6;idcradj i ' i.t. Asbii^dcscrrauii.rifum dicca$nct)i o po ri,ncqucanim" prodcfTc. i.b.i«8 d AKoniiTjrib-. Ab-ti crant vna faCtto Rcmana i6d c Aldus M inuii* luncnis cruditiflim». . 7« d Alcx ndcrScuc. us Impcrat. cxcrcitjtionis Ciula aliquando pirc-b.uur 181. ciuos Dcos colcrci 1 iii d ad maiorum cmgics facrafacicbac 'b.d. Akxandri Scucri Imp cxcrcitia port lcctio ncsquxfucrint . 1 ^ (>Jtm balnca viro rum JcmulicrumicHrauit jo.d Alcxan.Sci«cri.s Impcr fcrc fcmpcr frigida Ijuaiioncvicbatur,rurocalida jy c Alcxan-Scucrus Impnoluit mijcnuos cur(ucxcrccri AlcxandtrScucrusImpcrat. ncmora pub. ihcrmisiunxit ^^^l Alcxandcr S.ucru^ Imp.qiu viAns rarmnc 1. jfDpndio auihorc, vccrctur 2 1 Alcxandcr Maccdonum Rcxqnid ante cibi (un^pticncm agcrct . C A k x.mdcr prop' cr cruris vul nus lcdica m mtlitari txpc»mionc vtcbatut 197-^ Alipiiu^ in gy mnalTjs quis circt,& quid •^gc rtt io fjtta, anibulationi m portKU fjdx a Ccllo przfcnur 16 ^.a Ambuijuo lubdiahsinuitas habcc fpccies ibidcm Anibul..tio fub Solc, vcl in vmbra faAa ab authoribus Jiucrh^ diucrnmodc acccipitur ibid. Amoubtio fub Solc minus Ijrdit, quam fta tio,& qua dc cjula cx Ariliot. fcntcncu 266f.i7l.J. 17*.C AmbuUuo m vmbrj Tafta, quxnam fitboaa ibi. Ainbu?atio pcr jrboics rorc fufFufjs fafta Icprjti* fjciic inducit,& cur 167.2 AnibuIat:o cpiIcptiCiS,& vcrtiginofis conuc nicnsquarfit ifj.i» A.itbuljdo antccibum ficri dcbct, et qua dc cjufa ibid. Ambuljtio pcft n.i qb conucniat. i67-C Ambulationis matutina;,& vcrpcrtinac cifc Aust]ui(int ibid. A-niciis Bibriciorum Rcx ccftu claruit, 8C fuit a Polliicc intcrfcftiis iio. f Ammon apud Ouuccltu vahiic ii/.a Andrc.Ts B iuiius vir multar dodtrinar. 34 Andr Pjlljdius Architc pcrii (Ti iius. 19 C Ani;iiiJ Ijborjntcs lin^a cffngunt. 145. C AnimuN H^k^ corporis aux ijo nihil laiidc di pniim clficcrc potcll ij.a Afincus^-illio fanguincm cxpucns nauigatKJHC fanus f .^usclt i7y.b Antlicus lccundum platoncm fuit lu^Jtionisarusauftor ioj.a V X Antiol AiKiochiis lucdicirs quo cx;rcicio vtcretur 2rf>.e f Aiitioch^ mcdic* vehiciilo geft.ibat.2«?7.h Antiq: bis indiean femcl f iturarent. 5 2.f Antiquoru inos viuciedi rpa iucgna. 57 a Antiqui in rtratfs coenab:inc 53. a Antiquiomnes voluptates in couiuijscxcogitarunt ^g.e Antiquoru ftudiu in cibis ac potibus dclica tilTiniis coquircadis inignuni fuit. 58.6 Antiquorum fcripta quonam modo interic ' runt 161.C Antiquorum maior pars raane vel nihiJ,cxt guum quid fumebat 225. c Antiquorum maior parsin vefperc folum faturabatur ij^.e Antonius Pius Impe. balneiimpopulo fine mcrcede conrticuit 48. d Aphorifmi Hippocratis txplanatio 13 i Apodytcrium in palacilra quid fucrit. 291.C Apodyterium in balrieo quid elTet 40. f Apollini cur Athcnicnrcs gymiiafium con • fecrarunt g.d Apollo iacubtionis, et medicinæ Dcus ab antiquis indicatus 130. f Apollo iaculationiab antiquis eft pr.^poG • tus,& qaare 258.6 Apollonius vt Dcusab Alcx.Seue. colcbatur iSid Apoplciaici Tral. fententia le^ica vti pofrunt,& qua dc caufa 229 Aponaxisquid Sj.c Apoltemata in pedore rupta habentes vocifcrationc iuuantur 281.C Apricari quid faciat i4o.d Apuleius Ccifus in Sicilia qucndam a canc rabido motfum curauit 4 0 Aquas fornudo,Pompeio viucnte, primo fe nobis manifeftauit 4 c Aquis mcdicatis etiam vtcbantur in lauatione ad voluptdtem Aqua c cx extrmfecus cor^i accidctib. 6.{ Aqujc omnes Ipontc nafcentes caJidæ funt Ariftot.authorc S^yc Aquarium quid cifct 4^.^ Archigencs fuit Had.Imp. archiater. 1 9 i.f Archimcdcs facpc figuras mathcmaticas in corporc vnfto dcfignabat ^i.d Ariftotelis fcntcntia dc gymnaftica Sc p.Tdotribica, 10. d Ariftfentcntia Jcartc gymnnftica. i^.a Ariftot.fcntcnti.idc motupoftcibG. 2 2i.a Ars gymnaftica,GaIc.fcntcntia,cft maxima BUs £jcult^^s confcru;itrici$ y.b Ars gimnafticn qb. na rebns pficiatur. ib^ Ars gymnuftica quouiodo fcicntia aGalc?' no vocctur 10. d Ars gymrtaftica quid nam circa corpus humanuoa operctur 12 f Arsgymnaftica ad boniJ corporis habitum a cquirendura, ac finitatem conltruanda maximc j^dcft muitorum tcftimonio.i^ Ars gymnattica homini cft naturalis. 13.C Ars gyninaftica quo tempore inccpcrit i r* b.c.d.& quomodo ord/ncm ac regulas ac ccpcrit i5.c. c Sis vtcrcntur 6^,c Athlctx quo n lc a Pbto voctntur. 6'j.b Aihlctaruni vii^ns ratio.qu.c c^ct 7iC Athlct» cur pjllidi fiant poft bborcs cx Arift rcntcntia 74 c Aihlctar a Vcncrc pfu^ ahftinucrunt. 7 5 b Aihlcrjru xgrjruJincs fccundii G.il. 7^ J AtMct.cymn.^njca raltationcs habuit. 85. a Athlci.v amlnil :tionjb. no vicbjniur 13 rb Aihlctr sducrfus palu fc cxcrtcbani -a AthlctT c« fpiritus cohibitionc nonpaiu auxil j capicbant M4 J Athlctacftatim po{\ cxcrcitationcm potuin vi?abjnt,& qua dc CJufa 124 d AthJctx frcqucni.rrmc vtcbantur putilbtu,luc1a,& Pjncratio i4^ d Athlctar olkntationis ctiam gratia fpiritu rctincbjnt u^f Atrophia bborantcs vocifcrationc libcrun Tur *Sic Atrophiam gcftationc curabant Thcodorus Prifcianu>,& ArcixuN ay^.d Attoniios aliquo ftuporc Actius oca.itiunc curabat Author huiusoperis cur dcgymnafijs fcribc c fibi propofucrit 7 * /uditus f .iriiu rctcnto mclior fit 179 b Aucs in acrc fiarc apparcntcf an aliquo mo do moucantur 1 ^ 7.3 b Aucrrois fcntcniia dci;squi cxcrciiationc dinntiunt iP4C Aucrroisrcprchcnditur, qui ccnfuitmorbofa corpora quoudicad fudorn initiu cffpcxcrccnda ^^9.c Aug Imp.lci;cfjnciuit,Tr militcs cduccrcn tur ambuljtum in mcnfc ^ i^T C Auc.Imp. fimpodl" qnq; vchcbat. I77 C AuKufius Impcr.foUcfccxcrccbat, et qua dccaufa .^y^ Au^.Imp. in finc dcambubrionis fubfultim currcrc vldcbatur et qua dc caufj.i W c Aup Imp. coxcndicc,fcmorc,&crurcfini/tro bboras ambubtionc in li.ircnama «invc pfuudafccxcrccbat,&quo. z6^.f (jymnAlitcA, Aup.Impc. poft coenamlcaica lucubratoria vtcbatur Z99.^ Aurcli.inus Impcrat. thcrmas hycmalcs in tranllybcrina rcgionc fccit lo^.f Aurium dolorc p.iticntcs lufta Ixdit.a^^.C Aunumdolorcvcxaios gciUtionc Galcn. Tral. et Actiui curabant i.b Bjlucoru fitus fcJm Vitruuij Inlam . 43-f> B.ilncoru acr cxtrinfccus et intrinfccus.ibi. Bjlnca multum calida Gal.icmporc in dcfuctndincm abicrunt 44»C Balncorum magnitudo,mobilius,imroobi~ liias.figura ibid. Bjlnca non cundcm fincm habcnt. 4Cf.e Bjlncis calidis .tcpidis,& fngidis antiqui diucr fa rJtionc vtcbantur 47. b B.dncum rcs qujdr.'itjrij cur vocctur. 47. c B jlnco-um hora qux fucrit y o f balncj fcmp antc folis occafum claudcban tur,ncc vnqujm anrc.iurora apcricbantur jntc AKx.Scucri Iinp tcmporj 5o.f Bjlncis ;'cnfi]ibus Afclcpudcs in xgris curandis utcb.uur. i^^.f.d.a ScrgioOrata funt inucnta 177.* Bjptilkrium jn balnco qiiid cffct, 33?. C Bcll'iro; hron fuit cqtatiouis inuctor 167. c Bigis PlJio animjs airimibuit Bi^ix in pub facris frcqucntilli ncccriaucrunt ibid. Blandi Forliuicnfis crror dc thcrmis ly.b Botubrij I gymiufijs botulos vcdcbat.^4 c Braclua,dum quis manibus vjcuis currit, quodjmnu>di dt didi -wccul us loi.a Cyrws rcifurumRtx ct oris laborcs magnopcrc xllii: juit K.d Ciliuscrai vchiculi fpccics 208. c Cbudius C.tl.vcliJtulo vrdiquctcdo primus.fc i|u..iido cinfus 172 f Clauduslnipc H.npt>cii lil cjio fuo conccflit,vt |> vil c JtN n iPi i ni pt ftjculatic nc cur;bat Arxictus 24C.d et \t cifcr; iicnc. 281. c et cxcrciiatK i:c jmcr n ) rios,Iaiiros, et ih)nun>f-6a Coitu VI tri vcfpcic rcn bi nam cr-i io.f C6tc6ioncm In-p cdit cxcrciiatio cx Frafiflraiifcnftrtia J5>i b.c Conct Aio^ a ijuictc, et ab cxcrciiaiicnc mtdcratt f-^a multum iuuitur. 192. f Ccnccciucics c.fliculicr vocifcrai:onc iuu:;niur 281.C Cf niflcriu i pal^flra vbi ra crat 20.f 34. c C61ctuai.u.i n (d:cjrxpaiJ aqbufda lola digna tidttjVt ncic mcdicjr» ncUt 5.C Ccnfcrujijua n cdicii ap pais a cjuibufJam in trcs paritstfl diuifa 6c Confciu.niiua tcf fiiiucnti.-. quatuor nominibus a n cdicis cc mprchcnduniur. 6,( Conflartini Impc icmporcaccipi irtscdo ccric^pciiint ifcSc Ccnluciudo nopra cx paiic conucnit nalur.T txcrcitati corpc ris i>8 c f Cofuctrdirt pn.uiiic'» valdc Ixdutur.ib:d. Ccnluciudo n .2d Coipori» hibiiusab cxcrcitaiioiic coniipruaiur ^ i^ic Corpcris virtuic* pcr cxcrcitaiioncm forticrcj fitri et opcdititrcs i^2.f C( rporis n ( n l la pcr cxcrcitationcm fir* mitatcm &i robur accjuirunt. ibid.ii^^.cl Ccipons hjbiiusab ot:o dcflruitur.i>2.C H7C Corporiim tria gcncra a mcdicis confidcrantur,& tjux 2*4 d Corpora argra an aliquo pafto dcbcat cxcr ccri 105-^ Cotpora Gcc2 motibus lcuibus et raodcrans vti pt flunt io6'( Corporib. c-hdiN et ficcis null.T imodcratat (xcicitaiiocscoucnjut 2c6.f 2 i 5 b 22p.C Corf oribus fripidis et ficcis cxcrciiationci icmjfia-corucniunr. ibid 115.C x^od Corpora, t]uoru vnu mcmbi u intcpcricm paiicur,(]uomodo lunt cxcrccnda. 207 a Co;pu* nulJu tjuauismtcpcric laboraNdct vthcmcti cxcrcitationctxcfccri. 207.b Corpcracb malam formationcni morbofa, qu(.modo luni cxcrccnda . ^^]^* Ccrpcra in nun cro n.oibofa cxcrcitationibus vti pofluut 208. d Corpcra zpriiudinc in fitu laborantia nulIt. ocrcjtationis gcncrc vii dcbct,& cjua (ic caufa /^'^' Corpoia valctudinaria ^ n3 fub fc/m huV 4 itts t. Hi> au^oris fnhm pfit: coiuiiicre. ioy.a Cor^ora rciiiun ciir niuica cxcrcaiciita gencrcnc iio.d corpbra femim t]iiibi!s exercicacionibus vti debeanc zio.e corporum f.inorum differencias multasancitjui medici conditucrunt 2 1 i.c corpus perfeda fanitate prxditum potius mente confiderari poceft,> quam re ipla inueniri ziz.d corpora multa temperaca in ftia regione inueniri dixit Gal. ibid. corpora cominuniter fana difta excrcmcn ta quotidie gcneranr,fe ob id excrcitatio nibus indigenc ibid. corpora frigida, vehcmenter, &multum exerceri debcnt zi^.f corpora humida excremencis abundanc, et ob hoc mulca cxercitatione indigent,ibi. zzy.c corpora humida .1 labore fufFocari^hæc AriItocel. fencentia quomodo ficincelligendaconciliator exponit ibid. corpora in æftatc potms, quam in hyeme funcexercendæx Anft.fententia.izo.f corpora quibus temponbus finc cxercenda &locis zzi.e corpora calida et humida moderatis exerci tacionibu» indigenc ibid.& z z corpora fngida et humida mulcis, et vchementibus exercitationibus mdigcnt ibid. et zjo.d corporaabijrde,c]uadoq, lacdutur, qhdoq,' iuuantur,proucinisapplicancur. zj 5.a corporis carno/itas mulcis cxcrcicationibus remouctur Z38.C corporainduto minusa fole calefiuntfccu duin Arilt.rnlam,& qui dc cnufa z/z.e Cttrpora luxara tum hominum tum quadru pedum nocando in arcus fjcillimc rcfti • tuuncur 3^54^ coriceum in paL^ftra vhiham crdc.zo. f. et quidclicc zp.c.87.b corycus quid cfTct cx Antilli fementia. 8^. e. ioi C.Z4Z. d cornarius corycum malc follcm intcrprctatus eftm Hip.conuerfione 33. c cornarius malearguit Budxu. 1/ 8.& i ij) coxas debilcs faltatio coufirmat 1^0,6 coxis cx Hippocfenccntia equicacio eft ini mica 25^. a craneu gymnafio apud Corinthios. 1 8.f craffi luando cibu dcbcncrumere. ZZ3 c cmcn mediareruus hornbili q^uod^ uioibi genCre captusfiiit,quo carncs ab oftlbuscadcbant J.a cracin*' poeca cur faJtator fic vocatus. loi.b crepacuras patietes faJtu dent vitare.zjy-a &dircun. Z5:8.c. et /piricum recentum. zBo.d quomodo fiant Z84 e. f criptoportids antiqui ad deambulandum vtcbantur,& qua dc caufa z^^j.a crifijafii forma ex Oribafio, quasnata fuerit. KJ^z.d.eius vciJicas zc9. h crico mcdicus Komar fub Traiano floruit • Z4f.c crudos piJæ Jufus Jardit 243. b crura infirma fdtatio corroborat 240.0 crurum vlcera haJccre Gahcurabac. z 5 ^.e cruftuJari; in gymnafijs cruftra vcndcbanr. 64 c cunisquomodo in ægris curandis anciqui mcdici vccftntirr jyS.e.^oi.b curatiua mcdicinæ pars ob neceftitate prius eft inuenta, et a quibufdani impcftura quedam dicitur J.b.c curz fjnnm corpus conferuanc ^.f currendifaculcas a natura daca cft aninvalibns ijya curfus ccrcamcn Elciinfticuerunt iiy.c currcns ab ambulaiitc quo diftcrac. z y i. a currcntcs hycmemigis rigienc ftautibus, &quadccjura zzo.f currentium fpiritus anheJat zjz.d curribus faciedis marcria apta e abies.iyi.a curribus manu dudis rebricitantes, vt inquit Herodotus, vtebantur et quancuni fpaci; pci ficerenc 171. e curribus ois gcneris fani vtebantur. ibidi" curribus tcais principes vtcbantur potius, quaHi npcrtisantiquitus ibid, curru tcfio Plinius iunior propter oculorum infirmitatem vtcbatur ibid. currus niulta apud antiquos crant gcncra, et q et quo rimilia,& djftimiha erac. 1 73.^ curruhs vedatio ab Eiichthonio cft inuen. i7i-a currulis vedatio.ipud mulieres Romanas in maximo honorc h ibcbaLur J^i .b currulcm ve»ftationcn) R' m.mi mulicnbus abftuIerunt,ob nimium luxum, poUca il lis rcftiiuci uiu,& qua dc cauia ibi. cwrulis vcdatio jpud gymnaftiLosacftimata erat 171.^ currus duarum rocarmn antiquitus erat in v^^i» 171.» currus quacuoi: rourum Phryges muene(uat ibid; Curcus. Currus fcx rotjrG Scythac inucncrunt ibid. Curiustoimacl^ vuiia ibid. Cui uu ccrtamCm ludos oly mnios quando htinucaum i^ic Curfor i]ui lic cx Ariftot.fcntcntia. 70. d CurluN G^l. rcntcntia no parQ cofcrt ad i\ nitatc,& bonum habitum. i i5.c.245>.b Curfus t|uis motus lit.io i.ccius vtiiita',& i4y.c.&infra. Curlus trcs funt fpccics cx Antylli fcntcnIi6.f Curfus apud vetcrcs Grrcos cjd fit. .b Curfus omnis fcbritntibus nocct. 149. c Corlum pro vcrtiginofis curandis atqi cpiIcpticis Arctacuslaudauit ijo.d Curlus circulariscrtcctus cjuifint& omnino rcpudiari dcbct ibid. Curlus co$,t|ui fungos comcdcrunt, et qui a rcriptionibusnfti iunt,iuuac iso.f Curlus quo rcncs ixdjt,& luucc. ibiJ. Curlu non in pulucrc fa«fto faucium intcrio run: cxulccratiocuratu. ibid. Curluspcdcs et crura luuac ibid. Curfu^ qua dc caula cx Anfto.fcntcntia ca putUdac zT*'dCurfus a quibus vitari dcbcc lyi.d Curfus inpoltcriorafjclus quarnain auxilia cx Aniylli lcntcntia corporis partibusprxUcc iji.c Dutius pcracdiuia, et dccliuia difiircnuac Cu! fu^ corporc nudo faftus quid c/Hciac . Curlus nuo tpc magis Gtfacicndus. D DArcs apuJ Vcrg.ccftu valuit. irr.a Ocaaijulationis vtilitas. c.i^y. pcr totum capur. Dcambulationib.loci apii qui fint. 16 3. b Dcainbulatio multa^ habuit (pcs c et infra. Mi^.c Dcambulaiionc qh vti dcHcmus. xtfc.d Dcainbulationis ctfc ftiis qui fint. ibi. Dcambulauo mcdiocriscit magis in vfu,& quxfic Jbid. Di amtiu!ationc pro inrjnij,& afthimatc cu randis C^l Aurcl.vicbaiur itfo.f Dcambulationc proidcricis curandis Archigcncs vtcbutur ibi. DcamboLtio pauca quibus nam conucniat Ui d Dcambulatio cxtrcmis digiiis fafta lippicn nbusconfcrc 26 3. a DcdnibuLuoDUin dificrcntir, a loco liiin- pt.r qux fint z(ondcrit. 187.C 307. b D;orcu.s aducrfarium vn^uni et finc pulue rc lupcrJUit 33.^ Dioxippus aducrfarium un^ura, et finc puliicrc fuj)pcrjuit ibid. Dilius quot ngn:ficjt.& quæ 123. a Difci cxcrciuciu fuit antiqua. cius vti litas xj7. b Difci figura qualis fucrit 125. c Difcus tobuftjs corporibus conucnit. f Dilci cxcrcitationc loco pcrg itioni.s,& plilc botomii, fi quid impcdut, vti pofrtimus cx Gal auihoritatc 257.C Difcobjli I2Z Dilcus a ijcuhtiouc tum in iuuado tum in Ijt Jcndo p.irum diftcrt ibid. Difcus ab haltcrc dirtcrt D(»ictibus vjrius lcrmo fiibucnit. 283 b.c DoIichu>cui(us quis fit ii^.e Domitianus Inipcr. laculationc cxcclluit. 13 i.b Domitianus fmp. locum pro vocis cxcrci- tJtionc inltituit 1 5 8 c Do: fun) dilcus . o: tobor.n 25 7 0 Dorfumdcbik- h. bcntcs crc^ti fiarc noii dcbcnt,& (juadc caufa i69.b Dracunculi cu ca ci tira et br.uhia multis cir ca marc rubium Jpparucrunc,& quid fa- ccrciic 4.t* Dropax I. Dropax qind fit 213.C Dubiiaricncs duac circa cxcrcitationes or- ta? foluuntur 102. f Duellum a quo (itinuentf:,& cuipugngan tiquorum generi refpondcat i/f^a E ELxothefium in palcftra vbi nam eifet Il.d. 2C.f Illeborum qui fumpferunt geftationc inle ftica fada iuuantur. 2^^.a et in lcdis pen filibus. 301. a JElcphantiafjs Acgypto famiharis quo tcm- porc Itahs innoiuit 4 Blcphanticos vfu coryci Argtcuscurabat. C.& vociferationc.282 c. Cclfus de ambulationc.26 j.c. Afclepiades gcftatio nc 2^6. f Elcphaticos natatio maritima iuuat. ^o4.d Entelkis apud Verg.ceftu v.duit. i j i.a Ephcbus Athcnis lcrpcntem pufillum, et Ibtim ambulante cfi feniinc cmifit. f.a EphiEbuminpalcltra ybi nam crat,& quan- tum 2o.f.24.e Epilcpfia jnfolationc modcrata fccundum meihodicos cuiaiur 271. c Fpilcpfii gladiatoris lugulati fanguinc cpo- to recDiicirm quofdani curaiur b Epilcpfia /pirmi rctento C^l.Aurel.autho- re non curatur. 280. d Epilcpfia quo pafto vociferationc curciur 282 e EpilepfiiE vthiculo pcr lonf^a via vehi non conducit C^I.Aur-cli .luthorc 2^7 c cpilepticos gclUtibnc Gal.Tral. et Æt.cu- rabant ibid. epilepti.curfus vchcmcns ex Thco Prifcia- ni li ia Iibcr.n. 2So.e et loga et rcdaam- buiatio tx Cxl.& Ccl.authurit 2>)2.c cpilept. A £ius curabat n^ancu gcfticulatio ne.24 o.d i.Tdit de ambulatio. ifi.a.e cpilcpticis Aiu)]Io auihorc nataiio omnis obcft 304. c Cpifcyrus lufus quis 8j cquitaiio on fit cx rcitatio 79 a cft motus Uiix us fctundunj Gu c. i^o.f ipi.d equitatio q.d cfficiat et ciu.s inuctor. 167. c lcnip in h(jnorc tll hab:ta ibi. et 170, d cius vtilitaic.v,& dan na. i^i.c.f cquitutio (ucculfantc cquo fafta qu dcffi- ctat 2i?5.b cquitntio pcr afiurconcs cquos fuda qiiid ctfici.it ibid. cquitationis pcr gradarios ccjuos L&x cfic dus 1^3- c cquitantcs curaliquando lacrhymas em/t- tant 2^4.d cquitatio an fit geftatio ibi. erafiftratus mifiione fanguinis e mcdicina aufcicnda,atq.- ctiam oem cxcrcitatione inutilem ad fanitatcm iudicauit i^i.b crafiftrati r6ncs,quaiuor qLus cxcrcitatio- ncm inutilcm cffc ad fanitatcm dixit.ibi. crafiftrntus per inedia trium aut quatuor dieruin nniltos affcftus curab..t 15 3. c crafiftraius eft damnandus,qui multos gro tos dcambulationibus poft cibum cxcrcebat crafiftrati loncs foluuntur. bid. et infra. c erafiftratus malc a C^Iio reprchcditur . paralyticos de, mbuhtionc in locis harc nofis f.(^a cxcrcendcs ludicabat. 26^ £ Err.fmicrror 154 f crcftum Ifarcan fit cxcrcitatio.i^^.f. vtih- tas et nocumenta 16$ crcdi liatcs quodamcdo mouenrur. .C ercftumftare antecibi fumptjoncm quo- modoiuuat ^. c crcdum ft:arc multas habctdiffercntias, et vndc capiantur i6p c creftuni ftarc poft cibos fumptos quid fa- ciat crichthonius currulcm vcdationem inuenit i7ia cryfimachus mcdicusad fingultnm curan- du fpiriius cohibitione vtcbaiur. 1 j ^.e cfculcnta lu cibi tum rcmcdij caufa a:grotis txhibcntur ^.f curhorbus lubas regis medicus,& Antonius Mufa fratrcs vfum aqux fngidx poft bal nca caiida nionftrarunc 47 b curipidis fcntentia dc athktis 7 i.b c cxcrcmcnta diucrfis modis e corporibus au fcruntur ipo.f&infra cxcrementa in corporihus detcnca multas morborum fpccics gcncrant. I5>2.c. i >.b Cxcrccntcs fc fuK Cdc m.igis incaLlcunt ciaicffcntcUjqu^ n qui luoucntur, fs: ijiu dccaufa ibiJcin cxcrcmcnca in Iiycmc cur paucagcncrcn- tur 21 i.b cxcrcitatio cx mcdicorum fcucntia fcm- pcr ancc cibu n a lanis fic-ri dcbjc. cxcrcitjtioancc cibum dupliccm vtihracc aftcrt 2i2.f excrcitjiidi tria dcbcnt obfcruarc 1 cxcrciiationis fadx poll cibum nncnmcn- ta,qu.t fint .ii excrcitacio non dcbct ficri vbi Itomachns cil valdc vacuus,ir(ium hoaunu n quant.i clfc dcbcat,& dcoilium ibid. Excrcitatio fcnum minc^r cfTc dcnct quim, cum luucncs clfcnc ibidcni Excrciiatio hycmc fada'citra fudorcm ficri dcbct Excrcitario ucre fafta vfque ad fudorcm fic.idcbct ibid. Excrcit.it o Autumno fafta minor cffc de- bct ra.quar xlbic fit ibid. ExcrcitJtio iiulfuccorum qu.T, et quanta c(fc dcbct 2jo.e txcrcitatio immodicj oibns nocct. 2 3 o.c Excrcitaiionis jmmodicjc fun.i. ibid. ExcrcitJtioncm luucncJ quando dcbcant incipcrc ExcrcicJtioni pcragcndx qui modus cft adlitbcndus ibid. Excrcicationcm viri quandodcbcant inci- pcrc ibid. Excrci- Excrcitationem antequam incipercnt anti- quiquidnam fjceient ibid. Exercitationem Ifatim poft cibum nemo dcbetmfjpcrc f Excrcitatio prius remiflTe ac debiliterincipi dcbet,dtmde paulatim jugeri. ij^ a Exercicatjonis particularis cognitio, fiue vniuerrjlicoonitione,null.im aftert vtili tatem,& conira a34.e BxercitJti ibtmi poft excrcitationem ve- Iks niadcfjdas debcnt dcponere, &in loco tcpido et temperato *33 «b Exercitationcm anctijiiam quis [incjpiat, quid nam faccrc debcat ^33*3 Exerciiati non ftatim poft cxercitationcm debenc quiefccre, ncc cibuni aut potum lumcre z^^.b.c Excrcitationis modus Sc ordo totus .itK)nc incjuibus morbis cunndis A • (clcpiadcs vicrciur 295 c.& infra Gclbtio ui nuripcrcurbato ofTinino fu- gicnda,bid. GclUito ia iTiari traquillo fada quid cifi • ciJt ibide.n Gclhtiofine additionc acccpta quomodo ab authonbui capinur i^T-a GclhtK) vchiculo f.K^ i qtiibui conucnut, 5c quibusnon conucniat ibi. Gclhdone in qutbu^ mor bis curardis G.il. vrcrctur 297 c et infra GclUtio morbif diuturnis prodcll ibid. Gc ihiionc lcllj,5c lci5^ica fj {gfli yti pof (unt morbu iam inclinjntc jco.c Gcliationi^ in aJto auri fadar cflfcctus . Gymnafta nuHut antiqucrum fcriptorum fulficicntcr tradiuit 7.a GymnaGa qur njiii fucris : Gymnafia quare » et a quibus pnmum fint inucota ibid c GymnaliJ dicbus feftiuis magis frequcntata crant,& quarc a Gymn:r:iim cui jntiqui Tibcri propinquu ctfcccnnt 4oC.ri.nLcntia dc houmie co.iicUcntc,& nonlaboiaate i^i^ Hipp.patn.i cemperata fuit Hippo.iudicat, Ibhs r.idios capitibus humants m i^nasnoxjsalFcrrc 26 6 e Hippo.Hcrodici Scly^nb: lani difcipulus aricm mcdicjm illultrauic 2.d.4'i.c Lsboribiis ir.:ifluctos aliquando cxcrccrc dcbcmus,& qua dccaufu i^^-^-^yO.S Laborc^ mcdcrati quibus nmcorponbus conucniant 21 5.b laborcs vchcmentescjuibus nam corporibu^ conucniant ibidcm Laccdcmonjj vcnationc fc cxcrcebat . c Laccdimona? djmn.at Ariftot. cjuod pucros niirijs liboribus affligtbant. 2 28.f Laccdzmonuno Jcxcrat, ne in balnca pix inferictur /^4.rbu Ijbor.intibus ohlic d Lcdi apud anti(]Uos varij crant 5 8 b LcC^lus fulcra mobilia habcns quiJ fit. 1 76. e.joi.b Lc^lis pcnfilibiK pro ari^mium cxcrcitip antiijui mcdici vich.intur. 17. .d.quid c(rcnt,& quomodoficrcnt joo.f LcdispcnniibusjCelfoauLhoie, quando vii dcbcmus ibidctu Lcftis pcnfilibus gcftiiio f.jifta tam antc cibum,i)u.Tm a cibo prodcll ibid. Lcftici qujrc ci\ inucnia. ^ . a. &• quot numero /crui ca portarcnt. 1 73. c et inf cius vfus. lyS.f et 2y9.b Lcc^ica pcr vfbcin gcftari lilcrtis crat vctitum LcOica noftra cui anticjuorum fcllccorrcfpondcat I7y.3 Lci^ica in languciibus aniiqui mcdici vichjntur i7^-b.2yj?.b Lcclicaa fclla diffcrcbat i7J.c.& 2yp.b LcCtica muhi vfus apud antiquos firit. 2^8 Lcfticj,in cj (cdttcs.cjn.i vii polfiiit ^j^^^.b Lcd^uh pcnfili) agitatio quaudiu ficri dcbcat I77.b Ledionis fpecies,& caruni ad fanit;tcni vlus .285.2 Lcftio quomodo ficri dcbeat 2 8y.c Lcclionc rcmilfa polt cjborum fun.prionc vti poifiiirtis ibid et inf. Lcnti laborcs quibuldam corporibus ronucniant 2if.b Lcilurgica fcbrc I horjnies in Ic(flica dccuml cntcs vchcbjniur 2^p.a Lcucophlcgmaiia corpus totum dcturpat. 107. b Libcrat .i morbo, ijuid /ibiauxflio fucrit,' tabcUuI s notabaiit, ac tcmpiu Apoiiinis dit.Tl)ant 2 d Libarij in Gy mnafijs liba vcndchant. 64 c Libcrtis c.it intcrdi^^um quominus pcr vrbcU' ItftJCj vchcrtniur i74 f Libcrdc ji)l€2 prope paludcs& rtagna, et huiuiuiodi .nlia funtuula 2i8.r X-oca pro|)e marc ad Mcridicm,velOcciden tcm fpcftantia lunt mala ibidciii )Loci ad cxcrccndum apti funt tres conditionc.s& (\i\x ibid.& 2 i6.f Locorum vis cjuantumpoflit 215. c iofus, Tbi uocis cxcrcitatio ficb:^t, Luduii) cur intcr nthlcac.is exerciiationes cnnmeraucrit hniiis opcri^ anthor 88. d Ludi B.iCiho dicnti ctc7xo'A/A di^i I2i.a Ludi matutinj qui cfunt, et qui magui 64. c.&^5«a Ludoru victoresr,uo honorarentur irb.c Ludajpræfcdus,& eiusonus ^o.f L^^d fincs trcihabuit lof .a.quatuor modis fieri potcU ^ 24*.e f Lud^fjriæarcis au^orCs,quifuerint loj.a 115 c Lud^im G.ilcn.artis gymnafticæ minimam partcm c^ic ludicauit f.cius jpud antii)U()s matnus vlus fuit 244 d Ludam noltro lempore cx^rcent rullici, quoinodo apud auticjuos aihktx excrtcbant i44.c Lufta vchemcnter, et corporc crcdo fafta quid corpori pr«lK t 244. f Liida habentib.crura d( bilianoccc i4^.c LuCta cjui rationc pefton uocet 2 4^.c Lu non vencfic.i,& quomodo 8.e Medicina! cjuando opus non cr.it i.b Mcdicinx jurtes, cum Imt duicrfap,diucrfa cti.Mn nomina fcrtii.T lunt j b Mcdicus quomodocorpus hununum co«fidcicc li.C Mcdicus I « M I w w Mi M W u I McdioKcft artifcx trcs fcnfaias iraftans 2X1 d Mcdtcumcnta «luofdani luuant, quofiljm Kxdunc iif6.c >1cdi.jltini in balncis c^d faccrct 30. c 6^.2 MchncholicosiuCta 1 hcodorus Pulcianus curabjt i45'3 ^lclaniholici, dtim lcgcrcincipiunt, ^ur lomno capuncur t^6.d MdanJiulian» I I» odcrui Piifciai.us, et Arccjtu^ gclbucnc curnbant i96.t Miichior Cuilanpe baincu cr^nt lici%& i]ua rjiK iic j*d Jdc nfa \ Icdi lin.ui a-)ud antiijuos parabaniur 56. ( Menlhua ranicatcm corrunipunc 48^ Mcnftrua fdliixs cuocat. 2 M* ^ dcambuUcto * 26or.t^3.a Mcntagra x^riiudo Plinij .xuic noU^ mnotuit 4f Mctforcs ciuayccaufaa uiAu iaordinato 5: prauonon la.djncur Mcthodi vniucrfalcs cx Gai. fcntcncia nifi { .iiticubribus fpcculationibus lungan tur parum luuant i8y b Militaris diidphnx cupidi gymn.i/ia ingrcdicbaoiur 2tf.c Milo Crotoniata f ir robu(li(Iimus. 67 2 NatJtionis locui c^uid fit i^i^c et 184 ^ cius f^Cviti S^i. N.tacio ijuibu-da argritudinibus cx Aniylll lcuttntiJ,&: O-i.o nucnit ib^.a.ib^.C Nataiuri i)uid agcrc dtbcot,antC4uam natcnc Nacatio inicr cxcriitationcs numcrai 18 j.a Nacationcm cur anutjui addifccrcnt ibid* iSj.a.^f 3.b N:.t:uo i l^uuio f-^a fomnu inducit So}.c Nacatjoncm in ai^uis fpontc nalccnubus fa dani Aniyilus iipprobac 3®3«c Nat.tio pcrnicioliil ma i]uz fit jc^.d Njiariolub Dio fjCta cjuid c pcictur C N..CJC10 fjcihus in mon cjuam in iluuip iic Aniijuihorc ibidcin Nacacio cahda indurata cmoiht, et frit,cfaaa calcf-CiC &: tius nocuincnca 304 f Nacacio (rigida caiorcm nacurjlc validum (Hlicir,& conicdiou( n) adiuu.t ibidcm Njtaiionc frtc]ucnti, ii ^uis viatur, ncrui ixduntur .3?^»* Naiuiar caijdac fircundum Hipp. cjuiciccrc dcbcnt i96.( Naturar hon.inum adco diuci fx funt,vt oc mo .Jtci I j^iorfu^ iit limiiis ly^.e Narura coijoribus lioliiis mcatus muitos curdcdcnt 152. c Naiun» calidis cjuics cmucnit 206. t N. u luatio an (it cxcrcjtatio 78 f Nauigaiio «juibus nioibis autliorc Auiccu* X fiotit. proGt ^ 3oa.f.i7P.b N.iuigitionis modus valctudinanjs conucnieris qui fic cx Herodoti lentetia 179 c N.iuigitionis fpcciesliinc mulcæ, et qune& 175? C.301.C Nauigacio pc^ flu nen fact i minns perturbacquam qu^ per ni ire, Sc quare, quibufdam murbis conueriiac i8o.d Nauigjtio incer cxercitationcs ab Antyllo numeratur I7y.a Nauigacio corpus raouct,& pcrturbac ibi. et quare i8o.d Nauigjtioncquinam vtintur jbid. Njuigantes Ciwn mjgiscolorati ijs, qui m paludibus dcgunr,& qua de caula 1 8 i.e Nauig jtioneranii> fjiftjs cfl Anneu Gallio fangainem exoucns 17^ b et ^oi.e Naumjchia: cur a Po^.Rom.iint inftitut e. 180eNe)iei ludiapud Cleonasagebmtur ly.b Ncphretici Trdl. rencentia icdtica vii pollunt,& qua de caula . 29-^ a Nepiiriticis njuigatio maritima prodeit . 303,3 Ncrolmp. gymnafiaquindo; ingrediebitur,vtathierasccrtantes videret 26 c Nero Imp.muficu cercame mftituit. i/S.c Nerolmp. ia lcvftica cum macrc quandoq'^ vehcbatur 299 c Ncro Jamina pe Aori iuipofita fubea caniicacxclamabjc ^60. d Nicomjchus Smyrn.^cus uilde crafTus qua vu ab Æiculapio fic curacus a mmii illa crafiicie 207.C Nitro,& aphronitro fricabanrur 3 4.C Numa fccudum Plutar. voluitadorationes fcdendoficri X59.b Numeruscxprimit rcru fimilicudincs. 96. d O OCuIi lachrymantcs Irduntur faltationc i4o.e Ocuii lippictcs, et lachr-ymofi d quantumuis mimmo motu l£duncur,quiete vero rccreantur. a.b Oculorum circumuolutioncs vertigine lari^untur lio.d Pcrljp v;rtu\ rationcm, cxcrcitationc.n il'Iigcntcr proti:cbintur i^S.a Pcrfis bborct lOr^Hiris Cyrus inditUiUnrc abi luin.)tioncm.'»riu^nf c «tatis nrnimcntu 1x4 PotuLiicj (u ciui tu ii rciucJij CiUia xgro iiscxh:bcntur 4.f PhcnmJa vjuiJ V vnJc diratur S^-f Phcrous d lco Hyjctnc'iu intci fecit in^ c Philagnus nudicus pofluuium lcininis cicrcit .iionc partiu * lupcriuruin cui a bat 147 c curluk Aiuyllus 190 f PhiUiiiv)ua Pilx tMgonalis figura 9^ Tila p.igjnica iju.e nam cffct. ^4 d tudjtlt nauigations fpccics,«ia Pilcjiorcsroanrini cur pilos rutfos habcac Pilcina pub.Romr vbi mm fucnt 1S4.C Py.h.igoras c|uidain athleci» primui carncm cxlubuir 7x.f Pythagoras voluit aj jratiuncs fcJcnJo ticri i b Pyrh"Chiacfjltat'oi t im»,i Put.ichuv M ylc.i^* PhrV'»i)nc Arhcnicna d uc 5c p.r-r.uij'tc cxccll.v.cit, b c)ujm fc itJtu i i {*')' jnc »ci ercda luit. 1 o.d Py hici InJi Dwlphis j^cb iKur i^.b Pjiuaufi vc citcrjtion> luuantur 181 c I'1'roni lcnt. ntia dc aitc jvmnaflicj. 12 f P aio Ijudjr in v.Jcrcp. vt mujicrcs nuJx cnm vins in pjl^lha cxcrccantur C Pl iio f .11 oiMfdjni Jthlcta fuiC 7 1 .c l'lato uit Hip fcdacor 80 c Piato buJauir vc et pucri et virgincs,& niu lic cs, et ho iiincs tam nuJo cor|>orc quainannitocx-rccrcntur . 116. d P.aro knbcns llitum motui contrariu n n6 prorlus vcrj locurus cll H d Pijco diCic njcurjs diuinjs cx motu et ijuic cc c onftjrc ibid. Pi.iuti vcrlus dc ariticjuorum pucrorum nio nbus in p.iiaftra 29 b Plimuv fciibjt aihlctas alitjuando coitu vti iolitj iuniori-i ctercitatio ^ fiicrit. zii.d Pilinms miior diim vocc ik it >m^clio Uboraret,lc«ftione chra liberjciis cft zSf.b Plini us Co^cilius vchiculo gcU.ibac. zyo.b Plinius Romac Sclla vtebatur, vt intcr cundum rtudijs vjciret i99.c Plmius lunior corporis (anicatem ven.itioni rcfc-rebat 1 8 7. c. 3 07 c PoJalirius vcnationc deleft.ibatur i Sj.a Podji»nci faltum dv^benr fugere. i n»3 trochum 289.C Pidagrico. Icnes et rcmifT* iuuat deambula tio,5t vehemens I«.iit z^^i.c PodjgriciTral. fentcntia Icdtica vti poflfunt et tiu.i de caufa ^99.\ Pofis fecundum Simonidcm eft faltatio loqucns 96. f Pompeij magni exercltia i i^r.c Ponb nau.nachiarius quarc fic vocatus flt . Poppca Domitij Nero. vxor, quid faccrer, vt cutis candorem acquircret 1 7 . A Porphyrius philofophus carnis vfum cur prohibuit lyj.c Porticus tres extra palacflra quomodo di* fponerentur zo.i Porticns erant partes gymnafiorum piincipa les,& quomodo fe habcrcnt 2 8.e Porticus Pompeiana ad deambulationem ædificata Porticus in viridario Vaticano qualis fit . 135. A Potabant veteres cornibus boum $$.h Pr«edo quidam in Pamphilia homincs pcdi bus priuabat c Prandium apnd antiquos quij c^fet r i-f Prafinæ fa£tioni maxima ciuitatispars fauebat i68e Prafini crant una faftio Romana ibid. Pratinas pocta cur fi vocatus faltator.ioi.b Praxagoras rcprchnditur, qui cpilepticos deambulationibus plurimis,& vehemen cibus curare nitcbatur 26 i c Pracmia ccrtatoribus cur fucrint mftituta. 14 c M.A PriapifiTJum p'\\x magnr Itifu Tralianuscu rabat.242 d.atquc •tem halterc |i5^.e Prodicusacgra corpora cxerccri iudicabat. loj.b.propter quod ab Hippo.rcpr chcn diiur 2 4T.b Prodicus valctudinis ftudiofifid nus fuit . iio.e Propn^geulpalæftra vbina crat. xo.f.^J.A Propinatio iuxra veterem nrum', m cohni* uio f^ftj cx Rh minufiano lapide $ Pronerbium in harcnani dcfcendeie vnde fit ortum i6.d Prouerbium illud difcum ( fljuani philofophu audirc malunt) vnde fitortum.z». C Proucrbiu Ne qras in ftadto dolic hu. 1 1 7-a Pjouerbium trjnfiremeram ii^.b Prouerbium contra eo$,qui nec litcras, nec natarc fcicbant idz.c Proucrbiu a mari et terra fumptum. 302.6 Pueraquam prxbcns ^6.b Pueroru geftatio in vlnis nutricutn eft qiix dam ipforuin cxcrcitatio Pucn poft H;ppocr. æcatcm podraga labor.irc incc^crunc propter ingiuuiem. 4 e Pucri frcqucntifli.nc faltationi opera dabac loi.b Pueri muficam Pbtonis, et Ariftot. fcntentia dcbcntaddjfccfe 1^0. d Pucri a ploratu ex Ariftot. fcnrcntia proht beri no deber,& qiia dc ca. i/^o.f .6 Pucri Gal tempore in aquispueriles ludos exerceb-int 183 b Pueri vfque ad vigefimum primum ætaiis annum labores muJtoi indiffercntcr fer^ repolfunt 228. c Pucris perironf um aut fcrotum fpiritu rctento rumpitur 28o.e Puellaj funt ex Piatonis fentcntia gymnaftica bcUica cxercendæ 66.£ VucWx pulcherrim^ fingulari ccrtamine cer tabant 144.C Pulmonc vlcerati,inculpati viucbantin Ly bia i73,,c Pugil quifitcx Arift.fententia 70. d Pugilatusante bellum Troianum fuit in vfii iu7 b.fanitati parum confert. 247 A pugilatorcs quomodo certabant 1 07 c pugilatusin gymnaftica mcdica exi?uuin vfum habet "loS.e pugilcs vocabac veri nthlc f fm Gal. loS.f pugilcs,& athlctT aliquand j in Deoru numcrum relati 7 1 /\ pugihuu imago i02.b pulueribusin multis cxcitationibus antiqui vtebantur,& qua de caufa 236^4 puluis uim habet cmplafticam cx Galeni fententia 23 8. d ^u^ilatus nocumenta,qua; fint 247 c pu^ilarus fuit paruui LulUs in gymnaftica mcdica d pugn.B nomcn plura fi.^nificat i4'>.f pugna, dcqiuhicaudoragit, quidcflcj et quoc Qot eiuj fpcclcj cxOubafij fcnicntia ibidciv.&: X73.a Fuona > mbracilu cjuomodo ficbat . ibidcm lOI. c Pugna tcK.rum quomodo ficret ibid. Pugna firgului is tjm n t d«ficrct ibid. Puiinas fingul.ucs t xcrccbant Ijccrdoics in Fcrp mo G.il.iemporc 14» c Fugna jdiicrfus pjluni ^uinam >tcicniur. 14 >.c.X7J.a Yiigna vmbrjtilit ubi i Cjleno budctur . i4'.C27?b Fugns arm.)tj a Dcmea inucnta. 1 ^6 c Fu^nis fingularcs eiiani Romani cxc.cc bant 14^5 d ibid. Fngna fingutarit rudibus armis fMi a NLn tu^^t^ crt inucnta I4rb Pu!u:s in vn^^ionc quid prapftarct j.a et 1 > 8.d. vnJc portantur 3 f.e Pyrrhus Ligoriu^ annquitatis pcrrtifs c Fyrrhrchix U!talionc$ tjux fucrint,&^ S"^ laucntx QVatUans crat mcrccs baJncacori data. 47C Quadrata corpora abcxcrcitationc quomoiio iuu..ntur ^i^^ Q^ad. igx m pup. faais ficpc ccitaucrunr. c Qii:^rtana bborantcs, vocifcratio iuuat Qumqucrtio qui fit cx Ariflo. fcnicntia. 7o.d.c Quotidiana fcbrc laborantcs in lcAicadccumbcntcs vchcbjntur a^y a R RAucnnj Strabonis authoritate acrem fjlubrcm habcbat 7^.2 Kjiis fcntcntia dc vcnationc C Rcncsdcbilcs I.Tdii faliatio 240.^ Rcit.cd.oruii omnium njtura eft, vt profint,& abquid cnam c^ftcndant 1 51 a Rcnibus malc-ttcaisIuOa nocct 14 rc Rcnum lapiili optimcialiatione otrudunrur 240 Ci54f Rcru imbefillitate, vcl feruore, vcl \Kcrc artcC^i liliu vitcnt 25 5 J et dilcu. 2^7.c Rcnu.n jnfl.imni tionc laborantcs crc^i ftjrc noo dcbcnt 169 b Rhjmnufi nu^ lapis, in quo fculpta cl\ fbrm.jTrKhni),3nti(]U!friinus 56 Khcforcs in palacitras ad difputandum con ucn:cbant 20.c28c Res i6nc finis raria noU Cirrire funt a Rcfoluti Tral. fentcntia lcAica vti pofujir, et qua de caula 19^ a Rdpirjtio ctcbraium ofcitationuin cft rcmcd.um a7P.a Ilcurdurcs in balncis qui clTent 50.^.63.« Kigorcs f.iltatio atcct 240. d Kilu^ qCo fiji,& quid cfificiat 16 i.a .6 Konuni { ('liicmi oimhO ^yn n^ifia ad GiaB corum inntJiionrm ihuxctunt 18. £ Kcmjni in bulncis mulio græcis lafciuiorct Romani fuos miliies et mari et tcrra cxcrccbant iSo.f Konunorum n^uliercs Varronis tcnimonio in cc dcni loco cum viris lauabaniur. 48 f oppofi:ioncm J3 c Ros vim habct colliquatiuam, et idco bibitus gracilitJtcm inducit 2^7 a Rot^ curruum Homcri icmporc ftanno or^ njbantur i7i.a RuHus tphcfius Romac fub Traiano floruit 145. c Ru.tati eraot voa fj^io Romana l^S e S SAItantes pondera aliqua habcbant quorluiii 1x8.4 bjita^oria: cxcicitationis fpecicS|& cius diuiiio 81 Saltatoria facultas in imitatione foio mrtu fjda confiliit fi6,£ Saltatio fccundum Simonidcm eli pf>efis tjccns 96 f et inf, Saltatio vcra i mufica fccunduui Plutarchum dcprjuata cli 97't S. Itjtioiiis inucntor quis fucrit 97.2 Sj/tationum diuerfa nomina vndc fitoria» 97.C Sjltationis finis 100 d Saltjtioncs vbi nam ficrcnt loi.b Saltationcm antiqui in conuiuijs exerccbic 10 I c SaltJtio qurqi antiqiiorum ordine, ronc, et proportn nc indigcbjt ijy.b Saltaiio opportunc fjdU inultas affcrt vtili. tatcs, cadcm inoppoitunc jdminifirat^ multa dctrimcnta iionum prriiat . c SjIius viilitjs,»ntingunt, (]Ui Ic cxc:cucrunt,5c ijua Jccaula 19 r A Somni pr«.tundi concodioncn» mcliorcm efficiunr.S: quj dc ciufa ibi. Soao capiutur Irpc mtctc fpcculatcs. Somnolciiii ciir fiiu dccolor.jti i44-5i.c SpiMtus cohibmo »'jciat • } • a. cius rpcc:cs.i5} b.cim vtiliiJS.X78 d suibus conucniat cius nocumcnia.ib d b Spiriius cc hibiuoncintcr c £tcras cxcrcita iioncs Athlcix d«abus dc caufis vicba t«r, Snlcnis xgtitudinibus cx Aciij kiucntia curlus clt vtilis no.d.f Splcnctu-oNgcf^..tioncThccdoius Prilcunus,& Arctruscurabant Spuni apud antujuos m.igna infamia nocabantur et a nobiLum commcrno cxtrudcbantur, Spurma qua vi^us rationc Spurini nnJiOi fanitnrc cofcruaJa.Spura corpuscxinaniunt StadiumgymnjfDspars 5*. Stanscxcfcttium ' Starc maio: ci. corpori bborcm affcrt^.iua ambidarc,& quarc Starcc.lcib.s3ut;..m.n.,d.gitis innitcn. do nihitn.li molcitumattcrt »71.» StclUsdcfic.cntcsminromn,svidctcs.,uo „.odoabHippoc.c»ircntur ^n-A Sccphaiuofuuinucntor togatx (altation.i StcVcoracorpascxInaaiunt Scomichaccxgritudo Plinij rtaic aoftro orbi not.i f.iCta cik ^-^ Stomachusin coqncndo dcbili» i falta. 10- nc corroboratur Sio.nachu n frigidis morbis opprcnum cu- latcurfus ^^^-f Scomachicos fpiticB rctcnto Cxl. A'»r. cu- rabat.i79.c.& vocifcratiotic i8i.c.Arcle pij gcftaiionc Stomach 1 dulorc Thcodnrus Pr .fcianus, « ArctJTUs gcduionc curab.mt »bid. Scomachi .itK a;ombui curandis gcftntionc Actius vtcb.itur X98.C Scomacho l.>borancibus vnftiones cxcrcita tioncs,S£ vocifcrationci commcndat Oa lcnus . . »8'' Stomachicos n.itatio maritima iuuatjo^ c Strii;ilcs balncorum quid cUcnt, et cx qua inatcria hcrcnt 3'^' Siudia corpus confcruant fanum 7 A Sudorcs corpus cx luniunt Sudor cft motu piouocandus,5c q»a dccatt Ta . Sudor finc motu proucnicnf dctcrior co dt quj a laborcproucnit »53^ Sudor ijua dc caufa manus cxcrccniibus cx Arift fcntcntia cffluat »47 c Sudor liccus qnisfucrit Suc omjlocusdcrcincdioh.ncnaru et aru dinii.Aiigu :ti,qu.j fit mtciligcdus. 264 t Suftii(i o'1's co.o ts fubcos ludicant a^i.i SurdtcatccaptosGjj.Tral. 6c Actius gciU- tionc curabant ^ a Theon Alcxan deathlccica fcripfic 70. c Th' rpiui pocta riltator cur /ic vocatusioi. b Thv /Tcilus mcdicus Ncronis actatc floruit . is^.a Theffali qna dc caiifa ccntauri fint Tocati. 167 c Tjbcrius Impcr. fcimpodio quandoq; re- hcbatur Timonis a v.\i Juobus nicnfibus, finouiis annis in cufC-nis IiticabJt " y.a Tyrrhcni lub eodei» regmncnto cum mu- lieribus jccumbcbanc f^.c Tjrrheni nd tibiam pugnis certabant 107. c Titus Imp.hujbatur,vbi et plcbs 16 f Titus In.p.qua dc ciuIj /it mortuus 47 a Tonfillas pjtjcntibus iuda noccc Thoraccm hJtcre lardit . 25^. f& difcus. Thorax humidus ambuKirione fada cilci- bus incunibcndo fauatur 2^3.3 Thorax difficultcr fpiras deamhulati' ne p accliue fada luu it cx Antvili /iua 2^^3 .5 Ti i.; erant Kt mx Joca,vbi licterarix cxci ci tatioi:rs h.banr,& t|n« z^.b Tricliniuin marm orcum vetufti/fimu Pa tauij in nedibus Khaniniifijnis ^6 Tryphon dc atbleiica fcripfic Tripudia nfa faltationibus antiquoru cor- rcfp6det& in quo .ib illisd fferar 239. b Trochus græcus (|uomodo fiftus cflct no- bis cft ignotus i62.f.& iatinus ibj.& qui- bus conucniat 2op.c Tubi perquos circufundcrctur calorpro- diens ex bypocaurto 4^.3 Tubicinibus ipiricu rctcnro pcritona:um runipitur 280. c Tumorcs laxos gcftatione Actius curabat 298.e Tuflfis (icca, fpiritu reteto,curfu no in pul uerc fa{ko curatur ex Celfi fnia 2/o.e Tuflis i frigidacnufi orta fpniius cohibi- tionccuratur 278.^ Tiifli^ a filcntio cxtinguiiur i^^.f Tybcrius Impcrator omnium primuscolis d'.vIorcm cxpcrtus 4 f V ^TAIerius apcr milcs cæcus quo rcmc- dio, oraculo pra?nunciante, fucnt a cicit..tc libcraius f.c Vjlcriob rc^cpniar contra Fuchfiuin, fol- Icm et Corycum diffcrre Valcrudin.jnj quomodo Cwt C/fcrcendi . 20p.b.23o.d Vjljrium quid cfret 43.^ Varices pjticntes fjltum erftjoianr: 25 f.i Vjricibus Ijborantes cre£li ftare non dc- bcnt 16^ b V.iriccs quomodo gcnercntur ibid. Variar lc Romana if^.c Ventres fngidos luda curac 2 4y.a.& curfus 2JO.f Vertiginofos manuu gcfticulationc curabat Arct;tus 240. d VerriginolosI.Trditfaltatio 24o.c.&pilv lufus Vcrtiginofi luftam vitarc dcbent 1^6. c et curfum ciicularcm. 2j:2.f. 2^2 f& trochum. 201; c Vcrtit;inof?js m.^Ic curabat Aret.rus pugi- Jjtn 247 c. cuiabat c:iam difci cxcrcit.-i- tionc 25 7. c Vcrci- I N D E X ^cmginora p.ifllo vndc omtur i^Ti.f Vci tioinofos ycajiione Gal.Tral.& Aci.cu rubant ^ ^ VcrcJuN cr.u vchiculi fpccics i Vcrus I npC: priinuscuin duodccim (olcni conuiuio .iccubuic 54«a Vcficx lupiUi optime,rjltattonc cxtrudun tur VixapuH vctcrcs grarcos qux hnt 2i7'C Vitjili.r l"«nuin corptis conlcrujnt 7 or.inccs lcdica vti potTuni. I9f a ViJ»cr.iriiin morlibus tibt.iruin moduli pro- lunt.vt Gtllius rcfcrt lc jpud Thtnphra itum inucniirc i^^.c Virgo lons ladu crat iucundtlTima y o.f VirgmcN lccundu m 1'btoncm lunt in gym- n^ifticabcllica t xcrccnJx 66S Viri tJnrum apud aiuiijuo accuinbcb.it,non muhcTcs y?c Viri apudantiquosquoium niodo accum- bcrcnt H-^ Virinoic quid intcliigat hic auftor. iiS.c Viri funt tcrc omuibus iuor>l>us apti. z i i.r Vilus dcbdicati . Jt oOicuritjti gelbtiorc- tio icrla facic tjcla, Auicen.autho.^c.con tcrt 298 d Vitruuiosfl iruitxtatcCjf.Aug.iS.d cius auihorituv apud jntiquos parua luir.iKid. VlccribuN quictc curandis llarc et lcdcrc ad ucrfantur 13^ Vlccribus intc. nisjCf 1 et Cel. auihonbus, dcambulauo rcnv^a, et molLtcr f-^da prodcft i6\.c Vnftione qui nam vtcrentur 30 d Vrd onts mJtcr.aqux fucrit Ji.d Vnaionis finif 3 3 c Vndio poft balnca quid prxftabJt 3 1 .f Vnd 10 ab aotiquis quomodo ticrct, cii !n- ccnum ^d VnAionibus in miiltis cxcrcirarif»nil us jn- iKiui vtcb.«nrur,& qua dc caula x 3 icic^asna- ui-Jiionc lihcratusclt lyj^.c.joi.C a>T4rvf qu;d iii 64 f.5>4. f- cius vtihtas. AKnSnp mcndicum,& crroncum ligniticat 1 i8 d f ^ifdflU quid fignificct.i 4y courtesy of the Bibli REGISTRVM * ABCDEFGHIKLMNOPQJ^STVX. Omnes/untquaternionespr.Ttcr * &X qui funttcrnioncs, ac Dquintcrnionenu. VENETIIS, APVD IVNTAS. M D C i Grice: “Mussolini said that ‘ginnasta’ and indeed ‘ginnasio’ were effeminate – ‘ginnico’ is the word!” -- Geronimo Mercuriale. Mercuriali. Girolamo Mercuriale. Mercuriale. Keywords: il ginnasio, attivita ginnica, bagni romani, Refs.: H. P. Grice, “Me and the demijohns,” Luigi Speranza, “Ginnasia,” The Swimming-Pool Library, Villa Grice. Mercuriale.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Meriggi – il deutero-esperanto – filosofia italiana – Luigi Speranza (Como). Filosofo italiano. Como, Lombardia. Citato da VAILATI (vedasi), “SCRITTI” – “un appasionato”. Progetto di lingua a priori, il blaia zimondal è elaborato da M., professore dell'istituto tecnico di Como. Il blaia zimondal parte da un principio fono-simbolico. Ciascun *suono* possede un significato naturale (Grice) o *senso* generale corrispondente al suo modo naturale di formazione fisiologico – fisi, NATURA -- luogo e modo di articolazione dei foni. Così ad esempio -- a, vocale aperta, esprime ciò che è grande, alto, forte, bianco, evidente. -- i, vocale ANTERIORE alta, per il fatto che è prodotta serrando quasi completamente la bocca, esprime ciò che è piccolo, basso, leggero, interiore -- u, vocale POSTERIORE alta, esprime ciò che è basso, scuro, pesante, lontano, futuro -- p, consonante occlusiva bi-labiale sorda, suggerisce idee di forza, pressione, pesantezza, caduta, blocco repentino -- k, consonante occlusiva velare sorda, simboleggia l'idea di solidità, di siccità -- l, consonante laterale, esprime le idee di fluidità, di morbidezza, d'elasticità -- r, consonante vibrante, esprime le idee di rotazione, rapidità, rumore. L'udito dei vertebrati si è evoluto principalmente con questo scopo: identificare la natura degl’eventi a partire dal suono che emettono. Solo più tardi l'udito è stato ri-ciclato dalla nostra specie per servire all'apprezzamento di parole o musica. Ma il ri-ciclaggio è stato solo parziale. NOBILE (vedasi), VALLAURI (vedasi), Onomatopea e fono-simbolismo, Roma, Carocci, Bussole. La capacità di associare dei suoni della propria lingua a suoni naturali è, a detta di VALLAURI (vedasi), professore a Roma, propria degl’esseri vertebrati. In sostanza, cioè l'uomo è in grado di produrre suoni che ri-producono avvenimenti della realtà e di associare a questi - più o meno consciamente - determinate idee. Così,malgrado l'alto grado di formalizzazione che i suoni del latino deve possedere per funzionare da supporto del sistema morfo-sintattico e lessicale, esso conserva dunque una prossimità sufficiente ai suoni naturali – nel senso da H. P. Grice, ‘fisiologia razionale’ – natura -- per surrogarne l'originaria funzione biologica di indizi percettivi degl’eventi rumorosi. Sul fenomeno del fono-simbolismo è comunque consigliabile una certa cautela. Ad esempio, sebbene il suono vocalico [i] puo ri-condurre alle idee di piccolo, carino, soave (cfr. it. 'gattino', 'micio'), e il suono vocalico [o] a idee di grandezza, mascolinità, robustezza (cfr. it. 'colosso'), non possiamo ignorare i numerosissimi alegati contro-esempi, sia latini o italiani (cfr. it. 'massiccio') che non (cfr. ing. big 'grande' e small 'piccolo'). «fl» esprime il senso di fluidità e liquidità insieme (cfr. lat. FLUMEN, it. 'fiume'. L'associazione di significati – SEGNATI -- a singoli fonemi e nessi consonantici è un tema ricorrente nella filosofia a partire dal Cratilo di Platone, che riconosce ad esempio alla lettera greca lábda |! un valore di scivolamento, come dimostrano le parole greche léia 'cose lisce', olisthánein 'scivolare' o liparón 'unto'. Anche il matematico e crittografo inglese Wallis nel De etymologia sostiene che il nesso consonantico [sl] veicola l'idea di scivolamento -- cfr. ing. slide, slip, slime, slow. Ne discorre ampiamente, in tempi più vicini al filosofo, anche Brosses nel suo Traité de la formation mécanique des langues et des principes PHYSIQUES [fisi: natura] de l'étymologie, in cui sostiene che il nesso [fl] evochi l'idea di fluidità - cfr. lat. fluere 'fluire', fr. souffler 'soffio', ing. to fly 'volare') e l'italiano CESAROTTI (vedasi) nel suo Saggio sulla filosofia delle lingue nel quale, trændo proprio da Brosses la maggior parte degli esempi, riporta proprio il caso del nesso [fl] della parola latina FLUMEN come espressione di liquidità -- Per approfondimenti sull'ideologia linguistica di CESAROTTI (vedasi) vedasi BAGLIONI, L'etimologia nel pensiero linguistico di Cesarotti, in Cesarotti. Linguistica e antropologia nell'età dei Lumi, cur. Roggia, Bari, Carocci] «bl» esprime il senso della parola; «kr» ricorda le armi e le macchine;  e così di seguito, con l'abbinamento di ogni suono a una determinata capacità espressiva. Se il singolo suono contiene gia da sé un significato [NATURALE, o megliore, FISICO, O FISIOLOGICO], combinando i suoni a due a due è possibile costruire dei significati più complessi, risultati dalla somma dei singoli significati. A questo modo :«pr» la pressione rumorosa. Con questi elementi è possibile formare delle radici monosillabiche corrispondenti a delle idee precise. Ad esempio congiungendo le sillabe «kl» (composizione delle idee di solidità e fluidità insieme che corrisponde praticamente all'idea della costruzione, artificiale e naturale -- e «am», che esprime l'idea dell'amore. La sequenza «klam» INDICA il concetto di 'casa'. Ma «klim», che rende l'idea del piccolo e della costruzione, significa 'stanza da bagno'. È evidente che tutte le radici di sensi vicini si formano tramite la combinazione e la variazione delle vocali e delle  consonanti. Sebbene si tratti di una lingua a priori, cioè non derivata da altre lingue storico naturali, vi è un caso in questi due sistemi linguistici si incontrano, ed è, ovviamente, nelle onomatopee. Essendo il blaia zimondal una lingua di tipo filosofico – alla J. L. Austin, “Sound Symbolism,” Bodlein, consultato da H. P. Grice -- che vuole dimostrare la vicinanza dei suoni della lingua ai REFERENTI extra-linguistici, le espressioni linguistiche di suoni già presenti in NATURA non possono che essere modellate su questi stessi. Così ad esempio si ha «uul» per 'ululare', «meua»  per 'miagolare, ecc.  Non mancano comunque casi di somiglianze con altre lingue realmente parlate, e in particolare con le lingue romanze e germaniche, forse retaggio della provenienza linguistica e della formazione dell'autore: «bank» per 'banca', «ordo» per 'ordine’. Cesare Meriggi. Meriggi. Keywords: deutero-esperanto. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Meriggi”.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Merker: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – il filo d’Arianna – Arianna abbandonata a Nasso – la scuola di Trento -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Trento). Filosofo italiano. Trento, Trentino. Grice: “My favourite of his books is ‘storia della filosofia ai fumetti.” -- Grice: “The fact that he found Italian words for all that Kant says in “Metafisica dei costume” is admirable!” -- Grice: “I love Merker, and for many reasons; he has philosophised on what makes me an Englishman: my blood, or the fact that I was born in Harrborne?” Grice: “I love Merker: he uses metaphors aptly like ‘il filo d’Arianna’ to refer to what I pompously call ‘the general theory of context.’ --Si laurea a Messina. Trascorse un periodo di ricerche in Germania. Allievo di VOLPE, insegna a Messina e Roma. Cura edizioni italiane di classici dell'età della Riforma, dell'Illuminismo e dell'idealismo, nonché di Marx, Engels e del marxismo. Dopo essersi occupato dei problemi lasciati aperti dalla Seconda guerra mondiale, si occupa dell'idea di nazione, dell'ideologia colonialista e infine del fenomeno populista. Da ricordare la sua opera di divulgazione della storia della filosofia. Inoltre egli ha scritto ben trenta voci per l'enciclopedia filosofica della Bompiani, fra cui le più importanti sono su Heine, Mann, Zweig. Altri saggi: Le origini della logica, Milano, Feltrinelli; L'illuminismo, (Bari, Laterza – la metafora della luce della ragione ;  Lessing e il suo tempo, Cremona, Convegno; Marxismo e storia delle idee, Roma, Riuniti,  Storia della filosofia, La filosofia moderna. Il Settecento, Milano, Vallardi, Alle origini dell'ideologia. Rivoluzione e utopia nel giacobinismo” (Roma, Laterza); Storia della filosofia, Roma, Riuniti); STORIA DELLA FILOSOFIA: L’ETA ANTICA -- Storia delle filosofie, Firenze, Giunti Marzocco; Marx, Roma, Riuniti; Erhard, in L'albero della Rivoluzione. Le interpretazioni della rivoluzione francese, Torino, Einaudi; La Germania. Storia di una cultura da Lutero a Weimar, Roma, Riuniti; Lessing, Roma, Laterza; Il socialismo vietato. Miraggi e delusioni da Kautsky ai marxisti” (Roma, Laterza); Storia della filosofia moderna e contemporanea, Roma, Riuniti, “Il sangue e la terra. Due secoli di idee sulla nazione, Roma, Riuniti, -- sangue lombarda – piccolo vedetta lombarda – sangue romagnola -- Atlante storico della filosofia, Roma, Riuniti,  Europa oltre i mari. Il mito della missione di civiltà, Roma, Editori, Filosofie del populismo, Roma, Laterza,  Marx. Vita e opere, Roma, Laterza,. Il nazionalsocialismo. Storia di un'ideologia, Roma, Carocci,.La guerra di Dio. Religione e nazionalismo nella Grande Guerra, Roma, Carocci, La Germania. Storia di una cultura da Lutero a Weimar, Roma, Riuniti, Hegel, Estetica, Milano, Feltrinelli, Torino, Einaudi,  Kant, La metafisica dei costume (Grice: “My favourite Kant, by far!”), Bari, Laterza, Hegel, Rapporto dello scetticismo con la filosofia, Bari, Laterza, Paracelso, Scritti etico-politici, Bari, Laterza,.Lukács, Scritti politici Bari, Laterza,  Herder, James Burnett, Lord Monboddo, Linguaggio e società, Bari, Laterza, Lessing, Religione, storia e società, Messina, La Libra, Kant, Lo Stato di diritto, Roma, Riuniti,Forster, Rivoluzione borghese ed emancipazione umana, Roma, Riuniti, Humboldt, Stato, società e storia, Roma, Riuniti, Marx, Engels, Opere, Roma, Riuniti, Roma, Scritti economici di Marx. Roma, Editori Riuniti, Fichte, Lo stato di tutto il popolo, Roma, Riuniti, Hegel, Il dominio della politica, Roma, Riuniti, La scimmia e le stelle, Roma, Riuniti,  Maj, Il mestiere dell'intellettuale, Roma, Riuniti, Kant, Stato di diritto e società civile, Roma, Riuniti, Fichte, La missione del dotto, Roma, Riuniti, Marx, un secolo, Roma, Riuniti,Kant, Per la pace perpetua. Un progetto filosofico Roma, Riuniti, Hegel, Detti di un filosofo, Roma, Riuniti,  Marx, Engels, La sacra famiglia, Roma, Riuniti, Marx,  Engels, La concezione materialistica della storia, Roma, Riuniti, Kant, Che cos'è l'illuminismo?, Roma, Riuniti, Lessing, La religione dell'umanità, Roma, Laterza,, Forster, Viaggio intorno al mondo, Roma, Laterza,  Engels, Viandante socialista, Soveria Mannelli, Rubbettino, Hegel, Dizionario delle idee, Roma, Riuniti, Osborne, Storia della filosofia a fumetti, Roma, Riuniti, Bauer, La questione nazionale, Roma, Riuniti.  La discreta classe delle idee. E’ Merker, asul sito di Rifondazione Comunista  Il contesto è il filo d'Arianna. Studi in onore di  M., S. Gensini, Raffaella Petrilli, L. Punzo, Pisa, ETS, T. Valentini, “Ideologia della nazione” e “populismo etnico”. Le riflessioni storico-filosofiche di Merker, in R. Chiarelli, Il populismo tra storia, politica e diritto, Rubbettino, Soveria Mannelli, Curriculum vitae, su uniurb. Curriculum vitae. Nato nel circondario di  la scuola materna e le  elementari, nonché al Wilhelms-Gymnasium la prima classe ginnasiale. Trasferitosi a  Trento, continua ivi la scuola media e il ginnasio-liceo  fino alla maturità classica conseguita al Liceo "Prati" di Trento.  Iscritto alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell'università di Messina, si laurea ivi  con 110 e lode in filosofia e una tesi su "Hegel e lo scetticismo". Con una borsa di studio è a Napoli all'Istituto italiano per gli studi storici ("Istituto Croce"), e poi in Germania un periodo di ricerche.  Alla Facoltà di Magistero di Messina è presso la cattedra del filosofo Galvano della Volpe assistente volontario, poi straordinario, incaricato e infine ordinario. Nella medesima Facoltà, conseguita la libera docenza in Storia della filosofia, è stato professore incaricato di Storia delle dottrine politiche,  temporaneamente anche di Estetica, e, a concorso vinto, professore straordinario di Storia della Filosofia. Vi ha diretto l'Istituto di filosofia e per incarico temporaneo anche quello di Letteratura francese.  Chiamato alla cattedra di Storia della filosofia moderna e contemporanea della Facoltà di Lettcre e Filosofia dell'università di Roma  "La Sapienza", vi ha conseguito l'ordinariato ed ha poi continuato la sua attività  Facoltà di Filosofia di quell'ateneo  seguito per  l'insegnamento di Storia della filosofia moderna. Uscito dai ruoli, è professore emerito dell'università "La Sapienza" con decreto ministeriale.  Nella Facoltà di Lettere e Filosofia ha presieduto per un paio di anni la  Commissione di Facoltà per l'ammissione degli studenti stranieri, nella Facoltà di Filosofia è stato per un lungo periodo presidente della Commissione scientifica del  "Centro di servizi interdipartimentali Biblioteca di Filosofia". Nella Facoltà di Filosofia ha fätto parte di un collegio di Dottorato. E stato più volte in commissioni universitarie di concorso per docenti universitari di prima e seconda fascia, nonché in vari atenei per concorsi di ricercatore. Ha partecipato con relazioni a congressi internazionali di filosofia e storia delle idee, a iniziative culturali di università europee (Innsbruck, Zagabria), all'attività didattica di vari Dottorati in Filosofia, a conferenze e dibattiti con studenti dei licei. Ha tenuto un seminario di lezioni presso l'Istituto italiano per gli studi filosofici di Napoli.  Per formazione e storia personale è bilingue (italiano e tedesco) riguardo a lettura, scrittura ed espressione orale. Ha buona lettura dell'inglese, francese e spagnolo,  familiarità con il francese e inglese orale. Adopera il computer per uso personale di lavoro, non ha capacità e competenze artistiche.  Studi e ricerche  Iniziali attenzioni per la logica e dialettica di Hegel si sono concretate nella monografia Le origini della logica di Hegel. Hegel a Jena. Successivi interessi per periodi fondamentali della cultura in Germania, - dall'epoca della Riforma (ad es. con un'edizione italiana di testi politici di Paracelso) fino al secolo illuministico - hanno condotto alle monografie L'illuminismo tedesco. Età di Lessing e Introduzione a Lessing. Un percorso parallelo e ulteriore  - intramezzato in  Dialettica e storia da un tentativo di bilancio dei problemi - ha collocato via via le vicende della filosofia dentro un più ampio quadro di storia della cultura nel quale assumono particolare rilievo le idee e dottrine politiche dell'età moderna. Ne è un esempio la monografia La Germania. Storia di una cultura da Lutero a Weimar.  Studi specifici sono stati dedicati al pensiero politico liberale di Kant, Fichte e Humboldt, poi ai giacobini tedeschi in edizioni di testi e nella monografia Alle origini dell'ideologia tedesca. Rivoluzione e utopia nel giacobinismo.  Con un'appendice di  testi e documenti. La linea d'indagine di storia delle idee si è estesa verso Marx e il marxismo, con i libri Marxismo e storia delle idee, Marx e Il socialismo vietato. Miraggi e delusioni da Kautsky agli austromarxisti, nonché con la cura di parecchie edizioni italiane di opere di Marx ed Engels.  L'interesse per i problemi rimasti aperti nell'epoca della Seconda Internazionale ha poi stimolato ricerche sull'idea di nazione, sulle ideologie del colonialismo e sul fenomeno politico-culturale del populismo (con, rispettivamente, le monografie Il sangue e la terra. Due sécoli di idee sulla nazione; Europa oltre i mari. Il mito della missione di civiltà; Filosofie del populismo. Vi si è aggiunta una ricostruzione storico-critica della vita e delle opere di Marx e delle sue incidenze (Karl Marx. Vita e opere. Monografia Il nazionalsocialismo. Storia di un'ideologia che ha collegamenti con le ricerche precedenti sul populismo.  L'analisi delle tendenze e dei nessi che emergono dalla storia delle idee si è accompagnata anche a riflessioni sul metodo della storiografia filosofica e a tentativi di renderla fruibile per la didattica. Di questo filone hanno fatto parte un manuale di Storia della filosofia e più volte riedito, e un Atlante storico della filosofia. Bibliografia  Complessivamente le pubblicazioni  - tra monografie, articoli vari, saggi,  recensioni, voci di enciclopedie, relazioni a convegni, testi in opere collettive -  ammontano finora a molti.  Di cui sono monografie:  Il nazionalsocialismo, Storia di un'ideologia, Roma; Karl Marx. Vita e opere, Roma; Filosofie del populismo, Roma 2009; Europa oltre i mari. Il mito della missione di civiltà, Roma; Atlante storico della filosofia (Roma; Il sangue e la terra. Due secoli di idee sulla nazione, Roma; Il socialismo vietato.  Miraggi e delusioni da Kautsky agli austromarxisti, Roma; Introduzione a Lessing, Roma; La Germania. Storia di una cultura da Lutero a Weimar, Roma; L'illuminismo in Germania. L'età di Lessing, ediz. rinnovata e accresciuta, Roma; Marx, Roma; Alle origini dell'ideologia tedesca.  Rivoluzione e utopia nel giacobinismo. Con un'appendice di testi e documenti, Roma-Bari, Marxismo e storia delle idee, Roma; Dialettica e storia, Messina; L'illuminismo tedesco. L'età di Lessing, Roma; Le origini della logica hegeliana. Hegel a Jena, Milano. Nicolao Merker. Keywords: storia della filosofia – l’eta antica --. il filo d’Arianna, Teseo e il minotauro – omo-sociale – Teseo – Arianna abandonata, giacobinismo, populismo etnico – etnico ennico etnicita ennicita – etnos, Greek ethnos, Latin ethnos -- -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Merker” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Messalla: la ragione conversazionale e l’orto romano – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Garden. Friend of Orazio. They study philosophy together. He opposea GIULIO (si veda) Cesare but eventually makes his peace with Ottaviano. He writes philosophical treatises. Allow me to address briefly the L’ORTO philosophy within the context of the difficult tines covering the years which witness the downfall of the republic and the birth of the principate. In  'L’ORTO in Revolt' (J.R.S.) Momigliano takes as a starting point the conversion to L’ORTO of CASSIO who rapidly comes to the conclusion that GIULIO Caesar has to be eliminated because of what appear to be his tyrannical tendencies. The author emphasises that during this crucial period the adherents of the L’ORTO philosophy did not maintain a passive political aloofness. While some followers of L’ORTO actively support GIULIO in a noderate way, a mumber oppose him, among whom are I. Manlio Torquato, Trebiano, L. Papirio Paeto, M. Fadio Gallo, and, as the evidence suggests, L. Saufeio and Statilio. Monigliano concludes with the statement that on the whole, the events prove that Cassio is not an exceptional case among the contemporary L’ORTO. The majority stand for the Republic against Caosarisa." Horace seens to have felt an antipathy tovarda Mbullus and his patron M. which may be explained to sone extent by political factors, in particular the strong republican sympathies which the latter still professs under the principate. Of M., Monigliano notes that ORAZIO writes of him, 'quanquan Socraticis madet sermonibus', a dubious expression, but the Ciris (whatever its date and author) shows him well acquainted with the L’ORTO circle, and his leader is, as he proudly proolaimed, Cassio (Tac.Ann.; Dio; Plut,Brut.). I suspect then that he is a definite member of L’ORTO. It is, then, I think possible that M.'s political persuasions are coloured by his philosophical thinking and that his intellectual interest in L’ORTO is not nerely of an ethical nature. Monigliano, arguing along the lines of Diels, maintains that in a passage of his treatise on the gods FILODEMO of L’ORTO is expressing a political viev: "the words reflect the indignation of a man who sees the defenders of the Republic play into the hands of the tyrant. Similarly in his treatise on death the same philosopher recoends that sen should be ready to face death in the event of political persecution. Followers of L’ORTO are capable of reacting decisively to political circumstances, this being a major point advanced by Monigliano who maintains for instance that the sane Saufeio is not outside politics absorbed in the 'interrundia' but that he mingles philosophy and political action which probably acoount for his being exiled and falliag riotin to the proscriptione, and that Cicerone’s friendship with a number of L’ORTO is based on the faot that adherents of the philosophy possessed political feelings with which he sympathised. Both democracy and the non-tyrannical state find approval in the L’ORTO theory of the social contract, though the adherent of the philosophy is generally advised to renain outside politios. When ve consider M.’s resignation fron the office of 'praefectara urbis' on the grounds that the pover with which he vas invested was unconstitutional (incivilis; see Putnam, C.A.H) I suspect that republican scruples combine with his adherence to a philosophical mode of thought which preached political aloofness, affected hio decision. His is a detached involvement" comments Putnam on M.'s republican sympathies and resignation from office, and suggests political as vell as stylistic sympathy between M. and Tibullus. The philosophical overtones in Mbullus' work in uy opinion reflect this sympathy and remind us that both poet and patron have reservations about contributing wholeheartedly to the advancement of the new regime and its ideals. In the programme elegy it is a detachment from the sort of life which would contribute to the welfare and strength of the state which the poet manifests. Disambiguazione – Se stai cercando l'omonimo, si veda M. console. Console della Repubblica romana Scultura che probabilmente ornava la parte superiore di un piedistallo marmoreo contenente l'urna cineraria di M., rinvenuta nella villa di quest'ultimo ed ora conservata nel Museo del Prado. Figli Marco Valerio M. Messallino. GensValeria PadreMarco Valerio M. Corvino Consolato. Proconsolatoin Gallia Comata. Militare e filosofo romano, patrono della letteratura e delle arti. Membro dell'antica gens Valeria, di ideali repubblicani, nella battaglia di Filippi combatté al fianco di Bruto e Cassio. Passa poi dalla parte di Antonio ed infine entra nelle file di Ottaviano. Trionfo di M. -- rappresentazione sul frontone del Palazzo Krasiński a Varsavia, opera di Schlüter Si trovava nell'Illyricum a combattere gl’Iapidi a fianco di Ottaviano come tribunus militum. Consul suffectus assieme ad Ottaviano, e prese parte alla Battaglia di Azio a fianco di quest'ultimo. In seguito ha il comando di una missione in Asia Minore. Combatté contro il popolo alpino dei Salassi, come proconsole della Gallia, dove soppresse anche una rivolta tra gl’Aquitani. Per queste imprese celebra un trionfo. Tacito riferisce che e nominato praefectus urbi, ma M. rinuncia alla carica dopo pochi giorni adducendo motivazioni legate alla sua incapacità di esercitare l'incarico. In quanto princeps senatus, autorevole esponente dell'aristocrazia romana, avanza la proposta dell'attribuzione a Ottaviano del titolo di pater patriae. M., letterato Alla partecipazione alla vita pubblica, accompagna l'interesse per la filosofia. Influenza considerabilmente la filosofia che incoraggia sull'esempio di Mecenate. Il gruppo che lo circonda e noto come il circolo di M.. Tra gli altri comprende Tibullo e Ligdamo. Amico di ORAZIO (si veda) ed OVIDIO (si veda). Elogiato da Tibullo per le sue vittorie in una elegia nel Corpus Tibullianum e in un poemetto -- il Panegirico di M. Suoi omonimi sono il padre, console, il figlio Valerio Messallino, e un discendente M., console come collega dell'imperatore Nerone. Una sua parente, forse una sorella, sarebbe la Valeria, sposa di Quinto Pedio, console  insieme ad Augusto, che aveva proposto la lex Pedia contro i Cesaricidi.  Syme Wilkes Velleio Patercolo, Tibullo, Tacito, Annales: quasi nescius exercendi. Svetonio, Augustus. Fonti antiche, Appiano di Alessandria, Historia Romana (Ῥωμαϊκά) Dione Cassio, Storia romana. (testo greco  e traduzione inglese). Svetonio, De vita Caesarum libri VIII. (testo latino  e traduzione italiana). Tacito, Annales. (testo latino, traduzione italiana e traduzione inglese). Tibullo, Corpus Tibullianum. Velleio Patercolo, Historiae Romanae ad M. Vinicium consulem libri duo. Fonti storiografiche moderne Cantarella, «M., Ovidio e il circolo dei poeti», Corriere della Sera, Syme, L'aristocrazia augustea, Milano, BUR, Wilkes, Dalmatia, in History of the provinces of the Roman Empire, Londra, Routledge Voci correlate Casal Rotondo. M. Corvino, Marco Valerio, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Olivetti e Lenchantin De Gubernatis -, M., in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, M. Corvino, Marco Valerio, in Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, M. Corvino, su sapere.it, De Agostini. Marcus Valerius M. Corvinus, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Opere di Marco Valerio Messalla Corvino, su PHI Latin Texts, Packard Humanities Institute. Opere di Marco Valerio M. Corvino, su Open Library, Internet Archive. Predecessore Consoli romani Successore Gneo Domizio Enobarbo, Gaio Sosio con Gaio Giulio Cesare Ottaviano III Gaio Giulio Cesare Ottaviano IV, Marco Licinio Crasso. Circolo di M. V D M Guerra civile romana VDM Conquista romana dell'Illirico. Portale Antica Roma   Portale Biografie   Portale Età augustea Categorie: Militari romani Scrittori romaniMilitari del I secolo a.C.Scrittori del I secolo a.C.Romani Consoli repubblicani romaniValeriiGovernatori romani della SiriaAuguriGovernatori romani della Gallia Mecenati romani[altre] Marco Valerio M. Corvino, console. Marco Valerio M. Corvino Console della Repubblica romana Nome originaleMarcus Valerius  Messalla Corvinus FigliMarco Valerio Messalla Corvino GensValeria Pretura Consolato Censura Marco Valerio M.  Corvino (in latino Marcus Valerius M. Corvinus o anche Marcus Valerius  M. Niger; filosofo romano. Pretore quando Cicerone e console e, console quando Publio Clodio viola i misteri della Bona Dea. Censore assieme a Vatia Isaurico, e sempre in carica, tentarono di regolare lo straripamento del Tevere. Non tennero il lustrum. Smith, Dictionary of Greek and Roman Biography and Mythology, Boston: Little, Brown and Company, Robert S. Broughton, The magistrates of the Roman Republic, II, New York, Predecessore Console romano Successore Decimo Giunio Silano e Lucio Licinio Murena con Marco Pupio Pisone Frugi Calpurniano Lucio Afranio e Quinto Cecilio Metello Celere Portale Antica Roma Portale Biografie Categorie: Politiciromani Consolirepubblicani romani Valerii [altre] Consul. Roman Senator who lived in the Roman Empire. He might have been the brother of empress Messalina.  A member of the Republican gens Valeria. The namesake of the Senator and Augustan literary patron. He may have been a son of the Senator and consul Marco Aurelio Cotta Massimo Messalino, who was a son of M. or possibly the son of the consul Marco Valerio Messalla Barbato, thus making him the brother of Valeria Messalina, the third wife of the emperor Claudio. A member of the Arval Brethren. Served as an ordinary consul with the emperor Nerone and then as a suffect consul with Gaio Fonteo Agrippa. Starting with his consulship, he is granted an annual half a million sesterces to maintain his senatorial qualifications. Biographischer Index der Antike, Lucan, Civil War  Paterculus, The Roman History, Lucan, Civil War  Shotter, Nero  Der Neue Pauly, Stuttgart, Tacitus, Annales, Tacitus, Annals of Imperial Rome D. Shotter, Nero, Routledge, Lucan, Civil War, Penguin, Velleius Paterculus, Yardley e Barrett, The Roman History, Hackett Publishing, Biographischer Index der Antike, Gruyter, Political offices Preceded by Nero II, and Lucius Caesius Martialis as Suffect consulsConsul of the Roman Empire with Nero III, followed by Gaius Fonteius Agrippa. Succeeded by Aulus Petronius Lurco, and Aulus Paconius Sabinus as Suffect consuls Categories: Valerii MessallaeAncient Roman patricians1st-century Roman consuls1st-century clergy Marcus Valerius Messalla Corvinus  Article Talk Read Edit View history. Not to be confused with Marcus Valerius M. Corvinus, consul. Marcus Valerius M. Corvinus. A  Roman general, author, and patron of literature and art. The triumph of Corvinus in the pediment of the Krasiński Palace in Warsaw  Print of the Roman General, made by Hendrick Goltzius. Corvinus was the son of a consul, Marcus Valerius M. Niger, and his wife, Palla. Some dispute his parentage and claim another descendant of Marcus Valerius Corvus to be his father. Valeria, one of his sisters, married Quintus Pedius, a maternal cousin to the Roman emperor Augustus. His great-grandnephew from this marriage is the deaf painter Quintus Pedius. Another sister, also named Valeria married Servius Sulpicius Rufus, a moneyer.  Corvinus marries twice. His first wife is Calpurnia, the daughter of Marco Calpurnio Bibulo. Corvino had two children with Calpurnia: a daughter, Valeria Messalina, who married Titus Statilius Taurus; and a son called Marcus Valerius M. Messallinus, consul. His second son was Marco Aurelio Cotta Massimo Messalino, consul, who is believed to have been born to a second unknown wife on the basis of the 22-year gap between the consulship of the elder son and the consulship of the second son. The writings of the poet OVIDIO (Ex Ponto) reveal that the second wife of Corvino is a woman called Aurelia Cotta. Another fact supporting the theory that Aurelia Cotta is the mother of Marcus Aurelius Cotta Massimo Messalino is that he was later adopted into the Aurelii Cottae. Corvino is educated partly at Athens, together with ORAZIO and CICERONE. He becomes attached to republican principles, which he never abandones, although he avoids offending GIULIO Cesare or OTTAVIANO by not mentioning them too openly.  He is proscribed, but manages to escape to the camp of BRUTO il giovane and CASSIO. After the Battle of Philippi, he goes over to MARC’ANTONIO, but subsequently transfers his support to OTTAVIANO. Corvino is appointed consul in place of MARC’ANTONIO and takes part in the Battle of Actium. He subsequently holds commands in the East and suppresses the revolt in Gallia Aquitania. For this latter feat, he celebrates a triumph. Corvino restores the road between Tusculum and Alba, and many handsome buildings are due to his initiative. He moves that the title of “pater patriae” be bestowed upon OTTAVIANO. Yet he also resigns from the post of prefect of the city after six days of holding this office because it conflicts with his ideas of constitutionalism. It may have been on this occasion that he utters the phrase (but in Latin) "I am ashamed of my power". His influence on literature, which he encouraged after the manner of Gaius Maecenas, is considerable, and the group of literary personalities whom he gathered around him — including Tibullus, Lygdamus and the poet Sulpicia — has been called "the M. circle". With ORAZIO and TIBULLO he is on intimate terms, and OVIDIO expresses his gratitude to him as the first to notice and encourage his work. The two panegyrics by unknown authors (one printed among the poems of Tibullus as iv. 1; the other included in the Catalepton, the collection of small poems attributed to VIRGILIO) indicate the esteem in which he was held. Corvino IS HIMSELF THE AUTHOR OF VARIOUS WORKS – ALL OF WHICH ARE LOST. They include memoirs of the civil wars after the death of GIULIO CESARE, used by Svetonio and Plutarco; bucolic poems in Greek; translations of Greek speeches; occasional satirical and erotic verses; and essays on the minutiæ of grammar. As an orator, he follows CICERONE instead of the Atticizing school, but his style is affected and artificial. Critics consider him superior to CICERONE, and Tiberio adopts him as a model. He writes a work on the great Roman families, wrongly identified with an extant poem De progenie Augusti Caesaris which bears the name of Corvino, but in fact is a much later production.  Places associated with Corvinus  The so-called Apotheosis of Claudius, the top part of an Augustan-era funerary monument that may once have contained Corvinus' funerary urn. Found in a country villa at Marino once owned by C. Valerius Paulinus, a descendant of Corvinus, it is now in the Museo del Prado in Madrid. Corvinus had a house on the Palatine Hill in Rome that used to belong to Mark Antony before Augustus presented it to Corvinus and Marcus Vipsanius Agrippa. An inscription (CIL = ILS) records Corvinus as the owner of the famed Gardens of Lucullus (Horti Luculliani) located on the Pincian Hill where the Villa Borghese gardens are today.  The Casale Rotondo, a cylindrical tomb near the sixth milestone on the Appian Way, is often identified as being the tomb of Corvinus, but this is debatable. Corvinus is also recorded in an inscription as being one of the three friends of Gaius Cestius responsible for erecting statues that once stood at the site of the famous Pyramid of Cestius which is located close to the Porta San Paolo in Rome.  In 2012, a luxurious villa of Corvinus was found on the via dei Laghi near Ciampino. The finds included seven colossal statues of Niobids that had toppled into the piscina apparently due to an earthquake. Another luxurious villa of Corvinus on the island of Elba was identified as his. It was burnt down. Since its original excavation it was believed to belong to his family since he was a patron of OVIDIO who wrote of his visit to Corvinus's son on Elba before his exile on the Black Sea. Recent excavations below the collapsed building reveal five dolia for wine which are stamped with the Latin inscription "Hermia Va(leri) (M)arci s(ervus)fecit, made by Hermias, slave of Marcus Valerius.  Legendary ancestor of Hungarian royalty  The triumph of Marcus Valerius Corvinus in the pediment of the Krasiński Palace in Warsaw The Wallachian-Hungarian family of Corvin, which came to prominence with Janos Hunyadi and his son, Matthias Corvinus Hunyadi, King of Hungary and Bohemia, claimed to be descended from Corvinus. This was based on the assertion that he became a big landowner on the Pannonian-Dacian frontiers, the future Hungary and part of Romania, that his descendants continued to live there for the following 1400 years, and that the Hunyadis were his ultimate descendants – for which there is scant if any historical evidence. The connection seems to have been made by Matthias' biographer, the Italian Antonio Bonfini, who was well-versed with the classical Latin authors.  Bonfini also provided the Hunyadis with the epithet Corvinus. This was supposedly due to a case in which the tribune, Marcus Valerius Corvus, while on the battlefield, accepted a challenge to single combat issued to the Romans by a barbarian warrior of great size and strength. Suddenly, a raven flew from a trunk, perched upon his helmet, and began to attack his foe's eyes with its beak so fiercely that the barbarian was blinded and the Roman beat him easily. In memory of this event, Valerius' agnomen Corvinus (from Corvus, "Raven") was interpreted as derived from this event. The Hunyadis called themselves "Corvinus" and had their coins minted displaying a "raven with a ring". This was later taken up in the coat of arms of Polish aristocratic families connected with the Hunyadis, and also led to Marcus Valerius Messalla Corvinus' triumph over the Aquitanians being commemorated in the pediment of the Krasiński Palace in Warsaw.  See also Korwin coat of arms Ślepowron coat of arms References  Jeffreys, Roland. "The date of M.'s death". The Classical Quarterly "Valerius Corvinus". lib.ugent.be.Syme, R., Augustan Aristocracy, Syme, Augustan Aristocracy, Skidmore, Practical Ethics for Roman Gentlemen: The Works of Valerius Maximus, p. Sullivan, Apocolocyntosis, Penguin, Anonymous Panegyric of M.: translation by Postgate. Schröder, Katalog der antiken Skulpturen des Museo del Prado in Madrid. Vol. 2: Idealplastik. Mainz: von Zabern, Cassius Dio The excavator Canina, deduced from a small piece of inscription with the name "Cotta" that the monument had been built by Marcus Aurelius Cotta Maximus Messalinus for his father, Marcus Valerius Messalla Corvinus, but this inscription and other architectural fragments are now assumed to have come from a smaller monument at the site, and they may have nothing to do with Corvinus, cf. Grifi, "Sopra la iscrizione antica dell auriga scirto", Diss. del. Acc. Rom., Rome Marcelli, "IV MIGLIO, 14. Casal Rotondo", in: Susanna Le Pera Buranelli et Rita Turchetti, edd., Sulla Via Appia da Roma a Brindisi: le fotografie di Thomas Ashby: Rome: L'Erma di Bretschneider, Papers of the British School at Rome Seven Statues Linked to Ovid Recovered from Roman Pool – Archaeology Magazine". archaeology.org. Retrieved 28 June 2023.  "Ben-Hur villa at risk of demolition in Rome". The Daily Telegraph. London.  Lorenzi, "Excavating an Ancient Villa: Photos". Seeker. This article incorporates text from a publication now in the public domain: Chisholm, Hugh, ed. M. Corvinus, Marcus Valerius". Encyclopædia Britannica. Cambridge Wiese, Berlin, Valeton, Groningen, Fontaine, Versailles, Schulz, De MV aetate; M. in Aquitania, Postgate in Classical Review, Sellar, Roman Poets of the Augustan Age. Horace and the Elegiac Poets, Oxford; the spurious poem ed. by R. Mecenatë. Syme, The Augustan Aristocracy, Clarendon, Political offices Preceded by Gnaeus Domitius Ahenobarbus Gaius Sosius Roman consul with Octavian III Succeeded by Marcus Titius (suffect) Biographie Other IdRef Categories: Roman governors of Syria Roman augurs Romans Ancient Roman generals Patrons of literature Ancient Roman patricians Urban prefects of Rome Valerii Messallae People of the War of Actium. Luigi Speranza, “Grice e Mesalla: L’Orto” – The Swimming-Pool Library. Marco Valerio Messalla Corvino.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Mesarco: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del figlio di Pitagora  – Roma – filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotone). Filosofo italiano. Crotone, Calabria The son of Pythagoras. He leads the sect after the death of Aristeo. Mesarco.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Mesibolo: la ragione conversazionale e la scuola di Reggio -- Roma – filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Reggio). Filosofo italiano. Reggio Calabria, Calabria. Pythagorean according to Giamblico. Mesibolo.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Messere: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale  – l’implicatura di Sileno – la scuola di Torre Santa Susanna -- filosofia pugliese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Torre Santa Susanna). Filosofo italiano. Torre Santa Sussana, Brindisi, Puglia. Ricevuti i primi rudimenti del sapere dai chierici locali, i suoi genitori (Pietro Messere e Teodora Di Leo), sebbene non agiati, decisero di fargli frequentare il seminario di Oria, assecondando così il suo vivo desiderio di intraprendere la carriera ecclesiastica, qui dimostrò sin da subito una profonda passione per lo studio. Ordinato sacerdote per poi ritornare al paese natìo, dove divenne un maestro di grande dottrina. Da autodidatta si applicò allo studio della filosofia, della matematica, della storia ecclesiastica e civile, nonché anche alla musica e al canto. Incolpato dell'omicidio di un giovane chierico, fu messo in prigione nelle carceri del Vescovo di Oria, dove rimase rinchiuso per sette anni, tuttavia non si lasciò mai abbattere dallo sconforto; anzi, procuratosi alcuni libri, M. si applicò allo studio della lingua greca, per la quale già aveva dimostrato una forte predisposizione. Dopo un lungo e dibattuto processo, la sentenza finale lo dichiarò innocente e assolto da qualsiasi reato. Risentito con i suoi concittadini per averlo ingiustamente ritenuto reo, dichiarò che il suo paese mai più lo avrebbe rivisto. Fu così che M. partì per Napoli, dove rimase fino alla morte. Nella città partenopea ebbe modo di affinare e approfondire la sua cultura, divenendo un personaggio di rilievo nel mondo intellettuale napoletano del tempo. La grande conoscenza della lingua greca gli conferì grande notorietà nonché una cattedra di Lettura Greca, che mantenne fino all'anno della morte, presso l'Università degli studi di Napoli. Tale cattedra  era stata nuovamente istituita  a spese di Giuseppe Valletta, filosofo, letterato e giureconsulto dell'epoca ed amico di M.. Valletta aveva una profonda stima per il Messere, il quale fu assiduo frequentatore della sua casa non solo quale insegnante dei suoi figli e nipoti, ma anche perché divenuta luogo di riunioni dei più eruditi intellettuali del tempo. Fra i suoi molti allievi che assistevano alle sue lezioni, ne ebbe alcuni divenuti celebri, si annoverano Andrea, Barra, Caloprese, Gravina, Valletta, Capasso, Cerreto, Egizio, Donzelli ed altri. Vico, noto filosofo suo amico, gli dedicò un breve madrigale dal titolo Ghirlanda di timo per Argeo Caraconasio.Il mondo culturale napoletano fu caratterizzato da importanti innovazioni a livello filosofico, scientifico, civile e politico. Tale fervore culturale aprì la strada alla nascita di un numero notevole di accademie, che divennero luoghi di discussione aperta e di diffusione di nuove idee filosofiche e scientifiche. A Napoli le principali accademie del tempo furono soprattutto quella degli Investiganti e quella di Medinaceli. Che sia stato memM. bro autorevole di entrambe le accademie e frequentatore di circoli e salotti letterari napoletani è testimoniato da non pochi documenti, tra cui manoscritti e altri a stampa conservati nella Biblioteca Nazionale di Napoli; le sue lezioni ebbero un così folto seguito di giovani tanto da far suscitare invidie fra i letterati fanatici dell'erudizione i quali, a furia di schernirlo per la sua ellenofilia, diffusero in Napoli addirittura la moda letteraria della macchietta dello pseudogrecista, satireggiata pure da Vico nella terza Orazione inaugurale. Fu anche tra i primi membri dell'Arcadia fondata dal Crescimbeni e dal Gravina, ove gli fu attribuito il nome pastorale greco di “Argeo Coraconasio,” “dalle campagne dell'isola Coraconaso”. E fondata a Napoli la Colonia “Sebezia” dell'Arcadia e anche qui il Messere e tra i primi iscritti.  L'aver ripristinato l'insegnamento della lingua greca in Napoli valse al M. non solo il titolo di “ristoratore della greca erudizione”, ma contribuì alla ripresa dello studio di Omero, influenzandone il pensiero poetico e filosofico del tempo. Notevole fu l'influenza che egli ebbe sulla formazione del pensiero del Gravina. Essenziale nella vita culturale di Gregorio Messere fu anche l'amicizia con Valletta, suo allievo. La conoscenza che M ha della filosofia fu ugualmente vasta tanto che gli valse l'appellativo di “Socrate” e quando si riferivano a lui veniva anche chiamato il “Socrate dei nostri tempi”.  Non fu solo un insigne grecista, ma anche un poeta. Compose infatti varij componimenti, tra distici, tetrastici, serenate, sonetti, madrigali ed epigrammi in italiano, utilizzando talvolta uno stile che il Lombardo definisce “stile mezzano e semplice”, di carattere pastorale. Un suo epigramma è contenuto in una lettera che Canale inviò al Magliabechi. Non mancò di scrivere componimenti di carattere burlesco e giocoso, in cui contrapponeva l'immediatezza della satira e del dialetto alla ricercatezza esasperata della poesia del Seicento. Si esercitò soprattutto nell'Accademia di Medinacoeli, dove era uso chiudere la seduta accademica con la recitazione di componimenti poetici. Compose finanche versi che celebravano importanti eventi del regno; tra i più salienti, si ricordano quelli contenuti nel volume scritto in occasione della recuperata salute di Carlo II. Da ricordare sono anche gl’emblemata contenuti nel volume scritto per i funerali di D. Caterina d'Aragona, e a cui si ispirò Vico in occasione dei funerali di due uomini illustri  Tra le tante collaborazioni con letterati del suo tempo, degna di nota è quella che ha con VICO per la pubblicazione di un volume in occasione del genetliaco di Filippo V, tre sono i componimenti contenuti in esso. Fu anche collaboratore di una Miscellanea dal titolo Vari componimenti in lode dell'eccellentissimo Benavides conte di S. Stefano. Fatta eccezione per alcuni componimenti inseriti in Miscellanee poetico-celebrative, di M. non esistono opere a stampa. E a ciò ne dà spiegazione il Lombardo quando afferma che egli fu uomo umile e schivo tutto dedito all'educazione dei giovani più che ai propri interessi personali, anzi la sua modestia fu tale che pensò bene di distruggere i propri scritti.  Le lezioni accademiche di cui si dispone sono quelle che  tenne nell'Accademia istituita a Palazzo Reale dal viceré duca di Medinaceli. I codici delle lezioni sono conservati attualmente presso la Biblioteca di Napoli. Due di queste lezioni trattano di poesia. Qui argomenta sulla funzione e natura della poesia, dei suoi rapporti con la storia nonché sul problema delle origini della poesia stessa. Tre altre lezioni sono di carattere storico, esattamente: due sulla vita di NERVA e una sulla vita di DECIO. Il codice napoletano contiene anche un Discorso vario in cui sono presenti motivi autobiografici e una lezione sull'origine delle maschere. L'Accademia di Medinaceli non ebbe lunga vita e, nonostante la sua chiusura avvenuta a causa di rivolgimento politico, continuò ad essere personaggio illustre nel panorama intellettuale e culturale napoletano, come dimostra il fatto di essere annoverato tra i primi membri dell'Arcadia sotto la custodia Crescimbeni e successivamente della colonia napoletana “Sebezia”.  Storia della litteratura italiana  Biografia degli uomini illustri del regno di Napoli  Le vite degli Arcadi illustri scritte da diversi autori, e pubblicate d'ordine delle generale adunanza da  Crescimbeni, pRoma,  (biografia scritta da Lombardo). Cantillo, Filosofia, poesia e vita civile in M.: un contributo alla storia del pensiero meridionale, Morano, Napoli, Prezzo, Storia delle origini di Torre Santa Susanna, Tiemme, Manduria,. Imma Ascione, Seminarium doctrinarum: l'Napoli nei documenti,  Edizioni scientifiche italiane, Napoli; Lomonaco, M., la poesia e l'impegno civile tra Gravina e VICO, in "Diritto e Cultura", VLezioni dell'Accademia di Palazzo del duca di Medinaceli: Napoli,  Rak, Napoli, Istituto italiano per gli studi filosofici.  (regio esim liepiera preso Niccola Gjervasi'altirante 1.os. re ( lessen Blusere Filologo Filosofo Namquein Tore diliuramnemlá iTera d Ohrante nel mio Mori in Nlapoli. Ebbe per convincenti indizj, co di Gregorio la sospizione Fu rinchiuso perciò nulla egli fosse reo. me che di, laddove impreseda prigioni per sette anni nelle del greco linguaggio, stessolostndio non conosceva neppur lo avanti, che inbreve con tanta sollecitudine però,e sn tranoi il maestro ne diyenne solenne restauratore della greca erudizione. onde cadde sopra se del quale per le figure. Vi attese Lo studio delle greche lettere era a quel tempo venuto tranoi insomma decadenza, l'erudizione esi renduta goffa e grossolana ; onde egli adoperó ogni sua cura per richiamarla alla sua dignità primitiva. La profonda sua scienza nella mentovata favella gli seçe meritamente occupare. la catte be  i suoi natali in un mediocre luogo della Regione de' Salentini, oggi Terra d'Otranto, detto la Torre di S. Susanna, discosta da Brindisi intorno a miglia dodici.Suoi genitori furono Pietro Messere, e Dianora di Leo amendue di onesta e civil condizione. M., comechè non proveduto nella sua primiera età di sufficienti maestri, seppe col proprio suo ingegno, e colla sua mente, velocis sima e disposta a d apprendere le più difficili cose supplire a somigliante difetto. Egli attese da se solo aiprofondissimi studj della filosofia delle mattemati che in buona parte, della Teologia, della Storia Ecclesiastica e Civile.Nè intralascio fra la severità di sì fatte discipline l'onesto diletto della poesia e della musica, e tanto in questa ando avanti, che giunse a cantar con lode la parte di basso. M., tutto che si fosse dedicato al Sacerdozio, gl'intervenne una disgrazia, la quale fieramente l o travaglio. S'invaghi un compagno di luididonzellafigliuoladiricco,e nobilpersonag-: gio,enefudipariamorericambiato. Il padre di lei, avutone sentore, lo fece assalir da due sgherri, I quali si accompagnavano con M., ilquale go dea il favore parimenti del mentovato Signore. Ilgio vine amatore ne rimase trucidato I و Fu de'primi ad essere annoverato tra gli Arcadi col nome di Argeo Caraconessin,e la sua vita ritrovasi descritta fra quelle degl’Arcadi illustri P. 1Scrive a richiesta degli amici sonetti, madrigali ed epigrammi nell'una e nell'altra lingua, i quali componimenti riscossero a que'tempi non poca laude. Mirate la dottrina che si asconde Sotto il velame degli versi strani. Queste poesie furon da lui recitate nella dotta adunanza che CERDA, allora vice-rè di Napoli, tenenel Regal Palazzo. E certamentefuscia gura, dra di greco linguaggio nell'Università de'nostri Stu dj. Bentosto si vide la studiosa gioventù correre a folla alle sue lezioni, e zione,che non solamente I giovanetti,ma puranche crebbe talmente la sua riputa persone distinte per merito di letteraria coltura, a n davano con maraviglia ad ascoltarlo. Allo studio della greca sapienza congiungeva M. quello delle scienze più sublimi ; perciò i più doiti scienziati che erano allora fra noi ed ancora stranieri contava egli fra i suoi amici. Tra quelli si annoverano Lionardo di Capoa, Francesco d'Andrea, Buragna e tanti altri ;'e fra gli stranieri il P. 'Mabillon il quale par la di lui con somina laude nella sua opera Iter Ita licum ;e moltissimi presso de'quali e il suo nome in somma estimazione. Il suo verseggiar burlesco e maccaronico era un dotto poetare, e sempre ridondante di greca e di la tina erudizione, sicchè isuoi versi in questo genere tranne lamateria ridevole,erano molto colti egenti li, sì che avrebbe poluto egli dire con ALIGHIERI: O voice avete gl’ntelletti sani. Il suo modo di comporre era quello che da' maestri vien detto mezzano e semplice, e varie poesie dettò in istile boschereccio e pastorale. Molto però egli valse nel verseggiare giocoso, ed in quella spezie di poesia, già inventata da Folengio, il quale si dice Coccai, che volgarmente maccheronica vien chiamata . che dipartendosi quell'erudito e generoso Si gnore, seco portate avesse, con le altre cose i c o m ponimenti di quella dotta brigata, e che Gregorio non ne avesse gl’originali serbati, e non ne rima nesser che pochi in mano di alcuno de'suoi amici, Ma egli, intento qual novello Socrate ad istruire la gioventù e far rinascere fra di noi lo studio e la scienza della greca favella, la quale è detto brac cio destro della buona letteratura, poco cura le sue cose, e poco ambi di rendersi per le stampe famoso. Dilettavasi egli infatti più della sostanza che dell  و, e più d'istruire la gioventù S!11 renza della dottrina erudizione. diosa, che di far pompa di lussureggiante арра Le virtù cristiane e socievoli di M.  pareg giarono la sua erudizione e la sua dottrina. Era el FILOSOFO e religioso al tempo stesso; ottimo Sacerdote, ed affabile senza ombra di bassezza o di poca digni tà,sprezzatore grandissimodellericchezze, tal che pel noto fallimento del banco dell'Annunziata avendo perduto quelpiccolo avere che collesue ono rate fatiche erasi acquistato, uimase in una fredda in differenza, motteggiando giocosamente come se nulla gli fosse intervenuto. Nè minore fermezza d'animo egli nella morte di tre nipoti per sorella Biagio, Giovan Batista e Capozzeli, giovinetti di grandi speranze i due primi nella medicina,ed il terzo nella legalfacoltà, da lui sommamente ama. ti, ed allevati alla gloria ed alle lettere. Poco curante egli si fu dell'amicizia de'potenti, e di ogni fasto, dimostrò e di ogni civile onore. Maravigliosa era in tutto la sua temperanza, talche i suoi costumi pareano più l'ultimo fine siccome un necessario termine dell'uomo, e narrasi, che es antichi che nostri.Riguardava sendo un giorno aperto, per alcun bisogno di fabbri ca,l'avello di Giovanni Gioviano Pon'ano, ritrovan dosi ogli con un amico, lo prese vaghezza di scen dervi.Di fatti discesovi, sudettesi in una delle nicchie da riporvi i morti intorno alle pareti, e narrasi che mosso da involontaria allegrezza,dicesse: E chi sase questo è il luogo che dee a me toccare? Somme lodi son queste certamente per M., il quale nato essendo nel mezzo della magna Grecia, nell'antica patria degl’Architi, degl’Aristosseni,degl’Ennj, de'Pacuvj, e intendentissimo non meno della grea, della latina e della Italiana poesia, che della più saggia FILOSOFIA, la quale insegna non pur colle parole, ma col sobrio onorato Con grandissimocordoglio di tutti gliamatori delle buone lettere, preso di ac cidente apopletico passò a miglior vita,e fu sepellito nella detta Cappella del Pontano, siccome in vita avea desideralo. La sua morte fu onorata dal pianto di afflitte vedove Ο Φερδινάνδος ΣανΦελικιος ευγνώμων ακροανης DIAGISTRO DOCTRINAE PULAETIVNI. Ταυτην την Ακαδημιαν ο ποιησαντι e virtuoso suo contegno di vita. Fu per Γρηγοειω Μεσσερε Σαλεντινω Εν ελλαδι φανη εις ακρον ταις παιδειας εληλακοτι il Socrate de’suoi tempi, e datuttiriguar chiamato . Tanta era e cosi dato con istima e con ammirazione perfetta in lui la notizia delle lettere greche, che mosse invidia e stupore in parecchi sapientissimi Greci na zionali,iquali,passando per Napoli,vollero vederlo ed ascoliarlo. Siccome abbiamo accennato,aluisideve in buona parte il risorgimento delle buore lettere della greca dottrina, per tanti ragguar spezialmente che si formarono sotto la sua di. devolissimi letterati sciplina,eperciòhaeglispeziale eprecipuaragio ne ai nostri elogj ed alla nostra riconoscenza. Nel no vero de’suoi discepoli furono i Biscardi, Gennaro d'Andrea, i Calopresi, i Gravina, i Majelli, i Cirilli, i Capassi, gl’Egizi, e tanti altri lumi della n o stra letteratura iqua’i malagevole sarebbe qui no minare . tal ragione e di miserevoli bisognosi, a quali questo uomo incomparabile in ogni maniera di virtù distribuiya tutto ciò che al puro uopo della sua vita soperchia. va. Intervennero ai suoi funerali tutti i professo ri della R. U. non che ragguarde volissimi personaggi. Uno di costoro già suo scolaredi nobilissimo tegnaggio, insigne per lettere e per la scienza della pittura e dell'architettura,innalzò a tanto maestro la see guente iscrizione in greco ed in latino. Τα Διδασκαλω Διδακτρον. SALENTINO IN GRAECA LINGVA AD SVMMVM ERVDITIONIS PROGRESSVM DE ACADEMIA HAC OPTIME MERITO) FERDINANDVS SANFELICIVS GRATVS AVDITOR ANDREA MAZZARELLĄ PA CERRETO. Quantunque non abbiasi cosa alcuna alle stam IV. sti.  pe di M. Torre di S. Susanna, luogo della Terra d'Otranto, tuttavia egli ha buon diritto che di lui si parli in Gregorio Messo nella ro edaltriGreci st'opera. La disgrazia avvenutagli que di dover soffri re,sebbene innocente una lunga prigionia to di omicidio, lo determinò Greca, e così felicemente venir riconosciuto qual ristauratore dizione nel Regno di Napoli, e il Mabillon nel suo Iter Italicum parla con somma lode del Gregorio . Occupò egli la Cattedra di questa lingua nellaUni versità della Capitale, e la insegnò con tanto grido, che oltre la gioventù contò fra lisuoi discepoli non poche persone per coltura e per sapere distinte ; e fra i più celebri alunni da lui istruiti si noverano Gennaro di Andrea, il Caloprese Capassi ed altri molti.Benemerito, il Gravina, il perciò della Greca Letteratura congiunse na del poetare, e conobbe le altre scienze con gran vantaggio attenzione specialmente Religione all'epoca della sua morte accaduta ordine di persone il compianse . ogni funerali i Professori ai suoi, ed, ed ebbe onorata s e per sospet a studiare la lingua vi riuscì, che meritò di poi anche alla erudizione lave dei giovani che con zelo ed istruiva ed educava alle lettere ed alla insieme, perlocchè crate. La sua dottrina e le sue cristiane virtù, m a specialmente una carità generosa giunsero a tale,che appellavasi novello S o . Intervennero tutti della R. Università altri ragguardevoli poltura nella cappella dove riposano le ceneri Pontano discepolo con iscrizione Greca e Latina da un del suo composta. personaggi della Greca e r u Fu egli ascritto fra i primi Arcadi sotto il nome di Argeo Caran conessio. Biografia degli Uom. ill. del Regno di Napoli. Allorchè si aprì il concorso per la cattedra di lingua greca. Grice: “When they called Messere ‘Socrate’ I hope they don’t mean Alcibiades’s implicature, ‘my dear Sileno!’” – Gregorio Messere. Messere. Keywords: implicature, Sileno, Socrates, Socrate Sileno, Socrate, Silenus. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Messere”.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Messimeri: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – la scuola di Seminara -- filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Seminara). Filosofo italiano. Seminara, Reggio Calabria, Calabria. Grice: “He was of a noble family – he was into the free market – so his is a philosophical economy.” Domenico Grimaldi (Seminara), filosofo. Esponente dell'illuminismo napoletano.  Francesco Mario Pagano. Nato in una famiglia aristocratica che faceva risalire le proprie origini alla nota famiglia di Genova, ricevette la prima educazione dal padre, il marchese Pio Grimaldi, un uomo colto che aveva cominciato a introdurre criteri di conduzione innovativi nelle sue proprietà terriere, peraltro non molto estese, di Seminara. Non essendo molto ricco, il padre lo avviò agli studi giuridici, in previsione di una possibile professione forense, all'Napoli. Nella capitale napoletana M. fu raggiunto dal fratello minore Francescantonio, fece parte con il fratello dell'Accademia dell'Arboscello, frequenta le lezioni di economia di Genovesi. Si trasferì a Genova, dove ottenne la riammissione nel patriziato della Repubblica di Genova, ottenendo così il permesso di esercitare alcune magistrature. In Liguria, tuttavia, M. ha modo di approfondire gli aspetti tecnici, economici e sociali legati all'agricoltura il cui studio lo spinse a viaggi in Francia, specie in Provenza, in Piemonte e in Svizzera. Si interessò in particolare alla colture dell'ulivo e del gelso per l'allevamento dei bachi da seta. Venne accolto fra l'altro nell'Accademia dei Georgofili, che premiò una memoria, nella Società economica di Berna, un centro di cultura fisiocratica, e nella Société royale d'agriculture di Parigi.  Saggio di economia campestre per la Calabria Ultra  François Quesnay, maggior rappresentante della fisiocrazia Frutto delle sue ricerche fu il Saggio di economia campestre per la Calabria Ultra, esposizione di un piano che, partendo dalle condizioni di arretratezza dell'economia calabrese, secondo la dottrina fisiocratica, ne indica i mezzi atti a la trasformare situazione economica della Calabria. All'epoca il settore produttivo più importante era l'agricoltura in quanto i posti nell'industria erano pochi, le alternative limitate all'edilizia, ai lavori pubblici e al settore terziario; l'agricoltura era tuttavia quasi esclusivamente di sussistenza, e lo scarso reddito determinava un esodo massivo dalle campagne. Per Grimaldi l'ammodernamento dell'agricoltura e l'integrazione tra agricoltura e allevamento erano le condizioni prime per avviare la produzione industriale e il commercio. il successivo aumento del reddito agrario avrebbe dovuto essere reinvestito nell'industria tessile e in quelle serica, lattiero-casearia e olearia. La presenza di industrie avrebbe innescato un circolo virtuoso in quanto avrebbe potuto richiamare un afflusso di capitali per la ristrutturazione fondiaria e l'aumento delle dimensioni delle aziende agricole, con successiva formazione e sviluppo di attività miste agricolo-manifatturiere, specialmente alimentari, con impiego di mano d'opera locale. L'imprenditore Vecchio frantojo ligure dismesso M. si impegna a tradurre in pratica questi progetti, con l'aiuto finanziario del padre, impegnandosi nel miglioramento della coltivazione degli olivi, chiamate dalla Liguria maestranze e tecnici per creare a Seminara nuovi frantoi "alla genovese"; rese poi pubblici i progetti e i risultati delle sue innovazioni con un'opera  edita con una dedica a Beccadelli, marchese della Sambuca. Si dedicò più tardi alla produzione della seta. M., che inizialmente intendeva assegnare l'ammodernamento dell'agricoltura all'iniziativa privata, si rese conto che l'approccio utilizzato per l'ammodernamento dell'industria olearia (in questo caso, introduzione in Calabria della lavorazione della seta alla "piemontese") non sarebbe stato sufficiente nella lavorazione della seta per ostacoli di natura fiscale nel regno di Napoli, ossia del dazio sulla seta calabrese. Diede pertanto inizio a vivace polemica nei confronti dei controlli oppressivi doganali e dei monopoli statali nei settori delle manifatture e del commercio.  Il politico  Sir John Acton La riflessione sull'influenza dello stato nel mercato della seta, diede avvio al dibattito sul problema della libertà nel commercio internazionale, in particolare nel commercio del grano che aveva assunto una notevole importanza dopo la carestia. Una delle proposte più importanti di M. fu la costituzione, nella Calabria Ultra, di società economiche concepite come centri promotori il miglioramento della tecnica agraria; ma la proposta non trovò il necessario sostegno né nei proprietari terrieri né nel clero. In seguito allargò lo sguardo dalla Calabria Ultra all'intero Regno, proponendo di svolgere un'attività conoscitiva sulla struttura economica del Regno mediante la predisposizione di piani di visite alle province napoletane affidati a ispettori di nomina regia, con proposte di azione sulle "cause fisiche" dell'arretratezza, principalmente la mancanza di strutture per l'irrigazione innanzitutto nelle Puglie, per le quali suggeriva il ricorso anche al lavoro coatto.   Filangieri Grazie alla notorietà raggiunta con i suoi saggi M. fu nominato dal primo ministro Acton assessore al neocostituito Supremo Consiglio delle Finanze assieme a Filangieri, Palmieri, Delfico e Galanti. Il terremoto che causò gravi danni e lutti alla famiglia Grimaldi. Grimaldi fu favorevole all'istituzione della Cassa sacra, proponendo che ricostruzione fosse eseguita secondo un piano pubblico che prevedesse iniziative strutturali per l'ammodernamento della produzione agricola e industriale. Si adoperò per l'apertura a Reggio Calabria di un istituto professionale nel quale si insegnasse "l'arte di tirar la seta alla piemontese"; la scuola, diretta da M., ebbe un certo successo, ma venne chiusa nel L'interruzione negli anni novanta dell'attività riformatrice di Ferdinando IV di Napoli in seguito alla crisi collegata alla rivoluzione francese comportò un atteggiamento di sospetto, da parte del governo napoletano, nei confronti dell'intellettualità progressista. A Grimaldi venne rifiutata la nomina, proposta dal Galanti, di presidente della costituenda Società patriottica per la Calabria in quanto massone. Fu addirittura arrestato, come gran parte dei massoni reggini (una cinquantina circa) in seguito all'assassinio del governatore di Reggio, Pinelli e trasferito nel carcere di Messina dove si trovava alla nascita della Repubblica Napoletana. Suo figlio Francescantonio aderì alla Repubblica Napoletana. Saggi: “Memoria ai gergofili sopra una specie di pianta pratense chiamata sulla” (Firenze); “Economia campestre per la Calabria” (Napoli: Orsini); “La manifattura dell'olio nella Calabria” (Napoli: Lanciano); “Manifattura e commercio delle sete del Regno di Napoli alle sue finanze, scon alcune riflessioni critiche sopra il bando delle sete” (Napoli: Porcelli); “La pubblica economia delle provincie del Regno delle Due Sicilie” (Napoli: Porcelli); “Piano per impiegare utilmente i forzati, e col loro travaglio assicurare ed accrescere le raccolte del grano nella Puglia, e nelle altre provincie del Regno” (Napoli: Porcelli); “L’industria olearia, e dell'agricoltura nelle Calabrie, ed altre provincie del Regno di Napoli” (Napoli: Porcelli); “L’economia olearia antica sull'antico frantoio da olio trovato negli scavamenti di Stabia” (Napoli: Stamperia Reale); “L’Ulteriore Calabria con alcune osservazioni economiche relative a quella provincia” (Napoli: Porcelli). Franco Venturi, Illuministi italiani,  V: Riformatori napoletani, Napoli: Ricciardi, Piromalli, La letteratura calabrese: Dalle origini al posivitismo, Cosenza: LPE,  Istruzioni sulla nuova manifattura dell'olio introdotta nel Regno di Napoli da M. patrizio genovese, socio ordinario, e corrispondente dell'Accademia de' Georgofili di Firenze, della Società di Agricoltura di Parigi, e di Berna, In Napoli: presso Orsini, a spese di Porcelli, Osservazioni economiche sopra la manifattura e commercio delle sete del Regno di Napoli alle sue finanze, scritte dal marchese Domenico Grimaldi, con alcune riflessioni critiche sopra del Bando delle Sete” (Napoli: Porcelli); “Relazione d'un disimpegno fatto nella Ulteriore Calabria con alcune osservazioni economiche relative a quella provincial” (Napoli: Porcelli); “Piano di riforma per la pubblica economia delle provincie del Regno di Napoli, e per l'agricoltura delle Due Sicilie, scritto da M., Napoli: Porcelli); Piano per impiegare utilmente i forzati, e col loro travaglio assicurare ed accrescere le raccolte del grano nella Puglia, e nelle altre provincie del Regno scritto da M.,  patrizio genovese” (Napoli: Porcelli); “Relazione d'una scuola da tirar la seta alla piemontese stabilita in Reggio per ordine di Sua Maestà, sotto la direzione di M., e l'approvazione del Vicario generale delle Calabrie don Francesco Pignatelli” (Messina per Giuseppe di Stefano). L'opera apparve anonima ed è attribuita a M. da Melzi, Note bibliografiche del fu Melzi, edite per cura di un bibliofilo milanese con altre notizie,  H-R, Milano: Bernardoni) Galanti, Giornale di viaggio in Calabria; introduzione di Luca Addante, Soveria Mannelli: Rubbettino, A. Ubbidiente, Il pensiero e l'opera di M. e Francescantonio Grimaldi. Testi di Laurea. Università degli Studi di Salerno, Facoltà di Magistero. Perna, Dizionario Biografico degli Italiani, Roma: Istituto dell'Enciclopedia, Basile, «Un illuminista calabrese: M. da Seminara, in: Archivio Storico per la Calabria e la Lucania, Cingari, Giacobini e Sanfedisti in Calabria, Reggio Cal., "Casa del libro", Morisani, Massoni e Giacobini a Reggio Calabria,  Reggio Cal., Morello,  Romeo, Alcune precisazioni su M. un riformatore Calabrese, in "Historica", Antonio Piromalli, L'attualità del pensiero e delle opere del marchese Domenico Grimaldi, Cosenza: L. Pellegrini, Luciano, M. e la Calabria, Salerno, Carucci. M. la voce nella Treccani L'Enciclopedia Italiana. Grice: “Isn’t ONE Sicily enough?” Giovanni Antonio Summonte, storico vissuto a cavallo tra il XVI e il XVII secolo, all'interno del secondo volume della sua Historia della città e Regno di Napoli, inserisce un trattato dal titolo Dell'Isola di Sicilia, e de' suoi Re; e perché il Regno di Napoli fu detto Sicilia. In questo scritto l'origine della distinzione tra due «Sicilie» separate dal Faro di Messina viene individuata nella bolla pontificia con cui papa Clemente IV investì Carlo I d'Angiò del Regno di Napoli:  «Papa Clemente IV, il quale investì, e coronò Carlo d'Angiò di questi due Regni, chiamò quest'Isola, e il Regno di Napoli con un sol nome, come si può vedere in quella Bolla, ove dice, Carlo d'Angiò Re d'amendue le Sicilie, Citra, e Ultra il Faro: e questo eziandio osservarono gli altri Pontefici, che a quello successero, e si servirono degl'istessi nomi. Imperciocchè 7 altri Re, che al detto Carlo successero che solo del Regno di Napoli, e non di Sicilia padroni furono, chiamarono il Regno di Napoli, Sicilia di qua dal Faro. Il Re Alfonso poi, ritrovandosi Re dell'Isola di Sicilia, per essere egli successo a Ferrante suo padre, e avendo anco con gran fatica, e forza d'armi guadagnato il Regno di Napoli da mano di Renato, si chiamò anch'egli con una sola voce, Re delle Due Sicilie, Citra, e Ultra; E questo per dimostrare di non contravenire all'autorità de' Pontefici. Ad Alfonso poi successero 4 altri Re i quali furono Signori solo del Regno di Napoli, e si intitolarono, come gli altri, Re di Sicilia Citra. Ma Ferdinando il Cattolico, Giovanna sua figlia, Carlo Vimperadore e Filippo nostro re, e Signore, i quali anno sic avuto il dominio d'amendue i Regni, si sono intitolati, e chiamati Re delle due Sicilie Citra, e Ultra: la verità dunque è, che questi nomi vennero da' Pontefici romani, i quali cominciarono ad introdurre, che 'l Regno di Napoli si chiamasse Sicilia.»  La stessa tesi è sostenuta da Giannone nella sua Istoria civile del Regno di Napoli, in cui si citano vari stralci della bolla pontificia, con la quale Clemente IV concesse l'investitura a Carlo d'Angiò «pro Regno Siciliae, ac Tota Terra, quae est citra Pharum, usque ad confiniam Terrarum, excepta Civitate Beneventana». In un altro passo la bolla proclamava: «Clemens IV infeudavit Regnum Siciliae citra, et ultra Pharum». Secondo Giannone è dunque questa l'origine del titolo rex utriusque Siciliae, che tuttavia Carlo d'Angiò non usò mai nei suoi atti ufficiali, preferendo gli antichi titoli dei sovrani normanni e svevi. Marchese Domenico Grimaldi. Grimaldi di Messimeri. Messimeri. Keywords: implicature, economia olearia antica – antico frantoio da olio a Stabia -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Messimeri” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!: ossia, Grice e Metello: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – Roma – filosofia lazia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A Roman general and politician. A pupil of Carneade. Quinto Cecilio Metello Numidico. Metello.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Metopo: la ragione conversazionale della diaspora di Crotone -- Roma – filosofia basilicatese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Metaponto). Filosofo italiano. Metaponto, Basilicata. Cited by Stobeo – He writes a treatise on virtue [VIRTUS, ANDREIA] which survives. Giamblico lists him as a Pythagorean.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Metrodoro: la ragione conversazionale degl’ottimati di Crotone -- Roma – filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotone). Filosofo italiano. Crotone, Calabria. A Pythagorean and son of Epicharmo, cited by Giamblico.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Metronace: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale nella scuola di Napoli – Roma – filosofia campanese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo italiano. Napoli, Campania. Metronace. Porch.A popular teacher of philosophy at Napoli, where Seneca attended some of his lectures.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Micalori: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale -- Ganimede e l’implicatura sferica di Giove – filosofia lazia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano.  Roma, Lazio. Grice: “I took my ideas on longitude and latitude from Micalori” -- Grice: “By calling it ‘sfera,’ Micalori’s statement ENTAILS rather than implicates that the Romans were wrong.” Professore a Urbino.  Opere: “Della sfera mondiale” In Urbino, Mazzantini, M., Antapocrisi, In Roma, Francesco Roma Cavalli.   Zeus features heavily in a lot of starlore, and the Eagle constellation is no exception.  The predominantly accepted mythos for this constellation is the abduction of Ganymede. Zeus had facilitated the kidnapping, fancying the beautiful mortal boy as his personal cup-bearer.  In the constellation, which is situated south of Cygnus on the equator, making it visible from both the Northern and Southern hemispheres, poor Ganymede can be seen hanging from the claws of the eagle as he is swiftly taken to the heavens.  The constellation appears alongside several other bird constellations. The Eagle’s wings are spread, giving it the appearance of gliding through the stars. As Hyginus states, the beak is separated from the body by a milky circle. It was also said to set “at the rising of the Lion and rises with Capricorn”. (Hyginus, Astronomy, 3.15)  Greek astronomy  Humans have a natural urge to identify familiar things amongst the twinkling stars of the mysterious abyss above us. These narratives came out of astronomical observations and ancient time tracking. The study of the sky began long before the earliest Greek sources that (sparsely) discuss them, Homer and Hesiod. They likely developed during the transition from oral to written transmission, but to what is extent is unknown.  Even though the Greeks were late to the constellation conversation, they received a lot of their knowledge from their Eastern neighbors. The Greeks introduced the word katasterismos, or catasterism, which refers to the process of being set in the heavens. Constellations were used for navigation and an indication of seasonal change; many extravagant mythic connections were added later.  Today, there are 88 constellations officially defined by the International Astronomical Union, and many of them have been accepted since Ptolemy’s The Almagest.  Constellations created by the Mesopotamians between 1300-1000 BC originate in older lands, but the Greek astral mythos canon was solidified by Eratosthenes, in a work now lost to us.  Zeus and his trusted companion  The myth of Ganymede is very ancient lore, being told in the tale of Troy by Homer (Illiad) – albeit with no mention of an eagle escort. In the fifth Homeric Hymn to Apollo, Ganymede was said to be whisked off to Olympus by a ‘heaven-sent whirlwind’.  The eagle was not connected to this tale until the 4th century BC. The constellation was accepted as an eagle prior to this, so it is presumed that this addition was made to make the story fit the stars, probably because Ganymede is said to feature in his own nearby constellation, the water-pourer (Aquarius). Micalori. Keywords: implicatura sferica, planifesferio, Casali. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Micalori” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Miccoli: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale d’ANTONINO -- homo loqvens filosofia lazia – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Roma, Lazio. Grice: “Miccoli is a great philosopher – and surgeon – My favourites are his ‘Corpo dicibile,’ which trades on my idea of what it means to ‘say’ something; and his ‘Homo loquens,’ a play on Aristotle’s ‘zoon logikon,’ but which Aristotle would find otiose: man is the ‘vivente’ that speaks, or the ‘animal’ that speaks. To say that it is the ‘homo’ that speaks relies on Darwin’s classifications and phyla of homo sapiens sapiens and the rest!” La divertente commedia umana Incipit Chi si accinge alla lettura dell' Elogio della follia di Erasmo farebbe bene a non dimenticare taluni antecedenti biografici dell'autore che spiegano meglio l'ironia bonaria dell'opuscolo. Li richiamiamo. Geertsz, latinizzato secondo il costume degli umanisti in Desiderio Erasmo, nacque figlio di illegittimo coniugio. La famiglia paterna, in auge nella borghesia di Gouda, come apprendiamo dallo stesso Erasmo, si oppose alle nozze riparatrici del figlio, costringendolo, con inganno, a far intraprendere la carriera ecclesiastica al malcapitato giovanotto.  Citazioni Come umanista Erasmo si sente apparentato alla società dalla duttile forza della parola che ne saggia criticamente le valenze in termini di ironia, sarcasmo, gioco allusivo, bonarietà lungimirante, tolleranza magnanima, moralismo contenuto. Fin dalla dedica dell'opuscolo a Moro si arguisce che l'autore non vuol propinare sapientia austera e compassata, ma buon senso brioso che permei di sé la vita quotidiana della gente, fosse anche d’ANTONINO che sul letto di morte, lui filosofo, esclama, a un certo momento: «Sentenzio me cacavi! La sapienza dei dotti è tanto altezzosa quanto sterile, diversamente dal buon senso che cambia in meglio l'esistenza non sofisticata. (Sotto la penna dell'insigne umanista olandese si fronteggiano al femminile Sapientia e Stultitia: la prima, per voler essere austera ad ogni costo, diventa stolta; la seconda, in quanto «forza vitale irrazionale e creatrice», si palesa veramente saggia alla resa dei conti. L' Elogio della follia conserva un fascino di imperitura attualità. Lo si desume dall'analisi di Histoire de la Folie, dove Foucault evidenzia il confine sfumato tra ragione e sragione in epoca di alta tecnologia, e altresì dalle invettive di Nietzsche contro lo smunto bibliotecario, lo stitico correttore di bozze, il pallido burocrate stipendiato, emblemi tutti del moderno «uomo alessandrino». (Explicit Erasmo conosce e cita perfino pagine della Bibbia a riprova della bontà dei doni che Follia concede ai mortali. Un modo questo, di prendere in giro anzitempo la presunzione dispotica delle società economicistiche che intendono mantenere sotto loro tutela il cittadino «minorenne» sempre bisognoso di dande e mordacchie. Gli autori classici sono, tra l'altro, spiriti lungimiranti. A tali società alienanti di oggi e di domani Blake, con spirito erasmiano, potrebbe ripetere: «esuberanza è bellezza. La divertente commedia umana, introduzione a Erasmo da Rotterdam, Elogio della Follia, TEN, Introduzione a "Vita di Gesù" Incipit Il contesto storico culturale della Vita di Gesù La recente edizione storico-critica delle Opere complete di Hegel consente di far chiarezza sulle discussioni e congetture che hanno tenuto a lungo il campo nella letteratura hegeliana a proposito dei cosiddetti Scritti teologici giovanili, la cui indole cronologica vengono ora sancite su base filologica e critica più accorta. Più che ai titoli apposti da Nohl ai vari frammenti e più che alle congetture sulla data probabile di tali scritti, è più fruttuoso rifarsi agli anni di formazione filosofica e teologica di Hegel nello Stift di Tubinga e reperire nel curriculum studiorum le ascendenze prossime che hanno influenzato maggiormente l'autore in una speculiare lettura dei quattro Evangelisti, da cui desume Das Leben Jesu. Citazioni Gli interessi culturali di Hegel, negli anni tubinghesi, sono prevalentemente filosofici, incentivati dalla lettura di Rousseau, Jacobi, Lessing, Kant, Fichte su temi sociopolitici ed etico-religiosi. (Hegel, studioso di filosofia, si sente chiamato a lumeggiare «spiritualmente» la situazione storica del suo tempo e a porre le premesse di carattere razionale per l'avvento di un «ordine uguale di tutti gli spiriti». Il lettore del Leben Jesu si accorge subito di trovarsi di fronte a una forma di scrittura audace, che desacralizza e sdivinizza la persona di Gesù, riducendolo a maestro di morale sublime. M., introduzione a Hegel, Vita di Gesù. TEN. “Filosofia della storia”, “Corpi dicibili”, “Homo louqens”. Paolo Miccoli. Miccoli. Keywords: homo loquens, corpo dicibile, corpi dicibili. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Miccoli” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Miccolis: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – BRVNO – filosofi italiani al rogo – la scuola di Corato -- filosofia pugliese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Corato). Filosofo italiano. Corato, Bari, Puglia. Grice: “Miccoli reminds me of G. Baker, who dedicated most of his life to Witters! Miccolis to Labriola.” Considerato uno dei massimi studiosi di Labriola.  Si trasferì a Perugia per gli studi universitari, laureandosi in filosofia a pieni voti con una tesi dal titolo «Il pensiero politico crociano e la genesi del liberalismo». Abilitatosi cum laude all'insegnamento di storia e filosofia, professore in vari licei della provincia, occupò una cattedra stabile presso l'Istituto tecnico per geometri a Perugia, accostando l'insegnamento di estetica all'Accademia di belle arti Vannucci. Divenne responsabile del settore culturale del PCI per la regione Umbria; ma, preso dagli studî e dall'insegnamento, lasciò l'incarico, comunque seguendo sempre le vicende politiche con attenzione e passione. La sua è stata una formazione liberale: considerava suoi padri spirituali Labriola, Croce, Gobetti. Dalla fine degli anni Settanta la sua vita sarà rivolta allo studio del filosofo cassinese Labriola, da Miccolis ritenuto «un buon punto per capire la storia d'Italia». Nascerà quindi il Carteggio labrioliano, in cinque volumi, presentato da Cesa all'Accademia dei Lincei, edito per gli auspici e con il contributo dell'Istituto italiano per gli studi storici e dell'Università degli Studi di Napoli "L'Orientale" e favorito dalla consultazione, nel frattempo divenuta possibile, delle carte Labriola del Fondo Dal Pane, acquistato dalla Società napoletana di storia patria. Su tale monumentale lavoro è stato scritto: «un evento letterario, probabilmente l'acquisizione più importante tra le fonti della cultura italiana postunitaria; e, di più, senza esagerazione, si presenta come un capolavoro ecdotico, per accuratezza filologica ed esaustività del commento. Miccolis era certo divenuto col tempo l'esperto più sicuro della impervia grafia del suo autore, della quale conosceva ogni piega e ogni anomalia, dei contesti politici e culturali in cui Labriola si muoveva della spezzettata, dispersa e contorta  labrioliana, difficile da padroneggiare: si era anche impadronito, in base a una sensibilità linguistica non comune, del "vocabolario" dell'Autore in tutte le sue sfumature, ed era perciò in grado di respingere o di dubitare di attribuzioni di testi, datazioni improbabili, letture sghembe». Miccolis scrisse inoltre sistematicamente per varie riviste (Rivista di storia della filosofia, il Giornale critico della filosofia italiana, Belfagor, Critica storica, Nuovi studi politici, etc.); numerosi sono i suoi saggi e notevoli gli ulteriori apporti documentari alla  labrioliana. Collabora intensamente con l'Istituto italiano per gli studi storici e la Fondazione Biblioteca Croce: aveva il compito di revisionare i carteggi crociani, e sotto il suo controllo passavano i volumi dell'Edizione nazionale delle opere di Croce. È stato anche uno dei principali animatori dell'Edizione nazionale delle opere di Labriola, per la quale aveva contribuito a definire il piano editoriale, i criteri metodologici, e il problema del rapporto tra l'opera edita di Labriola e il fondo manoscritto della Società napoletana di storia patria.  Adnkronos, Filosofi, E' morto M., massimo studioso di Labriola, Bari, SAVORELLI, Rivista di storia della filosofia, Opere: “ Il carteggio di Labriola conservato nel Fondo Dal Pane” «Archivio storico per le provincie napoletane»,  «Con la Sua calligrafia che mi ricorda i papiri greci...». La filologia, la guerra, la Crusca nel carteggio di Croce con Pistelli e Lodi, a c. di M. e Savorelli, in Gli archivi della memoria, Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, (rist. in Gli archivi della memoria e il Carteggio Salvemini-Pistelli, a c. di R. Pintaudi, Firenze, Biblioteca Medicea Lauenziana, Polistampa, Labriola, La politica italiana Corrispondenze alle « Basler Nachrichten », M., Napoli, Bibliopolis, Labriola, Carteggio, M., Napoli, Bibliopolis, M., Labriola, Dizionario biografico degli italiani, A. Labriola, L'università e la libertà della scienza, M., Torino, Aragno, Labriola, Bruno. Scritti editi ed inediti M. e Savorelli, Napoli, Bibliopolis, M., Labriola. Saggi per una biografia politica, A. Savorelli e M., Milano, UNICOPLI,  M., Gli scritti politici di Labriola editi da M., A. Savorelli e M., Napoli, Bibliopolis,   G. Bucci, M., il ricordo a un anno dalla morte, "Corato live", W. Gianinazzi, M. Prat, In memoriam "Mil neuf cent", Savorelli, M., «Rivista di storia della filosofia», fa A. Meschiari, M. studioso di  Labriola, Rivista di storia della filosofia. Stefano Miccolis. Miccolis. Keywords: filosofi italiani al rogo. BRVNO. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Miccolis” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Michelstädter: l’ebreo italiano e lla ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – il giovane divino -- l’implicatura persuasiva di Platone – filosofia giudea – filosofia nel ventennio fascista – filosofia italiana -- Luigi Speranza (Gorizia). Filosofo italiano. Grice: “It’s difficult to grasp Michelsteadter’s implicature: his study on ‘persuasion’ is brilliant – he was a close reader of Plato, and he uses figurative language, as ‘il giovane divino.’ My favourite is his account of the persuasive rhetoric of Cicero.” Grice: “Michelsteadter plays with the etymology of persuasion, which is cognate with ‘suave,’ as it should – sweet talk, we should say – which I could make into a maxim which would not be strictly ‘conversational’ unless under the category of modus – ‘be sweet’ –But the sweetness applies in general to my framework: the emissor aims to be sweet if he is going to try to influence the other, and will be influenced by a sweeter co-emissor.”  essential Italian philosopher. Ultimo di quattro figli, da un'agiata famiglia. Il padre, Alberto, dirige l'ufficio goriziano delle Assicurazioni Generali ed è presidente del Gabinetto di Lettura goriziano. È un uomo colto, autore di scritti letterari e di conferenze, rispettoso delle usanze tradizionali ma solo formalmente, per rispetto borghese -- è, anzi, un laico, un tipico rappresentante della mentalità materialistica. Il semitismo non sembra quindi incidere molto sulla sua formazione culturale, che scoprire solo più tardi e con non poca meraviglia di avere un antenato cabalista. Iscritto al severo Staatsgymnasium cittadino, fa propria la rigida Bildung asburgica. Con le traduzioni dal greco e dal latino ha i primi approcci colla filosofia. A iniziarlo sono Schubert-Soldern, solipsista gnoseologico, secondo il quale tutto il sapere va ricondotto alla sfera del soggetto; e l'amico Mreule che gli fa conoscere Il mondo come volontà e rappresentazione, di cui resta traccia soprattutto ne La Persuasione e la Rettorica. Nella soffitta di Paternolli, oltre a Schopenhauer, legge e discute, con gli amici Nino e Rico, i tragici e i presocratici, Platone, il Vangelo e le Upanishad; e poi ancora Petrarca, Leopardi, Tolstoj, e l'amatissimo Ibsen.  Conclusde gli studi ginnasiali e progetta di iscriversi a giurisprudenza; in seguito abbandona l'idea e si iscrive alla facoltà di matematica a Vienna. Ma l'anima è giàper dirla con Leopardi nel primo giovanil tumulto verso un altrove che non riesce a riconoscere nella ferrea logica matematica. Si iscrive al corso di Lettere dell'Istituto di Studi Superiori Fiorentino, città in cui vivrà per quasi quattro anni e dove conoscerà, fra gli altri, Chiavacci, futuro curatore delle sue Opere, ed Arangio-Ruiz, noto filosofo. Continua a ritrarre, fra tratto espressionistico e schizzo caricaturale, la varia umanità in cui s'imbatte, sia nei mesi di studio che nei periodi di vacanza al mare e in montagna. Scrive moltissimo, in modo quasi ossessivo, dalle lettere ai familiari (in particolare alla sorella Paula) alle recensioni di drammi teatrali. Un evento luttuoso segna la sua vita: la morte, per suicidio, del fratello Gino. Due anni prima si era suicidata anche una donna da lui amata, Nadia Baraden. Mreule parte per l'Argentina. Questa partenza è segnata da un evento significativo, una sorta di passaggio del testimone. Si fa consegnare da Rico la pistola che porta sempre con sé. Completati gli esami, ritorna a Gorizia e inizia la stesura della tesi di laurea, assegnatagli da Vitelli, concernente i concetti di persuasione e di retorica in Platone e Aristotele. La sua attività è febrile. Oltre alla Persuasione scrive anche la maggior parte delle Poesie e alcuni dialoghi, tra cui spicca il Dialogo della salute. Il suo isolamento diventa pressoché totale, mangia pochissimo e dorme per terra, come un asceta. Vede solo la sorella e il cugino Emilio. Comunica al padre che dopo la tesi non avrebbe fatto il professore, ma che appena laureato sarebbe andato al mare, forse a Pirano o a Grado. Dopo un diverbio con la madre, impugna la pistola lasciatagli da Mreule e si toglie la vita. Sul frontespizio della tesi aveva disegnato una fiorentina, una lampada ad olio, e aggiunto in greco: apesbésthen, «io mi spensi».  Amici raccolsero i suoi saggi, ora alla Biblioteca di Gorizia. Sepolto nel cimitero ebraico di Valdirose (Rožna Dolina), oggi nel comune sloveno di Nova Gorica, a poche centinaia di metri dal confine con l'Italia. La breve vita di M. scorrecome risulta dall'Epistolarioall'insegna di una volontà di vivere continuamente illuminata dal desiderio di un altrimenti e di un altrove metafisico che fa di lui un impulsivo, un irrequieto esploratore di linguaggi e di mezzi espressivi, capace di spaziare dalla pittura alla poesia passando per le ripide vette della filosofia. Nell'apologo dell'aerostato incluso ne La Persuasione e la Rettorica, l'essenza del pensiero occidentale, la rettorica, viene fatta risalire da M. a un parricidio: quello di Aristotele nei confronti di Platone. Questi, nella metafora costruita da M., escogita un mechánema, una macchina volante per abbandonare il peso del mondo e giungere all'assoluto. Maestro e discepoli riescono a librarsi negli alti spazi del cielo, ma restano a metà strada, fra una mera contemplazione dell'essere e del tempo e la nostalgia della terra e delle cure mondane. A riportarli sulla terra ci pensa allora un discepolo più scaltro e intraprendente degli altri, Aristotele, il quale, tradendo il maestro, fa scendere il mechánema restituendo così a tutti la gioia d'aver la terra sicura sotto i piedi. Questa nostalgia del mondo intelligibile platonico fa quindi di lui un discepolo di Schopenhauer, più che di Nietzsche.  La costituzione della metafisica è per lui una storia di rettorici tradimenti, la vicenda di una verità dai grandi persuasi tanto proclamata agli uomini quanto da questi disattesa e inascoltata. Quanto io dico è stato detto tante volte e con tale forza che pare impossibile che il mondo abbia ancor continuato ogni volta dopo che erano suonate quelle parole. Lo dissero ai Greci Parmenide, Eraclito, Empedocle, ma Aristotele li trattò da naturalisti inesperti; lo disse Socrate, ma ci fabbricarono su 4 sistemi... lo disse Cristo, e ci fabbricarono su la Chiesa. La persuasione è la visione propria di chi ha compreso la tragicità della finitezza e ad essa vuol tener fermo, senza ricorrere a quegli «empiastri»i kallopísmata órphnes, gli «ornamenti dell'oscurità»che possano lenire il dolore scatenato da tale consapevolezza. L'essere è finitezza che si rivela solo nella dimensione tragica di una presenza abbacinante, ma gli uomini rigettano questa tragica consapevolezza ottundendosi, pascalianamente, nel divertissement. Persuaso è chi ha la vita in sé, chi non la cerca alienandosi nelle cose o nei luoghi comuni della società perdendo l'irrinunciabile hic et nunc del proprio esserci, ma riesce «a consistere nell'ultimo presente», abbandonando quelle illusioni di sicurezza e di conforto che avviluppano chi vive abbagliato dalle illusioni create dal potere, dalla cultura, dalle dottrine filosofiche, politiche, sociali, religiose. È questa «la via preparata» dalla quale a tutti fa comodo non discostarsi troppo; è questo restare perennemente attaccati alla vitala philopsychìaa far sì che la "rettorica" trionfi sempre. La vita, soffocata dalla ricerca dei piaceri, della potenza, finanche dalla presunzione filosofica di possedere la via e quindi la vita stessa, non vive, perché in ogni istante ciascuno rimane avvolto dalle cure per ciò che non è ancora o dal rimpianto per ciò che non è più, mancando sempre l'attimo decisivo, quello che i greci chiamavano kairós, il tempo propizio. Perciò nella vita facciamo esperienza della morte, di quella «morte nella vita» cantataquasi una danse macabrenel Canto delle crisalidi: «Noi col filo / col filo della vita / nostra sorte / filammo a questa morte».  Il pensiero di M. procede di conseguenza, per liberare il potenziale di tragicità dell'esistenza, attraverso violente contrapposizioni concettuali (persuasione-rettorica, vita-morte, piacere-dolore), senza alcun tentativo di mediazione dialettica. M. respinge, con un gesto iniziatico, l'idea di costruire una dottrina sistematica della persuasione e della salute, in quanto «la via della persuasione non è corsa da 'omnibus', non ha segni, indicazioni che si possano comunicare, studiare, ripetere. Ma ognuno ha in sé il bisogno di trovarla e nel proprio dolore l'indice, ognuno deve nuovamente aprirsi da sé la via, poiché ognuno è solo e non può sperar aiuto che da sé: la via della persuasione non ha che questa indicazione: non adattarti alla sufficienza di ciò che t'è dato». La salvezza individuale è possibile solo in una singolarità irripetibile, irriducibile, concentrata in sé.  Il solipsismo di M. è perciò radicale: non ci sono vie, non ci sono cammini, c'è solo il viandante che nel deserto dell'esistenza è «il primo e l'ultimo», crocefisso al legno della propria sufficienza e schiacciato dalla croce di falsi bisogni. Poiché il mondo è negatività assoluta, al pensiero non resta che negare questa stessa negatività rifiutando i dati dell'immanenza: «Solo quando non chiederai più la conoscenza conoscerai, poiché il tuo chiedere ottenebra la tua vita». Si tratta di una sentenza di sapore quasi buddistico: non a caso Mreule enfatizzerà la figura dell'amico descrivendolo come «il Buddha dell'occidente».  Produzione artistica La produzione poetica e quella pittorica di M. possono essere considerate un prolungamento e un completamento di questo sentimento tragico e mistico. Come nel verso poetico egli tenta di esprimere l'inesprimibile, di dire con parole ciò che sfugge al sistema di segni codificato e perciò già da sempre istituito retoricamente, così nel segno pittorico, nello schizzo rapido e scherzoso come nel ritratto composto e meditato, traluce l'impossibilità di giungere a quella che Parmenide chiamava la ben rotonda verità. Non siamo giocati solo dalle parole, ma anche dalle immagini di una realtà fatta di colori e di forme che ci sfuggono nella loro immediatezza e alterità, «come chi vuol veder sul muro l'ombra del proprio profilo, in ciò appunto la distrugge». Anche l'arte e la poesia, come la retorica filosofica, si rivelano infine per quello che sono: fragili orpelli di cui si orna l'oscurità dell'essere e che ogni linguaggio escogitato dall'uomo sarà sempre impotente a esprimere.  Saggi: Saggi Chiavacci, Sansoni, Firenze); “Scritti scolastici, Campailla, Gorizia, Opera grafica e pittorica, S. Campailla, Gorizia, Il dialogo della salute e altri dialoghi, Campailla, Adelphi, Milano Poesie, Campailla, Adelphi, Milano, La Persuasione e la Rettorica, Arangio-Ruiz, Formiggini, Genova, edizione critica Campailla, Adelphi, Milano poi, con le Appendici critiche, ivi,). Epistolario, S. Campailla, Adelphi, Milano nuova edizione riveduta e ampliata, ivi,  Parmenide ed Eraclito. Empedocle, SE, Milano, L'anima ignuda nell'isola dei beati. Scritti su Platone, Micheletti, Diabasis, Reggio Emilia,  Dialogo della salute. E altri scritti sul senso dell'esistenza, a cura e con un saggio introduttivo di G. Brianese, Mimesis, Milano, La melodia del giovane divino, S.  Campailla, Adelphi, Milano  La persuasione e la rettorica, edizione critica, A. Comincini, Joker. M.-Winteler, Appunti per una biografia di M.. M. si riferisce, nell'Epistolario, al bonno Isacco Samuele Reggio, confondendolo con il padre di questo, Abram Vita Reggio Campailla, Il segreto di Nadia B., Marsilio,. Da articoli di cronaca americani dell'epoca, si apprende che il suicidio avvenne con un colpo di pistola alla tempia destra.  La persuasione e la rettorica  La persuasione e la rettorica  Poesie La persuasione e la rettorica Magris, Un altro mare Il dialogo della salute, Biografie e studi critici Acciani Antonia, Il maestro del deserto. M., Progedit, Bari Arbo Alessandro, Carlo M., Studio Tesi, Pordenone (Civiltà della memoria). Arbo Alessandro, Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,. Arbo Alessandro, Il suono instabile. Saggi sulla filosofia della musica nel Novecento, Neo Classica, Roma, Giuseppe Auteri, Metafisica dell'inganno, Università degli Studi, Catania, Benevento, Scrittori giuliani. M., Slataper, Stuparich, Otto/Novecento, Azzate, Brianese, L'arco e il destino. Interpretazione di M., Abano Terme (PD), Francisci); Camerino, La persuasione e i simboli. M. e Slataper, Liguori, Napoli Sergio Campailla, Pensiero e poesia di M., Patron, Bologna. Sergio Campailla, A ferri corti con la vita, Comune di Gorizia Sergio Campailla, Controcodice, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli Valerio Cappozzo, La passione, Les Cahiers d'Histoire de l'Art nº2, Parigi Valerio Cappozzo, Il percorso universitario di  dall'archivio dell'Istituto di Studi Superiori, in  Un'altra società. M. e la cultura contemporanea, Campailla, Marsilio, Venezia, Un'introduzione, Perego, Storace e Visone, AlboVersorio, Milano); L'Essere come Azione, Erasmo Silvio Storace, AlboVersorio, Marco Cerruti, Carlo M., Mursia, 2Milano  (Civiltà letteraria, Sez. italiana). Cerruti, Ricordi, L'Essere come Azione", Erasmo Silvio Storace, AlboVersorio, Milano; Cinquetti, M.. Il nulla e la folle speranza, Edizioni Messaggero, Padova Tracce del sacro nella cultura contemporanea, Colotti, La persuasione dell'impersuadibilità. Saggio su M., Ferv, Roma, Acunto, La parola nuova. Momenti della riflessione filosofica sulla parola nel Novecento, Rubbettino, Soveria Mannelli Martino Dalla Valle, Dal niente all'impensato. Saggio su M., Imprimitur, Padova Daniela De Leo, M. filosofo del frammento con Appunti di filosofia di M., Milella, Lecce Daniela De Leo, Mistero e persuasione in M. Passando da Parmenide ed Eraclito, Milella, Lecce Roberta De Monticelli, Il richiamo della persuasione. Lettere, Marietti, Genova; Roberta De Monticelli, Ricordo di una giovinezza,[ "M.. L'Essere come Azione", Erasmo Silvio Storace, AlboVersorio, Milano Martire della persuasione", tesi di laurea di Mirizzi, Biblioteca Statale Isontina, Gorizia Dialoghi intorno a M., Sergio Campailla, Biblioteca Statale Isontina, Gorizia. Eredità di M., Silvio Cumpeta e Angela Michelis, Forum Edizioni, Udine Laura Furlan, L’essere straniero di un intellettuale moderno, Lint, Trieste  Vie di fuga. L'immagine irraggiungibile. Dipinti e disegni di M., Gallarotti, Edizioni della Laguna, Mariano del Friuli, Galgano Andrea, Il vortice del nulla, in Mosaico, Roma, Aracne,  Giordano, Il pensiero e l'arte di Carlo M., in "Riscontri", Ora, revisionato, in Il fantastico e il reale. Pagine di critica letteraria da Dante al Novecento, Napoli, Edizioni Scientifiche italiane, Francesco, M.: frammenti da una filosofia oscura, Ripostes, Salerno-Roma I tascabili. Vincenzo Intermite, M. Società rettorica e coscienza persuasa, Firenze Atheneum (collana Collezione Oxenford, Rocca, Nichilismo e retorica. Il pensiero di M., ETS, Pisa  (Biblioteca di "Teoria" 2). Rocca, L’esperienza del senso, in «Il Cannocchiale», C. Rocca, Il motivo della persuasione e il rapporto con M., in «Il Ponte», “Aldo Capitini, persuasione e non violenza”, T. Raffaelli,  Claudio La Rocca, Esistenzialismo e nichilismo. Luporini e M., Belfagor, Rocca, Prima e dopo la Persuasione. Interpretare M., in M.: l'essere come azione, E. Storace, AlboVersorio, Milano, C. Rocca, La persuasione (e l'oratoria), Humanitas, un classico, Michelis,  Magris, Un altro mare, Garzanti, Milano, Biagio Marin, Ricordo di M., in Studi Goriziani, Marroni, Filosofie dell'intensità. Quattro maestri occulti del pensiero italiano contemporaneo, Mimesis, Milano IF. Itinerari filosofici. Marroni, L’estetica del 'farsi fiamma', in Estetiche dell'eccesso. Quando il sentire estremo diventa grande stile, Quodlibet, Macerata,; Fabrizio Meroi, «M., Carlo» in Il contributo italiano alla storia del Pensiero Filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana Treccani, Roma,. Angela Michelis, Il coraggio dell'impossibile, Città Nuova, Roma (Idee). Muzzioli, M., Milella, Lecce, Negri, Il lavoro e la città. Un saggio su M., Lavoro, Roma I grandi piccoli. Peluso, L'identico e i molteplici. Meditazioni M.iane, Loffredo, Napoli. Perniola, La "persuasione" tra marginalità e centralità, Eredità Cumpeta e Michelis, Udine, Forum Pieri, Il pensiero della poesia. Il Romanticismo della tragedia, Nautilus, Bologna, Pieri, "Esorcismo e ironia nella critica del primo M.", Il lettore di provincia, Pieri, "Modelli di cultura alle origini della Persuasione di M.", in «Il lettore di provincia» P. Pieri, "Il rischio dell'autoinganno (Una errata attribuzione di incisione a M.)", in «Metodi e ricerche, Pieri,"La scienza del tragico. Saggio su M., Bologna, Cappelli, Pieri, Nello sguardo della trascendenza. Intorno alla figura dell'ermafrodita e del satiro nella Persuasione", in «Intersezioni», a. X, n. 1, P. Pieri, "Due diverse ma non opposte interpretazioni de La persuasione e la retorica di M., Studi sulla modernità, F. Curi, Bologna, Clueb, Pieri, "Per una dialettica storica del silenzio. La “vergogna” del filosofo e l'autoinganno dello scrittore", in  Eredità di M., Forum, Udine, Pieri, La differenza ebraica: grecità, tradizione e ripetizione in M. e altri ebrei della modernità, nuova edizione, Pendragon, Bologna, Pieri, "M. Forme del tragico contemporaneo", Transeuropa, collana «Pronto intervento», Massa,. Piromalli, M., La Nuova Italia, P. Pulcina, M.: estetica. L'illusione della retorica, le ragioni del suicidio, Atheneum, Firenze); Pulina, L'imperfetto pessimista. Lalli, Poggibonsi (Materiali di filosofia). G. Pulina, "L'incompiuta imperfezione. 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Note alla triste istoria che viene  narrata a Abbandono della vita socratica Il Macrocosmo Il riflesso del sole La decadenza Il discepolo Proiezione della mente d’Aristotele sui modi della significazione Della composizione della Rettorica d’Aristotele La Rettorica d’Aristotele c il   Fedro di Platone Della dialettica e della rettorica IL DIALOGO DELLA SALUTE POESIE    II canto delle crisalidi. Dicembre.   Nostalgia.   Marzo.   Aprile.   Giugno .   Risveglio.   Alla sorella Paula.   Onda per onda batte sullo scoglio.   Ognuno vede quanto l’altro falla.   Aon è la patria — il comodo giaciglio.   Per ora a bordo — non è lavorare. I figli del mare. A Seni a   - Le cose ch’io vidi nel fondo del mare Da le lontano nelle notti insonni.   Ili - Non sorridente sotto il sole estivo .Dato ho la vela al vento e in mezzo all’onde   V - Se mi trovo fra gli uomini talvolta Ti son vicino e tu mi sei lontana ....   VI — Parlarti? e pria che tolta per la vita All’Isonzo.   EPISTOLARIO SCELTO   Alla Famiglia . . .   Gorizia-Venezia Venezia   Ferrara    Bologna-Firenze   Firenze   Firenze  Firenze Alla Famiglia Firenze Al Padre Firenze Alla Famiglia Firenze Firenze Alla Paula Firenze Alla Madre Firenze   Alla Famiglia Firenze   Firenze   Firenze Firenze Alla Paula.Firenze Alla Famiglia Firenze Firenze Alla Paula Firenze Alla Famiglia Firenze Firenze Firenze Firenze Firenze   Firenze Firenze   Al Padre Venezia   Alla Famiglia Firenze Firenze Firenze Al Padre Firenze Alla Paula Firenze Alla Famiglia Firenze Al Padre Firenze Grado A Chiavacci Gorizia  Firenze   Alla Famiglia Firenze  Firenze   Firenze   Alla Madre Firenze   Alla Famiglia Firenze Firenze Gorizia   A Chiavacci Gorizia   Alla Famiglia Vicenza   Firenze  Firenze Firenze  Alla Madre Firenze  Alla Paula. » rie   Firenze Alla Madre Firenze   Alla Paula Firenze   A Chiavacci Firenze Gorizia   Al Padre Firenze  Alla Famiglia. Firenze   Al Padre Firenze Alla Famiglia Firenze A Chiavacci Gorizia Gorizia Alla Madre Firenze Alla Paula Firenze Alla Famiglia Firenze  A Chiavacci. » Gorizia Gorizia   A Chiavacci Gorizia Firenze Alla Famiglia Firenze   A Mreule Bologna   Alla Paula Firenze   Alla Famiglia Firenze   A Patcrnolli Firenze   Alla Paula Firenze   A Paternolli Firenze   Alla Famiglia Firenze   Alla Paula .Firenze   Alla Famiglia Firenze   Alla Paula .Firenze   A Mreule Gorizia   A Chiavacci S. Lucia   A Mreule S. Lucia   A Marino Caliterna S. Lucia   A Mreule S. Lucia   Allo zio Giovanni Luzzatto S. Lucia   A Marino Caliterna.  igog  Gorizia   A Chiavacci Gorizia   A Paternolli .Gorizia Gorizia   A Marino Caliterna Gorizia  A Mreule A Chiavacci ....  Gorizia  Gorizia   A un amico Gorizia   A Mreule S. Valentin   Gorizia Gorizia   A Paternolli Gorizia    igio  Gorizia  III. igio  Gorizia    igio  Gorizia   igio  Gorizia   A Chiavacci Gorizia   A Paternolli Gorizia   A MreuleGorizia   Al Padre Gorizia A Paternolli Vili, igio   Pirano   Pirano Gorizia  Gorizia    A Paternolli A Emilio Alla Madre Al Sig. Gelati, Segretario dell’Ist. Studi Sup. di Firenze   SCRITTI VARI   A. APPUNTI - NOTE - CRITICHE LETTERARIE - DIALOGHI - BOZZETTI   Una messa.   Da un notes.  Da un notes.   Commento a un brano di Stirncr.   Su Wenn wir Toten erwachen di Ibsen Sull educazione del fanciullo (a proposito di una   conferenza di S. Sighele).   7 - Salvini c gli Spettri .' Più che l'amore Tolstoi.  La bora.  Nota su Ortis Poesia d’occasione.   A Benedetto Croce.   D* fuori la vita rumoreggia.    II (igog-io)   Discorso al popolo. w   16 - H&r) xéxQnai ó v/J ~ Con cert’aria eroica.   I utta la natura non è che volontà dell’Uomo   Bacio le mani ai rozzi materialisti   Voi vivete perché siete nati.  Non sei né il primo né l’ultimo »...   L’individualità illusoria.    ’ASiaipogla .   Insulta novantanovc su cento. Aiace non dice a Eurisace « tu non intendi » Quando si guasti il filo al mio coltello Conoscere è dolce a chi conosce per vivere.  La donna che ama.   Diritto di possesso.   La rct lorica crede di fornir le chiavi .Achille insensibile alle parlate.  Sicurezza di fronte al freddo  Della vanità.  L’individualità piccola vive con 1 ’insouciance   Anche le conoscenze credute speciali .... ! Huss a un contadino.  ’Evlxi](JE &iì/iòv éxdarov. Frammento sull’amore.   La ferma connessione dei tegoli  ~ Tò gwóv . La morte è detta solo in riguardo alla vita Prima forma della fine del Dialogo della salute APPUNTI PER TRATTAZIONI SISTEMATICHE Ardan va nella luna per un tratto di   spirito. La catarsi tragica. FI eoi aotpiaq xai evdaijuovlaq (In ogni punto   della vita...Aia tcov òia25 - Questione centrale. Aristotele vuol organizzare e sistemare .  Le virtù.  La dialettica.  Platone ha bisogno dello Stato (negl dtxaioadvtjq  Chi cerca il giusto.   Giusto è chi giudica sempre ogni cosa trasfe   rendosi nella necessità causale di questa. Chi è debole ha tutto lo stesso (xc.Montanara  ÒQfviii).  Il prediletto punto d appoggio della dialettica  socratica.  Premessa metodologica. .. vorrei comunicar la ribellione / all'universo. Carlo M. Carlo M. è un pensatore che disarma e, per usare un suo lemma, "coinvortica": disarma l'interprete, nel senso che lo coglie alla sprovvista, immettendolo all'interno di una teoria di riferimenti e di allusioni, così ben congegnata nel tessuto connettivo della Persuasione, da scoraggiare ogni pretesa od ogni buon proposito di "esatta" acribia filologica'. Allo stesso tempo, addentrandosi nella lettura, l'interprete non solo rinuncia alla sua perizia di glossatore, alla sua pazienza di risolutore di trame, ma si trova costretto a tralasciare ogni impegno asettico, scientifico, oggettivo di compilazione. M., infatti, impone di non essere neutrali, il suo pensiero è soprattutto, e consapevolmente, provocazione: chi lo affronta, vi si scontra, ed è chiamato direttamente in causa, ne viene ammonito innanzitutto come uomo. Questa violenza (e leggendo il nostro lavoro s'intenderà tutto il peso di questo termine usato qui), cui il Goriziano sottopone il suo lettore, e dunque anche noi, può indurre due e solo due effetti: o suscita riluttanza e irritazione, più o meno ironica, più o meno seria, oppure reclama una disperata devozione**. Comunque, non permette accomodamenti o sufficienze o imparzialità. Noi apparteniamo alla schiera dei devoti, e la nostra tesi ha in ciò molti dei suoi innumerevoli difetti, ma anche - ce lo si lasci dire - tutti i suoi pregi. Se ci è lecito, a questi ne aggiungiamo uno ulteriore, di natura metodologica, per quanto la cosa possa sorprendere, vista la particolare curvatura che prenderà la nostra impostazione: frequentando M., infatti, nelle nostre assidue riletture, ci siamo alfine persuasi che il Goriziano richiede una personalissima metodologia, ritagliata su misura, che egli stesso ci ha suggerito. M. aborre la filologia fine a se stessa, dichiara a chiare lettere che non gl'interessa, che anzi lo infastidisce, e a chiare lettere confessa piuttosto l'interesse per la viva espressione dell'intelligenza e del pensiero, per opere da cui spremere "succo vitale"?; com'egli stesso ammonisce (seppur di passaggio, in una nota), 1 Ci trova poenamente concordi la posizione del Piovani, secondo il quale «non c'è scienza storica [e dunque anche filosofica] là dove il metodo filologico, che è il metodo della storiografia, non è seguìto»: «onestà d'indagine, che è pazienza e sacrificio, attenzione di analisi, che è amore dell'altro, dicono la moralità della filologia, anzi dicono della filologia come moralità». Puntualizza il filosofo, tuttavia, che quello filologico «ovviamente, è un metodo che ogni ricercatore segue a suo modo, con maniere personali e personalissime». Questa sottolineatura ci rinfranca e c'incoraggia in questa rostra nostra difficile ermeneutica d'approccio a Carlo M., pensatore che - a nostro giudizio - richiede, forse più che altri, una scepsi filologica ed un taglio di ricerca molto peculiari, diremmo addirittura ad personam (ma cfr. nel seguito della nostra analisi). [Le citazioni da Piovani sono tratte da P. Piovani, Conoscenza storica e coscienza morale, ed. Morano, Napoli, 19722, pagg. 48-51 passim]. 2 Espressione-concetto di M.. Altre espressioni tipiche del pensatore goriziano, riscontrabili in questa Premessa, verranno asteriscate [*]. 3 Indicativo, a tal proposito, questo stralcio di una lettera al padre Alberto, scritta da Firenze il 31maggio 1908: 1 chi si avvicina al suo pensiero deve «far forza alla propria erudizione» [PR 14], perché - aggiungiamo noi - la voce della Persuasione non è apofantica e, come tale, è insofferente ad ogni approccio razionalizzato o erudito o categorizzante o puramente storiografico. M., "profeta" di Persuasione, non può essere soltanto letto, né può essere decisamente soltanto "studiato", ma semplicemente accostato, in maniera inesorabile, e condiviso o combattuto. Diventare, come lui, «povero pedone che misura coi suoi passi il terreno» [PR 4], diventare compagno di viaggio, e con lui - durante il cammino - conversare, come i discepoli amati e amanti amavano fare con Socrate. Oppure, divenire intralcio al viaggio e cercare occasioni di sosta forzata. Così, se s'intende per filologia la puntigliosa computazione del dettato, la sua scolastica e la sua patristica, la mera analisi testuale, la collazione, l'idolatria della parola e dei suoi rimandi eruditi, il gusto per la citazione affine e raffinata, allora La persuasione e la rettorica non è un'opera filologica. Se invece per filologia s'intende, com'era per Vico, il rispetto e l'amore della parola come espressione del pensiero e della sensibilità umana, come risonanza intellettuale ma soprattutto morale, come pretesto per far filosofia "civile", allora essa è anche un'opera filologica. Parimenti, se s'intende per ricerca la compilazione archivistica, l'interesse esclusivo per l'inedito, la serietà sterile e compassata di chi affronta un'opera coi ferri del mestiere, tacendo la propria umanità in favore dell'esattezza scientifica, allora la tesi di laurea del Goriziano non è una tesi di ricerca. Se invece per ricerca s'intende l'ascolto della voce interiore, lo scandaglio dell'umano, l'elezione degli autori che si leggono come istigazione dirompente a rimeditare la propria contemporaneità e la propria condizione, se insomma è ricerca di se stessi attraverso il testo che ci è di fronte, laddove la voce dell'autore, seppur muta nel foglio, ci parla nel profondo prendendo a prestito le nostre parole, allora il suo lavoro è anche ricerca, e ricerca sofferta. Se infine s'intende per critica l'individuazione e la risoluzione di problemi testuali fini a se stessi, la ricognizione delle contraddizioni dell'autore, la destrutturazione e la ricomposizione dell'opera al fine di svelarne soltanto i punti deboli o quelli forti, nel raffronto con la tradizione, ancora una volta l'opera di M. non è critica; lo è invece se la critica è un'operazione di pensiero, che non chiama in causa il concetto, ma il giudizio, se porta ad un punto di discernimento e di crisi il pensiero di entrambi (dell'interprete e dell'autore), laddove la crisi segna non soltanto il vacillare delle «lo in queste 2 settimane ho lavorato. La prima settimana in casa, la seconda in biblioteca dove stavo dalle 8 alla una o le 2 a far lo 'studioso' [virgolettato ironico di M.] a uso e consumo dei forestieri che venivano a visitare la meravigliosa sala della Laurenziana. Il semplice studio d'analisi d'una traduzione di Brunetto Latini d'un'orazione di Cicerone m'impigliò nella questione del testo che Br. Latini poteva aver avuto sott'occhio; dovetti occuparmi della storia dei manoscritti di Cicerone, ed esaminare quanti ho potuto trovare qui anteriori a Br. Lat. per confrontarli colla sua trad.[uzione]. Poi studiai pure i manoscritti fiorentini della traduzione per correggere in parte l'edizione. Non sono lavori fatti per L'unica cosa che mi interessò sono le osservazioni che ho potuto fare sull'eloquenza e sulla "persuasione" in genere». [E 320-321] convinzioni e delle convenzioni, ma anche un elemento di svolta, un nuovo inizio di sensibilità e di riflessione. Queste distinzioni non cavillose ma sostanziali, che abbiamo addotto per render ragione dell'atipicità del lavoro accademico di Carlo M., possono comodamente adottarsi anche per ciò che riguarda il nostro lavoro accademico, il cui intento, o pretesa, non è far la pantomima o la fotocopia di quello: in M., abbiamo trovato confermati convincimenti che, da sempre, sono stati radicati in noi. In realtà, il Goriziano è un autore che - data la stratificazione complessa del suo dettato e l'estrema eterogeneità dei suoi referenti speculativi e letterari - si presta volentieri anche ad accostamenti arditi e più o meno raffinati: la fantasia dell'interprete corre a briglia sciolta e viene incoraggiata nel far aderire M. ad una propria, personalissima Weltanschauung. Quasi sempre, il risultato che se ne ricava è quello di un sostanziale tradimento della parola genuina del Goriziano, che diventa il viatico - e spesso, il "megafono" - di convinzioni e "persuasioni" esistenziali, speculative e politiche che in realtà, nella maggior parte dei casi, appartengono esclusivamente all'interprete: basti pensare (e speriamo che questi esempi-limite esauriscano la portata della questione) a come il nome di M. ricorra, e sempre con pretesto corroborante alle proprie posizioni, in opere tanto diverse quali possono essere quelle di un Massimo Cacciari (dove il Goriziano diventa un'ulteriore epifania della Krisis), di un Aldo Capitini (laddove la Persuasione diviene religiosità autentica e umana) e addirittura di un Julius Evola (dove M. vien chiamato a testimonianza del valore metafisico della "purità")‘. Il nostro accostamento, dunque, è stato progressivo, talora blando, talora, e più spesso, esasperato: come dire, volentieri il gioco ci ha preso la mano e, rileggendo quanto abbiamo scritto su M., ci accorgiamo d'aver spesso confuso, anche noi, la nostra prospettiva con la sua, o meglio, d'aver reso trasparente la nostra "persuasione" attraverso la sua, utilizzando anche noi il suo dettato come viatico di una ricerca ed urgenza esistenziale che, in primo luogo, ci appartiene. Un qualcosa di analogo accadde del resto anche al Goriziano, tal che la sua tesi, nata come uno studio scientifico sui concetti di persuasione e retorica in Platone ed Aristotele (il cui nucleo originario si conserva nella sezione "maledetta", come qualcuno l'ha definita, delle Appendici critiche), si tradusse ben presto in un'apologia della Persuasione. La sua tesi scientifica si era risolta in una ipotesi esistenziale, e M. non ebbe scrupoli a ritenerla "ufficiale", a "sottoporla in commissione di laurea", perché se è vero che una tesi di laurea è 4 Per una motivazione che non ci vergogniamo di confessare esclusivamente politica (una salutare posizione antidemocratica, una tantum), abbiamo ignorato del tutto l'odiosa interpretazione evoliana; quella di Cacciari la abbiamo assorbita nel corso della nostra trattazione, senza palesarla più di tanto; riguardo a Capitini, invece, cui va tutta la nostra simpatia, ci riserveremo di approfondirla nelle nostre Conclusioni. un'opera di ricerca, è altrettanto vero che la vera ricerca è quella umana, socratica, soprattutto se poi - e qui facciamo riferimento alla nostra - è una tesi di filosofia morale. Nel suo scritto accademico, M. si disincagliò dalla "scientificità", per porsi in diretta sintonia con la voce della Persuasione. Ma non fu assunzione di sregolatezza o di a-criticismo, frutto esclusivo di un'operazione di gusto o di genio; bensì, semplicemente, l'escussione di una strategia ermeneutica altra (ogni strategia di scrittura comporta, del resto, una specifica strategia di lettura), una tecnica d'interpretazione dialogica che collabora col testo e che trova nel divino Platone * il suo teorico più convinto ed esemplare: leggere non glossando, ma filosofando, e intender la filosofia non (soltanto) come scienza del pensiero, ma come sapere a vantaggio dell'uomo’ [cfr. Eutidemo, 288e - 290d], e quindi etica e politica: pensiero che si svolge tra, e non sugli, uomini, con le parole degli uomini, anche se il suo linguaggio è talora più suggestivo che rigoroso. In tal senso, assumendo in pieno anche noi questo profilo euristico, abbiamo tentato un "romanzo storico-filosofico" della persuasione in M. e abbiamo accompagnato l'autore nella ricostruzione eccentrica, ma fedelissima (fedele alla sua eccentricità), del suo pensiero. Proprio a questa oculata scelta metodologica rispondono sia l'andamento narrativo della nostra esposizione, e qualche confidenza che ci siam presi durante il suo corso, sia l'accostamento del pensiero del Goriziano a pensieri "alternativi" (il Buddismo, ad esempio), laddove l'accostamento non è arbitrario, ma confortato da effettivi riscontri biografici e testuali; sia le forzature cui sottoponiamo i testi dell'antichità classica filosofica e tragica (forzature, ancora, non nostre, ma dello stesso M., filologo "patologicamente" originale: ci siamo limitati a seguirlo e, in certi punti, ad assecondarlo), sia infine il privilegiare testi ed autori in apparenza estranei alla storiografia filosofica "ufficiale" (Ibsen e Tolstoj, sopra tutti), solo perché è quasi esclusivamente su tali testi ed autori che si innesta e si forgia l'immaginario persuaso di M.. Di contro, abbiamo adottato anche noi un opportuno (o per noi tale) armamentario euristico per avvicinare il Goriziano. Innanzitutto, l'orizzonte - morale, ma appunto anche euristico - entro il quale si muove la nostra tesi è quello delineato dalla ragion pratica kantiana, non solo qui assunta come la prospettiva etica, per noi, più alta mai raggiunta dal pensiero in assoluto, ma anche - nell'economia del nostro discorso - come valido modello per indagare e segnare "i limiti e le possibilità" della condizione persuasa in M.. Il punto più importante di contatto tra il cosiddetto imperativo iperbolico del goriziano e l'imperativo categorico kantiano è da riscontrarsi, a nostro avviso, nella forte esigenza - 5 Definizione, questa, tra l'altro cara ad uno dei nostri maestri putativi, Nicola Abbagnano. 6 In questo, è possibile accostarlo al Nietzsche de La nascita della tragedia e de La filosofia nell'età tragica dei greci. necessaria, ma non sufficiente - di autonomia, che le suddette posizioni presuppongono: il regno della Rettorica viene, di contro, a palesarsi per antonomasia come regno della eteronomia, in tutte le manifestazioni, dalle più subliminali alle più sublimi, dalla sua componente prima e fisiologica (la deficienza *) alla sua realizzazione più completa (la tecnica politica e panoptica del corpo, tanto per esprimerci con una fraseologia foucaultiana). Alla luce di quanto detto, cercheremo di assimilare il vir” persuaso alla volontà santa, così come descritta da Kant. Quando, invece, la nostra analisi s'appunterà nella de-costruzione del dispositivo rettorico, ci avvarremo proprio dell'aiuto di quella lezione di "smascheramento" retorico (lezione profonda e pervicace, intelligente ed irriverente), ch'è il grande lascito di Foucault, inteso da noi come apice della cosiddetta "scuola del sospetto". La difficoltà del concetto di Persuasione, difficoltà quindi prima di concettualizzazione che di realizzazione, acquisterà - a nostro giudizio - nuova chiarezza e nuovo valore in questo tentativo di approccio critico che, a quanto ci consta, appare inedito nelle letteratura critica sul Goriziano. Gli ulteriori elementi sinergici, di cui si terrà conto, sono quegli stessi retaggi esistenziali che M. rielabora ed "attualizza", ritenendoli egli stesso le cifre più essenziali di una vita sana*, ovvero il messaggio e la simbologia cristologica e (nella sua variante laica, se ci è permesso di esprimerci così) il messaggio e la simbologia socratica. Secondo un taglio, invece, chiaroscurale, si evidenzieranno distanze/vicinanze con i mostri sacri della Rettorica, ovvero Hegel e ancor più Aristotele. A tal proposito, si utilizzerà l'opera dello Stagirita - paradossalmente? - come una delle chiavi più adatte per penetrare l'assunto M.iano, e da essa si ricaverà la formula euristica di entelechia etica per designare appunto l'atto autentico della Persuasione. Persuasione che acquisterà, per quanto possibile, contorni ancor più definiti nel confronto con la fede (si tenterà una correlazione tra il Persuaso e il "cavaliere della fede", figura kierkegaardiana), tal che, ancora una volta, la Persuasione apparirà coi crismi di una esperienza e di un esercizio l'è vero religioso, ma di una religiosità "laica", che si slaccia dall'eteronomia del rapporto con Dio, per vestirsi di una propria spiritualità umana tutta particolare, democratica e libertaria, ovvero fondatrice di democrazia e di libertà (in questo contesto si accennerà all'opera di Aldo Capitini, che proprio in tal senso intese il monito M.iano). Insomma, l'approccio che tenteremo al "concetto" di Persuasione mirerà anzitutto a far terra bruciata intorno ad esso: giocoforza, l'avvio a tale approccio verrà inaugurato in 7 Utilizzeremo, d'ora in poi, con preferenza questa dizione per indicare l' "essere persuaso", sia per evidenti ragioni di brevità, sia innanzitutto a ragione della forte valenza semantica- morale-storica che i latini assegnavano a questo termine [cfr. almeno C. Nepote, De viris illustribus]; vi contrapporremo homo per designare l' "uomo della Rettorica" legato alla terra [homo > humus]; e soprattutto dominus, colui che detiene i fili del potere all'interno della "comunella dei malvagi" [per il significato di quest'ultima espressione, cfr. il prosieguo del nostro lavoro]. media re, ovvero con riferimenti diretti agli scritti ultimi del giovane filosofo goriziano e con iniziale preferenza per le lettere e le poesie, rispetto alla stessa tesi di laurea, ch'è il suo lavoro più conosciuto: ciò nella convinzione, nostra personale, che in quelli il concetto di Persuasione abbia acquistato una dimensione, come dire, più consapevole e vitale, urbanizzata e "politica" (insisteremo su questo punto), quanto mai avesse nello scritto accademico, laddove ogni definizione a riguardo - soprattutto nelle prime battute - si risolve volentieri in forme ermetiche e tautologiche, talora francamente impenetrabili. Il tutto, nel tentativo - che è paritempo pretesa - (autocitandoci) «di individuare il nocciolo etico di quel suo [di M.] stesso pensiero, e di finalizzario ad una sana eudemonia (quella che il Goriziano assimila alla vera 'salute') a vantaggio del nostro tempo, cercando d'intravedere - non potendone visualizzarne in modo corretto e 'coerente' la consistenza e la realtà - la possibilità di quel porto di pace *, da lui stesso vagheggiato», convinti che «la cifra autentica del suo pensiero sia riposta in un'esigenza davvero semplice e umana: la ricerca, ch'è l'esigenza appunto, della felicità possibile per l'uomo». In questa ricerca e in questa esigenza convergono significativamente, per l'appunto, anche la prospettiva socratica, quella cristiana e - non ultima - quella kantiana: e su una cattiva (in senso proprio e lato) deflessione di tale ricerca e di tale esigenza si è fondato, e si fonda tuttora, il mondo della Rettorica. Postille metodologiche. a) Nella stesura del nostro lavoro, abbiamo preferito riprodurre la falsariga M.iana: strutturare il discorso sulla Persuasione e sulla Rettorica in due grandi blocchi, "monotematici", opportunamente articolati in paragrafi atti a focalizzare i singoli progressi dell'analisi. Ovviamente, i due capitoli non conducono esistenza autonoma, ma presuppongono una serie indefinita di rimandi reciproci, evidenziati - nel nostro caso - dall'Intermezzo (ma non solo), ponte di passaggio dall'uno all'altro e frapposto ad essi. b) Sempre seguendo suggestioni M.iane, accordiamo grande valore alle epigrafi: queste abbonderanno in riferimento a paragrafi di estrema importanza e complessità. L'epigrafe, infatti, per M. riassume, e in certo modo "scolpisce", il senso e la prospettiva di un discorso, e, allo stesso tempo, lo arricchiscono di sottointesi atti a favorire una "complicità etico-ermeneutica" tra lo scrittore e il lettore. c) Durante il nostro lavoro, indicheremo generalmente (ovvero, a meno che non si avverta il bisogno di approfondire l'appunto) con le seguenti sigle i testi di M. più citati, facendole seguire dal numero delle pagine cui le citazioni fanno riferimento, e apponendo il tutto, in parentesi quadre, a fianco del brano citato: 8 Paradossalmene, perché M. individua proprio in Aristotele il suo nemico dichiarato [cfr. oltre]. - Opere, a cura di G. Chiavacci, Firenze, Sansoni. 1958: 0; - La persuasione e la rettorica, con Appendici critiche, a cura di S. Campailla, Milano, Adelphi, 1995: PR; - Epistolario, a cura di S. Campailla, Milano, Adelphi, 1983: E; - Poesie, a cura di S. Campailla, Milano, Piccola Biblioteca Adelphi, 19945: PP; - Il dialogo della salute e altri dialoghi, a cura di S. Campailla, Milano, Piccola Biblioteca Adelphi, 19952: D. Quest'espediente ha una doppia utilità metodologica: 1) evitare un continuo e fastidioso affastellarsi di note e di rimandi spiccioli a pie' di pagina, elemento di distrazione durante la lettura; 2) (e più importante) mostrare la ferrata logica di rimandi e di allusioni che informa tutta l'opera di Carlo M., secondo l'intima consapevolezza, che è propria al filosofo goriziano, del fatto che ciò che si sta comunicando è in fondo un unico, anche se articolato, pensiero [cfr. nota 161]. d) Trascriveremo, con spaziatura e formattazione di paragrafo e carattere diversi da quelli comunemente assunti dalla nostra scrittura, periodi o espressioni di M. o di altri autori, o che comunque non ci appartengono. e) Riguardo espressioni e citazioni in greco, fatta eccezione per talune ricorrenti nel dettato di M., si preferirà la translitterazione latina (ad es. gui --- philia); le citazioni, tratte da filosofi o scrittori non italiani, in linea generale si riporteranno direttamente in traduzione. f) Infine, invitiamo - si licet - a non trascurare, durante la lettura, le note a pie' di pagina, alcune particolarmente strutturate e complesse: molte note, infatti, rappresentano vere e proprie "appendici critiche" al paragrafo in questione, e articolano un discorso tangenziale e approfondito di taluni aspetti del pensiero M.iano che, di non minore importanza, tuttavia avrebbero appesantito, in prolissità, il corpus del paragrafo stesso. Capitolo | La persuasione more geometrico demonstrata. Persuadere: 1 - indurre qlc. in una convinzione o spingerlo a compiere determinate azioni; 2 - ottenere approvazione, ispirare fiducia. Definizioni (rettoriche) del dizionario Garzanti [...] guardar in faccia la morte e sopportar con gli occhi aperti l'oscurità e scender nell'abisso della propria insufficienza: venir a ferri corti colla propria vita. "Definizione" di M., nel Dialogo. 1. Introduzione metabiografica. Mi pardi non aver voce, così m'opprime questo triste incubo d'inerzia faticosa dal quale non ho saputo ancora riscuotermi. Quella voce che viene dalla libera vita, quella m'era necessaria per fare il mio lavoro come io lo volevo; m'ero illuso di poterla avere: e mi son trovato invece a desiderar solo di non parlare, a non aver nessun interesse per ciò che pur m'ero proposto di dire quasi con entusiasmo. E d'altronde finir la tesi era la necessità per me per uscir da questo abbominio, almeno per poter sperar d'uscirne, per aver almeno una via. Ma scrivere senza convinzione parole vuote tanto per poter presentar carta scritta, questo ancora m'era impossibile... E in questo triste giro mi son dibattuto questi mesi malato nell'anima e impigrito nel corpo, a volte giungendo a raccogliermi e a riaver in me vive e concrete le cose che altrimenti mi danno solo un tormento oscuro; altre volte e per lo più vinto dall'inerzia disperdendo le mie forze in questo e in quello che sembrava distrarmi dalla noia e tanto più fortemente mi stringeva nella brutta necessità [E 440-441], Queste parole - scritte da M. all'amico Enrico Mreule, quasi ad un anno dalla partenza di quello per l'Argentina - rappresentano, nella loro disperata sincerità, come un'epitome esistenziale dell'impasse (almeno per poter sperar d'uscime, per aver almeno una via...) in cui grava il nostro giovane autore, a pochi giorni oramai dalla sua morte. L'onere della tesi di laurea, questo «mostro informe qui crescit eundo et quod crescit non it» [E 417], viene affrontato in ultimo con la pedanteria (anzi, ci vien d'usare un ossimoro: con la dotta sciatteria°) di chi è già consapevole dell'inutilità, travestita da illusione, di poter fare «con le parole guerra alle parole» [PR 134]'°; di chi - forte di questa consapevolezza - si presta tuttavia al gioco della Rettorica, fatto di scadenze e note filologiche (fumo negli occhi per un "messaggio" che tanto i professori non capiranno, ironizza altrove M.)'', di vita consegnata alla carta, e per questo non più vita. Una consapevolezza, infine, affidata in forma definitiva e paritempo programmatica alla famosa prefazione all'opera maggiore: «o lo so che parlo perché parlo, ma che non persuaderò 9 «L'interesse d'aver fatta una cosa non è l'interesse di farla» [E 441]. 10 Tratto dall'epigrafe alle Appendici critiche. 11 «Il mio lavoro procede a lenti passi, anzi non c'è un progresso materialmente sensibile. Ma non me ne impensierisco, perché ormai è questione di tempo e difficoltà grosse non ne troverò più. - Tanto poi per quei professori è tutto buono; per loro è come arabo, non hanno vie e criteri per dire se va bene o male; tutt'al più potrebbero rifiutarlo e perciò è stato prudente aspettare fino a Ottobre, che così potrò buttar loro negli occhi tutta la polvere necessaria e che andrò raccogliendo in questo tempo. -» [E 392]. Antimo Negri, giustamente, fa notare che «solo le Appendici, del resto esse stesse non fino in fondo, sembrano, vertendo su autori classici, soprattutto Platone e Aristotele, obbedire alle regole del gioco dello "studio scientifico" accademico» [A. Negri, Il Lavoro e la città, Roma, Ed. Lavoro, 1996, pag. 45]. In un notevole passo della sua tesi, M. destruttura i "meccanismi di potere" sottesi alla dinamica succitata: «"[...]Tu devi far uno studio su Platone o sul vangelo" gli [al giovane studioso] diranno "è perché cosi ti fai un nome, ma guardati bene dall'agire secondo il vangelo. Devi esser oggettivo, guardare da chi Cristo ha preso quelle parole o se omnino Cristo le abbia dette e se non meglio le abbiano prese gli Evangelisti o dagli Arabi o dagli Ebrei o dagli Eschimesi, chi lo sa... Naturalmente parole che valevano in riguardo all'epoca, adesso la scienza sa come stanno le cose, e tu non te ne devi incaricare. Quando tu hai messo insieme il tuo libro sul vangelo - allora puoi andar a giuocare". [...] Così si conforta il giovane a perseguire nel suo studio scientifico senza che si chieda che senso abbia, dicendogli: "tu cooperi all'immortale edificio della futura armonia delle scienze e sarà un po' anche merito tuo se gli uomini quando saranno grandi, un giorno sapranno "». [PR 131; corsivi di M.]. Abbiamo preferito anticipare già qui espressioni- conclusioni del Goriziano, al fine di proiettare da subito chi legge nel vivo della polemica M.iana. nessuno: e questa è disonestà - ma la retorica "mi costringe a forza a far ciò"? - o in altre parole "è pur necessario che se uno ha addentato una perfida sorba la risputi"» [PR 3]. Una citazione, questa, che è a la page, tra coloro che affrontano il filosofo goriziano, anche se talora mal intesa o superficialmente valutata. Tuttavia, a ben vedere, è già qui che si delinea, si dibatte, e implode, il problema (l'aenigma) della persuasione e della rettorica. Ed è questa (ci si perdoni quest'ulteriore incursione metodologica), anche, una delle peculiarità che caratterizza il nostro M.: ovvero, il fatto che da qualunque prospettiva si prenda la sua opera, qualunque suo scritto si abbia sottomano, ci si trova già subito e prepotentemente proiettati nel cuore dello scontro millennario, umano e storico, tra persuasione e retorica appunto. E' altresì anticipato, in forma lata ma altrettanto perentoria, un assunto che informa e struttura e, in un certo modo, pregiudica ogni assoluto tentativo di discorso su "che cosa sia" la Persuasione: la Persuasione è dopo tutto l'indicibile, l'impensabile: una "condizione" senza pensiero, che non possiamo visualizzare e nemmeno interpretare concettualmente, né tantomeno comunicare, secondo le leggi della logica della cosiddetta "ragione occidentale". Ogni "parola sulla", ogni "pensiero sulla" Persuasione, già solo per essere concepito, deve prima essere elaborato, sottoposto ad artificio, manipolato, interpretato, per separarlo dalla sua primigenia e consustanziale assurdità: ogni pensiero sulla Persuasione si profilerebbe, così, già di per se stesso come Rettorica. Appare chiaro, inoltre, ma non è male ribadirlo da subito, che il progetto originario - di trattare, nella sua tesi di laurea, | concetti di persuasione e rettorica in Platone ed Aristotele - si allarga e sviluppa, inevitabilmente per M., nella considerazione dell'intera vita umana, culturale e sociale. Non solo. In effetti, l'applicazione di questi due principi o categorie (per ora definiamoli in questo modo) investe una dimensione ancora più ampia, assurgendo a cifra dell'intero esistente. Ovvero, tutto il mondo, inteso sia come "totalità dei fatti" (tutto ciò che accade) sia come "totalità delle cose" (tanto per parafrasare Wittgenstein), risulta permeato, intriso, e quindi - dalla prospettiva del Nostro - rimeditato alla luce di questi due principi. Questo è un punto nodale. La persuasione e la rettorica, nell'accezione del giovane filosofo, subiscono così non soltanto uno slittamento concettuale rispetto alla concezione che di questi due principi, che di queste due parole, il "senso comune" ha. La rettorica - ad esempio - non è più un'ars, una téchne, con una sua patente di nascita, storicamente contestualizzata e con un'applicazione "pratica": ovvero, non è larte del parlare e dello scrivere in modo da convincere, o persuadere” un uditorio, non è una professione di eloquenza e non denota 12 in greco nel testo 13 E' interessante come la denotazione povera di questi due termini s'incontri in questa definizione, tratta dal dizionario Garzanti, quasi a testimoniarne un significativo appiattimento. altresì, per estensione, un atteggiamento o comportamento che mira solo all'effetto esteriore e non è determinato da un'autentica esigenza spirituale (la retorica del bel gesto, ad esempio). Tutti questi aspetti non sono altro che i "modi" e gli "attributi" in cui si manifesta la Rettorica originaria: ne sono la mera fenomenologia, e anche la più povera. Le parole-chiavi di questo pensiero, dunque, sono da M. essenzialmente intese «in un senso diverso da quello corrente, che rivela influenze ebraiche, greche e proto-cristiane. Come osserva Mario Perniola, persuadere si dice in greco peitho, e l'uso transitivo del verbo, persuadere qualcuno, non appartiene al greco arcaico ma ne rappresenta una successiva trasformazione. Dunque la prima accezione di persuasione era essere persuasi, aver fiducia. Anche nella Bibbia dei Settanta [...] la radice greca peith- traduce la radice ebraica bth-, usata nei libri sapienziali dell'Antico Testamento per indicare la disposizione d'animo del giusto: la fiducia. Mentre la fede, pistis, nel Nuovo Testamento implica il rinvio al futuro, l'attesa di una salvezza a venire, la fiducia-persuasione è, nell'Antico, qualcosa di presente, un possesso attuale. Il senso della persuasione M.iana è molto simile»'*, come avremo modo di approfondire. Giusticato appare, dunque, il nostro confessato imbarazzo nell'approntare la presente tesi, e ci figuriamo l'espressione ironica di M., se potesse leggere le nostre pagine, e le altrui, sulla sua opera e sul suo pensiero. Ma ancora una volta, la rettorica ci spinge a far ciò: un dispositivo machiavellico così diabolicamente ben congegnato da riuscire a rendere la voce della verità la propria pubblicità, ammantandola casomai di simbolismo o conferendole una sistemazione ch'essa, invece, disdegna; e da riuscire a rendere, altresì, i contestatori del sistema i propri martiri, o - alla men peggio - «naturalisti inesperti», o meri facitori di bei versi, di bei drammi e di belle musiche. E M. stesso un nichilista, un mistico, un cristiano devoto, un ebreo autentico, un filosofo mancato, soltanto uno scrittore, una promessa non mantenuta, un teorico dell'arte, un teorizzatore del dominio, un filosofo del linguaggio, un imperfetto pessimista, un filosofo col martello, un pensatore morale, un precursore dell'esistenzialismo, un povero anonimo giovane goriziano suicida, l'ultimo allievo di Socrate, uno spirito della vigilia; e l'elenco, credeteci, potrebbe stendersi all'infinito, perché infiniti sono gli uomini ed, ergo, infiniti sono i modi di porsi della rettorica. Il che vale a dire che il "sistema" (ed è questo il suo raffinamento, come vedremo) è divenuto capace di tollerare, al proprio interno, riassorbendole, anche le contraddizioni e le contestazioni più sottili e acute, apparendo per molti aspetti davvero come un Moloch o un Leviatano invincibile. 14 Cfr. Michelis Angela, Carlo M.: il coraggio dell'impossibile, Roma, ed. Città Nuova, 1997, pagg. 124-125 [la stessa autrice rimanda a M. Perniola, La conquista del presente, in Mondo Operaio, n. 4, aprile 1987, pagg. 108-109]. Questa che ci accingiamo a scrivere, tuttavia, non vuole essere una riflessione su M. e sulla sua opera e il suo tempo, non pretende cioè di coltivare (soltanto) una critica filologica e filosofica del suo pensiero. La sua pretesa è addirittura più grande: ovvero, quella di individuare il nocciolo etico di quel suo stesso pensiero, e di finalizzarlo ad una sana eudemonia (quella che il Goriziano assimila alla vera «salute») a vantaggio del nostro tempo, cercando d'intravedere - non potendone visualizzarne in modo corretto e "coerente" la consistenza e la realtà - la possibilità di quel «porto di pace», da lui stesso vagheggiato. Per quanto possa sembrare riduttivo, soprattutto in confronto alle vertiginose elucubrazioni che si sono tessute intorno all'opera del nostro giovane autore, siamo infatti convinti che il tratto autentico del suo pensiero sia riposto in un'esigenza davvero semplice e umana (esigenza che non è soltanto letteraria o speculativa, ma che nasce soprattutto da un'amara esperienza di vita, così com'è esperita da un giovane intelligente e molto, molto sensibile): la ricerca, ch'è insieme l'esigenza, di una felicità possibile per l'uomo. «Gli uomini non sono infelici perché muoiono; muoiono perché sono infelici», afferma Michelstaeater, e questa antimetabole non vuol essere una frase ad effetto giocata sul capovolgimento di un luogo comune, bensì in essa è compendiata la grande utopia etica (ma quanto utopica, poi?) che il Nostro ci propone. M., redivivo Socrate, si assume un difficile compito esistenziale prima che speculativo (condividendolo col suo "maestro" e con tutta la temperie greca), e lo affronta con tutta l'esuberanza e la fiducia della sua giovane età, esuberanza e fiducia temprate tuttavia dal rigore della sua mente eletta: quel compito è insegnare agli uomini ad essere veramente felici. Glissando per ora considerazioni che approfondiremo durante tutto il nostro discorso, possiamo anticipare già qui, dunque, la pregnanza socratica ed, insieme, evangelica (nonché, aggiungiamo noi, kantiana) di suddetta utopia. Detto in parole molto semplici: se l'infelicità è frutto di "ignoranza esistenziale" (come c'insegna Socrate, appunto, e - in certo modo - tutta la schiera di Persuasi che M. annovera nella prefazione alla sua tesi), ebbene bisogna fugare le tenebre di questa ignoranza (ovvero, di questa rettorica), bisogna «uscir della tranquilla e serena minore età» [PR 131]'°, ed indagarla secondo una prospettiva "archeologica" - ovvero, "eziologica" - che la conduca appunto allo scoperto. M. scoprirà (come già notava a suo tempo il Piovani’) le radici di 15 Sono le parole con le quali, significativamente, si conclude la tesi di laurea. Ma cfr. il seguito del nostro lavoro. 16 Piovani Pietro, M.: filosofia e persuasione, un inedito di P. Piovani a cura di Fulvio Tessitore, Nuova Anologia, fasc. 2141, vol. 548°, gennaio- marzo 1982, p. 214. Piovani, innanzitutto, ci avverte che «(...) occorre molta prudenza critica nell'avvicinarsi a M. con la piena fiducia che il suo discorso abbia una tratteggiata autonomia di linee ricostruibili al di là del loro frammentarismo sostanziale."; quindi, poco dopo, quasi a proporci un possibile approccio metdologicamente corretto: "A tal fine giova, secondo noi, individuare come determinante il tema della deficienza». quella Rettorica nella stessa struttura - fisiologica, prima che ontologica - dell'uomo, penalizzato da quel «deficere» ch'è l'alfa e l'omega di ogni sofferenza, di ogni illusoria(«lusinghiera», «adulatrice») soddisfazione, e - insieme - di ogni possibilità di riscattoautentico. Quella "deficienza" che la critica, unanimemente, ascrive ad un retaggio schopenhaueriano del nostro autore, e che noi, invece, preferiamo assimilare al concetto di privazione (steresis), contenuto nella Fisica di Aristotele. Il che non vuol essere un cavillo ermeneutico, ma vuol rendere chiara - da subito, senza indugi - quella ch'è la nostra prospettiva di approccio a M.: siamo convinti, infatti, che l'aenigma della Persuasione (e di tutte le ardue, tautologiche "definizioni" che ad essa il Goriziano associa) si risolva in quella che potremo chiamare, con una formula che diamo già qui per definitiva, entelechia etica, laddove per entelechia intendiamo proprio ciò che intendeva lo Stagirita'”, ovvero l'atto finale o perfetto, cioè la compiuta realizzazione di una potenza. Ebbene, a nostro parere, il dilemma Persuasione-Rettorica si gioca appunto sul trinomio privazione-potenza-atto (e ci sentiamo autorizzati a ciò da alcune "tracce" che M. stesso lascia nei suoi scritti), tale che la Persuasione si evincerà come la piena, perfetta attuazione, realizzazione dell'uomo, secondo la sua (vera) natura. Si converrà che una tale impostazione ribalta, in modo deciso, ogni evenienza critica - per quanto legittima, perché giustificata, in un certo senso, da talune affermazioni "forti" dello stesso Goriziano - circa l'impossibilità (per l'uomo) della Persuasione. In effetti, proprio M., se non nell'opera maggiore, soprattutto nell'Epistolario e nelle Poesie? sconfessa - e ci sentiamo di dire che lo fa con una certa gioia che sa di liberazione - quella presunta impossibilità della Persuasione, individuando nell'amico Mreule l'acme, cronologico ed etico, della Persuasione realizzata: l'atto di coraggio del compagno Enrico dimostrò al giovane filosofo (e dimostra a noi) che la Persuasione non ha soltanto una sua storia (né tantomeno soltanto una sua storia letteraria e filosofica), ma anche una sua attualità viva e concreta, che ci può essere accanto e ci può guidare '°, pur nella consapevolezza che una cosa è conoscere la «via della Persuasione», altra cosa è avere la forza e il coraggio di imboccarla. Volendo, il dramma del suicidio del giovane goriziano si consuma tutto qui (ma lungi da noi ogni riduzionismo e ogni retorica a tal proposito). 17 Cfr. almeno Metafisica, IX, 8, 1050a 23. 18 Nel confronto (soprattutto) con le ultime lettere e poesie (intendiamo quelle del 1909-1910), ci azzardiamo a considerare la tesi di laurea già "datata", per quanto concerne la dimensione persuasa dell'uomo; o quantomeno, a considerare le suddette lettere e poesie l' "urbanizzazione" più completa e più efficace del messaggio della Persuasione stessa. Ragion per cui, ad esse va tutta la nostra predilezione. 19 Sul valore e sul senso di questa "guida" della Persuasione - che non ne pregiudica l'assunto autonomo, cioè di esperienza che si realizza nello spazio di autonoma sacralità di ogni uomo - si articola un difficile e intricato equilibrio (tra autonomia ed eteronomia), sullo "scioglimento" del quale s'impernia tutto il nostro lavoro. Già da quanto detto finora, appare chiaro che M. si presenta subito come un autore "difficile": questa sua difficoltà deriva non solo (com'è ovvio) dal carattere decisamente e consapevolmente anti-sistematico, se non ermetico, del suo linguaggio e del suo "messaggio"? - per quanto quello stesso messaggio contenga una sua certa "banalità" (la "banalità del bene", per alcuni sintomo di "pensiero adolescenziale" [sic]) paradossalmente non accolta, inascoltata™ o, peggio, mal interpretata; non deriva soltanto dalla vastità (davvero impressionante, per un giovane) dei suoi referenti culturali; né soltanto dalla "irritabilità" cui può indurre chiunque ad esso si avvicini (un'irritabilità che egli condivide appieno con la torpedine-Socrate); bensì essa deriva, forse soprattutto, dalla collocazione "liminare" della vita stessa e dello stesso pensiero del Goriziano: storicamente sospeso in un'età per definizione di transizione e di decadenza (quella tra Ottocento e Novecento), con tutte le inquietudini "millennaristiche" annesse e connesse, ampiamente testimoniate, del resto, dalla cultura coeva’; geograficamente (e dunque culturalmente, linguisticamente...) oscillante tra Austria e Italia (e non solo; non si approfondirà mai abbastanza l'impronta mitteleuropea di questo autore”), situazione - questa - complicata, e di molto, dall'appartenenza ebraica dell'autore stesso (altro nodo abissale); attratto e disperso in una molteplicità passionale di ispirazioni (il teatro, la musica, la letteratura, la poesia, la pittura), sia per quanto concerne le "fonti", sia per quanto concerne le sue stesse realizzazioni; calato in una Weltanschauung tragica - filosofica e religiosa - di amplissimo respiro storico-geografico, di cui si propone originalmente e appassionatamente di riannodare le fila; dibattuto tra un lacerante bisogno di indipendenza (non solo "culturale" e affettiva, ma anche economica) e un altrettanto forte bisogno di rifugio nell'alcova della sua Gorizia e della sua famiglia. 20 Riguardo a ciò, solo per la chiarezza con cui è svolta l'argomentazione, riportiamo l'equilibrata valutazione di G. Cavallero, nella prefazione alla sua tesi di laurea, valutazione praticamente condivisa da tutta la critica: «Alla filosofia del M. (caso singolare nella storia dei pensiero) va riconosciuta subito una dote rara: quella di non porsi mai come tale, almeno nel significato ormai consacrato del termine. Di diritto essa rientra piuttosto nella storia della cultura che, non propriamente, in quella della filosofia o della letteratura occidentale. La sua peculiare forma espressiva è strutturata in un originale amalgama linguistico, da cui affiorano, armonizzati su di un antico ritmo greco, stilemi biblicoplatonici, modi di prosare "vociano" oltre, naturalmente, ad una congerie varia di altri influssi - tra i più disparati - della cultura contemporanea. Questo complesso problema linguistico, lasciato tuttora irrisolto dai numerosi critici del M. ad oltre sessant'anni [la tesi di Cavallero è del 1972] dalla morte, ha così indirettamente favorito le più arbitrarie interpretazioni della Persuasione, nel tentativo di ricondurla, di volta in volta, al denominatore delle più svariate ideologie del Novecento europeo». [G. Cavallero, Itinerario di M., Tesi di laurea, Anno accademico 1971-1972, presso Biblioteca di Gorizia, Fondo Carlo M., Prefazione p. VI. ] 21 «Eppure quanto io dico è stato detto tante volte e con tale forza che pare impossibile che il mondo abbia ancora continuato ogni volta dopo che erano suonate quelle parole» [PR 3]. 22 Ma cfr., per quanto or ora diremo, il nostro profilo biografico, più dettagliato, contenuto nel paragrafo 6 del Il capitolo (sulla Rettorica): Il pretesto cronologico della proposta persuasa di M. 23 Lo studio di L. Furlan, L'essere straniero di un intellettuale moderno, ed. Lint- lavoro dettagliato, composito, anche se discutibile per certe sue conclusioni - si propone di adempiere appieno a questo gravoso compito. Tutto questo risulta poi complicato da una tempra caratteriale certamente particolare, diremmo per certi aspetti umorale, tanto da rasentare a volte manifestazioni depressive- reattive (in specie, ad esempio, nelle ultime lettere), altre volte lampi di vitalistico, ottimistico entusiasmo. Delicato, suo malgrado, come un fiore di serra (psicologicamente, beninteso non fisicamente), sarebbe forse più opportuno dire che la severità, o meglio il forte rigore morale, che egli usò con se stesso dovette applicarlo anche agli altri uomini, ricavandone sovente sonore smentite: da ciò, negli ultimi anni della sua vita, una sorta di involuzione caratteriale: un animo, col tempo, sempre più appartato e deluso, che tuttavia non perde la sua essenziale forza, energia e consapevolezza. Alla luce di tutto ciò, se volessimo compendiare, in una sorta di prosopopea, il dramma esistenziale del nostro giovane autore (che è, in definitiva, quello di un "aspirante alla Persuasione" che si trova invischiato giocoforza nello strame rettorico), proporremmo - in alternativa alla chiave di lettura legata alla ben nota "coscienza infelice" hegeliana, avanzata dal Garin% - la figura di Qohélet, il saggio ebreo autore di quell'operetta biblica (tanto cara al Goriziano) che vien chiamata Ecclesiaste. Nel corso della sua esistenza, Qohélet ha vissuto sulla propria pelle - giungendo ad una consapevolezza tanto profonda quanto disincantata - la sconcertante (per quanto "banale") verità che «tutto è vanità», come recita l'inizio [1,2] e la fine [12,8] del libro biblico, a confermare che tutta la riflessione in esso contenuta non è altro che un dipanare la trama e l'ordito di quell'assunto unico, dominante e paradossale. Orbene, Qohélet - per quanto saggio, di una saggezza che lo discrimina rispetto all'umanità intera - è tuttavia e comunque, come tradisce l'etimologia stessa del suo nome, "l'uomo che partecipa all'assemblea (degli uomini)". Proprio come M.. Questo, insomma, il complesso intrico di fattori che si trova costretto ad affrontare chiunque si avvicini al filosofo. Lo stesso autore della Persuasione, quasi a pregustare questa difficoltà, afferma che «ci sono degli uomini che sono dei mostri, che si sono liberati del tutto dal loro tempo e dagli altri tempi e fanno la disperazione degli storici» [O 810]. Difficoltà che, tuttavia, a 24 Ma, per dirlo in parole molto semplici, se il dramma della "coscienza infelice" è quello di non poter identificarsi con Coscienza Immutabile, ch'è Dio e l'Assoluto, l'infelicità di M. ha un fondamento quantomeno opposto: propri quello di essere costretto all'identificazione, con qualsivoglia "struttura" o "identità". M. illustra questa inconciliabile dicotomia, ascrivendola anzi ad una delle più pericolose e "lusingatrici" illusioni dell'uomo, di ascendenza platonico-hegeliana, in un passo sotto questo punto di vista memorabile: «Egli [l'uomo] vive di ciò che gli è dato, di cui non ha in sé la ragione, ma nella sua conoscenza assoluta egli ha la Ragione; se il fine delle sue affermazioni vitali è in ogni punto paura della morte, ma nel suo Assoluto egli ha il Fine; se egli è in balia delle cose e non ha niente, e se pur questo niente difende come valevole con ingiustizia verso tutte le altre cose, ma nell'Assoluto egli ha la Libertà, il Possesso, la Giustizia. Così egli porta intorno l'Assoluto per le vie della città. Egli non è più uno ma sono due: c'è un corpo, o una materia, o un fenomeno o non so cosa, e c'è un'anima, o una forma, o un'idea. E mentre il corpo vive nel basso mondo della materia, nel tempo, nello spazio, nella necessità: schiavo; l'anima vive libera nell'assoluto». [PR 54-55] o ov ben vedere, ci tocca fino ad un certo punto, se è vero - come ribadiamo - che la presente tesi non vuol essere tanto un lavoro di critica e storiografia filosofica, né vuol essere una meditazione su M., bensì riflessione attraverso M., ovvero vuol rintracciare (vuol recuperare) in certo modo l'attualità della sua ingiunzione morale, e non al fine di espungere «ciò che è morto» e di decantare «ciò che è vivo» del nostro autore (operazione che, per noi, nasconde sempre presunzione ed ingratitudine), bensì di riguadagnare una voce autentica - che nasce da un'esperienza esistenziale altrettanto autentica - che possa aiutarci nella difficoltà del tempo presente, diventando nostra ingiunzione, al di là di ogni categoria storica e filosofica stabilita. Del resto, coerente alla sua formazione eminentemente "letteraria", e non specificamente filosofica (gli autori da lui citati, a rigore, sono più "profeti" che filosofi, ed è indicativo: la verità non si esprime per sistemi, ma si veicola nelle forme originali ed autentiche della creazione umana); e, soprattutto, consapevole che la verità stessa è una «sorba amara e perfida», «povera e nuda», che si vive e non si dice (com'egli afferma della Persuasione), lo stesso M. non intende pagare «l'entrata in nessuna delle categorie stabilite» né fare da «precedente a nessuna nuova categoria»; ma procede, a suo dire, nel rilevare il testimone della verità, «né con dignità filosofica né con dignità artistica»?°. Il nostro filosofo si pone, dunque, quale «povero pedone che misura coi suoi passi il terreno»? e da subito fa professione di non-originalità””, laddove però questa non-originalità non è pedissequa ripetizione scolastica di istanze e di imperativi morali, non è il disdegno intellettuale (anch'esso "borghese") di chi rifiuta per principio il mondo degli altri (sentenziando «pereat mundus sed fiat iustitia») e gli contrappone una realtà sua propria tanto edenica, quanto astratta e utopica: è, invece, il rinnovellarsi e il ribadirsi di un appello all'esistenza vera ed originale, vissuto veramente e profondamente sulla pelle di coloro che l'hanno professato: Parmenide, Eraclito, Empedocle, Qohèlet, Cristo, Eschilo, Sofocle, Simonide, Socrate, Petrarca su su fino a Leopardi, Ibsen e Beethoven. Il carattere "viatorio" di queste espressioni ci rimanda a quella che ci pare essere la chiave di volta della loro testimonianza: una testimonianza che matura, si muove e soffre tra e con gli uomini, un'ingiunzione morale che decade dal piedistallo del mal inteso imperativo categorico kantiano, divenendo - in questa deformazione - astratto e universale (i due termini, da un punto di vista esistenziale, si combinano), e rapprendendosi, In una lettera a Enrico, in un contesto ironico, M. butta giù, en passant, un «si duo idem faciunt non est idem» [E 423; ma il modo di dire ricorre anche altrove: cfr, ad es., PR 62]Questa notazione, evidentemente, meriterebbe molto di più che una semplice nota. 25 Per quanto questo poi sia vero: si veda comunque come appaiano scontate ed inopportune, alla luce di ciò, le accuse di coloro i quali tacciano M. di scarso rigore filosofico: Gentile fra i primi. 26Per le espressioni citate in questo contesto, rimando - ancora una volta - alla prefazione di C. M., La Persuasione..., op. cit. storicamente, nell' "uomo e nello Stato hegeliano", avviluppato nella matassa del dovere, della responsabilità e della sicurezza”; un'ingiunzione morale, infine, che si fa veramente "urbana" e concreta, in una parola: etico-politica. Ovvero, M. cala - incarna - lo sforzo etico-speculativo teso alla ricerca di soluzioni (scelte) esistenziali, volte al vero vantaggio degli uomini? - o meglio, della sola autentica scelta esistenziale, ch'è la Persuasione - nella magmatica, pragmatica ed altrettanto paradossale quotidianità che ognuno vive. L'unica valida alternativa - rispetto alla nostra decadenza - per una felicità possibile per gli uomini, per una xya9wv gui (il corrispettivo speculare, persuaso, della rettorica xowwwx xxxwv?9) veramente realizzabile. 27 Cfr. nota 21. 28 L'etica kantiana, nella sua interpretazione distorta, va a rappresentare proprio la forma più moderna e palese e dinamica di "etica borghese della sicurezza", ch'è il cavallo di battaglia della Rettorica. 29 Preferiamo utilizzare sempre il plurale. 30 Per il senso di queste espressioni, rinviamo al seguito del nostro lavoro. 2. Il demone Enrico. In un noto passo dell'Apologia [31, D; ma cfr. anche Fedro 242 C, 551], il persuaso Socrate afferma: «[...] questo che si manifesta in me fin da fanciullo è come una voce che, allorché si manifesta, mi dissuade sempre dal fare quello che sono sul punto di fare, e invece non mi incita mai a fare qualcosa»?! [corsivo nostro]. Poco prima, Socrate aveva definito quella voce «alcunché di divino». E' il famoso, controverso, "demone" socratico”, una delle voci più antiche ed autentiche della Persuasione, la cui caratteristica singolare è quella di essere, piuttosto, una voce della dissuasione”. Compendia e glossa G. Bastide®*, considerando tutti i passi in cui questa "figura" ritorna: «nnanzitutto Socrate spiega il suo comportamento ricorrendo a un dio interiore, ad un avvertimento intimo, ad una voce demoniaca che non l'abbandona mai. Poi, tranne una o due eccezioni, questa voce interiore prende forma di divieto, quando si tratta di distogliere Socrate da questo o quell'atto o da questo o quel coinvolgimento preciso. Infine, il dio è una forza imperiosa che determina in modo totale la vocazione spirituale di Socrate »”. In Teagete [129 E - 130 A], la potenza del demone socratico si "politicizza": «[...]la potenza di questo demone è determinante, anche nei rapporti con coloro che mi frequentano: a molti, infatti, è ostile ed essi non traggono profitto alcuno dalla mia compagnia, tanto che anche a me non è possibile stare con loro; a molti non impedisce di frequentarmi, ma, dalla mia vicinanza, non ricevono vantaggio alcuno; quelli, invece, che la potenza del demone assiste, perché godano della mia compagnia, sono coloro dei quali anche tu [Teagete36] ti sei accorto; infatti ne ricevono un profitto immediato; ma anche tra questi, alcuni godono di un 31 Le citazioni tratte dalle opere di Platone, qui e altrove, sono riportate secondo la traduzione offerta in Platone, Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, Milano, Rusconi, 19912. 32 Cfr. la diapositiva C [Demone] nel supporto iconografico. 33 Si tenga altresì presente ciò che Nietzsche afferma nella Nascita della tragedia, sempre a proposito del demone socratico: «Una chiave per comprendere la natura di Socrate ci viene offerta da quel meraviglioso fenomeno che viene designato come "demone di Socrate". In particolari situazioni in cui il suo portentoso intelletto vacillava, egli ritrovava l'equilibrio in virtù di una voce divina, che si faceva udire in tali momenti. Questa voce, quando viene, dissuade sempre. La saggezza istintiva si mostra in questa natura interamente abnorme soltanto per contrastare qua e là, ostacolandolo, il conoscere cosciente. Mentre in tutti gli uomini produttivi l'istinto è proprio la forza creativo-affermativa, e la coscienza si rivela critica e dissuadente, in Socrate l'istinto diventa critico, la coscienza si trasforma in creatrice - una vera mostruosità per defectum!" [Nietzsche, La Nascita della Tragedia; in Opere 1870/1881, Roma, Newton, 1993, pag. 153]. L'acrimonia con cui Nietzsche offende e offenderà Socrate è la stessa con cui M. affronterà Aristotele; se il motivo propulsore di questa acrimonia è, praticamente, identico (la critica alla pretesa del sapere, nella fattispecie quello teoretico-scientifico-tecnico), i differenti bersagli critici sono - a nostro parere - non solo mera testimonianza di una dissimile "inclinazione di gusto" dei nostri due autori, ma tradiscono - e profondamente - anche la diversità delle alternative possibili e plausibili ch'essi propongono alla decadenza (l'oltre-uomo e il persuaso), come vedremo in seguito. 34 G, Bastide, Le moment historique de Socrate, Parigi 1939, pag. 236; riferimento contenuto in J . Brun, Socrate, Milano, Xenia 1995, pag. 71 35 Ma si tenga anche presente, anzi soprattutto presente, l'istruttivo capitolo IX [La dimensione del religioso in Socrate] del lavoro di G. Reale, Socrate. Alla scoperta della sapienza umana, Milano, BUR 2001, pagg. 265-294, capitolo sottinteso al nostro discorso. 36 E' ovviamente Socrate che parla. vantaggio sicuro e duraturo, molti, al contrario, fin tanto che stanno con me, progrediscono in modo soddisfacente, ma, una volta lontani, ridiventano come tutti gli altri» [corsivi nostri]. Orbene, crediamo che, in questo passo esemplare, sia contenuta una chiara parafrasi delle differenti e possibili modalità di relazione che il Persuaso intrattiene con gli altri uomini: M. "aggiorna" il topos affermando, in modo pregnante, che «ognuno deve trovarsi la via da sé - e da sé batterla passo per passo - ché non ci sono né carte né mezzi di trasporto; chi non sente di doverla, di saperla, di volerla fare, non è buono a farla e invano spera l'aiuto altrui, invano altri vorrebbe aiutarlo - la può batter colui che già è sano - e la salute è un dono di Dio. -»° [D 93-94; corsivi nostri], che fa da eco a quella, più famosa, contenuta nella tesi di laurea: «La via della persuasione non è corsa da "omnibus", non ha segni, indicazioni che si possano comunicare, studiare, ripetere. Ma ognuno ha in sé il bisogno di trovarla e nel proprio dolore l'indice, ognuno deve nuovamente aprirsi da sé la via, poiché ognuno è solo e non può sperar aiuto che da sé: la via della persuasione non ha che questa indicazione: non adattarti alla sufficienza di ciò che t'è dato. | pochi che l'hanno percorsa con onestà, si sono poi ritrovati allo stesso punto, e a chi li intende appaiono per diverse vie sulla stessa via luminosa. La via della salute non si vede che con gli occhi sani» [PR 62-63; corsivi nostri]. Ora, ritornando al passo socratico del Teagete, approntiamone un'utile schematizzazione. Socrate distingue: a) individui a cui il demone è ostile, e che non traggono vantaggio dalla compagnia con Socrate; b) individui «che la potenza del demone assiste» [parafrasi quasi M.: «a salute è un dono di Dio»], e che traggono vantaggio dalla compagnia con Socrate: b,) quelli - e son soltanto alcuni - che «godono di un vantaggio sicuro e duraturo»; bə) quelli - e sono invece molti - che  [PR 169]?°. Nel penultimo passo, del resto, affiora (anche) la differente posizione, sempre nella prospettiva persuasa, che M. ha consapevolezza di occupare rispetto all'amico: mentre lo Mreule - agli occhi del Goriziano - ha raggiunto la Persuasione e vi permane, egli invece è ancora sulla difficile e tormentata via che porta alla Persuasione stessa. La «consistenza» di Enrico è indipendente, in senso assoluto, come indipendente e assoluto è il monito persuasivo del suo esempio; al contrario, M. avverte la necessità - per la propria consistenza - che il suo amico «ancora lo pensi e si curi di lui». E' più del bisogno di una tangibile comunione fraterna, è più del desiderio di essere nei pensieri dell'amico; è l'esigenza, bensì, di fondare la propria consistenza di uomo, di legittimare - attraverso quasi il giudizio del demone-Enrico - la propria aspirazione alla permanenza?*: 40 In base al nostro schema, è il rapporto delineato in bi. 41 E «il coraggio non vuol la prudenza ma l'atto» [PR 63]. 42 Ma riguardo la dialettica lontananza-vicinanza, cfr. la parte finale del presente capitolo. 43 Ma - edè significativo - è lo stesso M. a condannare in modo risoluto - in alcuni passaggi fondamentale della sua tesi e del Dialogo - questo illusorio "meccanismo di reciproca compiacenza": «[...] ognuno, se racconta la sua «Quella voce che viene dalla libera vita [quella voce che Enrico aveva accolta e fatta sua], quella m'era necessaria per fare il mio lavoro [la tesi] come io lo volevo; m'ero illuso di poterla avere [...]> [E 441]. Mentre Enrico ha affrontato il mare e «s'è conquistato il suo posto di lotta e di lavoro» [E 435], M. si trova ancora impelagato nelle pastoie della Rettorica, sociale familiare culturale accademica. Il Nostro non nasconde una punta di benevola invidia, e di dispetto per quegli oneri (alibi facilmente smontabile, tuttavia) che lo costringono alla falsa permanenza, al soggiorno "forzato" in Gorizia, al soggiorno forzato nella vita retorica: «La lettera di Rico [...] mi mise il fuoco addosso per quanto penso a noi, che, invidiandolo, siamo impediti nel volerlo raggiungere dalle cose stesse che c'impedirono di partir con lui [... > [E 436; corsivo nostro]. E' altresì interessante notare come, invece, dalla prospettiva stavolta di Enrico (testimoniata da C. Magris, nella bella e suo malgrado dissacrante biografia romanzata che gli dedica‘*), le posizioni risultino addirittura ribaltate: se Enrico «tanto per cominciare, è andato via per non fare il militare» [Magris 15], di contro - per lui - è M. ad essere «un santo» [ib. 83]; insieme con Buddha (vedremo successivamente il rilievo di questa affermazione), che lo è per l'Oriente, Carlo per Enrico è il «grande risvegliato» [ib. 94]: solo Carlo può essere sicuro [ib. 45]. Non si tratta soltanto, qui, di una reciproca attestazione di stima profonda e sincera; è una testimonianza - questa - che tradisce il fatto che la delineazione dell' "essere persuasi" era ancora in fieri, chiara ed evidente, certo, nella intima consapevolezza dei due, ma ancora insufficientemente attingibile nella concretezza della vita reale o anche della pura elaborazione concettuale. Riteniamo opportuno, allora, soffermarci sul gesto assoluto di Enrico Mreule. Così, il 28 novembre 1909 - in gran segreto, la famiglia completamente ignara di tutto - questa sorta di Neal Cassady carsico, giovane, bello, geniale, disperato, "maledetto"* - s'imbarcava a Trieste per l'Argentina, sulla Columbia; accanto a motivi di ordine eminentemente "pratico", a spingerlo era la decisione di dare una possibilità di nuovo inizio alla propria vita, di rescindere ogni legame con la passata, di fondare - non solo con le parole, ma con i fatti - un proprio mondo autonomo e libero, una propria «consistenza indipendente ». Perché (avrebbe detto non molti anni dopo un altro giovane "maledetto", Paul Nizan‘9) «a libertà è un potere reale». Si trattava di mettere in pratica, di esercitare vita sciagurata e i fatti dolorosi di cui porta la colpa e le conseguenze, trova nella compiacenza dei compagni integra almeno l'illusione della sua individualità. -», «[...] la dolce illusione d'esser qualcuno»; in questo meccanismo, gli uomini retorici «considerano i loro simili come specchi compiacenti, - che raddoppino la vita. Ma il nulla che non si raddoppia...» [D 55-56] 44 C. Magris, Un altro mare, Garzanti, 1998. 45 Cfr. la diapositiva B [Ritratto di Enrico Mreule (2)] nel supporto iconografico. 46 Paul Nizan: Aden Arabia (con saggio-prefa zione di J.P. Sartre), Mondadori, 1996. Sarebbe suggestivo mettere a confronto gli esiti, nonché le motivazioni e le "ideologie" sottese alla "compulsione del viaggio" che spinse questi due questo potere. Dunque, un gesto improvviso, ma non improvvisato, evidentemente; azzardato, se vogliamo, ma non gratuito; frutto concreto di una decisa e persuasa visione del mondo e della propria esistenza; risultato coerente, ancora, dei discorsi e degli "ammaestramenti", riguardo le proprie convinzioni, che il giovane Mreule elargiva ai suoi altrettanto giovani amici. Un gesto che acquista ancor più valore, e lo stesso M. ne è consapevole, di fronte al puro astratto gesto di ribellione e di fuga (se non "fisica", almeno intellettuale) che il Goriziano insieme persegue e, sotto sotto, paventa. L'inquietudine (complicata dalla giovane età), l'infelicità, derivante dall'intuizione amara dell'impasse retorica, è la stessa; ma Enrico è riuscito a rimettere in gioco se stesso e la propria esistenza, è riuscito a passare dalla mera rivendicazione verbale all'atto, dalla potenza all'entelechia. In Enrico Mreule, la parola persuasa - come risuonava nei discorsi (nei simposi) "in soffitta" dei tre giovani - si è tradotta, senza tradirsi, in attualità pura, assoluta, permanente, eterna; la parola si è fatta carne e sangue, si è esposta al rischio dell'imprevedibilità, alla possibilità aperta e pericolosa che ogni scelta autentica implica e prepara. Alla stregua di Cristo, Enrico è il Verbo (della Persuasione) Incarnato. E' in lui, cioè, che la Persuasione scende dal piedistallo dell'astrattezza, dell'utopia, dell'atopia, della letterarietà e del passato, per farsi vivo, concreto, persuaso presente. Perché la «salute» non è soltanto un'idea, la sua sede non è l'iperuranio separato dal mondo della vita sublunare: la salute - ancora "sostanza seconda" nelle stesse pagine che M. le dedica nel lavoro accademico - assurge a "sostanza prima" - e quindi veramente reale - nel synolon dell'essere persuaso, che è Enrico. Un esempio, quello dell'amico, infine, che disattende e confuta, come detto, quelle affermazioni, frequenti ancora nella tesi, per le quali la Persuasione era attestata come una possibilità... impossibile: lo Mreule è l'esempio vivente, così, che la Persuasione non è un luogo ideale, inattuale ed inattuabile; che non è una mera idea regolativa nella prospettiva non solo etica, ma ontologica; che non è un "mito", (soltanto) una stella polare che indichi e guidi il nostro cammino; che non appartiene, ancora, soltanto ad eletti del mondo delle arti e del passato filosofico, letterario ed artistico; che non è, infine, una condizione edenica, improponibile nel mondo della Rettorica. Al contrario, nello Mreule, la Persuasione irrompe come l'eternità nel tempo, squarcia la verbosità delle concettualizzazioni, lega il passato e il futuro nella decisione (nella scelta) dell'eterno presente, si indica come possibilità sempre aperta - per quanto latente - all'uomo, ad ogni uomo che mostri il coraggio di accoglierla e di farla sua. giovani intellettuali - Mreule e Nizan (divisi da poco più di un ventennio) - a cercare in un lontano altrove scampo alla congerie rettorica. 47 La famosa soffitta del P aternolli, di cui abbiamo anche un bozzetto autografato di M.. Scrive M. ad Enrico: «Col tuo atto e con questo fatto già in parte avvenuto, quasi con argomenti sopportando solo la mole degli argomenti teorici, coi quali tu nelle nostre conversazioni ci aprivi la via alla giusta valutazione delle cose, hai compiuto per noi l'unico beneficio che si possa fare da un amico agli amici» [E 421]; e ancor più esplicitamente «[...] come le tue parole si son fatte azione! lo mi nutro invece ancora di parole e mi faccio vergogna» [E 442; il corsivo è dello stesso M., a sottolineare l'importanza dell'espressione]; fino a rendere testimonianza e omaggio al vero persuaso Enrico, nella bellissima lettera datata 29 giugno 1910: Ti vedo sempre cosi come t'ho visto l'ultima volta a Trieste, determinato in tutte le tue possibilità, vivo così, che nessuna cosa della vita, mi sembra, possa trovarti insufficiente, ma che anzi tutta attraverso tutti i perigli debba volgersi a te spontaneamente. Perché tu non chiedi niente. E come non t'accorgi del tempo perché nell'atto in ogni attimo sei intero, così in ogni tua parola si ha l'imagine [sic] concreta della tua vita [E 440; i corsivi sono nostri] In questo denso passo, affidato significativamente ad una lettera (e dunque ad un testo privato), tuttavia la Persuasione trova una delle sue espressioni più limpide e convincenti, in assoluto. Visto il particolare andamento di questo capitolo, e alla luce di quanto detto finora, riteniamo opportuno analizzare il succitato brano abbastanza a fondo, allo scopo di rintracciare alcuni notevoli punti fermi che ci consentano di anticipare, per maggiore chiarezza di visione, importanti conclusioni riguardo l'idea che ci siam fatti dell' "essere persuasi". Innanzitutto, ancora una volta ribadiamo questa considerazione: Enrico Mreule è exemplum storico della salute: egli è «determinato in tutte le [sue] possibilità». Soffermiamoci sull'attributo "determinato" e sul sostantivo "possibilità", entrambi pregni di straordinarie significanze etico-filosofiche. Qui, "possibilità" - a differenza di quanto tanto "esistenzialismo negativo" ci ha insegnato (da Kierkegaard, ad Heidegger a Jaspers a Sartre) - ha una forte valenza positiva: se per i suddetti la possibilità esistenziale si risolve, in fondo (chi in più, chi in meno), in impossibilità, nello scacco di quell'«essere che progetta di essere Dio», nell'improponibilità della scelta esistenziale ed autentica, che determina angoscia e disperazione; in M. sta ad indicare, invece, il dispiegarsi delle energie vigorose e positive, originarie ed originali, autentiche ed incorrotte dell'uomo stesso. Qui, piuttosto, il termine e il comprensivo "possibilità" trova il suo affine nella "potenzialità", nella già richiamata dynamis, in tutta la sua portata di «preformazione e predeterminazione [rispetto all'atto]», «modo d'essere diminuito o preparatorio all'atto »*°: la possibilità esistenziale autentica trova il suo telos nell'entelechia etica. Le parole di Enrico si son fatte azione, la sua dynamis appunto si è dispiegata e realizzata, giungendo alla sua "perfezione". Non può non emergere la forte componente 48 Ovviamente utilizziamo come sinonimi Persuasione e Salute, sentendoci autorizzati a tale uso dall'uso stesso che ne fa M..dinamica che permea tale condizione esistenziale. Difatti, l' "essere persuaso" non è un monòlito, per quanto il suo sia un permanere nella Persuasione; ma il permanere - dice Michelstedter - non è uno stare: «non c'è sosta per chi porta un peso su un'erta, ma quando lo deponga dovrà andarlo a riprender sotto ove sarà ripiombato: ogni sosta è una perdita; tanto sosti e tanta strada devi rifare» [PR 35; corsivo nostro]. E poco più avanti, raccoglie e ripropone il monito contenuto nell'E/ettra di Sofocle (monito che, a nostro parere, è l'elemento veramente drammatico della tragedia sofoclea e della vita stessa del Goriziano): «non è più il caso di indugiare, ma di agire» [ib.; in greco nel testo]. Ancora più avanti, le parole di M. in proposito si fanno adamantine, raccogliendo le estreme conseguenze di quanto finora affermato: «il diritto di vivere non si paga con un lavoro finito, ma con un'infinita attività» [PR 41; corsivo nostro]. E' svelato, così, l'alone misterioso che avvolge la premessa del giovane studioso: «Nell'eBroc BoA potenza e l'atto sono la stessa cosa!, poiché l'Atto trascendente, "l'eternità raccolta e intera", la persuasione, nega il tempo e la volontà in ogni tempo deficiente» [PR 12]. Come per quest'altro capoverso, che è forse la "definizione" più completa - presente nella tesi -dell'essere persuaso, pur nella sua sinteticità: «Colui che è per sé stesso (ever) non ha bisogno d'altra cosa che sia per lui (evot «vtov) nel futuro, ma possiede tutto in sé» [PR 9]. La determinazione che il vir mostra nella gestione delle proprie possibilità è - insieme, dunque - risolutezza e consapevolezza. Il vir è "risoluto", sciolto (come c'insegna l'etimologia) dai lacci della Rettorica, e in questo è veramente libero e assoluto; è altresì consapevole delle sue potenzialità volte alla realizzazione della vita vera. Per gli Stoici, la chiusura della mano nel pugno rappresentava la "comprensione": immagine felice: il virha in pugno tutte le proprie possibilità e comprende la possibilità di dispiegarle in modo pieno e compiuto. Nel punto appena successivo del passo che stiamo esaminando («[...]nessuna cosa della vita, mi sembra, possa trovarti insufficiente, ma che anzi tutta attraverso tutti i perigli debba volgersi a te spontaneamente [... ]}»), M. ritorna su uno dei fulcri inossidabili della sua posizione teoretica-etica-ontologica, cui abbiamo già accennato: l'insufficienza; c'è da rilevare, qui, il ribaltamento, anzi la vera e propria "rivoluzione copernicana" che viene ad operarsi tra il 49 cfr. Aristotele, Metafisica, X, 8, 1049 b4 50 Vita che non è vita. Tuttavia, come chiosa puntualmente Campailla, «non nel senso in genere dispregiativo che è proprio dell'aggettivo greco, ma in quello di "vita che è fuori della vita", "vita impossibile": la vita, insomma, della Persuasione», 51 Qui, M. sembra parafrasare proprio Aristotele. Troviamo, altresì, molto interessante notare l'analogia, sotto questo punto di vista, tra il Persuaso e il dio (sparse nel capitolo specifico sulla Persuasione, nel lavoro accademico), che nella fattispecie - a nostro parere - corrisponde al dio aristotelico, così come tratteggiato nei libri VIII e XII della Metafisica (un'opera che Carlo tenne sicuramente presente, oggetto di studio e di riflessione continui): il dio di Aristotele non ha in sé nulla in potenza, è Atto e Forma puri, è un essere perfetto, il quale non manca di nulla, non ha nulla da realizzare (se possiamo esprimerci così), e in esso tutto è pienamente attuato; da qui, la sua "immobilità" e la sua eternità. Esso - proprio come il Persuaso - non protende verso alcunché, avendo già in se stesso la sua completezza e la sua perfezione. Questo dio è in pace con se stesso. vir e il mondo delle cose: nessuna «cosa della vita» trova insufficiente il vir, perché egli «non chiede niente », perché ha sciolto i lacci della dipendenza. L' "autarchia" dell'essere persuaso è diretta espressione e conseguenza della sua consapevolezza: egli non chiede niente perché è consapevole che la vita, che la Rettorica niente può veramente dargli, e che ogni elargizione che dal mondo retorico proviene è, parimenti, ottriata, falsa, illusoria, inadeguata. Questa posizione, in tutta la sua profondità, è limpida nella coscienza di M.: «Ma chi vuole la vita veramente, rifiuta di vivere in rapporto a quelle cose che fanno la vana gioia e il vano dolore degli altri - e non accontentandosi d'alcun possesso illusorio chiede il vero possesso, così che in lui prende forma e si rivela il muto e oscuro dolorare di tutte le cose» [O 705]; «[...] se c'è via che possa in qualche modo liberarci dalla nebbia, è quella che insegna a non chiedere ciò che non può esser dato» [D 73]; «...]- non c'è niente da aspettare, niente da temere - né dagli uomini né dalle cose. Questa è la via. - » [D 81, ribadito pari pari in D 85; corsivo di M.] et similia. L'autarchia del vir non è tuttavia l'egoistico ripiegamento su se stesso dell'Unico di Stirner”, frutto della disperazione del nulla che si dispiega in violenta autoaffermazione di dominio solipsitico; essa è piuttosto - se vogliamo - affine? (ma con i dovuti distinguo) all'ideale del saggio stoico, affine quantomeno nella matrice etica che presuppone e prepara quell'esito: ovvero, l'accettazione del dolore e della morte e l'indifferenza rispetto ai più comuni beni della vita (salute, ricchezza, bellezza...) e ai loro contrari”*. Secondo gli Stoici, "vivere secondo natura" significa, da un lato, mantenersi in accordo con gli eventi, accettandone il carattere di necessità-provvidenza; dall'altro, favorire la propria natura realizzando e conservando il proprio essere razionale. Orbene, detergendo tale prospettiva dalle connotazioni di necessità, provvidenza e razionalità (o almeno non ritenendole esclusive), essa viene a convergere proprio con la dimensione persuasa del vir. Di poi, il "bastare a se stesso" non si risolve in una posizione ascetica (come da 52 «il triste filosofo dell'anarchia», lo definisce M.. 53 Un'affinità cui ci autorizza lo stesso M.; cfr. Dialogo tra Napoleone e Diogene, in D 101-110. 54 «Poiché in quanto virtus essa è disposizione a una cosa (possibilità), in quanto tua virtus è bisogno di questa cosa (anche in rapplorto] alle virtutes negative degli stoici che sono neglative] inrigluardo] ai bisogni ma positive riguardo alla vita, cioè esser felici senza quei bisogni: gli stoici avevano d'accorgersi che esistevano anche senza quei bisogni, essi esistevano e cred[evano] d'essere solo in quanto negavano l'una cosa e l'altra e affermavano così in rapporto a queste cose della vita la loro individualità. Dunque gli Stoici hanno possibilità di vivere senza bisogni ma bisogno di viver come tali. - Si ergo virtus se ipsa contenta est - homo virtuosus plane adnihilatus est... in quanto tua virtus - è bisogno d'esplicarla, di viverla nel tempo, tutta. E come l'esplicarla non è mai in un punto, così tu non puoi possederti in nessun punto» [ib. 107; è Diogene che parla a Napoleone; i corsivi sono di M.]. Invitiamo a leggere questo passo anche alla luce di quanto detto sulla dinamica potenza-atto nell'ottica persuasa. 55 La virtù stoica, ancora, così come la Persuasione è tale da non ammettere gradi intermedi (essa è o non è), come descrive efficacemente Cicerone: «Come infatti chi è sommerso nell'acqua, sebbene poco distante dalla superficie, sì da poterne quasi emergere, non può respirare affatto più che se fosse nella profondità [...] così chi si sia avanzato alquanto verso l'abito della virtù non è affatto meno in miseria di chi non vi si sia avanzato per nulla» [De finibus, III, 48]. L'ideale di saggio stoico, quindi, anche qui si mostra come valido strumento euristico per indagare il carattere peculiare della Persuasione: ma, come visto, le differenze sono importanti almeno quanto le somiglianze. In effetti, il tentativo chetaluni è stato rimproverato); tutt'altro: il vir non si allontana sdegnosamente dal mondo, ma si fonda il mondo: l'entelechia etica è un atto di fondazione, è la possibilità di un nuovo, autentico inizio, e in ciò consiste la sua vera libertà. Libertà, dunque, che non è solo apatheia, non è solo "libertà da", ma anche soprattutto "libertà di": libertà di permanere nell'esistenza persuasa e di fondare il mondo della propria autenticità: il vir «deve creare sé e il mondo, che prima di lui non esiste » [PR 34]. Ci piace, allora, richiamare le parole del già citato Paul Nizan, che descrive in modo prezioso e vibrante tale condizione: «La libertà è un potere reale e una reale volontà di essere se stessi: è capacità di costruire, inventare, agire, soddisfare tutte le possibilità umane il cui dispendio dà gioia» [Nizan 82] (vedremo tra non molto questo peculiare legame tra attività e gioia, che ritorna anche nel Goriziano). Poco più avanti, è lo stesso scrittore francese che segna con nitidezza e con un certo sdegno i distinguo tra questa reale libertà e saggezza da quella dei saggi "stoici"; la libertà che egli auspica e pretende non è quella dei «...] saggi che paralizzano a una a una le parti dell'umanità e chiamano saggezza questa mutilazione. E' certo il tempo di non essere più stoici, non avrete più un cielo dove recuperare iltempo» [ib. 83]. Nel concludere questo paragrafo, proponiamo un lungo brano, tratto dal romanzo / cosacchi, di un (allora; siamo nel 1863-64) giovane autore russo, Lev N. Tolstoj, un autore che il nostro M. amò a dismisura, traendone profitto e sostanza morale. Questo romanzo è, indubbiamente, un'opera giovanile, eppure - pur nell'acerbità a suo modo perfetta - già contiene in nuce lo slancio etico-esistenziale appassionato, ed i motivi ad esso connessi, che informeranno tutta l'opera del grande scrittore, e che confluiranno nella speculazione del Goriziano, assorbiti in modo originale, ma fedele. Il brano che proponiamo è cruciale sia nell'economia del romanzo, sia nella vita del suo protagonista, il giovane nobile Olenin, il quale - pieno di entusiasmo e spinto, da un'oscura sensazione di estraneità al mondo a cui appartiene per nascita, alla ricerca della felicità [Olenin- M.-Mreule] - intraprende un lungo viaggio che da Mosca lo porta in un lontano villaggio del Caucaso (inutile dire che ogni tentativo di Olenin di adattarsi alla nuova realtà, soprattutto per quanto riguarda i "rapporti umani", sarà destinato allo scacco). Ebbene, questo brano contiene - in modo davvero disarmante, a nostro parere - parecchi punti di contatto (non solo "ideologico", ma addirittura espressivo) con talune pagine M.iane; esso, inoltre, riassume in maniera opportuna tutto il discorso da noi fin qui tenuto e, in maniera altrettanto opportuna, soprattutto nell'interrogativo che lo conclude, ci offre il destro per proseguire questo nostro difficile cammino ermeneutico. stiamo facendo - e in questo campo è giocoforza procedere per tentativi - è quello di setacciare il concetto di Persuasione: circoscriverlo, per quanto possibile, per meglio individuarne vigore e valore. «Egli [Olenin] si sentiva fresco e a suo agio; non pensava a nulla, non desiderava nulla. E a un tratto fu assalito da un così strano senso di felicità senza motivo e di amore per ogni cosa che, seguendo una vecchia abitudine infantile, si mise a farsi il segno della croce e a ringraziare non so chi. Gli venne a un tratto in mente con particolare chiarezza che lui, Dmitri Olenin, un essere così diverso da tutti gli altri, se ne stava ora disteso solo, Dio sa dove, in un luogo dove viveva un cervo, un vecchio cervo e bello, che forse non aveva mai visto un uomo, e in un posto dove nessun uomo mai s'era posto a sedere, né aveva avuto quel suo pensiero. "Sono seduto, e attorno a me stanno degli alberi giovani e vecchi, uno di essi è tutto avvolto dai tralci della vite selvatica; vicino a me brulicano i fagiani, inseguendosi l'un l'altro, e fiutano forse i loro fratelli uccisi". Egli tastò i suoi fagiani, li esaminò e asciugò la mano lorda di sangue ancor tiepido nella sopravveste circassa. Forse li fiutano anche gli sciacalli e coi musi scontenti vanno a cacciarsi altrove; vicino a me, volando tra le foglie, che sembrano loro isole immense, stanno nell'aria e ronzano le zanzare: una, due, tre, quattro, cento, mille, un milione di zanzare, e tutte ronzano attorno a me per qualche ragione e dicono qualche cosa, e ciascuna di esse è un Dmitri Olenin, distinto da tutti gli altri come sono io stesso". E s'immaginò chiaramente quello che pensano e dicono ronzando le zanzare. "Qui, qui, ragazzi! Ecco chi si può mangiare", dicono ronzando e lo ricoprono tutto. E gli si fece evidente che egli non era punto un nobile russo, un membro della società moscovita, amico e parente del tale e del tal altro, ma semplicemente una zanzara, o un fagiano o un cervo, come quelli che ora vivevano attorno a lui. "Come loro e come zio J eroska, vivrò e morirò. Egli dice la verità: soltanto l'erba mi crescerà sopra". "Ma che importa se l'erba mi crescerà sopra?", continuava a pensare, bisogna tuttavia vivere, bisogna essere felici; perché io una cosa sola desidero: la felicità. Qualunque cosa io sia: una bestia come tutte, sulla quale crescerà poi l'erba, e niente più, o una cornice in cui si è inserita una particella dell'unica Divinità, è pur tuttavia necessario vivere nel modo migliore. Ma come dunque bisogna vivere per essere felice, e perché prima non ero felice?", E prese a ricordare la sua vita passata; e gli venne schifo di se stesso. Apparve a se medesimo come un esigente egoista, mentre, in realtà, per sé non aveva bisogno di nulla. E continuava a guardare attorno a sé: la verzura trasparente, il sole che declinava e il cielo sereno, e si sentiva felice come dianzi. "Perché sono felice e a che scopo vivevo prima?", pensò. Quanto ero esigente, quante cose escogitavo, e non mi son procurato altro che vergogna e dolore! Ed ecco che non ho bisogno di nulla per essere felice!" E a un tratto gli parve che gli si fosse dischiuso un nuovo mondo. "La felicità, ecco quello che è", disse a se stesso: la felicità consiste nel vivere per gli altri. E questo è chiaro. Nell'uomo è stato posto il bisogno della felicità; esso quindi è legittimo. Appagandolo in modo egoistico, cioè cercando per sé la ricchezza, la gloria, le comodità della vita, l'amore, può accadere che le circostanze si combinino in modo che appagare questi desideri sia impossibile. Di conseguenza, questi desideri sono illegittimi, ma non è illegittimo il bisogno di felicità. Quali desideri però possono essere sempre appagati indipendentemente dalle circostanze esteriori? Quali? L'amore, l'abnegazione!". E tanto fu contento e tanto si agitò, scoprendo questa verità, che a lui pareva nuova, che balzò in piedi e si mise con impazienza a cercare per chi potesse al più presto sacrificarsi, a chi far del bene, chi amare. "A me infatti non occorre nulla", seguitava a pensare, "perché dunque non viver per gli altri? "»5°. 56 Tolstoj, | cosacchi (a cura di G. Faccioli), BUR, 1952, pagg. 98-99-100. 3. Il porto della pace. Essendo [Gesù] poi salito su una barca, i suoi discepoli lo seguirono. Ed ecco scatenarsi nel mare una tempesta così violenta che la barca era ricoperta dalle onde; ed egli dormiva. Allora, accostatisi a lui, lo svegliarono dicendo: "Salvaci, Signore, siamo perduti!". Ed egli disse loro: «Perché avete paura, uomini di poca fede?». Quindi levatosi, sgridò i venti e il mare e si fece una grande bonaccia. | presenti furono presi da stupore e dicevano: "Chi è mai costui al quale i venti e il mare obbediscono? ". Questo passo è tratto dal Vangelo secondo Matteo”, Vangelo - questo in particolare, tra i quattro - che dovette colpire particolarmente M.®, per la forza e la nitidezza - e insomma per la "fisicità"°° - etiche e storiche, con le quali viene delineata la figura del 57 Si tratta di Mt. 8, 23-27; ma cfr. anche Mc 4, 35-41 e Lc 8, 22-25. 58 In una lettera del maggio 1909 alla sorella Paula: «Se sapessi scriver note e se tu le comprendessi ti scriverei il tema dell'andante della IX sinfonia; sarebbe più eloquente di me per dire quello che voglio dire; oppure - non ridere! - leggi il Vangelo di S. Matteo», [E 383]. Del resto, pochi giorni dopo, in una lettera allo Mreule, M. confessa che «in questo tempo, invece di far la tesi ho imparato a conoscer Cristo e Beethoven - e le altre cose mi si sono impallidite» [E 398; corsivo nostro]; nella lettura del Vangelo, egli «ci trova con gioia la grandezza e la profondità che si aspettava - tanto superiore alle filosofie e alla scienza moderne» [adattato da E 381] 59 Il Cristo di M. possiede connotati straordinariamente umani: è questo, infatti, «un Cristo monofisita che possiede soltanto la natura umana [...]. Un Cristo monofisita e pelagiano, che non conosce pertanto il peccato originale e il mistero del Riscatto e vive in un cosmo tragico senza possibilità finali di composizione» [cfr. S. Campailla, Carlo M. tra esistenzialismo ateo e esistenzialismo religioso, "Iniziativa Isontina", gennaio-aprile 1974, 60, Pag. 23]. E anche interessante notare come proprio il Cristo di S. Matteo abbia influenzato (ma sarebbe meglio dire: inquietato) sensibilità che poco o nulla hanno a che fare col cattolicesimo: ci riferiamo, tra gli altri, oltre che a M., a Tolstoj [per cui vd. oltre], (perché no?) a Nietzsche, nonché a Pasolini, che proprio sulla falsariga del Vangelo di Matteo scrisse una delle sue sceneggiature più belle ed importanti, da cui ricavò un film. Vale la pena riportare uno stralcio di una giovanile poesia pasoliniana - La domenica uliva - dove lo scrittore-regista, tormentato come sempre, liricizza questo suo particolare rapporto col Cristo: «Piove un fuoco scuro nel mio petto: non è sole e non è luce. Giorni dolci è chiari volano via, io sono di carne, carne di fanciullo. Se piove un fuoco scuro nel mio petto, Cristo mi chiama, ma senza luce» [lirica contenuta in Pasolini, II Vangelo secondo Matteo - Edipo Re - Medea, a cura di M. Morandini, Garzanti 19982, pagg. 280-286]. Sempre per meglio rifinire la suggestione cristologica in M., riteniamo opportuno riportare anche questa critica, ma attenta, esatta valutazione di Dilthey, che ben ci sembra enucleare la forza dirompente che scaturisce dalla figura etica del Cristo di san Matteo: «Indubbiamente i logia contenuti nel vangelo di Matteo sono quanto di più originario ci è pervenuto di Cristo, e contengono solo una potente e illimitata profonda coscienza etica, in cui il mondo trascendente si riflette, per così dire, come le stelle in un fiume. Il nucleo di questa coscienza costituisce il vero e proprio legame del sentimento etico attivo della vita, cioè della dottrina del regno di Dio, con il riconoscimento che nella connessione di questa vita dolore, bassezza, sacrificio producono tanto la perfezione quanto l'elevazione del Sé nello spiegamento della forza» [W. Dilthey, Sistema di etica, a cura di G. Ciriello, Napoli, Guida editori, 1993, pag. 126; corsivi nostri]. E' altrettanto interessante quanto il filosofo tedesco aveva affermato poco prima, ascrivendo a Ibsen e Tolstoj (tra gli altri) un tentativo «antiquato» [ib. pag. 122] di riferirsi al messaggio cristiano, contribuendo - col loro «individualismo» [ib.], o anzi «animalismo» [ib. pag. 121] - all' «inefficacia» [ib. pag. 122] contemporanea del cristianesimo. Questo, in effetti, secondo Dilthey, «agisce su singole anime semplici, che oppongono la loro esperienza interna alla tendenza della scienza moderna. Non vi è ancora nessuno che abbia compreso la verità cristiana in maniera così nuova e profonda, da permettere che essa possa determinare seriamente l'epoca. Anche in questo campo vi sono soltanto tentativi e inizi» [ib.; corsivi nostri]. Questo giudizio, equilibrato e corretto, per quanto polemico, copre di riflesso anche M., se è vero che il Goriziano privilegiò proprio Ibsen e Tolstoj come epifanie concrete di persuasione. Tuttavia, M. ci sembra comprendere e approfondire (e cercheremo di dimostrarlo nel corso del nostro lavoro) in «maniera nuova e profonda» il monito persuaso di Cristo e arrovellarsi nel tentativo di valorizzarlo come un'euristica etica atta a «determinare seriamente l'epoca» in cui visse. Certo, anche l'impresa M.iana appartiene alla congerie dei «tentativi ed inizi», e la sua ricerca esistenziale conobbe una cocente sconfitta. E' altrettanto vero, però, che Carlo Cristo, uno dei Persuasi della storia dell'umanità, anzi - per il Goriziano - il Persuaso per eccellenza. Ciò che ci colpisce del passo evangelico è innanzitutto l'efficacissimo contrasto tra l'infuriare della tempesta e la serenità (la "pace") del Cristo: mentre la barca è pericolosamente sballottata dalle onde, rischiando di ribaltarsi, Gesù dorme. In mezzo alla tempesta, Cristo è nel porto della pace, ha in sé (è) il porto della pace. Quella serenità non Gli proviene dalla Verità di essere Figlio di Dio, per il qual motivo niente di questo nostro mondo potrà toccarLo o nuocerGli; non Gli proviene da un'indifferenza per le cose terrene (parlando del Cristo, sarebbe davvero un controsenso); Gli proviene, bensì, dalla consapevolezza di avere un destino da compiere (il sacrificio sulla Croce) e che nulla può impedire il compiersi di questo destino. E' la pura consapevolezza dell'essere persuasi, che permette di conquistare quel "porto", quella «permanenza in un punto», anche nella furia del mare (il miracolo che ne succederà, l'aver calmato le acque e i venti, appare davvero accessorio, rispetto a quel riposo). L'infuriare della tempesta, di contro, si riflette nel baratro di paura che infuria nell'intimo dei discepoli che L'hanno accompagnato, e il loro tormento è un ulteriore, efficace scarto contraddittorio se paragonato al riposo di Gesù. Gesù li aveva invitati a passare all'altra riva®, all' "oltre" della riva, ad «imbarcarsi sul mare di questo mondo »5': l'invito era piaciuto, ma tra l'invito e la meta c'era un tragitto; la folla lasciata sulla riva non restò rassegnata a veder partire la brigata: si inoltrò nel mare, turbò le onde, agitò una tempesta mortale, e Gesù - quello stesso nocchiero che, rivolgendo loro l'invito aveva messo loro in cuore il desiderio di partire - salito con essi sulla barca si addormenta, ed essi sembriamo davvero abbandonati. Uno sconforto pesa sul cuore dei discepoli e forse il pentimento di essersi incautamente affidati a uno che non li soccorrerà nel bisogno, ad uno che non garantirà loro la sicurezza. Allora, quando tutte le risorse dell'arte e tutte le speranze sembrano crollare di fronte alle minacce della tempesta, quando l'uomo dispera di sé stesso, non fidando più delle sue forze mortali, allora comincia a chiedere, sperando, l'aiuto del Figlio di Dio e in virtù di tale speranza egli sveglia imperiosamente il Signore che dorme: «Come, Tu dormi? non Ti importa niente che moriamo ?». Non c'è giaculatoria più efficace M. caldeggiò una «posizione del tutto nuova dell'etica», un'etica che doveva «agire sui grandi problemi della società [per lui, della Rettorica] a partire prevalentemente dai suoi principi», qual è appunto l'auspicio di Dilthey [ib. 122]. Concludiamo questa importante noi - importante innanzitutto perché contiene in nuce la valenza della "strategia persuasa", così com'essa ci appare - con un inciso: non abbiamo fatto riferimento alla Vita di Gesù di Hegel, perché essa ci sembra più che altro forgiata sulla lezione evangelica giovannea, con tutte le profondissime, e sottintese, differenze che questa diversa prospettiva comporta. 60 Mt, 8, 18; ma anche Lc 8, 22 e 9, 57-60 61 Invitiamo, altresì, a confrontare quest'apologo evangelico con l' "esempio storico" dell'aerostato di Platone [PR 66-73]: entrambi tentativi di allontanarsi dalla solida terra (l'uno attraverso il mare, l'altro attraverso il cielo), ma con motivazioni, prospettive, significati, ma soprattutto esiti diversi. di questa per scuotere Dio dal suo letargo e comandargli di venire in nostro soccorso: abbiamo lasciato tutto e Ti abbiamo seguito, Tu sei nostro padre, nostro amico e Maestro, non Ti importa nulla che noi moriamo? Perché ci hai messo in mare e posti nella barca se i nostri piedi stavano più sicuri piantati sulla solida riva? L'ammonimento che il Cristo - una volta ridestatosi - rivolge ai suoi discepoli («Perché avete paura, uomini di poca fede?»)?° riecheggia, spogliato ovviamente della sua componente "religiosa", in tutta l'opera di M., rivolto agli uomini rettorici: potremmo anzi dire che quell'opera rappresenta - nella sua interezza - il tentativo sofferto, ma a suo modo compiuto, di offrire una risposta etica a quella lacerante domanda. Il timore vanifica la Croce. Il monito ad aver fede - e a dipanare quel timore - si traduce, nell'autore della Persuasione, nel monito che «[...] non fai niente, non sai niente, non dici niente, fosse anche la via dove credi di trovarti la via del più saggio uomo sulla terra. Che se a lui t'affidi e lo incarichi di ciò che pesa a te, resti invalido sempre. [corsivi nostri] Le sue parole in cui ti fingi un valore assoluto sono perte un arbitrio che tanto ne comprendi quanto ne puoi prendere. - Non c'è cosa fatta, non c'è via preparata, non c'è modo o lavoro finito pel quale tu possa giungere alla vita, non ci sono parole che ti possano dare la vita: perché la vita è proprio nel crear tutto da sé, nel non adattarsi a nessuna via: la lingua non c'è ma devi crearla, devi crear il modo, devi crear ogni cosa: per aver tua la tua vita» [PR 61]. Quella fede a cui Cristo richiama non è, dunque, per il giovane filosofo, un invito a "credere in Lui", bensì piuttosto - detto con espressione semplice - un invito ad "aver fede in noi", nelle nostre possibilità, nelle nostre proprie responsabilità sulla via della Persuasione. M. infatti prosegue, proprio in riferimento al Cristo e ai suoi credenti: «- | primi Cristiani facevano il segno del pesce e si credevano salvi; avessero fatto più pesci e sarebbero stati salvi davvero, ché in ciò avrebbero riconosciuto che Cristo ha salvato sé stesso poiché dalla sua vita mortale ha saputo creare il dio: l'individuo; ma che nessuno è salvato da lui che non segua la sua vita: ma seguire non è imitare, mettersi col 62 E' ancora interessante, a questo proposito (anche al fine d'individuare assonanze-dissonanze con la nostra lettura), riportare le considerazioni "tropologiche" di S. Agostino (contenute nel suo Commento al Vangelo di San Giovanni) su questo stesso episodio [cfr. omelia 49]: «Lo dice l'Apostolo: Per mezzo della fede, Cristo abita nei vostri cuori (Ef 3, 17). La presenza di Cristo nel tuo cuore è legata alla fede che tu hai in lui. Questo è il significato del fatto che egli dormiva nella barca: essendo i discepoli in pericolo, ormai sul punto di naufragare, gli si avvicinarono e lo svegliarono. Cristo si levò, comandò ai venti e ai flutti, e si fece gran bonaccia (cf. Mt 8, 24-26). E' quello che avviene dentro di te: mentre navighi, mentre attraversi il mare tempestoso e pericoloso di questa vita, i venti penetrano dentro di te; soffiano i venti, si levano i flutti e agitano la barca. Quali venti? Hai ricevuto un insulto e ti sei adirato; l'insulto è il vento, l'ira è il flutto; sei in pericolo perché stai per reagire, stai per rendere ingiuria per ingiuria e la barca sta per naufragare. Sveglia Cristo che dorme, E' per questo che sei agitato e stai per ricambiare male per male, perché Cristo nella barca dorme. Il sonno di Cristo nel tuo cuore vuol dire il torpore della fede. Se svegli Cristo, se cioè la ua fede si riscuote, che ti dice Cristo che si è svegliato nel tuo cuore? Ti dice: lo mi son sentito dire indemoniato (Gv 7, 20), e ho pregato per loro. Il Signore ascolta e tace; il servo ascolta e si indigna? Ma, tu vuoi farti giustizia. E che, mi son forse fatto giustizia io? Quando la fede ti parla così, è come se si impartissero comandi ai venti e ai flutti: e viene la calma. Risvegliare Cristo che dorme nella barca è, dunque, scuotere la fede; allo stesso modo Cristo frema nel cuore dell'uomo oppresso da una grande mole e abitudine di peccato, nel cuore dell'uomo che trasgredisce anche il santo Vangelo; Cristo frema, cioè l'uomo rimproveri se stesso. Ascolta ancora: Cristo ha pianto, l'uomo pianga se stesso. Per qual motivo infatti Cristo ha pianto se non perché l'uomo impari a piangere? Per qual motivo fremette e da se medesimo si turbò se non perché la fede dell'uomo, giustamente scontento di se stesso, impari a fremere condannando le proprie cattive azioni, affinché la forza della penitenza vinca l'abitudine al peccato?». proprio qualunque valore nei modi nelle parole della via della persuasione, colla speranza d'aver in quello la verità. Si duo idem faciunt non estidem» [PR 61-62]. La condizione inautentica, eteronoma e dunque non libera (come spiega M. in un capoverso che sembra parafrasare proprio il senso del brano evangelico proposto), è propria di coloro ai quali «fragili imbarcazioni in mezzo all'uragano, la grande nave» appare ingannevolmente «come un porto sicuro» [PR 42], mentre di converso «[...] ognuno è il primo e l'ultimo, e non trova niente che sia fatto prima di lui, né gli giova confidar che sarà fatto dopo di lui, egli deve prender su di sé la responsabilità della sua vita, come l'abbia a vivere per giungere alla vita, che su altri non può ricadere [questi ultimi due corsivi sono nostri]; deve aver egli stesso in sé la sicurezza della sua vita, che altri non gli può dare; deve creare sé ed il mondo, che prima di lui non esiste: deve esser padrone e non schiavo nella sua casa» [PR 36]. La grande nave. Non può non venire in mente un passo del Fedone [85 C-D-E] - divenuto cruciale per i più attenti studiosi di Platone - in cui Simmia, uno degli interlocutori privilegiati di Socrate nel dialogo, esprimendo le sue perplessità a proposito di talune "dimostrazioni" socratiche sull'immortalità e la reincarnazione delle anime, ci suggerisce un aut-aut che è allo stesso tempo metodologico ed esistenziale: «attraversare con una zattera [quella del ragionamento umano], a proprio rischio, il mare della vita» o «fare il tragitto più sicuramente e meno pericolosamente su più solida barca, cioè affidandosi a una divina rivelazione [logos theios}»®. Il dilemma - di cui conosciamo la risposta socratica e, indirettamente, quella agostiniana - si risolve in M., come abbiamo anticipato, in una posizione netta di autonomia del vir, e ci rende conto anche della collocazione (estremamente personale ed originale) che il giovane studioso assume nei confronti di quelli che pur sono i principali riferimenti speculativi ed etici della sua formazione: Cristo e Socrate si richiamano fin quasi a confondersi, superando barriere storiche e religiose, nell'individuazione di un 63 Le espressioni che utilizza M. richiamano ancora, ma in via negativa e in modo davvero singolare, analoghe considerazioni che riscontriamo di nuovo in Agostino, sempre nel suo Commento al Vangelo di Giovanni [cfr. omelia 2]: «[i discepoli, i.e. gli uomini] non vollero aggrapparsi all'umiltà di Cristo, cioè a quella nave che poteva condurli sicuri al porto intravisto. La croce apparve ai loro occhi spregevole. Devi attraversare il mare e disprezzi la nave? Superba sapienza! Irridi al Cristo crocifisso, ed è lui che hai visto da lontano: In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio. Ma perché è stato crocifisso? Perché ti era necessario il legno della sua umiltà. Infatti ti eri gonfiato di superbia, ed eri stato cacciato lontano dalla patria; la via era stata interrotta dai flutti di questo secolo, e non c'è altro modo di compiere la traversata e raggiungere la patria che nel lasciarti portare dal legno. Ingrato! Irridi a colui che è venuto per riportarti di là. Egli stesso si è fatto via, una via attraverso il mare. E' per questo che ha voluto camminare sul mare (cf. Mt 14, 25), per mostrarti che la via è attraverso il mare. Ma tu, che non puoi camminare sul mare come lui, lasciati trasportare da questo vascello, lasciati portare dal legno: credi nel Crocifisso e potrai arrivare». 64 Da notare, ancora, il ricorso ad una terminologia peculiarmente evangelica. Ci si perdonerà, tra l'altro, la riproposizione fedele di interi passi del Goriziano; ci sentiamo, tuttavia, autorizzati a far ciò dall'importanza che essi assumono nell'economia del nostro discorso e dal fatto che essi stessi rappresentano, a nostro giudizio, passaggi fondamentali (anche per la loro chiarezza, che non necessita scolii, caso quasi raro nella scrittura di M.) nella determinazione/enucleazione di quell'esigenza di autonomia che leggiamo come cifra essenziale della Persuasione, e che ci offrirà l'aggancio per rivisitarla sotto la prospettiva dell'etica kantiana, per una sinergia feconda di sviluppi. 65 Cfr. la diapositiva D [Barca] nel supporto iconografico.comune assunto morale: /a forza autentica degli uomini come unica bussola nel paradossale viaggio. Sullo sfondo, il mare. Dunque, il mare come luogo privilegiato del vir. Ma perché proprio il mare? Qual è il senso di questa complessa simbologia o presunta mitologia? Ed è davvero e soltanto una simbologia/mitologia atta a rendere la condizione persuasa? Anticipiamo la nostra risposta negativa. Certo, il topos del mare ha anche un fascino ed una suggestione prettamente letteraria e filosofica. Non dimentichiamoci che le immagini del mare e dei flutti ricorrono nelle opere di alcuni filosofi del primo e del secondo Ottocento, per esprimere, metaforicamente, la natura reale, libera e vitale del mondo: con tale immagine, questi filosofi segnalavano la propria opposizione alla dimensione necessaria, ordinata e razionale, puramente teoretica del mondo ("il mare dell'essere") descritto da Hegel e richiamavano la riflessione filosofica alla realtà concreta, alla possibilità, alla libertà. Di contro, l'immagine del mare è una significativa costante che lega, ad esempio, direttamente o indirettamente, molte delle "eroine fuggitive" del teatro ibseniano (altra componente di ispirazione prima per i nostri giovani intellettuali della "soffitta del Paternolli", come sappiamo) nell'aspirazione ad una svolta autentica della propria vita: la Dina dei Pilastri della società, la Nora di Casa di bambola, la Bolette della Donna del mare, la Asta del Piccolo Eyolf, la Frida di John Gabriel Borkman. Una particolare suggestione, a tal proposito, emana proprio il dramma La donna del mare, uno dei capolavori ibseniani più ermetici e, a suo modo, inquietanti, dove l'ambientazione prevalentemente in luogo aperto e il «luminoso lirismo» [M.P. Muscarello]?” che caratterizza molte scene e molti dialoghi stride con la complessa simbologia sottesa a tutta l'opera: quel contrasto vive soprattutto nella figura combattuta (tanto per usare un eufemismo) di Ellida, nell'enigmatica presenza-assenza dello "straniero del mare", nell'attrazione paritempo magica e terribile di cui è causa il mare stesso. Ellida soffre fino in fondo l'ambiguità di questo torbido rapporto d'attrazione: da una parte si reca spesso, durante le sue giornate, a contemplare quel mare e si bagna nelle sue acque quasi per ritemprare la proprie forze vitali; dall'altra, avverte tutta la potenza e la forza misteriosa ed ammaliatrice del suo richiamo, che si incarna nello Straniero e nella promessa matrimoniale che, un giorno, li legò. Quel legame ha ancora, per Ellida, nella sua vita tutta borghese, un sapore e una speranza di autenticità e di vita: eppure, ella avverte una sua propria incompiutezza, una condizione d'insofferente eteronomia in quel legame, che allo 66 L.A. Feuerbach - solo per citare uno tra i tanti - nei suoi Principi della filosofia dell'avvenire definisce l'uomo «come un ente reale, vivente, che, in quanto tale, è calato nelle onde vivificanti e refrigeranti del gran mare del mondo». 67 Utet, Dizionario dei Capolavori, 1987, vol. I, pag. 485. stesso tempo ne falsa la portata vitale: ella non aveva potuto scegliere liberamente, neanche allora, come confessa all'esterrefatto marito Wangler. Ellida, dunque, si propone una condizione di assoluta autonomia di scelta: dev'essere libera da ogni vincolo sociale ed affettivo, da ogni istigazione o subordinazione emotiva, per poter valutare con neutralità (e quindi con giustizia) le alternative’: divenire finalmente «sirena del mare» o «acclimatarsi»®° alla vita di terra. La sorpresa - ammettiamolo, che un po' ci delude - è che Ellida decide per la vita di terra: Ellida fon una scherzosa espressione di gravità): «Vede, professore... Ricorda l'oggetto della nostra conversazione di ieri? Una volta diventati creature terrestri... non si riesce a riprendere la via del mare». Ballested: «Lo stesso è successo alla mia sirena! Con una differenza però! La sirena può morire mentre gli uomini sanno acclo... accla... acclimatarsi, signora Wangel!». Ellida: «Possono farlo se sono liberi». [Ibsen 64] Il dramma di M. è che egli non riesce ad "acclimatarsi" al mondo rettorico: nel suo anelare il mare c'è come un respiro nostalgico, c'è quasi la volontà di un ritorno a casa: noi siamo fondamentalmente esseri marini, e l'aver abitato la terra è un tradimento della nostra condizione primigenia. E' ciò che afferma, tra il serio e il faceto, proprio Ellida”° (che condivide col Nostro quella nostalgia), e lo si evince ancor più chiaramente, e più a proposito, dall'epopea di Itti e Senia, le due creature del mare che popolano l'ultima produzione poetica M.iana. E' triste il destino di Itti e Senia, che nel doloroso risveglio si ritrovano a vivere la morte dei mortali, provenienti - essi, invece - «dalla pace del mare lontano», catapultati - ora, invece - nel mondo della «falsa permanenza», nel gioco retorico della vita quotidiana, nelle sue espressioni più comuni, e anche più apprezzate: il mondo della famiglia, le passioni, i sentimenti, il linguaggio e, in ultimo, l'illusione in alto grado sublime, l'amore. 68 Ellida: «Voglio essere libera quando gli sarò di fronte. Non voglio che pesi tra noi il fatto che sono la moglie di un altro; non voglio trincerarmi dietro il pretesto che non m'è possibile scegliere. Se così fosse, che valore avrebbe una mia decisione?» [Ibsen, La donna del Mare, in Ibsen, Tutto il teatro, Newton, IV vol. pag. 511. 69 E' la "battuta" ricorrente (ed emblematica) di un altro personaggio, il sedicente pittore Ballested, alla quale vengono consegnati il congedo e il compendio del dramma. 70 Bolette (con un sospiro): «Noi dobbiamo contentarci della terra ferma». Amholm: «Dopo tutto, è la nostra sede naturale». Ellida: «Non sono d'accordo. lo ritengo che se gli uomini si fossero abituati a vivere sul mare, o addirittura nel mare, adesso saremmo più perfetti di come siamo. Più buoni e più felici».Arnholm (scherzando): «Ora però quel che è stato è stato. Abbiamo preso la decisione sbagliata e siamo animali terrestri anziché felici creature marine, Mi sembra sia troppo tardi per poter riparare quello sbaglio». Ellida: «Sta dicendo una crudele verità. lo penso che tutta l'umanità lo intuisca e ne provi un segreto rammarico. Creda a me: questo, proprio questo è il motivo più segreto della tristezza degli uomini». Arnholm: «Per esser sinceri, cara signora, non m'era sembrato che gli uomini fossero così tristi come dice lei. Direi, anzi, che prendono la vita sin troppo alla leggera... a volte anche allegramente... ». Ellida: «Invece non è così, purtroppo! La gioia di cui parla lei è la stessa che ci danno alcune serate estive, quando si ha appena il presentimento della notte e del buio. E' questo presentimento che appanna tutta la gioia dell'umanità, come una nuvola passeggera che lascia la sua ombra in permanenza sul fiordo [...]» [Ibsen 36]. Ebbero padre ed ebbero madre e fratelli ed amici e parenti e conobbero i dolci sentimenti la pietà e gli affetti e il pudore e conobbero le pa role che conviene venerare Itti e Senia i figli del mare E credettero d'amare. [PP 79-80] M. - ebreo che rinnega la "terra promessa", filosofo che rinnega il "regno dell'aria" (l'aerostato platonico è la vana speculazione ebbra di sé, e altrettanto vuota) - elegge a dimora persuasa un «terzo regno»”, quello appunto del mare: egli si sente un «perduto figlio del mare» (è inevitabile sottolineare l'iterazione davvero ossessiva con cui il significante "mare" ricorre nelle ultime liriche, con tutte le implicazioni e le sfumature di senso ch'esso assume in un contesto simile); eppure trova la forza di consolare la sua Senia, in un intreccio di poesia, saggezza, speculazione, amore, che prova disperatamente a scongiurare il pericolo (l'angoscia) della morte e della vita ed esprime, nel finale, la speranza di «giungere al nostro mare», di giungere a quel porto, che non è il porto della sicurezza degli uomini, ma paradossalmente proprio «la furia del mare». Il ritorno al mare, col suo richiamo, è infatti vicino: il mare si staglia in tutta la sua forza vitale, il frutto di una conquista sofferta che alla fine conduce alla pace: si staglia, oltre le sponde che lo serrano, oltre le «case ammucchiate/dalle trepide cure avare», oltre il «commercio degli uomini» che il poeta-filosofo disprezza e combatte”: Altra voce dal profondo ho sentito risonare altra luce e più giocondo ho veduto un altro mare. Vedo il mar senza confini senza sponde faticate' vedo l'onde illuminate che carena non varcò. Vedo il sole che non cala lento e stanco a sera in mare ma la luce sfolgorare vedo sopra il vasto mar. Senia, il porto non è la terra dove a ogni brivido del mare corre pavido a riparare la stanca vita il pescator. Senia, il porto è la furia del mare, è la furia del nembo più forte, quando libera ride la morte 71 cfr, S. Campailla: Il terzo regno, introduzione alle PP. 72 Ovviamente, M. non è un misantropo. Il "commercio" ch'egli combatte è in modo esclusivo, quello rettorico. a chi libero la sfidò» [PP 81-82] Ma il ritorno al mare non è il risultato conseguente e gratuito di una scoperta: esso comporta una perdita di innocenza e un duro esercizio di persuasione: "No, la morte non è abbandono" disse Itti con voce più forte ma è il coraggio della morte onde la luce sorgerà. Il coraggio di sopportare tutto il peso del dolore, il coraggio di navigare verso il nostro libero mare, il coraggio di non sostare nella cura dell'avvenire, il coraggio di non languire per godere le cose care. Nel tuo occhio sotto la pena arde ancora la fiamma selvaggia, abbandona la triste spiaggia e nel mare sarai la sirena. Se t'affidi senza timore ben più forte saprò navigare, se non copri la faccia al dolore giungeremo al nostro mare. Senia, il porto è la furia del mare, è la furia del nembo più forte, quando libera ride la morte a chi libero la sfidò» [PP 83-84] Questo stralcio di lirica, non a caso emblematica per tutta la critica M.iana, è il luogo dove la dimensione persuasa si definisce in tutta la sua possibile esattezza e si scioglie definitivamente da ogni difficoltà o ambiguità interpretativa: l'assunto, consegnato a quello ch'è un vero e proprio "pentalogo", è davvero chiarissimo: la persuasione è coraggio, il coraggio di una vita libera ed autonoma, in una parola assoluta. Una vita che non fugge la vita, il suo dolore e le sue contraddizioni insensate (l'insensatezza per eccellenza: la morte), ma che vi s'immerge con un agonismo feroce e mai domo, perché, insieme, consapevole e senza compromessi o deroghe. La Persuasione, infatti, come avremo modo di vedere meglio in seguito, ma come può già qui apparire abbastanza chiaro, non è una categoria astratta e monolitica, che si oppone alla Rettorica n una mitica gigantomachia, così come il Bene al Male nell'immaginario comune e religioso, o la Verità alla Menzogna nella speculazione filosofica e morale: la Persuasione si puntualizza, si concretizza, in una rete di "rapporti di forza" agonistici disseminati in un vasto orizzonte che va dalla famiglia alle istituzioni, dall'interiorità dell'uomo alla sua esteriorità, dall'esistenza privata alla vita pubblica, dalla solitudine al contatto con gli altri: in una sola espressione, è interamente calata nella congerie politica e quotidiana. E' un «Venire a ferri corti» con un avversario così apparentemente invincibile (Davide contro Golia) e così vicino, che è possibile avvertirne il fiato sul collo, una continua incombente minaccia, la forza di una presa terribile che non molla mai. Di fronte alle istanze di dominio dell'apparato (del dispositivo) rettorico, che avvolge gli uomini nelle lusinghiere maglie della eteronomia, il vir oppone un'identica, strenua, determinazione di autonomia, al costo del sacrificio di sé stesso, che è un sacrificio libero, e non vincolato o ingannato, come quello che ci chiede la Persuasione Inadeguata. Non bisogna credere, dunque, che la Rettorica sia un universale che subirebbe, nel tempo, una progressiva realizzazione o delle variazioni quantitative o delle risultanze più o meno gravi, delle occultazioni più o meno rilevanti, atte esse stesse al suo scopo di dominio. Essa, come sistema, non è un universale che si specificherebbe nel tempo storico e nello spazio geografico: non è insomma lo Spirito o l'idea hegeliana, bensì non è mai altro che un rapporto attuale tra uomini, che si concreta in una tensione infinita, dinamica e fisica di poteri, di «relazioni sufficienti». AI "campo" dei poteri (laddove il campo è l'insieme di quelle dinamiche e di quelle forze) si contrappone il campo delle possibilità: /a libertà è appunto lo spazio aperto di tali possibilità, in cui l'esistenza si slancia nelle sue aspirazioni e realizza i suoi progetti. La consapevolezza della Rettorica nel mondo, infatti, non deve chiudere l'uomo nell'amarezza e nel disfattismo di una scepsi e di una prassi nichilistiche, bensì deve richiamarlo alla sua responsabilità di "potere" e di "essere", deve aprirgli e trasmettergli la fiducia nelle proprie capacità umane, nella propria possibile apertura alla Persuasione. E' questo il messaggio di M., che abbiamo fatto nostro. Ebbene, non c'è immagine migliore che rappresentare poeticamente questa lotta e questa conquista come la «furia del mare». A tal proposito, scrive efficacemente P. Amato”: «Per rendere la persuasione un'alternativa vivibile non solo nella scrittura, M. indica all'uomo persuaso il suo luogo: il mare. Nella catastrofe - nel pericolo dell'attimo irripetibile - dobbiamo liberare l'a gire, rifiutando l'angoscia senza scampo del deserto. Il mare è lo spazio del persuaso. Il mare è l'ou-topia, il suo mai luogo privo di confini dove sempre si è stranieri, presenti solo a se stessi, è il luogo dove sentirsi, ovunque - come mai - nella propria casa. Il mare - prima delle due guerre mondiali - è la terra senza leggi, dove padroni non sono gli stati, piuttosto i pirati, dove ogni individuo può affermarsi e non cedere, non più osservato dalla violenza di un'organizzazione che lo trascende. È il territorio del persuaso ormai libero dal se stesso sofferente, unico amministratore della vita donatagli. Per lui ogni azione è la risolutiva, l'ultima, ogni gesto può essere quello estremo. [...] Il mare è il luogo della libertà che M. sogna per la sua vita dispensata dall'agire soffocante che la società pretende ». 73 cfr. P. Amato, L'attimo persuaso, filosofia e letteratura in Carlo M., in Studi Goriziani n. 89-90, pag. 190. Appare dunque chiaro che, con M., ci troviamo di fronte - più che ad una simbologia - ad una vera e propria "fenomenologia esistenziale" del mare”. AI di là del riferimento evangelico, un qualcosa di simile, forse, possiamo riscontrarlo soltanto nella dottrina buddista. Ora, nel proporre i passi che seguono (quasi nella loro interezza, datane l'importanza), non intendiamo certo forzare l'ispirazione o l'influenza che la lettura buddista ha esercitato sulla formazione del pensiero M.iano, specificamente in riguardo al pensiero dell' "ultimo" M.”°. Né vogliamo assumerlo come dato acquisito. Del resto, in base alla documentazione in nostro possesso (e dai pochissimi accenni che si riscontrano nelle opere del Nostro), non saremmo in grado di sincerare se quella lettura (e quindi, quell'influenza) fu diretta ovvero mutuata da fonti di seconda mano”. Resta il fatto, tuttavia, che molte espressioni (e non solo nel loro senso meramente letterale, ci pare) riscontrabili nei testi seguenti (e in special modo, quelle che abbiamo evidenziato in corsivo), possono rinvenirsi - ovviamente riadattate all'atmosfera della speculazione M.iana - quasi pari pari in passaggi fondamentali dell'autore goriziano: invitiamo, anzi, ad un suggestivo raffronto. Troviamo altresì significativa la continua serie di rimandi che l'autore intreccia tra la "dottrina della Persuasione" e il mare appunto, parallelismo ch'è lo stesso adottato dai due saggi buddisti. Dunque, in un passo del Milindapahna”, il Reverendo Nagasena afferma che il Nirvana «ha alcune qualità in comune con cose a noi note»: quattro ne ha in comune proprio con il mare: «Come il mare si libera dai cadaveri, œsì il Nirvana si libera dalle cose cattive. Come il mare è vasto, immenso, non colmato dai fiumi: così il Nirvàna è vasto, immenso, non colmato dagli esseri. Come il mare è la sede di esseri grandi e portentosi; così il Nirvana è la sede di esseri grandi e portentosi, quali sono i santi, che hanno raggiunto l'estinzione. Come il mare è, per così dire, tutto fiorito con i fiori delle sue onde, varie, possenti, innumerevoli: cosi il Nirvana è tutto fiorito con i fiori della purità, della conoscenza, della redenzione, varii, possenti, innumerevoli» [corsivo nostro]. Ma forse ancora più interessante quest'altro riferimento, tratto stavolta da Anguttara”, e che s'intitola - manco a dirlo - La dottrina è come il mare: 74 Una riprova di ciò può fornirci la testimonianza della aspirazione ultima del Goriziano - che può far anche sorridere, ma che è evidentemente frutto di una forte esigenza personale e "filosofica" insieme - di fare il marinaio, una volta terminata la tesi cui stava lavorando. 75 Cfr. la diapositiva F [Autoritratto del 1908] nel supporto iconografico. 76 Sappiamo, ad esempio, che M. si avvicinò al Buddismo per intercessione di Enrico Mreule. Ma cfr. il profilo biografico nel par. 6 del nostro capitolo sulla Rettorica. 77 Parabole Buddhiste, a cura di Burlingame, Roma-Bari, Laterza, 1995, pag. 158. 78 Ib, pagg. 137-138. Così come il mare si abbassa gradatamente, s'inclina gradatamente, si affonda gradatamente: così appunto la Dottrina si apprende gradatamente, si comprende gradatamente, si pratica gradatamente. Questa è la prima mirabile proprietà, che la Dottrina ha comune col mare. Cosi come il mare è chiuso nel suo bacino, senza sorpassare i limiti: così appunto i seguaci della Dottrina sono fermati dalle sue regole, senza trasgredirne i limiti. Questa è la seconda proprietà. Cosi come il mare non soffre un cadavere, ma lo respinge sulla spiaggia, sulla terra, cosi l'Ordine della Dottrina non soffre un monaco, che venga meno ai suoi voti, e lo respinge via da sé. Questa è la terza proprietà. Così come i grandi fiumi, la Ganga, la Yamuna, I 'Aciravati, la Mahi, raggiungendo il mare, perdono il nome e la forma e si fondono in esso: così appunto le quattro caste, i guerrieri, i sacerdoti, i borghesi, i servi, quando rinunziano alla casa per la mendicità, ed entrano nella Dottrina e nell'Ordine del Compiuto, perdono i loro nomi e le loro distinzioni e diventano figli dell'asceta Sakya. Questa è la quarta proprietà. Cosi come tutti | fiumi della terra fluiscono nel mare e le acque dell'aria cadono in esso, senza che il mare aumenti o diminuisca: così appunto molti asceti raggiungono nella Dottrina il Nirvana, senza che questo aumenti o diminuisca. Questa è la quinta proprietà. Cosi come il mare ha un solo sapore, il sapore del sale: così appunto la Dottrina ha un solo sapore, il sapore della redenzione. Questa è la sesta proprietà. Così come il mare contiene molte gemme: cosi appunto la Dottrina contiene molte gemme, quali le quattro contemplazioni, le quattro esercitazioni, le quattro potenze, i cinque poteri, i sette risvegli, il santo ottuplice sentiero. Questa è la settima proprietà. Cosi come il mare è la sede di grandi esseri: cosi appunto la Dottrina è la sede di grandi esseri, quali colui che è entrato nella corrente, colui che raggiunge il frutto della conversione, colui che rinasce solo una volta ancora e il santo che ha raggiunto la santità. Questa è l'ottava proprietà. Queste sono le otto mirabili proprietà, che la Dottrina ha comuni col mare. [tutti i corsivi sono nostri] La bellezza di quest'ultimo passo è coinvolgente, e le stesse affermazioni di M. ci sembrano acquistarne nuova luce, soprattutto se spogliamo la metafora e le conferiamo concretezza umana: ci sembra, anche, che aiuti a discriminare la proposta M.iana da quelle varianti titanisiche e  vitalisiche che pericolosamente le si avvicinano, tradendone lo spirito originario. Verrebbe la tentazione, ad esempio, di assimilare il tuffo di Itti in A Senia ad un più celebre tuffo, quello di Esterina, in Falsetto”, di Montale, poeta di cui certa critica, forse non a torto, si affanna a trovare consonanze col Nostro. Esterina, minacciata dalla «grigiorosea nube» dei suoi vent'anni e dalla «dubbia dimane», pur appare impavida, addirittura sorridente: con «un crollar di spalle» liquida ogni minaccia, del tempo e della vita (abbattendo addirittura i «fortilizi» del destino), e si tuffa nel mare, il suo «divino amico» che l'accoglie come una sirena: Esterina è il simbolo della vita che si realizza, della giovinezza che prorompe e tutto travolge, scrigno di una forza tanto esuberante quanto spontanea e naturale, a cui naturalmente sorridono quella vita e quella felicità tanto agognata da chi appartiene alla «razza/ di chi rimane a terra»5°. Tornando alla felice battuta di Ballested, Montale si sente consapevolmente, e colpevolmente, acclimatato: per lui, l'alternativa alla Rettorica, al «male di vivere», sono la «statua», la 79 Montale, Falsetto, in Ossi di seppia, raccolta contenuta nell'ed. Mondadori Grandi Classici (Milano, 1990) Tutte le poesie (a cura di G. Zampa), pagg. 14-15. 80 «Esterina è creatura che attinge una divina, pagana felicità nell'immedesimazione stessa con la natura, nell'adesione totale e irriflessa alla vita e alla realtà» [Guglielmino]. «nuvola» o il «falco»8', simboli di uno stanco, inappagabile stoicismo, come appare nella sua lirica più famosa”. In Falsetto, invece, si affaccia questa Esterina, alter-ego desiderato e perduto, non attingibile nella sua freschezza, nella sua scorciatoia verso la felicità, attraverso quella «maglia rotta nella rete» dell'esistenza ch'ella ha trovato, ha anzi indovinato, e attraversato con una ingenuità spensierata, vigorosa e disarmante. Ma quanto Esterina è diversa da tti! Rimanendo nella metafora poetica, se ella con una scrollata di spalle si lascia tutto indietro, il mondo e la vita, Itti - novello Atlante - si carica sulle spalle quel mondo e quella vita. Non c'è traccia di spensieratezza in Itti, verrebbe da dire che quasi non c'è traccia di giovinezza, tanto è consumata la sua adesione all'esistenza, tanto è profonda la disperata consapevolezza che lo caratterizza: egli si tuffa (anzi, si rituffa «con più forte lena») nel mare a dare or la patria all' esule sirena, la patria a me stesso e all'uomo abbattuto svelare la via del suo regno perduto,ché ogni uom manifeste le tenebre arcane conosca e vicine le cose lontane. [PP 85] Di una siffatta dolorosa conoscenza («quel che già vidi nel fondo del mare/ i baratri oscuri, le luci lontane e grovigli d'alghe e creature strane»), Itti vuol far dono esclusivo alla sua sirena («Senia, a te sola lo voglio narrare»). La gioia e la naturalezza di Esterina appaiono un miraggio: eppure Itti rassicura: [...]se freddo e ruvido io ti sembri, ma tu lo sai: è per vieppiù andare, è per nutrir più vivida la fiamma, perché un giorno risplenda nella notte, perché possiamo un giorno fiammeggiar liberi e uniti al porto della pace. [PP 86] 81 Facciamo notare che la figura del falco ritorna in M. (ma con tutta un'altra simbologia e significato) e, come osserva giustamente Campailla, sempre più frequente: il critico chiama a testimone una lettera di Carlo a Mreule (quella del 14 aprile 1909) e, ancor più, un esplicito passo della tesi di laurea, dove il Goriziano asserisce che il vir, come appunto il falco e a differenza delle cornacchie, «mantiene in ogni punto l'equilibrio della sua persona». Per Campailla, l'immagine michelstedteriana del falco sta a significare «la libera affermazione della volontà». [cfr. S. Campailla, Pensiero e poesia di Carlo M., Patron, 1973, pagg. 68-69] 82 Alludiamo appunto al Male di vivere [in Ossi di Seppia, cit., pag. 35]. Commentano giustamente Barberi Squarotti - J acomuzzi: «AI male, alla sofferenza senza ragione, cieca, presente sempre nella natura, alla condizione negativa delle cose e dell'esistenza che si rivela nei fenomeni più usuali, non si può opporre, per Montale, che una posizione stoica, di indifferenza, di insensibilità, di rifiuto a lasciarsi coinvolgere nel lamento, nella pena, nella partecipazione sentimentale: essere statua, pietra, roccia di fronte al dolore o nuvola o falco alti nell'aria, del tutto staccati dalla terra e dal suo male». [cfr. Barberi Squarotti - J acomuzzi, La poesia italiana contemporanea, D'Anna, Messina-Firenze, 1963, pag. 257] 83 Cfr. la diapositiva L [Carlo da vecchio] nel supporto iconografico. La senilità è scongiurata: ritorna la gioia e il sogno propri della florida giovinezza, ritorna quella naturalezza, ancor più vigorosa e sublime, perché non ingenuo e impavido punto di partenza, ma coraggioso, consapevole, sofferto punto di approdo. La naturalezza è recuperata, ma come termine di un faticoso lavoro di ricerca esistenziale, che non disdegna di "sporcarsi" col mondo: giunti al «porto della pace», la persuasione proseguirà ultro, e altrettanto spontaneamente le cose si volgeranno al vir®*. Il porto della pace, ch'è la furia stessa del mare, è il frutto dell'esperienza del dolore e della consapevolezza, di una consapevolezza che si conquista attraverso - direbbe l'autore della Bhagavadgita - lo «Yoga dell'azione»: «attraverso l'attività verso la pace», è appunto il motto del Goriziano: la Persuasione conduce al riposo, il riposo di Gesù sulla barca nel mare in tempesta. E proprio ritornando, ad anello, all'episodio evangelico che ha introdotto questo capitolo, vogliamo trarre le provvisorie conclusioni di quest'ulteriore tappa del nostro lavoro, altro tassello di quell'intricato mosaico ch'è M.. Ci avvaloriamo, così, della notazione dell'ottimo Campailla, il quale ci avverte che il riferimento al brano evangelico su riportato si complica di un doppio registro di rimandi, non solo testuali: «l'ideale M.iano del "persuaso" espresso nella conclusione di "Onda per onda" con un'immagine giovannea ("di sé stessa in un punto faccia fiamma") conferma nel lavoro poetico il suo spessore religioso nelle due figure di Itti, il Pesce ( ’IySuc) e Senia (eva): il rinnovato simbolo cristiano del "Salvatore di se stesso" in un'epoca di diffuso quovadismo, e la "Straniera"»®®. Di queste considerazioni, condividiamo tutto: suggeriamo, tuttavia, di non lasciarsi fuorviare dallo «spessore religioso» che il Campailla finisce con l'attribuire al senso delle parole di M.; come lo stesso critico chiarisce altrove, e come si evincerà nel seguito del nostro lavoro, questa non è un'attribuzione o un'illazione ad un'eteronomia che 84 Abbiamo già trovato l'avverbio ultro in una lettera scritta allo Mreule a proposito del "nuovo comportamento" del Paternolli; l'avverbio ritorna altrove, nella sua dizione latina e nella sua traduzione, con una cadenza se non frequente, però significativa: cfr. D 90 «[...] ma la via è nel nulla chiedere giusto per sé e tutto dare ultro [... J»; in un'altra lettera, anch'essa già riportata, M. scrive, riguardo sempre Enrico, che «[...] nessuna cosa della vita, mi sembra, possa trovarti insufficiente, ma che anzi tutta attraverso tutti i perigli debba volgersi a te spontaneamente [... J». Sarà un caso, ma il termine ricorre ossessivamente anche nella Donna del mare ibseniana: Wangel [allo Straniero che è giunto alla loro casa per riscuotere il pegno d'amore di Ellida]: «E allora che vuole? Pensa di portarmela via con la forza? Contro la sua volontà?» Lo Straniero: «No, questo no. Non servirebbe a niente. Se vorrà venire con me, deve farlo spontaneamente». Ellida (trasalendo): «Spontaneamente... » [sl Ellida (fra sé): «Spontaneamente...» [[Ibsen, La donna del Mare, cit. pag. 39 e, per es., anche pag. 40 e oltre] E questa eco accompagna la protagonista, in pratica, fino alla fine del dramma. 85 cfr. S. Campailla: Il terzo regno, cit., pag. 22. 86 Campailla, aggiunge, in una nota istruttiva, che «per la situazione figurativa si pensi ai meravigliosi mosaici della basilica paleocristiana di Aquileia, sicuramente non ignota a M., dove in vaste allegorie Cristo è rappresentato come il mare, e i cristiani come i figli del mare» [ib.]. pregiudicherebbe, anzi pregiudica in toto, la "purezza" dell'atto e dell'essere persuaso, così come lo stiamo portando a definizione. Cristo è esempio di salvezza, ma non è la salvezza: la salvezza è in noi, noi siamo la salvezza a noi stessi. noi, attraverso la lotta, verso la pace, verso il riposo. Riposo che non è un abbandonarsi al «riposo in Dio», come invece affiora, in modo estasiato ed esasperato, in questa pur bella pagina di Edith Stein, che assumiamo ad emblematica - in questo contesto - più come termine di opposizione, che di confronto, con l'assunto del Goriziano, e che riportiamo in larga parte, convinti che, alla luce di quanto detto, una lettura franca e critica del passo possa valere più di qualsiasi commento: Esiste uno stato di riposo in Dio, di totale sospensione di ogni attività della mente, nel quale non si possono più tracciare piani, né prendere decisioni, e nemmeno far nulla, ma in cui, consegnato tutto il proprio avvenire alla volontà divina, ci si abbandona al proprio destino. Questo stato un poco io l'ho provato, in seguito a un'esperienza che, oltrepassando le mie forze, consumò totalmente le mie energie spirituali e mi tolse ogni possibilità di azione. Paragonato all'arresto di attività per mancanza di slancio vitale, il riposo in Dio è qualcosa di completamente nuovo e irriducibile. Prima, era il silenzio della morte. Al suo posto subentra un senso di intima sicurezza, di liberazione da tutto ciò che è preoccupazione, obbligo, responsabilità riguardo all'agire. E mentre mi abbandono a questo sentimento, a poco a poco una vita nuova comincia a colmarmi e - senza alcuna tensione della mia volontà - a spingermi verso nuove realizzazioni. Questo afflusso vitale sembra sgorgare da un'attività e da una forza che non è la mia e che, senza fare alla mia alcuna violenza, diventa attiva in me. Il solo presupposto necessario a una tale rinascita spirituale sembra essere quella capacità passiva di accoglienza che si trova al fondo della struttura della persona [tutti i corsivi sono nostri”. 87 Come ci scrive Fr. Egidio Ridolfo s.j. (curatore della rivista Il Gesù Nuovo di Napoli), con cui siamo entrati in contatto e che ci ha fatto conoscere ilbrano di cui sopra, esso «fa parte del saggio Causalità psichica, che è stato pubblicato negli Annali di Edmund Husserl nel 1922, ma che è anteriore alla conversione [della Stein]. Non abbiamo questo testo, quindi non posso specificare la citazione delle pagine». 4. La Persuasione more geometrico demonstrata. 4a) La felicità difficile. 4b) La differente prospettiva: la premessa maggiore del sillogisma M.iano. 4c) L'uomo bandito da Dio e il filo d'Arianna della Persuasione come Armonia: la lezione di Empedocle. 4d) La Persuasione "al bivio": l'incontro di Parmenide e Cristo. 4a) La felicità difficile. "La morte non mi avrà vivo", diceva. E rideva, lo scemo del paese, battendosi i pugni in viso. Giorgio Caproni Nell'approccio che abbiamo tentato finora, la Persuasione ci si è rivelata in tutta la sua portata reale: non tanto come una dottrina, un ammaestramento, quanto piuttosto come un'esistenza, una testimonianza, che si conquista strenuamente il suo diritto di parola e di realizzazione nel mondo degli uomini: persuasi lo si è soltanto nel concreto esercizio della Persuasione, esercizio che ci costituisce a sua volta come persuasi, in una tautologia non del pensiero, ma della vita, e dunque non vana o eristica, ma veritiera e concreta. La «consistenza» dell'essere persuasi, dunque, la sua "autarchia", si è dispiegata come forte esigenza di autonomia, che non è ripiegamento autosufficiente, non è esplosione (vitalistica, più che vitale) di forze "anarchiche", violente - ovvero, spinte al dominio - e sedicenti superiori, ovvero volte alla conquista di un non meglio precisato oltre dell'uomo (chi si dichiara al di sopra degli uomini spesso vi si ritrova al di sotto...). La consistenza, dunque, anche e soprattutto come coesistenza, come rivela l'etimologia identica dei due termini. E il suo dispiegarsi (abbiamo accennato) dà gioia, una gioia difficile da comprendersi secondo i comuni parametri del buon senso, che confonde la felicità con l'appagamento del bisogno, la realizzazione con la conquista di una dignitosa posizione sociale. Anche Kant provò a destreggiarsi con questo concetto difficile di felicità (o concetto di felicità difficile), nel tentativo di espungerne ogni pericolosa concessione all'istanza eteronoma, ogni elemento spurio che ne contraddicesse o pregiudicasse l'autenticità. Questo riferimento all'autore delle Critiche non è un rilievo marginale, ma si incastona perfettamente - diremmo in modo conseguente - nel nostro tentativo di un'esatta definizione del concetto felicità e di autonomia, all'interno dell'ottica persuasa. Infatti, forse senza neanche che l'autore se ne rendesse ben conto fino in fondo8*, quel concetto rappresenta - a nostro giudizio - il movente segreto e il perno intorno al quale 88 In effetti, Kant sembra affrontare malvolentieri, almeno nella suddetta critica (ma questa è evidentemente solo una nostra impressione), un discorso sulla felicità, condizione ch'egli ritiene sempre in certo modo "sospetta" di eteronomia e che, di conseguenza, "subordina", se possiamo dir così, al dovere, al rispetto, in una parola alla virtù (troviamo significativo, altresì, che Kant consegni tale discorso praticamente soltanto alle pagine che aprono il capitolo Il Della ruota tutta la sua Critica della Ragion Pratica. Il filosofo tedesco parla, più precisamente, di «contentezza di sé» [Selbstzufriedenheit], la quale «nel suo significato proprio, denota sempre soltanto un compiacimento negativo della propria esistenza, per cui si è coscienti di non aver bisogno di nulla»®®. Questa contentezza di sé è il "brivido" dell'intelletto di fronte al mistero della libertà; prosegue, infatti, Kant: «a libertà, e la coscienza di essa come di una capacità di seguire con intenzione preponderante la legge morale, è indipendenza dalle inclinazioni, per lo meno in quanto motivi determinanti (anche se non in quanto influenti) del nostro appetito; e, avendone io coscienza nell'osservare le mie massime morali, essa è l'unica fonte di una contentezza immutabile, ad essa necessariamente connessa, la quale non riposa su alcun sentimento particolare. Tale contentezza si può chiamare intellettuale ». Poco più avanti, la prospettiva kantiana si fa scoperta e definitiva: «...] un compiacimento negativo per il proprio stato [...]è contentezza della propria persona. In questa guisa (e cioè indirettamente) la libertà stessa diviene capace di un godimento che non si può chiamare felicità, perché non dipende dalla positiva presenza di un sentimento e neppure, parlando esattamente, beatitudine Beligkeit], perché non implica una indipendenza completa da inclinazioni e bisogni; ma che, tuttavia, è simile a quest'ultima, in quanto, cioè, per lo meno la determinazione della propria volontà può mantenersi libera dal loro influsso, e quindi, almeno per la sua origine, è analoga all'autosufficienza che si può attribuire soltanto all'Essere supremo». La vera felicità, dunque, sembra essere appannaggio esclusivo di Dio, o comunque di una volontà santa: quella, per intenderci, in cui si realizza la «perfetta adeguatezza [vollige Angemessenheit] dell'intenzione alla legge morale». Nell'individuo santo, questa perfetta adeguatezza avviene per una sorta di «nclinazione spontanea» (e si ricordi il valore che abbiamo accordato al concetto di spontaneità in M.) alla «totale purezza delle intenzioni del volere»; di contro, «il gradino morale su cui si trova l'uomo» è quello di una virtù ch'è piuttosto (bellissima espressione) «un'intenzione morale in lotta» [moralische Gesinnung im Kampfe]. Appare ovvio, dunque, che, per definizione, la santità è una condizione irrealizzabile nell'uomo: essa si profila piuttosto come concetto-limite, o idea regolativa, e comunque esula dal mondo fenomenico, dal mondo «dei costumi». dialettica della ragion pura nella determinazione del concetto di sommo bene, dedicate in particolare alla posizione ed alla risoluzione dell'antinomia della ragione pratica, vertente sul sommo bene). Se, infatti, la virtù è «il meritar di essere felici», tuttavia essa virtù «come condizione, è sempre il bene supremo, non avendo altre condizioni al di sopra di sé», mentre«la felicità è sempre qualcosa che, a chi lo possiede, riesce gradito, però non è buono per sé solo assolutamente e sotto tutti i rispetti, ma presuppone sempre, come condizione [una condizione che Kant si ostina a sottolineare in modo continuo e vigoroso in tutto il corso della trattazione], il comportamento morale conforme alla legge». Poco più avanti, si spinge a dire, nella foga polemica contro l'eudemonia classica (nelle forme dell'edonismo o dell'atarassia, soprattutto), che quelli di virtù e felicità sono due concetti «radicalmente eterogenei». E' ovvio che bisognerebbe, a questo punto, procedere con metodo analitico, e individuare e correggere tutte le ambigue oscillazioni di senso che, nel discorso kantiano, assume il termine felicità [Gluckseligkeit]. Per le presenti citazioni, e per le altre contenute nel corpo del paragrafo, in riferimento a Kant e non "annotate", rimandiamo a Kant, Critica della ragione pratica, (a cura di V. Mathieu), Rusconi, 1993, pagg. 228-245, passim, ovvero - dell'opera - il corrispondente a Parte |, Libro Il, Capitolo Il, Pargg. ill: Della dialettica della ragion pura nella determinazione del concetto di sommo bene).E' lo stesso destino di esilio cui sembra condannata la Persuasione, che ci si mostra anch'essa come una condizione innanzitutto inafferrabile, quindi irrealizzabile, per l'uomo. E quella stessa gioia, tratto distintivo della condizione non-rettorica, appare sempre più come una chimera azzardata, come un complicato esercizio della ragione, nella sua aspirazione di libertà. Non può non colpire, di fatto (ed è questa la più ferrata, nonché la più scontata smentita), come la Persuasione sia sempre destinata allo scacco, quasi fosse perseguitata dalla malasorte. La schiera di Persuasi, che M. elegge; questa schiera di individui «eroico-cosmici» (per dirla con Hegel), questa genealogia della Persuasione (per dirla con la Bibbia), questa «ghirlanda di reincarnazioni», quasi, in cui si realizza BA Persuasione (per dirla infine con Arya Sura, l'autore degli vataka), sembra portare con sé, insita nei propri atti, il segno di una colpa che la condanna ad una sconfitta (la sua voce non viene accolta o compresa), o peggio a una pulsione di morte, per giunta autoinferta, col sacrificio o col suicidio. Questi individui hanno in sé il demone, eppure sembrano lontani dalla felicità: il loro sembra non essere un "demone propizio". Socrate accettò il verdetto di morte, in coerenza col suo dettato; Cristo accettò la Croce, nel suo sacrificio di redenzione; Enrico Mreule non riuscirà a sopportare l'enorme ingiunzione morale che gli assegnò l'amico, e la sua vita si risolse infine in un fallimento”; M. stesso si uccise... Del resto, «gli uomini si stancano su questa via [la via che conduce alla Persuasione], si sentono mancare nella solitudine: la voce del dolore è troppo forte » [PR 53]. La piena attualità della propria autentica natura, che abbiamo designato come entelechia etica, a conti fatti o conduce all'annichilimento, oppure è esposta al forfait. è in gioco la "sostenibilità" della Persuasione. Possibile che gli uomini si stanchino della vera felicità e si accontentino della falsa felicità che la Rettorica propina loro, come falsa sicurezza e falso appagamento? 90 Si tenga presente l'etimologia di felicità, nell'accezione greca di "eudemonia", ovvero - appunto - "eu" (bene) e "dàimon - onos" ("demone, sorte"), ovvero "che ha un demone propizio", quindi "felice, fortunato". Per la questione del dèmone, nella fattispecie in Socrate ed in Enrico Mreule, si ricordi quanto detto supra. 91 Claudio Magris, intervistato sul Corriere del Ticino, riguardo la stesura e il significato del suo romanzo Un altro mare, così riassume - in modo davvero efficace - la dialettica Carlo-Enrico sulla via della persuasione: Intervistatore: «La personalità di M. "bruciata" dal suicidio rappresenta in un certo qual modo il fallimento esistenziale di Enrico?», Magris: «Il suicidio di M. è un problema fondamentale. Certo, sul suicidio in sé non si può dire nulla mai, perché, per capire veramente cosa è successo nel cuore e nella mente di uno che si uccide, bisognerebbe averlo accompagnato fino al passo estremo. Si può dire che i due amici, senza volerlo, si giocano uno scherzo terribile. Da una parte Carlo mostra a Enrico un assoluto, senza il quale Enrico non potrà vivere ma che non riuscirà a raggiungere. Così, in un certo modo, Carlo arricchisce ma anche distrugge la vita di Enrico. Inoltre, forse, il suicidio di Carlo lo lascia solo, toglie a Enrico il sole della sua esistenza. Dall'altra parte, Carlo forse aveva capito che la persuasione che egli insegue, ossia il possesso vero e presente della vita, non può essere teorizzata o predicata (come non si può teorizzare la felicità), ma può essere solo vissuta, e per questo aveva visto in qualche modo in Enrico il suo vero erede, una specie di san Giovanni, colui che doveva realizzare nella vita la persuasione. Ed Enrico, col suo struggente fallimento, dà un colpo mortale a tutto questo». [Sul Corriere del Ticino del 5 maggio 1998, pag. 49]. Questa impossibilità della persuasione è da noi fortemente contestata. Kant aveva escluso la realizzazione di una volontà santa tra gli uomini: M., di contro, individua i protagonisti di questa volontà santa, che da "statica", noumenica, diviene storica e politica: Socrate, Cristo e via dicendo sono la realizzazione terrena di quella volontà, di quella Persuasione; essi rappresentano l'eccezione che smentisce la regola: quel postulato che, appunto, sancirebbe il carattere esclusivamente divino della santità. Eppure, la Persuasione, quand'anche realizzata, sembra tingersi di toni lugubri, di una gioia "masochista", di una condotta schizofrenica che la divide tra una gioia che è dolore e un dolore che è gioia: scrive M., in un noto passo del Dialogo della salute che «finché la morte togliendoci da questo gioco crudele, non so cosa ci tolga - se nulla abbiamo. - Per noi la morte è come un ladro che spogli un uomo ignudo-» [D 39]. Eppure, sotto lo sguardo della Rettorica, il vir sembra davvero passare come do scemo del paese» del frammento di Caproni: lo scemo che - ridendo e «battendosi i pugni in viso» - gridava: «a morte non mi avrà vivo». 4b) La differente prospettiva: la premessa maggiore. I... J foschia d'oro, l'occidente illumina la finestra. L'assiduo manoscritto aspetta già carico di infinito. Qualcuno costruisce Dio nella penombra. Un uomo genera Dio. E'un ebreo dai tristi occhi e dalla pelle citrina; lo porta il tempo come porta il fiume una foglia nell'acqua che declina. Non importa. Il mago insiste e scolpisce Dio con geometria delicata; dalla sua malattia dal suo nulla, continua ad erigere Dio con la parola. Il più prodigo amore gli fu concesso, l'amore che non aspetta di essere amato. [Borges, B.Spinoza Dalla raccolta La moneta de Hierro, 1976.) Eppure, a dispetto della sua complessità, M. sembra liquidare il discorso sul concetto di Persuasione in quel breve capitolo, fatto davvero di pochissime pagine”, che inaugura, dopo la prefazione, il suo lavoro e che si intitola, appunto, in modo perentorio La persuasione. Una sorta di epitome, dove ogni parola - in uno sforzo di sintesi che rasenta l'esoterico - assume un peso ed una portata grandiosi. Tutto ciò che segue - l'affastellarsi di analisi "scientifiche", "ontologiche" o personali sulla Rettorica, l'annoverare gli equivoci ed i pericoli di una falsa Persuasione [«Persuasione Inadeguata »], la critica al sistema in se stesso come «comunella di malvagi» sempre e comunque... - sembra essere, di quel denso capitolo, uno scolio complesso. E' un procedimento, e una capacità di (ardua) sintesi, che - forse, non a caso - possiamo riscontrare in un altro ebreo eretico, che si cimentò in una "geometria" dell'etica: Spinoza. 92 Nella citata edizione maior adelphiana della tesi sono quattro: da pag. 7 a pag. 10, incluse. Avvisiamo che sono queste le pagine da cui traiamo i "virgolettati" relativi alle espressioni autoctone di M.. Ci dispensiamo, così, dal riferirli ogni volta. L'autore dell'Ethica esordisce, parlando di Dio: «Per causa di sé intendo ciò la cui essenza implica l'esistenza, ossia ciò la cui natura non può essere concepita se non come esistente»°°. Dio non ha bisogno di null'altro, che non di sé stesso, per esistere: a suo modo, questa è un'ammissione - permettendoci di renderla con termini M.iani - di una condizione persuasa di Dio. E M., nella sua definizione di persuasione (la "premessa maggiore" ch'egli ci fornisce) - definizione che spicca, sottolineata dalla citazione petrarchesca - sembra rispondere con una eco: «Colui che è per sé stesso (pever) non ha bisogno d'altra cosa che sia per lui (evo vtov) nel futuro, ma possiede tutto in sé». Dunque, il vira suo modo è egli stesso causa suit Nel presupposto, entrambi i pensatori, come dire, si muovono nell'ambito dell'ortodossia: negli esiti, cadono entrambi in una comune eresia fondamentalmente antiebraica: per Spinoza, si tratterà di sconfessarne la Trascendenza: la causalità di Dio si dispiegherà in causalità immanente al mondo, realizzandosi in quel noto "panteismo" che il pensatore di Amsterdam svolgerà con grande rigore (anche "geometrico") e consapevolezza durante tutta la sua vita; per M. si tratterà di sconfessarne non solo la trascendenza (l'uomo, come persuaso, è il dio), ma soprattutto il monoteismo: sosterrà quello che potremmo chiamare un "politeismo della Persuasione", essendo ogni vir dio a se stesso, causa sui, singola (e singolare) natura naturata della Persuasione. Il confronto tra i due pensatori potrebbe trovare sbocchi inauditi (ci siamo limitati alle frasi iniziali delle loro opere); tuttavia ci troviamo costretti a troncare di netto una simile tangenziale al nostro discorso, innanzitutto perché potrebbe essere (data la vastità del raffronto) argomento di un'altra tesi, e poi per non compromettere la fluidità del nostro ragionamento. Che verte, ricordiamolo, sul concetto di Persuasione, così come affrontato da M. nel breve, fondamentale capitolo cui abbiamo accennato. Il concetto di Persuasione: ben detto. Mai come qui, infatti, l'uso del termine "concetto" non si presenta inadeguato. | viri sono scomparsi dall'orizzonte, nella loro pluralità: la Persuasione perde la sua composizione politica, si staglia come un' "entità" perfetta, come la perfettissima sfera di Parmenide, come una monade che abbia chiuso porte e finestre, come l'aleph del noto racconto di Borges. Il Persuaso si disincarna: diviene simbolo senza antropologia o antropomorfismo, segno di una condizione che accomuna l'uomo ad ogni altro essere del mondo sublunare: non a caso, quasi un terzo dell'intero capitolo è occupato da un esempio tratto dall'osservazione fisica: il peso, ch'è tale perché la forza di gravità lo spinge verso una ricerca inappagata 93cf, Spinoza, Etica (a cura di E. Giancotti), Editori Riuniti, 1993, pag. 87. 9% Ci si permetta un rilievo passeggero: questo "bastare a sé stesso" è una connotazione che, in modo singolare, attraversa - come presupposto di estrema qualificazione - gli esiti più alti della speculazione filosofica e religiosa umana di tutti i tempi e di tutti i popoli: il dio degli Ebrei, il Buddha, il dio di Aristotele, il dio di Tommaso, la monade di Leibniz, il dio di Spinoza, la volontà santa di Kante via dicendo sono tutte "entità" che "bastano a se stesse". del suo "luogo naturale" («la fame del più basso»), la cui vita corrisponde proprio in quella discesa, perché - una volta raggiunto il punto della sua soddisfazione - in quel punto la sua vita «cesserebbe d'esser vita», perché « in quel punto esso non sarebbe più quello che è: un peso». Dunque: «Il peso non può mai esser persuaso»®9. La Rettorica si rivela quale condizione condivisa da ogni ente terreno, costretto dalla forza di gravità che lo lega necessariamente alla terra; di contro, la Persuasione non è una aspirazione o prerogativa esclusivamente umana: anche il peso vuol conquistarla. La forza di gravità si delinea come la più patente espressione fisica della Rettorica, e ci testimonia come la Rettorica stessa non sia soltanto una "costruzione" umana, ma al contrario appartenga alla matrice bio-fisica o bio-fisiologica, prima che ontologica, dell'intero universo. Nel capitolo che stiamo esaminando, dunque, si può avvertire quel cambio di prospettiva che annunciammo nell'esordio della nostra analisi: a differenza che nelle lettere e nelle poesie, dove si respira il pullulare della vita persuasa, nel lavoro accademico il Goriziano è più attento a quella che potremmo definire (con qualche concessione agli heideggeriani) un' "ermeneutica esistenziale della Persuasione". O, più esattamente, si propone di ricavare quell'apriori della Persuasione, che ne fondi /a possibilità e i limiti di realizzazione nel mondo fenomenico. E' una prospettiva più povera dal punto di vista esistenziale, rispetto a quella delle lettere e delle poesie, perché più astratta, e dunque più aliena dai nostri interessi, e da quelli dello stesso M., evidentemente. Eppure, una prospettiva più imponente dal punto di vista speculativo, che s'impone nella sua necessità di analisi, se è vero che ogni Weltanschauung, come visione o "intuizione" del mondo, presuppone di necessità un fondamento ontologico, un'immagine concettuale, in cui si rapprenda visivamente il senso di quel mondo. Sotto questo rispetto, M. appartiene ancora al declino di quella "storia dell'essere" denunciato dal filosofo di Baden. In M., nella sua tesi, l'Essere si pone come Persuasione, ed è a partire da questa posizione che si sviluppa, nel corso del suo studio, l'analitica esistenziale, ovvero la diagnostica e la prognostica, apparentemente aliena qui da ogni considerazione 95 Ma cfr. anche la nostra integrazione sul "peso che dipende" e la diapositiva G ĮI peso al gancio] nel supporto iconografico. % Questo stralcio heideggeriano può sancire ed illuminare il senso di questi nostri ultimi passaggi: «La comprensione dell'essere, definita così, in pochi tratti, si mantiene sul piano senza scosse e senza pericoli della più pura evidenza. E tuttavia, se la comprensione dell'essere non avesse luogo, l'uomo non sarebbe mai in grado di essere l'ente che è, anche qualora fosse dotato delle più straordinarie facoltà. L'uomo è un ente che si trova in mezzo all'ente, e vi si trova in modo tale, per cui l'ente che egli non è e l'ente che egli stesso è gli sono sempre già manifestati. A questo modo d'essere dell'uomo diamo il nome di esistenza. L'esistenza è possibile solo sul fondamento della comprensione dell'essere. Nel rapportarsi all'ente che egli non è, l'uomo si trova già davanti l'ente come ciò che lo sostiene, ciò cui si trova assegnato, ciò che, con tutta la sua cultura e la sua tecnica, egli non potrà mai, in fondo, signoreggiare. Assegnato all'ente diverso da lui, l'uomo non è in fondo, padrone nemmeno dell'ente che egli stesso è» [M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, introduzione di V. Verra, Laterza, Bar-Roma, 1989, pagg. 195-196]. morale, della società umana, nei suoi singoli e nel suo complesso, come condizione depotenziata di quello stato edenico annunciato come proprio di «colui che è per sé stesso». Così, dell'energia autentica del vir, in queste pagine, sopravvive solo un opaco barlume, nel tentativo di concettualizzazione, nel titanico sforzo del pensiero, che si districa nel novero di citazioni di cui il breve capitolo in esame è infarcito: citazioni che - almeno nell'intenzione - non appesantiscono, ma che si dispongono quali ausiliari "puntelli di persuasione", nello sforzo di delucidare il senso del peve”. Essi tracciano un confine intorno alla Persuasione stessa: ci muoviamo in un mondo i cui due poli sono rappresentati, rispettivamente, dalla grecità (dalla Grecia di Empedocle e di Platone, e chi fra essi) e la dimensione biblica (l'Ecclesiaste, S. Luca, S. Matteo): è dalla sinergia di questi due poli che, evidentemente, si forgerà e si dovrà evincere il concetto di Persuasione. 4c) L'uomo bandito da Dio e il filo d'Arianna della Persuasione come Armonia: la lezione di Empedocle. Anch'io sono uno di questi, esule dal dio e vagante per aver dato fiducia alla furente Contesa. Empedocle, fr. 31 B 115, 13-1498 Ahimé, o infelice stirpe dei mortali, o sventurata, da quali contese e gemiti nasceste. Empedocle, fr. B 124 Piansi e mi lamentai, vedendo un luogo a cui non ero abituato. Empedocle, fr. B 118 Un'epigrafe informa e precisa il senso e la direzione di tutta un'opera, riassume e anticipa il pensiero dell'autore, dà limprimatur. La Persuasione e la Rettorica si apre®° con una citazione di Empedocle, una citazione da rivalutare, anche in riferimento alla sua amenità: M. chiama subito in causa un personaggio la cui vita e il cui pensiero sono avvolti da un'aura rarefatta di leggenda, un filosofo che si muove in una dimensione di inappartenenza a categorie ben definite (addirittura, più che gli stessi altri presocratici), in un'apparente contraddizione tra il fisico e lo scienziato e il medico, e il sacerdote e il poeta 97 Campailla fa notare che «M. ricorre al greco per sviluppare la contrapposizione tra la forma transitiva di pever (aspettare qualcuno o qualcosa) e quella intransitiva (stare, permanere, consistere)» [nota 7 alla Persuasione, PR 309] 98 La presente citazione, e le altre che seguono nel paragrafo e nel prosieguo della nostra tesi, relative ad Empedocle ed agli altri presocratici, sono adottate secondo la traduzione presente in | Presocratici. Testimonianze e frammenti (a cura di G. Giannantoni), 2 voll., ed. Laterza (4a), 1990. 99 La famosa Prefazione, presente nelle stesura A della tesi (ovvero, quella primitiva, completamente autografa), risulta poi omessa in quella che Campailla chiama redazione C, quella destinata alla lettura del relatore e della commissione dei professori, e che, dunque, «rappresenterebbe la volontà ultima dell'autore». [cfr. nota introduttiva alla Persuasione, PR 304; in particolare, si rimanda proprio alle pagg. 303-304 per un opportuno approfondimento della questione], e il profeta taumaturgo e il dio. Evidentemente, il filosofo goriziano, con questa personalità ibrida, ravvisa una certa affinità di atmosfere e di metodologia non proprio ortodosse. Dunque, inoltriamoci nel sottobosco empedocleo che si dirama in queste e altre pagine del nostro autore. Innanzitutto, una premessa scontata, ma opportuna: M. anche con Empedocle, come con tutti gli autori ch'egli utilizza per supportare le proprie analisi, affila le armi di una propria, personalissima filologia, di un'interpretazione che "pecca" di estrema originalità °: ci troviamo al di fuori di una certa canonica, e sbrigativa, storiografia filosofica (inaugurata da Aristotele, che definì Empedocle, tra gli altri, un «naturalista inesperto »'°'), storiografia che comodamente classifica l'agrigentino in posizione intermedia e mediatrice tra l'essere parmenideo e il divenire eracliteo (al contrario, come sappiamo, M. assegna a pari merito, sia ad Empedocle che a Parmenide ed Eraclito, la conquista della "palma" della Persuasione). Ma analizziamo il frammento empedocleo: L'impeto dell'etere invero li spinge nel mare il mare li rigetta sul suolo terrestre, la terra nei raggi del sole infaticabile!92, che a sua volta li getta nei vortici dell'etere: ogni elemento li accoglie da un altro, ma tutti li odiano. | versi sono attestati da Plutarco!, Il quale commenta: «Empedocle dice che le anime pagano la pena dei loro errori e dei loro peccati [segue il frammento], finché così punite e purificate non raggiungono nuovamente il loro posto e il loro ordine naturale»..'°4 Ci preme innanzitutto far notare (quand'anche fosse solo una nostra impressione: la critica non ne fa parola) la sfumatura che avvertiamo nella scelta fatta da M. di questo frammento: nella "diaspora" delle anime, che espiano una terribile hybris alla ricerca inesausta del «loro posto e del loro ordine naturale», ci sembra adombrarsi quell'ulissismo giudaico (che possiamo integrare a proposito delle nostre analisi sul mare), ci sembra affiorare quell'inquietudine ancestrale di colpa-espiazione, che appartiene alla 100 Emanuele Severino, ad es., che allo studio di Parmenide ha dedicato tutta la sua vita, bolla l'interpretazione michelstedteriana del filosofo eleate come un "colossale equivoco EQUIVOCO GRICE": ma ravvisa proprio in quell'equivoco uno dei picchi di feconda originalità del Nostro. Ci trova d'accordo. 101 Cfr. la già cit. Prefazione. Per il giudizio di Aristotele, cfr. Fisica, 191a - 25: «[...] quelli che primamente filosofarono, indagando sulla verità e sulla natura degli enti, furono tratti, per così dire, verso una via sbagliata, spinti dalla loro inesperienza» [tad. A. Russo, in Aristotele, Fisica, 3° vol. delle Opere, a cura di G. Giannantoni, Laterza, 2001 (VI ed.), pag. 21]. 102 Sono i vv. 9-12 del frammento B 115 [i versi della nostra epigrafe sono immediatamente successivi]. Come nota anche il Campailla, nell'edizione del Diels si legge waedovtoc (splendente), anziché axauavtoc (infaticabile). Abbiamo utilizzato la traduzione contenuta in | P resocratici, cit., pag. 411 [cfr. la nostra nota 9], sostituendo però opportunamente i due termini, 103 De Iside, 361 c matrice profondamente ebraica di M., per quanto egli stesso cercasse con forza di separarsene'. Il popolo ebreo, nella sua tormentata storia, questo condivide con le anime di Empedocle: «ogni elemento li accoglie da un altro, ma tutti li odiano». Ma ovviamente, questa condizione di esilio eterno, così specifico per l' "ebreo errante", si amplifica subito a cifra dell'intera condizione umana: lo nota a suo tempo già Plutarco, il quale in un'altra sua opera afferma: «Empedocle [...] mostra che non soltanto egli stesso ma tutti noi siamo qui come emigrati, stranieri ed esuli... Va in esilio [scil. l'anima] ed è errabonda spinta dal volere e dalle leggi degli dei».'°9 Eppure, queste anime espiano un delitto di cui non hanno in fondo colpa, essendo vittime addirittura innocenti di un polemos che le trascende: quello, universale e perenne, tra l'Amicizia [Phila] e la Contesa [Neikos], le due forze divine che, a questo punto, data la curvatura della nostra interpretazione, ci arrischiamo d'assimilare alla Persuasione e alla Rettorica, così come delineate - nella loro impersonalità e quasi-trascendenza - nella tesi 104 contenuto in | Presocratici, cit., pag. 440 105 In più passi di lettere, M. mostra insofferenza nei confronti della coeva gioventù ebraica, che pullulava a Gorizia (città da tempo immemorabile, data la sua vocazione commerciale, sede di una nutrita comunità ebrea [ma, per ciò, cfr., tra gli altri, A. Arbo, Carlo M., ed. EST, pagg. 4-5 e oltre): anzi, i coetanei ebrei diventano bersaglio di feroce ironia, quella medesima ironia che il giovane filosofo ostenta nei confronti dello stesso apparato religioso ebraico, soprattutto nelle sue forme più esteriori, retrive e "teopompe". Si prenda ad es. la lettera del 29 febbraio 1908 alla famiglia: «Molto piacere mi fece il furto delle corone - era un principio di dissolvimento quale si doveva alla memoria di zio Samuel [probabilmente, Samuele Luzzato]. Rabbia mi fa la reazione degli altri che fanno subito la sottoscrizione - porci - neocattolici! - faranno di nuovo Hanukà [la "festa dei Tabernacoli", nella religione ebraica, appunto] per purificar i tempio? E se la prendono con te questi imbecilli perché non dai il sacro obolo; ma che cosa pretendono? -». [E 295; le esplicazioni in parentesi quadre, riportate all'interno del brano, anche del seguente, appartengono al Campailla, leggermente ritoccate da noi] AI contrario, il Goriziano si mostra interessato al misticismo cabalistico (si legga con attenzione il passo che riportiamo, dato che, tra i tanti importantissimi rilievi, in esso si scorgerà anche l'embrione della filogenesi speculativa del Nostro): «A proposito di misticismo ho in mente una cosa graziosa. Tu sai [M. si sta rivolgendo a "Gaetanino" Chiavacci] che la ragione dell'antisemitismo filosofico (Schopenhauer e Nietzsche) è il razionalismo della religione ebraica (pensa al Pentateuco e a Spinoza!!!) e la mancanza dell'elemento mistico nelle menti ebraiche (Nietzsche dice ‘elemento dionisiaco'; quello che è distrutto da Socrate; osserva le parallele: da Socrate attraverso Platone al misticismo neo-platonico - da l'ebraismo a Cristo). - Ora io sono convinto [...] che l'appunto è giusto [...]; tanto più mi meraviglia l'esistenza di un'intera letteratura cabbalistica [sic, anche oltre], e una diadoché di taumaturghi che finisce [...] col mio bisnonno, il rabbino Reggio, detto il Santo [è Isacco Samuele Reggio, uno dei fondatori del Collegio Rabbinico Italiano; nota di Campailla]. lo voglio sapere qualcosa di più preciso su quella letteratura cabbalistica, specialmente sulle sue origini, poi voglio farmi consegnare dall'archivio i resoconti protocollati di tutte le sedute in cui quel mio bisnonno compì atti solenni di purificazione con mezzi cabbalistici [... ]; peccato siano scritti in ebraico, ci dovrò faticare per capirli bene [... |» [lettera al Chiavacci, del 22 dicembre 1907, E 267-268; le parentesi tonde e i corsivi all'interno del brano sono di M.]. Notiamo, en passant, che Michelstedter (parafrasando Canetti) dell'ebraismo non ha "salvato" la lingua («... peccato siano scritti in ebraico...»); che l'accusa di "razionalismo" ch'egli rivolge al Pentateuco e a Spinoza noi l'abbiam fatta ricadere anche su lui medesimo; e infine il significativo accenno all' «elemento dionisiaco» nicciano, su cui avremo modo di tornare largamente nelle integrazioni sulle varianti deboli della Persuasione. Per tutto questo, ci rammarica aver relegato in una nota un aspetto così importante e complesso della formazione M.iana, spinti da una certa selezione argomentativa (se si volessero approfondire tutti gli aspetti di quella formazione si stilerebbe una tesi mastodontica). Un'ultima cosa: per la cronaca, la famiglia di Carlo apparteneva al ceppo occidentale prevalente nella comunità goriziana, quello ashkenazita [cfr. A. Arbo, Carlo M., cit. pag. 5]. 106 Plutarch. de exil. 17 pag. 607, come recita l'edizione | P resocratici, cit., pag. 410, in cui è contenuto il riferimento. accademica del Goriziano [cfr. supra]. E, sotto questo rispetto, le analogie sono davvero sorprendenti ed istruttive. Vediamole. | due princìpi empedoclei si contendono il mondo, in una lotta infinita che si realizza in una successione alterna di fasi diverse, col ritorno periodico di ciascuna: quando predomina la Philìa, tutte le cose (anzi, le loro radici: il fuoco, la terra, l'aria e l'acqua; in se stesse immutabili, l'una inconfondibile con l'altra, irriducibile all'altra) sono ricondotte all'unità, allo Sfero, l'universo omogeneo, il dio [cfr. fr. B 31]: «d'ogni parte» uguale a se stesso. [fr. B 29; da notare l'affinità di linguaggio col Goriziano] [... ]nei compatti recessi di Armonia sta saldo lo Sfero circolare, che gode della solitudine che tutto l'avvolge. [fr. B 27] Quando invece predomina l'Odio, si ha la disgregazione assoluta, la disarmonia e il conflitto, il «vortice». «Nell'Odio [tutte le cose, le loro radici] sono tutte diverse di forma e separate» [B 21, v.7]: all'inizio del prevalere della Contesa sull'Armonia, «alla terra spuntarono molte tempie senza collo, e prive di braccia erravano braccia nude, e occhi solitari vagavano senza fronte». Questa "anarchia" delle membra, che suscitò parecchie ilarità anche tra i contemporanei di Empedocle, vien quasi riprodotta da M., in forma aneddotica, nel bizzarro dialogo tra l'io e il piede [PR 160-163]. Ma altre simili situazioni si riscontrano in pagine, altrettanto importanti, del lavoro accademico [almeno PR 16] e del Dialogo della salute. In particolare in quest'ultimo: Rico: Ora la bocca non lavora più per il corpo ma lavora per sé, l'occhio non considera più le cose vicine e distanti a difesa del corpo ma si dà alla pazza gioia per il proprio gusto, così l'orecchio, così il tatto, le membra a lor volta rifiutano la fatica, e ognuna per quanto sa e può ricerca e moltiplica quelle cose che le facevano piacere prima nel servizio del corpo - ora che hanno fatto sciopero - e ognuna le ricerca per sé. - [D 49]. Nella situazione contemporanea, caratterizzata dal predominio assoluto della Rettorica/Contesa, «la mala cupidine della vita [...] ha fatto perdere ogni consistenza» a quel «nucleo di disposizioni organizzate» ch'è il nostro corpo: «il corpo se consiste per la coesione delle molecole, perduta la solidità si versa liquido sulla superficie del suolo e fitra in ogni fessura [...]. Noi diciamo del gaudente che è un uomo senza solidità; i nostri padri dicevano che liquescit voluptate » [D 50-51; corsivi di M.]. In questa condizione, «la fame insaziata perdura pur sempre: e la sua legge è il godimento: e ancora le singole parti si disgregano nei loro elementi chimici più piccoli più piccoli [sic]: che ognuno vuol vivere per sé. L'individualità si dissolve infinitamente: e infinitamente fugge il piacere. -» [ib.]. «Ma avviene uno strano fatto: quella dolcezza che c'era prima non c'è più poiché apparteneva al corpo e alla sua continuazione: ognuna delle parti prova delle amare delusioni che minacciano di guastarle la festa » [ib.]; e «chi ha perduto il sapore delle cose è malato » [D 46]. Eppure, in questa confusione disordinata, il «dio pudico» del piacere assicura una certa consistenza: Rico: lo credo che egli [il dio] abbia a mano ogni disposizione del corpo e tutta la varietà delle cose. E benevolo al corpo, egli metta nelle cose che gli sono utili una luce, e la faccia brillare fin quando la cosa è utile - e poi la spenga così che la cosa resti oscura all'animale che ne è sazio. [D 42-43] Questo «dio sapiente spegne la luce quando l'abuso toglierebbe l'uso», assicura una sorta di omeostasi all'organismo, ne scongiura la dispersione, lo fa continuare a vivere come individualità: da questo principio di equilibrio (accenno di Armonia), che ci assicura una consistenza per quanto falsa ed illusoria, si spiega il filo d'Arianna che può condurci alla vera consistenza, quella della Persuasione, Armonia eccellente. Il meccanismo sarà, almeno nelle modalità, il medesimo: «togliere l'uso» delle cose attraverso il piacere, vanificare la forza rettorica del desiderio, perché «più il vano chiede e più bisognoso si rende» [D 58]. AI contrario, il vero piacere giungerà al Persuaso «dalla sicurezza interna della pace» [D 66], quando le cose più non «ci avranno» [cfr. D 38-39]. Questo filo di Arianna, che abbiamo ipotizzato nel Dialogo, si fa decisamente manifesto nelle parole di M. nel suo piccolo ma densissimo saggio sul Prediletto punto d'appoggio della dialettica socratica del 1910, anno della sua morte, e dunque espressione ultima del suo pensiero.” Riportiamo per intero il passo, data la sua estrema importanza, a questo punto: L'unica via di chi permane è la sua forza. La sua forza di non esser schiavo nel futuro, di tener raccolta nel presente la propria vita. Socrate non può che appellarsi a quello che ognuno può aver sperimentato della propria forza, o che almeno conosce indubitatamente necessario, della quale a ognuno son noti gli effetti, e della cui mancanza a ognuno noti i danni. Ed è quella che in rapporto al giro finito dei bisogni elementari, concreti e vicini al nostro corpo, si manifesta cminarli e tenerli nascosti, ognuno col criterio della salute del tutto. La forza colla quale uno insegna alla sua bocca a starsi contenta a quello che è conveniente al bisogno del corpo, e a non correre nel tempo sempre nuove cose mangiando, perciò che la gola ribelle le finga l'ultima felicità sempre via nel prossimo boccone. Per questa forza che la maggioranza degli uomini ha, il loro corpo è un corpo. E quello e questo vicini a ognuno!®, «'Enucleando' il senso e i modi di questa vita elementare, Socrate ha modo di portar vicina la vita lontana [...}>: «egli dà valore alla salute dei bisogni elementari solo come analogia del bisogno della persuasione »'°9 [significativo corsivo di M.]. Alla luce di quanto detto, troviamo incredibile come anche la critica più attenta - alludiamo soprattutto al Campailla e alla Raschini - non abbia sviluppato a sufficienza questa "dritta" che il filosofo goriziano ci consegna in questo importante scritto; noi siamo invece d'altro107 La redazione cui si fa riferimento nella nostra analisi e nelle nostre citazioni è quella contenuta nell'edizione curata da Gian Andrea Franchi, per i tipi dell'Agalev, 1988; ovvero, le pagg. 95-100. 108 Ib. pag. 97, come quella appena successiva. 109 Ib, pagg. 97-98-99 passim. avviso, e cerchiamo di trarne coerente sviluppo, approfondendo ancora il parallelismo con Empedocle. Dunque, c'è analogia tra il bisogno elementare e il bisogno della Persuasione: è come se, in tempi magri, un'immagine sbiadita della Persuasione sopravvivesse nella forza che sottende all'equilibrio omeostatico (chimico-fisiologico) del nostro corpo. Ancora Plutarco, che si sta rivelando anche agli esegeti moderni come uno dei più validi interpreti di Empedocle, ammette che i due principi cosmici dell'Armonia e della Contesa si riflettono in certo modo, secondo il filosofo agrigentino, in ciascuno di noi: «ciascuno di noi, nascendo, è preso e guidato da due destini e demoni [... ]10: cosicché, accogliendo la nostra nascita i semi di ciascuna di queste affezioni e per ciò stesso avendo molteplici anomalie l'uomo assennato si augura bensì le cose migliori, ma si aspetta le altre, e di entrambe si serve evitando l'eccesso»!!!. Certo, evitando l'eccesso. Perché un eccesso di Armonia è foriera di morte almeno quanto un eccesso di Contesa. Nota Aristotele: «...] la Contesa è causa della corruzione non meno che della realtà delle cose; similmente neppure l'Amicizia è la causa della realtà delle altre cose, poiché le distrugge raccogliendole nell'uno»'!7. L'Armonia porta vita, attraverso un processo prima di "distinzione", quindi di "ri- compattazione" degli elementi dalla dispersione discorde; ma porta morte, perché un suo eccesso fa ricadere a sua volta gli elementi in un'omogeneità letale''° ch'è propria dello Sfero (proseguendo nel parallelismo, la Persuasione conduce alla vera consistenza, alla vera vita; ma, a sua volta, raggiunto il suo apogeo, il suo appagamento, coincide con la morte, perché - in quel punto - la vita perde "il suo esser vita", che coincide proprio col conatus, con la deficienza). Di contro, la Contesa conduce alla morte, perché distrugge la consistenza assicurata dall'Armonia; ma porta anche vita, dato che promuove la distinzione degli elementi (delle radici) dall'indistinzione dello Sfero, del dio (la Rettorica, al suo apogeo, per M. fa /iquefare il nostro corpo, nella dispersione puntuale del piacere; eppure essa assicura la vita, che consiste nel retto conatus verso la Persuasione: come detto, c'è analogia tra il bisogno elementare e il bisogno della Persuasione). 10 "{...]la dea Ctonia e la dea Solare dall'acuto sguardo a Discorde sanguinosa e l'Armoniosa dal grave sguardo, a Bella, la Brutta, la Veloce e la Lenta a Vera Amabile e l'Oscura dai neri capelli" [fr. 122] 11 Plutarch. de trang. an. 15 pag. 474 B, come recita l'edizione | Presocratici, cit., pag. 413, in cui è contenuto il riferimento. 12 L'appunto è volto criticamente all' "incoerenza" di Empedocle, ma non per questo motivo c'interessa. Inoltre, perché a nostro parere più consona all'atmosfera del nostro discorso, preferiamo questa traduzione di Metafisica B 4 1000b 10 sgg., contenuta in | Presocratici, cit, pag. 344, alla corrispondente traduzione di G. Reale, nell'edizione della Metafisica da lui curata per i tipi della Rusconi [1993, pag. 113], che è pure l'edizione che teniamo presente nella nostra tesi. 113 Letale, perché compromette il principium individuationis. Quindi, sia per il filosofo goriziano che per quello agrigentino Duplice è la genesi dei mortali, duplice è la morte: l'una è generata e distrutta dalle unioni di tutte le cose, l'altra, prodottasi, si dissipa quando di nuovo esse si separano. [fr. B 17, vv. 3-5] Entrambi, quando parlano di vita e di morte, si rendono ben conto che « è giusto chiamarle [così], ma anche io parlo secondo il costume» [fr. 9, v. 5]. Per entrambi si tratta di definire esattamente il senso opportuno delle parole, e di adagiarsi solo per comodità sul loro senso comune. Per entrambi, ancora, si tratta di tracciare un difficile equilibrio (l'equilibrio del falco) tra le due facce bifronti dell'Armonia e della Contesa, della Persuasione e della Rettorica: per entrambi, nel «retto discorso» [fr. 131, v. 4] sono unificate e armonizzate nell'unità, ad opera dell'Amicizia, le cose divise dalla Contesa." Il difficile equilibrio si gioca tra Phila e Neikos, ed in questo equilibrio consiste il principium individuationis che concretizza la sostanza informe nell'attualità dell'individuo, altrimenti irrealizzabile nell'incongruenza discorde o nell'omogeneità armonica «avvolta dalla solitudine». Empedocle, tuttavia, avverte per quest'ultima condizione una sorta di nostalgia (e si rammenti la nostalgia di Itti per il mare): come visto, l'uomo per lui è come un esule cacciato da un mondo perfettamente armonico ed omogeneo (alla stregua di un'età dell'oro), e deve perciò rassegnarsi a vivere nella realtà dei fenomeni che nascono e muoiono: similmente, nell'individuo rettorico (anch'esso «bandito da dio») sopravvive una non ben definita aspirazione per una condizione edenica di completezza, che non si rassegna, ma che si svia in un desiderio inautentico di appagamento, sbiadito ricordo di quella completezza, come l'amore è sbiadito ricordo della condizione androgina nel noto dialogo platonico. Empedocle, inoltre, condivide con Eraclito e Parmenide (e M. con tutt'e tre) la polemica contro il sapere comune e superficiale, che disdegna la verità dello Sero, si accontenta delle multiformi apparenze delle cose e non perviene ai fondamenti dell'Autentico: gli uomini (che si mettono in «posizione conoscitiva», direbbe il Goriziano) sono come bambini cui sfugge il significato ultimo delle cose. Ed una delle espressioni più alte di questo Autentico è la consapevolezza, che dovrebbe essere una delle fondamentali conquiste umane, di una consustanzialità che attraversa, senza soluzione di continuità, tutti gli enti: proprio l'identità delle cause che regolano le trasformazioni naturali fa dell'universo un'unica comunità dove tutti gli enti, viventi e no, coesistono allo stesso titolo, e dove tutti gli enti partecipano sia degli aspetti divini o eterni (le radici, Amicizia e Contesa) sia degli aspetti (apparentemente) transeunti (i fenomeni): 114 Cfr. Ippolito, ref. VII 31 pag. 261, come recita l'edizione | P resocratici, cit, pag. 415, in cui è contenuto il riferimento. similmente, nella prospettiva che abbiamo adottato, M. - nella sua tesi - allarga la sua dicotomia Persuasione-Rettorica a tutto il mondo delle cose che esistono: il sasso, l'idrogeno e il cloro'', etc., vivono in una condizione rettorica ed aspirano ad una condizione persuasa non meno che l'uomo. Ora, avviandoci alla conclusione di questo complesso confronto, assicuriamo che, ovviamente, non c'è in noi l'intenzione di adagiare la prospettiva M.iana su una matrice di ingenuo "naturalismo dinamico": tuttavia, ribadiamo che questa è altresì una sfaccettatura non secondaria, per quanto interpolata, della sua Weltanschauung, almeno stando al suo lavoro accademico (già meno nel Dialogo, praticamente assente nelle Poesie e nelle lettere). E con Empedocle egli ha più che punti di contatto: ha punti di incontro. Nei presupposti: il filosofo d'Agrigento, al pari del Goriziano, è ben conscio che le cose che si appresta a dire «non sono vedute né udite dagli uomini né abbracciate con la mente» [fr. 1, vv. 6-8; si tenga a mente l'esordio della Persuasione]. E punti d'incontro non meno, anzi soprattutto, nell'aspirazione finale: ch'è quella, in Empedocle, di uomini che tra gli immortali abitando e mangiando delle angosce umane non [saranno] più partecipi, [bensì] indistruttibili [fr. 147]; di uomini «digiuni di colpa » [fr. 144], che aborriranno infine «l'intollerabile Ananke» [cfr. fr. 116] e che infine abiteranno di nuovo un mondo in cui: [... ]erano tutti mansueti e benigni nei confronti degli uomini fiere ed uccelli, e la benevolenza brillava [fr. 130] Ovvero, tradotto in linguaggio M.iano, di uomini che abbiano raggiunto la vera consistenza, assisi allo stesso banchetto al pari degli immortali [gli uomini che si danno da sé la salvezza = gli dèi], in un mondo in cui il rapporto tra gli enti sia quello di un reciproco donarsi, spontaneamente (e si ricordi il valore dell'u/tro). Volendo davvero concludere, un appunto che giunge /ast but not least è singolare come, a fronte di tutto questo, in Empedocle sia individuata, già dai suoi contemporanei, la nascita, anche se non ufficiale, della téchne retorica: suo allievo sarebbe stato addirittura uno dei sofisti più ferrati e temuti, Gorgia. Allo stesso modo, nota già da subito M., la lezione persuasa di Socrate produrrà cattivi discepoli: Platone e soprattutto Aristotele. Ma la questione del "cattivo apostolato" - strano e triste destino della Persuasione - sarà affrontata in modo più opportuno e approfondito nel paragrafo dedicato all' «educazione corruttrice» nella nostra analisi del sistema rettorico. 4d) La Persuasione "al bivio": l'incontro di Parmenide e Cristo. La dottrina assomiglia a due strade. Una attraversa un grande fuoco, l'altra attraversa un grande gelo. Come comportarsi? Si scelga la via di mezzo se si vuole sopravvivere. Proverbio cinese. La Persuasione, negli uomini''5, è una verità, una testimonianza trasversale: attraversa la storia dell'umanità, rapprendendosi in individui non incasellabili in specifiche categorie storiografiche, la cui discriminante non è il tempo, la collocazione geografica o il credo religioso e filosofico e politico. La Persuasione, pur nella sua saldezza e nell'espressione cristallina e insieme inafferrabile del suo contenuto, pur nell'attimo ineffabile che la "17 Il vir è sostanzia, percorre il tempo e il mondo degli uomini, ad esso "si adatta Qohelet: vive, o sopravvive, nella comunità rettorica in un drammatico (ma il dramma è l'agire, c'insegna l'etimologia greca) stato di emulsione!', mentre aspira alla comunità vera, alla agathon philia. Quest'ultima si realizza con la rottura dei labili, ovvero falsamente saldi e sicuri, legami della Rettorica, nella costruzione di legami nuovi, più profondi ed autentici: il vir è venuto infatti a «separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera» [Matteo 10, 35]!!°. Il suo "adattamento", dunque, non è compromesso: la Persuasione è intransigente, severa, anche se talora più con se stessa, che con gli altri uomini. Essa dice al suo vir (il vir dice a se stesso): «Chi non è con me è contro di me, e chi non raccoglie con me disperde» [Matteo 12, 30]. Non ammette repliche, non ammette cedimenti o dialettiche. Non concede appelli o ripensamenti. Il Persuaso non tentenna: è forte come la roccia, risoluto come un dio. La sua forza non è violenza, il suo coraggio non è temerarietà: il suo messaggio è di amore, ma il suo amore non è rassegnazione o condiscendenza al male; il suo amore conosce lo sdegno, è capace di ira, perché è sentimento dirompente, è un sentimento che spezza: il 115 Cfr. PR 13-14; l'idrogeno e il cloro "si suicidano" nell'acido cloridrico, scorgendo nella valenza l'immagine (inautentica) della loro reciproca persuasione. 116 La specificazione, a questo punto, è d'obbligo: infatti finora, nel capitolo, abbiamo inteso la Persuasione (e la Rettorica) come matrice strutturale dell'intero universo: in questo paragrafo, il discorso s'incentra nuovamente sugli uomini, ovvero, sul problema dell'uomo, nella misura in cui l'uomo è (o quantomeno, dovrebbe essere) quell'ente che - dato il suo orizzonte di consapevolezza e comprensione - si "apre" già sempre (o meglio, dovrebbe guadagnarsi già sempre), per una via privilegiata, l'accesso all' "essere persuaso". 17 Ma sul senso di questo adattamento, che non consente malleabilità ma che invoca la "durezza", cfr. la nostra integrazione sulla "variante flessibile" (leopardiana) della Persuasione. 18 Un termine "tecnico", mutuato dall'ambito chimico-fisico, ci aiuta a rendere più chiaro il concetto: come è noto, ‘emulsione indica la mescolanza di due liquidi non solubili tra loro, uno dei quali è disperso nell'altro sottoforma di minutissime gocce [definizione del diz. Garzanti] 19 Nel'affrontare questo punto, assumiamo ad esempio assoluto di Persuasione il Cristo, il vir per antonomasia, secondo le conclusioni dello stesso M.. Per le citazioni che seguono, privilegiamo la fonte del Vangelo di Matteo, data l'importanza che tale Vangelo assunse, come visto, nell' "îÎmmaginario persuaso" del Goriziano. vir scaccia i mercanti dal tempio, perché il tempio è divenuto una «spelonca di ladri» [Matteo 21,13]. Egli dimostra zelo per il tempio, per la propria casa: quello zelo lo divora [Giovanni 2,17]. «Ma egli parlava del tempio del suo corpo» [Giovanni 2,21]. Il vir si mantiene puro per il sacrificio di se stesso, perché il sacrificio acquisti più forza e significato. Fino a quel momento, la sua è «un'intenzione morale in lotta». Infatti, il suo grido, seppur non di vendetta, è tuttavia un appello alla lotta, a non cedere: «Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare la pace, ma una spada» [Matteo 10, 34], dice il vir. Il Cristo - il Persuaso'” - dunque, ci pone dinanzi ad una perentoria dicotomia esistenziale: una ed una sola è la via della Persuasione; tutto il resto appartiene alla Rettorica. Tertium non datur. La soluzione che ci suggerisce il proverbio cinese di cui sopra (di «Scegliere la via di mezzo se si vuole sopravvivere») non è messa in minimo conto: è valutata come situazione di compromesso, di malafede. C'è una sorta di ostinata coerenza che accompagna la Persuasione, dall'inizio alla fine della sua testimonianza. Ora, è proprio su questa comune terra di confine che M. allestisce l'originale incontro di Cristo con Parmenide: in modo significativo, il vertice (o uno dei vertici) della genuina speculazione greca si sposa col vertice della più grande testimonianza della Persuasione in assoluto, nella comune forza e perentorietà del loro autaut'’’. E' solo il caso di accennare che, anche qui, come sempre, siamo in presenza di una "lettura forzata" condotta dal Goriziano sul filosofo di Elea: per la sua comprensione, noi siamo costretti a seguire questa eterodossia. L'impressione che ne ricaviamo è che M. "corregga" (se ci è lecito esprimerci così) l'assunto parmenideo in direzione cristiana, anzi cristologica, ovvero etico-esistenziale; e che, viceversa, corrobori l'ipostasi cristologica con apporti del "metodo" parmenideo, ovvero assicurando a quell'ipostasi una "piattaforma" logico-ontologica. Il testo parmenideo (dunque particolarmente caro a M., come testimoniano le citazioni che ne trae, non solo numerose, ma anche cruciali) esordisce con la narrazione di un viaggio compiuto attraverso la «via del dio»: ogni contorno fisico sfuma però subito nell'allegoria: l'Eleate è scortato dalle figlie del Sole e condotto al cospetto della dea Giustizia, l'Immutabile Legge del cosmo, la verità che si svela. E' proprio la Giustizia che, «benevolmente », rivolge la parola a Parmenide: O giovane, [...] 120 Cfr. la diapositiva E [Volto di Cristo e Schizzi di alberi] nel supporto iconografico. 121 Per una sorta di automatismo mentale, si tende ad associare l'aut-aut M.iano all'omologo conio kierkegaardiano: ma è solo una questione, come dire, "sinonimica": l'aut-aut del filosofo danese non è indicativo di una scelta (essendo la vera scelta quella della fede), non è neanche, a ben vedere, un "o-o": a rigore è un "né-né": né vita estetica, né vita etica. In Kierkegaard, tertium datur. Il terzo termine è, appunto, la vita nella fede. salute a te! Non è un potere maligno quello che ti ha condotto per questa via (perché in verità è fuori del cammino degli uomini) ma un divino comando e la giustizia. Bisogni che tu impari a conoscere ogni cosa sia l'animo inconcusso della ben rotonda Verità [alethéie] sia le opinioni [dóxai] dei mortali, nelle quali non risiede legittima credibilità. [B 1 v 24 e vv. 26-30]. Dunque, in modo rigoroso, ci sono due e solo due "vie", ovvero possibilità, aperte all'esistenza e al pensiero; il filosofo "venerando e terribile" le presenta come rivelazione di una dea, da ritenersi quindi espressione adamantina e necessaria della verità: l'una consistente nel pensare ciò «che è [estin] e che non è possibile che non sia», l'altra consistente nel pensare ciò «che non è [ouk estin] e che è necessario che non sia»; e appena dopo aggiunge, sempre per bocca della dea, che la prima via è quella conforme a verità, della quale dunque si deve essere persuasi [«è il sentiero della Persuasione»], mentre la seconda è impercorribile, perché «il non essere» [to me eon] non può essere né pensato né detto [cfr. frammento B 2 passim]. Quest'ultima è «impensabile e inesprimibile (infatti non è la via vera)», «l'altra invece esiste ed è la via reale» [cfr. frammento B 8 vv. 21-22]. Ora, quello che c'interessa non è tanto indagare l'ontologia rigorosa che segue simili affermazioni: ovvero, le caratteristiche del "ciò che è" (l'eternità, la finitezza come perfezione, l'omogeneità, il vincolo cui è costretto dalla Necessità...) sussunte nella nota immagine della Sfera; anche se sarebbe istruttivo individuare - ma non è neanche molto difficile farlo - certune ispirazioni che il filosofo goriziano mutua dall'essere parmenideo per la definizione del suo "solido" peve’. Quel che ci interessa, piuttosto, è vedere il legame che viene ad intrecciarsi tra Persuasione e Verità, nel senso genuinamente greco del termine, tradito nella traduzione posteriore (ad esempio, già in Cicerone). Heidegger (e forse prima di lui Ortega y Gasset nelle Meditaciones del Quijote) ci ha insegnato che, in proposito, bisogna far ricorso ancora una volta all'etimologia per giungere al cuore della questione: infatti, il termine greco sembra derivare da /anthano che vuol dire "coprire". Da /anthano proviene Lete, che è il fiume della dimenticanza, il fiume che copre. Alètheia, con l'alpha privativo, è il contrario di ciò che si copre: il "non-nascondimento", il "dis-velamento"'8. Ma in cosa consiste quel "velamento", che cos'è quell'oblio? Per M. - ed è qui il senso della lettura forzata ch'egli fa di Parmenide - esso coincide col mondo della Rettorica. La seconda parte della sua tesi di laurea - la pars destruens - è interamente dedicata appunto alla "de-costruzione" dell'inganno rettorico, allo smascheramento del suo dispositivo: la Persuasione si porrà, in quelle pagine, innanzitutto come "dissuasione" 122 Da confrontare, ad esempio, le affinità tra espressioni che connotano il dio-Persuaso di M. e i sémata dell'Essere di Parmenide nel frammento B 7 vv. 7-10 soprattutto. 123 In questo senso, è anche possibile che, ad un orecchio greco, oltre che al "nascondimento", la verità si opponesse all' "oblio": così, si spiegherebbe il legame della Verità con il carattere rivelativo della memoria Imnemosyne], tipico del pensiero arcaico greco, faro principe d'illuminazione per il Nostro. (il valore dell'alpha privativo), come verità negativa, o meglio, che si evince dalla negazione dialettica e puntuale della Rettorica, negazione giocata nel concreto della vita e del mondo‘. Eppure, l'interpretazione M.iana di Parmenide non è, poi, del tutto gratuita o fuori luogo: a ben vedere, lo stesso Eleate autorizza lo slittamento del discorso in prospettiva etica: in lui, l'opposizione tra "essere" e "non essere" (ovvero tra ragione e sensibilità) è così radicale che su di essa egli fonda la distinzione tra due tipi di uomini - appunto, quelli che seguono la ragione e quelli che si fermano ai sensi: il frammento B 6 ne è prova palese; gli uomini rettorici - ci dice M. - assomigliano molto da vicino alla «gente dalla doppia testa» stigmatizzata da Parmenide: uomini che [... ] vengono trascinati insieme sordi e ciechi, istupiditi, gente che non sa decidersi, da cui l'essere e il non essere sono ritenuti identici e non identici, per cui di tutte le cose reversibile è il cammino. [B 6, vv. 7-10 J15. Lo slittamento di cui sopra viene sostanziato con l'opportuno innesto della lezione evangelica: la dicotomia essere/non-essere si svincola dalla strettoia ontologica per ampliarsi nell'apertura etica, secondo la testimonianza del Cristo: le due vie annunciate da Parmenide divengono esclusivamente, o prima di tutto, alternative esistenziali: l'accesso ad esse si avrà attraverso le due porte indicate dal vir: 124 Questo aspetto è stato colto solo in parte da buona parte della critica, e qualora lo sia stato, è stato a nostro parere non esattamente interpretato: Maria Adelaide Raschini, che rappresenta l'approccio della critica cattolica al Nostro, ne desume ad esempio una sorta di «antropologia teologica negativa» (o addirittura «teologia antropologica», per cui vd. oltre) bic, in M. A. M., La disperata devozione, ed. Cappelli, 1988, pag. 138], facendo del Goriziano un redivivo Pseudo-Dionigi. L'appunto, dicevamo, per noi non è corretto: M., come stiamo tentando di dimostrare nella nostra analisi, non appronta una "definizione" per viam negationis della Persuasione: tutt'altro, ed è qui proprio la sua (e la nostra) difficoltà. E' altrettanto vero, comunque, che la "monadologia persuasa" del filosofo goriziano acquista più senso e più nitidezza nello scontro, nell'agonismo con la Rettorica, perché si cala dal piano astratto a quello esistenziale. E' bene ribadire, anche se in nota, questa nostra posizione, e proprio in contrasto con le conclusioni della studiosa su citata: la Raschini, infatti, coerentemente alla sua impostazione, compendia e sottolinea che «l'uomo della persuasione si afferma del tutto negativamente, attraverso la pura negazione di tutto ciò che è finito. Rifiutato il mondo, nessuna categoria mondana gli vale più, vuole per sé la dimensione teologica; tuttavia, avendo respinto, di questa, il contenuto di verità, la dimensione teologica si trasforma per lui nell'atto assoluto del negare: teologia antropologica costruita per negazioni, nella quale l'esigenza mistico-panteistica viene soddisfatta dal puro e assoluto atto del negare». [ib. pag. 125; corsivi dell'autrice]. Come si può vedere, ci troviamo agli antipodi: per noi, il momento della negazione in M. non è assoluto, ma funzionale (ovvero, condizione mediatrice, e non conclusiva) all'affermazione positiva dell'ipostasi persuasa; un'ipostasi che non nega, pregiudizialmente, ogni "finito", ogni "categoria mondana" in toto, ma solo quelle attinenti alla falsità ed al dominio rettorici: in questo non c'è alcuna aspirazione teologica, ultramondana, o peggio anti-mondana, come sembra trasparire dai giudizi della studiosa cattolica; tutt'altro: se il vir nega il mondo rettorico (la precisazione è sempre d'obbligo), lo fa in funzione di un'apocatastasi del mondo umano stesso in una società "globale" (diremmo oggi) persuasa, di cui l'amore e l'armonia riusciranno ad essere le sole leggi. E' questa la potenza, e l'utopia positiva e "programmatica", del messaggio M.iano, come stiamo affermando - sempre, e con insistenza - nel corso del nostro lavoro. 125 Versi importanti che il Goriziano, non a caso, pone ad epigrafe del Il capitolo del suo lavoro accademico: L'illusione della Persuasione [PR 11]. Chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto... Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che entrano per essa; quanto stretta invece è la porta e angusta la via che conduce alla vita, e quanto pochi sono quelli che la trovano [Gesù, nel Vangelo di Matteo 7,1-14]. L'inclusione degli uomini nella agathon philia, nella ekklesìa persuasa, avverrà attraverso l'accesso non privilegiato della «porta stretta», il che vuol dire che comporterà una tempra ed un sacrificio "sovraumani", cioè al limite delle possibilità dell'uomo: l'uomo nuovo dovrà rinunciare alla sua condizione sicura, dovrà rimettere in discussione ed esporre al rischio la propria "stabilità" quotidiana, per aprirsi alla dimensione autentica, all' "attimo carismatico" della Persuasione. Come vir, l'uomo nuovo vive la sua vita in profonda relazione con la Persuasione, già immerso nell’eternità che trascende il tempo nell'attimo della «vita che non si nega», eppure accetta contemporaneamente di indugiare nel tempo del mondo, nella storia, nella carne, per condividere la vita degli uomini, per soffrire e "risorgere" con loro, per essere testimonianza. Nel momento in cui il Persuaso si emancipa dalla sua condizione umana (rettorica), egli realizza la sua condizione umana autentica, la sua entelechia come uomo: la Persuasione è, a dispetto di quanto si sia disposti a credere, la condizione totale dell'uomo, la realizzazione completa e assoluta delle sue possibilità in atto. «Non ti meravigliare se t'ho detto: dovete nascere di nuovo. Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va: così è di chiunque è nato dallo Spirito» [Gv 3,7-8]. Il fatto paradossale è che per conquistare questa sua autenticità in atto, espressione piena ed estrema delle proprie potenzialità, l'uomo deve attraversare il golgota che conduce sulla, o che coincide nella, via della Persuasione '?9. Già solo da questo punto di vista, dunque, già solo nel suo accostamento a Parmenide, la proposta di M. dovrebbe essere costantemente ammirata come esempio di un pensiero così rigoroso e coraggioso da non fermarsi neanche di fronte alle affermazioni più "assurde" e contrarie all'esperienza, neanche di fronte al confronto con i "grandi". In effetti, l'apporto parmenideo, nella prospettiva del Nostro, non si fermerà alla considerazione di una possibilità esistenziale vera, e non filistea, o rettorica; le intuizioni del filosofo di Elea, svolte con lucida logica deduttiva a partire dal paradosso dell'Essere che soltanto ha diritto di essere, coinvolgeranno anche la componente linguistica e "scientifica" che pregiudica un corretto accesso alla Verità: per Parmenide il linguaggio e la scienza (entrambi strumenti della doxa) degli uomini «dalla doppia testa» ne 126 L'eccessivo ricorso al dettato neotestamentario e il tono "ispirato" di certe nostre espressioni rischierebbero di denunciare un appiattimento della Persuasione sull'esperienza cristiana: per scongiurare un simile equivoco EQUIVOCO GRICE, e per ristabilire un certo equilibrio, riteniamo opportuno ricordare che per M. il vir mantiene una sua forte, assoluta valenza autonoma, non riconducibile affatto alla testimonianza del Cristo come figlio di Dio: certo, utilizzare la vita e la parola di Gesù, ci aiuta - a mo' di scorciatoia e secondo indicazioni dello stesso filosofo - a diradare la complessità della dimensione persuasa; ma si tenga sempre a mente il ribaltamento di prospettiva (laica, o - azzardiamo - ebraica) con cui egli si pone di fronte alla sua preferita prosopopea del vir: per dirla in parole davvero semplici, il Cristo - quel Cristo "monofisita" che ricordava Campailla - è soltanto uno della schiera dei Persuasi. E, non per nulla, condivide la sua condizione con un Parmenide o un Empedocle, giusto per accennare ai filosofi appena trattati.rappresentano la via artefatta e deleteria, «il sentiero della notte», la scorciatoia che pretende di assegnare valore alle cose e agli uomini con la vana sostanza dei nomi, delle convenzionali parole poste dagli uomini stessi, immagini di concetti, e dunque copia di copia. La scorciatoia che prende in prestito la genuina aspirazione della Persuasione: quella di vedere le cose, benché lontane, [...] col pensiero saldamente presenti [cfr. fr. B 4, v.1] e la vanifica, perché la risolve in un presente che non è l'attimo del vir, ma l'hic et nunc della storia, dove le cose - sottratte con la violenza al loro "luogo naturale", alla loro condizione persuasa - sopravvivono nelle ipostasi rettoriche di ma falsa consistenza, nelle maglie di relazioni logiche e linguistiche che garantiscono solo una corrotta permanenza, un'illusione di permanenza e autonomia. Le cose, e gli stessi uomini, divengono - direbbe Heidegger - semplice-presenza, oggetti a portata di mano [vorhanden]. Una situazione di hybris, determinata da una sacrilega immissione della temporalità e della alterità nella perfezione sferica dell'Essere, hybris per la quale l'essere [è distaccato] dalla sua connessione con l'essere [cfr. fr. B 4, v. 2] che per Parmenide è peggio di una bestemmia. M. svilupperà con fedeltà e coerenza queste indicazioni dell'Eleate: anche per lui il linguaggio e la scienza (col suo braccio armato, la tecnica) rappresenteranno le estreme conseguenze del feticismo rettorico per la falsa permanenza della "cosa" e del "fatto", in un'oggettività che esercita violenza, perché strumentale e appunto "tecnica". La loro [i.e. degli uomini rettorici] memoria è fatta di [...] cumuli di disposizioni che aspettano le forme consuete per riconoscerle; ed essi riferendovisi con parole non le comunicano, non le esprimono ma le significano agli altri così da bastare agli usi della vita. Come uno muove una leva o preme un bottone d'un meccanismo per aver date reazioni, che le conosce per le loro manifestazioni, per ciò che d'indispensabile gli offrono, ma non sa come procedono, ma non le sa creare - egli vi si riferisce soltanto con quel segno convenuto. Così fa l'uomo nella società: il segno convenuto egli lo trova nella tastiera preparata come una nota sul piano. E i segni convenuti si congiungono in modi convenuti, in complessi fatti. Sul piano egli suona non la sua melodia - ma le frasi prescritte dagli altri. - [PR 112; corsivi di M.] Ma la vera funzione organica della società è l'officina dei valori assoluti, la fornitrice dei 'luoghi speciali' e ‘comuni’: la scienza. Che con l' 'oggettività' che implica la rinuncia totale dell'individualità, prende i valori dei sensi, o i dati statistici dei bisogni materiali come ultimi valori, e fornisce alla società col suggello della saggezza assoluta ciò che per la sua vita le è utile: macchine, e teorie d'ogni genere e per ogni uso - d'acciaio, di carta, di parole. [PR 125; corsivi di M.] Ma approfondiremo la questione a tempo debito, nel capitolo dedicato alla Rettorica. Qui, quel che ci preme evidenziare è che è proprio il suddetto nesso vicinanza-lontananza [quello del frammento B 4] a contessere la trama e l'ordito del lavoro accademico del Goriziano: quel nesso sembra davvero assurgere a pietra limite del corretto rapporto delvir con se stesso e con il mondo e il filosofo individua in esso il perno intorno al quale ruota tutta la sua visione persuasa. L'homo, infatti, sfalsa la giusta prospettiva tra vicinanza e lontananza del/dal vero, alla stregua di un binocolo rovesciato: ritiene di allontanare la morte, che sempre gli è vicina; ritiene di avvicinare le cose, di averle a portata di mano, dando loro una valenza, una strumentalità che invece è lontana dal loro giusto valore. La prospettiva distorta dell'ilusoria persuasione ci crea un presente che è un gigante coi piedi di argilla, dato che si frantuma sotto l'incessante, sempre incombente premere della deficienza, la quale ci differisce puntualmente il riposo della (falsa) persuasione, finta nell'appagamento del desiderio di continuare la vita. Perché non possediamo mai la nostra vita, l'aspettiamo dal futuro, la cerchiamo dalle cose che ci sono care perché ‘contengono per noi il futuro', per essere anche in futuro vuoti in ogni presente e volgerci ancora avidamente alle cose care per soddisfar la fame insaziabile e mancare sempre di tutto. [D 39] L'uomo rettorico, così facendo, ovvero [...] mancando di sé stesso nel presente egli si vuole nel futuro - questo egli non può che per la via delle singole determinazioni organizzate a farlo continuar a voler così anche nel futuro. Egli si gira per la via dei singoli bisogni e sfugge sempre a sé stesso. Egli non può possedere sé stesso, aver la ragione di sé, quanto è necessitato ad attribuir valore alla propria persona determinata nelle cose, e alle cose delle quali abbisogna per continuare. Ché da queste è via via distratto nel tempo. - Il suo avvenire alla vita mortale: il suo nascere è nella altrui volontà; il pernio [sic]intorno cui si gira gli è dato, e date gli sono le cose ch'ei dice sue. [PR 20] Questa condizione differita il dominus se la fa scivolare addosso, mentre essa coglie drammaticamente di sorpresa l'homo. La tecnica retorica preferita dal dominus è la preterizione, perché egli simula una persuasione che non ha, una lontananza che non ha attinto: in questo, egli dimostra di avere una «previsione più organizzata a una più vasta vita», ed è in ciò la sua forza; la debolezza dell'homo è invece nella sua disperata, vulnerabile, contingente "inesperienza" esistenziale. Ragion per cui, l'homo si adatterà a strumento passivo di violenza, mentre il dominus si arrogherà il ruolo di strumento attivo. L'homo, l'«uomo ammaestrato », «è ridotto a non uscir dal punto colla sua realtà, il suo modo diretto è il segno d'una data vicina relazione: simile all'uomo che sogna [...] s'avvicina alle cose lontane per vedere» [PR 113]. Ma egli viene a trovarsi «come il tiratore inesperto accanto al cacciatore [nella metafora, il dominus]»: [...] è il debole che vuole affermarsi là dove il forte s'afferma. Ché questi ha la vicinanza dell'animale lontano nella sua mano e nel suo occhio sicuro; quello vede l'animale in una lontananza che come non è finita pel suo occhio è xrtopocperla sua mano: egli ha negli occhi un'incertezza di punti, nella mano... l'arma. Nella coscienza più vasta la stessa cosa è più reale, poiché riflette quella vita più vasta. Questa lha di più poiché nella sua affermazione ci sono i modi della previsione più organizzata a una più vasta vita, sufficiente a eliminare maggior vastità di contingenze, che ha certa, finita, vicina nell'attimo una maggior lontananza. [PR 20-21] La stessa filosofia, o ideologia (nell'accezione davvero larga del termine), sembra offrire il destro al dominus, escogitare il pretesto di dominio, lo autorizza sostanziandolo di sapere. La filosofia è la versione umanistica della scienza, è la sua giustificazione "ideale": questa ci avvicina (falsamente) le cose attraverso l'esperimento, ci fornisce l'illusione di possederle entro i dettami razionali della formula; quella ci avvicina (altrettanto falsamente) le cose "sublimandone" il valore in concetto, il concetto in idea, l'idea in parola. In questo senso, per M., Platone (il Platone oramai sganciato da Socrate, il Platone del Fedro, della Repubblica e delle Leggi) è davvero il padre di tutti i domini, per giunta scalzato da uno ancor più forte, Aristotele. Quanto il Goriziano scrive a proposito ha una sua innegabile forza di contestazione e di "smascheramento": Ma la necessità per gli uomini è appunto il muoversi: non bianco, non nero [come suggerisce l'aut-aut parmenideo della Persuasione], ma grigio: sono e non sono, conoscono e non conoscono: il pensiero diviene [la temporalità e la differenza irrompono e trasgrediscono l'omousia dell'essere]. | dati per sé non sono niente, dicono gli uomini: noi dobbiamo ora prenderli, considerarli sub specie aeterni, contemplarli, e pensando andare verso la conoscenza. Il valore, la realtà è la via: la macchina che muove i concetti: l'attività filosofica [PR 60-61]. Nella Appendici critiche, l'attacco diviene ad personam, ovvero condotto - volendo continuare l'espressione del Goriziano - contro il deus ex machina dell'attività filosofica: Ma Platone ha bisogno d'aver dagli altri il segno della propria persona, vuol esser per loro il sapiente sufficiente a ogni cosa, e, se non può dare vicine le cose lontane, ma le cose vicine dice e le chiama lontane - perché esse pur siano accette alla corta vista del comune degli uomini, e insieme conservino il nome di cose lontane: di sapienza assoluta. E perciò i nomi che questa sapienza costituiscono, e che rifulsero di tutta la loro luce nella bocca del vero Socrate e del vero Parmenide, devono ora per la loro stessa bocca scendere nel fango a dar bella apparenza all'oscurità [PR 176]. 1277 commesso da Platone. Sarà il vira Sarà il vir a riscattare il «parricidio» di Parmenide ristabilire il giusto equilibrio con le cose, a "riaggiustare" la prospettiva dialettica di vicinanza-lontananza, a reintegrare l'omousia, operando quella che già definimmo la sua personalissima "rivoluzione copernicana" nei rapporti con le «altrui vite» delle cose e degli uomini. Le cose saranno davvero vicine al vir, vicina la stessa morte, nella loro accezione autentica, nel loro valore in atto: il Persuaso ridona valore al mondo, sospende la «relazione sufficiente» con le cose e le sostituisce un rapporto di comunione in atto, che si realizzerà in un reciproco donarsi ultro: le cose, potremmo dire, si "ammansiscono"; avendo riconquistato il luogo naturale che loro compete, acquisteranno nuovo, vero "sapore". Esse «non ci avranno» più, noi non c'illuderemo più di averle, l'avere stesso sarà bandito, perché espressione di coartazione: gli uomini e le cose coopereranno al senso persuaso del nuovo mondo, e la legge sarà quella che gli uomini, anche oggi, chiamano 127 Cfr. Sofista, 241 d3. C. Mazzarelli - curatore del dialogo in Platone, tutte le opere, cit. - fa notare che «la ferita mortale al Parmenidismo è inferta dallo straniero di Elea, uno dei figli spirituali di Parmenide». Notiamo noi che Platone si è riservato il pudore di non metterla in bocca a se stesso o a Socrate. («illudendosi d'averli») amore, o armonia. E così l'essere, per riprendere le espressioni di Parmenide e di Empedocle, si «ricucirà» all'essere, «il simile col simile», «con legami d'amore connettendoli Afrodite » [Empedocle, fr. 87]'”. Scrive M.: Ma (ancora una volta e mille volte!) soltanto se questa vastità di vita viva tutta attualmente, saranno vicine le cose lontane. Soltanto se essa chieda nel presente la persuasione, essa potrà reagire in ogni presente con una sapienza così squisita, ed enunciando il sapore che le cose hanno per lei, costituire la presenza d'un mondo che poi gli uomini dicano sapere o arte o sogno o profezia o pazzia a piacer loro [PR 169]. Così, «l'uomo libero gode dell'altrui vita - poiché tutte [le cose, le vite] egli vede e conosce e ama non per quanto gli siano utili ma per loro stesse» [D 90]. Il Persuaso avrà «la gioia dell'esistenza in mezzo a 128 Non a caso abbiamo indugiato sull'analisi di Empedocle e Parmenide, secondo l'ottica del filosofo goriziano (ci dispenseremo dall'accordare analoga attenzione ad Eraclito, dato che egli sostanzialmente condivide con gli altri due, da questo punto di vista, il senso fondamentale del suo messaggio, che M. fa proprio). Molta critica, infatti, si ostina a semplificare l'assunto del giovane tesista su posizioni schopenhaueriane o leopardiane: le pagine di M. si presenterebbero come una parafrasi, per quanto originale, di motivi analoghi riscontrabili nell'autore del Mondo come volontà e rappresentazione e del poeta-filosofo recanatese (soprattutto per quanto riguarda i Pensieri e lo Zibaldone). Ora, non vogliamo certamente negare l'evidente influenza di queste due ispirazioni (M. lesse di sicuro Schopenhauer e rilesse e annotò più volte i Canti di Leopardi), come non vogliamo negare il ripetersi dei motivi conduttori tra i tre autori: la deficienza con la Volontà (a partire dall'esempio del peso che troverebbe un esempio "siamese" nel Mondo); la polemica antirettorica con la polemica antilluministica e antiborghese di Leopardi nelle Operette o nella Ginestra, tanto per far citazioni ovvie; le medesime riflessioni sulla natura illusoria de piacere, così tipicamente umana; la conseguente (analoga) concezione della vita come «pendolo che oscilla tra dolore e noia»; una certa, affine, disperazione esistenziale in concreto (soprattutto col giovane Leopardi); e via dicendo. E' de tutto palese che M. provi "simpatia" per questi due filosofi; altrettanto palesi ne sono i motivi. Tuttavia, per noi, la questione è più complessa. Cerchiamo di spiegarci: l'orizzonte entro il quale si muove la riflessione di M. è innanzitutto l'orizzonte greco: la sua riflessione nasce dalla lettura e dalla intensa meditazione degli autori tragici e presocratici, e anche di Platone e di Aristotele. M. non solo scrive, ma pensa grecamente. | punto di partenza è la grecità: in Leopardi e Schopenhauer (nel loro "pessimismo") egli avrebbe trovato piuttosto un confortante e corroborante riscontro contemporaneo di una verità che appartiene agli albori della civiltà tragica, verità consegnata già alle beffarde e ammutolenti parole del Sileno: «Stirpe misera e caduca, figlia del caso e della pena, perché mi costringi a dirti ciò che è per te il meno profittevole a udire? Ciò che è per te la cosa migliore di tutte, ti è affatto irraggiungibile: non essere nato, non essere, essere niente. Ma, dopo questa, la cosa migliore per te è morir subito». Ora, il senso del nostro appunto è il seguente: M. non parte dalle riflessioni di Schopenhauer e di Leopardi, ma arriva ad esse attraverso la sua consapevolezza greca (ovvero, tragica), si riscopre in esse - si incontra con esse - sul comune terreno della grecità. E la grecità, nel nostro autore, come nel Nietzsche della Nascita della tragedia, non è un referente culturale e storiografico, non è un passato lontano e irrecuperabile: è un modus vivendi sempre attuale e sempre attingibile. Il Greco, come il Cristo, è l'Uomo par eccellence, il vir; il popolo greco non è (soltanto) il progenitore, ma l'auspicabile rendez-vous dell'umanità occidentale, dell'umanità tutta: Nietzsche conclude il suo capolavoro giovanile con parole di straordinaria bellezza: « Beato popolo degli Elleni! Come deve essere grande tra voi Dioniso, se il Dio di Delo reputa necessari tali incantesimi per guarirvi dalla vostra follia ditirambica!' [...] - Ma un vecchio ateniese, guardando col sublime occhio di Eschilo colui che così parlasse, potrebbe ribattere: 'Aggiungi però anche questo tu, singolare straniero: quanto dovette soffrire questo popolo per diventar così bello! Ora però seguimi alla tragedia e sacrifica con me nel tempio delle due divinità' » [Nietzsche, Nascita della Tragedia, in Opere, cit., pag. 187]. L'occhio di Eschilo diviene lo sguardo di M.: attraverso quello sguardo il Goriziano valutò il mondo, ed accolse chiunque lo accompagnasse sulla via della Persuasione. Anche Leopardi e Schopenhauer. 129 Facciamo notare che, secondo M.r, il ristabilimento della corretta prospettiva lontananza-vicinanza è a suo modo anticipata, ma solo in modo molto vago e inguenuo (come dire: solo per analogia), nell'esperienza artistica: «Una facoltà potente di sogno è quella dell'artista che vede le cose lontane come levicine, e perciò le può dare così ch'esse tutte le cose. Gli sono care non solo le cose vicine e come possano soddisfare un bisogno ma tutte - egli sa godere della luce del sole» [D 89-90]. Se l'uomo rettorico è «malato », perché «ha perduto il sapore d'ogni cosa» [D 46], la salus del vir - la sua salute, la sua... salvezza - al contrario, consisterà nel riassaporare una nuova dolcezza. Perché la Persuasione, come rivela la sua variante etimologica latina, la più bella e forse la più vera, è uno stato di dolcezza. Tuttavia, quella dolcezza appare (apparve a Cristo, apparve a M., appare ad ogni vir) un miraggio, essa stessa una condizione differita. Oggi la Rettorica domina, e il suo dominio è sempre più forte e serrato, è sempre più nascosto e plausibile. Siamo ancora in un periodo di esodo. La "pasqua" della liberazione è rimandata. Il mio tempo non è ancora venuto; il vostro tempo invece è sempre pronto. Il mondo non può odiare voi, ma odia me perché io testimonio di lui, che le sue opere sono malvagie. Salite voi a questa festa, io non vi salgo ancora, perché il mio tempo non è ancora compiuto. [Giov. 7, 6-8] Nel capitolo sulla Rettorica, analizzeremo le radici di questo odio e l'incompiutezza di questo nostro tempo, così come apparvero allo "sguardo eschileo"'*' del Goriziano. appaiono nella loro reciproca relazione di vicine e di lontane» [PR 113]. Ma, appunto, quello artistico è un sogno non meno illusorio e fallace del "sogno" rettorico. 130 Persuasione > per + suav(itattem: condurre (attra)verso la dolcezza. Già Aristotele, però, intese quella dolcezza come escamotage retorico, come dolcezza di parole, per attrarre a sé l'uditorio, per lusingarlo, ed assicurare una posizione vincente all'oratore. Siamo nel cuore della Retorica aristotelica, per l'analisi della quale rimandiamo al seguito del nostro lavoro. 131 Cfr. quanto da noi detto supra, in nota 120. Intermezzo. Notò che essi collegavano le questioni scientifiche con quelle che riguardavano l'anima, e a momenti pareva che toccassero il punto essenziale, cioè quello che a lui pareva tale, ma subito se ne allontanavano e s'immergevano nel campo delle distinzioni sottili, delle riserve, delle allusioni, delle citazioni, dei richiami alle autorità, e allora gli riusciva a stento di capire il senso del loro discorso. Considerazioni di Levin, in Anna Karenina La Persuasione non soggiace ad alcun atto apprensivo, sfugge ad ogni concettualizzazione: è alla disperata ricerca di una propria, peculiare, semantica, di un «linguaggio rappresentativo» [Piovani] che ne dipani il velo di Maia. Condividiamo con M. questa difficoltà, e con M. siamo giocoforza spinti ad una serie di riferimenti prismatici ed aleatori, che chiamano in causa autori e dottrine, espressioni artistiche e risonanze filosofiche, anche "alternative", che corrono il pericolo di franare in pastiche, o quantomeno di mostrarsi quali fili sospesi ed equivoci, difficilmente riassettabili in un nodo stretto e sicuro. La cosa sconcertante è che questa situazione di stallo ha insita una sua ineluttabilità. Socrate medesimo, uno dei vertici assoluti della Persuasione, in fondo, non trovava risposta al suo ti estì, sciogliendola in un'aporia esistenziale che trovava esclusivamente nella sacra finitudine dell'uomo la propria soluzione. Allo stesso modo che per Socrate, tentare d'evincere dalla scrittura magmatica di M. la definizione "esatta" della valenza del suo essere persuasi varrebbe press'a poco quanto chiedere ad un credente di rendere ragione della propria fede. Montale avrebbe risposto: «Non chiederci la parola che squadri da ogni lato / l'animo nostro informe, e a lettere di fuoco / lo dichiari e risplenda come un croco / perduto in mezzo a un polveroso prato ». Eppure, proprio il riferimento alla fede (riferimento da assumere però con molta cautela, ché può dar adito a pericolosi equivoci) può contribuire a sostenere, almeno un poco, e seppure in un chiaroscuro di affinità e divergenze, lo scandaglio ermeneutico che stiamo tentando; sotto questo rispetto, ci appelliamo alla testimonianza di uno dei cristiani veramente onesti che siano mai vissuti, Soren Kierkegaard!'*?. In effetti, non sarebbe difficile riscontrare suggestivi punti di contatto tra il «cavaliere della fede» e il vir innanzitutto, i due filosofi condividono la polemica contro l'«individuo sognato da 132 E' assodato che M. non conobbe l'opera di Kierkegaard, anche in virtù della tardiva diffusione e fortuna che essa ebbe in Italia (e non solo), data la difficoltà della lingua. Non è improbabile, tuttavia, che il giovane studioso abbia assimilat elementi o atmosfere kierkegaardiane attraverso la mediazione e il filtro dell'opera teatrale di Ibsen. [Ma cfr. anche S. Campailla, Pensiero e poesia..., cit., pagg. 30-31] Inoltre, si noterà, nel seguito della nostra trattazione, in particolare nel capitlo riguardante la Rettorica come specifiche "categorie" kierkegaardiane - l'angoscia, la disperazione, la scelta, il salto e via dicendo - risulteranno efficaci strumenti euristici nell'affrontare il complesso discorso della Rettorica connaturata all'uomo. 133. imbastita in un noto Hegel» - tanto per intenderci, quello della gustosa scenetta a tavola passaggio della Persuasione [PR 89-91]: borghese che (notiamo en passant), forte della sua logica ferrea della sicurezza e dello stato («la botte di ferro», dice il Goriziano), riesce a controbattere punto per punto, da consumato sofista, le obiezioni, che M. gli propina cercando invano di farne vacillare la speciosa logica rettorica (invincibile se affrontata sul suo stesso campo d'azione). Ora, è risaputo l'astio del filosofo danese contro il sistema hegeliano, tanto che non è opportuno neanche soffermarcisi; analogamente, M. diagnostica la «copertura ideologico-teoretica»'°* della società rettorico-borghese proprio nella hegeliana dottrina dello Stato etico, che trova il suo corrispondente nella copertura ideologico-giuridica, rappresentata dal Codice austriaco'*. Contro la pretesa razionale, necessaria e totalizzante di Hegel, che risolveva l'individuo nei vari momenti dello spirito oggettivo (l'eticità, la vita politica, lo Stato), Kierkegaard fa valere la dialettica (che non è dialettica) del paradosso, del singolo, dell'autaut che sfocia nello scandalo della fede; similmente, all'«individuo cacanico»'°, M. oppone le ragioni del vir, altrettanto "scandalose", agli occhi della comune ragione. Entrambi - il cavaliere della fede e il vir - cercano la gioia della propria realizzazione esistenziale, gioia che, ancora entrambi, sperimentano come paradosso, perché l'assurdo è che «a felicità eterna di un uomo sia commensurabile con una decisione presa nel tempo», come scrive Kierkegaard in un bel passaggio del suo Diario. Costui, analogamente a M.,ascrive la possibilità di attingere quella gioia ad un atto di coraggio, anche se per lui - ed è qui il discrimine essenziale - quel coraggio è piuttosto il «coraggio della fede»: «Occorre [...] un coraggio umile e paradossale per poter ora affermare tutta la realtà temporale in virtù dell'assurdo e questo è il coraggio della fede», come asserisce in Timore e tremore. Frase sottoscrivibile da M., anche se l'accenno pregnante alla fede si mutuerebbe, senza ombra di dubbio, nell'asserzione di autonomia persuasa, creando un piano parallelo e inconciliabile di valutazione dell'esistenza umana, seppur accomunato dalla forte esigenza "realizzativa" del singolo o del vir che sia. 133 Cfr. la diapositiva N [La botte di ferro] nel supporto iconografico. 134 Cfr. A. Negri, Il lavoro..., cit, pag. 26 135 In pagine importanti della sua tesi di laurea, nella sezione dedicata alla Rettorica nella vita, il giovane filosofo fa esplicito riferimento, in nota, alla Philosophie der Geschichte di Hegel, di cui - ci avvisa - non tradurrà le citazioni, poiché dispera «di poter riprodurre in italiano il loro ineffabile callopismatismo » [PR 92-93]; poche pagine più avanti [cfr. 99], un altro riferimento esplicito, stavolta al codice austriaco, che sancisce/garantisce (ma il condizionale sarebbe d'obbligo) che «ogni uomo ha per natura diritti già da sé stessi evidenti alla ragione». Il riferimento è, ovviamente, polemico, di una polemica che si sostanzia anche e soprattutto nel richiamo reciproco, e non nascosto, tra il codice e i passi hegeliani appunto citati nelle pagine appena precedenti. [ma per un'analisi più approfondita, cfr. il nostro capitolo sulla Rettorica] 136 Cfr. A. Negri, Il lavoro..., cit., pag. 16. 68 Ancora, il cavaliere della fede (Abramo) soffre l'incomprensione della massa, perché vive un rapporto speciale con l'Assoluto: appare come un assassino, mentre invece - a suo dire - egli compie soltanto un sacrificio che gli viene richiesto da Dio. Il suo è, dunque, un dramma di incomunicabilità, che condivide - ma solo apparentemente - col vir: infatti, per entrambi, l'istanza realizzativa si risolve in una ricerca solitaria, l'uno di Dio, l'altro della condizione persuasa. Tuttavia: analogia di presupposti, ma differenza totale di esiti: al dialogo "monogamico" che apre il singolo a Dio (gli fa dare a Dio del "Tu") ma che gli preclude l'orizzonte "politico" («il segreto della vita è che ciascuno deve cucire la sua propria camicia», recita una massima kierkegaardiana), l'individuo persuaso - all'apice del suo percorso difficile sulla via della Persuasione, ch'è l'entelechia etica - preferisce la relazione plurale. Il che è come dire che lorizzonte etico e politico, la cui liceità vien prima messa in discussione e quindi definitivamente annichilita dall'atto di fede, è invece il presupposto essenziale dell'agire persuaso: l'eteronomia dell'assurdo comando divino di uccidere Isacco viene condannato dal vir sia in quanto eteronomo, sia in quanto (e soprattutto) lesivo della dignità, prima che della persona, dell'altro. Certo, quando Kierkegaard scrive "morale" vuol far intendere l'universale (il Generale) hegeliano: eppure, il sacrificio dell'altro non ha attenuanti, per quanto l'amore che ci lega a quell'altro possa superare noi stessi, e quindi valorizzare in maniera estrema quel sacrificio. Insomma, a fronte della visione "veterotestamentaria" che ancora avvolge l'assunto kierkegaardiano, e che lega il credente ad un Dio-che-mette-alla-prova e pretende assoluta dedizione (il sacrificio di Isacco) in un rapporto di insostenibile disperazione, M. aggiorna la propria prospettiva - rendendola ancora più personale - in direzione neotestamentaria, di un (Dio)Cristo incarnato che non chiede l'altrui sacrificio, ma sacrifica se stesso, in un progetto di redenzione e perdono. Lo stato di grazia divina raggiunta da Abramo, allora, perde di senso a confronto dello stato di "grazia umana" di cui il vir è scrigno e portavoce. O, quantomeno, si pone su un altro livello di senso: di qui la cautela annunciata. Incomunicabilità, dunque. E' questa vicendevole «impenetrabilità degli spiriti», come la chiamava Croce, questa impossibilità di completa osmosi o "simpatia" razionale ed emotiva che sembra compromettere ogni possibile ricerca (in senso ampio) condivisa, ogni comunicazione autentica ed integrale con gli altri a riguardo delle proprie esperienze fondanti: un'impenetrabilità che potrebbe facilmente degenerare in un'anarchia pericolosa del pensiero e delle verità, ma che allo stesso tempo ci protegge, non ci rende completamente esposti all'altro, e dunque vulnerabili. Una comoda corazza rettorica, così avvolgente, così sicura, così esclusivamente nostra. Il Persuaso avverte il bisogno di svincolarsi da quell'ingannevole egida, di tentare un punto di incontro, di recuperare un orizzonte condivisibile, di senso e di esistenza, perchsolo nella comunione con gli altri si realizza la vera felicità, e non nelle zone di franchigia della Rettorica. La posta in gioco è immensa: la scommessa è la trasposizione "urbana" e umana della scommessa di Pascal, e addirittura più avvincente, perché più pericolosa, essendo in gioco non la felicità in un'altra vita, presunta o vera che sia, bensì la felicità nel mondo che abitiamo e nell'esistenza che conduciamo, ché solo essa, qui e ora, ci appartiene '?”. La schiera dei Persuasi è tale perché ha attinto questa verità: la loro forza è nell'aver mosso il primo passo verso quell'incontro con gli altri, fondando quel loro atto nel sacrificio di sé, che è più un donarsi che un sacrificarsi, un atto gratuito - presupposto ineludibile - che non pretende di essere contraccambiato, perché conosce e perdona la debolezza e la miseria degli uomini, e pur accorda loro la fiducia, la persuasione appunto: «l'attività che non chiede è il beneficio, che fa non per avere, ma facendo dà» [PR 42]. Scrive bene Eugenio Garin", a questo proposito: «Il consistere [ovvero, la Persuasione] è veramente il salto oltre il mondo della violenza, dell'asservimento, verso la vita vissuta non contro, ma con gli altri e con le cose». 137 Forse questa allusione, velatamente critica, al pari non rende giustizia alla portata autentica del tentativo di P ascal: che è proprio quello di conquistare profondità e felicità all'esistenza umana, nel mondo, seppur fondandola nell' "azzardo" trascendente (cfr. il famoso pensiero 377, su quell'essere "nobile" ch'è l'uomo, "canna che pensa" [P ascal, Pensieri a cura di P. Serini, Mondadori], e lo si integri appunto con l'argomento della "scelta di Dio" [cfr. pensiero 164 "Infinito, nulla", ib. pagg. 123 - 129]). «170. Obiezione. Coloro che sperano nella loro salvezza sono per quest'aspetto felici, ma, in cambio, soffrono per la paura dell'inferno. Risposta. Chi ha maggior motivo di temere l'inferno: chi ignora se ci sia un inferno e vive nella certezza della dannazione, se c'è, oppure chi vive nella sicura convinzione che c'è un inferno e, se questo esiste, nella speranza di salvarsi? » [ib. pagg. 130-131] Diversamente, la Rettorica della fede (nelle posizioni e nelle istituzioni che ha assunto) ha sempre e volentieri strumentalizzato l'argomento della "scommessa" come alibi di una promessa o di una dannazione eterna; alibi volto - in questo gioco angoscioso - a svalutare la componente "terrena" ed autonoma del credente, e funzionale ad una migliore "gestibilità" dello stesso, in coerenza con la propria logica di dominio delle coscienze e soprattutto dei corpi. 138 E, Garin, Intellettuali italiani del XX secolo, Roma, Ed. Riuniti, 1974, pag. 98. 139 Due spettri si aggirano nella critica M.iana, e rispondono ai nomi di Giorgio Brianese ed Emanue Severino; quest'ultimo elogia la tesi del primo come «lo studio migliore oggi esistente in Italia sulla filosofia di Carl M.». Brianese, in un passaggio tanto preliminare quanto fondamentale della sua tesi, scrive: «M. pensa una sola cosa: l'autenticità dell'esistenza, che egli connota come esistenza "persuasa"; oltre la quale è la "rettorica", la valenza inautentica dell'esistere, la quale va smascherata come una situazione che bisogna oltrepassare. Nell'oltrepassamento della rettorica va rintracciato l'unico dovere al quale l'uomo è indubbiamente chiamato. E tuttavia M. resta, suo malgrado, prigioniero di quella che egli crede sia l'inoltrepassabile polarità di persuasione e rettorica. Prigionia che discende, primariamente, dal permanere tanto della persuasione come della rettorica all'interno della logica del dominio e della violenza. Con l'unica differenza che la rettorica è inesa da M. come quella modalità depotenziata della volontà che non sa conseguire quello che vuole (sì che il suo possesso è, dal punto di vista della persuasione, una mera illusione di possesso), mentre la persuasione è quell'atto della volontà che mette in opera il massimo del dominio concreto (anche se va chiarito sin d'ora che, nell'atto stesso in cui tenta questa realizzazione, la persuasione attua pure l'annientamento dell'esistenza). Anche se, esplicitamente, la persuasione intende porsi come toglimento radicale della rettorica, tuttavia l'atto decisivo del persuaso non esce dalla logica volontaristica che caratterizza la rettorica (perché è l'atto con il quale il persuaso vuole il dominio più vasto); e dunque anche la sopraffazione non può che ripresentarsi come figura del dominio, della separazione, della violenza, la sua differenza con la rettorica consistendo unicamente in questo: che essa ottiene ciò che quella meramente si illude di o D La morte di Cristo e di Socrate vale, così, più di mille risposte all'interrogativo "che cos'è" il bene. Itti, l'ipostasi autobiografica di M.'‘°, che si rituffa nel mare, è lo schiavo platonico che torna nella caverna, sapendo di rischiare il linciaggio, eppure desideroso, più di ogni altra cosa, di comunicare la verità ai suoi sfortunati compagni e condividere con loro la gioia di quella conquista, foriera di liberazione. Il dramma, allora, della fiducia disattesa? Nient'affatto: la sofferenza è nel cammino di rinuncia di sé che porta all'atto del donarsi, non nell'atto stesso, o ad esso posteriore: il Persuaso, giunto all'apogeo della sua consapevolezza, non si aspetta alcuna risposta dagli uomini, non si attende adesioni, né apprezzamento: è una possibilità che non pone neanche in conto. La sua gioia non è conseguente al sacrificio, è nel sacrificio: una gioia paradossale e insensata ad uno spettatore retorico, pago e cinico, e che invece, nell'ottica persuasa, rappresenta la discesa dall'Iperuranio di quell'idea di bene, vero e bello che si fa carne e sangue, consiste, permane in eterno presente, in un attimo che trascende il tempo, nelle persone che la vivono fino in fondo. Gli dei, e le idee, finalmente, scendono e vivono tra gli uomini. Attraverso l'attività verso la pace. L'«acerbità» di M., dunque, non è la mancata refrattarietà filosofica che lamenta il Piovani''; se proprio di acerbità della Persuasione si deve parlare nel ottenere. Il persuaso, non meno del rettorico (ed anzi: molto di più di lui) permane saldamente nell'ambito della volontà di potenza, proprio perché "persuaso" è colui che si propone la messa in atto della maggior violenza al fine di ottenere il massimo del dominio: il dominio della totalità. Ed è tuttavia, il persuaso, un trionfatore che non si avvede dell'essenziale incongruenza esistente tra ciò che ci si propone di ottenere (il dominio del tutto) e i mezzi messi in opera per il conseguimento del voluto (il raggiungimento di una unità-identità del tutto che blocca definitivamente la pretesa stessa del dominio). Donde l'inevitabile dello scacco e il suicidio». [G. Brianese, L'arco e il destino. Interpretazione di M.., Abano Terme, Fravisci editore, 1985, pagg. 10-11; | corsivi sono dell'autore del brano, che ce li ha assecondati] Il nostro dissenso, rispetto tali conclusioni, è totale: il critico e il suo mentore, evidentemente, confondono il vir col superuomo nicciano, e addirittura nell'accezione più becera, quella della vulgata nazionalsocialista. Per una lettura opposta, e a questo punto salutare, del messaggio M.iano consigliamo il bellissimo testo di Aldo Capitini, Elementi di un'esperienza religiosa (ora disponibile nell'ed. Cappelli, 1990). Ma consigliamo anche di cfr. il nostro appunto sulla "variante" nicciana e le conclusioni alla nostra tesi. 140 cfr, S, Campailla, Pensiero e poesia..., cit., pag. 85. 141 «Il fatto è che il ‘caso M.', nella dimensione in cui è veramente tale, non riguarda tanto la cronaca di una vita interrotta o di una fortuna critica mancata, quanto una storia da cui ogni storiografia rifugge: la storia dell'acerbo come tale. Per ogni storia, l'acerbo è il momento germinale di una maturazione che si annuncia e si attua. Di fronte a vite eccezionali, che si realizzano nell'acerbità scegliendola o accettandola come unico spazio temporale, bruciando nella brevità l'interezza vitale, la storia è disorientata. Da un lato deve registrare una maturità precoce, dall'altro deve costatare i limiti insuperabili, biologici, psicologici, intellettuali, di quell'acerbità culturale e biografica. La filosofia di M. è stata poco ‘storicizzata' proprio per questo: la storia dell'acerbo è poco storicizzabile. [...] Ma non bisogna farsi troppe illusioni: l'acerbità rimarrà un ostacolo spesso invincibile alla coerente storicizzazione e continuerà ad invitare, con seduzione tentatrice, a un'esegesi che trovi sistematica coerenza unitaria anche dove essa non può esserci» [P. Piovani, M.: filosofia e persuasione, cit., pp. 212-213]. L'autorevole giudizio del Piovani, condivisibile o meno nella sua sostanza, ma che ammette concessioni anche a dispetto della matrice filosofica che lo fonda, si riflette purtroppo (ovviamente volgarizzato) nella cattiva "Storia della fortuna" M.iana. Volendo, solo a facile riprova, dare una scorsa ai famigerati manuali scolastici, si potrebbe notare come il giovane goriziano risulti malamente emarginato sia dalla storia ufficiale della filosofia - evidentemente perché ritenuto "acerbo" come filosofo, e come tale delegato ai colleghi di lettere - sia dalla storia ufficiale della letteratura - Goriziano, essa consiste piuttosto nel fatto che egli si lascia prendere dallo sconforto, da un'amara perplessità che lo combatte e lo sfianca'*: il Persuaso, di contro, non si sconforta, anzi conforta (il verbo da riflessivo si traduce in transitivo), oltre e dopo tutto, sempre e comunque. Quell'equilibrio di falco [PR 68], che è una delle immagini più belle e ardite del vir, M. lo presentì, lo intravvide, talora gli fu tanto vicino da sfiorarlo, ma alla fine non seppe attingerlo, o almeno non seppe assumerlo fino in fondo, in tutte le sue lancinanti e complicate conseguenze! . Quell'equilibrio di falco, ancora, che è possibile rendere - anche noi un escamotage matematico, come per il giovane tesista - con un'immagine tratta dalla chimica fisica: quella di equilibrio dinamico, un equilibrio che si realizza nel trapassare nascosto (non evidente all'occhio umano), ma reale, di una sostanza entro i confini dell'altra, e viceversa. E' l'impercettibile, ma costante, trapassare della vita nella morte e della morte nella vita, come recita il celebre Canto delle crisalidi [PP 54-55], un'amena litania dai labili contorni orfici'‘*, quasi a richiamare quell'identico equilibrio dinamico, e perciò tragico nel suo evidentemente perché ritenuto "acerbo" come scrittore, e come tale delegato ai colleghi di filosofia. Un rimbalzo di competenze davvero esilarante. 142 Un esempio per tutti: M. immagina (auspica?) un ritorno di Gesù tra gli uomini: eppure, si dimostra convinto che, al punto in cui è giunta la Rettorica, «se Cristo tornasse oggi, non troverebbe la croce ma il ben peggiore calvario d'un'indifferenza inerte e curiosa da parte della folla ora tutta sufficiente e borghese e sapiente - e avrebbe la soddisfazione di essere un bel caso pei frenologi e un gradito ospite dei manicomi -» [PR 126, in nota]. 143 Ci siamo già ripromessi di non esprimere, per una sorta di rispetto e di affetto, e per una palese difficoltà oggettiva, alcuna valutazione sul suicidio di M.. Campailla fa altrettanto; ma come lui, se proprio dobbiamo cedere alla tentazione di esprimere un giudizio, al di là delle interpretazioni psicoanalitiche o metafisiche che di quel suicidio si sono date, e che ne impoveriscono sicuramente la portata, ci sentiamo di condividere le conclusioni del Ranke, il quale ascriveva quell'atto «"non ad un compimento, ma ad un cedimento" rispetto alla sua [di M.] posizione teorica, ormai vittoriosa di quell'estrema "rettorica della morte" riconosciuta nel suicidio» [cfr. S. Campailla, Pensiero e poesia..., cit, pagg. 136-137], Detto per inciso, «l'avvincene lettura dello studioso tedesco, innestando con energia la meditazione di M. sul ceppo comune della filosofia dell'esistenza [...], traeva forza singolare per procurare alla figura del Goriziano quella cittadinanza internazionale il cui tributo tarda ancora e che tuttavia sembra spettargli di diritto». [ib.; la lettura cui fa riferimento Campailla è contenuta in J. Ranke, Il pensiero di Carlo M.. Un contributo allo studio dell'esistenzialismo italiano, in Giornale critico della filosofia italiana, XLI, 1962, IV, pagg. 518-519] 144 Piero Pieri appronta una bella e dotta analisi di questo testo cruciale nel capitolo "Il canto delle crisalidi: il ‘pensiero poetante' e le crucialità dell'ipertesto" [cfr. P. Pieri La scienza del tragico. Saggio su Carlo M.. Cappelli, Bologna 1989]. L'approccio del critico, che condividiamo appieno, «intende sottolineare la posizione tematica del testo, rispetto alle prove del pensiero maturo (La Persuasione e il Dialogo della salute) e rispetto ad una lirica del 1910 (Risveglio)»: nella lirica, «'la morte nella vita' e 'la vita nella morte' indicano uno stadio binario dell'esserci dentro il quale l'uomo vive una preagonica condizione, irrisolta e malinconicamente rassegnata; uno 'stadio binario' che "mostra i segni di una condizione generale spossessata di una identità sicura che non sia quella arida ed elementare della vita depressa dalla inerte polarizzazione della morte che filtra nella vita, ma non l'affranca, e della vita che si avvolge nel manto della morte senza che ciò porti al martirio o alla illuminazione » [come invece, aggiungiamo, avverrà nelle opere e nella vita dell' "ultimo" M.]. «Nel testo appare invece preponderante il concetto indeterminato della vita il cui palpito di morte non produce tuttavia istanze liberatorie», continua Pieri, tale che «[...] l'uomo-crisalide indica lo stadio bilicato dell'esistenza non più larva, ma neppure farfalla di persuasione ». E conclude richiamando l'immagine "speculare" dell' "uomo-insetto" ontenuta in Risveglio [PP 69-70] e istituendo una suggestiva comparazione con testi similari di D'Annunzio, Tennyson, Coleridge, dai quali - presumibilmente - il sintagma "la morte nella vita" ha avuto la genitura agonismo, che sussiste tra apollineo e dionisiaco nella visione nicciana della Nascita della Tragedia. Ma la crisalide nicciana eromperà in una metamorfosi dell' "uomo nuovo", l'oltreuomo, figlio di una «superfetazione» del dionisiaco; tentativo di recuperare quel dionisiaco inutilmente perseguito, perché oramai irrimediabilmente contaminato e dunque privo della forza e della genuinità (della "bontà') originarie“. Di contro, l'individuo persuaso romperà il bozzolo della Rettorica, in un'effusione di vita autentica che, a quelle analoghe, ma deliranti, tessute dal filosofo tedesco, assomiglia evidentemente (e neanche troppo) solo per la terminologia. Se l'oltreuomo nicciano si brucia nella rottura di un equilibrio, trtasbordando nel polo dionisiaco, il vir aspira - come sua completezza - al restaurarsi di un nuovo equilibrio, tra sé e il mondo. Detto questo, si tratta ora di contemperare una certa sregolatezza espositiva con una sana iniezione di metodo, in un'amena oscillazione tra i due livelli che condividiamo volentieri col nostro autore. Due conclusioni provvisorie: gli esiti possibili del Persuaso autarchico e del vir politico. Il momento di passaggio tra le due ipostasi. Cominciamo allora col tirare dei bilanci, anche se provvisori, e cerchiamo d'approntare delle definizioni icastiche di Persuasione. L'operazione, che può apparire azzardata e che in certo modo sconfessa quanto pronunciato finora riguardo l'ineffabilità della Persuasione stessa, ci permetterà di uscire dal vizioso e irritante diallele persuaso: e le conclusioni stesse si prestano a nuove aperture. Abbiamo marcato stretto, durante la nostra indagine, il vir, abbiamo preferito accostare la condizione persuasa partendo dagli esiti ultimi della sua fenomenologia: nell'epistolario e nelle poesie di M. abbiamo, dapprima, scoperto la Persuasione nella sua già ri-stabilita armonia con il mondo, nella sua realizzazione "politica" in Enrico Mreule; una realizzazione, come ci è parso, non del tutto pacifica, non senza rischio, eppure compiuta: la monade persuasa che vive la relazione con le "altrui vite" (degli uomini e delle cose), e viceversa - in un reciproco, spontaneo, donarsi. Con un passo indietro, poi, abbiamo cercato d'individuare l'apriori di tale condizione: considerando le prime pagine de La Persuasione e la Rettorica, abbiamo concentrato la nostra attenzione piuttosto sulla Persuasione prima della sua Incarnazione, more ispiratrice. Ci piace soprattutto il riferimento a La ballata del vecchio marinaio di Coleridge, laddove l'ossimoro morte-vita si innesta sul motivo del mare. 145 Rivolgiamo, contro Nietzsche, ribaltandola, l'accusa ch'egli stesso rivolge a Socrate, l' «individuo specificamente non mistico, in cui la natura logica, per una superfetazione, è sviluppata così eccessivamente quanto lo è la sapienza istintiva del mistico» [cfr. Nietzsche, La nascita della tragedia, in Opere Complete, vol. I, ed. Newton, a cura di F. J esi, pag. 153]. Per un approfondimento della questione, rimandiamo - ancora una volta - all'integrazione sulla variante nicciana della Persuasione. geometrico demonstrata. Ovvero, potremmo dire che abbiamo tracciato dapprima un "nuovo testamento" della Persuasione (il vir come Cristo) e quindi un "vecchio testamento": il Persuaso come nel tetragramma YHVH, «lo Sono colui che E'» - nella ‘consistenza’ - o meglio «lo Sono Colui che fa essere», «lo Sarò colui che Sarò»!#9. Abbiamo visto, altresì, che alla scandalosa domanda della Rettorica - «Che cos'è la Persuasione?» - la Persuasione risponde come Dio alla domanda di Mosè: «Eiè asher Eiè». L'Identità, la tautologia della Persuasione. Il Nome della Persuasione. Il Nome, l'Identità: il nome è identità: nell'ebraismo il nome identifica tutte le caratteristiche di un individuo o di un oggetto: la storia dell'uomo nella Bibbia comincia con Adamo che dà i nomi a tutte le cose che lo circondano. Ma l'identità deve uscire dalla sua solitudine, deve calarsi nell'esistenza degli uomini: deve legarsi, in un certo modo, alla libertà. Il vir nuovo Adamo, darà nuovi nomi alle cose, ovvero reciderà i legami della «valenza» (il falso valore che le cose e gli uomini detengono nel falso, reciproco legame dell'eteronomia) e riscoprirà - per sé e per esse - un nuovo "valore", una nuova dolcezza: le valuterà per ciò che esse stesse veramente sono, le rispetterà ricollocandole nel loro luogo naturale: un'armonia di rispetto e comunione si ristabilisce nel mondo, durante e per mezzo di questo rinominare le cose. L'esodo può condurre ad una festa. Non a caso, ci sembra a questo punto, il libro della Torah, che si occupa della "identità" legata alla libertà, non si chiama Esodo, ma appunto Shemot, Nomi. a) Il Persuaso come «id, in quo plenitudo inhabitat corporaliter» (risvolto autarchico: la Persuasione acerba). Chi vede J ehovah, muore! Agnes, nel Brand, citando le Scritture Scrive M. che la Persuasione non può essere vissuta: essa è «impossibile», è l'Impossibile (c'è chi direbbe il Mistico), di un'impossibilità che l'uomo condivide con «la vita inorganica delle cose». Solo il dio è persuaso («ev ouvveyeg il persuaso: il dio»). E, di contro, «se non è il dio, è il sasso», ovvero l'alternativa esclusiva alla Persuasione è nient'altro che la Rettorica, e nella prospettiva "inadeguata" c'è consustanzialità tra sasso e uomo, entrambi «infinitesimale coscienza della relazione infinitesimale ». Già in questi accenni fugaci, precedentemente riferiti, M. scolpisce un assunto che abbiamo ritenuto assiomatico nell'economia della nostra linea interpretativa: il regno della Rettorica coincide con tutto il regno del reale, del sublunare: esso coincide col manifestarsi di ogni realtà, e pertiene ad ogni realtà, animata ed inanimata, consapevole 146 | Maestri ci fanno notare che in ebraico non esiste il presente del verbo 'essere' perché solo Dio è nel presente. Per M. il vero, unico presente è quello della Persuasione: gli uomini rettorici vivono sfilacciandosi nel futuro, o nel passato. ed inconsapevole, razionale ed irrazionale (con la differenza - come vedremo - che nell'uomo la Rettorica si complica e si rinvigorisce, diviene "sapida" col "sale della ragione"). In modo identico, ogni ente sublunare aspira alla Persuasione. La Persuasione, dal canto suo, è possesso presente e stabile e assoluto della propria vita; ma «se si possedesse ora qui tutta e di niente mancasse, se niente l'aspettasse nel futuro, non si continuerebbe: cesserebbe d'esser vita»: «la vita sarebbe una, immobile, informe, se potesse consistere in un punto». La vita stessa della Persuasione sarebbe, dunque, non-vita, «xfioc Biog», vita che non è vita. Se la vita è mancanza («deficienza») e insieme volontà di compensare tale mancanza; se questa volontà «è in ogni punto volontà di cose determinate», e come tale si proietta nel tempo (nel futuro), poiché «la soddisfazione della determinata deficienza dà modo al complesso delle determinazioni di deficere ancora»; se la vita è tutto questo, appare chiaro come la Persuasione («una, immobile, informe ») in questo senso non è vita. Alla luce di tutto ciò, proponiamo di definire la Persuasione, o meglio il "Persuaso", come «id, in quo plenitudo inhabitat corporaliter». Adottiamo questa circonlocuzione latina, mutuandola, e opportunamente flettendola, da Rabano Mauro a proposito del «caelum caeli»: «Caelum autem iuxta allegoriam aliquando ipsum Dominum salvatorem significat, ut est illud Caelum caeli domino (Ps. 113, 16), quia Sanctus sanctorum et Deus deorum; ita et iam caelum caeli recte ipse dicitur, in quo plenitudo divinitatis inhabitat»; e soprattutto, da Agostino: «Videte, ne quis vos decipiat per philosophiam et inanum seductionem secundum traditionem hominum, secundum elementa huius mundi et non secundum Christum, quia in ipso inhabitat omnis plenitudo divinitatis corporaliter», [Confessioni 111, 4]; e Ambrogio e altri. Da notare che gli autori suddetti utilizzano tale espressione per tentare una perifrasi di Cristo (e per M., per l'appunto, Cristo è un Persuaso). Analizziamo il senso dell'espressione: - id, in quo: preferiamo utilizzare il neutro, perché, secondo la nostra ipotesi di lavoro, la Persuasione "non è maschile né femminile" [neu+uter, nessuno dei due], ovvero non è prerogativa esclusiva dell'essere umano, ma appartiene ad ogni ente sublunare; - plenitudo: il termine oscilla tra "pienezza" e (nel senso della Vulgata) "perfezione" [temporis, potestatis vel divinitatis: temporis atque potestatis, la "plenitudo" secondo le coordinate del tempo e dello spazio, vel divinitatis]; - inhabitat. intensivo di "habito", a sua volta frequentativo di "habeo": rende bene, a nostro avviso, la "permanenza pregnante", l' "eterno presente" che è nel (che è il) Persuaso, tutt'altro che il semplice presente, ch'è l'attimo esistentivo del nunc. Ora, il risvolto politico (che poi risvolto politico non è) del Persuaso autarchico ci sembra essere costituito dall'ibseniano Brand, la traduzione drammaturgica del "cavaliere della fede" kierkegaardiano (di cui sopra). Ibsen descrive la vita del suo personaggio come un inferno, seppur la sua aspirazione è la salvezza. In ciò ci appare chiara la posizione polemica dello scrittore norvegese di fronte a questo esito estremo (alla turris eburnea) della Persuasione "autarchica", anche se - in fondo - egli ricopre la sua creatura di un'aura di sacro, perplesso rispetto (come non associargli, in questo senso, un'altra figura emblematica, l'insigne sinologo Peter Kien, dell'Auto da fè di Canetti?). Brand significa "incendio", e «far di se stesso fiamma» è, per M., l'imperativo poetico dell'agire persuaso. Il fuoco della predicazione, ma anche il senso di un destino (il nome e l'identità). Brand è un pastore di anime, una persona che intende riformare l'umanità attraverso un rigore religioso totale e una volontà inflessibile, che applica a se stesso e agli altri; è un uomo di fede estrema, di una religiosità tutta sua, in cui la compassione e il perdono cedono il passo per raggiungere una meta prefissata: redimere il mondo alla luce del monito manicheo «o tutto o nulla» (è il monito della Persuasione): «La vittoria suprema sta nel perdere ogni cosa. La sconfitta, la perdita di tutto, è la vera grande vittoria. Solo ciò che si perde, si possederà in etemo»'*; o ancora: «Quanto durerà la lotta, volete sapere? Ebbene: tutta la vita! Fin quando avrete sacrificato tutto, fin tanto che avrete rotto ogni compromesso... E quanto costa la lotta? Tutto: tutti quanti i beni della festa, del dì di festa... E i vantaggi? Purezza di spirito, fermezza di fede, un'anima sublime! Una corona di spine sulla vostra fronte: questo è il vostro premio!» [B 76]. Brand è pronto a sacrificare allo spietato Dio biblico che si è raffigurato tutto ciò che ha di più caro, anche i sentimenti più semplici e più naturali: il suo unico figlio (quasi a ripetere l'orrendo sacrificio di Isacco), la moglie, la madre. Il pastore sa a cosa va incontro, ne è consapevole: ma è altresì convinto che mancare la propria missione significherebbe una viltà o un atto di diserzione davanti al proprio, irrinunciabile dovere. Per lui tutto, tutto il resto non è che feticismo ed idolatria. Dopo la morte della moglie, Brand decide di innalzare un nuovo tempio, più grande e più degno, a Dio. Ma quando infine la chiesa è stata costruita e sta per essere consacrata, egli getta via la chiave, perché sente che quella non è la vera casa di Dio e che lui stesso non può accettare il compromesso di sottomettersi all'autorità della Chiesa di Stato. Alla guida di tutto il popolo, il pastore allora si avvia verso la montagna e verso la Chiesa di Ghiaccio situata tra le nevi eterne, promettendo, a chi vorrà seguirlo, di condurlo sulla vera via del cielo. La folla dapprima lo segue, con entusiasmo ed esaltazione; poi, spaventata dai disagi cui va incontro, lo abbandona e lo lapida quale falso profeta. Egli rimane così, solo ed indomito, impassibile anche di fronte alla visione celeste della moglie che lo invita a recedere dalla sua durezza e ad accettare la più umana via del compromesso. Nell'ultima scena, tuttavia, di ambigua interpretazione e piena di chiaroscuri, prima di essere travolto da una valanga, il pastore si chiede, riuscendo finalmente a piangere dopo tanta rigidezza, se non abbia sbagliato tutto. E una voce, che sovrasta il fragore della valanga, inneggia al Deus Charitatis e denuncia il fallimento della sua vita. Il fallimento della Persuasione autarchica. Ora, a nostro parere, la Persuasione e la Rettorica deve moltissimo al Brand: del resto, la sorella di M., Paula, insiste sull'enorme impressione che il dramma fece sul nostro autore’. 147 Cfr. Ibsen, Brand, in Ibsen, Tutto il teatro, cit., IV vol. pag 61. Le citazioni tratte dall'opera saranno segnalate, nel corpo del testo, con la notazione B cui segue il numero di pagina relativa. 148 E' quanto ci rivela Paula M. Winteler in un passo importante dei suoi Appunti per una biografia di Carlo M., contenuti in appendice al volume di Campailla Pensiero e poesia..., cit, ovvero alle pagg. 147-164. Riteniamo opportuno riportare per intero lo stralcio in questione [pagg. 161-162, corsivi dell'autrice], anche per rendere un'idea di quanto "brandiano" stesse rischiando di diventare lo stesso Goriziano: «Non leggeva più molto [la Winteler sta parlando dell'ultima fase della vita del fratello]: rilesse in quell'anno Ibsen che conosceva già e di cui era sempre più appassionato. Di tutti i drammi quello che l'aveva fatto più pensare era Brand e nel suo volume ci sono nel margine delle pagine molti commenti. A poco a poco, come semplificava il suo genere di vita, il suo modo di sentire, [Carlo] si limitava nei bisogni, nel nutrimento che era diventato sempre più sobrio, così si liberava da tutta l'inverniciatura venuta dal di fuori, da tutta la scienza infusa, da tutte le influenze ataviche, era come se si stesse riformando da sé un'altra volta. Così pure andava man mano eliminando dal suo repertorio gli autori riducendoli a pochi scelti. In una delle sue carte che si trovò sul suo tavolo fra gli appunti della tesi c'era scritto a matita: Bibliografia oppure: Dio ama gli analfabeti: 'Invece di leggere suonate o fatevi suonare della musica di Beethoven, perché gli orecchi non vi potrebbero far altro miglior servizio. - Gli occhi non sono fatti per legger libri. Ma se li volete ad ogni costo abbassare a questo servizio, leggete: Parmenide, Eraclito, Empedocle, Simonide, Socrate (nei primi dialoghi di Platone), Eschilo e Sofocle. - L'Ecclesiaste, e i Vangeli di Matteo, Marco e Luca - Lucrezio - De rerum natura -, i Trionfi del Petrarca e i Canti di Leopardi, Le avventure di Pinocchio del Collodi - i drammi di Enrico Ibsen. E non leggete mai altro, soprattutto nessun Tedesco, se avete cara la vostra salute, ché quelli sono contagiosi in vista (come i giornali, le riviste, i libri di scienze)”. Questo passo è importante, tra le altre cose, perché ci indica (insieme con la prefazione alla tesi) la "bibliografia ideale" con cui è possibile tentare l'accosto a M. (interessante il riferimento al Finocchio di Collodi). E perché ci testimonia, in certo modo, il disfattismo che pare attanagliare l' "ultimo" Michlestaedter, che pare far sue le parole del suo amato Brand: «Sono stanco: si combatte, si combatte, e sempre senza speranza» [B 67]. A parte questo, M. stesso esprime, più volte e a chiare lettere, il suo enorme debito di riconoscenza nei confronti di Ibsen: in una lettera alla madre, dell'aprile 1908, ad esempio scrive: «[...] ho letto quasi tutto Ibsen. Quello è un uomo, perdio! m'ha fatto pensare e mi fa pensare ancora. Certo dopo Sofocle, è l'artista che più m'è penetrato e m'ha assorbito. E' un grand'uomo [... J»; altrove scrive che il Norvegese lo «fa fremere e vibrare come una corda al minimo soffio». Infine, in un importante articolo per Il corriere friulano [contenuto in O pagg. 652-654 passim], scritto per celebrare l'ottantesimo compleanno di Tolstoj, M. costruisce un intenso ed originale parallelo tra Ibsen e lo scrittore russo: «Ibsen vuole dall'uomo che egli sappia rompere la cerchia di menzogna che lo stringe, che sappia volere la sua verità,che sappia farla trionfare; egli deve combattere la menzogna che è in lui ed educare la volontà alla lotta. Il processo psicologico può isolversi così con pochi individui rappresentativi o simbolici quali li vediamo negli ultimi drammi ibseniani. Tolstoi non chiede all'uomo la lotta, ma la devozione; egli deve saper resistere alle seduzioni della società che egli giudica basata sul falso e sulla prepotenza; egli deve uscirne e abbandonarne del tutto il sistema di vita; la sua maggiore attività egli non la deve spendere a preparare se stesso a far trionfare sugli altri le proprie idee e a trasformare la macchina sociale, ma deve devolverla a riparare i mali che la società produce sulle classi povere facendo del bene, aiutando, consigliando. - E' quindi necessaria la rappresentazione viva della società nel suo complesso». Questi due autori «non s'accontentarono di esprimere le sensazioni superficiali della loro anima, ma ne scrutarono le profondità per cavarne la nota più alta. - Entrambi presero pel petto questa società soffocata dalle menzogne e le Infatti, le parole di Brand risuonano con tutta la loro forza nelle parole di M.: pur non intendendo istruire parallelismi "alla lettera", ci sembra opportuno, a tal proposito, richiamare alla memoria talune affermazioni "forti" di Brand: «Il mio canto festivo tace; bisogna scender dal cavallo alato; ma io vedo una meta più alta, che non sia una giostra di cavalieri, - un duro lavoro quotidiano, il dovere di una vita attiva, verrà nobilitata con un'opera santa» [B 30]. Oppure: «Dove non c'è forza non c'è missione. [...] Se non puoi essere ciò che devi, sii almeno ciò che puoi [...}» [B 24]; «se darai tutto, tranne la vita, sappi che non avrai dato nulla» [B 23]. O ancora: «Quali sono i peggiori, i più ribelli? Chi si svia più lontano dalla pace?.. Lo spirito leggero incoronato di fronde che danza sull'orlo del precipizio... lo spirito fiacco che segue la strana monotona perché così vuole l'usanza... lo spirito selvaggio che possiede tanto vigore da far apparire bello ciò che ha tutte le apparenze del male? Lottiamo, lottiamo senza tregua contro questi tre nemici tra loro alleati. lo vedo con chiarezza la mia missione; brilla come un raggio di sole attraverso uno spiraglio socchiuso» [B 17]; o infine: «No, sono sano e forte, come il pino e il ginepro dei monti; ma è la razza malata di questi tempi che ha bisogno di essere curata. Voi volete amoreggiare, scherzare, ridere, volete credere un poco, ma non vedete... volete caricare tutto il peso del fardello su di uno, che vi è detto sia venuto per prendere su di sé la grande espiazione. Per voi prese la corona di spine, e perciò vi è permesso danzare... danzate... ma dove la danza conduca è un'altra cosa, amico mio!»; «abbiamo perduto ogni traccia del nostro sentiero»; «E' la ‘volontà' che conta! La volontà o redime o uccide, la volontà, intera, disseminata dappertutto, nella vita facile e nella vita dura» [B 13, 8, 30]. Già nel dramma di Ibsen, dunque, M. trovava tracciata la linea discriminante tra il Persuaso e il Rettorico, e - soprattutto- ritrovava la rigorosa e paradossale etica che segnava quella discriminante (anche, ad esempio, nelle antitetiche figure del falco e dell'avvoltoio, che presenziano già in Ibsen all'autentico e all'inautentico!'‘). Ma se anche Brand parla di amore, di sacrificio, si tratta tuttavia di un amore e di un sacrificio eteronomi, perché vincolati alla terribile ingiunzione di Dio, destinati ad esiti altrettanto terribili: nell'attuare il suo personale piano di redenzione, il pastore di anime sacrifica i suoi cari, attraverso la parvenza del sacrificio di se stesso. Brand non rispetta la gridarono in faccia: verità! verità!» [e, secondo M., ciò in modo diametralmente opposto di quanto facessero invece i maestri del Decadentismo, Oscar Wilde e D'Annunzio, sopra tutti]. 149 Cfr. ad esempio: Gerd: «[...] l'avvoltoio non entra là dentro [scil. nella chiesa]; si posa sul Picco Nero e là sta, la brutta bestia, come una banderuola... [... |» [B17]; vita delle persone che gli sono accanto. Le sue intenzioni, invero, sono sincere, coerenti alla sua fede: egli lotta sinceramente per la salvezza. Ma la sincerità e la coerenza si volgono in distruzione e fallimento, perché il suo amore non è l'amore caritatevole, come gli rivela la voce di Dio, nel finale: il suo amore è severo, esclude e castiga. Il vero amore è perdono e conciliazione; vuole casomai il sacrificio di se stessi, non mai dell'altro uomo. Il Persuaso deve aprirsi agli altri, non può vivere nell'esclusività della sua Persuasione, tanto "masochista", quanto "sadica". II suo consistere dev'essere un coesistere. Nello stesso dramma ibseniano, in una delle scene più intense ed enigmatiche (siamo nell'Atto II), l' "Uomo delle Apparizioni" si rivolge a Brand con parole come di rimprovero, volte a richiamarlo alla comunità: L'Uomo: «Mille parole non valgono la traccia dell'azione. Noi ti cerchiamo in nome della comunità; lo vediamo, ci manca proprio un uomo». Brand (agitato): «Cosa volete da me?» L'Uomo: «Sii il nostro prete» [B 23]. L'Uomo delle Apparizioni è la persuasione matura che parla alla persuasione acerba, il demone che chiama alla "conversione politica" e alla realizzazione del Verbo nella comunione con le altrui vite, che è la vera Persuasione. L'acerbità della persuasione permea il lavoro accademico di M.. Egli stesso ne fu a suo modo consapevole, come visto. Chi ha ingoiato una sorba amara convien che la risputi, scrive, sin dall'inizio. Il giovane filosofo non vide l'ora di terminare la sua tesi (l'ultimo compito rettorico che gli era rimasto), per far le sue parole azione, per donarsi definitivamente al mare. b) La Persuasione come francescanesimo laico (risvolto politico: la Persuasione matura). Il loco della Persuasione, «il qualunque punto dove uno è, purché vi permanga», diviene alfine il luogo politico del mondo, rappresenta il risultato di una vera e propria rivoluzione copernicana del rapporto dell'uomo con le altrui vite. Se prima l'homo gravitava, necessariamente, intorno alle cose, laddove quella necessità era dettata dalla (strutturale) deficienza, incompletezza fin già (se non soprattutto) del suo stesso organismo; ora invece, sono le cose, è il mondo a gravitare intorno al vir, al Persuaso, a donarsi a lui ultro, senza che quello «nulla chieda secondo la voce del suo bisogno». Tutto questo l'abbiamo già ripetuto più volte. Ora, il vir domina il mondo. Ma questo suo dominio non implica in sé violenza, non vuol essere sopraffazione. E' il dominio, per renderlo con un'immagine, dello Brand: «[...] Vedere, Iddio vuol trarvi dal fango; un popolo che vive [...] attinge dalle avversità forza e potenza; l'occhio smorto acquista vista di falco, e vede lontano e vede bene, la fiacca volontà si riscuote e vede certa la vittoria dopo la lotta [...]» [B 19]. sguardo che dalla vetta domina la vallata, e si compiace e gode dello spettacolo, sentendosi esso stesso parte di quel miracolo, di quel tutto. E lo protegge ™. Dopo la rottura delle catene del "peccato" rettorico, nel vir si eventualizza il ristabilimento della condizione edenica, descritta nei primi passi della Genesi: il mondo è creato per l'uomo e a lui offerto, come dono: Adamo dà nome alle cose, ostentando la sua fraterna supremazia, ridonando alle cose ed agli animali il loro giusto valore: e quelli a lui si sottomettono, ultro, secondo il comando del Signore, secondo lo scopo per il quale essi furono creati. Il vir si riappropria del mondo, scioglie i vincoli dell'alienazione, riconferma il suo primato e il mandato "divino" della Persuasione, scacciando per sempre il dio luciferino della puopuyix, giungendo altresì al vero Piacere, ch'è la Pace. L'uomo finalmente libero - dal bisogno, dalla deficienza, dalle cose; l'uomo che é riuscito nella dolorosa e faticosa pratica - ch'è la via alla Persuasione - a ribaltare a proprio favore il rapporto di dipendenza con il mondo; ebbene, quest'uomo - ricordando il già citato passo del Dialogo della Salute - «ha la gioia dell'esistenza in mezzo a tutte le cose. Gli sono care non solo le cose vicine e come possano soddisfare un bisogno, ma tutte - egli sa godere della luce del sole». Anche la morte gli è cara, il «[...]il coraggio della morte / onde la luce risorgerà».. Non può non tornare in mente, a questo proposito, il meraviglioso Cantico delle creature di San Francesco, il suo lodare il Signore per tutte le creature della terra, e anche «per sora nostra morte corporale»'!. Per quanto la distanza tra la posizione M.iana e quella francescana sia dettata dalla diversa prospettiva esistenziale (quella di uno strano ebraismo laico, per l'uno; quella di una prisca religiosità cristiana, per l'altro), il messaggio ci pare aprirsi un senso d'identica, intima convinzione: la comunione col mondo, l'accettazione - non rassegnata, ma coraggiosa, e in questo suo coraggio, serena - della nostra condizione umana, nella sua perfezione assoluta, per l'uno intesa nell'adeguamento (solitario, intimo, drammatico, ma alla fine gioioso) al pentalogo della Persuasione, per l'altro intesa 150 Lo spunto per quanto or ora affermato ci viene da una lettera ad Enrico Mreule dell'aprile 1909 [E 359-360]. M. sta raccontando all'amico di aver intrapreso la lettura della Metafisica di Aristotele, con «la pazienza d'andargli a corpo, di seguirlo di citazione in citazione » fin che non giunse «al capitolo I° e 2° del Ill libro, dove assistetti al mirabile capitombolo della povera bestia». Rispetto ad Aristotele, M. confessa di sentirsi come «[...] un falco che difendesse la purezza dei sassi e dell'aria sulla cima del S. Valentin contro un volo di cornacchie [aristoteliche, evidentemente)». 151 La suggestione "francescana" dovette provenire a M. da Tolstoj, soprattutto a riguardo - come vedremo - delle ultime opere dello scrittore russo, ovvero La sonata a Kreutzer [che leggiamo nell'ed. BUR, 2000, a cura di E. Bazzarelli] e Resurrezione [ed. Newton, 1995, a cura di E. Affinati]. Come si ricorderà, ipotizzammo anche un'ispirazione da | cosacchi. Similmente a Tolstoj, M. "riscrive" il Vangelo (sulla falsariga di quello di Matteo) censurandovi tutti i dati sovrannaturali, sopprimendovi l'avvenimento ontologico della redenzione, e specialmente eliminando la realtà della divinità trascendente d Cristo e della sua resurrezione. Per il Goriziano, come detto, Cristo è il vir. E proprio questa riscrittura permise al nostro giovane filosofo d'individuare il nucleo etico-laico del messaggio evangelico: farsi salvatori dinell'adeguamento (anche qui solitario, intimo, drammatico, ma alla fine gioioso) alla volontà di Dio. E la dicotomia fra gli empi e i giusti (ai quali «la morte secunda no'I farrà male»), che si delinea nella seconda parte del Cantico, si ripropone pari nella laica dicotomia, altrettanto insanabile, fra gli homines rettorici e i viri persuasi: per entrambi i casi, la discriminante in fondo è la stessa, e coincide sostanzialmente - con la trasgressione dell'ordine universale, di una cattiva prospettiva di vicinanza-lontananza con le cose e con gli altri 5°. Francesco (come rivela anche il suo nome: ancora: nome e identità), come il vir, è "franco", libero, assoluto: si è liberato dai lacci mondani, si è sottomesso di buon cuore al giogo della croce: tuttavia rimane per lui il vincolo più potente, quello del Dominus divino, che si riflette nel «messor lo frate sole» e che permea tutta la vita e la speranza del santo, in una fede forte, vincente, quanto semplice (cfr. l'ultima parte del cantico, quella più drammatica e "manichea"). In questo senso, la condizione di Francesco è decisamente eteronoma, e solo per un'analogia topica (di condizioni, e non di esiti estremi) può essere avvicinata a quella del vir. Eppure, la "vita nuova", il senso di comunione fraterna col mondo, la presenza di una dimensione esistenziale votata alla consapevolezza della verità, dell'armonia e dell'amore - seppur nelle due diverse prospettive - ci suggeriscono, ci costringono quasi, a pensare la dimensione persuasa quale quella di un /aico francescanesimo. Il momento del passaggio: la forma retorica dell'anti-Rettorica: tecnica persuasa della retorica, ovvero tattica persuasa. L'atipicità della tesi di laurea di Carlo M. traspare già da una semplice lettura del testo. Ma qual è il vero senso, la vera ragione di questa atipicità? In cosa essa consiste? Soltanto nella "stravaganza" filosofico-narrativa del suo autore? O forse nell'enorme ingiunzione morale ch'egli affida ad un mero scritto accademico? La questione si presenta complessa e feconda, soprattutto se analizziamo la dispositio e l'actio che il Goriziano adotta nel prometeico tentativo di un'esaustiva esposizione del proprio pensiero.se stessi, «eliminare la violenza alle radici», aprire il mondo ad una rinnovata armonia. In questi senso, la linea ideale, che tracceremo, è per l'appunto Tolsto-M.-Capitini. 152 E' indicativo quanto ci tramandano gli apologhi popolari dei Fioretti: Francesco parlava alla natura, riuscì ad ammansire e a convertire il ferocissimo lupo. Come spesso avviene, l'ingenuità popolare anche qui coglie nel segno, disperando di sciogliere nella semplicità del racconto la profondità della verità francescana: ovvero, la comunione con quanto ci circonda e la possibilità di rivolgerci alle cose con un linguaggio che non è più il tecnicismo retorico del dominio, bensì una persuasione che conduce alla mansuetudine, all'armonia, alla dolcezza, che non ha bisogno per esprimersi, a ben vedere, neanche più delle parole. «La parola eloquente è il premio di chi cerca la persuasione, di chi ha il coraggio del dolore per non averla - chi nella parola finge già finita la persuasione e del cercar parole si fa una persona per chiedere i premi delle vie degli uomini - obbedisce alla sua prAopuvyta: è un vile o un retore a piacere», scrive M.. Si pone dunque la necessità di un'aerea digressione sugli aspetti "formali" della sua opera: ciò non esula dalla sostanza morale del nostroapproccio, poiché l'etica non si realizza soltanto nell'atto, ma anche nel linguaggio, preparazione all'atto, esso stesso atto, atto linguistico. L'indagine non è inappropriata, e il suo risultato ne varrà da riprova. Il valore persuasivo della parola, dunque. La ricerca di Aristotele ci ha insegnato che la scienza e la filosofia coincidono nella "formalizzazione" del loro linguaggio, nella sua struttura sillogistica, razionale. Il linguaggio riproduce, per lo Stagirita, la razionalità dell'Essere: l'essere, l'è vero, si dice in molti modi, ma i suoi modi sono sempre razionali. Che vuol dire, ciò? Che cos'è la razionalità per Aristotele? Problema inaudito '®. La nostra ipotesi di lavoro, semplice e funzionale, asseconda quella di Carlo M.: secondo il Goriziano, la razionalità aristotelica coincideva con ciò che Aristotele vedeva, la sua theoria trovava senso compiuto nella vista, anzi nella pura visione: Ma il punto teoretico è l'atto del mio guardare, e può girare dove anche io voglia fra la varietà delle cose: sempre sarà in lui l'entelecheia delle cose guardate, poiché il mio guardare è attribuzione di fine: la stessa permanenza del movimento nel tempo, poiché il mio guardare commosso con le cose è attribuzione di stabilità; altro fine, altra natura, altra forma, altra ragione, e in altro riguardo supposta la materia inconoscibile [PR 208]. Il retore si muove su punti controversi non per tutti, ma per quelli ai quali parla. Il vero è detto per Aristotele secondo l'attualità fenomenica [c.n.], e l'attualità fenomenica nel campo del retore più vicina, così che il più delle volte è noto a tutti che il retore dimostra contro questa stessa attualità. Ma non per questo egli è disprezzato e con nuovo nome quasi a insulto chiamato, ma anzi tenuto in gran stima e col nome di retore ad onore significato appunto in quanto egli lo sappia fare né per alcuno scrupolo si trattenga dal farlo [PR 268]. La conclusione errata di un sillogismo, dunque, sarebbe tale non per un principio logico, ma per un errore, come dire, di prospettiva ottica; lo sguardo razionale è l'occhio dello scienziato Aristotele o di Aristotele scienziato: lo sforzo del pensiero è di riprodurre nella vista intellettuale, nella sua "intelligenza", l'atto del vedere garantito dall'organo di senso (l'attualità visiva - fenomenica - coincide con quella intellettiva - noumenica), purificandolo. Il sogno del filosofo Aristotele (che coincideva con quello del suo maestro, Platone) era poter scorgere l'Essere nella sua "nudità" ontologica (l'idea come vista nuda, pura, dell'Essere). Il sogno dell'Aristotele scienziato era quello di compilare l'enciclopedia delle 153 Quanto ci apprestiamo a dire si propone, consapevolmente, su un livello di lettura e d'interpretazione dell'opera aristotelica - nella fattispecie la Metafisica [che abbiamo letta nell'ed. Rusconi, 1993, a cura di G. Reale], l'Etica Nicomachea [Rusconi, 1993, a cura di C. Mazzarelli], la Retorica [Mondadori, 1996, a cura di M. Donati] e la Politica [Laterza, 1993, a cura di R, Laurenti) - "viziato" dalla prospettiva M.iana. Tuttavia chiediamo di accettare quanto segue almeno in vista della sua funzionalità all'analisi che stiamo conducendo. Per tal motivo, non surroghiamo il nostro discorso con pedisseque corrispondenze "alla lettera" degli  p 4v pe, > Commenta M., in calce alla sua figura: «Questo [qualcosa è - qualcosa è per me - mi è possibile la speranza - sono sufficiente] è il cerchio senza uscita? dell'individualità illusoria, che afferma una persona, un fine, una ragione: la persuasione inadeguata, in ciò ch'è adeguata solo al mondo ch'essa si finge» [PR 19]. Le parole del Goriziano, in apparenza involute, trovano comunque ampia "dimostrazione" nel corso della sua tesi. Anzi, non è difficile ricavare il filo di un argomentare lineare e lucido, che palesa una logica ferrea di concatenazioni assiomatiche, che possiamo definire decisamente spinoziana, senza timore di sbagliarci: se la Persuasione, la Salute, è il «possesso presente della [propria] vita» [36]!9', ossia (in forma negativa) se essa «non vive in chi non vive solo di sé stesso» [9], l'uomo al contrario si rivela, già nella sua conformazione fisiologica, come segnato dalla deficienza. Questa è senza dubbio il corrispettivo del Wille schopenhaueriano: la vita è a tutti gli effetti volontà di vivere e la volontà «è in ogni punto volontà di cose determinate» [12]: ne consegue che l'uomo è «schiavo della contingenza di questa correlazione» [31]. In questo senso, la correlazione tradisce una sua "puntualità", perché «noi isoliamo una sola determinazione della volontà [per volta» [13] e ogni determinazione è «attribuzione [puntuale] di valore: coscienza » [12]. 60 Aggiungiamo noi: anche senza fine e senza inizio: Nietzsche, grecamente, avrebbe detto l'«eterno ritorno». 61 Nei periodi che seguiranno, accompagniamo M. nella sua dimostrazione: preferiamo aderire molto al testo, per non pregiudicare l'amenità delle sue espressioni, anche se ricomponiamo l'argomentare in una successione più, come dire, didascalica, ricostruendo la logica che in apparenza smarrisce nell'enfasi della scrittura. | numeri assoluti, in parentesi quadre, si riferiscono alle pagine della Persuasione da cui sono tratte le citazioni. Il riferimento alle altre opere seguirà l'espediente utilizzato nel resto del nostro lavoro. Espediente che, mai come ora, rivelerà anche la sua importanza metodologica, lasciando trasparire come l'opera del Goriziano si strutturi tutta secondo una stretta logica di rimandi interni, fatta di ripetizioni e richiami di concetti, che non è il mero saltabeccare della retorica della metabasi che punta all'attenzione del lettore, ma risponde all'intima consapevolezza del fatto che ciò che si sta comunicando è in fondo un unico, anche se articolato, pensiero. E' altresì vero, tuttavia, che «...]la volontà non sopporta la noia, e da questa attesa inerte della vicinanza si muove, allargandosi la coscienza dalla determinazione puntuale attraverso l'infinita varietà delle forme: le determinazioni si collegano così a complessi, da procurarsi previdenti ogni volta la vicinanza per la quale via via ogni determinazione s'affermi e non resti morta, ma per la forza del complesso si continui per poter altra volta affermarsi. [...] [Così] la soddisfazione della determinata deficienza dà modo al complesso delle determinazioni di deficere ancora [...]: nel complesso di quella determinazione c'è come criterio la previsione delle altre: il complesso delle determinazioni non è un caos ma un organismo» [16]. Detto in altre parole, «Ia [...] volontà di essere è così volta a continuare, in ciò che nell'affermarsi presente essa crea la prossima vicinanza per l'affermarsi d'un'altra determinazione: in ognuna c'è la previsione delle altre». [17]. Da una parte, dunque, l'organismo umano si profila come un «complesso delle determinazioni» [16]; dall'altra, in modo speculare, «i valore [del] mondo [appare come] il correlativo della sua valenza» [20] - ossia «la stessa cosa è il mio vivere e il mondo che io vivo» [20], dato che «nessuna cosa è per sé, ma in riguardo a una coscienza» [13]: e, amplificando questo dato, la stessa «vita [si rivela quale] un'infinita correlatività di coscienze». Questa correlatività - che abbiamo scoperto puntuale nella sua manifestazione più immediata, complessa in quella mediata - si delinea «sempre ugualmente intera e infinita nell'attualità che corre nel tempo; il passato e il futuro sono in lei, l'avvenire e il non avvenire sono indifferenti» [14-15]. E' proprio in seno a questa correlatività che si struttura, poi, la piopuyix, «amore alla vita, viltà» [17], owero la Rettorica, la «determinazione» della vita, la «persuasione inadeguata » [19]. Se infatti la persuasione è l' agathon (postulato socratico-platonico), il bene, la Salute, e gli uomini ad essa naturalmente tendono (anch'esso postulato socratico-platonico, formalizzato da Aristotele'9) - è il nostro stesso deficere che aspira alla sua più completa soddisfazione - è altrettanto vero che, dati i presupposti "volontaristici", essa risulta inattingibile, poiché, qualora fosse conquistata, la vita «cesserebbe d'esser vita» [8], cioè la volontà cesserebbe d'esser volontà, il che è già una contraddizionein termini: infatti, la persuasione implica il possesso presente, attuale, mentre la volontà è «volontà di se stesso nel futuro» [20], è «distratta nel tempo » (e così l'uomo). La vita nega, in modo paradossale, se stessa: l'uomo sembra, senza soluzione, essere votato al dolore ed alla sofferenza e la sua condizione risulta insostenibile: «il principio della deficienza [viene a costituirsi] come principio sostanziale» [146]. E' proprio in questo punto, dunque, che s'inserisce l'azione quotidiana, ostinata, del «dio pudico»'9° della popuyia, che in modo nascosto (in ciò è la sua pudicizia), ma efficace (in 162 cfr. Etica nicomachea |, 1, 1094, a3 163 È il piacere un dio pudico, fugge da chi l'invocò; ai piaceri egli è nemico, fugge da chi lo cercò. ciò sta la sua divinità), tesse la trama di una consistenza altrimenti compromessa. Il dio della priopuyia è un lare (un «dio famigliare» [21]) che ci è accanto come un malefico angelo luciferino («la luce è il piacere» [17]), che ci accompagna in ogni nostra attività, la veicola, la custodisce. Il lare crea il "velo di Maya" attraverso l'adulazione del «tu sei» [18]: presiede all'integrità del nostro organismo (ovvero, scongiura l'anarchia delle membra, strutturando ogni puntuale determinazione in una rete di correlazioni organiche, spegnendo da luce quando l'abuso toglierebbe l'uso»'** [16]) e spaccia la mera continuità dell'organismo stesso per la permanenza persuasa: «il saggio dio lo [l'uomo, l'animale] conduce attraverso l'oscurità delle cose con la sua scia luminosa perché egli possa continuare e non esser persuaso mai» [16-17]. L'uomo, in questo abbaglio, in questo "stordimento", irretito nel gioco del dio [21], si finge un mondo posticcio [19], credendo che le «sue cose che lo attorniano e aspettano il suo futuro, sono l'unica realtà assoluta indiscutibile» [18], ossia per lui «a realtà è [...] le cose che attendono il suo futuro»; e, ciò facendo, scambia la Persuasione per l'«attualità della sua affermazione» [18]. L'illusione raggiunge il suo ultimo scopo: «ciò che vive si persuade esser vita la qualunque vita che vive» [19], «l'esser vivi si fa un'abitudine » [28], l'uomo «si dice contento e sufficiente e soddisfatto di sé» [24-25]: «d'uomo si gira sul pernio che dal dio gli è dato [...] e cura la propria continuazione senza preoccuparsene, perché il piacere preoccupa il futuro per lui» [18]. La voce del dolore - il «sordo continuo misurato dolore che stilla sotto a tutte le cose» [23], la voce «che dice: tu non sei» [27] - è apparentemente messa a tacere. L'uomo si bea della nuova, insperata sicurezza, guidato dal piacere [17]: «nel sapore [della momentanea, puntuale affermazione si risolve] la presenza di tutta la sua persona. Questo sapore accompagna ogni atto della sua vita organica [e, come vedremo, sociale]» [18]. L'uomo insomma «non vede [integriamo noi: non vuole vedere] l'opera che il dio ha fatto» [17]. Tuttavia l'illusione della permanenza - ch'è la Persuasione inadeguata - non tarda a rivelarsi per quella che appunto è: illusione. "«[...] L'uomo, pur mentre gioisce dell'affermazione, sente che questa persona non è sua, ch'egli non la possiede» [21], sospetta che «la sua potenza nelle cose in ogni punto è [sempre e comunque] limitata alla limitata previsione». «[...] AI disotto della superficialità del suo sapere egli sente il fluire di ciò che è fuori della sua potenza e che trascende la sua coscienza »: così, ilÈ il piacere l'Iddio pudico ch'ama quello che non lo sa: se lo cerchi se' già mendico, t'ha già vinto l'oscurità. - Sono la prima e l'ultima delle quattro quartine del famoso peana, che M. intona al dio della grAdopuyia in D 43. 164 Cfr. il paragrafo 4c del | capitolo. «suo piacere è contaminato» [21] irrimediabilmente e suo malgrado, perché da sorda voce dell'oscuro dolore non però tace, e più volte essa domina sola e terribile nel pavido cuore degli uomini» [22]. Nella prospettiva della persuasione inadeguata, la voce del Tragico si rivela (si fa fenomenologia) attraverso la paura della morte: difatti, se «il senso delle cose, il sapore del mondo è solo pel continuare», se «esser nati non è che voler continuare », ciò allora vuol dire che «gli uomini vivono per vivere: per non morire. La loro persuasione è la paura della morte, esser nati non è che temere la morte » [32]. La voce del dolore, dunque, fa breccia nella trama dell'illusione: «quando per ragioni che non stanno in loro, il lembo della trama si solleva, anche gli uomini conoscono le spaventevoli soste» [23], ovvero «quando la trama dell'illusione s'affina, si disorganizza, si squarcia, gli uomini, fatti impotenti, si sentono in balìa di ciò che è fuori della loro potenza, di ciò che non sanno [...]; si trovano a voler fuggire la morte senza aver più la via consueta che finge cose finite da fuggire, cose finite cercando». [22] La persuasione inadeguata ha un colpo di coda: se nei bambini il dolore esistenziale è più forte - perché ancora incontaminati dalla finzione del dio luciferino - e se in loro la rivelazione del Tragico prende la forma dei piccoli terrori e delle piccole superstizioni da esorcizzare (la paura del baubau, ad esempio) [22-23], negli uomini esso fa capolino nelle forme delle nevrosi e dei grandi dispiaceri della quotidianità: il Tragico ha le sue manifestazioni "esistentive" (existenziell, direbbe Heidegger) nel rimorso, nella malinconia, nella noia, nell'ira, nel dolore, nella paura, nella «gioia "troppo" forte» [25-26]: in questi sentimenti, l' [A. Piromalli, in Sotto il segno di M., ed Periferia, Cosenza, 1994, pag. 22; ci appoggiamo all'analisi e alle parole di Piromalli anche per quanto stiamo per dire]. La retorica di Aristotele rappresenta, così, l'apice estremo della degenerazione cui Platone conduce l'originaria, autentica, dialettica socratica. Socrate si chiedeva, ad esempio, se la giustizia fosse un bene, Platone che cosa fosse la giustizia. Entrambi (dunque, tutto sommato, anche Platone) conservano una relazione col «valore individuale» dell'oggetto. L'approccio di Aristotele diviene invece «una raccolta di fenomeni», «delle questioni particolari giudiziarie o politiche e la ricerca dei trucchi rettorici» conduce Aristotele a perdere di vista il vero ed a «teorizzare sui discorsi che dimostrano» in modo che «lo scopo e la potenza di chi analizza e teorizza i discorsi è sovrapposta allo scopo e la potenza dell'oratore». «Questo - scrive ancora M. - è l'errore di ogni metodistica, che caratterizza utta la filosofia aristotelica, o meglio ogni forma aristotelica della filosofia sotto qualunque nome, in qualsiasi tempo o paese, ed è di fronte alla Persuasione la Rettorica» [per le citazioni virgolettate di questo periodo cfr. Appendici critiche, PR 151- 263-278-282]. Di conseguenza, arguisce M., la Rettorica non è per Aristotele - proprio in quanto «metodica», «metodologismo classificatorio» - solo una téchne specifica, ma una sorta di criterio che informa tutte le scienze e tutta la conoscenza. Potremmo azzardare che essa, come la virtù, diviene un habitus. —_ La valenza politica della retorica aristotelica viene evidenziata molto bene da Roland Barthes: il quale - in un volumetto esemplare sulla Retorica antica (trad. it. Bompiani, 1998) - trova molto «allettante mettere in rapporto questa retorica di massa [quella appunto aristotelica, di massa poiché verte su un "verisimile" che nient'altro è, secondo lo studioso, se non «quel che il pubblico crede possibile»] con la politica di Aristotele; era, com'è noto, una politica del giusto mezzo, favorevole ad una democrazia equilibrata, incentrata sulle classi medie e incaricata di ridurre gli antagonismi tra i ricchi ed i poveri, tra la maggioranza e la minoranza; donde una retorica del buon senso, volontariamente sottomessa alla 'psicologia' del pubblico» [pagg. 21-22; corsivo nostro], Tutto questo non è in contraddizione con quanto abbiamo affermato nel corso del nostro lavoro: è vero, la "costituzione della Rettorica" - almeno nella sua accezione comune e quotidiana - ha un inizio storico, e ha un autore storico; eppure Aristotele non ha "inventato" la Rettorica; le ha dato soltanto una patente di legittimità, se vogliamo dirla così, ontologica e (soprattutto) pratica. 184 Etica Nicomachea 1103b 1-5 passim. microcosmo umano: come nell'anima la condizione ottima è quella d'un equilibrio tra la parte appetitiva (epithymetikon), irascibile (thymoeidés) e razionale (/loghistikon), nello Stato ideale (lo Stato giusto) - laddove i tre aspetti dell'anima si incarnano nelle tre classi sociali dei "produttori", dei "guardiani" e dei "governanti-filosofi" - il singolo svolge la sua funzione nell'armonia del tutto, "temperando" il proprio egoismo privato. La virtù civile per eccellenza sarà proprio la sophrosyne, ovvero quella saggezza che permette di stare "entro i limiti", cioè di lasciarsi guidare docilmente dai sapienti'®. Lo Stato - nato dalla necessità che gli uomini hanno di soddisfare i propri bisogni vitali - diviene insomma la condizione (insieme etica e logica) dell'individuo, «secondo una relazione di reciprocità in cui individuo e Stato, virtù e legge, anima e classi sociali vengono a coincidere» [Francesco Adorno]. Per quanto Platone allegorizzi il destino di appartenenza dell'individuo ad una determinata "classe sociale" attraverso il famoso mito di Er - secondo il quale quel destino è in effetti frutto di una scelta libera e responsabile dell'anima prima dell'incarnazione '°8; per quanto - almeno nei presupposti e negli intenti - la superiorità di una classe rispetto alle altre non significhi supremazia ed oppressione, ma risponde semplicemente alle esigenze di una suddivisione di compiti e di funzioni necessaria in ogni vita organizzata (nella quale gl'interessi dell'individuo debbono essere subordinati ai superiori interessi della collettività); nonostante tutto ciò, Platone - in apparente contraddizione, ma in effetti seguendo un'estrema logica di coerenza - struttura la sua utopia politica secondo le linee di un rigoroso, oculato, analitico progetto educativo '®. Dalla moltiplicazione dei bisogni nasce dunque la differenziazione dei ruoli, secondo le attitudini di ciascuno: l'educazione confermerà (nel senso del confirmare latino) quell'attitudine. Ma M., come suo solito, adotta il suo drastico smascheramento e individua proprio nella formazione dello Stato platonico il paradigma ontogenetico di qualsivoglia sistema sociale rettorico: [... ] accettato come base della città della giustizia il fatto della convenzione dei violenti che è a base d'ogni città - [è nostro compito] fingere nuovamente con presunzione di giustizia tutte le forme della vita che gli uomini chiedono a chi voglia far loro da maestro. Accettata come vita libera quella che è fatta dei bisogni elementari, fondiamo nella città la libertà d'esser schiavi; accettato come giusto il principio della violenza che afferma la necessità del continuare, è giusta a ogni bisogno la sua affermazione. E se troviamo [un qualche espediente]perché ogni bisogno giunga alla sua 185 Cfr. il II libro della Repubblica e anche 441c-445e (IV libro), dove la questione viene ricapitolata in modo sintetico e definitivo; sono questi, più o meno, anche i passaggi del testo (e altri affini nella sostanza) che tiene docchio M. nella sua analisi davvero spietata dello Stato platonico, cui dedica l'intera, complessa, splendida Appendice II, quasi un'opera a sé stante. 186 cfr. id. libro X 614a ss. . La divinità è fuori causa: Aitia eloménou, theos anaîtios. 187 cfr. id. libro Ill 386a - 417b; IV 419a - 427b 105 giusta affermazione senza scapito della giusta affermazione degli altrui bisogni, abbiamo fondato la città giusta. Che gli uomini siano ognuno schiavo della propria miseria e per questa sottomesso ai modi a lui oscuri della comune convenienza, ognuno inteso al proprio utile e per sua natura nemico e ingiusto a ogni utile altrui, ognuno nell'oscurità del suo travaglio ignaro di tutto nella vita fuorché del suo bisogno, non importa; egli sarà saggio e giusto e libero, avrà la persona della libertà, della giustizia, della saggezza, poiché egli sarà detto secondo la città libera e giusta e saggia. - La città isola le singole necessità [... e] così costituisce la produzione della vita elementare: l'agricoltura, le arti, i mestieri, il trasporto; costituisce gli organi dello scambio: il piccoloegrandecommercio; costituisce tutte le altre forme della vita; costituisce la necessità della guerra; e del difender la giustizia di quelle necessità con la violenza finge persona sufficiente ai puAxxec [sono appunto i "guardiani" platonici]; dell'affermare, sorvegliare, correggere la giusta affermazione di quelle necessità finge persona sufficiente ai capi dello stato [PR 147] !88. Se l'educazione di Socrate era dunque «creatrice di uomini» [PR 150], il suo discepolo infedele si mostra piuttosto attento a formare cittadini: [...] Platone non ha da fare uomini, egli ha da fare agricoltori, calzolai, fabbri, mercanti, banchieri, guerrieri, politici, che compiano ognuno la sua funzione necessaria ai singoli bisogni della città, perché questa pur si continui. Platone ha bisogno che ognuno s'adatti alla sufficienza di quell'astrazione di vita che egli a ognunoha macchinato [PR 151]. La "giustizia" platonica si rivela, dunque, per quella che è: "Ma intanto la città è costituita, e colla città sono costituite la giustizia, la saggezza, il coraggio, la padronanza di sé. La città è saggia per la saggezza dei suoi moderatori. La città è coraggiosa pel coraggio dei suoi puiarnec. E i guàxxes sono coraggiosi se vestono la persona della legge così che, la salvezza di quella come la loro essendo, da nessuna cosa possano esser trattenuti che non la difendano fino alla morte. - [...] E se ognuno di loro si sappia costringere a quel determinato ufficio e all'obbedienza alle leggi costituite, ognuno sarà padrone (!!) di sé stesso, e la città anch'essa sarà padrona di sé, in cui l'idea del bene, per consiglio dei saggi moderatori e per virtù dei difensori e per l'ossequio del popolo, si imporrà alle necessità della vita così ch'esse abbiano armoniosamente a cospirare alla continuazione del tutto [PR 156-157; corsivi ed esclamativi di M.]. Nel far ciò, completa M., Platone - diversamente da quanto ci tramandi la storiografia filosofica e da quanto Platone stesso affermi - non si discosta molto dall'orizzonte di dominio e di violenza perpetrato dai sofisti, anzi: «Altro che i sofisti! Se i sofisti erano ladruncoli, ma Platone - absit iniuria verbo - è il ladro in guanti gialli, che ha il suo sistema per rubare non più, come quelli facevano, questo o quello a caso, dicendo a ognuno: 'io sono un ladro'; ma con metodo e seriamente, per poter rubare tutto, e dicendo agli uomini: 'io son quello che ti salva per sempre dai ladri. Infatti è il modo più sicuro. Infatti, legittimando i compromessi dell'umana debolezza, egli toglie [...] all'uomo ogni possibilità di sentirsi in quella insufficiente, ogni bisogno d'affrancarsi da quella -» [PR 190; corsivi di M.]. 188 || periodo è preso della sezione II (Il Macrocosmo) della Il Appendice critica, dedicata nello specifico a Platone, in qualità di «note alla triste istoria» dell'aerostato; come appare chiaro, ci stiamo appoggiando alle polemiche citazioni di M. (sottintendendole), tratte appunto dalla Repubblica, per puntellare anche il nostro discorso. Queste parole, che si impongono per lucidità e forza al lettore, bastano a se stesse'®. Rimane solo da rilevare che la ri-proposizione di una simile istanza totalitaria di dominio e di violenza (stavolta sublimata nella rete necessaria e compiacente - «callopismatica» dice 189 In effetti, La critica di M. può, ad orecchio, richiamare Popper. Il primo volume del capolavoro di quest'ultimo, La società aperta e i suoi nemici [che noi leggiamo nella traduzione proposta dall'ed. Armando, 1973], infatti, è in pratica interamente dedicato a una critica acerrima contro il platonismo politico (il titolo la dice lunga: Platone totalitario). Volendo davvero ridurre all'osso l'argomentazione popperiana, possiamo dire che tutto il pensiero politico di Platone, secondo il filosofo austriaco, può essere ricondotto a un progetto totalitario di restaurazione della società chiusa (ovvero, della società tribale, che interpreta se stessa come naturale, sacra e immutabile, ed è collettivista, gerarchica, organica, fondata sulle relazioni faccia a faccia). A questo scopo, Platone si varrebbe di strumenti euristici,concettuali e politici, che s'innestano l'uno con l'altro e che riassumiamo così: essenzialismo metodologico (la teoria delle idee); collettivismo (come visto, gli individui hanno valore solo come parti della totalità più ampia ch'è lo stato); teoria organica o biologica dello stato (cfr. quanto detto sopra); tecnocrazia (il governo va affidato ai competenti); "storicismo" (sotto questo termine Popper accomuna tutte le dottrine che s'illudono di enunciare le leggi dello sviluppo storico nel suo insieme). [Com'è noto, a Platone Popper contrappone la propria prospettiva - che definisce "umanitaria" - di "società aperta", modellata/articolata secondo i criteri degli Stati di diritto e delle democrazie dei paesi occidentali, le cui istituzioni sarebbero (preferiamo utilizzare il condizionale) modificabili/riformabili secondo il metodo della libera discussione]. Ma più che alle risapute affermazioni di Popper, siamo interessati ad una pagina, lasciata nella forma di intuizione, di Althusser; pagina evidentemente meno conosciuta, ma che si avvicina più di Popper al discorso di M.. Althusser inserisce quest'appunto su Platone in un discorso generale sull'ideologia e ovviamente legge la Repubblica (e ne smonta il progetto educativo) alla luce del "sapere scientifico liberatore" - ovvero "rivoluzionario" - marxista-leninista, com'egli stesso confessa. E questo segna la sua profonda differenza col Goriziano. Eppure, quanto scrive Althusser converge in modo indiscutibile e impressionante con le valutazioni di M. (anche se, come detto, l'accostamento è soltanto "topico"): entrambi individuano nell'educazione il nocciolo/presupposto rettorico della struttura statale. Scrive il filosofo francese, col suo caratteristico stile senza reticenze: «Questo [ovvero che «gli individui concreti 'agiscono', e che è l'ideologia che li fa agire'»], Platone lo sapeva già. Egli aveva previsto che occorrevano dei poliziotti (i 'Guardiani') per sorvegliare e reprimere gli schiavi e gli 'artigiani. Ma sapeva che non si può mai mettere un 'poliz iotto' nella testa di ogni schiavo o artigiano, e nemmeno mettere un poliziotto personale al culo di ogni individuo (altrimenti occorrerebbe anche un secondo poliziotto per sorvegliare il primo e così di seguito... e alla fine non ci sarebbero altri che poliziotti nella società, senza nessun produttore, e di che cosa vivrebbero allora gli stessi poliziotti?). Platone sapeva che occorreva insegnare al ‘popolo", sin dall'infanzia, le 'belle menzogne' che lo ‘fanno agire' da solo, e insegnare al ‘popolo' queste Belle Menzogne in maniera che esso ci creda, al fine di ‘agire’. [l'insistere di Althusser sulle 'belle menzogne! ordite dall'educazione platonica è il punto di maggiore convergenza con le riflessionidel Goriziano, ma cfr. la citazione in seguito]. Platone non era certo un ‘rivoluzionario’, benché intellettuale... egli era un sacrosanto reazionario. Ma aveva abbastanza esperienza politica per non raccontare storie e credere che, in una società di classe, la semplice repressione può assicurare da sola la riproduzione dei rapporti di produzione. Egli sapeva già (senza averne il concetto) che sono le Belle Menzogne, cioè l'ideologia, che assicura per eccellenza la riproduzione dei rapporti di produzione. | nostri moderni ‘dirigenti’ ‘anarchici rivoluzionari" non lo sanno. Essi farebbero bene a leggere Platone, senza lasciarsi intimidire dall' ‘autorità del sapere' che vi troveranno, poiché, benché puramente ideologici, possono trovarvi, diciamo, 'insegnamenti' di base sul funzionamento di una società di classe» [L. Althusser, Lo stato e i suoi apparati, trad. it. Editori Riuniti, 1997, pag. 182], M., più di mezzo secolo prima, aveva scritto (e si tenga presente quanto or ora citeremo, dato che proprio qui si trova il perno dell'argomentazione critica-filosofica del Goriziano, non solo in riferimento a Platone, bensì a tutto l'apparato rettorico): «[Nello Stato platonico] la violenza cacciata per la porta è già rientrata per ogni fessura [..., infatti] perché ogni singolo a uno di questi scopi bcil. gli scopi sufficienti alla vita, astrazioni dei bisogni materiali] di indirizzar la sua vita e pei begli occhi della felicità e della giustizia astratta accetti di tenervela sempre diritta - bisogna che ognuno al suo posto sia colla violenza ammaestrato» [corsivo nostro].M. - dello Spirito) il Goriziano la riscontrò, a distanza di millenni, nella Filosofia dello Spirito di Hegel'°° [PR 92-93]. L'ou-topia platonica, trovava purtroppo - attraverso Hegel - la sua reificazione concreta e storica nel codice morale-penale austriaco [cfr. soprattutto PR 99-101]. Col filosofo tedesco l'umanità realizzata (ovvero, l'umanità politica) consisteva - proprio come insegnava Platone - nella spontanea consonanza fra quel che vuole l'individuo e quel ch'è richiesto dalla famiglia, dalla società civile e dallo stato. Per Hegel, questo è lo stato normale - fisiologico - della vita pratica, che può riscontrarsi nei periodi di equilibrio e di "sanità" dei popoli (Hegel credeva d'individuarlo, realizzato in tutta la sua pienezza e fulgore, nella grecità classica: basterebbe, in questo senso, analizzare il diverso rapporto del Tedesco e del Goriziano proprio nei confronti della grecità per scorgere l'enorme divario che li allontana). Il «momento etico», nella dialettica dello Spirito Oggettivo, supera l'astrattismo morale, che si arrovellava nell'antagonismo fra intenzione individuale e legge. Lo spirito oggettivo - in cui 190 In particolare, aggiungiamo noi, nei Lineamenti di filosofia del diritto. In effetti, M. trae le sue citazioni dalla Enciclopedia delle scienze filosofiche, dalle pagine in cui Hegel parla dello Spirito Oggettivo, il moment della realizzazione della volontà dello spirito libero, nella fattispecie il momento del concreto attuarsi della storicità sociale attraverso la famiglia, la società civile e lo stato. Come si sa, Hegel approfondì e delucidò tali presupposti nei Lineamenti; riteniamo allora opportuno richiamarne almeno alcuni paragrafi (tra l'altro famosi) per integrare le polemiche citazioni M.iane con i luoghi dove più evidente si mostra la cosiddetta "statolatria" del filosofo di Stoccarda: $ 257. Lo stato è la realtà dell'idea etica, - lo spirito etico, inteso come la volontà sostanziale, manifesta, evidente a se stessa, che pensa e sa sé e porta a compimento ciò che sa e in quanto lo sa. Nel costume lo stato ha la sua esistenza immediata, e nell'autocoscienza dell'individuo, nel sapere e nell'attività del medesimo, la sua esistenza mediata, casi come l'autocoscienza attraverso la disposizione d'animo ha nello stato, come in sua essenza, in fine e prodotto della sua attività, la sua libertà sostanziale. [...] § 258. Lo stato inteso come la realtà della volontà sostanziale, realtà ch'esso ha nell'autocoscienza particolare innalzata alla sua universalità, è il razionale in sé e per sé.Questa unità sostanziale è assoluto immobile fine in se stesso, nel quale la libertà perviene al suo supremo diritto, così come questo scopo finale ha il supremo diritto di fronte agli individui, il cui supremo dovere è d'esser membri dello stato. [...] $ 260. Lo stato è la realtà della libertà concreta; ma la libertà concreta consiste nel fatto che l'individualità personale e i di lei particolari interessi tanto hanno il loro completo sviluppo e il riconoscimento del loro diritto per sé (nel sistema della famiglia e della società civile), quanto che essi, o trapassano per se stessi nell'interesse dell'universale, o con sapere e volontà riconoscono il medesimo e anzi come loro proprio spirito sostanziale e sono attivi per il medesimo come per loro scopo finale, così che né l'universale valga e venga portato a compimento senza il particolare interesse, sapere e volere, né gli individui vivano come persone private meramente per l'ultimo, e non in pari tempo vogliano nell'universale e per l'universale e abbiano un'attività cosciente di questo fine. Il principio degli stati moderni ha questa enorme forza e profondità, di lasciare il principio della soggettività compiersi fino all'estremo autonomo della particolarità personale, e in pari tempo di ricondurre esso nell'unità sostanziale e così di mantener questa in esso medesimo. $ 261. Di fronte alle sfere del diritto privato e del benessere privato, della famiglia e della società civile, lo stato è da un lato una necessità esteriore e la loro superiore potenza, alla cui natura le loro leggi, così come i loro interessi sono subordinati e da cui sono dipendenti; ma dall'altro lato esso è il loro fine immanente ed ha la sua forza nell'unità del suo universale fine ultimo e del particolare interesse degli individui, nel fatto ch'essi in tanto hanno doveri di fronte ad esso, in quanto hanno in pari tempo diritti [...] § 265. Queste istituzioni costituiscono la costituzione, cioè la razionalità sviluppata e realizzata, nell'ambito del particolare, e sono perciò la base stabile dello stato, casi come della fiducia e della disposizione d'animo degli individui per il medesimo, e i pilastri della libertà pubblica, poiché in esse la libertà particolare è realizzata e razionale, quindi in esse stesse sussiste in sé l'unione della libertà e della necessità. [Siamo nella parte terza - L'eticità; Terza sezione - Lo stato; le citazioni sono desunte dalla trad. it. dei Lineamenti peri tipi della Laterza, 2000, a cura di G. Marini, e corrispondono, rispettivamente, alle pagg. 195, 201 e 204; i corsivi sono di Hegel]. finalità individuale e finalità collettiva coincidono - si realizza pienamente nello Stato, «a sostanza etica consapevole di sé». La sua essenza è costituita da quello stesso amore che sta a fondamento della famiglia, innalzato però a «universalità saputa», a consapevolezza cioè del proprio valore universale. In questo senso, lo Stato non conosce altri poteri al di sopra di sé. Ovvero, tradotto il tutto in termini M.iani, i rapporti sufficienti che l'uomo intrattiene con la propria vita) e con le altrui vite assurgono all'ordito - ovvero si camuffano - di rapporti razionali e dunque razionalmente necessari, e la Rettorica sociale (statale) prende vita, e acquista diritto e giustificazione del proprio esistere, nella forma pudica e "benevola" dell'Astuzia della Ragione [List der Vernunft], la parca che tesse nel segreto le ragioni e le finalità degli uomini. 4. La Rettorica come tecnica della violenza e violenza della tecnica. Non c'è maggior potenza di quella che si fa una forza della propria debolezza. Carlo M. La Rettorica, dunque, è es-propriazione: in ciò consiste la sua violenza. L'unico modo per sconfiggere la Rettorica sarebbe - afferma M., nelle ultime, sconcertanti pagine della sua tesi - scongiurare appunto ogni educazione: questa, in sintesi, la pretesa davvero rivoluzionaria (e quanto veramente rivoluzionaria rispetto a tante altre sedicenti tali) del Goriziano: «togliere la violenza dalle radici» è il suo motto, nella forma del conosci te stesso: Reagisci al bisogno d'affermare l'individualità illusoria, abbi l'onestà di negare la tua stessa violenza, il coraggio di vivere tutto il dolore della tua insufficienza in ogni punto [PR 45-46]. Utopia, è vero. Perché la Rettorica si impone, è onnipresente, è tutto ciò che accade: e lo è in modo irrimediabile. Perché, oltre che una sua forza, ha una sua intelligenza (conosce paure e debolezze degli uomini, degli esseri, e le sfrutta), una sua estrema capacità di adattamento. La sua storia universale è anzi la storia del suo adattamento: il dispositivo rettorico - quasi entità a sé stante, quasi entità pensante - ha inteso la grande forza del "segreto", la strategia vincente della "dissimulazione": ha inteso che «sarebbe povero nelle sue risorse, economo nei suoi procedimenti, monotono nelle tattiche che usa, incapace d'invenzione ed in un certo senso condannato a ripetersi sempre» * '°": avendo nient'altro «che la potenza del 'no', del divieto, dell'ingiunzione, della coartazione, esso «sarebbe essenzialmente anti-energia» *: «tutti i modi di dominio, di sottomissione, di assoggettamento si ridurrebbero in fin dei conti all'effetto di obbedienza » * «C'è una ragione generale e tattica che sembra autoevidente: il potere [nella nostra prospettiva: il dispositivo rettorico, ma nel taglio ermeneutico che stiamo dando è lo stesso] è tollerabile a condizione di dissimulare una parte importante di sé. La sua riuscita è proporzionale alla quantità di meccanismi che riesce a nascondere. Il potere sarebbe accettato se fosse interamente cinico? Il segreto non è per lui un abuso; è indispensabile al suo funzionamento » *. Il sistema della violenza, alle proprie manifestazioni esterne, ai risultati di azioni cogenti di istituzioni deputate al "sorvegliare e punire" (che tuttavia sopravvivono, propaganda della ventilata sicurezza), al suo porsi come "stato di diritto", preferisce le forme dell'interiorità (le forme della morale farisaica che si oggettivano, nei codicilli del diritto morale-penale), preferisce assumere le ammalianti sembianze di giustizia sociale e di razionalità sociale: si è fatto carne e sangue forgiando i tipi del "soggetto" in filosofia, dello "scienziato" nella conoscenza e in ultimo - figura in cui le prime due si compendiano - del "cittadino 191 Cfr. la nostra nota 167. modello" nella società cosiddetta civile, come denuncia il Goriziano, in pagine davvero forti e risentite. Sono queste le forme, insomma, in cui - secondo M. - la violenza rettorica si è sublimata (nel senso davvero freudiano del termine), sono questi i meccanismi attraverso i quali l'ideologia si è fatta idealità, e il Leviatano si è fatto società ideale e addirittura vagheggiata. Ironia del dispositivo rettorico: «ci fa credere che ne va della nostra liberazione » *. Ma seguiamo più da vicino il dettato del nostro giovane filosofo, riprendendo opportunamente la dimostrazione del "teorema-M." là dove l'abbiamo interrotta nel paragrafo precedente, amplificandola qui proprio al contesto sociale'””. Abbiamo lasciato l'uomo nella condizione sospesa tra l'illusione della permanenza e la consapevolezza, che nella trama dell'illusione s'insinua, della effettiva condizione tragica della propria esistenza: l'uomo «sente d'esser già morto da tempo e pur vive e teme di morire» [24]: perché «chi teme la morte è già morto» [33]. A questa condizione insostenibile, il dio luciferino della yopoyw trova - o pretende di trovare - un più collaudato ed efficace «schermo [o empiastro] al dolore» [34 e 58]: il dispositivo sociale, appunto. L'uomo chiede «ad altri appoggio alla sua vita» [34], «dà e chiede, entra nel giro delle relazioni» [43]. Se prima il compromesso della consistenza si consumava, come dire, nella percezione "onanista" del proprio corpo, ora gli uomini - con maggior insistenza - «chiedono di esser per qualcuno e per qualcosa persona sufficiente con la loro qualunque attività, perché la relazione si possa ripetere nel futuro; perché il correlato sia per loro sicuro nel futuro» [53]: «egli [l'uomo] si vuol ‘costruire una persona' con l'affermazione della persona assoluta che egli non ha: è l'inadeguata affermazioned'individualità: la rettorica» [57]. Ma nel volgersi «a ricercare quelle posizioni dove il senso attuale della sua persona lo aveva altra volta adulato colla voce del piacere: ' tu sei' [ovvero, appunto, nella rettorica sociale], [..., egli] già è fuori del giro sano della sua potenza» [64], in modo definitivo e irrimediabile. Insomma, gli uomini decidono di «adattarsi ragionevolmente» [89] l'uno all'altro: cosa davvero singolare, ammette M., la contraddizione che si viene a creare: nella società «tutti hanno ragione» quando invece «nessuno ha la ragione» [39, ma anche 54] della propria esistenza. Difatti, e qui le parole del nostro filosofo sono chiarissime, nello stipulare la «cambiale della società » [102] gli uomini si comportano «non però, come ci aspetteremmo, vittime della loro debolezza - in balia del caso, ma 'sufficienti' e sicuri come divinità » [95]. E' dunque il punto più alto dell'illusione del dio del piacere, il punto in cui la sua "arte tessile" assurge a livelli di "regale" maestria'”. 192 Cfr. nota 161. 193 Le nostre espressioni vengono ispirate da un passo del Politico di Platone, che ci restituisce la valenza della sua rettorica politica in forma pressoché conclusiva. La nostra citazione, dunque, si allinea a quelle (davvero numerose) di Michelstadter, e inende compendiarle, condividendone il contesto polemico:Nella stipulazione del "contratto sociale" gli uomini «si son fatti una forza della loro debolezza, poiché in questa comune debolezza speculando hanno creato una sicurezza fatta di reciproca convenzione» [95, ma anche D 66]: essi, cioè, hanno trovato definitivamente «il modo di poter continuare con sicurezza ad aver fame in tutto il futuro» [94]. Così, da una parte, la società «largisce loro sine cura tutto quanto gli è necessario» [adattato da 96]; dall'altra, essi fingono di ignorare che «a loro degenerazione è detta educazione civile, la loro fame è attività di progresso, la loro paura è la morale, la loro violenza, il loro odio egoistico - la spada della giustizia» [95]. Questo perché, in effetti, la sicurezza - per quanto graditi siano i suoi servigi e privilegi - si paga comunque con un grandissimo scotto: essa «è facile ma è tanto più dura: la società ha modi ben determinati, essa lega, limita, minaccia: la sua forza diffusa è concreta in quel capolavoro di persuasione che è il codice penale. La cura di questa sicurezza asservisce l'uomo in ogni atto » [100-101]. E dunque, l'uomo da un lato si trova costretto ad accettare la propria «libertà d'esser schiavo » («cercando la sicurezza nell'adattamento a un codice di diritti e doveri») [94], e così pratica violenza contro se stesso; dall'altro, «impone al resto della materia [alle cose] la stessa forma» [96] che a lui risulta utile («violenza sulla natura: lavoro» [97]) e, cosa ancor più grave, «subordina il suo simile alla propria sicurezza » [97] («violenza verso l'uomo: proprietà » [97]). Questo meccanismo, leggermente complicato nell'esposizione ma semplice nel suo funzionamento, ha la forza di un potentissimo abbrivo: date queste premesse, la Rettorica ha facile gioco nel «coinvorticare» («come la corrente d'un fiume ingrossato ») [59] tutta la congerie umana e tutti gli aspetti dell'esistenza del singolo individuo, riuscendo a contaminare ogni sana e onesta persuasione in "disonestà". Il procedimento si reduplica e si estende, possiamo dire, per inerzia di moto e per sineddoche di comportamento (la Rettorica, come la Fama virgiliana, eundo crescit), seguendo una parabola che M. spiega e sintetizza, mirabilmente, nel suo Dialogo: [...] la preoccupazione della vita spingerà pur sempre gli uomini a curare e a cercare le posizioni dove videro vivere altrui, dove forse anche parve a loro stessi per qualche tempo vivere. Nasce per questa preoccupazione, dalla vita sana del corpo, la degenerazione sensuale e la rettorica dei piaceri; dalla diritta attività d'un uomo che ha una sua missione da compiere, l'ambizione della potenza - e la rettorica dell'autorità; dall'opera d'un uomo che aveva qualche cosa da dire - la posa dei creatori e la rettorica artistica; dalle parole degli uomini che mostrarono agli altri la retta via - la presunzione dei pensatori - e la rettorica filosofica con la sua sorella minore: la rettorica scientifica [D 64]. La prima cambiale per l'uomo è il suo corpo, poi viene la camicia con la quale è nato - e la camicia è contesta di posizione, diritti acquisiti, affetti acquisiti come i diritti, non solo, ma anche di ciò che il socialmente povero «Ecco tutta la funzione regale di tessitura: non lasciare mai che entri in azione una separazione fra il carattere temperato e il carattere energico, che devono invece essere orditi insieme, in una comunità di intenti e di opinioni, in una condivisione di onori e di gloria, e in una sorta di giuramento comune, per farne un tessuto armonioso e, come si dice, ben serrato, e confidare a questi due elementi le magistrature della città [...] Ecco pronta la buona stoffa prodotta dall'ordito dell'azione politica, allorché, partendo dai caratteri umani di energia e di temperanza, la scienza regale assembla e unisce le loro due vie per mezzo della concordia e dell'amicizia, e realizzando così il più magnifico e il più eccellente di tutti i tessuti, vi avvolge, in ciascuna città, tutto il popolo, schiavi e uomini liberi, serrandoli insieme nella sua trama e assicurando alla città, senza pericolo di insuccesso, tutta la prosperità di cui può godere quando è ben governata» (Politico, 310e - 311c).trova già nell'atmosfera: le vie, i modi, tutto il lavoro accumulato dai secoli e di cui i posteri godono i frutti nella vicendevole sicurezza e nella sicurezza di fronte alla natura [D 67-68]. Questa sicurezza dissimula e copre con un velo di «prudente ipocrisia» [D 68] una reale situazione di conflitto, quella sociale, dove in realtà l'homo è homini lupus, dato che «invidia ambiziosa, prepotenza e timor degli uomini» («le virtù consacrate» della rettorica sociale) [D 68] la fanno da padrona. Tuttavia, come nella singola individualità la voce del dolore si fenomenologizza nelle nevrosi quotidiane o esplode nelle situazioni-limite della perplessità esistenziale, nel contesto sociale essa prende fiato attraverso la rabbia dei popoli: «la rabbia è il Leitmotiv della vita sociale», il «cigolio continuo della macchina sociale»; attraverso di essi, gli uomini sfogano la loro «impazienza e l'insopportabile senso della dipendenza » [D 69, ma anche PR 120-121]. Ma quali sono gli strumenti attraverso i quali la Rettorica assicura la «sicurezza fatta di reciproca convenzione», ovvero, quali sono le reificazioni del /avorio di (falsa) persuasione ch'è proprio della Rettorica? Possiamo utilmente schematizzare le indicazioni del Goriziano (del resto, ne abbiamo parlato a sufficienza nel paragrafo su Parmenide): a) il denaro, «concentrato di lavoro»'*, destinato a diventare «del tutto nominale, un'astrazione, quando le ruote saranno così ben congegnate che ognuna entrerà nei denti dell'altra senza bisogno di trasmissione» [118]'®; 194 In questa definizione del denaro si può scorgere, netta, l'influenza della lettura di testi di Marx, a M. non alieni. Un importante appunto autografo, riportato dal Cerruti [cfr. in appendice alla sua monografia cit. alle pagg. 167- 168], mostra ad esempio che M. lesse, annotò e schematizzò, in brevi linee e concetti-chiave, Il capitale. Questo non deve far pensare, secondo noi, a velleità rivoluzionarie-proletarie (nel senso marxiano del termine) nel nostro giovane filosofo - che comunque pur scrisse, in gioventù, un Discorso al popolo -; o addirittura ad un inserimento della sua Persuasione "contestatrice" all'interno di una temperie marxista, come da alcuni pur è stato tentato. In realtà, M. ci si mostra lontano da ogni engagement politico, e questa sua posizione la valutiamo più che come sintomo di un' "ignoranza" o indifferenza politica, come conseguenza di una ben ponderata presa di posizione. Evidentemente, il gioco politico (nella fattispecie, quello dei partiti) dovette apparire al Goriziano come una delle forme più lampanti e più "scanzonate" del compromesso rettorico: all'interno della "comunella di malvagi" esiste solo un apparente fronteggiarsi, su posizioni solo in apparenza contrarie, che mirano esclusivamente al potere (oggi si chiamerebbe partitocrazia). La politica del tempo gli si doveva rivelare come conferma di ciò; vale la pena, allora, riportare l'unico appunto politico (nel senso gretto del termine) che abbiamo ris contrato nella nostra lettura dei suoi testi, anche a testimonianza della lucidità della sua analisi in proposito: «[...] Il socialismo [M. sta parlando delle manipolazioni che la Rettorica ha prodotto a scapito dei "sinceri" moniti della Persuasione] - mantenendo le forme, il nome, gli schemi delle argomentazioni, tutto il frasario di Marx - ha ridotta la sua negazione della società borghese a un elemento di riforma nella società borghese, volto a scopi più o meno particolari e materiali: più o meno mite, a seconda che più o meno i capi del partito avevano bisogno della società borghese e, approfittando della forza che loro concedeva il partito, ambivano a un posto in quella. Così che in Francia il socialismo è giunto al governo, in Germania ha creato una classe benestante più borghese dei borghesi, in Itali... dell'Italia è pietoso tacere. -» [PR 124-125 in nota; corsivi dell'autore], Possiamo con comodità riassumere la questione, e segnare i distinguo, dicendo che, a differenza di Marx, M. non approntò una critica/analisi della Rettorica a partire da strutture economiche, bensì a partire da strutture ontologiche (la deficienza). b) il linguaggio, che «arriverà al limite della persuasività » [118], tale che «gli uomini si suoneranno vicendevolmente come tastiera» [119] "°° e il linguaggio giungerà alla sua «cristallizzazione» [112] definitiva”; niente paura, tuttavia: seppure un giorno «gli uomini non riusciranno ad intendersi certo giungeranno [comunque...] ad intendersela » [88]/®8; c) la scienza, esasperazione della pretesa conoscitiva, «officina dei valori assoluti» [125], il baluardo dell'oggettività, che ri-formula a suo arbitrio la consistenza dell'esistere ricavando «dalla contemporaneità o dal susseguirsi d'una data serie di relazioni una presunzione di causalità» [84; corsivo nostro]; in questo rivelandosi lo strumento preferito della yiaopuyia [84]. 95 Si pensi alle transazioni "virtuali" che oggi avvengono mediante bancomat e carte di credito, o anche attraverso internet. %6 Si pensi alle... tastiere dei nostri PC che permettono di chattare (come si dice in gergo) attraverso internet. 97 «[...] Date parole sulle quali gli uomini senza conoscerle s'appoggiano per gli usi della vita e senza conoscerle come ricevute le danno» [87, corsivi di M.]. 98 Come visto più volte, per M. lo strumento del linguaggio nasce innanzitutto da un bisogno di "consistenza"; vale a dire che la "solidità" della parola, e soprattutto dei luoghi comuni e dei "te cnicismi", serve da una parte a creare sostanza (illusoria) alla propria deficienza attraverso il rapporto con gli altri (nel circuito linguistico) [La utilità, quella originaria], dall'altra ad economizzare la transazione rettorica, se possiamo esprimerci così [2a utilità, quella definitivamente artefatta]. Questa situazione di "stordimento" (in riferimento soprattutto alla prima utilità), il vano tentativo di stornare la voce del dolore/deficere attraverso il frinire "innaturale" del linguaggio, denunciata più volte da M., e con insistenza, viene allegorizzata in questa breve, bellissima favola di Rilke, che ci piace riportare, convinti che se il Goriziano l'avesse letta l'avrebbe di sicuro, a sua volta, citata (si leggano con attenzione soprattutto gli ultimi capoversi):«C'erano due creature, un uomo e una donna, che si amavano. Amarsi vuol dire non accettare nulla, da nessuna parte, dimenticare tutto e volere ricevere tutto da una sola persona, quello che già si possedeva ed il resto: e questo è quanto desideravano reciprocamente le due creature. Ma nel tempo, nei giorni, nel flusso di tutto quello che va e viene, spesso, prima ancora di avere stabilito un rapporto, un simile modo di amare non può essere mandato ad effetto: gli avvenimenti incalzano da ogni lato ed il caso apre loro ogni porta. Per questo i due risolsero di passare dal tempo alla solitudine lontano dal suono delle ore e dai rumori della città. Si costruirono dunque una casa dentro un giardino; e la casa aveva due porte, una sul lato destro e una sul lato sinistro. La porta di destra era la porta dell'uomo, e di qui doveva entrare tutto quanto era dell'uomo. Ma quella di sinistra era la porta della donna; e sotto questo arco doveva passare tutto quello che apparteneva alla donna. Così avvenne. Chi primo si destava il mattino scendeva ad aprire la sua porta, e fino a tarda ora della notte entravano molte cose, anche se la casa non era posta lungo una strada. Per chi sappia come riceverli, arrivano fino in casa paesaggio luce e una brezza dalle spalle cariche di odore e molte altre cose ancora. Ma anche giorni trascorsi, figure, destini, entravano per quelle due porte, e a tutti era riservata la stessa accoglienza, tanto semplice che ognuno credeva di avere sempre abitato in quella casa solitaria. Così procedettero le cose per un lungo periodo di tempo, e le due creature erano molto felici. La porta di sinistra veniva aperta un poco più spesso, ma per quella di destra entravano ospiti più vari. Dinanzi a questa, un mattino era ad attendere la Morte. L'uomo, non appena la ebbe veduta, chiuse in fretta la porta e la tenne ben serrata per tutto il giorno. Poco dopo la Morte apparve dinanzi all'ingresso di sinistra. La donna chiuse tremando la porta elasbarrò con un robusto chiavis tello. Essi non si dissero nulla dell'accaduto; ma aprirono più di rado le due porte e cercarono di accomodarsi con quanto avevano in casa. La loro vita divenne così molto più povera di prima. Le loro riserve si fecero scarse, sorsero le prime preoccupazioni. Cominciarono a dormire male; e durante una di quelle lunghe notti insonni, entrambi udirono improvvisamente uno strano rumore, quasi uno scalpicciare e un picchiare insieme. Veniva di là dal muro di casa, a eguale distanza dalle due porte, ed era come se qualcuno cominciasse a scalzare pietre per aprire una nuova porta al centro di quel muro. Nel terrore improvviso che li colse, i due si comportarono come se non udissero nulla di strano; cominciarono a parlare, a ridere in modo innaturale; e quando si furono stancati, il rumore alla parete era cessato. Da quella notte in avanti le due porte rimangono definitivamente chiuse. | due vivono come prigionieri; sono malati, soffrono di strane fantasie. Il rumore si ripete di tempo in tempo. Allora essi ridono con le labbra, ma i loro cuori sono sul punto di mancare dallo spavento. Ed entrambi sanno che il rumore diventa sempre più forte e distinto, e debbono parlare e ridere sempre più forte con le loro voci sempre più fioche». [cfr. R. M. Rilke, Le storie del buon Dio, trad. it., Milano, Rizzoli, 1978, pp. 119-122].La società, soprattutto attraverso la scienza, non soltanto assicura "oggettività esistenziale" ma scongiura agli uomini ogni «tovog - ogni pericolo che esiga tutta la fatica intelligente e tenace per esser superato » [105] (ma, in effetti, i due "pregi" s'identificano). Nel far questo, essa si autopromuove, come si dice oggi, a "scienza con fini operativi", ovvero a tecnica. La vita si tecnicizza, il che wol dire, secondo M. (il quale non fa differenza fra tecnica e tecnologia), che la vita si de-potenzia'’. La tecnica, cioè, viene a 199 La critica di ispirazione heideggeriana può, a buon ragione, individuare soprattutto in questo punto uno dei più espliciti "precorrimenti" di M. rispetto al filosofo tedesco. Tuttavia, a prescindere da una certa, effettiva consonanza di diagnosi che pare accomunarli, ribadiamo quello che, a nostro parere, è l'irriducibile "cavillo" che li contraddistingue e che rende vana, per noi, ogni operazione di accostamento: per Heidegger, l'oblio dell'Essere e il richiamo all'esistenza autentica (come riappropriazione dell'orizzonte ontologico del Dasein) si giocano sul piano appunto dell'ontologia; per M. la Rettorica ha una natalità fisiologica, se possiamo esprimerci così, e il richiamo all'esistenza autentica si consuma sul piano del socratismo, ovvero di una forte istanza etica (etica che, come si sa,Heidegger ci tenne ad escludere dalla sua "analitica esistenziale"). E' comunque indicativo come, seppur partendo da differenti presupposti, i due filosofi si fanno interpreti di una comune "perplessità" del pensiero di fronte ai risvolti "violenti", neanche tanto nascosti, che la tecnica porta con sé. Evidentemente, la traduzione politica del dominio tecnico veniva presentita come pericolo in un'età incerta per eccellenza, che - volendo - M. apre e Heidegger chiuderà, con gli esiti contraddittorii che tutti conosciamo. E' altrettanto ovvio che M. non fu il primo ad individuare, e a denunciare, l'essenza tecnica, diciamo il "tecnocratismo", del suo tempo: a partire dalla rivoluzione industriale, almeno, la polemica - moralistica e/o scientifica (intendiamo, per quest'ultimo punto, marxista) - contro la riduzione dell'uomo a ingranaggio era addirittura un fatto alla moda. E prima di M., già un Carlyle, ad esempio, ci dava un ottimo resoconto di prospettiva: «Se ci si chiedesse di caratterizzare questa età, che è la nostra, con qualche epiteto unico, saremmo tentati di chiamarla non Età Eroica, Religiosa, Filosofica o Morale, ma l'Età Meccanica, sopra ogni altra. E' l'Età del Macchinismo in tutti i significati della parola, esterno e interno; l'Età che con tutto il suo potere indiviso, fa progredire, insegna e pratica la grande arte di adattare i mezzi allo scopo. Nulla si fa ora direttamente, o a mano; tutto colla regola e colla combinazione calcolata. [...] Da ogni parte l'artigiano vivente è cacciato dalla sua officina per lasciare il posto ad un altro più rapido ed inanimato. La spola sfugge alle dita del tessitore e cade in dita di ferro che la maneggiano con maggiore velocità. [...] Per tutti gli scopi terrestri e per alcuni scopi non terrestri ci sono macchine e aiuti meccanici; per tritare i nostri cavoli, per immergerci in un sonno magnetico. [...] Che meravigliosi incrementi furono cosi portati e sono ancora apportati alla potenza fisica dell'umanità; quanto meglio nutriti, vestiti, alloggiati, e sotto i rapporti esteriori, quanto meglio accomodati sono ora, o potrebbero essere, gli uomini con una certa misura di fatica; ecco una riflessione piacevole che si impone ad ognuno. Quali cambiamenti, inoltre stia apportando nel sistema sociale questo accrescimento di potenza; come sia sempre più cresciuta la ricchezza e nello stesso tempo si sia sempre più accumulata in masse, alterando stranamente le vecchie relazioni e aumentando la distanza fra il ricco e il povero, sarà un problema per gli economisti politici. [...] Ma lasciando per ora queste materie, osserviamo come il genio meccanico del nostro empo si sia esteso in campi affatto estranei. Non è soltanto l'esteriore e il fisico che sono retti dal meccanismo, ma anche l'interiore e lo spirituale. Anche qui nulla segue il suo corso spontaneo, nulla è lasciato in balia degli antichi metodi naturali [...}». A tal proposito, troviamo interessante riscontrare anche un'indiscutibile analogia descrittiva all'interno della comune polemica (di Carlyle e di M.) contro l'età del Macchinismo: entrambi fanno riferimento a esempi concreti, minimi, 'tecnici"; entrambi denunciano una meccanizzazione non solo dell'aspetto "esteriore e fisico", ma anche dell' "interiore e spirituale". E'anche interessante valutare l'alternativa che Carlyle propone all'età della tecnica; poco dopo il passo citato, egli scrive:«Il Filosofo di quest'epoca non è un Socrate, un Platone, [...] che inculca agli uomini la necessità e il valore infinito della bontà morale, e questa grande verità, che la nostra felicità dipende dallo spirito che è in noi e non dalle circostanze che sono fuori di noi; ma uno Smith, [...] un Bentham, che inculcano precisamente il contrario, - cioè che la nostra felicità dipende intieramente dalle circostanze esteriori; e che anche la forza e la dignità dello spirito che è in noi sono esse pure la creazione e la conseguenza di quelle circostanze. Se le leggi e il governo fossero bene ordinati, tutto andrebbe bene per noi; il resto si accomoderebbe a suo piacere!», Un resoconto che M. avrebbe controfirmato (a meno che da esso non sia stab anche ispirato, ma sinceramente non ce la sentiamo di avanzare l'ipotesi). Quest'ultima citazione da Carlyle non vuole certo appiattire l'originalità della proposta persuasa di M., né il suo riferimento alla lezione genuina del socratismo come sostanza etica della Persuasione (ci mancherebbe altro); vuol soltanto far intendere come la ricerca esistenziale dicoincidere con la razionalizzazione estrema della relazione sufficiente poiché essa, in sostanza, s'impegna - potremmo dire, in base al nostro assunto interpretativo - a sufficere homines [cfr. supra], meccanizzandone quella che la Arendt chiamava, in senso pregnante, vita activa. In base a questa diagnosi, che M. snocciola non tanto a livello teoretico 200, il Goriziano conclude che «ogni quanto piuttosto indugiando su esempi di vita concreta progresso della tecnica istupidice per quella parte [ch'essa intende sufficere] il corpo dell'uomo» [104]: «le vesti, la casa, la produzione artificiale del calore rendono inutile la facoltà di reazione dell'organismo», tale che «l'individuo per sé non è più una forza pericolosa in mezzo agli animali». Siamo convinti che queste affermazioni di M., che corrono il rischio di esser lette come un grossolano parossismo anti-tecnologico, trovino il motivo della loro esagerazione soprattutto in una velata polemica "ideologica" individuabile tra le righe: esse, cioè, ci appaiono non solo come ammissioni, ma anche come contestazioni, se si tien conto (e invitiamo a farlo) delle contemporanee tecno-apologie del futurismo, altrettanto parossistiche?°'. Inoltre, le conclusioni del Goriziano confortano anche la nostra linea interpretativa, che legge "foucaultianamente" la Rettorica, nella sua espressione più pura, come tecnica politica del corpo: difatti, proprio attraverso la tecnica, secondo M. essa sollecita un processo (diremmo, danwiniano) di atrofia progressiva delle potenzialità organiche dell'individuo, condizione sufficiente all'asservimento totale (e in questo contesto, invitiamo anche a tener conto delle "ragioni" della servitù secondo Aristotele, nelle prime pagine della Politica). M., oltre che essere frutto di un impegno, di una esigenza e di una sofferenza personali, evidentemente s'inseriva anche all'interno di una temperie culturale - che accomunava le voci più alte non solo del socialismo e del radicalismo, ma anche del liberalismo, dell'anarchismo e addirittura del fronte reazionario - che auspicava all'unisono un ritorno dell'uomo alle autentiche radici della sua umanità. [Per le citazioni dei passi di T. Carlyle, cfr. dell'autore: Segni dei tempi, contenuto in Ideologie nella rivoluzione industriale,a cura di F. Papi, Zanichelli, 1976, pagg. 121-124 passim] 200 O meglio, lascia al lettore la facoltà di evincere il livello teoretico dai riferimenti "empirici". Per gli esempi polemici adottati da M. cfr. ib. pagg. 106-107. Ma cfr. anche la nostra nota precedente. 201 Anzi, la posizione di M. (tecnologia come atrofia dell'organo per delega della funzione, se possiamo dir così) pare offrirsi come il ribaltamento speculare di quella futurista (tecnologia come potenziamento dell'organo per ausilio nella funzione). E, in questo senso, c'è forse anche un intento ironico nel sottolineare l'effetto d' "evirazione" che la tecnica produce. L'esaltazione del meccanismo e della velocità, già esplicita nel Manifesto del 1909 (l'anno in cui M. cominciò a scrivere la sua tesi), diviene in Marinetti addirittura utopia di un nuovo uomo meccanico e "moltiplicato": «Il giorno in cui sarà possibile all'uomo di esteriorizzare la sua volontà in modo che essa si prolunghi fuori di lui come un immenso braccio invisibile il Sogno e il Desiderio, che oggi sono vane parole, regneranno sovrani sullo Spazio e sul tempo domati. Il tipo non umano e meccanico, costruito per una velocità onnipresente, sarà naturalmente crudele, onnisciente e combattivo. Sarà dotato di organi inaspettati: organi adattati alle esigenze di un ambiente fattodiurti continui. Possiamo prevedere fin d'ora uno sviluppo a guisa di prua della sporgenza esterna dello sterno, che sarà tanto più considerevole, inquantoché l'uomo futuro diventerà un sempre migliore aviatore».La tecnica dunque è il punto più alto e più subdolo della violenza verso l'uomo e verso la natura [97-98], poiché l'organizzazione tecnica della vita - ossia l'orizzonte tecnico di dominio - presuppone e valuta tutti gli enti del mondo sublunare alla stregua di risorse- corpi a disposizione, momenti-corpi di un ingranaggio, materiali-corpi impiegati/impiegabili secondo piani prestabiliti?°?, Il danaro, il linguaggio, la scienza, e la sua escrescenza tecnica, rappresentano così la cementazione dell'intreccio delle relazioni sufficienti, e - garantendosi fondamenta così salde - la Rettorica ha facile gioco nell'edificare il suo sistema sociale, la sua geniale architettura di dominio. «Questa camicia di forza o camicia rettorica - scrive M. - è contesta di tutte le cose nate dalla vita sociale: 1°, i mestieri; 2°, il commercio; 3°, il diritto; 4°, la morale; 5°, la convenienza; 6°, la scienza; 7°, la storia» [120]. Ed ha per giunta una sua deontologia, un suo pentalogo”° a uso e consumo della sua violenza: 1 non impegnarti con tutta la tua persona 2 distingui tra teoria e pratica 3 prendi la persona della sufficienza che t'è data 4 misura i doveri coi diritti 5 informati a ciò che è convenuto [108] In definitiva, la genialità della Rettorica è nel far calzare ai propri "sudditi", coi modi della lusinga, una convenienza che più che un abito sociale è divenuta una vera e propria nuova pelle [156; vedremo più avanti come ci riesca]; tal che essi, beati per l'azione dell'oppiaceo rettorico, «galleggiano alla superficie della società come un ago asciutto alla superficie dell'acqua per l'equilibrio delle forze delle forze molecolari» [120; corsivo di M.], senza sforzo e, soprattutto, cosa più grave, senza responsabilità [108]. Gli uomini si adattano volentieri ad essere partes materiales dell'organismo sociale [148, ma anche 114], scambiano la Salute per la felicità e | benessere, che la Rettorica propina loro nelle sembianze dell'«armoniosa soddisfazione delle singole necessità» [154] e dell'«ottimismo sociale» [117]. La Rettorica sociale è il paese dei balocchi” e l'uomo, come Pinocchio, «non è un E così via. E' altresì interessante notare che Marinetti, pochi capoversi prima, aveva dileggiato i Lavoratori del Mare di Victor Hugo come opera emblema di «un leitmotiv dominante tedioso e sciupato [quello della «divina Bellezza- Donna»]», opera invece adorata da M.. [per le citazioni da Marinetti, cfr. dell'autore L'uomo moltiplicato e il Regno della Macchina, contenuto in Filippo Tommaso Marinetti e il Futurismo, Oscar Mondadori, 2000, a cura di Luciano de Maria, pagg. 38-42]. 202 Per Heidegger, l'essenza della tecnica - il punto estremo dell' "oblio dell'Essere" - si rivela come Gestell, "impianto", ossia unione di tutti i modi dell'impiegare. Gli heideggeriani, giocando sull'etimologia, fanno notare che Gestell vuol dire anche "scaffale", dove il Ge (che traduce il cum latino), sta per il modo della raccolta. E che il Ge lo ritroviamo nel Gefahr, nel "pericolo" della tecnica come orizzonte planetario in cui il "pensiero calcolante" oblitera definitivamente l'essenza dell'Essere. 203 Si confronti col già citato Pentalogo della persuasione; per cui cfr. anche oltre, in relazione ad un altro pentalogo, quello tolstoiano. Mittwisser, ovverdwc, conscius, ma complice in buona fede» [108] del lucignolo dio della popoya, nel disporre e nel gioire del suo "svago" e delle sue comodità. 204 Leggiamo in questo senso la simpatia di M. per l'opera di Collodi (come ricordato in precedenza, secondo la testimonianza della sorella Paula) e abbiamo inserito apposta qui il riferimento, anche per esigenze di variatio. 118 5. L'insoluto scontro universale di Rettorica e Persuasione. Le proposte di M. per un definitivo affermarsi della Persuasione. Lo scontro coni fatti. Di fronte alla Rettorica, in un assetto dunque non monolitico, ma dinamico, plurale, sta la forza della Persuasione, la forza della resistenza, l'autonomia "politica" (autonomia, ma politica) del vir: quest'ultimo, come dicemmo, vive in uno stato di emulsione. «Questi punti di resistenza sono presenti dappertutto nella trama del potere. Non c'è [...] rispetto al potere un luogo del grande Rifiuto - anima della rivolta, focolaio di tutte le ribellioni, legge pura del rivoluzionario. Ma delle resistenze che sono degli esempi di specie: possibili, necessarie, improbabili, spontanee, selvagge, solitarie, concertate, striscianti, violente, irriducibili, pronte al compromesso, interessate o sacrificali»* “°°. La forza del vir sta nel distinguersi in questo coacervo di opposizioni più o meno consapevoli, più o meno sincere, più o meno innervate nella (o esposte alla) malafede: l'opposizione alla Rettorica rischia a sua volta di farsi rettorica, talora è lo stesso dispositivo che maschera se stesso nelle forme della sua opposizione”. 205 Cfr. nostra nota 167. 206 Troviamo interessante, a tal proposito, il tentativo già di Quintiliano di confutare questo carattere ancipite della retorica: ovviamente, lo scrittore latino fa riferimento alla retorica intesa nella sua fenomenologia più povera, ovvero come "arte del dire"; eppure, già qui, Quintiliano si mostra consapevole della potenza del dispositivo, tale da riuscire a rovesciare una posizione nel suo contrario; si mostra altresì persuaso che una retorica che rinnega se stessa è piuttosto un'eristica; e che, di converso, il vero retore segue una morale (quella del credibile, del verosimile) che non può essere confutata, perché mira al bene della comunità. C'è una lunga tradizione latina dietro alle parole del pedagogista, che risale almeno a Catone: l'oratore è il vir bonus dicendi peritus. Tuttavia, l'autore del brano, verso la fine, quasi sconfessa se stesso: la retorica si scopre come mero strumento di dominio (seppure volto al bene della comunità), strumento eminentemente politico che, in un certo momento, si dissocia volentieri da quella stessa moralità che dovrebbe invece permearla e che lo scrittore appassionatamente pur le ascrive. E' altresì interessante, secondo noi, valutare le arti "gemelle" che Quintiliano associa alla retorica nel corso della sua confutazione: la scherma, il pilotaggio, la strategia condividono - con la stessa "arte del dire" - il medesimo sfondo polemico, la medesima finalità di sconfiggere l'avversario. Ovvero, il meccanismo retorico ad un certo punto si astrae dal suo luogo di origine e diviene elemento strutturale e caratterizzante di tutto l'agire umano. Dunque, anche la confutazione di Quintiliano finisce col ritorcersi contro se stessa. [Del testo, abbiamo evidenziato in corsivo i passaggi che riteniamo cruciali]. «Assai spesso si fa quest'altra cavillosa accusa alla retorica, che la discussione abbia luogo da una parte e dall'altra; ne segue che, mentre nessun'arte è opposta a sé stessa, per la retorica avviene il contrario; mentre nessun'arte distrugge quello che ha fatto, ciò tocca alla retorica; parimenti, essa insegna o quanto è da dire o quanto non è da dire, quindi essa non è arte o in quanto insegna quel che non si deve dire o in quanto, dopo aver insegnato quel che si deve dire, insegna pure il contrario. Evidentemente queste considerazioni riguardano solo quella retorica che è aliena dalla moralità dell'oratore e dal concetto stesso di virtù: del resto, dove la causa è ingiusta, ivi non ha luogo la retorica, per cui è quasi inverosimile che sia un buon oratore, cioè un uomo onesto, a difendere l'una e l'altra parte in causa. Tuttavia, essendo nell'ordine naturale delle cose che due giuste cause dividano in campi opposti due saggi, dal momento che essi pensano di dover venire a scontrarsi tra loro, se la ragione cosi comanderà, risponderò a tali argomenti e certamente in modo da dimostrare che tali idee sono state vanamente escogitate anche contro quanti concedono il titolo di oratore pure alle persone dai cattivi costumi. Intanto la retorica non è in contrasto con se stessa: perché si mette a confronto una causa con un'altra causa, non la retorica con sestessa. E se tra loro contendono due oratori che hanno imparato la stessa cosa, sarà sempre arte quella che è stata insegnata sia all'uno che all'altro; d'altro canto, ciò si verifica nella scherma, perché sovente gladiatori allenati dallo stesso maestro vengono messi l'uno di fronte all'altro; nel pilotaggio, perché nelle battaglie navali un pilota fronteggia l'altro; nella strategia, perché un generale combatte contro l'altro. Allo stesso modo la retorica non sovverte quel che ha creato. Infatti, l'oratore non distrugge le argomentazioni da lui proposte e neppure fa questo la retorica, perché tra quanti pongono come finalità di quest'arte il persuadere o tra due galantuomini che, come ho detto, qualche caso abbia posto di fronte, oggetto della ricerca è ciò che più si avvicina alla verità: e se una cosa è più attendibile di un'altra, essa non sarà opposta a quella che pure apparve attendibile. In sostanza, come non c'è Di contro, la Persuasione deve trovare una sua coerenza, una sua consapevolezza, una sua "bontà gratuita", che la distolga dalla tentazione di invischiarsi anch'essa nella trama di potere, o di essere inglobata (e dunque di divenire inoffensiva) in una delle tante "sacche di tolleranza" che la Rettorica ha a sua disposizione. La voce della Persuasione (soprattutto attraverso l'insegnamento socratico, che ne rappresenta la trasposizione umana più fedele) [... ]risveglia nell'uomo la richiesta del bene attuale e lo affranca dal pericolo di dar valori a nomi così da esser per questi tratto a adattarsi all'irrazionalità di una qualsiasi vita sufficiente; lo libera dalla vana attesa d'un futuro che porti ciò di cui nel presente non abbia in sé la potenza, lo libera dalla soggezione dell'ambiente in ciò che gli nega il possesso di quanto dalle cose e dagli uomini gli possa esser dato diverso da lui, additandogli come unico possesso da seguire la propria anima [PR 150]. Ecco perché, a nostro parere, la forza rivoluzionaria di M. non può essere assimilata alla contestazione, filosofica e politica, della scuola di Francoforte (strascico dell'istanza marxista), come pure qualche critico" ha proposto. Certo, vien quasi naturale conchiudere l'analisi M.iana sul dispositivo rettorico nelle parole programmatiche che un Marcuse appone al suo capolavoro: «Una confortevole, levigata, ragionevole, democratica non-libertà prevale nella civiltà industriale avanzata »°°8, Altrettanto spontaneo nascerebbe l'accostamento tra gli uomini rettorici e i «salauds» di Sartre (o i «fieri benpensanti», ma per il Francese è lo stesso), «quelli che passeggiano in riva al mare nei loro abiti primaverili», credendo (o fingendo di credere) a quell'edificio ordinato di valori, diritti, abitudini che si sono costruiti per dare un ruolo, un senso a sé e alle cose, occultando l'abisso della gratuità e assurdità del mondo e dell'esistenza?°’. opposizione tra ciò che è bianco e ciò che è più bianco, tra ciò che è dolce e ciò che è più dolce, così opposizione non c'è tra quanto è credibile e quanto è più credibile. La retorica non insegna mai quello che non dev'essere detto, né il contrario di quello che dev'essere detto, ma quel che in ciascun processo dev'essere detto. E non sempre, anche se molto spesso, la verità va difesa a tutti i costi, perché in certi casi l'interesse generale impone la difesa di ciò che è falso» [Quintiliano, Institutio oratoria, II, 17, 30-36, trad. P. Pecchiura]. 207 Ad esempio, il Cerruti: ma l'opinione è divenuta oramai quasi un luogo comune. Il critico, comunque, fa un rilievo che possiamo accettare, e preporre anche alla nostra analisi: M. quando attacca il "sistema rettorico" - o la Rettorica fatta sistema, com'egli dice - rivolge invero le sue critiche ad un paradigma assoluto di "comunella di malvagi" (ogni comunella è, sempre e dovunque, malvagia); tuttavia la sua spietata disanima ha buon gioco nel prender di mira l'epifania storica di quella comunella a lui contemporanea, cioè la società borghese di fine ottocento - inizio novecento, come risultante ultima, almeno in ordine di tempo, della degenerazione "politica" dell'uomo (e ciò, nota il Cerruti, si esplicita soprattutto nel Discorso al popolo; ma cfr. la sua monografia su Carlo M., Mursia - Civiltà Letteraria del Novecento, 1987 2ed, pag. 48] 208 Cfr. Marcuse, L'uomo a una dimensione, Einaudi, 1999, pag. 15. 209 Cfr. J .P.Sartre, La Nausea, Einaudi, 1989 nella fattispecie le pagg. 165-178. L'ipocrita rettorica dei salauds trova il proprio corrispettivo, amabile e ingenuo, nell'ostinazione di Anny nel creare «momenti perftti», sforzi tanto minuziosi quanto vani per ricomporre il mondo intorno a lei. Per Sartre, l'esistenza che si svela (la vera esistenza) è appunto la Nausea, una pozza tiepida di terribile consapevolezza del putridume che intride l'aria, la luce, i gesti della gente. Se M. avesse potuto leggere Sartre, avrebbe chiamato certamente anch'egli Nausea la disgustosa "condizione onirica" che attanaglia l'uomo nelle situazioni limite della propria esistenza [per cui cfr. supra]. Ma nondimeno l'avrebbe combattuta. Eppure, la distanza tra le due posizioni - quella di M. e quella francofortese- sartriana - non è solo di prospettiva storica, ma innanzitutto di prospettiva etica’: un Adorno, un Marcuse, un Horkheimer, un Sartre (il loro stesso progenitore: Marx) si muovono ancora nella rete dei poteri, traggono ancora ispirazione dalla spirale di violenza: la trasformazione ch'essi prospettano, la contestazione di cui essi si fanno portavoci mira, l'è vero, ad essere destabilizzante, a minare dalle fondamenta le forme costituite della Rettorica (ovvero, com'essi la chiamano, dell'amministrazione”'') ; eppure la loro contestazione alla violenza avviene attraverso la violenza per l'instaurazione di una nuova violenza, ch'è la stessa Rettorica con nome solo mutato: i giacobini della rivoluzione si affannano a riscrivere una nuova "enciclopedia" della mappa del potere, contraddittoria ma non contraria a quella che già esiste. Se proprio vogliamo trovare un riferimento, più o meno attuale, alla soluzione M.iana, potremmo casomai chiamare in causa l'utopia di un Bloch. Ma anche qui il paragone non tiene. Perché M. si pone su un piano decisamente "altro": la sua Persuasione non consiste in una riorganizzazione del potere, neanche nelle parvenze di una sua "castrazione". La Persuasione del Goriziano mira piuttosto a scardinare ogni sufficiente relazione, ovvero - lo ripetiamo ancora una volta - a svellere la violenza dalle sue radici, in maniera definitiva. L'atto di accusa contro le "scuse" della Rettorica è in lui totale, esasperato, e in questo potrebbe dirsi utopico: eppure contiene una sincerità che non ci sentiamo di attribuire ai teorici della violenza contro la violenza. Il nostro giovane filosofo avviò una disperata ricerca di "punti di appoggio" a questa sua proposta di Persuasione, e - come visto - la individuò in un /eitmotiv che legava esperienze storiche e culturali eterogenee, da Sofocle, Socrate, Cristo, Buddha, a Ibsen a Beethoven e Leopardi: voci - quasi confuse (intendiamo: eccentriche, molto diverse tra loro) - che il tesista riassettò, compilando una propria, personalissima storia dell'umanità persuasa decisamente alternativa ad ogni ufficiale, pacifica, compassata storia della razionalità occidentale (che è poi la storia del potere occidentale). Quei punti di appoggio dovevano corroborare una sua intima persuasione, ovvero dovevano garantirle (anche) una dignitosa piattaforma speculativa, che ne scongiurasse il pericolo di essere mal intesa (come ancor oggi purtroppo avviene) quale mera, epidermica, gratuita pulsione eversiva e contestatrice rispetto a quanto la circondava. 210 Come giustamente lamenta il Campailla. Scrive molto bene lo studioso: «[da un simile accostamento] vien fuori un travisamento del pensiero di M.; il quale ha lottato non per avviare una rivoluzione sociale, ma per ricostruire il valore etico dell'esistere sul non senso dell'essere» [cfr. Campailla, Pensiero e Poesia..., cit, pagg. 142-143; corsivi nostri]. 211 Facciamo notare che M. vede negli «impiegati [... ] le anime 'implicate' per eccellenza» [PR 110],Una storia della Persuasione, infine, che sembra scandirsi, anzi che effettivamente s'identifica, con una storia del Tragico. La Persuasione, dallo scontro «a ferri corti con la vita», esce perdente. Certo, è così, ribadisce M.: è un fatto innegabile, un esito che "le accade" comunque, suo malgrado. Come è ‘anche vero che la Rettorica ha assorbito, metabolizzato le testimonianze persuase e le ha fatte diventare le proprie testimonianze, esplicito ribaltamento effettuato con malafede: la Rettorica «mangia e beve e prolifica in nome di Buddha, in nome di Cristo» [adattato da PR 123]; ripetiamo: «Ironia del dispositivo: ci fa credere che ne va della nostra liberazione». Eppure la voce della Persuasione, seppur agonizzante, resiste con tenacia, sorvola anche ogni sua strumentalizzazione, s'insinua nelle falle del "divertimento" rettorico, approfitta dei suoi cedimenti (ogni pletorica ha i suoi punti deboli, per quanto minimi): la sua voce di disincanto, per taluni irritabile, "sgomita" insomma per arrivare fino a noi, ad inquietarci. E a volte ci riesce, neanche questo si può negare. E' la "profezia" di Socrate, l'anatema del Persuaso rivolto contro i suoi accusatori ed assassini: [... ]lo dico, o cittadini che mi avete ucciso, che una vendetta ricadrà su di voi, subito dopo la mia morte, assai più grave di quella onde vi siete vendicati di me uccidendomi. Oggi voi avete fatto questo nella speranza che vi sareste pur liberati dal dover rendere conto della vostra vita; e invece vi succederà tutto il contrario: io ve lo predìco. Non più io solo, ma molti saranno a domandarvene conto: tutti coloro che fino ad oggi trattenevo io, e voi non ve ne accorgevate. E saranno tanto più ostinati quanto più sono giovani; e tanto più voi ve ne sdegnerete. Ché se pensate, uccidendo uomini, di impedire a qualcuno che vi faccia onta del vostro vivere non retto, voi non pensate bene. No, non è questo il modo di liberarsi da costoro; e non è affatto possibile né bello; bensì c'è un altro modo bellissimo e facilissimo, non togliere altrui la parola, ma piuttosto adoperarsi per essere sempre più virtuosi e migliori?!?.6 Il pretesto cronologico della proposta persuasa di M.. La violenza a lui contemporanea. Se tento di trovare una formula comoda per definire quel tempo che precedette la prima guerra mondiale, il tempo in cui son cresciuto, credo di essere il più conciso possibile dicendo: fu l'età d'oro della sicurezza. Nella nostra monarchia austriaca quasi millenaria tutto pareva duraturo e lo Stato medesimo appariva il garante supremo di tale continuità. | diritti da lui concessi ai cittadini erano garantiti dal parlamento, dalla rappresentanza del popolo liberamente eletta, e ogni dovere aveva i suoi precisi limiti. La nostra moneta, la corona austriaca, circolava in pezzi d'oro e garantiva così la sua stabilità. Ognuno sapeva quanto possedeva o quanto gli era dovuto, quel che era permesso e quel che era proibito: tutto aveva una sua norma, un peso e una misura precisi. Chi possedeva un capitale era in grado di calcolare con esattezza il reddito annuo corrispondente; il funzionario, l'ufficiale potevano con certezza cercare nel calendario l'anno dell'avanzamento o quello della pensione. Ogni famiglia aveva un bilancio preciso, sapeva quanto potesse spendere per l'affitto e il vitto, per le vacanze o per gli obblighi sociali, e vi era anche sempre una piccola riserva per gli imprevisti, per le malattie e il medico. Chi possedeva una casa la considerava asilo sicuro dei figli e dei nipoti; fattorie e aziende passavano per eredità di generazione in generazione; appena un neonato era in culla, si metteva nel salvadanaio o si deponeva alla cassa di risparmio il primo obolo per il suo avvenire, una piccola riserva per il suo cammino. Tutto nel vasto impero appariva saldo e inamovibile e al posto più alto stava il sovrano vegliardo, ma in caso di sua morte si sapeva (o si credeva di sapere) che un altro gli sarebbe succeduto senza che nulla si mutasse nell'ordine prestabilito. Nessuno credeva a guerre, a rivoluzioni e sconvolgimenti. Ogni atto radicale, ogni violenza apparivano ormai impossibili nell'età della ragione. Questo senso di sicurezza era il possesso più ambito, l'ideale comune di milioni e milioni. La vita pareva degna di esser vissuta soltanto con tale sicurezza e si faceva sempre più ampia la cerchia dei desiderosi di partecipare a quel bene prezioso. Dapprima furon solo i possidenti a compiacersi del privilegio, ma a poco a poco accorsero le masse; il secolo della sicurezza divenne anche l'età d'oro per tutte le forme di assicurazione. Si assicurava la casa contro l'incendio e il furto, la campagna contro la grandine e i temporali, il proprio corpo contro gli infortuni e le malattie, si acquistavano pensioni per la vecchiaia e si offriva alle neonate una polizza per la dote futura. Alla fine si organizzarono anche gli operai, conquistandosi paghe regolate e le casse malattia, mentre i domestici si preparavano coi risparmi un'assicurazione sulla vecchiaia e pagavano in anticipo un obolo per i propri funerali. Solo chi poteva guardare l'avvenire senza preoccupazioni, godeva il presente in tutta tranquillità. In questa commovente fiducia, di poter chiudere anche l'ultima falla all'irrompere della sorte, c'era, malgrado l'apparente austerità e modestia nel concepire la vita, una presunzione pericolosa. L'Ottocento, col suo idealismo liberale, era convinto di trovarsi sulla via diritta ed infallibile verso 'il migliore dei mondi possibili' Guardava con dispregio le epoche anteriori con le loro guerre, carestie, rivoluzioni, come fossero state tempi in cui l'umanità era ancora minorenne e insufficientemente illuminata. Ora invece non era più che un problema di decenni, poi le ultime violenze del male sarebbero state del tutto superate. Tale fede in un 'progresso' ininterrotto ed incoercibile ebbe per quell'età la forza di una religione; si credeva in quel progresso già più che nella Bibbia ed il suo vangelo sembrava inoppugnabilmente dimostrato dai sempre nuovi miracoli della scienza e della tecnica. In realtà, sulla fine di questo secolo di pace l'ascesa generale si fece sempre più rapida e molteplice. Nelle strade splendevano di notte al posto delle tremolanti lanterne le lampade elettriche, i negozi portavano dalle vie centrali sino alla periferia il loro splendore seducente; già in grazia del telefono si poteva comunicare da lontano, già si poteva correre nei carri senza cavalli con velocità impensate, già l'uomo si lanciava nell'aria attuando il sogno di Icaro. Le comodità della vita passarono dalle dimore signorili a quelle borghesi; non si dovette più attingere l'acqua dal pozzo o dal ballatoio, non più accendere con pena il fornello. Si diffondeva l'igiene, spariva la sporcizia. Gli uomini diventavano più belli, più sani, più forti da quando lo sport ne irrobustiva il corpo e sempre più raramente si vedevano deformi, gozzuti, mutilati: tutti questi miracoli erano stati compiuti dalla scienza, arcangelo del progresso. Anche nel campo sociale si andava avanti; di anno in anno venivano concessi nuovi diritti all'individuo, la giustizia veniva amministrata con maggiore senso umanitario e persino il problema dei problemi, la povertà delle masse, non appariva più insuperabile. Il diritto di voto venne concesso ad una cerchia sempre più vasta e con ciò anche la possibilità di difendere legalmente i propri interessi; sociologi e professori andavano a gara nello sforzo di rendere più sana e persino più felice l'esistenza del proletariato... Come stupirsi che il secolo si compiacesse dell'opera propria e vedesse in ogni nuovo decennio solo un gradino verso un decennio migliore? Non si 212 Apologia 39 c-d [qui nella bella traduzione di G. Reale].temevano ricadute barbariche come le guerre tra popoli europei, così come non si credeva più alle streghe e ai fantasmi; i nostri padri erano tenacemente compenetrati dalla fede nella irresistibile forza conciliatrice della tolleranza. Lealmente credevano che i confini e le divergenze esistenti fra le nazioni o le confessioni religiose avrebbero finito per sciogliersi in un comune senso di umanità, concedendo così a tutti la pace e la sicurezza, i beni supremi. [...]?!3. Abbiamo trascritto per intero le pagine con cui Stephan Zweig apre la sua splendida autobiografia (ma il termine le va stretto), perché sono un ritratto fedele e commosso - una riconoscente biografia - dell'Austria Felix che rappresentò l'humus vitale, politico, culturale, sociale in cui visse il celebre scrittore ebreo, e in cui visse anche il nostro Goriziano. Gorizia, infatti, al tempo di M., era ancora austriaca (passò all'Italia, come si sa, solo alla fine del primo conflitto mondiale): rappresentava, del mastodontico impero, una delle estreme propaggini (la sua provincia) e di quello stesso impero, come per ogni provincia avviene, riproduceva - nel suo piccolo benessere?'* - lo splendore, ma anche le contraddizioni, complicate dalla sua collocazione liminare. "Città giardino", "Nizza d'Austria", luogo privilegiato per le vacanze della nobiltà asburgica, attratta dal clima mite (l'Adriatico dista non molti chilometri), dalla dolce vita cittadina, dagli ottimi vini già allora rinomati, da un'architettonica aristocratica e gradevole che ancora oggi la caratterizza. Questa sua geografia di confine inevitabilmente si rifletteva (e ancor oggi si riflette) in una multiforme, in sempre fermento, geografia culturale: un ibridismo, eclettico e non meramente sincretico, che si giovava delle fecondanti suggestioni d'incontro tra la cultura italiana, slava e germanica, e che da esse ricavava una sua pur autonoma, originale risultante. A buon diritto, Gorizia acquisiva dignitosa posizione tra le compagini di quel multiforme mondo per cui è stato coniato il termine Mitteleuropa, termine che da geografico è giocoforza slittato ad indicare una particolare connotazione, appartenenza culturale, anzi addirittura una categoria esistenziale. I M. erano una delle famiglie più stimate della piccolo-media borghesia benestante della città: e un ulteriore elemento esasperava la loro posizione sociale: erano ebrei. Alberto M., il padre di Carlo, era in effetti il ritratto vivente dell'ebreo assimilato: cercava quasi di velare quella sua discendenza, dandosi da fare alacremente per ottenere il consenso e il decoro sociale. Era un instancabile lavoratore: aveva messo su un negozio di cambiavalute, che si era da subito rivelato redditizio; nei ritagli di tempo, si dedicava alla letteratura: «Fu un autodidatta - ricorda la figlia Paula, nei già citati Appuntf "° - Era quasi un bibliomane. Comperava libri, soprattutto d'occasione, e presto si formò una grande biblioteca di 213 S, Zweig, Il mondo di ieri, Oscar Mondadori, 1994, pagg. 9-11 214 | volti soddisfatti di una borghesia in ascesa ci sono tramandati dai ritratti del pittore autoctono Giuseppe Tominz. opere eterogenee che a noi bambini quasi incuteva rispetto. [...] La nostra casa fu il centro di riunioni intellettuali e anche di allegri convegni famigliari». Di animo buono e pronto allo spirito, tuttavia «era conservativo per le usanze tradizionali ebraiche, ma non era osservante dei riti né possedeva uno spirito religioso. Anzi era il tipico rappresentante della mentalità materialistica dell'Ottocento». Politicamente è un liberale, attivo sostenitore della causa irredentista. Raggiunta una certa sicurezza economica, Alberto può "permettersi" anche un quarto figlio: il nostro Carlo Raimondo M. (il doppio nome è già un compromesso di italianità ed ebraicità, così tipico del padre) nasce il 3 giugno 1887. Abbiamo indugiato sul ritratto della figura paterna del filosofo goriziano non per incoraggiare una lettura psicoanalitica, ma perché - semplicemente - Alberto M., com'era di sua natura, insistette sempre nel veicolare la formazione del figlio (forse più che per gli altri tre, nell'ordine Gino, Elda e Paola: Carlo era quartogenito): una presenza costante, schiva ma opprimente, che alla dimostrazione diretta dell'affetto e del consiglio preferiva la stesura di veri e propri sermoni scritti: il più famoso tra essi è quello che appunto si ricorda come Sermone paterno, consegnato a Carlo all'atto della sua partenza per Firenze”'°. Alberto riponeva nell'ultimo figlio quella speranza disattesa dal primo, Gino, partito a cercar fortuna in America (dove invece troverà la morte), non in grado di soddisfare le paterne velleità culturali. Il nostro Carlo, da parte sua, vide il padre sempre come una figura, seppur lontana nel senso "fisico" dell'affetto, comunque degna di ogni rispetto, elogio, e soprattutto riconoscenza: una figura enigmatica (in un bozzetto lo 215 Sono gli Appunti per una biografia di Carlo M., contenuti in appendice al volume di Campailla Pensiero e poesia..., cit, alle pagine 147-164. Gli stralci che riprendiamo dalla biografia, nel corso del nostro discorso, s'intendano passim. 216 Vale la pena riportare alcuni passaggi nodali del Sermone, per render conto della pressione cui la "rettorica familiare" sottoponeva il nostro giovane e per fornire testimonianza indiretta della patina moralistica (impregnata di "senso del dovere") che doveva aver informato tutta la sua educazione in famiglia. Invitiamo anche il lettore ad un raffronto col Sentir e meditar (presente nel Carme in morte di Carlo Imbonati, vv. 207-215) di manzoniana memoria, che a nostro parere presenta considerevoli punti di contatto con quanto segue. «Mio caro Carlo questo ritratto non ti dà l'imagine del papà "bello" e scherzoso, è il papà serio, | 'hai detto tu; del resto il papà è serio anche quando scherza ed è poi giusto che oggi io mi ti presenti con fisonomia pensosa, perché vengo a farti gli ammonimenti della vigilia della partenza. [...] Hai fatto qui i tuoi studi con onore ed ora vai in un ambiente gajo ed artistico a nutrirti la mente di discipline piacevoli e utili. Ma spero che la tua coscienza t'avvertirà sempre che non vai a godere soltanto, che hai doveri da compiere. - La coscienza deve aver sempre la parola e dev'essere sempre ascoltata in ogni nostro passo - ogni nostra azione dev'essere retta dal criterio che prima d'ogni altra cosa dobbiamo compiere il nostro dovere. - Il dovere è il faro [...] Guardati Carlo da ogni eccesso, ricordati che nella misura sta il segreto d'ogni benessere, d'ogni buona riuscita.- Misura nei godimenti e nello studio, negli attaccamenti e nelle predilezione oggettive e soggettive.- Il senso della misura rende tutto efficace, spreme da tutto il giusto diletto e l'utilità, l'eccesso sforma e guasta tutto, ritorce a male le cose migliori.- Pensa sempre, Carlo, specialmente nei momenti di perplessità nella tua condotta al papà e alla mamma: Cosa mi direbbero essi? interrogati e tu conosci il nostro cuore e i nostri principi troverai il giusto responso. [...] Pensa sempre che una tua mancanza all'onore anche inorpellata da sociali mitiganti, sarebbe la condanna di morte di tuo padre che non ammette scuse per quelle prevaricazioni, che ha fatto base della propria esistenza l'onore, sua legge suprema l'onesto lavoro, sua religione il dovere». [il testo del Sermone paterno è contenuto nei Dialoghi intorno a M., Gorizia, Biblioteca Statale Isontina, 1988, pagg. 10-13; le nostre citazioni sono passim], raffigura alla stregua di una Sfinge!), cui voler bene, perché - M. ne era consapevole - anch'egli evidentemente nascondeva una sua certa, sincera Persuasione che non riusciva però a palesare. Col tempo, il sermone paterno dovette apparire al giovane filosofo una delle espressioni più eclatanti della Rettorica familiare, ma egli non ne fece mai parola al padre, per non ferirlo: per lo stesso motivo, lodava le mediocri prove letterarie di quello con affettuosa, filiale ipocrisia. Ma, tutto sommato, l'infanzia del nostro filosofo trascorre in maniera più che serena: l'armonia e il benessere che regna in famiglia è il riflesso fedele dell'«elogio della sicurezza felice» di Zweig. Carlo - ci rivela ancora Paula M. - «nei primi anni [tra i quattro figli] era il più mite, dolce, ubbidiente. Si ribellava [...] soltanto ad una sola cosa: a chieder scusa di una disubbidienza o di un fallo commesso, anche se sapeva di aver avuto torto [...}». Da piccolo, piuttosto pauroso e introverso e "speculativo" (a tre anni, a commento di un fatto luttuoso, dice alla sorella «Ma sai, anche tu, anche io, tutti un giorno dovremo morire»), riuscì col tempo a superare quegl' "inceppi": fonda, allora, con la sorella un Periculum club, la sua esuberanza Ad esse ben presto si associa la sua passione assoluta: i ballo. Divenuto davvero estroverso, è l'idolo di coetanei e colleghi: considera tutti i suoi amici con lo stesso affetto e considerazione, non privilegia nessuno: si perdonano volentieri a vicenda ogni tipo di monellerie, le più e le meno gravi. Pieno anche di sana autoironia, porta ovunque vada una fresca ventata di gioia e giovinezza (ad una festa si traveste da donna, facendo furore): gli piace corteggiare le ragazze, ma non è importuno o maleducato, anzi le tratta tutte con grande rispetto. Gli piace vestir bene, ma non è oltremisura vezzoso, o affettato. Comincia altresì a disegnare (anzi, si scopre un vero genio nella ritrattistica caricaturale?'*) e ad interessarsi di musica. Il suo si rivela un carattere buono, comprensivo, portato alla pietà: è celebre l'episodio con un cane randagio (episodio che Carlo avrebbe in seguito raccontato in greco e lo Mreule tradotto in latino), sfamato e curato dal giovane: alle lamentele dei genitori, per quell'estranea presenza in casa, M. risponde con una notte "randagia" passata all'addiaccio. A scuola, e la cosa può un po' stupirci, tutto procede senza infamia e senza lode: studia volentieri, ma non con esagerata diligenza (le sue materie preferite sono, manco a dirlo, disegno, italiano e matematica) e si segnala piuttosto per motivi disciplinari (dannazione dei professori le schermaglie col compagno di banco Ruggero Bressan)"®; quindi, 217 Cfr. la diapositiva | [Ritratto del padre-sfinge] nel supporto iconografico. 218 Cfr. M. caricaturista, nelle nostre Integrazioni. 219 E' d'uopo, a questo punto, a compendio di quanto finora detto, riportare la testimonianza di un collega ginnasiale più giovane, nientepopodimeno che il futuro poeta Biagio Marin. L'episodio ricordato dal Marin [che noi leggiamo riprodotto in Cerruti, Carlo M., cit., pagg. 7-8] è piuttosto famoso nella cerchia degli estimatori del Goriziano e ci testimonia di come già allora un ancor giovanissimo Carlo apparisse ai suoi colleghi, come dire, circonfuso di un alone di soprattutto per assecondare le aspirazioni paterne, si mostra propenso ad iscriversi alla severa università di Vienna. Effettivamente vi si iscrisse, alla facoltà di matematica e fisica, «ma poi spinto dal suo amore per l'arte [e per l'ambiente italiano e la lingua] pregò il babbo di lasciarlo andare almeno un anno a Firenze, che non conosceva, ma poi vi rimase per tutto il corso degli studi». Come si immaginerà, per Alberto M. fu una mezza delusione, che non mancherà di far pesare al figlio. Ma che cosa era successo, nel frattempo? Come mai, forse la prima volta (eccezion fatta per poche, irrilevanti schermaglie), il giovane goriziano si assunse, tutt'ad un tratto, il rischio di una scelta così decisiva, definitiva, così... autonoma? L'inflessibile mente del padre non poteva comprenderla fino in fondo (seppur comunque la rispettasse): più disponibile e comprensiva et madre Emma, come sempre. Che cosa era successo, quindi? In effetti, M. già da tempo conduceva - in parallelo alla canonica educazione scolastica - una propria Bildung culturale e umana: ad esempio, «s'interessò moltissimo per la letteratura ussa e lesse quasi sempre in traduzioni tedesche Tolstoi, Puskin, DostojJewsky, ecc...». Ma soprattutto un evento doveva aver scosso il giovane, un incontro evidentemente non occasionale, ma fatale - diremmo "congiunturale" - nella storia della Persuasione: l'incontro appunto con Enrico Mreule, con il dèmone Enrico. «Si avvicinarono, mi pare - scrive ancora Paula M. - nell'ultimo anno di scuola. Mreule era una natura chiusa, aveva avuto un'infanzia triste, si trovava male in famiglia, s'era isolato e aveva già da giovinetto tendenze filosofiche precoci. Fu lui a far conoscere a Carlo Schopenhauer e a iniziarlo alla ricerca dei valori della vita. Con Mreule e con un altro compagno, Nino Paternolli, si trovava spesso in una grande soffitta in casa di quest'ultimo, dovepassavano delle lunghe sere a discutere problemi seri». L'incontro cruciale con Enrico, dunque, rivela a M. un'impressione che già lui stesso, per profondità e riflessione innate, fiutava nell'aria («sotto la cenere ardeva il fuoco», sana Persuasione, E' quasi superfluo dire che dalle parole del poeta (non poteva essere diversamente) ci viene consegnato uno dei più bei ritratti del giovane M.. «Ero in quarta ginnasiale quando lui era in ottava. Tutti lo conoscevano. Come avviene sempre, noi più giovani guardavamo a quelli degli ultimi corsi con rispetto. Non parliamo poi di quelli dell'ottava. Tra essi il più notato, per la sua bellezza, per la sua eleganza, e soprattutto per un cappello grigio che portava tondo alla spagnola, a tese pari, era Carlo M.. Era uno dei "bravi" un "erninentista" come si diceva allora. Accanto a lui, i suoi amici Rico Mreule e Nino Paternolli, e uno, che poi non ho più visto, bello alto, che credo si chiamasse Simsig. Un giorno, deve essere stato di maggio, perché faceva già caldo, ero alla fontana nel cortile di tramontana, durante la pausa delle dieci. Ed ecco, sopravviene il gruppo degli splendidi amici. lo, che avevo appena accostata la bocca alla cannella, mi ritirai per far posto ai signori dell' "ottava". E Carlo, che era il primo, vedendo nei miei occhi e nel mio gesto quel rispetto che mi aveva fatto dimenticare la mia sete, mi sorrise con quel suo sorriso bianchissimo tra le belle labbra violacee, e mi disse: "bevi". Ma io non volli bere sotto i suoi occhi così vivi e neri, quasi fossi preso da pudore, e, "bevi prima tu", gli dissi. Allora si tolse il cappello grigio orlato, che era il tocco in lui più originale e me lo porse dicendomi: "allora tienmi per favore il cappello". E si mise sotto la cannella con la bocca ridente e i capelli, che aveva lunghi e neri e riccioluti, gli fecero nimbo intorno pallido, nobilissimo. Vedendomi, come aveva smesso di bere, allocchito, mi diede un buffetto e mi disse: "ora tocca a te, bevi"»ammonisce Paula): l'età della sicurezza celava, al di sotto della sua patina dorata, un'oscura, sottile malattia: una decadenza. Questa lancinante consapevolezza, questa verità presentita ma fin allora "rimossa", squarcia in modo così violento al giovane l'alcova che premurosamente la famiglia gli aveva costruito intorno, che a un certo punto M. comincia addirittura a somatizzare il morbo del suo tempo. Il suo corpo si rivela più debole e cedevole di quanto mai avesse sospettato: soffre continui mal di stomaco, ogni volta che cerca di ripetere le sfuriate della prima giovinezza, incappa in una slogatura, in una frattura, in una rovinosa caduta. Il celebre passo di una lettera, scritta alla sorella in un momento diparticolare sconforto, può darci conto dell'angoscia del nostro filosofo: [... ] soffro perché mi sento vile, debole, perché vedo che non so dominar le cose e le persone come non so dominar le idee che m'attraversano il capo vaghe indistinte, come non so dominar le mie passioni; che mi manca l'equilibrio morale, e non ho quindi quell'impulso poderoso che fa andar qualcuno sicuro a testa alta attraverso la vita, che mi manca l'equilibrio intellettuale, per cui il pensiero va diritto al suo scopo; perché m'accorgo di vivere quasi n un sogno dove tutto è incompleto ed oscuro, e quando voglio rendermi conto, fissare ciò che mi aleggia intorno, tutto sfugge dalle mani, e provo la pena come quando nei sogni si prova il senso dell'impotenza di tutti gli organi, e mi sembra che ci sia sempre un fitto velo fra me e la realtà; e mi convinco sempre più che non sono che un degenerato. Lo so che tu griderai all'esagerazione, forse anche m'accuserai d'affettazione, e di posa e che so io. Ma t'assicuro, non poso e sono con tutti sempre allegro, e nemmeno ciò per partito preso ma perché naturalmente al contatto con gli altri quella superficie di infantilità che ho sempre avuto e che avrò sempre si vivifica, e assorbe, o sembra assorbire tutto il resto. E non esagero, purtroppo. Un po' è individuale, un po' è la malattia dell'epoca per quanto riguarda l'equilibrio morale, perché ci troviamo appunto in un'epoca di transazione della società. Quando tutti i legami sembrano sciogliersi, e l'ingranaggio degli interessi si disperde, e le vie dell'esistenza non sono più nettamente tracciate in ogni ambiente verso un punto culminante, ma tutte si confondono, e scompaiono, e sta all'iniziativa individuale crearsi fra il chaos universale la via luminosa [...][E 158; corsivi nostri]. | sudditi sereni e sicuri dell'Austria Felix, gli uomini "cacanici", si rivelavano, alla men peggio, «uomini senza qualità», come avrebbe scritto Musil di lì a poco: la stessa paternalistica egida dell'impero presentava una doppia faccia da Sileno rovesciato, nascondendo la più potente, ma anche la più decrepita (allora), macchina della Rettorica statale. Ovviamente, si trattava del male di tutto un'epoca, che s'illudeva di vivere un periodo di pace, che anzi si imponeva un'estemporanea garanzia di pace bellica tessendo un accomodante ordito di sicurezza, legittimata dalle "rassicurazioni" dell'idealismo hegeliano. Gli spiriti più attenti erano all'erta. Gli scrittori russi, con leggero anticipo, avevano già vissuto e denunciato una situazione molto simile: la Rettorica zarista era da tempo sull'orlo del baratro, e stava cedendo il passo ad una nuova, non ancora precisata, Rettorica. In questo manifesto (apparente) vuoto di potere, l'inquietudine segnava profonde ferite. Dostoevskij, col caratteristico cipiglio polemico, parlava dal suo personalissimo "sottosuolo", descriveva le più alte aspirazioni umane come "umiliate e offese" fino all' "idiozia", esasperava/semplificava la strategia del potere nella dialettica "delitto-castigo"; Tolstoi conduceva (soprattutto) la sua soggettiva polemica contro la menzogna e il sopruso che si maschera da ipocrisia, e cercava risposte positive in unnuovo "umanesimo evangelico"; Goncarov tacciava lo spirito russo di "oblomovismo", senza riuscire del tutto ad evitarne il fascino; Saltykov-Scedrin accompagnava la nobiltà russa al più basso livello di cupo, allucinante disfacimento, economico ma soprattutto morale-esistenziale, come l'antesignano Gogol. Checov si adoperava nell'elevare i motivi contingenti del ristagno spirituale a emblemi universali. Ma anche nella "nostra" Europa, già si erano preannunciati i sintomi della malattia post- hegeliana: Stirner già da tempo aveva ripudiato tutto e tutti; Schopenhauer aveva trovato rifugio nel suo narcotico Nirvana; il "folle" Nietzsche profetizzava la palingenesi universale e indicava la sua Germania come la possibilità di una nuova Grecia, di un nuovo inizio, drammaticamente esaudito. Il "veggente" Rimbaud, e con lui la schiera dei "maledetti", sanciva nei suoi versi disturbanti e conturbanti tutto il proprio livore per l'Europa. Freud proponeva interpretazioni oniriche al disagio della civiltà, che dispiegava nella dicotomia cosmico-umana di Amore e Morte, e invitava la malattia a confessarsi. Confessioni tormentate di Gide, che accusava se stesso della malattia di tutta un'età. Oscar Wilde, da parte sua, pareva avvoltolarsi compiaciuto tra le lenzuola della decadenza, causticamente stigmatizzata - ma anche qui, non senza una certa compiacenza - da Huysmans. D'Annunzio si faceva araldo di una rivolta tanto magniloquente quanto effimera e povera di contenuti, tradendo senza pudore l'insegnamento giacobino del suo mentore, Carduccf?°, divenuto anch'egli, nel frattempo, accomodante. Pascoli (tanto per restare in Italia) trovava conforto nel suo ego e auspicava l'avvento di un socialismo altrettanto "fanciullesco". Una voce considerata purtroppo minore, Federigo Tozzi, suggeriva di chiudere gli occhi. Gl' "idealisti" Croce e Gentile, ognuno a suo modo, invitavano al contrario a tenerli ben aperti, ma a correggerne la miopia e la presbiopia attraverso la lente (astigmatica) dello Spirito. Ma ci vorrebbero pagine e pagine ad elencare tutti, e non è il caso: ci siamo limitati a libere associazioni che si sono generate nella nostra mente. Fatto sta, che la voce della denuncia e casomai della rivolta (il disincanto) non riesce a coagularsi, suo malgrado non riesce neanche a chiarificarsi, disperdendosi nei mille rivoli delle avanguardie e delle sperimentazioni (letterarie, ma anche pittoriche e musicali: già, non dimentichiamoci almeno della pittura cruda e filosofica di Klimt, Kokoschka, Schiele”: e della musica rivoluzionaria di Schoenberg) o nelle voci isolate delle riviste (soprattutto in Italia)”. 220 Ammiratissimo da M.. 221 Ma si tenga conto anche dei riferimenti fatti dal Monai, nell'integrazione su M. caricaturista. 222 Vien da chiedersi come si ponesse M. di fronte a tale fermento, tenendo conto a maggior ragione dei suoi studi proprio a Firenze, ch'era, allora, davvero la capitale culturale d'Italia. In linea generale, la critica letteraria tende ad inserire il Goriziano all'interno dell'area (a dir la verità, molto sfumata) del frammentismo vociano. Ma in effetti - come puntualizza Pierandrea Amato, nel suo bel saggio che già abbiamo avuto modo di citare - «M. è 'spontaneamente' escluso da Firenze; [...] la [sua] solitudine [...] è incondizionata"; ciò a differenza di In modo speculare, rispetto a quanto detto sopra, la filosofia filo-hegeliana e la scienza positivistica-darwiniana "pompavano" - anche se su opposti versanti - continue, quotidiane iniezioni di fiducia ad una borghesia che cavalcava il miracolo economico dell'industria al suo massimo rigoglio: una borghesia che si dilettava tanto in dettagliate analisi economiche quanto nella lettura dei romanzi di Verne; tanto in cervellotiche soluzioni politiche di compromesso (l' "Italietta" giolittiana ne è il più fulgido esempio) quanto nei salotti a lodare il cuore di De Amicis, a biasmare l'impertinenza di Mann coi suoi Buddenbrook o a commentare lo strano suicidio di un giovane maledetto, tale Otto Weininger; tanto in spericolati investimenti quanto in oculati dietrofront assicurativi (ironia della sorte: l'epoca della sicurezza vede il pullulare delle Assicurazioni Generali, quasi inconsapevole presentimento dell'imminente catastrofe). Una borghesia, ancora (stavolta generalmente medio-piccola), che si dava da fare nell'arginare certe velleità socialiste- comuniste, collaborando alla creazione dei preziosi alleati sindacali, oppure - laddove non riusciva - sfrenando la propria piccineria in violenze gratuite e pseudo-intellettualistiche (leggi: futurismo, ad esempio). Una cordata borghese-imprenditoriale, infine, che trovava nei governi avallo, protezione, incitamento. quanto avviene per "altri giovani intellettuali (Ara e Magris parlano di una vera e propria ‘pattuglia triestina' che nei primi anni del secolo studia a Firenze: Slataper, Carlo e Giani Stuparich, Spaini, Devescovi, Marin e altri) [che] trovano a Firenze e nelle sue 'imprese' una seconda patria». Il critico sottolinea anche l'estraneità di M. nei confronti dei coevi, roboanti e battaglieri, programmi delle Riviste (nella fattispecie, fa riferimento al Leonardo) e azzarda che «tutta l'opera M.iana potrebbe essere letta [...] anche come il rifiuto dell'impegno violento» che promettevano appunto quelle riviste. Il critico riporta infine l'episodio (apparentemente periferico) di un'estemporanea relazione epistolare tra il Goriziano e Benedetto Croce, che allora già era nel pieno della sua carismatica egemonia culturale. L'episodio - testimonianza lampante dell' «inserimento frustrato di M. nella cultura italiana» - si riferisce alla proposta («irriverente, probabilmente solo ingenua») del nostro giovane filosofo di attendere alla traduzione del capolavoro di Schopenhauer per i tipi della Laterza, la cui sezione di filosofia moderna era diretta proprio da Croce. Quest'ultimo «mi rispose subito - scrive M. alla famiglia - che Schop[enhauer] pel momento non rientrava nei suoi progetti- ma che prendeva nota del mio nome e ‘avrebbe occasione di scrivermi in seguito per traduzioni dal tedesco'» [l'episodio infatti viene ricordato in E 262-263; le citazioni da Pierandrea Amato fanno riferimento alle pagg. 168-169-170 passim del suo Attimo persuaso, cit.]. L'ingenuità di M. stava proprio nel porgere una simile proposta di collaborazione all'araldo dell'hegelismo italiano. Col tempo, dovette rendersi conto che le parole in apparenza "attendiste" del Croce nascondevano in realtà un netto rifiuto. Anche in seguito a questa presa di coscienza, nonché evidentemente in seguito ad una lettura più attenta e critica dell'opera crociana, M., in un appunto famoso, riversò tutto il suo sarcastico livore e segnò in maniera netta tutta la sua sdegnosa distanza dal modo di "far filosofia" del pensatore italiano. Riteniamo utile riportare il breve appunto nella sua interezza, anche perché, indirettamente, ci rende testimonianza della consapevole "asistematicità" del nostro filosofo goriziano e, insieme, del suo porsi polemico nei confront della filosofia "ufficiale" del suo tempo: «A B. C. [Benedetto Croce, e così anche per il seguito] non per insultarlo e non per combatterlo, ma per dirgli la mia ammirazione. Ammirazione per ogni onesta fatica. 'Ho un'ammirazione per questo giovane - diceva un vecchio commerciante, di un giovane poeta - ho un ‘ammirazione per lui: ché se io fossi come lui cretino e ignorante non saprei né leggere né scrivere, e lui fa tragedie'. Così io che sono un vecchio uomo incallito nel lavoro ho un'ammirazione per Benedetto Croce, ché se io avessi come lui una mente acuta e astratta, di filosofia non me ne sarei mai curato e avrei fatto il giureconsulto - lui fa sistemi [corsivi nostri]. Ma i sistemi non si fanno, e B. C. dopo aver assorbito tutti i libri di filosofia si spreme e dice: Vedete quest'acqua di indicibile colore è il prodotto di tutte le altre acque, se ne mancasse una non potrebbe essere quale è; di qui di mio c'è soltanto l'aggiunta del mio proprio umore, e la mia angoscia è la sete degli umori che mancano e che ci verranno soltanto dagli stracci del futuro. Così io mi spremo disperatamente perché è dovere di ogni straccio di filosofo di spremersi fino all 'ultima goccia dell'acqua propria e altrui, perché altri poi assorba e risprema con l'aggiunta del suo umore, e altri ancora assorba e sprema, e riassorbendone rispremendo vivrà l'umanità E' questo, grosso modo, il quadro - storico, politico, culturale, morale - in cui viene ad inserirsi la singolare, a suo modo astorica, "intempestiva", valutazione e proposta di M.. AI Goriziano bastò guardarsi intorno con occhi nuovi per valutare sempre più e più a fondo lo scheletro rettorico che sosteneva la polpa dell'«esistenza soddisfatta di sé», e per intuire che la ventilata sicurezza non era altro che una «gaia apocalisse», per dirla con Broch: ovviamente, a cadere per prime - sotto gli strali del disincanto - furono le costruzioni rettoriche ch'egli toccava con mano, quelle nelle quali era immediatamente inserito, le strutture che lui stesso viveva: la famiglia, la vita cittadina (e solo per riflesso quella nazionale), l'istituzione accademica. Nelle letture che nel frattempo conduceva trovava casomai un riscontro di quanto già avvertisse "a pelle". Scrive la preziosa Paula: «Presto [... ] l'ambiente di cui si era fatto tante illusioni lo deluse, specialmente quello universitario. Meno alcuni professori ai quali era affezionato, fra cui Villari e Vitelli, gli altri lo urtavano per la loro rettorica e la loro vanità [testimonianze esplicite, al limite del blasfemo, fioccano in molte lettere di quegli anni]. Gli davano ai nervi quelle aule zeppe di uditori del bel mondo di Firenze che assistevano alle lezioni per posa, per darsi delle arie». Parziale conforto a queste amare disillusioni sono le nuove amicizie che stringe tuttavia in quell'ambiente: il Chiavacci (che poi curerà la sua opera postuma), Arangio-Ruiz e Giannotto Bastianelli, musicista "wagneriano" (anch'egli tormentato e destinato al suicidio), che M. riuscirà a convertire a Beethoven, in serate per lui indimenticabili di "musica persuasa". Ma totale conferma delle stesse amare disillusioni M. doveva trovare (appunto) non solo nella lettura rivelatrice di Ibsen, ma anche in quella "compulsiva" di Tolstoj. Molti si sono meravigliati del fatto che il Goriziano di costui ammirasse soprattutto La sonata a Kreutzer o Resurrezione, macchinosi e quasi pedanti rispetto ai più appassionati, e appassionanti, Anna Karenina o Guerra e pace. La ragione, per noi, invece è semplice e istruttiva: M. dovette apprezzare la "geometria" che la polarità Persuasione-Rettorica acquistava nei due ultimi capolavori dello scrittore russo: lì l'ingiunzione e la critica di Tolstoj alla Rettorica si faceva scoperta, analitica, "scientifica", e in uno stile risentito, scarno e didascalico (così lontano da quello avvolgente del più giovane Tolstoj) che sacrificava del tutto l'intreccio romanzato, lo rendeva addirittura pretestuoso: anche Tolstoj pervenne, a suo modo, ad una chiarezza di Persuasione more geometrico demonstrata. Basterebbe dare una rapida scorsa alle parole di quel folle, ma lucido, uxoricida che è Pozdnysev: parole che, dietro la parvenza della più meschina misoginia, palesano una nei secoli all'infinito, il prodotto non sarà mai quello, ma sarà sempre perfetto e non risciacquatura come dicono i maligni ma quasi - spirito assoluto» [O 661-662]. valutazione attenta e perspicace della Rettorica dell'amore. O basterebbe fermarsi già alla prima pagina di Resurrezione: Allegri erano tutti: piante, e uccelli, e insetti, e bambini. Ma gli uomini - gli uomini grandi, gli uomini adulti °° non smettevano d'ingannare e di tormentare se stessi e gli altri. Credevano, gli uomini, che la cosa più sacra e più importante non fosse quella mattinata di primavera, non fosse quella bellezza del mondo, concessa per il bene di tutte le creature, giacché era una bellezza che disponeva alla pace, all'accordo e all'amore: ma fosse, la cosa più sacra e più importante, ciò che essi stessi avevano escogitato per poter dominare gli uni sugli altri per poter leggere in pratica la seconda parte della tesi di laurea del Goriziano anche (saremmo tentati di dire: soprattutto) come uno scolio (complesso, filosofico) a questa profonda, sincera intuizione "francescana" del mondo. O infine, basterebbe accompagnare il principe Nechljudov attraverso i contorti meandri della Rettorica della giustizia, fino al ribaltamento (persuaso) di essa in vera e propria pratica della violenza e dell'ingiustizia; ovvero, accompagnarlo nella ri-scoperta della genuina lezione evangelica (Nechljudov-Tolstoj, alla fine del romanzo, ri-legge e ri- compone - alla luce della propria esperienza - la morale persuasa di S. Matteo); basterebbe ciò, dicevamo, per capire l'enorme portata dell'anti-dispositivo che M. riceveva dalle mani dello scrittore russo”. 223 Questa sottolineatura tolstojana della differenza tra l'individuo bambino e l'individuo adulto non è una semplice sfumatura, come può apparire ad una lettura superficiale: ci sembra che M. colga in pieno l'allusione: nel corso della sua tesi di laurea (volendo limitarci a questa) egli dimostra a chiare lettere la sua preferenza per l'animo femminile e per i bambini. Da una parte, «le donne sono senza rettorica», afferma, tendendo in evidente conto non solo le figure femminili che si stagliano nei drammi di Sofocle e Ibsen o di Tolstoj appunto, ma soprattutto le donne ch'ebbe modo di conoscere durante la sua vita: in primis la madre Emma e la sorella Paula, quindi la sfortunata Nadia Baraden - donna russa che riceveva da Carlo lezioni di italiano e che si uccise prima che quel "rapporto professionale" sbocciasse in amore; la scrittrice Iolanda de Blasi - che visse un intenso, quanto effimero, rapporto d'amore col Nostro, ostacolato, manco a dirlo, dalla famiglia; e Argia Cassini, l'ultima, avvolgente fiamma di Michlestaedter: Argia, traslitterato in greco, era per Carlo l'incarnazione fisica del vagheggiato «porto della pace»). Dall'altra parte, il Goriziano si schiera a difesa della fanciullezza: i bambini, «quasi vite in provvisorio», come lui li chiama. Anzi, le ultimissime pagine della tesi M.iana - e il loro progetto educativo [ma vd. quanto diremo oltre] - sono dedicate proprio ai bambini, ovvero al tentativo di scongiurarne l'entrata nella congerie rettorica, che ne mina - in modo definitivo e irrimediabile - l'innocenza e ne frustra, altrettanto, il dono di ingenua, sincera persuasione, ch'essi hanno per loro stessa natura. 224 In Tolstoj, M. doveva trovare comprovata anche la Rettorica sociale della morte, ad esempio nella Morte di Ivan Il'ic, una delle opere più allucinanti e "cattive" dello scrittore russo. Di quelle pagine, pur nella sincera espressione del profondo dolore per la scomparsa (suicidio?) del fratello Gino, molto vediamo trapelare in una lettera che il Goriziano scrive all'amico Chiavacci, in cui annuncia la luttuosa notizia e dà una amara e dettagliata descrizione della condizione "esposta", indifesa della propria famiglia agli attacchi della ipocrita retorica sociale della "condoglianza": «Noi non ricordiamo di lui [Gino] né un gesto ingeneroso né una sola malattia. Era fatto per la vita e la viveva con gioia. Mai il sarcasmo della vita non mi s'è fatto sentire materialmente, in un caso concreto, con maggior forza. - Tiriamo innanzi. Qui intanto siamo soffocati dalla marea della condoglianza volgare delle infinite persone che conosciamo, e che in iscritto e a voce si credono in dovere di debitarci le stesse convenzionalità. In casa una corrente continua di visite, e il gridio ininterrotto delle stesse frasi. - E i miei ogni giorno come cavalli stanchi riprendono il cammino, e parlano e si ripetono e si commuovono. lo soffro anche per questo. Sento l'umiliazione della nostra famiglia mutilata come d'una piaga aperta - e penso che mentre le piaghe si fa sciano, il 'lutto' non serve che a étaler il dolore a tutto il mondo. Penso alla nostra casa chiusa per solito agli indifferenti, raccolta, gelosa della sua intimità - e invasa ora da tutta la volgarità perché una forza indipendente da noi ha aperto la porta. E tutti i corvi vengono all'odore della morte; tutti si precipitano Come Tolstoj, attraverso Tolstoj, M. preferì da subito il Vangelo "monofisita" di Matteo, come uno dei più autentici luoghi di Persuasione. Come Resurrezione, anche La Persuasione e la Rettorica termina con un progetto educativo. E il "pentalogo" stilato (rielaborato) da Nechljudov-Tolstoj trova infine esatta corrispondenza in quello della Persuasione M.iana?°°. perché siamo colpiti, indeboliti; il nostro dolore, la parte più intima di noi esposta in strada, profanata dagli occhi curiosi e dalla simpatia della sensiblerie dei deboli. - Ed io non posso addolorare di più i miei, non posso voler liberarmi - e di tante altre cose non posso liberarmi ora meno che mai [... J» [E 353]. Questo stralcio di lettera ha una sua importanza non soltanto contingente. Essa ci testimonia, innanzitutto, del rovinoso velocizzarsi della sfortuna che perseguita il nostro autore: gli eventi precipitano: alle disillusioni che emergono per l'estrema sensibilità del suo animo, ai dispiaceri che hanno puntualmente costellato la sua vita (non ultima la partenza di Enrico, per quanto salutata con orgoglio), si associa l'evento ferale, per lui più drammatico di quanto M. stesso non voglia manifestare, e il definitivo crollo dell'alcova familiare, già da tempo vacillante. Il «sarcasmo della vita» è davvero spietato, e coglie all'improvviso i suoi elementi più validi e più forti, inspiegabilmente. Questa constatazione fa nascere nel giovane filosofo collera e indignazione, che riversa acidamente, ancora una volta, sull'istituto retorico. Qui viene enunciato, in forma "ufficiosa", anche l'anatema definitivo rivolto contro la macchina sociale, la cui doppia faccia viene smascherata anche nelle sue manifestazioni di compassione e di solidarietà al dolore, e dunque, in apparenza, più fraterne e "umane". Qui si avverte il punto di crisi di quella "paranoia rettorica" che, secondo noi, attanagliò M. già dal momento della "scoperta persuasa" e che si esacerbò soprattutto nei suoi ultimi mesi di vita. Una Rettorica qui definita forza oramai «indipendente», cioè totalmente svincolata dallo stesso controllo umano, e vestita di abiti corvini che sfoggia (ironia della sorte) soprattutto in occasioni di dolore. Una Rettorica sanguisuga, famelica, dotata di occhi che profanano, che approfitta dei punti deboli dell'uomo, allettata dall'odore della morte, che è il suo stesso odore, simile col simile. M., per ora, non «può volersi liberare» e deve accettare il gioco del dolore e del dovere (la stesura della tesi) per non aggravare l'atmosfera pesante ed affranta della famiglia. Accetta quest'ultima retorica per amore. Ma non vi leggiamo (non vogliamo leggervi) rassegnazione. Certo, c'è la consapevolezza di un doppio dolore, di una infelicità reduplicata dalla stessa consapevolezza della Persuasione: «Noi viviamo oscuri, mal delineati, confusi, doppiamente infelici; gli altri vivono una vita luminosa anche nel dolore, e non hanno mai il senso ch'essi personalmente sono nel mondo cosi sportivamente, o lo hanno soltanto quando anche tutto il mondo è ormai per loro una cosa sportiva» scrive Carlo al Chiavacci, in una delle lettere successive [E 401], e non può non leggersi l'aspirazione stanca ad una felicità che, per un triste destino, sfugge sempre di mano: la Persuasione pare quasi una maledizione che si tira addosso solo malanni: dov'è quella gioia che essa prometteva? Non sono più felici coloro che vivono «sportivamente» la propria vita, luminosi anche nel dolore? Ma è solo il nero che riflette, e alla vita che nasconde la morte bisogna opporre un'esistenza che tende alla vera vita. E allora, ad un anno esatto dalla morte del fratello, M. gli rende l'ultimo omaggio disegnando di sua mano la pietra tombale e realizzando «con le mie mani quello che gli altri dicevano di non saper fare»: «Per tre giorni lavorai da un fabbro per scolpire due maniglie di ferro, che fuse in ghisa sarebbero state deboli. E allora mentre il lavoro procedeva bene, e mi gettavo stanco alla sera sul mio letto, mi pareva d'esser ricco di non so che ricchezza, mi pareva di fare qualcosa, di lavorare per mio fratello come se dovessi vincer la morte». «Vincer la morte» diviene l'imperativo esistenziale che traduce l'aspirazione di «togliere la violenza dalle radici»: bisogna fare [il corsivo sopra è dello stesso Goriziano] qualcosa, re-agire; M. riscopre il piacere del contatto con le cose, come Serafino Gubbio nel noto romanzo di Pirandello; il piacere della fatica, dell'impegno, della poiesi bistrattata sin dai tempi di Platone e Aristotele. Fare è anche poesia, e la Persuasione è anche fare. Pur se non è possibile eliminare l'atroce dubbio che, sempre e comunque, ci si trova ad aver «lavorato per la morte», sensazione di sconforto che riduce ad uno stato di «vuoto, miseria e impotenza». [per queste ultime citazioni, da noi adattate, cfr. la lettera di M. ad Enrico Mreule, 14 febbraio 1910, E 432] 225 La perfetta consonanza (addirittura numerica!) dei "comandamenti" tolstojani e M.iani è un rilievo che è sfuggito purtroppo alla critica (o almeno, nei contributi critici che abbiamo visionato non se ne fa parola). La lettura di Tolstoj è, a nostro parere, un inestimabile supporto ermeneutico per tentare di "capire" M., e ci teniamo a sponsorizzarla. Ora, per dar sostanza al nostro discorso, iportiamo di seguito il pentalogo di Tolstoj e riproponiamo quello della Persuasione per poter apprezzare, in modo sinottico, quanto della lezione di Tolstoj fosse trapelato nel dettato ultimo del filosofo goriziano e trasposto sul piano "filosofico" (questo senza voler porre in minimo dubbio l'originalità del Nostro). Ancora, la prospettiva tolstojana (come si ricaverà dalla lettura), il suo insistere sugli uomini, conferma in modo definitivo, seppure ce ne fosse a questo punto bisogno, la correttezza della nostra valutazione "politica" della proposta persuasa. «Con la speranza di trovare lì nel Vangelo una conferma a questo suo pensiero, Nechljudov si mise a leggerlo dal principio. Leggendo il discorso della montagna, che sempre lo aveva commosso, adesso per la prima volta vi scorse non già dei be semplici, chiari precetti ben eseguibili ne lissimi pensieri astratti, che in massima parte esprimessero esigenze eccessive e impossibili da eseguire, ma a pratica, precetti che, se fossero stati eseguiti, come era pienamente possibile, avrebbero dato una sistemazione assolutamente nuova alla società umana, tale che in questa non solo si sarebbe d istrutta da sé tutta quella violenza che aveva tanto indignato Nechljudov, bene accessibile all'uomo: il regno di Dio sulla terra [corsivi nostri]. Tali precetti erano cinque. primo precetto (Matteo, v, 21-26) l'uomo non solo non deve uccidere, ma non adirarsi contro il fratello, non a, un raca, e, se viene a lite con qualcuno, deve rappacificarsi con lui prima Secondo i deve cons di fare l'off Secondo i piacere de Secondo i Secondo i colpiscono iderare nessuno un essere da nu erta all'altare, cioè prima di pregare. secondo precetto (Matteo, v, 27-32), l'uomo non solo non deve cedere al nessuno rifiutare ciò che si possa volere da lui. Secondo i amare, aiu quinto precetto (Matteo, v, 43-48), l'uomo non solo non deve odiare i suo tare, servire. ma si sarebbe raggiunto il più alto a sensualità, ma deve rifuggire dal la bellezza della donna, e deve - una volta che s'è unito con una donna - non tradirla mai. terzo precetto (Matteo, v, 33-37), l'uomo non deve promettere nulla con giuramento. quarto precetto (Matteo, v, 38-42), l'uomo non solo non deve vendicarsi su una guancia, deve presentare l'altra, deve perdonare le offese e sopportarle con rassegnazione, e a occhio per occhio, ma quando lo i nemici, né combatterli, ma li deve Nechljudov aveva fissato lo sguardo sulla luce della lampada, e così rimaneva assorto. A contrasto di tutto il mostruoso disordine della nostra vita, che aveva ben presente, si prospettò con chiarezza che cosa questa vita avrebbe potuto essere, se gli uomini fossero stati educati secondo quei principi [corsivi nostri]: e un'esultanza come da gran tempo non provava gl ‘invase l'anima». M. fa da contrappunto e munisce i precetti tolstojani di una salda connessione filosofico-esistenziale: "No, la mo rte non è abbandono" disse Itti con voce più forte [1] ma è il coraggio della morte onde la luce sorgerà. [2] Il corag gio di sopportare tutto il peso del dolore, [3] il corag gio di navigare verso il nostro libero mare, [4] il corag nella cura [5] il corag gio di non sostare dell'avvenire, gio di non languireper godere le cose care. La persuasione poetica si cesella, puntualmente, nelle "definizioni" assolute che troviamo nella tesi di laurea: [1] Il dolore parla. [PR 46] [2] Il dolore è gioia [49] [3] Dare non è per aver dato ma per dare (Souvax !) Non può fare chi non è, non può dare chi non ha, non può beneficare chi non sa il bene Dare è fare l'impossibile: dare è avere. [43] 7. Come la violenza perpetua se stessa (I). Dall'atomo alla molecola sociale. Regalasi gattini in cerca di padrone. Annuncio esposto nella bacheca degli studenti della facoltà di filosofia, Università Federico II, Napoli Come abbiamo visto in abbondanza, l'organismo "atomico", il «complesso delle determinazioni», si esprime e si realizza anzitutto come appetito (volontà determinata, o conatus, se vogliamo utilizzare il termine spinoziano), cioè nel desiderio di possedere la natura, ovvero di fare del mondo un polo di sfruttamento esistentivo: il mondo è insomma il ricettacolo in cui l'organismo atomico reperisce gli elementi atti alla soddisfazione dei propri bisogni, elementari e/o complessi (questa, in soldoni, la «violenza contro la natura»). L'appetito segna una diversificazione tra i vari organismi appetenti: tra gli individui, alcuni si conquistano una posizione di dominio, altri accettano giocoforza la subordinazione, in un meccanismo in cui ciascuno comunque pretende di essere riconosciuto dall'altro come a lui superiore, come unico, assoluto usufruttuario del mondo. Nell'impossibilità dell'assolutezza, gli uni e gli altri depongono volentieri le armi e si adagiano su una comoda convivenza. Questo rapporto (chiamiamolo per ora "dialettico", ma cfr. oltre), che lega le "coscienze empiriche" nel conflitto per la supremazia, presenta indiscutibili affinità con la «otta per il riconoscimento», così come viene postulata/descritta nella Fenomenologia dello Spirito di Hegel (la famosa dialettica servo-padrone). Questo rilievo, avanzato con intelligenza dal Garin, è stato applaudito da tutta la critica. Ora, noi non vogliamo certo metterlo in discussione, come non vogliamo mettere in dubbio le letture hegeliane che M. fece. Tuttavia, ci sia concesso almeno d non esserne del tutto convinti: siamo invece convinti che le analisi di M. partano piuttosto, ancora una volta, dalle pagine di Aristotele, in particolare dalle prime pagine della Politica. Lo Stagirita scrive: [per la formazione della società o dello Stato] è necessario in primo luogo che si uniscano gli esseri che non sono in grado di esistere separati l'uno dall'altro, per es. la femmina e il maschio in vista della riproduzione [..]e chi per natura comanda e chi è comandato al fine della conservazione. In realtà, l'essere che può prevedere con l'intelligenza è capo per natura, mentre quello che può col corpo faticare, è soggetto e quindi per natura schiavo: perciò padrone e schiavo hanno gli stessi interessi.226 Proprio come per Aristotele, per M. colui che, in tale lotta, non teme di perdere la propria vita, si impone su colui che, invece, ha paura della morte”: di conseguenza il primo diviene dominus e il secondo servo (homo, secondo il nostro [i corsivi sono dello stesso M.: abbiamo altresì ribaltato consapevolmente la disposizione dei precetti del Goriziano, che nell'ordine appaiono 3-4-5-1-2, per dar più filo al nostro discorso] 226 Aristotele, Politica, 1252a 25-30 [che noi leggiamo nella trad. it. dell'ed. Laterza, 2000]; i corsivi sono nostri, funzionali a quanto ci apprestiamo a dire. 227 Ma cfr. quanto noi detto nella parte finale del paragrafo 4d del nostro | capitolo, paragrafo che s'intitola La Persuasione al bivio. pediente ermeneutico). La temerarietà del padrone non è il coraggio esistenziale del Persuaso, non è fine consapevole ed adeguato, che sfocia nell'autentica epoché della morte, frutto della consapevolezza della malattia mortale: il dominus ha una superiorità che potremmo a buon ragione cefinire, anche qui, darwiniana: a comandare sono gli individui più adatti, ovvero più forti e più risoluti e più intelligenti, come dice Aristotele gli «esseri che possono prevedere con l'intelligenza» o - come parafrasa M. - gli esseri che possiedono una «previsione più organizzata a una più vasta vita » [PR 29]7”. Il padrone non lavora la terra, non è artifex, ma costringe il servo a lavorare in sua vece e per il suo guadagno: «Il padrone si serve dello schiavo attraverso la di lui forma: attraverso la potenza di lavoro», scrive il Goriziano. Di contro, lo schiavo accetta le «catene dure ma sicure» del padrone. Il padrone ha delegato allo schiavo il «violentamento della natura», tenendo per sé - anzi utilizzando per sé - il «violentamento dell'uomo». Di per sé, così, la condizione servile dello schiavo «non è assoluta, ma relativa al suo bisogno di vivere». Tra servo e padrone, dunque, s'instaura un vero e proprio, benché primitivo (atomico), patto sociale, fondato - e non si perda di vista questo fondamento - su un principio biologico simbiotico e "compensativo" (lo chiamiamo principio di economia sociale): entrambi violenti, entrambi "carenti", entrambi ansiosi di «conquistarsi il futuro» (ovvero, entrambi rettorici), essi pongono una convenienza simbiotica che - in definitiva, come in una perfetta equazione matematica - annulla (semplifica) le relative "potenze" e "debolezze", tende a superare la primitiva diseguaglianza fisiologica, pervenendo ad uno status quo per il quale «uniti: sono entrambi sicuri - staccati: muoiono entrambi». Suddetta simbiosi si fonda, in definitiva, e si struttura, sulla malafede e sul ricatto, perpetrati da entrambi, ma da entrambi edulcorati nella reciproca convenienza: se tu non lavori - dice il padrone - non ti do «il mezzo di vivere»: così morirai; se non mi assicuri «I mezzo di vivere» - replica lo schiavo - io non lavoro, e non ricaverò per te «la sicurezza di fronte alla natura»: così morirai. In tutto questo, ci sembra che M. parafrasi ancora Aristotele, che a sua volta scrive: Il padrone non è tale in quanto acquista gli schiavi, ma in quanto si serve degli schiavi. Tale conoscenza non ha niente di grande né di straordinario: quel che lo schiavo deve [per natura] saper fare, lui [sempre per natura]deve saperlo comandare. [...] Agli uni giova l'esser schiavi, agli altri l'esser padroni e gli uni devono obbedire, gli altri esercitare quella forma di autorità a cui da natura sono stati disposti e quindi essere effettivamente padroni.[... ] Per ciò esiste un interesse, un'amicizia reciproca tra schiavo e padrone nel caso che hanno meritato di essere tali da natura ?°° 228 Le citazioni che seguono nel nostro discorso, tratte dal Goriziano, sono ricavate dalle pagine della sua tesi che appunto indugiano sulla dialettica servo-padrone, ovvero le pagg. 96-105 soprattutto; ragion per cui, in nostri richiami s'intendano proprio da lì ricavati passim, salvo diverse indicazioni. 229 Aristotele, Politica, cit, 1255b passim; i corsivi sono nostri; abbiamo altresì invertito taluni passaggi per render più didascalica l'esposizione. Tuttavia questa dialettica, negativa ancorché conciliata (ma che non è la conciliazione hegeliana nello Spirito), del servo e del padrone "supera" il suo fondamento negativo nella stipulazione del patto sociale molecolare?°°: l'entalpia”', che tale dialettica assicura, e che 230 Le analisi di M. sulle motivazioni che inducono gli uomini a fondare la società nascono in un contesto politico che potremmo, a questo punto, senza sbagliarci, definire "contrattualistico" (ma trovano importanti agganci - come stiamo or ora dimostrando - anche nella Politica aristotelica): a differenza dei teorici del contrattualismo, tuttavia - decisamente più "pragmatici" - il filosofo goriziano adduce, come visto, una causa "ontologica" al fatto che gli uomini stringano il "patto sociale" (o, come lui la definisce, la «cambiale sociale»): il deficere troverebbe cioè una sua compensazione nella creazione di relazioni sufficienti tra gli uomini, in un principio di realizzazione/permanenza sociale che surrogherebbe l'innata impermanenza dell'individuo. L'individuo sociale insomma, nello stringere il patto, si vede garantite quella sicurezza e quel benessere - quella stabilità - che l'individuo "naturale" non possiede. Ovviamente, M. - se del contrattualismo mostra indirettamente di accettare le analisi di filogenesi sociale (il meccanismo praticamente è lo stesso: compensare il deficere) - tuttavia non aderisce alle sue conclusioni, soprattutto nella sua curvatura liberale (Locke o Stuart Mill, ad esempio): il Goriziano, come dire, per principio valuta l'organismo sociale - qualunque forma esso assuma, e per qualunque motivazione esso la assuma - come regno dell'eteronomia e della violenza. Anzi, leggendo tra le righe, mostra di attaccare con maggior virulenza proprio le società sedicenti liberali o liberal-democratiche, perché esse (a differenza di un regime dispotico conclamato) occultano la matrice profondamente antilibertaria che le connota, aggiungendo al danno la beffa dell'ipocrisia e del paternalismo. Pur consapevoli dell'eterogeneità delle proposte contrattualistiche (sia nelle prospettive di analisi che nelle individuazioni o giustificazioni degli esiti, a seconda dei periodi storici o delle appartenenze geografiche e politiche che le hanno fomentate), tuttavia riportiamo alcune righe di due "classici", per renderci conto - mediante un raffronto anche veloce - di dove la critica di M. effettivamente attecchisca. Con questo, ovviamente, non vogliamo dire che il filosofo goriziano avesse costruito la sua critica sociale a partire dalla meditazione dei testi che proponiamo, anche se mostra di aver letto il Saggio sulla libertà di Stuart Mill [PR 93]; la critica di M. nasce infatti essenzialmente da una diagnosi dello status quo - valutato attraverso lo "spettro" della Persuasione - status quo che però era anche, appunto, la risultante della lunga tradizione liberale, che assume nei brani che seguono la forma più esplicita e, in pratica, conclusiva. «Se l'uomo nello stato di natura è [...] libero [...]- scrive Locke - se è padrone assoluto della propria persona e dei propri beni, pari al più grande fra tutti e a nessuno soggetto, perché mai rinuncia alla sua libertà? Perché cede il suo imperio e si assoggetta al dominio e al controllo d'un altro potere? La risposta ovvia è che, per quanto nello stato di natura egli possieda il diritto connesso con quello stato, la fruizione di esso è assai incerta e continuamente esposta alle altrui interferenze. Infatti, tutti essendo re alla stessa stregua di lui, tutti essendo suoi pari, ed essendo per lo più poco rispettosi dell'equità e della giustizia, il godimento della proprietà in questo stato è per lui assai incerto, molto insicuro. Ciò lo induce a desiderare di abbandonare una condizione che, per quanto libera, è piena di rischi e di continui pericoli: e non è senza ragione ch'egli desidera e ambisce unirsi a una società che già altri abbiano costituito o abbiano in mente di costituire per la reciproca salvaguardia della loro vita, libertà e beni, cioè con quello che definisco con il termine generale di proprietà. [...] Al primo potere - quello cioè di fare tutto ciò che ritiene opportuno per la conservazione di sé e di tutto il resto dell'umanità - egli abdica lasciando che sia regolato da leggi fatte dalla società, secondo che lo richieda la conservazione sua e degli altri membri di quella società: leggi dellasocietà che in molte cose limitano la libertà ch'egli possiede per legge di natura. Inoltre egli abdica completamente al potere punitivo [il secondo potere, per Locke] e consacra la sua forza naturale (che in precedenza poteva usare nell'esecuzione della legge di natura, per autorità propria, come gli sembrava opportuno) al potere esecutivo della società, a seconda che lo esiga la legge di questa. Trovandosi ora in un nuovo stato, in cui gode di molti vantaggi provenienti dal lavoro, dall'assistenza e dalla società degli altri membri della comunità, oltre che della protezione che gli deriva dalla forza complessiva della comunità stessa, egli deve rinunciare anche alla propria naturale libertà di provvedere a se stesso, nella misura in cui lo richiedono il bene, la prosperità e la sicurezza della società. E questo non è solo necessario, ma anche giusto, perché gli altri membri della società fanno altrettanto.[corsivo nostro] Entrando in società gli uomini rinunciano all'eguaglianza, alla libertà e al potere esecutivo di cui godevano nello stato di natura, affidandolo alla società perché il legislativo ne disponga come richiede il bene della società stessa. Ma poiché ciascuno fa questo con l'intenzione di meglio salvaguardare la propria libertà e proprietà (ché non è mai pensabile che una creatura razionale muti condizione nell'intento di star peggio), è lecito aspettarsi che il potere della società, o il legislativo costituito, non oltrepassi mai i limiti del bene comune, ma sia tenuto ad assicurare la proprietà di ciascuno prendendo misure contro i tre difetti sopra menzionati, che avevano reso lo stato di natura tanto incerto e difficile. [... ] E è la condizione necessaria e sufficiente per la sicurezza reciproca, si istituzionalizza nel fenomeno sociale (lo chiamiamo principio di entalpia sociale). Tale istituzionalizzazione è un escamotage funzionale: è il banale, ma evidentemente valido, motivo che recita un adagio: l'unione rende forti. Dice M.: «La piccola volontà non può difendere quello che ha preso colla sua violenza - e ne affida la difesa alla violenza sociale». Ora, la piccola volontà [potremmo anche dire: l'io empirico] è sia quella del padrone che quella del servo. Entrambi accettano «la cambiale dela società», sopportando anche una spersonalizzazione/atrofia del proprio potere («egli è sotto tutela - non ha voce») e un (apparente) livellamento "democratico", nel nome della «sicurezza comune». Per raggiungere altresì questo obbiettivo, è necessario che la violenza contro la natura e contro l'uomo sublimi nella "violenza sociale". Dunque, la cifra esistenziale della Rettorica rimane sempre e comunque la violenza. In questo senso, ci sentiamo di dire che l'appunto del Garin - il suo riferimento alla famosa figura hegeliana - più che illuminante rischia di rivelarsi addirittura fuorviante. Hegel parladi autocoscienze”””, M. - più modestamente - di organismi. tutto ciò non dev'essere ispirato ad altro fine che la pace, la sicurezza e il pubblico bene del popolo» [J ohn Locke, Due trattati sul governo, Torino, Utet, 1948 (volume II, $8123-131 passim)]. «Il diritto di una persona - scrive invece Mill - è la tutela che questa può pretendere dalla società o in forza della legge, o in forza dell'educazione e dell'opinione [corsivi nostri]. Se essa possiede ciò che consideriamo una ragione sufficiente per avere, per un qualsiasi motivo, una garanzia da parte della società, vi ha diritto: se vogliamo dimostrare che qualcosa non le appartiene per diritto, pensiamo che ciò sia fatto non appena si ammette che la società dovrebbe abbandonarla alla sua sorte o ai suoi soli sforzi, senza prendere alcuna misura per proteggerla. [...] Avere un diritto significa, allora, avere qualcosa il cui possesso va difeso dalla società. Se mi chiedessero, poi, perché la società dovrebbe difendere questo interesse, non potrei addurre nessun altro motivo se non quello della utilità generale. Se questa espressione non sembra convogliare un sentimento adeguato della forza dell'obbligazione né spiegare la peculiare energia di tale sentimento, è perché nella composizione del sentimento entra non solo un elemento razionale, ma anche uno animale, la sete della vendetta; la quale deriva la sua intensità, come pure la sua giustificazione morale, da quel tipo di utilità straordinariamente importante e incisiva che è in gioco. L'interesse coinvolto è quello della sicurezza che è, per ogni individuo, di vitale importanza. Tutti gli altri benefici terreni possono essere necessari a una persona e non a un'altra. A molti di essi, si può allegramente rinunciare o sostituirli con qualcos'altro. Ma della sicurezza nessun essere umano può fare a meno; da essa dipende la nostra immunità dal male e l'intero valore di ogni bene, al di là delle contingenze. [corsivi nostri] [...] Questa necessità [...] non può essere soddisfatta a meno che lo strumento per provvedervi non sia mantenuto in continuo esercizio» [J ohn Stuart Mill, Utilitarismo, Cappelli, 1981, capitolo V passim]. Leggendo questi passi e mettendoli a confronto con quanto abbiamo riferito riguardo la critica sociale approntata da M., si potrà evincere senza difficoltà il carattere decisamente antiliberale che quella critica viene ad assumere, volendo valutarla secondo "normali" parametri politici di riferimento. 231 L'entalpia è una funzione di stato di un sistema ed esprime la quantità di energia che esso può scambiare con l'ambiente. Ad esempio, in una reazione chimica, l'entalpia scambiata dal sistema consiste nel calore assorbito o rilasciato nel corso della reazione. Nella nostra metafora, servo e padrone si scambiano, a vicenda, "energia" esistenziale. 232 Nota M. che «quasi per ironia l'impulso a questo movimento del principio della debolezza [tal che esso assurge alla cambiale sociale] è dato dai più forti; [...] l'iniziativa è sempre del più forte: e la "lega dei deboli' s'è fatta proprio a spese dei più forti: che per sola volontà di sominio o per amore ebbero sempre per campo naturale alla loro sovrabbondanza di vita, per dominarli o per amarli [nota l'accostamento, fatto con apparente sufficienza, di dominio e amore], i loro simili» [PR 122]. Per il filosofo goriziano non c'è alcun sviluppo dello Spirito da giustificare e la diversificazione dominus-homo ha piuttosto una connotazione, come afferma Aristotele, già stabilita per natura [cfr. supra]; inoltre, tra le due "posizioni" non si verifica alcun vero conflitto, ma l'una e l'altra preferiscono vivere (sopravvivere) nella consapevolezza della propria condizione di reciproca dipendenza (usata come tacito ricatto), cercando di trarne la condizione più vantaggiosa possibile in un'oculata e compiacente simbiosi. Infine, il superamento (se di superamento si può parlare) dell'empirica condizione signorile-servile - quando quel ricatto comincia a vacillare - non avviene per processo dialettico, ma come dire, per processo "sinottico", cioè attraverso una mera amplificazione a livello sociale (molecolare) del rapporto puntuale (atomico) di dipendenza. La costruzione sociale è anch'essa, dunque, non frutto di un conflitto, ma risultato di un compromesso nel quale le due figure immediatamente si rifugiano, quando la loro condizione da stabile rischia di divenire precaria; e questo superamento non segna un progresso nella storia della coscienza di entrambi: tutt'altro: segna anzi un vero e proprio regresso, nel senso che nello stipulare la cambiale sociale la deficienza non si svelle, ma si innesta in una profondità ancor più radicata e più ignorata, ch'è appunto la Rettorica sociale. A questo punto, per M., la società diviene davvero il Leviatano: essa padrona, gli uomini (quelli che prima eran servi e padroni) novelli servi («gli uomini hanno trovato nella società un padrone migliore dei singoli padroni»): e tra i due nuovi poli si instaura una dialettica altrettanto nuova e altrettanto irrisolta, che mantiene tutte le deviate caratteristiche della prima, la sua malafede e la sua convenienza simbiotica: se tu rispetti le mie leggi - 233 Come sappiamo, la storia di queste autocoscienze, così come scandita da Hegel nella Fenomenologia, non è un processo pacifico e lineare, ma affronta una sofferta e faticosa maieutica pratica che trova nel conflitto tra il sé e l'altro- da-sé la molla dialettica che, passaggio dopo passaggio, assurge alla pienezza onnicomprensiva @llo Spirito. L'autocoscienza sorge nell'avvertimento del limite e si manifesta e sviluppa anzitutto nel desiderio soggettivo di superare l'ostacolo che le si pone incontro. Ma quest'ostacolo non è soltanto il mondo delle cose: è soprattutto l'altra autocoscienza, che limita e minaccia e lotta a sua volta per la propria sopravvivenza. E' qui che s'inserisce la dialettica servo-signore Herr und Knecht), come momento "storico" di esordio del conflitto delle autocoscienze diverse e indipendenti: conflitto che si delinea come mortale, ma che si risolve col subordinarsi dell'una autocoscienza all'altra: infatti, chi riesce a sopraffare l'altro, ostentando di non temere la morte, lo rende schiavo e lo piega al proprio progetto di affermazione. Ma, a sua volta, nel lavorare per l'altro, per il dominus, il servo vive un rapporto più autentico con la realtà, acquistando progressiva consapevolezza del proprio potere condizionante e quindi (arguirebbe Marx) una capacità maggiore di emancipazione. Così, il rapporto finisce col capovolgersi (la libertà e la potenza del signore si scopre mediata dall'operare del servo, che a sua volta scopre la potenza "immediata" del proprio lavoro) e attraverso questa lotta tra l'autonomia e la dipendenza s'ottiene un risultato concreto nello sviluppo dello S pirito: il sorgere cioè del sentimento della libertà nell'autoriconoscersi (l'autocoscienza nasce infatti proprio quando il soggetto riconosce - erkennt - qualcosa di sé nell'oggetto, o comunque nell'altro-da-sé). «[Il servo è] per il signore l'oggetto costituente la verità della certezza di se stesso. E chiaro però che tale oggetto non corrisponde al suo concetto; è anzi chiaro che proprio là dove il signore ha trovato il suo compimento, gli è divenuta tutt'altra cosa che una coscienza indipendente; non una tale coscienza è per lui, ma piuttosto una coscienza dipendente; egli non è dunque certo dell'esser per sé come verità, anzi, la sua verità è piuttosto la coscienza inessenziale e l'inessenziale operare di essa medesima. La verità della coscienza indipendente è di conseguenza la coscienza servile. Questa dapprima appare bensì fuori di sé e non come la verità dell'autocoscienza. Ma come la signoria mostrava che la propria essenza è l'inverso di ciò che la signoria stessa vuol essere, così la servitù nel proprio compimento diventerà piuttosto il contrario di ciò che essa è immediatamente; essa andrà in se stessa come coscienza riconcentrata in sé e si poggerà nell'indipendenza vera» [Hegel, Fenomenologia dello Spirito, La Nuova Italia, 1967, vol. I, pag. 161]. ingiunge il Leviatano - io ti assicuro la vita: altrimenti morirai; se non ci assicuri la vita - replicano i servi - noi non rispetteremo le tue leggi: e tu morirai. La società come necessità e "banalità" della sicurezza: ma se «a sicurezza è facile», essa - lo abbiamo visto - «è tanto più dura». E allora, nella violenza istituzionalizzata, «nella società organizzata ognuno violenta l'altro attraverso l'onnipotenza dell'organizzazione, ognuno è materia e forma, schiavo e padrone ad un tempo per ciò che la comune convenienza a tutti comuni diritti conceda ed imponga comuni doveri» [tutti i corsivi sono nostri]. Insomma, padroni e schiavi finiscono con l'essere entrambi vittime di un dominio che si congegna in sistema o in "amministrazione" tacitamente, doverosamente accettati; strutture che - seppur fabbricate dalle mani stesse dell'uomo - ora lo superano e si svincolano dal suo controllo: anzi - di converso - sono le dette costruzioni ad esercitare stavolta il controllo diretto. Ciò vuol dire che ciascuno (padrone o servo, non conta), all'interno del sistema stesso, si trova preconfezionato il proprio ruolo, il proprio destino: a lui non resta che la scelta del modo di viverlo; ma questa stessa scelta - individuale o sociale - obbedisce a sua volta alla logica del potere e del dominio e quindi, in definitiva, alla logica della violenza. 8 Come la violenza perpetua se stessa (II). L'educazione corruttrice secondo M.. Il ribaltamento operato dalla Persuasione. Ora: quali sono gli strumenti attraverso i quali la Rettorica indottrina gli uomini all' "accettazione felice" della scelta fasulla ed inadeguata?°*? Quali meccanismi mefistofelici essa pone in atto? In che modo riesce ad inculcare il senso del dovere, garanzia necessaria e sufficiente alla sopravvivenza della società rettorica ed ipocritamente "giusta"? In che modo, insomma, essa riesce a farsi (come si dice oggi) egemonia? O, infine, volendo usare le stesse parole del Nostro, «per qual via la natura ha tessuto e tesse contro a sé tale trama? E come si tiene questa e si riafferma sempre via in ogni figlio dell'uomo che, forte o debole nasca e di quella difesa bisognoso, pur sempre nasce ignaro del suo artifizio?» [121]; ovvero, ancor più chiaramente: in che modo si costituisce [122] e si diffonde [127] l'«adulazione» (xoXaxew) sociale? Come sostiene giustamente il Campailla, nell'introduzione all'edizione minor? della Persuasione e la Rettorica, «il mito della Persuasione [e noi aggiungiamo: il problema della Rettorica], coerentemente, culmina in un problema pedagogico». E proprio qui si apre la sezione più interessante ed "inattuale" della tesi del Goriziano . La risposta al complesso di interrogativi appena posti è a questo punto semplice e consequenziale: è l'«educazione corruttrice» (Svoradaywyia) [127] lo strumento raffinato attraverso il quale la società, la comunella dei malvagi, si arroga e si assicura la sopravvivenza”. Ma in realtà, alla luce di quanto detto, e leggendo attentamente le 234 Qui viene presa in esame la sezione conclusiva della tesi di laurea di M. - corrispondente alle pagg. 121- 131 incluse, in particolare da pag. 127 in poi - che s'intitola Gli organi assimilatori: per un accenno introduttivo alla questione, cfr. anche il nostro paragrafo Il momento del passaggio, contenuto nell'Intermezzo. 235 || concetto - fa notare Campailla - è platonico, e invita a cfr. Gorgia, 463 b, c e passim. 236 Edizione curata nella Piccola Biblioteca Adelphi, 1994 6a. Il riferimento che riportiamo è a pag. 25; il corsivo è nostro. 237 Possiamo dire che, dal punto di vista ideologico, l'asse Platone-Hegel è il riferimento più immediato della polemica pedagogica M.iana. Come abbiamo visto, le analisi di M. sul problema educativo avevano luogo d'origine nella riflessione sulla pedagogia platonica, funzionale alla "statolatria" della Repubblica. Ancora una volta, la prospettiva platonica si "aggiornava" in Hegel, il quale scriveva ad esempio nelle sue Lezioni sulla filosofia della storia (e la citazione vuol essere riassuntiva della posizione hegeliana): «[...] Solo nello Stato l'uomo ha esistenza razionale. Ogni educazione tende a che l'individuo non rimanga qualcosa di soggettivo, ma divent oggettivo a se stesso nello Stato. [...] Tutto ciò che l'uomo è egli lo deve allo Stato: solo in esso egli ha la sua essenza». [Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, trad. it, La Nuova Italia, Firenze, 1975, vol. I, pag. 105] In coerenza con le linee guida del suo panlogismo dialettico e storicistico, Hegel dunque vedeva nella formazione [Bildung] dell'uomo il "movimento consapevole, il divenire del suo essere per sé», e, cioè, «l'estraneazione del proprio immediato se stesso» istintivo e irrazionale mediante il quale il singolo - ripercorrendo le tappe dello sviluppo storico dell'umanità - si libera da ciò che ha in sé di individuale per oggettivarsi, com'è noto, nelle istituzioni etiche della famiglia, pagine che M. dedica alla questione”, appare chiaro come l'espressione «educazione corruttrice» sia, per lui, a tutti gli effetti, tautol/ogica. Ogni modalità e pretesa educativa, infatti, in ogni luogo e in ogni tempo, presenta la stessa "radice" viziata e corrotta: come abbiamo visto, l'ex-ducere, per il Goriziano, esprime sempre un atto di forzatura, anzi propriamente di violenza: un "trarre fuori" delegato ad un agente esterno (i maestri, i pedagoghi...°°°), un trarre fuori che è soprattutto un sottrarre l'uomo a sé stesso al fine di uno scopo supposto ultimo e massimamente utile, qual è quello della conformazione al cosiddetto benessere sociale (quella che il Nostro chiama «eciproca convenienza » sociale). Nel far ciò, arriva a scrivere il giovane filosofo, la società rende alle sue giovani "promesse" un servizio ch'è analogo a quello che «l'uomo fa ai vitelli, agli agnelli, ai polli, ai puledri, per farsene più buone macchine da lavoro o più buoni produttori di came» [128, in nota; corsivo nostro]. E i risultati di tale operazione sono, sempre e comunque, quelli di produrre «un degno braccio irresponsabile della società» [130; corsivo nostro]: un giudice, un maestro o, addirittura, un boia [130; il significativo accostamento M.iano delle tre figure sociali, senza soluzione di continuità, è violentemente polemico]. In questo senso, l'educazione si manifesta come la traduzione più coerente e più funzionale della tecnica [per cui cfr. supra], lo strumento più opportuno ed efficace per oliare gl'ingranaggi del meccanismo/dispositivo rettorico. In ultima analisi, leggiamo tra le righe, la diagnosi critica di M. non prende di mira solo o esclusivamente il sistema educativo borghese a lui coevo (e, nello specifico, la scuola borghese, deputata principe a quell'educazione): quello stesso sistema educativo e quella stessa scuola non sono altro che le forme e le formule perfette e ultime (ma solo nell'ordine del tempo) in cui l'organizzazione "conformatrice" della Rettorica stessa si è strutturata, in vista e a garanzia del suo perpetuarsi. Il problema non è neanche di puntare il dito verso un tipo di educazione o di organizzazione scolastica errata o quantomeno della società e appunto dello Stato; anzi lo stesso Stato «non esiste per i cittadini: si potrebbe dire che esso è il fine e quelli sono i suoi strumenti» [ibidem], Sostanzialmente, la posizione hegeliana avrebbe trovato un originale sviluppo in Gentile [cfr. almeno il suo Sommario di pedagogia (1913-14)], che tra l'altro fu ministro fascista dell'educazione e autore della riforma scolastica del 1923. Facciamo quest'appunto, perché Gentile - come scrive Campailla - "nel gioco delle parti, rappresentava idealmente il megapresidente di quella commissioni di professori" che doveva esaminare la tesi di laurea del Nostro; e proprio a Gentile toccò, nel 1922, "sulla ‘Critica’, il compito di formulare il giudizio ufficiale di una cultura" riguardo M. [cfr. l'introduzione di Campailla alla Persuasione..., cit., pag. XI]. 238 Pagine in cui la sua critica si fa davvero profonda, serrata e piena di feroce e amara ironia; ben poche pagine, verrebbe da notare, rispetto all'importanza ed alla complessità del problema, che investe le radici stesse del perpetuarsi della Rettorica, come sua prerogativa necessaria e sufficiente; ma, d'altronde, lo stesso M. avvisa che ciò che "fa l'educazione disonesta della società coi giovani uomini, è vicino, credo, e manifesto ad ogni occhio" [128-129, in nota]; tal che, il nocciolo è sempre lo stesso: è l'occhio che si rifiuta di vedere... 239 | più importanti rappresentanti-chiave (i latini direbbero i principes) del consorzio umano. perfezionabile: vogliamo dire che non è questione se l'educazione sia affidata ad un cattivo o ad un buon maestro, ad una cattiva o ad una buona scuola, ad un cattivo o ad un buon metodo: si rammentino gli "insuccessi" di Socrate e di Cristo, a tal proposito, se li si vogliano intendere come meri precursori di una scuola o di un'istituzione. Non è questione, dunque, di proporre un modello educativo alternativo e più pertinente. Questo perché la Persuasione non può avere maestri, scuole e proseliti: qualora li avesse, essa stessa giocoforza si mutuerebbe in Rettorica. Attraverso la Svoreidaywyta, l'individuo vien de-responsabilizzato””” e condotto, motu proprio, ad abdicare alla propria umanità autentica. L'educazione ha il fine di preparare il singolo alle esigenze della vita sociale, in modo che egli sappia inserirsi e vivere nel meccanismo rettorico, senza traumi e senza velleità di contestazione: formare coscienze, consapevoli di tutte le idealità familiari e sociali, capaci di perpetuare lo svolgimento e di garantire la sicurezza stabile del dispositivo, la sua cultura e le sue tradizioni, seppur talora sotto le mentite spoglie del progressismo. Con un'espressione riassuntiva, potremmo dire che la società rettorica garantisce e protegge sé stessa attraverso le forme e le formule della Rettorica sociale. Appare chiaro, sotto questa prospettiva, che è errata in assoluto ogni pretesa vicinanza o anche una semplice analogia topica (vista la distanza temporale e geografica) tra le riflessioni di M. e gli assunti di quella che vien detta "pedagogia del dissenso", " 241, Nella "della liberazione", o le posizioni dei movimenti cosiddetti di "descolarizzazione pratica, l'è vero, le linee dell'analisi e delle critiche sembrano convergere, sotto certi rispetti (inerenti, comunque, soltanto alla pars destruens del discorso): entrambi le posizioni (quella M.iana e quella rivoluzionaria) ritengono che scopo dell'educazione - come comunemente s'intende - non sia quello di far evolvere un individuo verso la propria realizzazione al fine di renderlo felice, ma purtroppo far sì che l'individuo si adatti a quel tanto di infelicità che gli è imposto da un sistema dato e considerato immutabile (0, come dice Marcuse, l'educazione tenderebbe a fare in modo che l’uomo viva liberamente la propria mancanza di libertà). Tuttavia, le posizioni di fondo sono divergenti, anzi si pongono su due piani decisamente diversi. 240 Si ricordi che, per M., la condizione "naturale" dell'individuo sociale è quella in cui l'individuo risulta privato del suo «senso di responsabilità» [108, corsivo del Goriziano; ma cfr. anche quanto detto a tal proposito nel nostro paragrafo sulla Rettorica come tecnica della violenza e violenza della tecnica]. 241 Intendiamo quella pedagogia "rivoluzionaria" o "radicale" rappresentata negli USA da Ivan Illich e da Paulo Freire (mentre in Italia è stata rappresentata da Marcello Bernardi), che elegge a suoi padri putativi Godwin (in Inghilterra), Francisco Ferrer (in Spagna) e, guarda caso, il nostro Tolstoj e che prende le mosse, o comunque viene allo scoperto, durante i movimenti sessantottini di protesta studentesca. «Descolarizzare la società» è il celeberrimo motto di Illich. Quelle "nuove" pedagogie, si muovono, infatti, comunque nell'ambito della necessità di un'educazione, prendendo di mira soltanto le modalità, i modelli ed i metodi di quell'educazione. Il loro problema reale è: l'educando deve adattarsi e conformarsi all'identità sociale, rappresentata ad esempio dal maestro, o invece, come persona viva deve essere educato ad adoperare, un giorno, la sua originale vitalità per migliorare la società (ci immaginiamo come avrebbe reagito M.)? Quelle nuove pedagogie, insomma, appuntano la loro critica solo su di un dato, effettivo, sistema educativo (quello borghese e sedicente "liberale"), perché lo ritengono "statico" e quindi nocivo alla società stessa, cui l'educazione rimane sempre e comunque "funzionale". Per questo, si affaticano nell'approntare un metodo educativo che elimini ogni costrizione o dipendenza apparente (prescrizioni, regolamenti, orari), che ridefinisca quell'insieme di atteggiamenti e di comportamenti che aiutano un individuo ad essere se stesso, a realizzare pienamente la propria personalità, a 'progredire secondo le proprie linee evolutive", come si suol dire. Per dirla in breve, quelle pedagogie non eliminano l'eteronomia, ovvero non obliterano la figura dell'educatore (ritenuta sempre necessaria), ma si limitano ad evidenziare la difficoltà e la delicatezza del rapporto interpersonale educatore-educando, lo riformulano e lo re-inquadrano assimilandolo sostanzialmente all'amore della famiglia e/o della città; rischiando, così, di pervenire, e in effetti pervenendo - nell'ottica del Goriziano, non esplicita in questo senso, ma consequenziale, a questo punto - ad un'operazione ancora più subdola e pericolosa: propinare e formare il "culto della comunità" attraverso la maschera del paternalismo più becero. Questa autorità (quella del genitore, quella del maestro, quella della Rettorica) rimane sempre tale, anzi si rinforza, perché si mimetizza sotto le mentite spoglie dell'amore e della cura dell'altro («il verxog avrà preso l'apparenza della puua» [118]): essa non s'impone più dall'esterno o dall'alto, ma conduce il discepolo (anzi, meglio, il bambino, o il giovane) ad attuare se stesso secondo (presunta) verità; comanda come se consigliasse o supplicasse; influisce e penetra nelle anime senza apparentemente lederne l'autonomia... Come si vede, nell'ottica del disincanto che la lettura di M. ci suggerisce, la violenza permane tal qual è, anzi addirittura si amplifica e diviene più efficace, perché si fa subliminale e si edulcora, e in questo suo edulcorarsi riesce a rendersi perfino ben accetta. Alla luce di tutto ciò, appare allora cristallino quanto il Goriziano scrive (e vale davvero la pena trascriverlo): La peggior violenza si esercita così sui bambini sotto la maschera dell'affetto e dell'educazione civile. Poiché con la promessa di premi e la minaccia di castighi che speculano sulla loro debolezza, e con le carezze e i timori che alla loro debolezza danno vita, lontani dalla libera vita del corpo, si stringono alle forme necessarie in una famiglia civile: le quali come nemiche alla loro natura si devono appunto imporre con la violenza e con la corruzione. Più ancora, la stessa fede, la stessa volontà del bene è sfruttata per l'utile della società. La grande aspettazione d'un valore è via via adulata con la finzione d'un valore nella persona sociale, che gli si tien sempre davanti agli occhi come quella che egli debba, imitando, in se stesso educare. Tu sarai un bravo ragazzo, come quelli che vedi là andare alla scuola, sarai come un grande'. Gli si forma il mito di questo raro scolaro grande, e ogni cosa appartenente allo studio, alla scuola acquista un dolce sapore: l'andare a scuola, la borsa per i libri ecc. E si forma la gerarchia dei valori in rapporto alla superiorità della classe: 'Se sarai bravo, il prossimo anno, non scriverai più sulla lavagna, ma su un quaderno! e con l'inchiostro". Tutti approfittano di quest'anima in provvisorio che sogna 'il tempo quando sarà grande', per violentarla, 'incamiciarla', ammanettarla, metterla in via assieme agli altri a occupare quel dato posto e respirar quella data aria sulla gran via polverosa della civiltà. [129] E in modo ancor più esplicito e sarcastico: Fin dai primi doveri che gli si impongono, tutto lo sforzo tende a renderlo indifferente a quello che fa, perché pur lo faccia secondo le regole, con tutta oggettività. 'Da una parte il dovere, dall'altra il piacere'. 'Se studierai bene, poi ti darò un dolce; altrimenti non ti permetterò di giuocare' .E il bambino è costretto a mettersi in capo quei dati segni della scrittura, quelle date notizie della storia, per poi avere il premio dolce al suo corpo. - 'Hai studiato: adesso puoi giuocare!". E il bambino s'abitua a considerar lo studio come un lavoro necessario per viver contenti, se anche in sé sia del tutto indifferente alla sua vita: ai dolci, al giuoco ecc. Così gli si impongono le determinate parole, i determinati luoghi comuni, i determinati giudizi, tutti i kallwpismata della convenienza e della scienza, che per lui saranno sempre privi di significato in sé ed avranno sempre soltanto tutti quel costante senso: è necessario per poter avere il dolce, per poter giuocare in pace: la sufficienza e il calcolo. Quando al dolce e al gioco si sostituisca il guadagno, "la possibilità di vivere" - "la carriera", "la via fatta", "le professioni" - lo studio o la qualsiasi occupazione conserveranno il senso che il primo dovere aveva: indifferente, oscuro, ma necessario per poter giocare poi, cioè per poter vivere ai miei gusti, per mangiare, bere e dormire e prolificare [130; in queste ultime righe, tutto il corsivo è nostro]. Tutto l'apparato rettorico viene spazzato via con un colpo di spugna, viene anzi ridicolizzato (s'immiserisce in caricatura) da queste considerazioni sprezzanti che non concedono alcun appello. La demolizione dell'illusoria permanenza, da semplice breccia che era, assume dimensioni a dir poco apocalittiche, coinvolgendo tutti gli aspetti della nostra gratuita, artefatta esistenza, dalle espressioni più banali e quotidiane a quelle più meschine e smaliziate. Lo smascheramento si è mutato in condanna esplicita, perentoria, battagliera, irriverente, colpendo nel cuore il dio della prAopuyix, braccandolo negli anfratti più reconditi, smitizzandone l'ostentata onnipotenza. Ad un orecchio distratto, le parole di M. potrebbero suonare come l'ennesima, stancante riproposizione di un impertinente nichilismo. Tutt'altro, ci pare. Il nichilismo è il travestimento carnascialesco della Rettorica, il tiro mancino più azzeccato e beffardo e più a la page. La forza di M. non è soltanto nel disincanto: il disincanto è un momento di passaggio, obbligato, ma di passaggio; la forza della Persuasione risiede soprattutto nella speranza di un nuovo inizio: lo spegnersi dell'illusione luciferina del piacere non ci immerge nelle tenebre ma ci apre lo spiraglio di una nuova luce, di una recuperabile Salute. Per quanto tutto ciò che ci attornia sembri comprovare una resa incondizionata, forse non è ancora tutto compromesso, ci suggerisce il nostro filosofo. Abbiamo ancora una possibilità di riscatto, un perno autentico intorno al quale tentare di ricostruire ciò che abbiamo perduto. E' dall'insegnamento socratico che bisogna ricominciare, è il nosce te ipsum - secondo il Goriziano - il punto di riferimento di ogni corretta ri-valutazione dell'umano, il «prediletto punto di appoggio», il veicolo autentico e genuino della Persuasione, la garanzia pertinace dell'autonomia del vir : Questa educazione (ed è l'unica) [la precisazione parentetica ha valore risolutorio] dà all'uomo le gambe per camminare, e gli occhi per vedere: non gli dà vie fatte, non gli fa veder date cose. - questa fa l'uomo sicuro e indipendente da qualunque offrirsi di cose e non può temere che l'una o l'altra vita sufficiente lo vinca [PR 150; corsivi di M.]. Solo attraverso la voce di Socrate” si formerà il vero uomo, il vir persuaso, l'eroe tragico, l'uomo d'azione, che ha fatto del dolore il punto di partenza della propria gioia, e che ha aperto quella gioia al mondo, creando i presupposti di un nuovo rispetto tra gli enti e di un nuovo principio di responsabilità e di amore. Le parole di M. sono, ancora una volta, devastanti nella loro bellezza, definitive pur nella loro programmaticità (le sottolineamo tutte in corsivo, visto che esse compendiano e confermano il senso della nostra interpretazione): L'uomo d'azione, l'eroe è come uno zampillo d'acque che erompe dalla terra, s'innalza verso il cielo, riscende a ristorare il suolo. (...) L'eroe è uno slancio della volontà verso l'essere, la libertà, 'dio" nelle cose, con le cose, per le cose; nella vita e non fuori della vita; bisogna esser nella vita per uscirne - e l'unica via è l'universalizzazione della vita, lo slancio verso il principio della vita in un amore eguale per tutte le cose viventi: libertà e amore: quanto più l'uomo è libero tanto più sente sé identico all'universo: nell'amore verso l'intima ragione accomuna sé e l'universo; sente sé (nel proprio divenire verso l'essenza) la ragione dell'universo, ama sé in tutte le cose e tutte le cose in sé; in quanto ama e cerca quell'unica universale essenza. L'eroe vive in questa ultima fede e afferma se stesso trascinando il mondo verso la vera vita: il regno dei cieli è in te. (...) L'eroe presuppone negli uomini la medesima essenza, la stessa volontà che è in lui, rispetta sé negli altri. Cioè suppone negli altri la ‘direzione verso l'assoluto, verso dio": nega e afferma per sé e per gli altri in nome di questa smisurata speranza. Respinge la vita terrestre, ma vive, nel pensiero de 'la vita'24, Sta dunque a noi - che, seppur "storditi", avvertiamo comunque il riflusso della voce socratica - farne «attività infinita» o destinarla al bivacco dell'utopia, ostinandoci a bazzicare nelle rilassate menzogne della nostra «tranquilla e serena minore età» °, perché - direbbe Kant - in fondo «è così comodo essere minorenni!» °°, 242 L'eristica potrebbe obiettare che l'eteronomia, cacciata dalla porta, è rientrata per la finestra: in fin dei conti, anche M. elegge un suo educatore, in Socrate. Ma l'appunto è inesatto. L'educazione socratica, infatti, ha il suo valore proprio nel negare... il proprio valore (ilsapere di non sapere, tanto per usare un comodo luogo comune), ovvero nell'indicare all'individuo la strada della propria autonomia, disattendendo ad ogni sua stessa pretesa educativa (e qui è il fulcro del paradossale "messaggio" di Socrate, che si riflette nella paradossalità della Persuasione). In questo senso, nel richiamare l'individuo alla "reminiscenza" dell'autentico "demoniaco", più che un'educazione, quella socratica è una provocazione. 243 La figura dell'eroe tragico, come qui è tratteggiata, appare negli Scritti vari, cit, n. 110, pagg. 798-799. 244 Sono le parole con cui si conclude la versione "ufficiale" (prescindendo dalle Appendici critiche) de La persuasione e la rettorica. Confessiamo che sono state proprio queste parole, che suggellano il messaggio di persuasione M.iano, ad incoraggiare il nostro approccio ermeneutico attraverso la prospettiva dell'etica kantiana, casomai non esplicita, ma sempre presente durante la stesura del nostro lavoro. Perché «uscire dalla minore età» è l'augurio e il monito programmatico (a tutto il suo pensiero) che Kant pone a principio di uno dei saggi che riteniamo tra i più belli e sardonici: Risposta alla domanda: che cos'è l'iluminismo? [cfr. anche nota successiva]. E la coincidenza non c'è sembrata solo una contingente questione d'assonanza. 245 Cfr. Kant, : Risposta alla domanda: che cos'è l'illuminismo?, contenuto in Scritti politici e filosofia della storia e del diritto, UTET, 1965, pag. 141. Capitolo integrativo. A - Le varianti deboli della Persuasione. A1- La variante nichilistica di Schopenhauer. A2- La variante Nietzsche, il "terzo Dioniso". A3 - Leopardi: la variante "flessibile" alla Persuasione. A4 - Kierkegaard: la variante "relazionale" della Persuasione. B - Variazioni sul tema M.iano del "peso che di-pende". C - La critica alla Rettorica come caricatura della Rettorica. A - Le varianti deboli della Persuasione. Intendiamo quali "varianti deboli" della Persuasione taluni esiti filosofici che hanno conosciuto, rispetto alla proposta M.iana, maggior fortuna nella storia del pensiero occidentale, pur condividendo, con quella proposta, presupposti e finalità, ovvero - per dirla con estrema sintesi - la mechané tragica per sopravvivere al Tragico (in questo senso le diciamo varianti). Esiti (l'egoismo di Stirner, il titanismo di Foscolo e Leopardi, il dionisismo di Nietzsche, il volontarismo di Schopenhauer, il "cristianesimo" di Kierkegaard e via dicendo) cui molto spesso la critica si è appoggiata nel tentativo di risolvere la complicata sciarada della Persuasione, incasellandola nel rapporto a soluzioni già note e definite, ma in questo modo giocoforza equivocando e/o svalutando la pregnanza e l'originalità profonde della sua portata. Soluzioni, ancora, che M. effettivamente tenne in conto, e che anzi costituirono (quale più quale meno) l'humus fertile della sua formazione culturale e soprattutto umana: ma esiti, infine, che M. stesso ad un certo punto superò (nell'accezione, ci vien da dire, hegeliana), ritenendoli parziali o comunque non sufficientemente "persuasi" (e in questo senso le varianti le diciamo debolì). Non sufficientemente persuasi significa, come oramai si capirà, non garanti di quella autonomia e di quell'orizzonte politico che invece costituiscono per noi i tratti distintivi e forti della Persuasione M.iana. Focalizzeremo la nostra analisi soprattutto sulle varianti schopenhaueriana, nicciana, leopardiana e kierkegaardiana, dato che - vista la loro portata - esse si impongono su altre satellitari, nel senso che ad esse possono comodamente riferirsi. In realtà, riguardo Kierkegaard, la questione è già stata ampiamente trattata nel corso del nostro lavoro, anche se per via indiretta, soprattutto nell'accostamento al Brand, trasposizione drammaturgica (come dicemmo) del cavaliere della fede; riguardo Leopardi, uno dei Persuasi per eccellenza secondo M., ci soffermeremo soltanto sulla lieve (ma in ordine di quantità e non di qualità) "sfumatura" che a nostro parere li distingue nelle soluzioni della mechané; per quanto concerne Schopenhauer, invece, ci limiteremo a sottolineare le affinità-differenze del Wille con la deficienza e il valore della Persuasione anche come decisa risposta alternativa al Nirvana, o comunque all'ideale ascetico; infine, la nostra analisi indugerà piuttosto su Nietzsche, dato che l'ermeneutica filonicciana rappresenta, secondo il nostro giudizio, l'equivoco GRICE EQUIVOCO più problematico e pericoloso della Persuasione, anche se, purtroppo, il più accreditato. Nel tracciare la sinossi di questi autori con M., ovviamente si procederà con andamento sintetico piuttosto che analitico, ovvero sorvolando elementi critici oramai 149 assodati e casomai soffermandoci su spunti che, in apparenza tangenziali o cavillosi, possono rivelarsi cruciali nell'economia del nostro discorso. Questa nostra metodologia "antagonista", infine, vuol far emergere, nel raffronto chiaroscurale, una evidenza della Persuasione chiara e distinta, chiara perché appunto distinta. E vuol ribadire il fatto che la riflessione di M., seppur originalissima, fermentò comunque nella sinergia di riflessioni affini alla sua°*°: il Goriziano, cioè, cercò continue conferme alla sua ipotesi di Persuasione (e di riflesso, alla sua analisi sulla Rettorica), spaziando tra le esperienze più complesse e "alternative", volte a garantirle anche un saldo impiantito speculativo. Apparirà chiaro, dunque, come tra M. e i quattro pensatori di cui sopra si venga a stabilire un vincolo che può apparire di filiazione, ma che in effetti è di "assonanza" (si respira, come dire, aria di famiglia): ossia apparirà sintomatico come la "consapevolezza del disincanto" acquisti, a certi livelli, una quasi perfetta corrispettività di intenti e di diagnosi e di espressioni talora anche (addirittura) terminologica. Laddove, però, le differenze si rivelano importanti almeno quanto le somiglianze. Questo, a nostro parere, getta luce definitiva sul rapporto che il giovane filosofo instaura con i "suoi" autori: è come se da essi - volendo usare una perifrasi aritmetica - traesse il "minimo comune multiplo" o il "massimo comun divisore", e lo rielaborasse nel saldo tessuto connettivo della sua Persuasione. Persuasione che, in un balzo, oltrepassa anche gli esiti dei suoi riferimenti privilegiati, e ciò davvero senza la pur minima ossequiosità; Persuasione che, infine, e non solo per l'ameno che la contraddistingue, può a buon diritto figurare accanto a quelli nel firmamento della storia della filosofia persuasa di tutti i tempi, seppur figlia "soltanto" dell'ibrida provincia italo-austriaca. 246 Sullo sfondo, non dimentichiamolo, l'orizzonte greco, presupposto di tale sinergia, già ampiamente trattato.A1- La variante nichilistica di Schopenhauer. Come accennato più volte, alla lettura di Schopenhauer - all'unanimità riconosciuto come uno dei vertici speculativi di ispirazione per M. - il nostro giovane filosofo fu introdotto dall'amico Enrico Mreule”", e presumibilmente attraverso Schopenhauer (si pensi alle suggestioni nirvaniche di intere pagine del Mondo) si avvicinò anche alla riflessione, se non proprio alla pratica, del Buddismo”. Eppure, il "filosofo della volontà" è il grande assente dagli scritti michelstedteriani: gli accenni che lo riguardano in modo diretto sono davvero scarsi, ammontano a quattro o cinque - egualmente distribuiti tra la tesi, l'epistolario e due saggi raccolti nelle Opere complete - e, nella maggior parte dei casi, ci sentiamo di dire, davvero di poco conto, accessorii?”. 247 Cfr. almeno il nostro capitolo II, nella fattispecie il paragrafo sul Pretesto cronologico della proposta persuasa di M.. 248 Cfr. il nostro capitolo |, nella fattispecie il paragrafo sul Porto della pace. 249 Schopenhauer aveva individuato nella Volontà [Wille] il nome proprio del noumeno kantiano, vale a dire la radice strutturale di ogni realtà: un impulso cieco, inarrestabile, irrazionale, che non ha altro fine se non perpetuare sé stesso e che, in questo autoprodursi, informa il mondo (si "oggettiva" nel mondo) segnandolo di dolore e male. Essa è «la sostanza intima, il nocciolo di ogni cosa particolare e del tutto» (cfr. almeno Mondo I, $ 21). «Il fenomeno, l'oggettità dell'unica volontà di vivere è il mondo, in tutta la molteplicità delle sue parti e figure. L'essere, e il modo dell'essere, nel tutto come in ciascuna parte, è costituito solo dalla Volontà. Essa è libera, essa è onnipotente. In ogni cosa appare la Volontà, quale essa medesima in sé e fuori del tempo si determina. Il mondo non è che lo specchio di questo volere; ed ogni limitazione, ogni male, ogni tormento, che il mondo contiene, appartengono all'espressione di ciò che la volontà vuole: sono quali sono, perché essa così vuole» [ib. § 631. Secondo il "filosofo del pessimismo", la Volontà stessa trova nell'uomo un insperato, inconsapevole alleato: essa, sempre più chiaramente oggettivandosi, agisce, prima come forza meramente impulsiva, poi come forza istintiva, infine, proprio nell'uomo, come conoscenza. Nell'uomo, nella conoscenza, la Volontà diviene forma organizzata, assume la falsa consistenza del "quadruplice principio di ragione sufficiente" (necessità logica, fisica, matematica, morale). Ora, ad avviso di Schopenhauer, ci si può liberare dal dolore e dalla noia e sottrarsi alla catena infinita dei bisogni - tutte manifestazioni in cui appunto la Volontà si oggettiva nell'uomo - attraverso l'arte e l'ascesi. Un grado "intermedio" di liberazione è la compassione, che nasce quando l'uomo ha saputo superare ogni distinzione fra la propria e l'altrui persona, considerando il destino dell'altro uomo come uguale al proprio e sentendo come proprio l'altrui dolore. La morale ha come virtù la giustizia (che è un freno all'egoismo e quindi è una virtù negativa: "non fare il male") e la carità (virtù positiva: "allevia il male"). Tuttavia, se con la pietà si vince l'egoismo, comunque non ci si libera totalmente della vita e dunque della volontà. Difatti, per Schopenhauer il comportamento che nega in modo assoluto l'individualità e la volontà dell'uomo è piuttosto quello ascetico. Nell'ascesi la Volontà cancella ogni affermazione di sé negando tutte le forme "positive" di vita e trasformandosi in quella che il filosofo chiama appunto la nolontà (ossia il riflesso speculare - ma opposto, negativo - della Volontà). L'ascesi si profila come un insieme di pratiche che mortificano la volontà, che fanno capire come essa sia causa reale di sofferenza e sia essenza stessa del mondo: la noluntas è la perfetta castità, la povertà volontaria, la rassegnazione ed il sacrificio [cfr. almeno $$ 70-71]. Quello ascetico si configura come lo stato di chi ha annullato in se medesimo ogni pulsione vitale, di chi si è distaccato dall'ordine degli eventi mondani e dai piaceri della vita e accetta serenamente la morte come liberazione dai lacci della volontà e delle sue illusioni. La completa soppressione dell'impulso vitale produce, per Schopenhauer, l'annullamento totale del mondo: pervenuto alla perfezione della noluntas, l'uomo scopre che il traguardo della propria autonegazione gli dona la contemplazione del nulla (cfr. almeno ib. $ 71, ma vd. anche nel prosieguo del confronto). Ma è proprio nella formazione di questo "nulla mortificante" artefatto che, secondo noi, M. costruisce la propria critica e segna il suo distacco da Schopenhauer. [le citazioni qui riportate da Il mondo come volontà e rappresentazione, e quelle che si riscontreranno nel corso del confronto, sono tratte dalla trad. it. proposta dall'ed. Laterza, 1968, a cura di C. Vasoli. Delle citazioni ci siamo limitati a riportare i paragrafi da cui esse son prese]. 250 Alle citazioni che incontreremo nel corpo del confronto, si aggiungano queste altre tre, e il quadro è completo: Schopenhauer, del resto, non rientra nell'eletta schiera dei persuasi: non è inserito neanche nell'elenco dei «perfetti pessimisti» (che coincide in pratica con quello dei persuasi), nel noto frammento contenuto negli Scritti Vari. Questo silenzio e queste assenze sono a dir poco imbarazzanti, e molta critica tende a sua volta a sottacerli, dato che, diversamente, crediamo noi, verrebbe a cadere uno dei più importanti pretesti per incasellare M. all'interno di una tradizione di riferimenti già stabilita. E' altrettanto vero, comunque, che da molte pagine della tesi di laurea e del Dialogo trapela netta la voce del Wille, soprattutto quando il Goriziano svolge la sua analisi sul deficere fisiologico-ontologico che struttura il mondo sublunare”; com'è vero che, «con buona probabilità, [ritrae il volto di] Schopenhauer un disegno di M. pubblicato da VI. Arangio-Ruiz252, [al di sotto del quale disegno] è significativamente riportata la formula 'AT ENEPIEIAX® EX APTIAN' [dall'attività verso la pace] in cui il Goriziano ha più volte sintetizzato i compiti della [sua] ricerca filosofica»“°°. E, ancora, è forse proprio lo stesso ritratto che s'intravvede sullo sfondo, tra i libri sulle scaffalature, nel famoso autografo Disegno della soffitta di casa Paternolli (il «ritratto della mia vita», com'egli lo chiama allegandolo ad una lettera al Chiavacci), la soffitta dove M. letteralmente si segregò per ultimare la tesi, trascorrendo (come scrive) una «vita che non è vita», ma con la consapevolezza, comunque, che lì nasceva «una grande opera». Quasi che l'immagine del filosofo tedesco, come l'icona di un santo, vegliasse e "supervisionasse" il lavoro del Goriziano, dunque. Del resto, Schopenhauer suggerisce a M. anche il luogo privilegiato attraverso il quale, come filo d'Arianna, individuare la possibilità di un'armonia persuasa da estendere alla totalità delle cose viventi: il filosofo tedesco aveva visto, cioè, proprio nel corpo - che pur ad una considerazione superficiale si dà come mera rappresentazione tra le rappresentazioni - l'espressione più adamantina e perfetta dell'oggettivazione del Wille, e quindi la condizione della conoscenza della Volontà stessa, lo strumento euristico che permette di oltrepassare il "velo di Maia" interposto tra noi e la vera essenza del «E' scritto in qualche parte (credo in Schopenhauer) che chi potesse guardare internamente in un vaso di terra non vi vedrebbe che un oscuro tendere al basso e un'oscura forza di coesione» [PR 162]; «Tu sai che la ragione dell'antisemitismo filosofico (Schopenhauer e Nietzsche) è il razionalismo della religione e della letteratura ebraica (pensa al Pentateuco e a Spinoza!) e la mancanza dell'elemento mistico nelle menti ebraiche [...]» (la già citata lettera al Chiavacci, del 22 dicembre 1907, E 267, che richiameremo anche in riferimento a Nietzsche); «Schopenhauer dice che ogni dialettica è in fondo un'eristica. Quella dialettica non è un'eristica dove l'uomo si comporta verso l'altro come verso di sé - dov'è presupposta in tutti e due un'eguale realtà, sicché tutti e due arrivano a purgare singoli concetti dalla relatività, giungendo ad affermare così l'assolutezza della loro comune fede» [O 711-712]. 251 Ma riguardo a ciò, ovvero alla re-interpretazione del Wille, cfr. quanto diremo oltre. 252 In Convegno, luglio 1922, pag. 357. 253 Sono le parole di S. C ampailla, in Pensiero e poesia..., cit., pag. 25, in nota. 254 La lettera cui il disegno e le parole citate fanno riferimento è quella del 25 aprile 1910. mondo. Similmente, M. individua un'analogia tra il bisogno elementare del nostro corpo e il bisogno della Persuasione: come ricorderete, dicemmo che «è come se [...] un'immagine sbiadita della Persuasione sopravvivesse nella forza che sottende all'equilibrio omeostatico (chimico e soprattutto fisiologico) del nostro corpo» °°. Ciò nonostante, il silenzio del Goriziano riguardo Schopenhauer è, secondo noi, non privo d'importanza, è anzi indicativo della curvatura autonoma che ben presto prese la sua ricerca esistenziale. A tal proposito, ci sembra utile riportare l'unico passaggio che abbiamo designato come significativo: (Schopenhauer, in fin dei conti] non si occupa di far vedere la necessità dell'errore stesso implicito nel principio generale della vita che fece vivere chi aveva negato ogni ragione di vivere. Infatti così accadde proprio a lui che visse tutta una lunga vita a fare professione di pessimismo. Tanto che poi le sue negazioni gli divennero sistema e che morì accarezzando anche lui [s'intende, tra le righe, (soprattutto) come Hegel] una certa forma di 'assoluto' [O 839-840]. Come appare chiaro, M. denuncia che nella pratica della vita il filosofo tedesco arrivò a sconfessare se stesso, o che comunque fece assurgere il suo pessimismo a sistema, la qual cosa è una contraddizione in termini. Appare altrettanto chiaro che, in questo senso, Schopenhauer diviene addirittura l'avversario privilegiato, seppur indiretto, di molte pagine M.iane incentrate sulla critica dell'«imperfetto pessimismo», cioè di quel pessimismo che viene infine a coincidere con «un punto alto dell'ottimismo vitale»"99. Il meccanismo, che in effetti ricorre in più passaggi della sua opera, viene descritto con limpidezza in un capoverso del Dialogo: Il suo non è pessimismo, cioè conoscenza del non-valore, e conseguente indifferenza, ma ottimismo. Cioè fede in un valore (la felicità nella morte) sconosciuto, per solo stimolo del suo bisogno presente [D 78]. Qui, in verità, M. sta fustigando coloro i quali, "forti" del loro pessimismo, credono di realizzarne con coerenza i presupposti nichilisti uccidendosi. Mentre invece Schopenhauer, come sappiamo, considerò il suicidio come «un atto di forte affermazione della volontà stessa» in quanto il suicida «vuole la vita ed è solo malcontento delle condizioni che gli sono toccate» (Mondo, $ 69), per cui anziché negare veramente la volontà egli nega piuttosto la vita; e in questo M. lo segue fedelmente (ed è importante, e deve far riflettere, una simile presa di posizione da parte di un suicida?”). 255 Cfr. ci sia concessa questa autocitazione dal paragrafo su Empedocle, nel nostro Capitolo V, per rendere più scorrevole il discorso. 256 in Scritti Vari, cit., pag. 825. 251 Cfr. le analisi contenute ad esempio in D 75-78. Tuttavia, pur se non morte, cos'altro è la noluntas se non una forma di "mortificazione", di consapevole eutanasia? La pace del Nirvana? si propone come esperienza del nulla, un nulla relativo al mondo, cioè, in definitiva, una negazione del mondo. Certo, anche la Persuasione presuppone una spoliazione progressiva delle "valenze inadeguate" che il vir intrattiene col mondo: ma il risultato non è un divorzio del Persuaso da ciò che lo circonda, non è una sua mortificazione, bensì - e lo abbiamo più volte ripetuto - un recupero del mondo nell'apprezzamento di una rinnovata dolcezza. Per semplificare la questione, possiamo ammettere che talune affermazioni del Goriziano tradiscono, in effetti, già nell'argomentazione, una discendenza molto chiara dal dettato schopenhaueriano (ad es., passaggi importanti come il seguente: «Vita è volontà di vita, volontà è deficienza, deficienza è dolore, ogni vita è dolore»°°°): e proprio seguendo la falsariga del Tedesco (e con profonde affinità anche con Leopardi) per M. la vita - e non solo quella rettorica - oscilla decisamente tra dolore, piacere effimero e noia. L'argomentazione è addirittura sillogistica, come sappiamo: ogni essere vivente, oggettivazione puntuale/empirica del Wille/deficere, è afflitto dal bisogno e dal desiderio, da una brama che pone in lotta le forme viventi tra loro. Unica alternativa, dopo i brevi e occasionali istanti dell'appagamento (natura negativa del piacere), è la noia. 258 «Davanti a noi - scrive Schopenhauer - non resta invero che il nulla. Ma quel che si ribella contro codesto dissolvimento nel nulla, la nostra natura, è anch'essa nient'altro che la volontà di vivere. Volontà di vivere siamo noi stessi, volontà di vivere è il nostro mondo. L'aver noi tanto orrore del nulla, non è se non un'altra manifestazione del come avidamente vogliamo la vita, e niente siamo se non questa volontà, e niente conosciamo se non lei. Ma rivolgiamo lo sguardo dalla nostra personale miseria e dal chiuso orizzonte verso coloro, che superarono il mondo; coloro, in cui la volontà, giunta alla piena conoscenza di sé, se medesima ritrovò in tutte le cose e quindi liberamente si rinnegò; coloro, che attendono di vedere svanire ancor solamente l'ultima traccia della volontà col corpo, cui ella dà vita. Allora, in luogo dell'ncessante, agitato impulso; in luogo del perenne passar dal desiderio al timore e dalla gioia al dolore; in luogo della speranza mai appagata e mai spenta, ond'è formato il sogno di vita d'ogni uomo ancor volente: ci appare quella pace che sta più in alto di tutta la ragione, quell'assoluta quiete dell'animo pari alla calma del mare, quel profondo riposo, incrollabile fiducia e letizia [...] La conoscenza sola è rimasta, la volontà è svanita. E noi guardiamo con profonda e dolorosa nostalgia a quello stato, vicino al quale apparisce in piena luce, per contrasto, la miseria e la perdizione del nostro. Eppur quella vista è la sola, che ci possa durevolmente consolare, quando noi da un lato abbiam riconosciuto essere insanabile dolore ed infinito affanno inerenti al fenomeno della volontà, al mondo; e dall'altro vediamo con la soppressione della volontà dissolversi il mondo, e soltanto il vacuo nulla rimanere innanzi a noi. In tal guisa adunque, considerando la vita e la condotta dei santi [...] dobbiamo discacciare la sinistra impressione di quel nulla, che ondeggia come ultimo termine in fondo a ogni virtù santità e di cui noi abbiamo paura, come della tenebra i bambini. Discacciarla, quell'impressione, invece d'ammantare il nulla, come fanno gl'Indiani, in miti e in parole prive di senso, come sarebbero l'assorbimento in Brahma o il Nirvana dei Buddhisti. Noi vogliamo piuttosto liberamente dichiarare: quel che rimane dopo la soppressione completa della volontà è invero, per tutti coloro che della volontà ancora son pieni, il nulla. Ma viceversa per gli altri, in cui la volontà si è rivolta da se stessa e rinnegata, questo nostro universo tanto reale, con tutti i suoi soli e le sue vie lattee, è il nulla » [Mondo $ 71 passim]. 259 In Scritti Vari, cit, pag. 705. 260 «Qualsiasi soddisfacimento - scrive Schopenhaurer - o ciò che in genere suol chiamarsi felicità, è propriamente e sostanzialmente sempre negativo, e mai positivo. Non è una sensazione di gioia spontanea, e di per sé entrata in noi, ma sempre bisogna che sia l'appagamento d'un desiderio. Imperocché desiderio, ossia mancanza, è la condizione preliminare d'ogni piacere. Ma con l'appagamento cessa il desiderio, e quindi anche il piacere. Quindi l'appagamento o la gioia non può essere altro se non la liberazione da un dolore, da un bisogno: e con ciò s'intende non solo ogni vero, Dolore, piacere e noia sono le passioni, potremmo dire con Cartesio, «semplici e primitive», da cui si diramano passioni più particolari; di queste, il Goriziano fornisce una vera e propria casistica eziologica ed ontologica, che può ricordare altre simili presenti, ad esempio, nell'Ethica di Spinoza: l'impotenza, il rimorso, la malinconia, la paura, l'ira, la «gioia 'troppo' forte»™®' . Ontologica perché esse tutte, primitive e derivate, in effetti poggiano sulla passione fondamentale, quella esistenziale per eccellenza, quella insomma che gli esistenzialisti (ma già Kierkegaard) chiameranno Angoscia [Angs{ ovvero, secondo il giovane tesista, la condizione per la quale l'uomo «sente d'esser già morto da tempo e pur vive e teme di morire»”®?: l'angoscia testimonia «dappertutto lo stesso dolore della vita che non si sazia e crede di saziarsi, reso perspicuo per la qualunque contingenza dell'una coscienza col fluire delle altre coscienze». E' l'angoscia, la malattia mortale, la passione "motrice" che, nella pratica, induce gli uomini a stringere la "cambiale" della società, per una sorta dicompensazione/conservazione del proprio impulso vitale, altrimenti annichilito. Tuttavia, se tale analisi ha una radice palesemente schopenhaueriana, il nostro filosofo già da subito reinterpreta/sussume il Wille all'interno di un'originalissima «ontologia della privazione che concepisce la vita secondo i termini di una deficienza originaria »?9°, ovvero «la volontà per M. non è un oscuro impulso fondato in se stesso [come appunto in Schopenhauer], ma una ‘deficienza’, una mancanza, la maniera d'essere dell'esistenza finita, della falsamente infinita ‘vita» 9. E i nostri approfondimenti in proposito dovrebbero rendere questa differenza oramai scontata. La Persuasione, di contro, non sarà un riparo egoistico nella turris eburnea dell'autosufficienza nichilista (così come appare nella noluntas), ma una consapevolezza viva e politica del Tragico, volta a creare una nuova solidarietà tra tutti gli enti del mondo sublunare, al di là di ogni pregiudiziale cesura metafisica?®. Il Persuaso, infine, è il vero pessimista perché sa farsi ragione della «brutalità della vita», e ciò facendo - scrive M. - «vive con la chiara coscienza dei valori e delle possibilità: non spera dalle cose più di quanto possano dare, non teme più di quanto sia da temere». Ancora una volta, il pessimismo persuaso coincide con la consapevolezza del Persuaso, ovvero con la consapevolezza aperto soffrire, ma anche ogni desiderio, la cui importunità disturbi la nostra calma, e perfino la mortale noia, che a noi rende un peso l'esistenza». [cfr. Mondo, § 58] 261 Per l'analisi delle quali, cfr. - del nostro Il capitolo - il paragrafo sul Cerchio della violenza. 262 Per queste considerazioni, e quelle che seguono immediatamente, cfr. ibidem. 263 Cfr. G. Pulina, L'imperfetto pessimista - Saggio sul pensiero di Carlo M., ed. Lalli, pag. 61. 264 Cfr. A. Michelis, Carlo M., cit., pag. 71. 265 P er i riferimenti e le citazioni che seguono immediatamente, cfr. almeno, del nostro capitolo II, il paragrafo sulle Radici della violenza. In effetti, che tra l'uomo e gli altri enti non ci fosse alcuna cesura metafisica è un lascito anch'esso schopenhaueriano (tutto è Volontà). dell'impermanenza esistenziale”, e quindi con la gioia che da questa consapevolezza scaturisce. Ne vien fuori una figura di eroe tragico che nulla ha a che vedere con l'asceta schopenhaeuriano, o col superuomo nicciano (che più che tragico, apparirà grottesco?9”). Un eroe tragico che, come abbiamo concluso”, è uomo d'azione, uno zampillo d'acqueche erompe dalla terra, s'innalza verso il cielo, ma riscende a ristorare il suolo: vive in uno slancio che è nella vita e non fuori della vita: lo slancio verso il principio della vita in un amore eguale per tutte le cose viventi. L'eroe vive in questa ultima fede e afferma se stesso trascinando il mondo verso la vera vita; e poiché presuppone negli uomini la medesima essenza, la stessa volontà che è in lui, rispetta sé negli altri, creando un vincolo di libertà e di amore??? 266 Come la chiamerebbero anche i maestri orientali; e la coincidenza terminologica che non può essere soltanto un caso. 267 Ma cfr. quanto diremo fa poco in proposito della variante Nietzsche, 268 || riferimento è alla parte conclusiva del nostro capitolo Il. Di quelle conclusioni riprendiamo, in parafrasi, nelle parole che appena seguono, i punti salienti della descrizione dell'eroe tragico così come tratteggiata dal Goriziano, come detto, negli Scritti vari, cit, n. 110, pagg. 798-799. 269 In questo modo, M. recupera e rivaluta anche l'orizzonte importante della compassione, che Schopenhauer aveva inteso soltanto come uno dei momenti - inadeguato e transitorio - per assurgere alla contemplazione nullificante del Nirvana [per cui cfr. supra]. A2- La variante Nietzsche, il "terzo Dioniso". C'è un pessimismo della forza? Nietzsche, Tentativo di autocritica Confessiamo che affrontare la variante nicciana della Persuasione ci mette un po' a disagio. Nietzsche è un autore che attrae inevitabilmente nel vortice del suo pensiero e della sua "follia" ogni tentativo di accostamento; anche il nostro, per quanto contingente e irrisorio, cioè votato a tracciare esclusivamente eventuali affinità o meno col dettato M.iano. Proprio il fatto che quest'accostamento nostro malgrado "ci si imponga" pur parlando di M. (che è per noi, negli esiti, un altro mondo rispetto al filosofo tedesco) testimonia, nel suo piccolo, di come la potenza e il fascino "ambiguo" di Nietzsche faccia valere tutta la sua autorità; ossia di come si sia iniettato a livello genetico nell'orizzonte pensante della sua posterità al punto che, a tutt'oggi, ogni nuova ricerca filosofica, ogni nuova proposta etica, insomma ogni "progresso" della speculazione deve fare innanzitutto i conti col suo nichilismo, eletto all'unanimità a spartiacque, e deve innanzitutto difendersi dall'accusa terribile di essere un valore, la più immediata che le viene rivolta contro, al pari di un'offesa. Ribaltando la prospettiva (ma il senso permane identico), ogni affermazione di forza genuina, ogni progetto di nuova umanità, ogni rinnovato accenno "persuasivo" viene inteso come partorito, per germinazione più o meno consapevole, in seno alla transvalutazione, come se nella debacle di cui siamo gli omertosi testimoni Nietzsche fosse l'unico garante di sincerità, l'unico punto di riferimento, l'unico abbrivo di pensiero che prometta onestà. Così, anche la Persuasione M.iana è passata al vaglio del "pensiero danzante", e a tal proposito il travaglio ermeneutico dei suoi esegeti filonicciani è stato alacre: si è visto, cioè, nel vir un figlioccio o un fratellastro minore dell'Ubermensch, nella sua aspirazione "autarchica" (ovvero, autonoma) una volontà di potenza più ingenua ma non meno violenta: una sorta di carbonio impoverito. M. sarebbe la traduzione provinciale del nichilismo cosmico-europeo: egli starebbe a Nietzsche come il grimaldello al martello. Ci viene voglia di liquidare il discorso con due battute: [1] la Persuasione è effettivamente e fieramente un valore; [2] definire nicciano M. sarebbe come chiamare nicciano Socrate (è Socrate, infatti, il riferimento dichiarato del Goriziano), il che paleserebbe la vanità e la risibilità dell'accostamento. Tuttavia, per non prestare il fianco ad inevitabili contrappelli, preferiamo - come sempre - parlare di M. (e qui della sua presunta filiazione da Nietzsche) attraverso le sue stesse parole. Innanzitutto, è da dire che chi cercasse riferimenti espliciti al filosofo tedesco nelle opere del Goriziano, come nel caso di Schopenhauer, rimarrebbe deluso. Si contano a stento sulle dita di una mano, e Nietzsche risulta praticamente ignorato ne La persuasione e lrettorica. Difatti, M. menziona Nietzsche cinque o sei volte - in maniera incidentale e mai in un contesto "pacifico" - solo nelle lettere e in qualche appunto "minore" contenuto nelle Opere complete a cura del Chiavacci. Ma procediamo con ordine, partendo da un elemento in apparenza occasionale. Una sera del gennaio 1907, M. va a teatro (una delle sue attività preferite) ad assistere ad una pièce allora in voga: Più che l'amore, di Gabriele D'Annunzio. Il Goriziano, com'era solito fare, in una lettera alla famiglia descrive puntualmente le impressioni che ne ricavò [E 167-168]: Questa sera andai a sentire Più che l'Amore. - Il concetto è prettamente Dannunziano, o meglio Nietzschiano: L'uomo superiore nel suo immediato congiungimento d'amore, d'entusiasmo con la natura, con le forze vive della vita, al di fuori della società, al di fuori quindi da tutti i suoi concetti morali, ha diritto di schiacciare senza riguardo a questi concetti, tutte le barriere che la società gli mette fra il suo amore e il conseguimento del suo ideale. - A me pare che non solo si esplichi ciò (come i giornali dissero sempre) nell'uccisione del baro ma anche e più, nel calpestare che Corrado Brando [il protagonista del dramma] fa e dell'amore di Maria e dell'amicizia di Virginio. Anzi unicamente in questo consiste l'azione, nell'altro soltanto l'antefatto e il mezzo per poter esprimere tutti i concetti che l'autore magnificamente fa esporre continuamente a Corrado, e ci spiegano l'azione la quale azione invece è di fatto soltanto, non di parole. Più che l'amore agita Corrado la passione per la natura africana, in nome di questa egli spezza il cuore di Virginio e di Maria. Non èvero dunque che il lavoro manchi d'azione. Anzi è azione psicologica serrata continua. La forza individuale di Corrado non cozza meschinamente contro l'impossibilità di aver 3000 o 4000 lire ma contro i legami sociali, contro i legami della coscienza, sopratutto contro i legami del cuore che dalla società nascono, quei legami che sono i più forti di tutti. Quindi la situazione è corrispondente esattamente a quelle del D'Annunzio stesso di fronte alla sua famiglia nelle Laudi quando prende quasi commiato da lei, corrispondente a tutta l'Attività sua poetica e pratica, corrispondente alla situazione attuale della società (come si diceva quella sera). - Ma perché questa azione spicchi è necessario drammaticamente l'ambiente sociale con tutte le sue leggi, i suoi affetti, i suoi pregiudizi, o un suo rappresentante convinto inesorabile, che non possa nemmeno intendere altre idee, oppure infine un resto di questo mondo nell'animo dell'eroe, a produrre la lotta, la crisi, la catastrofe. Invece l'autore piega tutti i presenti sotto il fascino di Corrado: Virginio malintende e tentenna, Maria lo segue con entusiasmo, il servo negro si farebbe in pezzi per lui. Quindi l'azione resta avviluppata, affidata quasi all'immaginazione del pubblico, che, se sente, deve intendere lo schianto dell'animo dei due altri, deve capire come la società calerà la sua mano pesante sul capo di Corrado: il fato. E l'autore per aiutar l'immaginazione appoggia tutta l'azione al fatto dell'uccisione che produce la catastrofe dell'intervento della polizia. - In conclusione credo che abbia tutti gli elementi ma che non sia affatto un dramma. E però un gioiello, una cosa splendida per concetto ed immagini. - Questo stralcio, che può leggersi anche come un piccolo e acuto saggio di critica teatrale, c'introduce proprio nel cuore della nostra questione. Cerchiamo di de-costruirlo. E' nota la deformazione dannunziana del mito del superuomo, reinterpretato in chiave estetizzante e decadente: l'intuizione nicciana si volgarizzava, in tutti i sensi, nell'ambigua figura di Andrea Sperelli, il protagonista del Piacere, alter ego dello stesso D'Annunzio, personaggio insieme raffinato e gelido, aristocratico e spregiatore di quel «grigio diluvio democratico moderno che tante belle cose e rare sommerge miseramente» (l'ispirazione nicciana doveva intensificarsi nei cosiddetti romanzi del giglio, fiore simbolo appunto del superuomo, della passione che si purifica). Fu soprattutto attraverso questa distorta prospettiva (sin dai primi anni novanta dell'Ottocento, quindi) che il pensiero di Nietzsche 158 fece il suo ingresso e la sua fortuna in Italia, andando ad affascinare una gioventù ancora scapigliata e destando voluttuoso, e dunque ipocrita, scandalonella borghesia giolittiana. L'intelligente M., tuttavia, mostra di non leggere Nietzsche attraverso D'Annunzio (qual era l'abbaglio del suo tempo e a quanto presumono i critici M.iani di oggi), bensì D'Annunzio attraverso Nietzsche: «il concetto è prettamente Dannunziano, o meglio Nietzschiano», dice, e confessa indirettamente, in questo rilievo correttivo, di aver avuto tra le mani le opere del filosofo tedesco e di poter valutare criticamente i distinguo. Distinguo che, in questa sede, non interessano: interessa piuttosto individuare in cosa consistesse quel «concetto prettamente nietzschiano» che M. menziona. Ovvero, qual era l'impressione ch'egli aveva desunto dalla lettura di Nietzsche? Le parole del Goriziano sono chiare: «L'uomo superiore nel suo Immediato congiungimento d'amore, d'entusiasmo con la natura, con le forze vive della vita [la «fedeltà alla terra», il «SÌ alla vita», dice Zarathustra], al di fuori della società, al di fuori quindi da tutti i suoi concetti morali, ha diritto di schiacciare senza riguardo a questi concetti, tutte le barriere che la società gli mette fra il suo amore e il conseguimento del suo ideale». L'impressione si metallizza in una serie di nette opposizioni: individuo (uomo superiore) - società; aspirazione alla realizzazione/autenticità (forze vive della vita) - sua castrazione/inautenticità (concetti morali, barriere); dinamismo (forze vive della vita) - stabilità sociale. In effetti, sembra già enuclearsi la dicotomia Persuasione-Rettorica?”°. Ma prestiamo attenzione a un punto essenziale: in che modo si realizzano le aspirazioni dell'uomo superiore, ossia in che modo esso reagisce all'impasse sociale e riesce a «conseguire il suo ideale»? Il suo aderire alla natura, alle forze della vita è «immediato», «entusiastico»: c'è una sorta di processo di accumulazione energetica in questa immediatezza, un'integrazione di "vitamine esistenziali": si galvanizzano forze pericolose per il labile equilibrio salutare (l'armonia vitale). Questa continua tensione, scrive Nietzsche, «sarebbe fatale per nature troppo delicate [ma] fa parte degli stimolanti della grande salute». In un appunto tralasciato, relativo alla Volontà di potenza, il 270 Come s'evince dall'indiretta accusa di estetismo "psicologizzante" che M. rivolge a D'Annunzio. L'appunt è anche qui in apparenza estemporaneo, cioè si offre come un mero rilievo di critica teatrale (la vera "azione", il ver "dramma" della pièce), mentre a ben vedere M. mostra già di presentire quelle che sarebbero state le ragio motrici dello scontro Persuasione-Rettorica nella sua visione matura. Perché l'azione drammatica decolli, dice Goriziano, «è necessario drammaticamentel'ambientesocialecon tutte le sue leggi, i suoi affetti, i suoi pregiudizi, o u suo rappresentante convinto inesorabile, che non possa nemmeno intendere altre idee, oppure infine un resto di quest mondo nell'animo dell'eroe, a produrre la lotta, la crisi, la catastrofe». Spostando, per analogia, il rillevo nel "teatro del vita", il gioco è fatto. Di contro, D'Annunzio «piega tutti i presenti sotto il fascino di Corrado»: questo sposta, ed elude, consapevolezza dello scontro effettivo e del suo effetto tragico, che dovrebbe corrispondere allo smacco sociale. E' una critica embrionale, qui ancora inconsapevole, anche ai presumibili risvolti sociali e politici di un'operazione simile: chiunque indugi a effondere il carisma dell'uomo superiore falsa la portata tragica del conflitto impersonale-universale, rischiando di risolverlo (e dunque di ridimensionarlo) a livello esclusivamente personale-individuale. Giocando col riferimento di M. a Corrado, possiamo dire che Nietzsche, in questo senso, «piega tutti i presenti sotto il fascino di Zarathustra», ossia di se stesso. o 5-29 6 DD 15filosofo affina il suo concetto: «Salute e malattia: si vada cauti nel giudicare! Pietra di paragone resta l'efflorescenza del corpo, l'elasticità, il coraggio e la giocondità dello spirito; ma, naturalmente, anche quanto di malato esso può prendere su di sé e superare - rendere sano» [il corsivo è di Nietzsche]. La grande salute è, possiamo dire, una questione di "entropia"?! del superuomo. Come si sa, l'aspetto forse più importante dell'entropia è quello per cui noi, studiando appunto le variazioni entropiche di un dato sistema (nel nostro caso, del superuomo), possiamo "predirne il futuro", siamo in grado cioè di capire quali sono gli stati verso cui il sistema può evolvere e quali sono invece quelli che gli sono preclusi. La fisica, infatti, ci insegna che l'energia si conserva, è costante, ma altresì che essa evolve, assumendo forme non tutte ugualmente pregiate: l'energia può infatti dissiparsi (e la trasformazione è irreversibile) oppure essere opportunamente imbrigliata, e realizzarsi in lavoro (energia utile, trasformazione almeno parzialmente reversibile). Come evolve allora l'energia del superuomo, qui incarnato in Corrado Brando? Il superuomo - scrive M. - «ha diritto di schiacciare senza riguardo». La sua energia, cioè, esplode in violenza. Sottolinea il Goriziano: «A me pare che non solo si esplichi ciò [...] nell'uccisione del baro ma anche e più, nel calpestare che Corrado Brando fa e dell'amore di Maria e dell'amicizia di Virginio». E' questo un tratto tipicamente M.iano: la violenza (del superuomo) non si esplica solo nel "fatto" brutale (qui, dell'omicidio), ma ancor più nel rescindere, nel tradire, nel calpestare i sentimenti umani più veri e più belli: l'amore e l'amicizia; ovvero, la violenza non è soltanto sopraffazione: è anche - soprattutto - contraffazione, mancanza di rispetto per la dignità dell'uomo che ci è accanto, preclusione dell'orizzonte politico del confronto e della relazione umana nell'imposizione rutilante della propria "egoità", attraverso un progressivo, disonesto avvelenamento (Rettorica, appunto, avrebbe detto pochissimi anni dopo M.). La Rettorica nasce dunque da una dissipazione di energia esistenziale, e si profila, conseguentemente, come un processo irreversibile. Lasciamo per ora in sospeso questo punto; teniamolo tuttavia bene a mente. E così, M. lesse Nietzsche. Il Cerruti, convinto di una parabola evolutiva del pensiero M.iano, appronta una schematizzazione utile, per quanto giocoforza farraginosa, fotografando i «momenti dell'esperienza ideologico-esistenziale» del nostro giovane filosofo: in essa, portando a testimonianza soprattutto la primissima parte dell'Epistolario (laddove effettivamente il tono espressivo e la sensibilità emotiva rasentano posizioni dannunziane e nicciane), il critico dimostra che M., almeno nella sua prima giovinezza, aderì al culto del superuomo e alla sua "morale eroica". Nel suo schema, questo periodo di eroico furore corrisponderebbe agli anni immediatamente precedenti il 1906 (dunque, 1905 incluso), anni in cui «oltre i diversi stimoli di una cultura eclettica e ancora in certa misura scolastica, [il Goriziano si collocherebbe appunto] entro una temperie logico-sentimentale di ascendenza nietzschiana, o meglio [...] nietzsche-dannunziana». L'analisi del Cerruti, puntuale ed argomentata, alla fine riesce anche convincente: evidentemente, pensiamo noi, M. dovette ritrovare in quei due autori, a quel tempo, gli unici o almeno i massimi punti di riferimento per una germinale polemica anti-rettorica che già agitava la sua intelligenza e la sua sensibilità.””? Questa sinergia si può arricchire, secondo noi, di un ulteriore innesto””?: se si tiene a mente l'analisi demolitrice dell'apparato rettorico fornita da M., si può scoprire che, almeno nelle linee essenziali, essa deve in realtà molto al giovane Nietzsche, che scriveva, non molti anni prima del Nostro, cose altrettanto "inaudite" nel libello Su verità e menzogna in senso extramorale’”. In esso, il filosofo tedesco indagava col medesimo cipiglio le costruzioni del filisteismo intellettuale e sociale e, soprattutto, traeva conclusioni analoghe di disincanto: rispetto al male, al dionisiaco, all'assurdo della vita (non solo umana, ma universale) l'intelletto - «strumento ausiliario alle più infelici, alle più fragili, alle più transitorie delle creature» - «come mezzo per la conservazione dell'individuo, sviluppa le sue forze più importanti nella simulazione». La "patetica" (nel senso del pathos in Nietzsche) verità dell'uomo non è, piuttosto, nient'altro che «un esercito mobile di metafore, metonimie, antropomorfismi, in breve una somma di relazioni umane, che sono state sublimate, tradotte, abbellite poeticamente e retoricamente, e che per lunga consuetudine sembrano a un popolo salde, canoniche e vincolanti: le verità sono illusioni, delle quali si è dimenticato che appunto non sono che illusioni, metafore, che si sono consumate e hanno perduto di forza ». 271 L'entropia, in fisica, è la misura del grado di casualità e di disordine di un sistema, ovvero della sua energia. 2712 Riferimenti che M. abbandonerà altrettanto presto, come visto. Lo stesso Cerruti, nella sua schematizzazione, alle convinzioni del 1905 fa subentrare due anni di «ricerca e crisi» (il 1906-1907), anni che non a caso preluderanno alla scoperta di Ibsen e Tolstoj da parte del Nostro (nel 1908). In questo periodo di travaglio intellettuale, Michelstedter si presenta «secondo una prospettiva interiore se non contraddittoria, certo complessa. Nietzsche-dannunziano per un verso, inteso a superare inquietudini e dubbi in un incontro profondo e rigenerante con le forze vive della natura; ma preoccupato al tempo stesso di risolvere quei dubbi e quelle inquietudini sulla base di un rigoroso esercizio intellettuale, di un'analisi disincantata e penetrante della propria condizione; tutt'altro che chiuso infine sia pure ancora entro certi limiti, nei riguardi del mondo contemporaneo, anzi già consapevole di talune obiettive difficoltà di quest'ultimo». Nel 1908, infine, «l'incontro con Ibsen e Tolstoi» segnerà «il superamento della morale eroica». [Per queste analisi del Cerruti, che abbiamo riassunte, rimandiamo alle pagg. 7-56 della sua monografia Carl M., Mursia (Civiltà Letteraria del Novecento), 1987 2ed.; in particolare, le nostre citazioni sono tratte dal pagg. 12-24-33] 273 Innesto ch'è una nostra supposizione, non avvalorata, ma neanche smentita, da effettivi riscontri testuali. Tuttavia, data la profonda affinità che dimostreremo, crediamo che l'innesto sia semplicemente sottaciuto. (©) 274 Sia detto per inciso, è questo uno scritto che noi consideriamo già cruciale (ovvero, frutto di un pensiero già compiuto) e rispetto al quale, a nostro parere, tutta la riflessione successiva del Tedesco si pone come complessa e sofferta postilla, da quella più immediata e "ponderata" della Nascita della tragedia e della Filosofia nell'età tragica dei greci su su fino alle forme più esasperate dello Zarathustra e della Volontà di potenza. Leggiamo lo scritto nicciano nella traduzione dell'ed. Newton, Nietzsche, Opere, cit., pagg. 93-101 (a cura di S. Givone). Le nostre citazioni si intendano passim. Ma perché gli uomini si ostinano «attraverso questa incoscienza»? "semplicemente" perché - spiega Nietzsche - «l'uomo vuole anche esistere, sia per bisogno sia per noia, socialmente e come in gregge», e per far ciò «stipula un patto di pace e si adopera per cancellare dal suo mondo almeno il più brutale bellum omnium contra omnes. Questo patto di pace porta qualcosa con sé, che è come il primo passo verso il raggiungimento di quell'enigmatico impulso alla verità. A questo punto cioè viene fissato ciò che da allora in poi dovrà essere la 'verità', il che significa che si è trovata una connotazione vincolante e uniformemente valida delle cose e che la norma linguistica istituisce anche le prime regole della verità ». L'assoluta aderenza - ci sentiamo di dire - delle parole nicciane col dettato "maturo" M.iano è a dir poco imbarazzante: anche per M. la ratio umana è relatio, e si risolve in una «costruzione di ragnatele, così leggera da lasciarsi trasportare dalle onde e così salda da non essere soffiata via dal vento» [corsivo nostro], come scrive Nietzsche (l'immagine della ragnatela ritorna significativamente anche in Schopenhauer e Leopardi). Anzi, M. è addirittura più drastico: come detto, la relatio per lui non è soltanto conoscitiva, ma strutturale, coinvolge cioè tutti i rapporti di interazione con le altrui vitespressione di violenza, perché termine ultimo di quel "moto violento" cui l'uomo sottopone il mondo [cfr quanto affermato sul luogo naturale e sul moto violento nel nostro cap. I]. Ancora, similmente che in Nietzsche, la relatio trova la sua espressione più palese e nello stesso tempo la sua giustificazione e realizzazione più completa nella comunità sociale: alibi "politico" della menzogna comune per l'uno, comunella di malvagi per l'altro; per entrambi, sovrastruttura di un bisogno di tutela, di sicurezza reciproca, che si concreta in un patto di pace come dice ironicamente Nietzsche o - in modo più forte M. - nella stipulazione di una cambiale (assicurativa) sociale. Per entrambi, inoltre, la (presunta) "verità" si costruisce un saldo impiantito (sottile come una ragnatela, l'è vero, ma «resistente al vento», tant'è intricata e ben tessuta) nel linguaggio, nella scienza-tecnica e nella filosofia: a tal proposito, come visto, le analisi del filosofo goriziano arrivano ad eguagliare, per acrimonia e per forza di "smascheramento", quelle del filosofo tedesco. Per entrambi, infine - ma era presentimento anche di Schopenhauer e di Leopardi -, la Rettorica si manifesta, soprattutto negli uomini, così come inganno, ma come inganno a ben vedere indifferente, e in certo senso addirittura involontario, vale a dire necessitato dalla stessa matrice bio-fisiologia, prima che ontologica, della Rettorica stessa: l'insensato procedere della natura (non più madre, ma neanche matrigna, direbbe Leopardi), del Wille, del dionisiaco, della Rettorica, appunto perché insensato, nella sua forma più nuda e cruda, è... «extramorale». Ma torniamo alle conclusioni della critica professionale. Campailla dà in pratica per assodato che M. lesse, tra le altre opere (di sicuro almeno lo Zarathustra””°) anche La nascita della tragedia”: la cosa a questo punto non ci stupisce, anzi ci appare ovvio che il capolavoro di un allora giovane geniale originale filologo quale fu Nietzsche capitasse tra le mani di un altrettanto geniale ed eterodosso ermeneuta della grecità, qual era M.?”. Anzi, se c'è davvero un importante punto d'incontro tra i due pensatori, noi presumiamo che esso si consumi soprattutto qui, nel loro amore per il mondo greco, nella riscoperta di un equilibrio, di un'armonia che si realizzò nella tragedia classica, breve ma intenso bagliore di autenticità agli albori della nostra storia occidentale, che poi andò incontro al declino che tutti conosciamo. Corollario di quell'incontro (ma non secondo per importanza) la considerazionedellafigura di Cristo: per M. Cristo è il vir per Nietzsche l'unico vero, onesto cristiano morì sulla croce: voleva dire, secondo noi, l'unico vero uomo?”?. Come dicemmo”?, i due pensatori aspirarono a riprodurre, ognuno a suo modo, quell'armonia, ritenendola foriera di autenticità: per il giovane Nietzsche era l'equilibrio dinamico di Apollo e Dioniso, l'elemento "letargico" che "gioca" con l' "impulso 275 Campailla fa notare che, a chiosa di un passo centrale della Hedda Gabler di Ibsen, M. scrisse queste parole: «Stirb zur rechten Zeit», una chiosa che altro non è che una citazione testuale dal paragrafo Della libera morte dello Zarathustra. Il critico utilizza il rilievo a prova del sostrato nicciano che sottende alla lirica | figli del mare (che abbiamo già analizzato), il cui refrain a suo parere riproduce l'esaltazione della morte fatta da Zarathustra nel succitato paragrafo, e addirittura chiama quel riferimento a testimoniare «la componente nietzschiana della prima formazione culturale di M., sulla cui concretezza storica critici di valore hanno espresso la loro perplessità » [l'analisi e il giudizio dello studioso, che abbiamo semplicemente parafrasati, si trovano a pag. 23 dell'Introduzione alle PP], 276 Cfr. Campailla, Due lettere inedite di VI. Arangio-Ruiz a M., in Giornale critico della filosofia italiana, anno LIV, gennaio-marzo 1975. 277 Un punto a favore del Goriziano è il fatto che praticasse correntemente, tra le altre, la lingua tedesca, potendo così rezzare in immediato il testo, senza alcun filtro di traslitterazione. 218 Cfr. Nietzsche, L'Anticristo (in Opere complete, cit.), 39, pag. 795. Per Nietzsche, Gesù fu un «santo anarchico», un «lieto messaggero», che decise, in prima persona, di «contraddire l'ordine dominante». Tutto questo «lo portò sulla croce»: Egli dunque «morì per colpa sua» e non «per colpa altrui»: Cristo [e si noti l'affinità con la posizione M.iana] «morì come visse, come aveva insegnato - non per 'redimere gli uomini', ma per indicare come si deve vivere. La pratica della vita è ciò che egli ha lasciato in eredità agli uomini: il suo contegno dinanzi ai giudici, agli sgherri, agli accusatori e a ogni specie di calunnia e di scherno - il suo contegno sulla croce». «Le parole rivolte al ladrone sulla croce» racchiudono il senso dell'intero Vangelo (che è per Nietzsche «non difendersi, non andare in collera, non attribuire responsabilità», amare perfino il malvagio) [ib., 27 e soprattutto 35, pagg. 792-793 passim; tutti i corsivi sono del filosofo]. Ora, il riscontro di affinità (come ad esempio queste appena accennate, e quelle che seguiranno) tra i due nostri filosofi non contraddice il nostro assunto di fondo di una totale disparità di esiti: ripetiamo: non vogliamo mettere in dubbio influenze e suggestioni che certamente M. trasse dalla lettura delle opere del pensatore tedesco (soprattutto in relazione allo smascheramento rettorico); quel che ci preme piuttosto sottolineare è come non si debba concepire la Persuasione sulla falsariga della "nuova umanità" nicciana, rispetto alla quale M. stesso prende posizioni anche dirette di distacco [ma cfr. oltre]. E' bene dunque ribadire che la matrice profonda e unica della Persuasione non è il superomismo, bensì il socratismo. 279 Cfr. il nostro Intermezzo. 163 n280 primaverile e che si realizzava nelle forme perfette dell'arte e nelle compite costumanze dell'umanità greca; per M. il trasfondersi di vita e morte nella crisalide umana”. Entrambi i pensatori attraversarono il Tragico, e tradussero la loro sincera, sofferta testimonianza nella formulazione di un progetto etico. Abbiamo altresì già segnato gli esiti di tali progetti: in Nietzsche, dicemmo, l'equilibrio era destinato a  bruciarsi nell'esasperazione, nella "superfetazione" della volontà dionisiaca (si dovrebbe citare a questo punto tutto lo Zarathustra e tutta la Volontà di potenza, almeno); nel pensatore 280 Ricordiamo che nella già citata lettera al Chiavacci del 22 dicembre 1907, M. fa riferimento esplicito all'«elementodionisiaco» [sic], assimilandolo all'«elemento mistico» che - per il Goriziano - mancherebbe nella «razionalistica» religione ebraica: proprio questa assenza, dice M., spiegherebbe «la ragione dell'antisemitismo filosofico» (Schopenhauer e Nietzsche, annota in parentesi). E' forse l'unico caso in cui M. cita il Tedesco per nome, e per ben due volte nel giro di poche righe, in un contesto - e questo è indicativo - aspramente polemico. In effetti, la datazione della lettera la fa cadere proprio nel mezzo degli anni di «ricerca e crisi», come li chiama il Cerruti [riguardo a ciò, cfr. supra]. 281 Com'è noto, la dialettica apollineo-dionisiaco intesse tutta La nascita della tragedia, in modo ampio e poetico; tuttavia, ha il suo luogo natale in uno scritto giovanile, La visione dionisiaca del mondo, uno di quei saggi che poi andranno a confluire nel capolavoro. Privilegiamo, in questa sede, proprio quel saggio, perché in esso - anche in virtù della sua brevità - la suddetta dialettica ci appare più focalizzata e meno ridondante [lo leggiamo nella traduzione contenuta in Nietzsche, Opere, cit., pagg. 60-73; segnaliamo con numeri in parentesi quadre eventuali riferimenti delle citazioni]. La visione dionisiaca del mondo contiene l'intuizione che accompagnerà il filosofo in tutta la sua speculazione: Nietzsche, cioè, scopre nel principio di equilibrio dinamico tra Apollo e Dioniso la cifra che spiegherebbe la "possibile vita" dei Greci, altrimenti compromessa dalla dolorosa consapevolezza del Tragico, l'inquietante verità del Sileno. «Qui - dice Nietzsche - si tocca il limite più pericoloso che la volontà ellenica con il suo principio fondamentale apollineo- ottimistico abbia concesso di toccare. Qui essa operò con la sua naturale forza guaritrice, per piegare nuovamente quella disposizione negativa: suo strumento è l'opera d'arte tragica e la concezione tragica. La sua intenzione non poteva in alcun modo essere quella di temperare o di reprimere lo stato dionisiaco: soggiogarlo direttamente era impossibile, e anche se non lo fosse stato, restava pur sempre una cosa pericolosa, dal momento che se quell'elemento fosse stato trattenuto nella sua espansione si sarebbe aperto altrove una via e sarebbe penetrato in tutti i vasi sanguigni della vita. Per prima cosa si trattava di trasformare quei pensieri di disgusto sull'assurdo e l'orrore dell'esistenza in rappresentazioni con le quali convivere: esse sono il sublime in quanto imprigionamento artistico dell'orrore e il comico in quanto liberazione artistica dalla nausea dell'assurdo. Questi due elementi intrecciati insieme si riuniscono in un'opera d'arte che imita l'ebbrezza e gioca con essa» [67, i corsivi sono nostri]. Dunque, Nietzsche individua nel gioco l'unica ipotesi euristica plausibile per esprimere la relazione tra le due divinità: entrambi potenti - potenze contrarie che si equivalgono e si annullano - preferiscono alla insidia reciproca (che mai porterebbe frutto e vittoria definitiva) una “ludica convivenza" che spinge addirittura all'identificazione, laddove Dioniso viene a porsi come il lato oscuro, terribile e segreto di Apollo, ed Apollo (per usare un tecnicismo informatico) come l'interfaccia di Dioniso. Per dirla con le stesse parole di Nietzsche, fra le due divinità viene a crearsi un "vincolo di fratellanza" (realizzato concretamente nella tragedia), tale he «Dioniso parla la lingua di Apollo, ma infine Apollo parla la lingua di Dioniso» [cfr. La nascita della tragedia, in Opere, cit., pag. 178; corsivo nostro]. M., da parte sua, riproduce un simile equilibrio nel già citato Canto delle crisalidi, attraverso la tensione esistenziale di vita e morte che intride l'essere dell'uomo: un oscuro peana che siamo tentati di decifrare proprio ricorrendo alle "categorie" nicciane di apollineo e dionisiaco, con tutti i più profondi significati ch'esse coprono. Ma, a parte questo, è l'elemento del gioco che ci interessa, perché in Nietzsche si rivelerà fondante: la componente ludica è forse il tratto più caratteristico del suo pensiero, ed anche il più terribile: perché l'equilibrio del gioco (per quanto questo sia "nobile" e "difficile") è per definizione precario, e perché il gioco non è solo capacità della coscienza dell'homo ludens di darsi delle regole e vivere in esse (nel suo "spazio sacro"), il che sarebbe la situazione ottimale, ma più volentieri - e l'accezione comune del termine lo conferma - è un'attività in cui "non ci si prende sul serio". Apollo e Dioniso giocano nell'orizzonte tragico greco, segnando appunto lo spazio del sacro; nell'orizzonte tragico nicciano, invece, Dioniso rinuncerà al suo "compagno di giochi", le sue regole diventeranno di esclusione, e pretenderà di poter giocare da solo, ossia, fuor di metafora, di poter sostenere da solo il peso dell'assurdo. E' questo ciò che noi intendiamo per "superfetazione" del dionisiaco [ma cfr. quanto diremo tra poco]. tedesco l'equilibrio collassa e si esaspera nell'opposizione senza continuità: al male estremo della Rettorica (superfetazione dell'elemento apollineo, il "socratismo", la menzogna, il "cristianesimo", l'Europa, si oppone l'estremo rimedio del pensiero negatore, del dionisiaco travolgente e beffeggiante, che assume su di sé anche il passato e dice: non così fu, ma così volli che fosse, anzi «così voglio! così vorrò». Ma c'è un'infinita tristezza che cova sotto l'ilarità paradossale del profeta del nulla, una coscienza infelice che caldeggia la scissione, il superamento, il ribaltamento ma che soffre, al tempo stesso, la frattura, il distacco che quella negazione comporta; e che si lenisce la ferita ripetendosi che tutto, dall'avvicendarsi dei mondi e degli universi ai singoli gesti dei singoli uomini, non è altro che il gioco di un fanciullo eracliteo che è dis-umano e sconveniente fingere di ignorare™®. Su opposto versante, M. avrebbe trovato l'espediente per preservare l'equilibrio del vir col mondo e con le altrui vite nel tornio della Persuasione: un equilibrio difficile, ma saldo, faticato ma gioioso, perché riscopre il mondo nella sua bellezza, l'umanità nella sua dolcezza persuasa, l'esistenza non come un "gioco innocente" che necessita (amor fati) e che quindi de-responsabilizza”*, ma come un'attività infinita e impegnata, che si realizza con e tra gli uomini. Da un lato, Nietzsche stringe il mondo in un abbraccio troppo forte: è come un amante goffo e patologicamente premuroso che finisce per soffocare la sua compagna per un eccesso di amore, e ne viene lasciato; l'amore intenso, allora, nell'abbandono, ci vuol poco a mutarsi in gelosa e passionale violenza, come la fede intensa in fanatismo. L' "ultimo" Nietzsche stilla il suo odio e il suo disprezzo, anche se parla di amore, proprio 282 Dice Zarathustra: «In verità, amici miei, io vado tra gli uomini come tra frammenti e membra di uomini! Questo è spaventoso per il mio occhio: trovare gli uomini spezzettati e sparsi come su un campo di battaglia o in un macello. E se il mio occhio fugge dall'oggi a un tempo trova sempre lo stesso: frammenti e membra e atroci casi, ma niente uomini!». [cfr. il capitolo Della redenzione di Così parlò Zarathustra (in Opere complete, cit.), pag. 305. Si ricordi, a questo proposito, come M. abbia descritto la Rettorica, nella sua accezione estrema, come un' "anarchia delle membra", anche su suggerimento di Empedocle [cfr. il nostro paragrafo corrispondente, nel | capitolo]. L'Armonia empedoclea, la Persuasione M.iana, la volontà affermatrice (la "felicità del circolo") di Nietzsche si offrono come tre proposte diverse, anche se in certo modo affini, per far fronte alla dis-integrazione dell'umano: affermazioni di vita che si realizzano nello strenuo tentativo di conferire senso a tutto ciò che altrimenti si presenterebbe come frammentario ed enigmatico. 283 Cfr. ancora il capitolo Della redenzione di Così parlò Zarathustra, stavolta soprattutto pag. 306. 284 «[... ] l'Uomo non può essere considerato responsabile per nulla, né per il suo essere né per i suoi motivi né per le sue azioni né per i suoi effetti. Si è con ciò arrivati a riconoscere che la storia dei sentimenti morali è la storia di un errore, dell'errore della responsabilità - che, come tale, poggia su quello della libertà del volere. [...] Giudicare equivale ad essere ingiusti». [Nietzsche, Umano, troppo umano (in Opere complete, cit.), II, 39, pag. 541] «Che nessuno sia reso più responsabile, che non sia consentito ricondurre a una causa prima la natura dell'essere, che il mondo non sia un'unità né come sensorium né come 'spirito': solo questa è la grande liberazione - solo così si ripristina l'innocenza del divenire» [Nietzsche, Crepuscolo degli idoli (in Opere complete, cit.), | quattro grandi errori, 8, pag. 727; i corsivi sono del filosofo]. Sull'intuizione dell'eterno ritorno, propinata all'uomo da un dèmone beffardo, cfr. il famoso aforisma 341 della Gaia scienza. come farebbe un amante rifiutato: io sono un uomo-fanciullo ed è il Mondo degli uomini a non apprezzare la mia bellezza: per ciò, merita il mio disprezzo, o anche solo il mio disinteresse, e la mia gioia è nella mia autarchia e nella mia creazione di nuova bellezza?®®. L'Ubermensch, una volta privato della memoria di sé e della permanenza dell'essere, appare come l'eterno fanciullo che cerca l'ebbrezza adolescente dell'Io sono nella propria autoaffermazione, dentro l'istante che gli restituirebbe l'eterno del destino, e dunque (direbbe M.) la permanenza: l'uomo nuovo è tale perché vive (o crede di vivere) senza risentimento, bensì sospeso tragicamente all'assenza di significato del tutto ed imprigionato in una libertà che, in fondo, gli permetterebbe soltanto di accettare il proprio destino di nulla; egli dunque dovrebbe essere un eroe tragico, la cui unica "dignità" risiederebbe nell'accettazione del flusso degli eventi, misurati da un atto di disperata fedeltà alla terra?89, Un destino che egli, con un testa-coda, pur si ostina a non subire e ad intendere piuttosto come istituzione di nuovi valori: e allora se l'uomo è colui che misura, dice Nietzsche con Protagora, egli è tale perché è innanzitutto un creatore, e in questo agisce come volontà di potenza. Nel far ciò, direbbe ancora M.?®, egli si finge una persuasione che non ha, tesse relazioni sufficienti, in cui irretisce le altrui vite in un atto di creazione, ch'è poi un atto di ri-organizzazione intorno al perno della propria falsa consistenza; ovvero, integriamo noi, dà libero sfogo al suo urgente bisogno di liturgie rassicuranti, ma anche escludenti (secondo la nostra interpretazione, una comunità di "eterni fanciulli" sarebbe un sistema energetico di punti di forza, laddove "cariche dello stesso segno" si porrebbero alla massima distanza possibile). Il Dioniso dell'armonia panica si muta in un «terzo Dioniso» la cui parola d'ordine (o di disordine) è il dominio?88, 285 Cfr. il pensiero Per l'anno nuovo [276] nel IV libro della Gaia scienza (in Opere complete, cit.), pag. 145. «[...] Oggi chiunque si permette di esprimere il suo desiderio e il suo pensiero più caro: orbene, anch'io voglio dire ciò che oggi desidero da me stesso e qual è stato il primo pensiero che, quest'anno, mi ha sfiorato il cuore; quale pensiero sarà motivo, pegno e dolcezza della mia vita a venire! Voglio imparare sempre più a vedere la bellezza nella necessità delle cose: così diverrò uno di coloro che rendono belle le cose. Amor fati: questo sia, d'ora innanzi, il mio amore! Non voglio condurre nessuna guerra contro il brutto. Non voglio accusare, non voglio accusare neppure gli accusatori. La mia unica negazione sia distogliere lo sguardo! E, complessivamente e grossolanamente: voglio arrivare ad essere uno che dice soltanto di sì! » [corsivi di Nietzsche]. 286 Tale posizione della volontà di potenza si sostituisce nelle intenzioni di Nietzsche - alla figura della perfezione, incarnata nel saggio filosofo o nel santo cristiano. 287 Stiamo utilizzando la terminologia M.iana per "smontare" il superuomo, espediente per far apparire al lettore questo "smontaggio" (operazione che ovviamente M. non fece) alla luce della posizione persuasa. 288 L'espressione ci viene ispirata da quanto Nietzsche stesso asserisce nella Nascita della tragedia, uno dei suoi scritti che preferiamo. Richiamare quei passaggi del testo non solo significherà rendere dovuto omaggio al "primo" Nietzsche, lì vero poeta e vero filosofo, ma ci aiuterà anche a discernere la parabola involutiva cui, a nosto giudizio, il pensatore andò incontro. Nel Dioniso dei cori bacchici greci, Nietzsche vide l'incarnazione del «vangelo dell'universale armonia» [espressione di Nietzsche, ma corsivo nostro; cfr. quanto detto sopra in considerazione della "nuova armonia" vagheggiata dal filosofo Di contro, come abbiamo più volte visto, il Goriziano ristabilisce la misura dell'amore tra gli esseri nella gratuità del reciproco donarsi: l'equilibrio dell'armonia che la Persuasione forgia e protegge non è i compromesso della "compravendita" morale (do ut des, do ut facias, facio ut des, facio ut facias), ma non è neanche la sdegnosa, "egregia" solitudine zarathustriana, pur mascherata da amore panico per la "terrestrità": l'equilibrio persuaso è piuttosto un rapporto di fiducia e gratitudine senza pretesa di risposta, che fonda la comunità autentica, la philia (do quia do, scilicet relinquo: ci viene in mente la parola evangelica: «Pacem relinquo vobis, pacem meam do vobis: non quomodo mundus dat ego do vobis. Non turbetur cor vestrum neque formidet» [Giovanni 14, 27, nella Vulgata]). tedesco], dove «ognuno si sente non solo riunito, riconciliato, fuso con il suo prossimo, ma una sola cosa con esso, come se il velo di Maia fosse stato strappato e soltanto brandelli sventolassero ancora di fronte alla misteriosa unità originaria». Infatti, «con l'incanto del dionisiaco non solo si rinsalda il legame fra uomo e uomo: anche la natura estraniata, nemica o soggiogata, celebra nuovamente la sua festa di conciliazione con il proprio figlio perduto, l'uomo. Liberamente offre la terra i suoi doni e pacificamente si avvicinano i feroci animali delle rocce e dei deserti. Con fiori e ghirlande è coperto il carro di Dioniso: sotto il suo giogo avanzano la pantera e la tigre. Si trasformi l'inno alla ‘gioia' di Beethoven [il preferito anche da M.] in un quadro e non ci si attardi nell'immaginazione quando a milioni si prosterneranno rabbrividendo nella polvere: così ci si potrà avvicinare al dionisiaco. Ora lo schiavo è libero, ora si infrangono tutte le rigide, maligne delimitazioni che la necessità, l'arbitrio o la ‘moda sfacciata' hanno posto fra gli uomini. [...] Cantando e danzando, l'uomo si mostra come membro di una superiore comunità: ha disimparato il camminare e il parlare ed è sulla via di volarsene in cielo danzando. Nei suoi gesti parla l'incantesimo. Come ora gli animali parlano e la terra dà latte e miele, così anche in lui risuona qualcosa di soprannaturale: egli si sente come dio e cammina così estasiato e sollevato, come insogno vide camminare gli dèi. L'uomo non è più un artista, è divenuto opera d'arte: la potenza artistica dell'intera natura, con il massimo appagamento estatico dell'unità originaria, si rivela qui fra i brividi dell'ebbrezza». Nietzsche parla di armonia, di riconciliazione, di liberazione, di incantesimo vitale che lega l'uomo alla terra, a tutti gli esseri che la vivono, in una nuova solidarietà, e rende l'uomo simile a un dio. E' questo il grande dono di Dioniso. Poche pagine dopo, tuttavia, Nietzsche smaschera l'ebbrezza di Dioniso (operazione, del resto, ampiamente preparata) e scopre, con perplessità ma anche con profondità tragica, che quell'ebbrezza "equilibrava" una persuasione di morte, e nel far ciò - ovvero nel garantire la propria stessa sopravvivenza - abbisognava dell' "apporto" di Apollo, del principium individuationis: «l'unico Dioniso veramente reale - scrive il filosofo - appare in una molteplicità di figure, nella maschera di un eroe che lotta, preso, per così dire, nella rete della volontà individuale. Così ora il dio che appare nel parlare ed agire assomiglia ad un individuo che erra, lotta e soffre: e che egli appaia in generale con questa epica determinatezza e chiarezza è effetto dell'interprete di sogni Apollo[...]». Ma se l'individuazione "salva" Dioniso, tuttavia gli è fonte di dolore, perché ne tarpa l'impulso vitale: «In verità però quell'eroe è il Dioniso sofferente dei misteri, quel dio che prova su di sé i dolori dell'individuazione, e di cui meravigliosi miti narrano come da fanciullo fosse fatto a pezzi dai Titani e come poi, in questo stato, fosse venerato come Zagreus: con ciò è significato che questo smembramento, la vera e propria sofferenza dionisiaca, sia come una trasformazione in aria, acqua, terra e fuoco, e che dunque dobbiamo considerare lo stato d'individuazione come la fonte e la causa prima di ogni soffrire, come qualcosa in sé riprovevole». Dioniso appare dunque come una divinità smembrata, scissa in due: «Dal sorriso di questo Dioniso sono nati gli dèi olimpici, dalle sue lacrime gli uomini. In quell'esistenza, come dio smembrato, Dioniso ha la doppia natura di un demone crudele e selvaggio e di un dominatore mite e clemente. La speranza degli epopti andava però ad un una rinascita di Dioniso, che ora noi pieni di presentimento dobbiamo intendere come la fine dell'individuazione: per la venuta di questo terzo Dioniso risuonava l'ardente canto di giubilo degli epopti». Queste considerazioni autografe sono per noi di capitale importanza non solo nell'economia di una corretta valutazione della Nascita della tragedia, ma anche dell'intero pensiero nicciano: sono parole inconfutabilmente programmatiche: Nietzsche assume su di sé il compito di preparare «la venuta di questo terzo Dioniso», che nell'intenzione doveva risanare lo "smembramento": ma l'epopta diviene egli stesso il dio. Un nuovo dio, un terzo dio, che ricorda le trasformazioni dei personaggi di Tolkien quando calzano il famoso anello: pèrdono, cioè, per rimanere alle parole del filosofo tedesco, la "mitezza" e la "clemenza", per rendersi solo ed esclusivamente "dominatori". L'involuzione di Nietzsche consiste, per noi, proprio in questo: aver prefigurato l'avvento di un nuovo Dioniso che sta al suo progenitore (e alla sua intenzione) come un'escrescenza tumorale sta ad un sano tessuto epidermico. Viene da chiedersi quali fossero i motivi di questa "metastasi", ma una simile analisi non può essere svolta in questa sede. [per le citazioni, che si intendano passim, cfr. Nietzsche, Nascita della tragedia (in Opere complete, cit.), vol. |, soprattutto pagg. 121 e 143]. La critica agiografica si affatica a scagionare Nietzsche da ogni responsabilità storica, asserendo che «Quanto all'idea del superuomo, inteso come il giusto trionfatore di una massa di deboli o schiavi, va senza dubbio corretta: Nietzsche non fu l'estensore d'un vangelo della violenza, ma intese porre le condizioni di sviluppo d'una civiltà e di un'idea dell'uomo radicalmente rinnovate!» Del resto, chi si azzardasse a giudicare (detto in senso spregiativo) il pensiero del Tedesco, incapperebbe facilmente nella sua trappola dei valori un pensiero che si autoproclama «al di là del bene e del male» si sottrae consapevolmente e sdegnosamente (e con astuzia) ad ogni valutazione. Ma ci sarà pure un motivo per il quale la «grande salute » si sia tradotta in "sanità razziale", oppure (e ci si perdoni l'accostamento) per il quale l'est- etica del disincanto abbia trovato la sua trasposizione più consequenziale in una pièce teatrale dannunziana in cui si respira solo aria di morte. L'esperienza c'insegna che il retaggio di un pensiero (di uno qualsiasi, non solo de/ Pensiero) non è consegnato soltanto alle parole che lo sottendono, ma anche alla storia della sua fortuna (o sfortuna), per quanto ci si industri in edizioni critiche o si contestino palesi deformazioni”. Le ipotesi allora sono due: o, come si dice volgarmente, in quel pensiero c'è "nascosto del marcio", oppure la malafede dei fruitori è così radicata da riuscire a rovesciare e render funzionali al proprio usufrutto anche le proposte migliori e più sincere. M., del resto, ci ha rivelato questa eccezionale capacità di "assorbimento" della Rettorica: in tal senso, il Nietzsche nazionalsocialista condividerebbe la "sfortuna" di Cristo e di Socrate e, volendo, dello stesso M.. Ancora due ipotesi, allora, ma in pratica equivalenti alle prime: o la voce della Persuasione è viziata da una sua intrinseca impossibilità fondativa di "fedele" realizzazione (è troppo complessa per essere compresa, l'equilibrio dell'autonomia si svolge sul filo di un rasoio et cetera) o è altrettanto viziata da un'ambiguità che non riesce a scrollarsi di dosso, tal che la sua ingiunzione perentoria di autenticità finisce con l'esprimersi soltanto attraverso l'imposizione e l'equivoco EQUIVOCO GRICE della forza. E qui l'interrogativo, data la sua natura complessa, è destinato a rimanere tale. Ma barattare le accuse è un'attività futile: ciò che conta ed inquieta è il dominio presente della Rettorica, e in quest'ottica si deve meditare non solo sul perché del suo dominio, ma anche, se non soprattutto, sul poiché dei suoi effetti. Dunque, pur non volendo inficiare la sincerità nicciana con l'ingratitudine del sospetto, ciò nondimeno non possiamo tacere che, proprio in Nietzsche, quell'ambiguità s'evince più solida che in altri: la danza di Zarathustra, che voleva farsi simbolo di un'armonia alternativa al caos mascherato del filisteismo, si scopriva "tarantolata" già nel suo stesso autore, precursore di un nuovo caos, i cui sbiaditi epigoni (per fortuna sbiaditi) scorrazzano tuttora nelle aule dove si pensa, forti della "debolezza" del loro pensiero. A tal proposito, c'è da ammettere che l'estrema sensibilità e intelligenza fecero davvero di M. uno straordinario sismografo di ciò che era già in fermento e che sarebbe maturato, in un futuro a lui non lontanissimo, sulla scena ideologica e politica europea; ossia, lo resero acuto e (purtroppo) facile profeta?’ quando scrisse di «n germanico Zarathustra, che fu anche bestialmente fulvo», fautore di un pensiero «mistico filosoficamente e disonesto artisticamente», padre putativo di tutte quelle «bestie più o meno fulve che da allora cominciarono a infestare il mondo» [O 665]. Ma, come si sa, la voce della Persuasione condivide la maledizione di Cassandra. 289 La spietata eristica potrebbe ribaltarci contro, e forse non a torto, questa nostra obiezione: anche la Persuasione M.iana è andata ad "incrementare"... la purità di Evola. 290 Acuto profeta anche Nietzsche, la cui lungimiranza a questo punto ci si rivela però in tutta la sua portata beffarda: «L'aspetto dell'attuale Europeo mi dà molte speranze: va formandosi un'audace razza dominatrice [...] Le stesse condizioni che favoriscono l'animale gregario provocano anche la formazione dell'animale-capo». A3 - Leopardi: la variante "flessibile" alla Persuasione. Portare a radura il sottobosco leopardiano in M. sarebbe tentativo improbo anche per uno scoliaste armato di tutta la perizia e la pazienza possibili” . Il Leopardi poeta, e soprattutto il Leopardi pensatore (il pensatore attraverso il poeta), è, per il Goriziano, come una seconda pelle. Compulsarne le opere alla ricerca di rimandi al Recanatese sarebbe un po' come riscrivere la Persuasione e i Pensieri, ad esempio. E a differenza che per altri riferimenti (Nietzsche, lo stesso Schopenhauer), non si può individuare un momento in cui M. fu "leopardiano" stricto sensu: la voce del poeta attraversò sempre l'esistenza del nostro giovane filosofo, e i Canti, come mostra l'edizione ritrovata tra i libri posseduti dal Goriziano, erano una delle sue ri-letture più frequenti e più gradite. E più annotate e meditate. In effetti, si andrebbe incontro a molte sorprese, ne siamo convinti, se si leggessero La Persuasione e la Rettorica, le Poesie, o il Dialogo della Salute alla luce delle meditazioni del Recanatese: si potrebbe scoprire, ad esempio, come la tesi di laurea fosse anche un vero e proprio commento "aggiornato" della Ginestra (così almeno essa ci appare), o come l'aspirazione alla condizione persuasa dovesse molto alla "vaghezza" dell'Infinito, o di come l'ispirazione poetica (al di là della forma) fosse fedelmente leopardiana nel farsi veicolo di "vaga" meditazione, casomai in M. solo un po' più trasparente. Ci vien da dire che, in Leopardi, M. trovava innanzitutto la variante parallela, poetica (ma altrettanto rigorosa) della certezza "cartesiana" del dolore e dell'inganno, che aveva assimilato in forma di salda filosofia dai Greci e Schopenhauer; ma riconosceva anche un coetaneo che, come lui, s'era arrovellato nello sviscerare l'assurdo della vita e nello scarnificare se stesso, alla ricerca di un'alternativa possibile al Tragico: l'affinità di una giovinezza eroica e titanica che vorrebbe «comunicar la ribellione / all'universo» [PP 35], senza alcun compiacimento estetizzante. Dunque, non ci trova per nulla d'accordo certa critica che, puntando su un'acribia spropositata, conclude che, nei fatti, il gesto persuaso si affermi negando «sostanzialmente» il gesto poetico leopardiano”°?. Tutt'altro. Bisognerebbe innanzitutto ridiscutere il valore di poesia, e non soltanto nei nostri due autori (ma comunque, non ne è questa la sede); o più semplicemente saper leggere oltre le parole. Del resto, sbirciando le poesie di M., non è raro che si aprano squarci leopardiani: 291 Operazione, tuttavia, egregiamente tentata da S. Campailla, in Postille leopardiane in M., contenute in Scrittori Giuliani, Pàtron Editore, Bologna 1980. Lettura, questa, obbligata, nel nostro contesto, e non solo perché riporta con precisione la presenza dei prelievi leopardiani nel nostro filosofo. 292 Cfr. ad es. Davide Rondoni, "Neutralizzare" Leopardi. Intorno ai rapporti tra M. e il poeta del Canto notturno, in Testo, rivista di "studi di teoria e storia della letteratura e della critica", XIII, 23 (gennaio-giugno 1992). "mi parve dolce cosa naufragare nel seno ondoso che col ciel confina, né temuta ho la morte... "293 solo per fare un riferimento ovvio. Di contro, se si leggesse, ad esempio, questo pensiero che si trova nello Zibaldone: Tutto è male. Cioè tutto quello che è, è male; che ciascuna cosa esista è male; ciascuna cosa esiste per fin di male; l'esistenza è un male e ordinata al male; il fine dell'universo è il male; l'ordine e lo stato, le leggi, l'andamento naturale dell'universo non sono altro che male, né diretti ad altro che al male. Non v'è altro bene che il non essere... non gli uomini solamente, ma il genere umano fu e sarà sempre infelice di necessità. Non il genere umano solamente ma tutti gli animali. Non gli animali soltanto ma tutti gli altri esseri al loro modo. Non gl'individui, ma le specie, i generi, i regni, i globi, i sistemi, i mondi [nn. 4174-4177]. e si provasse, alla stregua di un semplice gioco enigmistico, a sostituire il termine "male" dell'appunto col termine "Rettorica", già si scoprirebbe la punta dell'iceberg. Lo stesso Dialogo della salute, prima di essere un'etica peripatetica, è - con tutta evidenza - un'operetta morale. Con una citazione tratta dalla Palinodia al marchese Gino Capponi si apre poi l'ultima parte della Persuasione (La Rettorica nella vita), ch'è la più spietata e definitiva nel bacchettare una Rettorica altrettanto «superba e scocca» quale quella presa di mira a suo tempo dal Leopardi. «Tutti i progressi della civiltà sono regressi dell'individuo», vi asserisce - tra l'altro - M., e questa «è una frase che potrebbe essere del Leopardi»?* (eppoi, non si dimentichi che quest'ultimo occupa un posto di tutto rispetto nella schiera dei Persuasi). Eppure... eppure, a nostro giudizio, l'accordo comune su una considerazione del mondo come dominato dalla Rettorica (o dal male, ch'è lo stesso) non è il vero - o il solo - punto di contatto tra i due poeti-filosofi. Sarebbe piuttosto semplicistico ridurne la portata a questo rilievo. Del resto, il pessimismo ha parole e pensiero comuni in tutti i pessimisti di tutti i tempi, dai più ai meno raffinati. Tralasciamo, allora, eventuali "omografie", e partiamo, piuttosto, da una giusta osservazione del Campailla, che fa autorevole resoconto della questione, e dà il "la" al nostro escamotage interpretativo. Scrive lo studioso: "[L'influenza del Leopardi] va considerata come la più ricca di sollecitazioni nella produzione poetica del Nostro. Infatti, è difficile scoprire reminiscenze dai Canti leopardiani, si deve subito riconoscere che esse non hanno un valore di per sé, sono disciolte in un'atmosfera sentimentale diversa, divengono le voci di un dramma irriducibile ad altri che a se stesso. C'è da dire, se mai, che il Leopardi assimilato da M. non è il poeta idillico che riesce a trasformare il dolore in bellezza nella contemplazione del mistero dell'universo o nell'operazione magica del ricordo delle proprie deluse speranze; è invece il giovane che si affaccia alla vita imperioso e reclama un rendiconto. E, per energia sentimentale, per costruzione sintattica, 293 Versi di A Senia, in C. M., Poesie, cit. pag. 89. 2945, Campailla, Pensiero e poesia..., cit., pag. 143; per ritmo della frase, il Leopardi eroico e agonistico dell'ultimo periodo. Ma di là da ogni possibile richiamo testuale, l'eredità che M. ha raccolto dal Leopardi va considerata in un senso più alto: nel drammatico intendimento della poesia come sfogo e liberazione delle proprie pene interiori, presa di coscienza dello stato esistenziale, determinazione sovrumana a non barare con le cose. Il M. ha sentito nel Leopardi una lezione di vita, un impegno con la vita. Nella nostra tradizione letteraria che così spesso si è rifatta e si rifà al Leopardi per ricavarne un magistero formale, quello di M. si rivela uno dei tentativi più incondizionati di riprendere e di svolgere la parola del grande Recanatese nello spirito in cui essa è stata pronunciata. Ma nella tensione ad essere se stesso M. si è trovato naturalmente oltre Leopardi: si avverte in lui una eccedenza di volontà, una originaria disposizione tragica che è la zona più inaccessibile della sua poesia [e non solo della sua poesia, aggiungiamo noi}. Permettendoci d'integrare b correttissima valutazione del critico, diremmo che più che «un'eccedenza di volontà» noi riscontriamo, in M., un'eccedenza di determinazione (anche se difficile da mantenere). Sciogliamo la complessità di ciò che vogliamo dire in un semplice riscontro testuale (è questo il senso del nostro escamotage interpretativo), risparmiandoci una riscrittura di cosa sia la Persuasione in M. e di cosa essa sia in Leopardi e lasciando implicite le conseguenze. Così Leopardi conclude la sua Ginestra [vv. 297-317]: E tu, lenta ginestra, che di selve odorate queste campagne dispogliate adorni, anche tu presto alla crudel possanza soccomberai del sotteraneo foco, che ritornando al loco già noto, stenderà l'avaro lembo su tue molli foreste. E piegherai sotto il fascio mortal non renitente il tuo capo innocente: ma non piegato insino allora indarno codardamente supplicando innanzi al futuro oppressor; ma non eretto con forsennato orgoglio inver le stelle, nè sul deserto, dove e la sede e i natali non per voler ma per fortuna avesti; ma più saggia, ma tanto meno inferma dell'uom, quanto le frali tue stirpi non credesti o dal fato o da te fatte immortali. Da parte sua, nella lettera datata 25 aprile 1910, M. così scrive a Gaetano Chiavacci, rassicurandolo: Di che ti preoccupi? di che temi? Nessuno ci potrà mai togliere niente. La vita non vale che noi ce ne affliggiamo. Ma andiamo sempre avanti, e cerchiamo noi d'esser sufficienti a tutto; non c'è cosa che sia troppo grave, non c'è posizione che sia insostenibile. Dove gli altri gemono, e transigono, noi godremo e resteremo duri e sempre uguali così da poterci sempre stringer la mano come io ora te la stringo [E 438. Il significativo corsivo è di M.]. 295 S, Campailla, Pensiero e poesia..., cit., pagg. 53-54-55 [corsivi nostri]. La consapevolezza dell'ineluttabilità è ovviamente comune a entrambi: la necessità cieca, il non-senso dell'esistenza, l'innocenza tragica degli uomini... cose note. Ma Leopardi, in quello che vien considerato da tutti il suo "testamento poetico ed esistenziale", addita alfine nella ginestra un ideale di "stoicismo" che non è rassegnazione né presunzione, ma comunque una "flessibilità" al Tragico, seppur eroica. La Ginestra è /enta, si piega - come si dice - ma non si spezza. M., invece, invoca la durezza: il Persuaso è duro, preferisce spezzarsi piuttosto che anche solo piegarsi. Il fiore del deserto accoglie la morte, china sotto il fascio mortale il suo capo innocente e non renitente, si copre di eroica umiltà, «al cielo / di dolcissimo odor [mandando] un profumo / che il deserto consola» [vv. 35-37]. Il Persuaso, libero, sfida la morte nella «furia del nembo più forte / quando libera ride la morte / a chi libero la sfidò» [Sono i versi conclusivi (ma in realtà è un refrain) de | figli del mare, PP 84]. La ribellione alla vita, o meglio la ribellione della vita, per M. è ancora possibile. A4 - Kierkegaard: la variante "relazionale" della Persuasione. AI pensatore danese abbiamo largamente accennato, e sottinteso, nel corso del nostro lavoro. Abbiamo cioè detto che, per ragioni fossero solo puramente storiografiche, M. non ebbe la possibilità di avere sottomano i testi kierkegaardiani, inaccessibili per la lingua (il che rese tardiva una loro traduzione e diffusione in italiano o in tedesco), oltreché ostacolati dall'ancora imperante hegelismo. Ma sottolineammo che, seppur per via indiretta, M. respirò comunque la temperie kierkegaardiana desumendola dalla lettura dei capolavori di Ibsen (la nostra analisi si concentrò soprattutto sul Brand, un'opera tra le preferite dal Goriziano): del resto, proprio attraverso Ibsen, si consumò virtualmente anche l'incontro - mai storicamente avvenuto (cosa strana, visto che studiarono entrambi a Firenze e che entrambi provenivano dalle regioni carsiche) - con Scipio Slataper, il cui /bsen è certamente l'opera più bella e profonda dopo quella autobiografica’. Alludemmo, infine, al crescente "brandismo" di M., che trascorse i suoi ultimi giorni in un ritiro praticamente ascetico, o comunque di intenso e raccolto lavoro interiore; brandismo, nei fatti, che contraddirebbe la nostra interpretazione politica del vir persuaso: ma altresì sappiamo di quanto M. fosse in attesa di "prendere il largo" (tanto per riesumare l'allegoria marina) nell'infinita vita, e allora leggiamo quel ritiro non tanto come una condizione definitiva e rassegnata, quanto come un momento necessario per raccogliere le forze, temprarle e padroneggiarle, in vista del progetto di persuasione. Sul versante più prettamente speculativo, invece, abbiamo individuato nel cavaliere della fede la "figura" ultima e preferita in cui l'autore di Timore e Tremore compendiò il suo pensiero e la sua sincera persuasione religiosa. E abbiamo visto come quest'ultima fosse la pietra di paragone più opportuna per rendere, nell'immaginario comune, una dimensione così "astrusa" quale quella di Persuasione. Abbiamo allora suggerito come l'utilizzo di "categorie" e terminologie di ascendenza kierkegaardiana (alto, scacco, singolo, paradosso, malattia mortale, angoscia e così via) ritornassero utili - anche alla luce del loro recupero esistenzialista - per cercare di rapprendere concettualmente taluni aspetti in apparenza frammentari della Persuasione. Abbiamo, infine, creato un parallelo tra il cavaliere della fede e il vir persuaso, focalizzando elementi di tangenza (la "dialettica" del paradosso, svolta nella fattispecie in senso antihegeliano; il coraggio dell'atto esistenziale; la solitudine a cui quell'atto sembra destinarli e il sacrificio che imponeva ad entrambi), ma anche marcando differenze altrettanto sostanziali (e allora il paradosso del vir ci è parso funzionale alla sua liberazione persuasa, mentre quello del cavaliere ci si è rivelato come la condizione 296 Detto per inciso, l'affinità tra M. e Slataper, che qui assurge a cifra del "mitteleuropeismo" del Goriziano, si può leggere anche attraverso l'affinità di approccio ch'essi usarono nei confronti del drammaturgo norvegese. 174 definitiva del rapporto con Dio; coerentemente, abbiamo rilevato il recupero della dimensione politica della persuasione, assente nella pratica esistenziale della fede, che si risolve in un rapporto "monogamico" con l'Eterno; infine, abbiamo considerato il vir nel sacrificio di se stesso in senso immediato e il sacrificio di Abramo come sacrificio di se stesso attraverso l'altro, e dunque mediato). Sintetizzammo il tutto ammettendo che la persuasione kierkegaardiana si muoveva ancora in un orizzonte veterotestamentario, mentre quella M.iana riviveva la suggestione neotestamentaria(correggendola in senso "monofisita") eleggendo il Cristo di S. Matteo ad emblema assoluto della "virilità" persuasa. Infine, alla luce di tutto questo, già lasciammo trapelare - e proprio nell'analisi del Brand - le nostre conclusioni, individuando l'elemento che, a nostro giudizio, scongiurava in assoluto ogni plausibile accostamento, pur nella fugace affinità: in una parola, cioè, l'uomo di fede ci apparve come implicato, in modo irreparabile, in un rapporto di dipendenza, in un'eteronomia, che non è certo quella della dimensione mondana, ma che comunque - modo fiero e consapevole, tra l'altro - è una relazione sufficiente, e dunque l'esatto contrario dell'aspirazione persuasa. Insistiamo su questo punto, e ci limitiamo ad integrarlo servendoci delle stesse parole di Kierkegaard, il quale - spogliatosi dei suoi pseudonimi romanzati per calzare quello rigoroso ed edificante dell'Anti-Climacus, e abbandonata la veste poetica cui affidava la sua riflessione - così lo affronta e lo delucida nel suo breve scritto La malattia mortale?”, in periodi di densissima risonanza concettuale: La disperazione è una malattia nello spirito, nell'io, e così può essere triplice: disperatamente non essere consapevole di avere un io (disperazione in senso improprio); disperatamente non voler essere se stesso; disperatamente voler essere se stesso. - l - L'uomo è spirito. Ma che cos'è lo spirito? Lo spirito è l'io. Ma che cos'è l'io? E un rapporto che si mette in rapporto con se stesso oppure è, nel rapporto, il fatto che il rapporto si metta in rapporto con se stesso; l'io non è il rapporto, ma il fatto che il rapporto si mette in rapporto con se stesso. L'uomo è una sintesi dell'infinito e del finito, del temporale e dell'eterno, di possibilità e necessità, insomma, una sintesi. Una sintesi è un rapporto fra due elementi. Visto così l'uomo non è ancora un io. Nel rapporto fra due elementi, il rapporto è il terzo come unità negativa; cioè i due si mettono in rapporto col rapporto; e nel rapporto sono loro che si mettono in rapporto col rapporto; un rapporto, in questo senso, è, sotto la determinazione dell'anima, il rapporto fra anima e corpo. Se invece il rapporto si mette in rapporto con se stesso, allora questo rapporto è il terzo positivo, e questo è l'io. Un tale rapporto che si mette in rapporto con se stesso, un io, o deve esser posto da sé o dev'esser stato posto da un altro. Se il rapporto che si mette in rapporto con se stesso è stato posto da un altro, il rapporto è certamente il terzo, ma questo rapporto, il terzo, è poi a sua volta un rapporto che si mette in rapporto con ciò che ha posto il rapporto intero. Un tale rapporto derivato, posto, è l'io dell'uomo, rapporto che si mette in rapporto con se stesso e, mettendosi in rapporto con se stesso, si mette in rapporto con un altro. Da ciò risulta che possono nascere due forme di disperazione in senso proprio. Se l'io dell'uomo si fosse posto da sé, si potrebbe parlare soltanto di una forma, quella di non voler essere se stesso, di volersi liberare da se stesso, ma non si potrebbe parlare 297 La nostra citazione fa riferimento alla trad. it. dello scritto proposta dall'ed. Newton, 1995, a cura di Remo Cantoni, pagg. 20-21; abbiamo sottolineato in corsivo i passaggi per noi più significativi. della disperazione di voler essere se stesso. Questa formula è infatti l'espressione del fatto che l'io, da sé, non può giungere all'equilibrio e alla quiete, né rimanere in tale stato, ma soltanto se, mettendosi in rapporto con se stesso, si mette in rapporto con ciò che ha posto il rapporto intero [questa impossibilità sancita da Kierkegaard viene invece sconfessata da M.: il vir, da sé, può giungere all'equilibrio e alla quiete senza porre il proprio rapporto con se stesso nel rapporto con l'altro: l'autonomia]. Anzi, quella seconda forma di disperazione (disperatamente voler essere se stesso) non significa affatto soltanto un genere speciale di disperazione, ma al contrario, ogni forma di disperazione può, in ultima analisi, risolversi in essa o esserne derivata. Se un uomo in disperazione osserva come egli pensa la sua disperazione, senza parlarne insensatamente come di qualcosa che gli capita [...] e ora a tutta forza cerca di togliere di mezzo la disperazione da se stesso e soltanto a se stesso: allora è ancora dentro alla disperazione, e con tutti i suoi sforzi presunti non riesce che ad inoltrarsi di più in una disperazione più profonda. Il rapporto falso della disperazione non è un semplice rapporto falso, ma un rapporto falso in un rapporto che si mette in rapporto con se stesso, essendo stato posto da un altro; quindi il rapporto falso in quel rapporto che è per se stesso, si riflette nello stesso tempo infinitamente nel rapporto con la potenza che l'ha posto. Infatti, la formula che descrive lo stato dell'io quando la disperazione è completamente estirpata è questa: mettendosi in rapporto con se stesso, volendo essere se stesso, l'io si fonda, trasparente, nella potenza che l'ha posto [ed è questa, appunto, la Persuasione di Kierkegaard]. AI di là dell'ostentata cavillosità del dettato kierkegaardiano, il concetto è semplice: la disperazione - la malattia mortale - nasce quando l'individuo sfasa la prospettiva del rapporto, obliterando la radice che lo autentica («la potenza che lo ha posto», ovvero Dio) e pretendendo di autofondarlo nel circuito della propria esistenza (la hybris): ovvero, l'uomo sostanzia di se stesso la carenza relazionale - il Goriziano la direbbe deficienza - che lo fonda in Dio. La disperazione è una malattia mortale perché provoca la morte spirituale dell'uomo e la malattia mortale è disperazione perché l'uomo non potrà mai sperare di liberarsi da essa, vista l'eternità del suo essere spirituale. Rispetto a M., ci troviamo in una posizione antagonista che possiamo così risolvere: per costui, rapportarsi ad una "potenza altra" significa tradire l'autonomia della Persuasione; per Kierkegaard, pretendere di fondare in se stessi un'autonomia che non possediamo significa tradire l'autenticità del rapporto esistenziale che ci vincola a Dio. Come si vede, le due posizioni - da un punto di vista puramente razionale - si pongono come inattaccabili, e solo la persuasione del singolo può dar credito, e verità, all'una o all'altra. In questo senso, entrambe le persuasioni si danno come possibilità esistenziali: il fatto che questa possibilità esista non è per il filosofo danese espressione di libertà, bensì di arbitrio, ed espone l'uomo alla tragica evenienza del peccato, sempre presente, il che è appunto la malattia mortale. L'unica libertà (e si noti il paradosso) è quella che ci /ega a Dio. Per M., invece, ogni relazione sufficiente, per quanto alti siano i suoi "agganci", è comunque una violazione del uevet, nel quale, al contrario, «consiste» la vera libertà. B - Variazioni sul tema M.iano del "peso che di-pende". La gravità va essenzialmente distinta dall'attrazione. L'attrazione è, in generale, soltanto la rimozione dell'esteriorità reciproca e dà luogo a mera continuità. La gravità, per contro, è la riduzione della particolarità, tanto scomposta quanto continua, all'unità come relazione a sé negativa, cioè alla singolarità, a un'unica soggettività (soggettività, tuttavia, ancora del tutto astratta). Hegel, Enciclopedia. Lui è il pittore stesso, che volteggia nell'aria; in una torsione impossibile, volge le labbra alla sua donna, per baciarla e ringraziarla del dono dei fiori che lei sta per fargli, perché è il suo compleanno; la donna accetta il bacio con uno sguardo mezzo sorpreso (l'occhio leggermente sbarrato), ma le labbra accennano ad un sorriso, o stanno semplicemente per aderire a quelle dello sposo. Anche la donna sembra esser lì lì per spiccare il volo; il suo piede destro (o il sinistro?) appare puntato a terra, come per darsi la spinta di uno slancio, mentre l'altro è già leggermente sollevato, come fotografato nell'atto di una piccola corsa. Il pittore, nell'assenza di gravità, sembra a sua agio: il suo corpo è agile, allungato: la colonna vertebrale deve essere particolarmente elastica, vista la torsione: il suo corpo si è felicemente adattato alla nuova condizione: le braccia aderiscono con forza ai fianchi, vi si confondono, anzi forse sono addirittura assenti. Il lembo del bavero pare una piccola ala che spunta, potremmo giurarci. L'artista deve sentirsi libero, nella sua fluttuazione, non deve avere impacci. Tutt'intorno una prospettiva piatta, senza volume, destrutturata, schiacciata dalla gravità alle pareti ed al pavimento, riscattata soltanto dalla gradevolezza riposante dei colori: l'unico volume è dato dalla torsione del bacio. La visione è particolarmente estatica. Stiamo parlando del quadro II compleanno di Chagall, del 1919°°: Chagall, un artista ossessionato dalla legge di gravità, che ci vincola alla terra; al suo tentativo di liberazione, in questo quadro e in molti altri, egli sacrifica volentieri tutti i dati dell'anatomia e i principi della logica quotidiana: nelle sue tele la testa di un personaggio si stacca dalle spalle, e fluttua libera finalmente del corpo; un passante, che si staglia sullo sfondo di un paesaggio, occupa più posto degli alberi e delle case d'intorno; un asino suona il violino; se necessario, questo strumento e la pendola saranno provvisti di ali; si cammina sui tetti... Chagall, un ebreo che ha sfidato la legge di gravità, un ebreo che si è ribellato ai vincoli della Terra Promessa. Un eretico. La critica rettorica ha inglobato il dissenso ed ha etichettato il tentativo di Chagall come "leggerezza surrealista" (che condivide con Masson, Mirò, Picasso e Calder), come per Ibsen aveva parlato di "simbolismo". Più o meno dieci anni prima, un altro ebreo eterodosso, proprio il nostro M., così descrive la condizione "sospesa", "aporetica", del suo amato Socrate: 298 Cfr. la diapositiva P nel supporto iconografico. Nel suo amore per la libertà, Socrate si sdegnava d'esser soggetto alla legge della gravità. E pensava che il bene stesse nell'indipendenza dalla gravità. Poiché è questa - pensava - che ci impedisce dal sollevarci fino al sole. - Essere indipendenti dalla gravità vuol dire non aver peso: e Socrate non si concedette riposo finché non ebbe eliminato da sé ogni peso. - Ma consunta insieme la speranza della libertà e la schiavitù - lo spirito indipendente e la gravità - la necessità della terra e la volontà del sole - né volò al sole - né restò sulla terra; - E né schiavo; né felice né misero; - ma di lui con le mie parole non ho più che dire [PR Socrate sdegna la gravità: il suo discepolo più diretto, agli occhi del filosofo goriziano, tenta invano di far suo quello sdegno, di conservarne la lezione genuina, costruendo una macchina volante” che gli permetterà di sganciarsi dal suolo. Ma Platone scimmiotta Socrate. «La 'leggerezza'» prese a dire Platone contemplando il mirabile spettacolo delle cose, che al suo sguardo più forte erano chiare come se fossero state vicine «la 'leggerezza' contiene tutte le cose; non come sono col loro peso nel mondo basso, ma senza peso; e come il peso appartiene al corpo, alla leggerezza appartiene, ‘lincorporeo'; e se al corpo appartiene l'estensione, la forma, il colore, tutto ciò in cui gli uomini in terra sono implicati, alla leggerezza appartiene l'inestenso [sic], l'informe, l'incolore, lo spirituale. Colla sola contemplazione della leggerezza, noi che abbiamo la leggerezza, vediamo e possediamo tutte le cose non come appariscono [sic] in terra ma come sono nel regno del sole» [PR 68]. Una macchina per sfidare la gravità: l'uomo perde fiducia nelle proprie forze di Persuasione, e si affida alla scienza, ammantandola di filosofia. Giusto cinquant'anni dopo le pagine del nostro scrittore-filosofo, e più di duemila anni dopo il finto esempio storico, Hannah Arendt apre uno dei suoi capolavori - Vita Activa (è del 1959) - commentando un fatto astronomico stavolta realmente accaduto: «nel 1957 un oggetto fabbricato dall'uomo fu lanciato nell'universo, e per qualche settimana girò intorno alla terra seguendo le stesse leggi di gravitazione che determinano il movimento dei corpi celesti - del sole, della luna e delle stelle»? La posizione della Arendt - non davanti all'evento in sé (salutato, volendo, anche con orgoglio, perché ulteriore conquista dell'intelligenza umana), bensì davanti alle reazioni dell'opinione pubblica - trasuda perplessità: Questo avvenimento, che non era inferiore per importanza a nessun altro, nemmeno alla scissione dell'atomo, sarebbe stato salutato con assoluta gioia se non si fosse verificato in circostanze militari e politiche particolarmente spiacevoli. Ma, per un fenomeno piuttosto curioso, la gioia non fu il sentimento dominante, né fu l'orgoglio o la consapevolezza della tremenda dimensione della potenza e della sovranità umana a colmare il cuore degli uomini che ormai, sollevando lo sguardo dalla terra verso i cieli, potevano scorgervi una loro creatura. La reazione immediata, espressa sotto l'impulso del momento, fu di sollievo per 'il primo passo verso la liberazione degli uomini dalla prigione terrestre'. E questa strana affermazione, lungi dall'essere la trovata accidentale di qualche reporter americano, involontariamente riecheggiava la 299 È l'incipit del famoso "esempio storico" M.iano. 300 Si tratta, ovviamente, di un apologo inventato da M., com'egli stesso del resto giustifica nelle Note alla triste storia, contenute nella seconda delle Appendici critiche [PR 143 sgg.]. 301 cfr. il Prologo di Vita Activa, La condizione umana, Tascabili Bompiani, 2000 (VIII ed), pagg. 1-6; questo, e gli altri riferimenti della Arendt, sono tratti tutti dal prologo, e dunque s'intendano passim. straordinaria epigrafe che, più di vent'anni prima, era stata scolpita sul monumento funebre di un grande scienziato russo: "l'umanità non rimarrà per sempre legata alla terra". La Arendt commenta: La banalità dell'affermazione [quella riportata dai giornali; cfr. supra] non dovrebbe farci trascurare il suo carattere straordinario; infatti benché i cristiani abbiano parlato della terra come di una valle di lacrime e i filosofi abbiano considerato il corpo come prigione della mente o dell'anima, nessuno nella storia dell'umanità ha mai concepito la terra come una prigione per i corpi degli uomini, o manifestato realmente la brama di andare letteralmente fin sulla luna. Sarebbe questo l'esito dell'emancipazione e della secolarizzazione dell'età moderna, iniziate con l'abbandono, non necessariamente di Dio, ma di un dio che era il Padre celeste: il ripudio sempre più fatidico di una Terra che era la Madre di tutte le creature viventi sotto il cielo? La risposta, per banalizzare, è: spero di no, ma credo purtroppo di sì. Ora, se la Arendt avesse potuto leggere M., e Socrate-Platone (e anche Ibsen) attraverso gli occhi di M., se avesse tenuto conto delle "estasi" di Chagall, avrebbe certamente corretto la prima parte del suo intervento («[... nessuno nella storia dell'umanità ha mai concepito la terra come una prigione per i corpi degli uomini [...}»). Eppure, siamo convinti, la sua posizione di fondo non sarebbe per nulla mutata. Il fatto è che, rispetto alle posizioni forti e polemiche di M. e di Chagall, l'autrice di Vita Activa occupa una posizione, come dire, "ingenua" (ma può darsi benissimo il contrario): anch'ella ebrea, mostra piuttosto fedeltà alla terra, «a vera quintessenza della condizione umana»: «la natura terrestre, per quanto ne sappiamo, è l'unica nell'universo che possa provvedere gli esseri umani di un habitat in cui muoversi e respirare senza sforzo e senza artificio». Questa gratitudine nei confronti della Terra (la Terra "naturale", beninteso, e non quella "artificiale" della scienza e della tecnica) è anzi il presupposto della sua grande ipotesi d'apocatastasi politica, che conosciamo. Per la Arendt, il mondo della Rettorica (della "cattiva" politica, del male) avviene solo nella comunità degli uomini: per M. (e per Chagall), invece, la Rettorica innerva la struttura stessa del reale fisico, prima che politico, e l'attrazione gravitazionale ne è la forma più lampante. L'assunto del nostro giovane filosofo è drastico: la forza di gravità è il segno esplicito di una dipendenza (il peso che "di-pende"), e ogni di-pendenza, nella sua ottica, viene associata automaticamente a violazione della libertà (per lui assoluta), a violenza. L'autarchia del Persuaso non può tollerare che la prima, e più forte, dipendenza (e dunque la più evidente violazione della propria libertà) sia insita addirittura, e in modo ineluttabile, nel suo stesso organismo: il Persuaso deve liberarsi di tutto, anche della gravità: il liberarsi, per lui, è innanzitutto un /ibrarsi La predilezione, come sappiamo, è per il terzo regno, quello del mare, dove ogni gravità pare assente, dove la forza delle onde può essere anche sconfitta dalla potenza delle proprie braccia: mentre neanche il salto del più ardito pensiero può superare il "gancio" della gravità terrena. La Arendt, al contrario, ha superato questa "pregiudiziale naturalistica" presente nell'autore della Persuasione: a suo modo, anche M. supererà se stesso (il se stesso della tesi) nella sua opera ultima, laddove - anche per lui - la Persuasione e la Rettorica se la giocheranno ad armi pari sul terreno della politica, nel senso che già abbiamo più volte ripetuto. Tutto sommato, dunque, nonostante questa diversità, le proposte di M. e della Arendt si muovono entrambe sul terreno della Persuasione. Bisognerebbe valutare la "sostenibilità" di entrambe, ma non è questo che ora ci interessa: l'esistenza è un impegno quotidiano che solo fino a un certo punto ha bisogno di un appiglio o di un'ispirazione eteronoma, per quanto "persuasivamente" fondata (è questa, ricordiamolo, l'opinione dello stesso M.). Ora, anche nel rispetto dell'economia del nostro discorso, c'interessa piuttosto valutare la barricata rettorica di fronte a simili proposte, di fronte alla pericolosa insorgenza umana di liberarsi dalle maglie della gravità. Lo faremo in modo "stravagante", ma pilotato. Partiamo da un annuncio pubblicitario: Il è il metodo creato dalla dr. X per migliorare l'allineamento del corpo umano nello spazio e in relazione alla forza di gravità. Si attua in un ciclo di 10 sedute di manipolazione del tessuto connettivo e di educazione a un movimento fluido e corretto. Questo efficace lavoro permette di sentirsi più elastici, sciolti e leggeri in breve tempo. Gli effetti sono durevoli. Chiunque vuole "sentire" di più il proprio corpo, viverne meglio le emozioni, o ritardarne i processi di invecchiamento [... ] può trarre grande giovamento da questa tecnica. L'ideatore del metodo *** si propone di migliorare l'allineamento del corpo umano nello spazio e in relazione alla forza di gravità: Ballested saluterebbe volentieri questo invito ad un felice e comodo "acclimatarsi"°°, Il metodo per giunta promette effetti durevoli. Ora, al di là della facezia, invitiamo a concentrare tutta la serietà e l'attenzione su almeno due passaggi-chiave del messaggio promozionale: la cura «si attua in un ciclo di 10 sedute di manipolazione del tessuto connettivo e di educazione a un movimento fluido e corretto. Questo efficace lavoro permette di sentirsi più elastici, sciolti e leggeri in breve tempo». Entra in gioco la Rettorica allo stato puro, secondo la curvatura foucaultiana che le stiamo conferendo: il dominio del corpo, nella sua "fisicità", attraverso la "manipolazione" (termine davvero infelice, anche per uno spot) e l' "educazione al movimento"; dunque, una considerazione sportiva del corpo®°, volta al suo miglioramento: la Rettorica abbisogna di corpi sani; la sua salus non è Salute ovvero Salvezza (come l'intende il vir), ma valetudo, benessere". Una congerie di corpi robusti e sani, per giunta controllati, è infatti il presupposto sufficiente di una sana e forte comunità rettorica. Secondo punto: subentra il cavallo di battaglia della Rettorica: la paura della morte, ovvero, qui, della sua fase immediatamente precedente: l'invecchiamento. Il pubblicitario 302 Ballested è il già citab personaggio della Donna del mare di Ibsen; cfr. il nostro paragrafo Il porto della pace., nel capitolo |. 303 «Lo sport è la rettorica della vita fisica», scrive M. in una nota, PR 107. 304 Sull'oscillazione ambigua del termine nella traduzione s'impernia tutto il Dialogo della salute. adesca il consumatore giocando sulla promessa speciosa che la cura è in grado di ritardare i processi di invecchiamento. M., nella sua tesi, e non solo, scrisse pagine e pagine per spiegarci che l' "equivoco" EQUIVOCO GRICE sulla morte è la ragione decisiva che spinge gli homines, ma anche i domini, a sottomettersi vicendevolmente al Dominus per eccellenza, il Leviatano sociale. L'analisi del filosofo goriziano è tutta volta a scongiurare quell'equivoco EQUIVOCO GRICE, a tratteggiare il concetto di una morte che può essere sfidata dal vire addirittura accettata, come accadimento che non annichila, bensì potenzia, in prospettiva, la nostra dynamis. Quello che abbiamo or ora fornito è un esempio molto particolare, esasperato, di «Rettorica applicata alla vita», come la chiamava il Nostro. Ad esso ne aggiungiamo un altro, tratto stavolta da un articolo scientifico?°° dei nostri giorni, che tratta - manco a dirlo - di un'ipotetica vita in un ipotetico mondo a gravità zero (= assenza di gravità), ad esempio un altro pianeta. L'autore dell'articolo argomenta che, in simili condizioni, la specie umana, potrebbe orientarsi, attraverso graduali aggiustamenti «secondo le leggi naturali dell'evoluzione verso un nuovo tipo di uomo, l'Uomo Cosmico». Tutte variazioni ipotizzabili, naturalmente: dalla statura (maggiore del comune, perché in assenza di gravità la colonna vertebrale perde le sue curvature fisiologiche diventando rettilinea), al torace (più corto, poiché il diaframma si solleverà in seguito all'alleggerimento dei visceri addominali), dal cuore (più piccolo per ipotrofia muscolare) agli arti inferiori (più sottili, proprio per la dislocazione dei liquidi verso le parti superiori del corpo) e al cervello che, fortunatamente, secondo le ipotetiche previsioni, «verosimilmente continuerà ad aumentare di volume, come è avvenuto nell'evoluzione del genere umano, stimolato dalla necessità di un'informazione mentale sempre più copiosa e intelligente e da una maggiore irrorazione, e quindi nutrizione, in assenza di gravità». Ora, al di là della vaghezza mondana che l'articolo si ripromette, e al di là del sempre esplicito riferimento alla corporeità, vi si potrebbe riscontrare un altro noto (e qui ben nascosto) dispositivo retorico, quello che i sofisti chiamavano anfibologia. L'articolo, dietro il pretesto di suscitare curiosità, ci fornisce un quadro del nuovo "Uomo Cosmico" che finisce con lo scoraggiare il lettore: la vita in gravità zero sarebbe possibile, ma solo a condizione che la nostra struttura umana, la nostra bellezza umana, venisse "storpiata": sarebbe un luogo popolato da mostri (e si confronti, invece, questo ipotetico storpiamento scientifico con l'armonia raggiunta da Chagall nelle sue "figure fluttuanti"). E' quella che M. chiama la «falsa adulazione», qui rovesciata: l'articolo, cioè, invita indirettamente i lettori a mantenere le loro belle sembianze umane, garantite e protette dalla legge di gravità. La Rettorica richiama gli uomini al vincolo della gravità, necessaria alla perpetuazione del dominio (l'Uomo Cosmico rischierebbe di essere pericolosamente 305 Purtroppo ne abbiamo perso la fonte, ma il nostro appunto, a suo tempo, fu abbastanza fedele. forte, e la sua vita oltremodo allungata: rischi che la Rettorica non può permettersi di correre: forza e longevità sì, ma sempre "manipolabile"). Ora, abbiamo volutamente presentato esempi al limite della "fantascieza", e volutamente abbiamo condotto un'analisi altamente prevenuta, ostentando un metodo d'approccio viziato oltremisura dal "sospetto": una sorta di eccesso di zelo dell'ottica persuasa, che rischia di degenerare in una vera e propria mania di vittimismo di una persecuzione, sempre operante, perpetrata dalla Rettorica. Ora, siamo convinti che una simile "paranoia rettorica" dovette aggredire M. nei suoi ultimi giorni di vita, attecchendo per giunta su un fisico stremato dai dolori personali e stressato dal lavoro di compilazione della tesi. Con questo, non vogliamo alludere a nulla, riguardo al suicidio del giovane goriziano (benché lo stesso Campailla sembra sbilanciarsi, ma solo appena, in proposito). Lo assumiamo semplicemente come un fatto. Concludiamo questo paragrafo richiamando alla memoria, come all'inizio, un altro quadro celebre: nei suoi Orologi mollf°®, Salvator Dalì sembra denunciare (o sublimare?), in modo bizzarro ma efficace, il risultato vincente della Rettorica, come forza di gravità? (l'opera è del 1931; anni bui): gli orologi, attratti da una vigorosa forza centripeta, cedono mollemente verso il suolo: una mosca (retorica?) insozza quello in primo piano; una comunità (persuasa?) di formiche sembra preservare/proteggere quello in primissimo piano. Il messaggio appare chiaro: anche il tempo si curva dinanzi alla forza di gravità, vi si sottomette e vi si allea, a meno che.... Sembra un'amenità. Eppure era ciò che, grosso modo, il genio ebraico di Einstein aveva postulato, pochi anni prima, nella sua ipotesi di curvatura dello spazio-tempo. 306 Ovvero, La persistenza della memoria, detto anche Il tempo che si scioglie. Cfr. la diapositiva Q nel supporto iconografico. 307 La nostra interpretazione è del tutto funzionale al discorso e, del resto, le opere di Dalì si prestano agli azzardi più innominabili. Anche se, per la cronaca, il pittore, proprio riguardo a questo quadro, fu estremamente chiaro: il soggetto gli proveniva dall'ossessione per tutto ciò che è molle.C - La critica alla Rettorica come caricatura della Rettorica. A partire da un'intuizione che ha avuto già a suo tempo il Campailla, e che noi condividiamo in pieno (ovvero che non si può leggere l'opera di M. scrittore- filosofo separatamente da quella di M. "ritrattista"), la critica specializzata nel settore si è adoperata per trovare punti di riferimento "europei" all'opera del Goriziano. Il bilancio di tale lavoro (volto comunque a reclamare anche una decisa originalità M.iana rispetto alla contemporaneità o alla più prossima posterità) è stato egregiamente redatto da Fulvio Monai (a nostro parere, il non plus ultra in questo contesto), di cui riportiamo alcune valutazioni essenziali, cercando anche noi - in questo modo - di caldeggiare un simile approccio. Nell'ambito figurativo i pittori dell'angoscia come Munch, Van Gogh, Ensor, Gauguin avevano creato le premesse per la nascita dell'Espressionismo che a una prima realizzazione formale giunse tuttavia soltanto con il gruppo della Brücke (Il Ponte), fondato nel 1905 a Dresda da Kirchner, Heckel e SchmidtRottluff, e avviato, sulla spinta di un programma di spontaneismo e di immediatezza espressiva, a estrinsecare per immagini, al di là di ogni schema preordinato, le inquietudini interiori. Ebbene, in quel momento, M., che dall'angolo visuale fiorentino non aveva potuto nemmeno supporre i prodromi della nuova esperienza artistica, anche se nutrito di cultura tedesca, aveva già fissato sulla carta i segni di un'umanità demitizzata, i cui connotati volevano corrispondere a una realtà interna più che alle apparenze sensibili. [...] Quando M. schizzava a lapis la Processione d'ombre nel 1903, a sedici anni (anticipando largamente i disegni di Klee eseguiti nel 1911), nulla poteva sapere dei fermenti che avrebbero portato alla figurazione espressionista. Non poteva nemmeno aver conosciuto, quando l'informazione sull'arte a Gorizia era ancora precaria se non assente, né la tipologia umana di Tolouse Lautrec, né la visione precorritrice degli artisti che avevano fatto tesoro della lezione di Cezanne e Van Gogh. Non ci sono comunque prove [...] che possano documentare un qualsiasi contatto, del resto cronologicamente insostenibile, con il mondo figurativo che si agitava nell'Europa centrale osteggiato dalla cultura officiale [...] Indubbiamente Processione di ombre è una testimonianza stupefacente di un espressionismo ante-litteram: una sfilata di personaggi tratte ggiati sommariamente, figure emblematiche la cui deformità impietosa riflette le ipocrisie e le storture della società conformista. La matita che delinea realisticamente il profilo del Castello di Gorizia, simbolo del potere, non indugia sui dettagli delle figure umane ma, guidata da un'intuizione psicologica sorprendente per un sedicenne, si limita a suggerirne le forme controluce. Processione d'ombre resta dunque opera di un giovanissimo che, per virtù di un'acuta intelligenza, stava respirando un'aria comune a tutti gli ingegni più vivi senza ancora rendersene conto, con le percezioni discendenti da una sofferta coscienza del male del tempo, in inconsapevole sintonia con artisti che egli non aveva mai conosciuto. Dopo questa prova [... ], altri disegni confermeranno negli anni successivi la sua ricerca dell'uomo, il suo bisogno di agire direttamente sulla persona, interpretandone le contraddizioni, le debolezze, il ridicolo, con segno che non è caricaturale nel senso corrente della parola, inteso cioè a cogliere gli aspetti più scoperti del soggetto per metterne a nudo l'immagine apparente o i sentimenti più manifesti. La sua matita scava e blocca il volto nell'attimo in cui la mente ne fissa i connotati che meglio corrispondono alla realtà più intima e tramuta la figura in maschera che sollecita pena e amarezza più che ilarità. Solitario come filosofo e come pittore, M. avrebbe comunque continuato ad alimentare la segreta vocazione fino a quando, con il disegno di una lampada dalle fiammelle ormai spente, avrebbe riassunto sul primo foglio della Persuasione e la rettorica il senso della propria parabola terrena. [Si può altresì rilevare] la sua estraneità a qualsiasi movimento intellettuale e filosofico. Si può affermare analogamente che non appartenne consapevolmente ad alcun movimento artistico del suo tempol... ] Come pittore M. rientra dunque nella sfera dell'espressionismo, di cui preavverte le tensioni. Ed espressionista rimane fino in fondo, anche dipingendo, prima di morire, l'olio dedicato alla madre e intitolato nel retro E sotto avverso ciel luce più chiara. In questo senso è stata concordemente valutata nefgli] ultim[i] decenni] l'opera grafica e pittorica di M., e si è convenuto che essa non può essere ignorata, costituendo uno degli aspetti fondamentali per capire la genesi della Persuasione e la rettorica, e l'autore stesso, come uomo, nella sua totalità.  [Dunque], un rapporto molto stretto lega la ricerca grafica di M. alla sua filosofia... Lo schizzo, il disegno immediato, l'aforisma figurativo si può considerare una traduzione visiva della via alla persuasione... La linea, secondo una grammatica preespressionista, si spezza in segmenti, si anima in curve ed evoluzioni, si condensa con insistenze e ripetizioni in alcuni passaggi per poi sfumarsi e annullarsi in altri. Esiste una concordanza di giudizi sul fatto che soltanto un'esigenza interiore indusse M. a farsi testimone di situazioni umane con l'immediatezza di chi ha in animo non di edulcorare la realtà o di darne una versione umoristica ma di penetrame i significati, uscendo dalla sfera della rappresentazione per entrare in quella cruda e disincantata dell'osservazione dei fatti, al di là di qualsiasi calcolo e senza il desiderio, comune ai protagonisti dell'arte, di farsi portatore di nuovi linguaggi. Insistere nella ricerca di modelli, di influenze precise per giustificare formalmente il mondo grafico e pittorico di M. equivarrebbe a sminuire - pur considerando i rarefatti indici di un'attività non dominante - la portata del suo messaggio, la sua originalità. Più giusto è constatare che quanto possediamo è sufficiente a dichiarare le sue innate doti di disegnatore estraneo alla cultura figurativa imperante nei primi anni del Novecento in Italia, e a rivelare nello stesso tempo con incisiva evidenza le spinte che, sempre più incalzanti, determinarono la sua ricerca esistenziale®°8, A tutto ciò, aggiungiamo soltanto due nostre vaghe considerazioni: innanzitutto, in M. ci sembra davvero riproporsi quella che Nietzsche connotava come capacità «pentatletica» dell'artista "persuaso" (che lo rendeva davvero «omo integrale»), nella fattispecie con riferimento agli autori tragici della classicità (ma anche al loro "pubblico"), come il filosofo tedesco aveva scritto in un passaggio fondamentale della sua prima conferenza pubblica sulla tragedia [quella sul dramma musicale greco]: Nietzsche auspicava (e credeva di intravvederne i prodromi nell'opera wagneriana) una ri- proposizione di tale "integrità" nella nuova gioventù tedesca’. Anche sotto questo rispetto, dunque, M. ci sembra pare fedele all'orizzonte greco che struttura lasua speculazione e, perché no?, anche tutta la sua vita. Seconda considerazione (che approfondisce quanto già profilato dal Monai): è significativo, per noi, che M. s'impegnasse soprattutto nell'affinmare la sua pratica di "caricaturista": com'è noto, il pregio della caricatura è quello di scarnificare il soggetto che ad essa si presta, esagerandone (e distorcendone) i tratti caratteristici: l'effetto che si vuol provocare è di natura comica o grottesca. Il pittore-filosofo goriziano, evidentemente, intuì la profonda valenza dissacrante che un simile strumento gli metteva a disposizione: poter meglio individuare o evidenziare i "difetti" della Rettorica e utilizzare il pretesto umoristico per porli, in modo impietoso, all'attenzione di tutti: riconosco qualcosa come "caratteristico" e lo "carico" distinguendolo dal resto (che rimane meno percepibile). 308 Estratto dal saggio M. anticipatore in arte dell'espressionismo, di Fulvio Monai (pubblicato in Dialoghi intorno a M., a cura di Sergio Campailla, Gorizia, Biblioteca Statale Isontina, 1987), che qui riportiamo per gentile autorizzazione concessaci dalla redazione di www.M..it e del Comune di Gorizia. 309 Cfr. almeno le sue Cinque prefazioni per cinque libri non scritti, in particolare le Riflessioni sul futuro delle nostre scuole. 310 In questo senso, la caricatura, sotto la forma soprattutto della satira (letteraria) politica e sociale, ha una lunga tradizione nell' "aceto italico", almeno a partire da Lucilio. A parallele, analoghe e praticamente contemporanee conclusioni - il suo saggio sull'Umorismo è del 1908 - era giunto anche Pirandello: nel saggio, lo scrittore agrigentino segnalava nella pratica umoristica uno degli strumenti privilegiati che consentivano di introdurre nell'arte, e dunque attraverso l'arte, la problematica dell'esistenza e la critica sociale: l'umorismo si serve del comico - avvertimento del contrario - per assurgere a riflessione, al sentimento del contrario, ovvero, associando le immagini in contrasto*'', sottolinea espressionisticamente gli aspetti disarmonici, deformanti e paradossali dell'esistenza, come lo scrittore effettivamente fece nei romanzi e (soprattutto) nelle novelle8"?, Per fortuna, l'interesse per l'opera grafico-pittorica di M. è venuta crescendo col tempo (anche se fatica ad oltrepassare l'orizzonte della provincia goriziana e triestina), come testimoniano le sempre più numerose esposizioni del suo catalogo. 311 cfr. L. Pirandello, Saggi, Poesie e scritti varii, Mondadori, pag. 127 soprattutto 312 Non a caso, alcuni critici (il Salinari e il Piromalli, sopra tutti) hanno letto l'opera di M. anche attraverso il confronto con la produzione e la "filosofia" di Pirandello, entrambi massimi rappresentanti della crisi spirituale apertasi all'inizio del secolo scorso. Auctoritas, non veritas facit legem. Thomas Hobbes Parte migliore è quella che cerca il meglio; cercare con persuasione il meglio è l'unico primato; e quando si vorrebbe ostacolare ciò, si fa, sotto tanti aspetti, del materialismo, e, prima o poi, si è sconfitti dalla forza dell'anima. Capitini «Mi manca una concezione salda e universale della vita [...] Oggi io non vedo alcuna possibilità di trovare un nuovo principio, né di rispettare i vecchi principi. Cerco dunque questa idea, da cui dipende tutto il resto, senza poterla trovare», scriveva Flaubert all'amico George Sand, poco più di un secolo e mezzo fa. Questa urgenza di verità e di valori la facciamo nostra, in un'epoca in cui - e lo affermiamo al di là di ogni moralismo enfatico ed infame da parvenu - il rapporto degli uomini col mondo e con i propri simili ci appare quanto mai irrisolto e problematico, e sembrano venir meno l'orientamento, i motivi, le ragioni stesse delle scelte etiche. La nostra tesi, benché sia strano, è nata ed è stata scritta in tempo di guerra, e ciò non ha potuto non influire sulla veemenza e sulla perentorietà di certe nostre affermazioni, convinzioni, presupposti. Il fascino che il pensiero M.iano, misconosciuto, ha esercitato su di noi si spiega, allora, soprattutto nella sua premura etica, nel suo "massimalismo etico": solo un'etica forte come quella di M. - per quanto, per i più, "ingenua" - può misurarsi oggi con la potenza devastatrice del male. La straordinaria energia che ogni uomo nasconde conosce le espressioni più sublimi e divine, ma anche le degenerazioni più abiette e nefaste: si tratta di convogliare quell'energia a vantaggio dell'uomo, ovvero sulla via della Persuasione. Questa è l'epitome del monito persuaso. La voce della Persuasione è la voce socratica, la voce che coinvolge, la voce per eccellenza. La voce che invita alla «infinita vita», che chiama all'autonomia ed all'autenticità del nostro essere uomini, che non si presta alla risonanza disinteressata o scolastica o intellettuale, ma che ingiunge un impegno militante ad ogni animo sensibile. Qui, ovviamente, entra in gioco e in crisi il significato stesso di filosofia, e quindi di esistenza, e il coinvolgimento personale e responsabile di ogni posizione. La "lezione" di M. è, infatti, un invito alla responsabilità pura, e dev'essere accolto come tale in un'epoca in cui il totalitarismo non è esplicito, ma sornione, non punisce, ma sorveglia, 313 Nel contesto di queste Conclusioni, utilizzeremo una specifica bibliografia minima: 1 - Aldo Capitini, Elementi di un'esperienza religiosa, con prefazione di Norberto Bobbio, Biblioteca Cappelli (ristampa anastatica della seconda edizione, pubblicata nel 1947 dall'E ditore Laterza, Bari), 1990; 2 - Martin Buber, La regalità di Dio, Marietti, 1989; 3 - E. Lévinas, L'aldilà del versetto, a cura di G. Lissa, Saggi Guida, 1986; 4 - Antimo Negri. Il lavoro e la città. Un saggio su Carlo M.. Roma, Lavoro, 1996. (I grandi piccoli 11). Le citazioni dal testo di Capitini saranno segnalate da una C con numero di pagina cui si riferiscono [C ...]; quelle da Buber da una B [B ...]; quelle da Lévinas da una L [L ...]; quelle da Negri da una N [N ...], non opera soltanto attraverso l'aperta coartazione, ma s'innesta a presupposto tacito comune, servendosi di una sopraffina ikebana di prevenzione, volta a scongiurare quello che gli agenti assicurativi chiamano, come per un gioco di ironia, moral hazard?. In un'epoca in cui il totalitarismo, a volte, addirittura soffre il proprio mascheramento, ed esplode (stricto sensu) nelle tensioni belliche del "nuovo ordine mondiale". La sua violenza, oggi, è un "mal sottile" che avvelena. La Rettorica è un processo di avvelenamento, scrive M., il che vuol dire non soltanto che è un veleno, ma che è una continua somministrazione di veleno. Il pensiero di Carlo M., con tutta la sua giovanile esuberanza, si pone allora come antagonista, come disinfestazione: si arroga un effetto depurante, si autopromuove ad antidoto al veleno, e (forse) in questo pecca di presunzione e corre il rischio, anch'esso, di prestarsi a traduzioni violente ed autoritarie. Ma ci si mostra come faro quando addita nell'autonomia e nella politica (termini solo in apparenza contraddittori, termini da assumere piuttosto nella loro straordinaria bellezza) l'unica istanza regolatrice di ogni persuasione concreta, «a ferri corti con la vita», l'unica alternativa all'acclimatamento rettorico, al compromesso eteronomo, all'abulia o alla disperata (per alcuni, vile) risoluzione del suicidio. Di una persuasione, infine, che non si pone come compito quello di passare «dalla teoria alla pratica» (uno dei più ostentati imperativi sociali), ma di far le proprie parole azione, di sollecitare la propria dynamis umana all'entelechia che, in modo autentico, la realizza. Come scrisse Aldo Capitini, «dobbiamo essere musica e non statua. Questo sembra un sogno, un qualche cosa di poetico; e credo invece che sia prova di realismo. Vi sono forze potenti da fronteggiare, e solo un'opposizione dal profondo e appassionata può vincerle»3'° [C 31]. 314 Lett. "rischio morale". Maggior rischio che un evento assicurato si verifichi per effetto della minore attenzione posta nel prevenirlo da parte di chi ha stipulato l'assicurazione [def. dizionario Garzanti. Chi ha letto quanto da noi argomentato in precedenza, apprezzerà la puntualità di questa definizione. 315 Come scrive Norberto Bobbio, compagno e grande estimatore di Capitini, «chiunque abbia una certa familiarità con gli scritti di Capitini sa che uno dei termini-chiave del suo linguaggio personalissimo è "persuasione", che sta per "credenza" o per "fede" (il bel capitolo autobiografico con cui ha inizio il libro Religione aperta è intitolato La mia persuasione religiosa), onde "persuaso", parola da lui usatissima equivale a "credente". Egli stesso ne riconosce la derivazione da M.: «... del quale mettevo in rilievo, anche in una conferenza che tenni a Firenze, la "persuasione" (un termine che ho assunto, preferendo "persuaso" a "credente", persuaso nel senso di "autopersuaso", quasi di "pervaso"), l'antiretorica, quel tipo di esistenzialismo, che poteva divenire supremo impegno pratico: insomma mi pareva esatto considerarlo come la premessa di una tensione etico-religiosa». [Bobbio trae questa citazione dall'opera di Capitini Antifascismo tra | giovani; la testimonianza di Bobbio su Capitini la si trova in N. Bobbio, Maestri e compagni, Firenze, Passigli, 1984, nel capitolo a lui dedicato], Dunque, lo sfondo di Capitini è religioso, la sua è una credenza e una fede; tuttavia la sua religiosità, "antiistituzionale", ci pare non identificarsi esclusivamente con la dimensione divina, ma coincidere piuttosto con la sacra umanità (il sacro dell'umanità) che ogni individuo porta dentro di sé: dunque, se «la religione è consapevolezza della liberazione spirituale, del superamento della finitezza mediante la vita spirituale» [C 110], anche noi ci sentiamo di condividere questa religiosità. M. ripropone la visione antica del mondo nel momento di più intensa crisi della sua visione moderna, e chiama in causa soprattutto due testimonianze inattuali di Persuasione, nella Persuasione "confondendole": Socrate e Cristo. Il Socrate di M. - ma oramai è chiaro - non ha alcuna paternità del /ogos, se per logos s'intende una facoltà, ch'è pretesa, di ordinare il nostro rapporto "scientifico" con la realtà e di promuoverne un'arbitraria fondazione di valori. In un'espressione, un atteggiamento di dominio che non riesca a pensare il mondo se non come rapporto di forze e come fruizione senza mistero. In senso analogo, la verità cristiana viene apprezzata non come pura verità filosofica o settaria, ma rivissuta quale verità di esistenza e di salvezza assolute. Nella dimensione persuasa, cui queste due rinnovate prospettive collaborano, il vero, il giusto e il bello condividono un rapporto sponsale (l'agathon di socratica e platonica memoria), al cui interno è un non senso l'imposizione. Un assunto, questo, che M. tende disperatamente a dissuggellare dall'ambito della propria coscienza individuale, cercando di puntare su di esso non solo per un impegno morale singolo, ma per una "rivoluzione" sociale ch'è innanzitutto una rivoluzione etica collettiva. Il vir è completamente titolare dell’azione etica, e in questo è scrigno d'infinito, perché infinite sono le possibilità di realizzare il bene: la sua esistenza è un "grande miracolo", che riflette in sé tutta l'ineffabile portata della Persuasione, una dignità e una libertà di sapore, diremmo, rinascimentale. L'Europa (il mondo) deve guardare alla Bibbia ed alla grecità, dunque. Una persuasione di Lévinas, che anche M. avrebbe sottoscritto. Anzi, come visto, la speculazione del Goriziano oscilla proprio, ed in maniera consapevole e in certo modo sistematica, tra questi due poli. Tuttavia, nella riconsiderazione ch'egli fece del pensiero biblico, si segna, secondo noi, una nuova possibilità del pensiero ebraico, che mantiene dell'ebraismo la valenza etica, la tenacia e la determinazione che quello ha mostrato nella sua storia millennaria, ma altresì le rinnova, senza cadere, a nostro giudizio, nell'apostasia dei conversos o dei marranos. Da una parte, infatti, l'identità ebraica di M. - per quanto inconsapevole, sottaciuta o addirittura rimossa dallo stesso - è fuori discussione: l'appartenenza ebraica è una questione cromosomica, volendo parafrasare Martin Buber. Dall'altra, M., ebreo, dell'Antico Testamento predilesse soprattutto l'Ecclesiaste, e pur vide in Cristo l'eccellenza del vir persuaso, ritagliandone una figura terrena e sofferta che nulla ha a che vedere col Cristo figlio di Dio: M., ebreo, pure accettò il messaggio di In effetti, Capitini appare quale uno dei nichelstaedteriani più "coerenti", e il fatto che il suo capolavoro, gli Elementi, fosse uno dei luoghi di spiritualità intorno al quale si condensò molto antifascismo, è una delle prove più evidenti e più belle di una Persuasione che passa dalla parola all'atto, che si fa storia ed opposizione anti-rettorica. liberazione terrena del Cristo, «la circoncisione del cuore, in ispirito, non in lettera» [S. Paolo, Rom. 2,29], il «battesimo del fuoco» [Lc. 3,16] nella Persuasione?"9. Il pensiero M.iano, insomma, è anche un pensiero ebraico, semplicemente perché M. fu un ebreo. E, per quanto detto, fu un pensiero ebraico sui generis, rivoluzionario, inaudito, e purtroppo dimenticato. Il pensiero ebraico si pone, per principio, come inattuale, come Talmud, interpretazione incessante ed appassionata della Torah, della Legge, la «salvaguardia più sicura e la memoria più fedele dell'etica di Israele» [L 77]. L'ermeneutica della Torah si assume il compito di individuare e proteggere l'<«energia misteriosa che scaturisce da [gesti] antiquati» [L 77], e d'imbrigliarla in direzione etica. Questa etica è accoglienza di una «incitazione divina» [L 102]: «anche Dio incita, anche Dio seduce, come se anche Dio avesse la sua retorica». L'ascolto, dunque, la pedagogia dell'ascolto come essenza dell'ebraismo: vi si forgia un'etica che scaturisce da un'interazione responsabile di uomini: una redenzione, un «faccia-a-faccia degli uomini [...] che mostrano il loro volto e cercano il volto del loro prossimo» [L 93], in una «tensione del santo verso il più santo» [L 91], in una «permanenza dell'umano [...] assicurata dalla solidarietà che si costituisce intorno a un'opera comune; dallo stesso compito svolto senza che i collaboratori si conoscano o si incontrino» [L 93], perché «Ia totalità del vero è realizzata dall'apporto di molteplici persone» [L 218]. Un'etica, inoltre, che non teme, e anzi accoglie, il confronto con le culture altre, perché «Malgrado tutte le critiche rivolte contro l'assimilazione, noi usufruiamo dei lumi che essa ci ha apportato, affascinati dai vasti orizzonti che questi ci hanno aperto » [L 288]. Tuttavia, «a dialettica del regno che educò il popolo di Israele» - scrive Buber - coincide con la «storia del dialogo fra la divinità che domanda e l'umanità che nega la risposta ma che tenta anche di rispondere, il dialogo che ha per oggetto un eschaton». [B 56]. La risposta dell'essere umano, a questo domandare che s'impone più che altro come un comandare, non può essere se non l'obbedienza. Buber non lo nasconde, anzi fonda proprio su questa impari dialettica la radice dell'istanza etica e ogni possibile dignità dell'uomo, «costituita dalla originaria possibilità di questo comandamento e dall' 'obbedienza' intesa come risposta umana ad esso: una risposta balbettante, riluttante, risorgente, ma pur sempre la risposta del fragile essere umano» [B 136]. «Nel 'monoteismo' - scrive ancora Buber - l'unicità non è [...] quella di un 'esemplare’, bensì quella del Tu nella relazione io- 316 Ancora una volta, è importante - in questo contesto - ricordare l'interesse esclusivo di M. per il vangelo di Matteo. Questo vangelo è il «più completo, ordinato e dottrinale dei primi tre e rispecchia più e meglio degli altri la primitiva catechesi apostolica, motivo per cui fu il più utilizzato nei primi tempi della Chiesa, per l'istruzione sia dei catecumeni che degli adulti. Esso fu scritto per gli Ebrei, per provare ad essi che Gesù Cristo è il Messia promesso. Infatti fin - dal principio, con la genealogia, così importante per gli Ebrei, Mt intende dare non soltanto la realtà ebraica e davidica di Gesù, ma inserire lui, la sua storia e la sua opera nel complesso della storia della salvezza, che forma l'ossatura di tutto l'AT. Così, nel discorso posto come a base del nuovo Regno fondato da Gesù, egli è proposto come il nuovo Mosè che sul monte promulga la nuova legge; e in tutto il corso del Vangelo è dato il massimo valore all'AT, considerato come profetico e pedagogo al nuovo Regno» [F. Pasquero, Introduzione al vangelo di S. Matteo, ed. Paoline, Milano, 1987]. tu, che non conosca sospensioni nell'ambito della vita vissuta» [B 123]. Il Tu divino è una continua presenza nel rapporto io-tu, sia nel rapporto stesso che nella singolarità dei contraenti: «la fede in Dio di Israele è contraddistinta in definitiva dal fatto che il rapporto di fede esige per essenza di valere per tutta la vita e di agire in tutta la vita» [ma cfr. l'intero capitolo JHWH il melekh, pagg. 106- 120]. E' qui che M. segna il suo distacco e il suo superamento: egli, ebreo, combatte in assoluto ogni adescamento eteronomo, e intuisce che l'etica è Persuasione, ovvero - e in modo esclusivo - autonomia responsabile e responsabilità autonoma, conquista che avviene nell'immediato dell'uomo senza alcun tramite, se non la considerazione dell'altro come specchio di sofferenza, come omousia del Tragico, e non come riflesso del volto di Dio o comunque di entità superiori e costituite. M. conclude la prima Appendice critica alla sua tesi di laurea con un enfatico «Evviva l'imperativo» [PR 142]. Quest'appendice, apparentemente svolta su questioni di linguistica logico-formale (i modi verbali), s'impernia su un assunto etico-filosofico che compendia le convinzioni M.iane su un linguaggio, quello degli uomini, ch'è la traduzione più concreta ed esaustiva dei «modi di relazione sufficiente» [PR 135]: infatti, «ogni parola detta è la voce della sufficienza - quando uno parla, afferma la propria individualità illusoria come assoluta», ovvero «ogni cosa detta ha un Soggetto che si finge assoluto» [id., corsivo di M.; in base alle analisi approntate nel corso del nostro lavoro, il significato di queste affermazioni dovrebb'essere oramai pacifico]. Alla luce di questo assioma, M. de-struttura i modi del linguaggio: quello diretto, quello congiunto e infine quello correlativo. Fino a che giunge al modo imperativo, «che non è modo» [PR 141]. Perché quello imperativo non è un modo? E perché il giovane filosofo lo predilige? Perché esso non sottende una "relazione sufficiente", «non è realtà intesa, ma vita; è l'intenzione che vive essa stessa attualmente, e non finge attualità in ogni modo finita e sufficiente» [PR 141, c. Mich.]: insomma, il Soggetto «non fa parole, ma vive» [PR 142, c. Mich.]. Ma in che modo il Persuaso vive? Innanzitutto, si parta da questa importante sfumatura: per M., l'imperativo non è il modo dell'ingiunzione, del comando, della coercizione, non è neanche «imperativo di Dio» [B 58]°'”, ma quello della libertà, della realizzazione concreta della libertà, ovvero è un atto di liberazione. Il Soggetto, innanzitutto, si libera da se stesso, dalla falsa consistenza che lo intride. Ma l'imperativo non è neanche un modo impersonale: esso è piuttosto un modo che coinvolge, che chiama in causa una relazione, una responsabilità, che evidenzia la sostanza di un tu cui esso si rivolge. Delucidando il senso e l'abisso di tale responsabilità, si giunge nel cuore dell'essenza persuasa. E' la Persuasione che mette in gioco la responsabilità, e non viceversa. Non è Dio che ci destina in un orizzonte responsabile, non è YHWH che c'ingiunge o ci dona il senso di responsabilità, che ci forma alla responsabilità. Per Lévinas, ad esempio, la responsabilità umana è «una responsabilità che precede la libertà, una responsabilità che precede l'intenzionalità» [L 210]: poche righe dopo, il filosofo ebreo- francese esplicita il senso delle sue parole: «si deve comprendere piuttosto questa anteriorità della responsabilità rispetto alla libertà come l'autorità stessa dell'Assoluto [c. n.], ‘troppo grande' per la misura o la finitezza della presenza, della manifestazione, dell'ordine e dell'essere» [L 210]; «l'uomo esercita la sua padronanza e la sua responsabilità come mediatore tra Elohim e i mondi, assicurando la presenza o l'assenza di Elohim dal concatenamento degli esseri» [L 246-247]. Nell'orizzonte della Persuasione, al contrario, la responsabilità non è la premessa teologica al rapporto io-tu, non è il vincolo condizionante preparato da qualsivoglia Torah, Assoluto o «ileità» [L 211], ma la messa-in-atto di questo rapporto nel momento in cui esso avviene, sul terreno dell'autonomia senza presupposti, nella condizione di una consistenza che trova 318. Ovvero nel fondamento esclusivamente nella propria finitezza, nella propria solitudine momento in cui la consapevolezza del Tragico assurge alla sua espressione massima, e si converte da consapevolezza in attualità poietica. La stessa «responsabilità della responsabilità» [L 158-159] non è una delega etica che un essere superiore affida agli uomini, lasciandoli liberi o meno di rispondere (la presenza o l'assenza di Elohim), ma un atto di autofondazione di libertà, in cui libertà e responsabilità vengono a coincidere; non riflesso di una Legge, ma essa stessa legge di se stessa. Il vir attraversa la morte, convive con la malattia mortale ed estende la mortalità a termine di confronto con le altrui vite: ristabilendo un corretto rapporto con l'essere-per-la-morte dell'uomo, correggendo la prospettiva lontananza-vicinanza dalla morte, la Persuasione rende manifesto l'essere-nella-morte dell'homo (la vita che vuole se stessa e crede d'esser vita, l'horror vacui che diviene propellente del conatus essendi, il deficere preso a pretesto del proprio sufficere) e nobilita l'essere-con-la-morte del Persuaso. Di fronte al Tragico, e non di fronte a YHWH, si fonda la solidarietà e la democrazia di un destino, per il quale tutti sono miei pari nella morte. Vedendo nell'altro se stesso come mortale, il vir elegge l'altro in un orizzonte di compassione, e quindi di rispetto: in questo specchiarsi nell'innocenza tragica dell'altro, il Persuaso abdica alla propria consistenza, avvertendo già la sua stessa affermazione individuale come violenza "attuale" agìta ai danni dell'altro. 317 «[...] né la storia biblica ha altro senso se non quello per cui l'imperativo della natura può cedere all'imperativo di Dio e così elevarsi, la pura passione alla santità pura, la creazione al regno» [B 58]. 318 Nella dimensione persuasa, dunque, espressioni quali «dipendenza senza eteronomia» [L 162], «trascendenza che si fa etica» [L 208], «decisione umana che interviene in un dominio che oltrepassa l'uomo» [L 181], o ancora «timore libero: riconoscenza sotto forma d'obbedienza, ma obbedienza senza servitù etc. etc.» [L 173], o infine la summa - «idea di un potere senza abuso di potere» [L 266], non hanno alcun senso.La persuasione, dunque, si pone come eccesso d'amore, come olocausto d'amore, che sacrifica l'io attuale al tu, e fa del tu non soltanto il termine privilegiato del rapporto, ma il luogo in cui «brucia come fiamma» il rapporto stesso. Il sacrificio è l'annullamento del sé per la salvaguardia del tu: l'agire del Persuaso (Sovva!) è l'accollarsi di un surplus di responsabilità verso il tu. Per recuperare l'umanità del tu c'è bisogno di un'eccedenza d'umanità nel Persuaso, tal che il Persuaso - alla stregua dell'Essere plotiniano - trabocchi di essere e doni, sacrifichi la sua eccedenza in vista della Persuasione del tu, ch'egli non prepara o sollecita, ma salvaguarda e protegge. In questo atto di amore puro e assoluto della Persuasione, l'unico rimprovero che le si può muovere contro è l'essersi arrogata una pretesa di salvazione che nessuno le ha chiesto. Ma cosa è l'amore, il donare, se non dare anche quando nessuno chiede?  Uno, tra i motivi occasionali che ci hanno spinto a scrivere una tesi su Carlo M., è stato la lettura di un libello (in senso proprio e lato), che porta la firma di Antimo Negri, dal titolo accattivante: // lavoro e la città. Il piccolo studio si propone come «un saggio su Carlo Michelstaedter» (così recita il sottotitolo) e, in effetti, la prima metà di esso sorvola l'opera del Goriziano, fissandone punti fondamentali e azzeccando spunti intelligenti. Ad un certo punto, però - e siamo al capitolo E' veramente ‘vita che non è vita', quella civile? - l'analisi del critico prende una svolta inaspettata di sferzante polemica. Partendo dalla convinzione (del resto per noi condivisibile e sensata) che «nella società, è giocoforza responsabilizzarsi come uomini civili e lavoratori divisi» [N 74], per il Negri prospettare ai lavoratori "distinti" e agli uomini "civili" una vita altra da quella ch'essi conducono è soltanto grossolana retorica, una presa in giro, una «promessa del diavolo» [N 75], pericolosa e assolutizzante, metafisica e irriguardosa. L'avversario da ardere al rogo, nel contesto del saggio, è proprio Michelstaedter: [...] se gli 'autori' hanno veramente detto ciò che egli 'ripete' [il riferimento è alla prefazione della tesi di laurea], Michelstaedter non fa altro che accomunarli nel destino del fallimento del loro messaggio ‘persuasivo'. La ragione di questo fallimento? Sta nel fatto che gli uomini, la maggioranza degli uomini, nonostante ogni 'riduzione' della loro individualità, nonostante il loro risolversi in persone sociali", nel mondo della sicurezza' borghese, nel mondo del lavoro diviso o nel 'regno della rettorica', finiscono col credere più a Platone che a Socrate, più a Hegel che a Schopenhauer, eccetera. Solo perché disponibili a farsi 'giusti' per naturale desiderio di sicurezza? Solo perché hanno paura della morte? Forse, anche perché hanno il coraggio di vivere, lungo le 'sanguinate vie della storia', la ‘piccola vita' delle ‘individualità ridotte', in obbedienza alle ragioni della civiltà del lavoro e della tecnica. Anche il pescatore stanco de | figli del mare ha questo coraggio; e gli si deve rispetto, perché è anche un uomo ‘temprato all'oggettività' nel senso hegeliano, un uomo 'giusto' nel senso platonico. Rispetto non gli porta di fatto, Michelstaedter. In realtà, la lettura del filosofo del lavoro è altamente prevenuta, e questo gli obnubila il senso della Persuasione michelstaedteriana. Ne è prova quanto scrive in seguito, indirizzando le sue frecciate a «quanti filosofeggiando si atteggiano a flebili ‘pastori dell'essere» [N 192 61], ossia «agli scopritori e ai riscopritori più o meno nichilisteggianti di Michelstaedter» [N 71] (e anche qui ci trova concordi). Ma per lui, già in partenza, quello di Michelstaedter è «il desiderio di un libero volo oltre il mondo in cui vivono le 'anime implicate» [N 70], e, in quanto tale, «è desiderio di morte»: «Michelstaedter tende a 'persuadere' ad un 'in-curia' o ‘non-curanza' della stessa società» [adattato da N 81], ed egli, in questo, si rivelerebbe davvero «maestro di Svoradayoyia» [N 81], ma un maestro così malefico, sottile e coerente da giungere persino ad uccidersi per far valere tutta la cattiveria delle sue proposte; tal che il suo suicidio fa] è un «gesto necessario della sua ‘pedagogia', che preferisce l' ‘essere’ al 'vivere', la ‘vita autentica' alla ‘vita inautentica' [[]» e visto che [b] «c'è pure un egoismo nel darsi volontariamente la morte [!], senza curarsi di quanto si può fare per gli altri anche o soprattutto come ‘individualità ridotte*». Ciò di cui il Negri priva i suoi lavoratori distinti e i suoi soggetti civili è quello che Ernst Bloch chiamava principio speranza: il che sarebbe anche la cosa meno grave. Infatti, egli dimentica altresì che dietro tali figure sociali, inserite negli ingranaggi della città giusta, ci sono degli uomini, e che le conquiste - e la dignità che ne deriva - sono innanzitutto conquiste di consapevolezza umana, prima che acquisizioni prettamente sociali o giuridiche o politiche. Egli scrive: Il nostro posto è nella città, nel mondo del lavoro. Non c'è ideologia 'antilavoristica' che tenga: il nostro compito resta quello di fare più giusta la città, più umano il mondo del lavoro, non di uscirne fuori, di abbandonarlo [N 81-82]. Parole che rivelano un grande, e giustificato, "pragmatismo", e ciò detto senza alcuna allusione spregiativa. Il fatto è che Michelstaedter, scrivendo della Persuasione, si pone su uno scalino indietro (o avanti, dipende dai punti di vista) quando appunta il suo interesse piuttosto sulla dimensione dell'umano che precede la sovrastruttura della giustizia cittadina e della socialità del lavoro. Sinceramente, non vediamo in ciò alcuna «ideologia antilavoristica», né una presa di posizione, come dire, gratuita e tignosa contro la "vita empirica" degli uomini. Il merito di Michelstaedter è stato quello d'aver individuato, al di là o al di sotto dell'alacrità sociale, un peccato umano tra i più puniti anche da Dante: l'accidia spirituale. Di contro, il più grande demerito dell'invincibile illusione sociale della rettorica - propinata attraverso lo strumento ipnagogico della Svoradaywyix - è quello di obliterare l'umanità degli uomini e d'incoraggiarne appunto l'accidia: tal che quando Michelstaedter parla di «possesso presente della propria vita» non intende un allontanarsi dalla congerie sociale, o semplicemente un disdegnarla (il che sarebbe, oltre tutto, impossibile, vista la politicità che contraddistingue gli uomini), ma un vivere la nostra esistenza, anche sociale, alla luce di una nuova consapevolezza, di tipo socratico, che precede la stessa "coscienza civile": ovvero, nella consapevolezza che in ogni uomo c'è un fondo di Persuasione - un «centro religioso», direbbe Capitini - che dev'essere recuperato e 193 salvaguardato, una plenitudo ed un'aeternitas che non è astorica o ultramondana o antimondana, ma che rivela una dignità che chiameremmo ontologica, se non avessimo timore di equivocare adottando un termine abusato. La vita degli uomini, prima di essere vita di relazione in cui ognuno dà e ognuno chiede (il cosiddetto mutualismo), è una interminabili vitae tota simul et perfecta possessio?”9, tanto per prendere in prestito le parole di S. Tommaso, e in questo l'uomo è assimilabile addirittura a Dio. In suddetta convinzione michelstaedteriana - che è una bestemmia in bocca ad un ebreo, e che forse segna il traguardo di presunzione di un pensiero che, al di là della religiosità che lo sottende, si pone, per via di principio, come pensiero "laico" - si palesa tutto l'amore e il rispetto di cui il Goriziano investe gli uomini, il mondo e la vita stessa. Il Persuaso non vuol essere un "persuasor di morte", un apolide o un paria, e se lo è, è l'ingiusta conseguenza cui l'emarginazione rettorica lo destina; ed anche allora, il vir non è un asceta che si rinchiude, beato, nella sua sdegnosa autosufficienza, o un moralista che, da uno scranno, discetta sull'inettitudine o sulla "senilità" degli uomini che, ignari del loro non- essere, si affaccendano nel mondo. Il vir è Qohelet, partecipa comunque all'assemblea degli uomini, «àncora la [sua] vita nella concreta molteplicità del prossimo» [C 66]. La sua «anima ignuda» [PR 10] non è un abito di santità ch'egli indossa per distinguere la propria nobiltà di spirito, ma il risultato di una spoliazione dei travestimenti rettorici entro cui siamo «incamiciati», un raggiungere la nudità del nostro essere sfrondando gli orpelli del sufficere, e non un'angelolatria; e, ancora, l'«isola dei beati» [PR 10] non è un mondo marziano o iperuranico, ma la città veramente giusta, la Gerusalemme dei liberati, la agathon philia: «Paradiso non è l'assenza della finitezza, ma il vincerla, con impeto di spirito sereno» [C 64]. Infine, l'esperienza della Persuasione non è un'esperienza elitaria od escludente, visto che non ci sono libri, ricettari o raccomandazioni che ci facilitano sulla via della Persuasione: essa, per principio, si pone come democratica, e l'unica condizione ch'essa ingiunge (se si può dir così) è che sta ad ogni singolo individuo assumersi la responsabilità di imboccarla, prendere su di sé il compito della propria realizzazione, avere il coraggio di costruire la propria dignità di uomo: e quale migliore artifex di colui il quale è l'artefice unico della propria umanità? «La persuasione religiosa suscita un sentimento e un'iniziativa assoluta, e un fermento da rinnovare perennemente, e proprio movendo da sé stessi, anche se soli» [C 113]: «libertà deve essere continuamente liberazione » [C 108]. La consapevolezza del Tragico, in cui "consiste" la Persuasione e la sua libertà, dunque, non mortifica l'attività degli uomini, ma le conferisce un senso e una dignità addirittura sovraumane, perché non accetta la vita così com'è, o come ci è data, ma testimonia la "caparbietà" degli uomini, la loro eccedenza di vita, anche nella consapevolezza di esseri- 319 Tommaso, Summae Theologiae, prima pars quaestio X, De Dei aeternitate in sex articulos divisa, articulus |. per-la-morte: e la stessa relazione dare-chiedere ne viene promossa a donare, in un orizzonte di rispetto e di amore che coinvolge tutti gli enti mondani, senza alcuna cesura metafisica o etica. E allora, non si incorra nell'equivoco EQUIVOCO GRICE di scambiare la Persuasione per semplice determinazione, per mera disposizione di volontà, per arbitrio di proprie convinzioni imposte alla comunità degli uomini, per malevola, pertinace coerenza d'intenzioni eccentriche o malsane: diversamente, si potrebbero a buon ragione dire persuasi un Hitler o un Callicle. La dimensione persuasa non è una dimensione anarchica, dove ognuno dice o fa ciò che vuole, convinto di realizzare una propria, singolare, gretta persuasione: essa ha l'unico suo limite e l'unica sua legge (che non è sintomo di eteronomia, perché autonoma assunzione di responsabilità) nel confine segnato dalla libertà e dal diritto dell'altra persona: la Persuasione «è stretta sulla base della non menzogna che è il riconoscimento in altri della stessa volontà operante vicino alla mia finitezza, superamento della separazione, atto di fede che attua la vicinanza, la trasparenza» [C 111]. La Persuasione è trasparenza etica. Che un simile "programma" di umanità sia destinato al fallimento - o sia guardato con ironia, o sia tacciato di melliflua retorica, che condisce una "adolescenziale" illusione - non è una prova schiacciante da ribaltare sardonicamente contro il suo autore, ma un ulteriore elemento di meditazione sulle dilaganti potenzialità oniriche e violente - ovvero di una violenza occulta o scoperta, a seconda dei casi - del dispositivo e dell'armamentario rettorico, che da sempre ci affligge. Carlo Raimondo Michelstaedter. Carlo Michelstaedter. Michelstaedter. Keywords: l’implicatura di Platone. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Michelstaedter: retorica e persuasione," per il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Michelstaedter” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Mieli: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’uccello del paradiso; ovvero, la lingua perduta del desiderio – la Paradisaeidae di Swinton – la scuola di Milano -- filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo italiano. Milano, Lombardia. Grice: “Speranza has studied this; he calls it ‘Dorothea Oxoniensis,’ and indeed it is a joint endeavour with C. R. Stevenson – who *knows*!” -- «Spero che la lettura di questo libro favorisca la liberazione del desiderio gay presso coloro che lo reprimono e aiuti quegli omosessuali manifesti, che sono ancora schiavi del sentimento di colpevolezza indotto dalla persecuzione sociale, a liberarsi della falsa colpa»  (Elementi di critica omosessuale. M Attivista e scrittore italiano, teorico degli studi di genere. È considerato uno dei fondatori del movimento omosessuale italiano, nonché uno tra i massimi teorici del pensiero nell'attivismo omosessuale italiano. Legato al marxismo rivoluzionario, è noto soprattutto come eponimo del Circolo di cultura omosessuale M. e per il suo saggio Elementi di critica omosessuale pubblicato nella sua prima edizione da Einaudi nel 1977.  M. penultimo dei sette figli di Walter Mieli e di Liderica Salina. Il padre, ebreo e originario di Alessandria d'Egitto, vive a Milano dalla metà degli anni venti e aveva fondato con successo un'azienda di filati, divenuta in seguito una delle più importanti nella torcitura e nella lavorazione della seta. La madre, milanese, era insegnante di lingue.  Sposati, durante la seconda guerra mondiale i coniugi M. erano sfollati a Lora, frazione di Como. Mario crebbe in questa cittadina, pur mantenendo forti legami con Milano dove il padre continuava a lavorare e a risiedere.  Il giovane Mario si stabilì definitivamente nel capoluogo lombardo quando si iscrisse al liceo classico Giuseppe Parini, raggiunto due anni dopo dalla sorella minore Paola, alla quale fu sempre molto legato. Già in questi anni diede dimostrazione della sua viva intelligenza e dichiarò la propria omosessualità. Secondo quanto testimoniato dal compagno Milo De Angelis, nfondò un circolo di poesia che divenne anche un luogo di incontro per omosessuali. Fu pienamente coinvolto nella contestazione ed evocò questo periodo nel suo romanzo autobiografico Il risveglio dei faraoni.  A causa della sua miopia fu esonerato dal servizio militare alla fine del liceo, si trasferì a Londra per perfezionare l'inglese, come già avevano fatto altri suoi familiari. Qui frequentò il "Gay Liberation Front" venendo a contatto con l'attivismo omosessuale nella sua fase più intensa, subito dopo i moti di Stonewall. Tornato in Italia, fu, insieme ad Angelo Pezzana, tra i soci fondatori del celebre Fuori! a Torino, prima associazione italiana del movimento di liberazione omosessuale italiano.  Convinto assertore di una rivoluzione gay in chiave marxista, si allontanò dal Fuori! insieme a tutta la cellula milanese dell'associazione quando questa si legò al Partito Radicale.  Nello stesso anno fondò a Milano i Collettivi Omosessuali Milanesi e i Collettivi parteciparono al Festival del proletariato giovanile di Parco Lambro, dove Mieli lanciò dal palco lo slogan Lotta dura, Contronatura!. Si laureò in filosofia morale con una tesi, poi pubblicata con modifiche, da Einaudi con il titolo di Elementi di critica omosessuale e che divenne un fondamento delle teorie di genere in Italia e, in misura minore, all'estero, venendo tradotto e pubblicato in inglese nel 1980 con il titolo Homosexuality and liberation: elements of a gay critique ed in spagnolo con il titolo Elementos de crítica homosexual dall'editrice Anagrama. Elementi fu uno dei testi base dei collettivi autonomi gay.  M. fu uno dei primi a contestare apertamente le categorie di genere vestendosi quasi sempre con abiti femminili. Nel frattempo si dedicava al teatro, destando scandalo nella mentalità dell'epoca con opere come lo spettacolo La Traviata Norma. Ovvero: Vaffanculo... ebbene sì! Dava volutamente scandalo anche per il modo in cui si presentava, utilizzò anche immagini e ruoli per portare avanti la propria battaglia dei diritti individuali inalienabili. Nel corso della sua esistenza, cercò di superare i limiti, fece uso di droghe e si dette a pratiche sempre più estreme, inclusa la coprofagia.  Durante un viaggio a Londra, Mieli, vicino già all'antipsichiatria, iniziò a interessarsi di psicoanalisi; fu nuovamente arrestato, quando, semi-nudo e in preda a una crisi psichica, fu fermato nell'aeroporto di Heathrow, in cerca di un poliziotto con cui avere un rapporto sessuale. Prima venne incarcerato, poi messo nella sezione psichiatrica del Marlborough Day hospital, assistito dai familiari venuti dall'Italia in attesa del processo. Venne ricondotto a Milano, dopo la condanna a pagare una multa, e ricoverato in una clinica psichiatrica per un mese. Una volta dimesso, su consiglio del suo psicoanalista Zapparoli, i genitori gli diedero un appartamento autonomo. L'anno seguente viaggiò ad Amsterdam e di nuovo a Londra e si laurea con lode in filosofia. Poco dopo lasciò l'appartamento che gli avevano trovato e interruppe la terapia psichiatrica.  Al V congresso del Fuori!, che sancì la sua rottura col movimento e con Pezzana, M. prese la parola, si dichiarò transessuale e parlò della sua esperienza di malattia mentale («sono stato definito uno schizofrenico paranoide, sono stato in ospedale, in manicomio per questo motivo») e di omosessualità. Dopo questo periodo si dedicò alla stesura degli Elementi di critica omosessuale.  Negli ultimi anni di vita si dedicò all'esoterismo e all'alchimia, abbastanza isolato dal resto del movimento omosessuale, e lavorando al romanzo Il risveglio dei faraoni. Morì suicida infilando la testa nel forno della sua abitazione di Milano dopo un lungo periodo di depressione. Tra i motivi del suo gesto estremo fu l'ostruzionismo che il padre, influente industriale milanese, aveva fatto per impedire la pubblicazione della sua ultima opera, Il risveglio dei faraoni, ritenendolo troppo autobiografico e lesivo dell'onore famigliare. A lui è intitolato il Circolo di cultura omosessuale M. sorto a Roma nello stesso anno della morte.  Il pensiero Il transessualismo universale Il pensiero di M. consiste nel ritenere che ogni persona è potenzialmente transessuale se non fosse condizionata, fin dall'infanzia, da un certo tipo di società che, attraverso quella che Mieli chiamava "educastrazione", costringe a considerare l'eterosessualità come normalità e tutto il resto come perversione. Per transessualità, non intende quello che si intende oggi nella comune accezione del termine, ma l'innata tendenza polimorfa e "perversa" dell'uomo, caratterizzata da una pluralità delle tendenze dell'Eros e da l'ermafroditismo originario e profondo di ogni individuo.  La liberazione omosessuale in chiave marxista fu tra i primi studiosi ed attivisti del Movimento di Liberazione Omosessuale Italiano, accanto a Castellano,Consoli, Modugno e  Pezzana. Tutti partivano dalla certezza che la liberazione dall'ancestrale omofobia dovesse fondarsi sulla consapevolezza della propria identità, censurata fin dalla nascita dalla cultura dominante, da loro ritenuta antropologicamente sessuofoba e pervicacemente omofoba.  Da queste basi partivano per abbattere la discriminazione pluri-secolare nei confronti di chi non si identificava nella sessualità assiomaticamente definita come naturale e normale. Abbracciò immediatamente il marxismo, cercando di rimodularlo sulle istanze della lotta di liberazione ed emancipazione omosessuale e ritenendo la società capitalista intrinsecamente omofoba. Rilettura della psicanalisi Negli Elementi di critica omosessuale, volle rielaborare alcuni degli spunti teorici della teoria della sessualità di Freud, attraverso la lettura che, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, ne aveva fatto  Marcuse. Marcuse, infatti, in opere come “Eros e civiltà e L'uomo a una dimensione aveva voluto fondere marxismo e psicanalisi. Fu proprio Freud, infatti, a sostenere che l'orientamento sessuale poteva prendere qualsiasi "direzione", riconducendo eterosessualità e "omosessualità a semplici varianti della sessualità umana in senso lato. Una non escluderebbe l'altra, e anzi, in potenza, tutti saremmo pluri-sessuali, "polimorfi" o, più semplicemente, bi-sessuali.  In base a questa riflessione, riteneva che si dovesse denunciare come assurda e inconsistente l'opposizione ideologica "eterosessuale" vs "omosessuale", essendo viziato il principio stesso di "mono-sessualità". A questa prospettiva unilaterale, che riteneva incapace di cogliere la natura ambivalente e dinamica della dimensione sessuale, M. ha preferito opporre un principio di eros libero, molteplice e polimorfo. Per Mieli era tragicamente ridicola «la stragrande maggioranza delle persone, nelle loro divise mostruose da maschio o da "donna.” Se il travestito appare ridicolo a chi lo incontra, tristemente ridicolissima è per il travestito la nudità di chi gli rida in faccia». Dean, psicoanalista dell'Buffalo, che redasse l'appendice dell'edizione Feltrinelli di Elementi di critica omosessuale, afferma: «Nel processo politico di ristrutturazione della società, M. non esita a includere nel suo elenco di esperienze redentive la pedofilia, la necrofilia e la coprofagia» e «ridefinisce drasticamente il comunismo descrivendolo come riscoperta dei corpi. In questa comunicazione alla Bataille di forme materiali, la corporeità umana entra liberamente in relazioni egualitarie multiple con tutti gli esseri della terra, inclusi "i bambini e i nuovi arrivati di ogni tipo, corpi defunti, animali, piante, cose" annullando "democraticamente" ogni differenza non solo tra gli esseri umani ma anche tra le specie».  A questa rivoluzione sociale sono di ostacolo determinati elementi, ritenuti da Mieli come «pregiudizi di certa canaglia reazionaria» che, trasmessi con l'educazione, hanno la colpa di «trasformare troppo precocemente il bambino in adulto eterosessuale».  Il tema della pedofilia Da provocatore dei "benpensanti", quale è stato tutta la breve vita, facendo esplicitamente riferimento a Freud, M. affrontò a modo suo anche il tema della sessualità infantile, per questo andando incontro a forti critiche. I bambini, secondo il pensiero di Mieli, potevano "liberarsi" dai pregiudizi sociali e trovare la realizzazione della loro "perversità poliforme" grazie ad adulti consapevoli di quanto sopra asserito: «Noi checche rivoluzionarie sappiamo vedere nel bambino non tanto l'Edipo, o il futuro Edipo, bensì l'essere umano potenzialmente libero. Noi, sì, possiamo amare i bambini. Possiamo desiderarli eroticamente rispondendo alla loro voglia di Eros, possiamo cogliere a viso e a braccia aperte la sensualità inebriante che profondono, possiamo fare l'amore con loro. Per questo la pederastia è tanto duramente condannata. Essa rivolge messaggi amorosi al bambino che la società invece, tramite la famiglia, traumatizza, educastra, nega, calando sul suo erotismo la griglia edipica. La società repressiva eterosessuale costringe il bambino al periodo di latenza; ma il periodo di latenza non è che l’introduzione mortifera all’ergastolo di una «vita» latente. La pederastia, invece, «è una freccia di libidine scagliata verso il feto» (Francesco Ascoli)»  (Elementi di critica omosessuale). Nella nota 88 si legge:  «Per pederastia intendo il desiderio erotico degli adulti per i bambini (di entrambi i sessi) e i rapporti sessuali tra adulti e bambini. Pederastia (in senso proprio) e pedofilia vengono comunemente usati come sinonimi» (Elementi di critica omosessuale). Il tema dell'alterazione psichica, della follia Mieli faceva uso di sostanze stupefacenti, attraverso le quali mirava a superare lo stato di normalità in cui riteneva le persone intrappolate. Riteneva che nevrosi, follia, paranoia, delirio e, soprattutto, la schizofrenia, al pari dell'omosessualità fossero caratteristiche latenti in tutti gli esseri umani e, con riferimento a Jung, che tali condizioni permettessero «la (ri)scoperta di quella parte di noi che Jung definirebbe “Anima” oppure “Animus”». In riferimento all'omosessualità, considerava che potesse essere una porta verso il lato inesplorato della personalità, in analogia con la follia: “La paura dell’omosessualità che distingue l’homo normalis è anche terrore della “follia” (terrore di se stesso, del proprio profondo). Così, la liberazione omosessuale si pone davvero come ponte verso una dimensione decisamente altra: i francesi, che chiamano folles le checche, non esagerano».  Opere: “Comune futura,” “Elementi di critica omosessuale, Einaudi, Torino, Elementi di critica omosessuale, Barilli e M., Feltrinelli, Milano,  Elementi di critica omosessuale, G. Barilli e Paola Mieli, Feltrinelli, Milano, “Il risveglio dei faraoni,” preservato da Marc de' Pasquali e Umberto Pasti, Cooperativa Colibri, Milano, “Il risveglio dei faraoni,” Alfonso Sarrio Solidago, dR, Milano,  “Oro, eros e armonia,” G. Silvestri e A.Veneziani, Edizioni Croce, Oro, eros e armonia, Gianpaolo Silvestri e Antonio Veneziani, Edizioni Croce,  “E adesso,” S. Laude, Clichy,  Teatro La Traviata Norma. Ovvero: Vaffanculo... ebbene sì!, Film “Gli anni amari, regia di A. Adriatico.. T.  Giartosio, Perché non possiamo non dirci: letteratura, omosessualità, mondo, Feltrinelli,  Barilli, Il movimento gay in Italia, Feltrinelli, L. Schettini, M. in Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Ideologia. Progetto omosessuale rivoluzionario, in Elementi di critica omosessuale, Dizionario Biografico degli Italiani, in Treccani, Trascrizione del suo intervento in congresso nazionale del “Fuori!”, in Fuori! rancobuffoni/ files/pdf/gp_leonardi_mieli.pdf  M., artista contro la violenza, in La Stampa,  Elementi di critica omosessuale, Einaudi, M. Elementi di critica omosessuale. Milano, Einaudi, Estremo e dimenticato. Storia di un intellettuale provocatore., in Treccani Il tascabile, M., Mieli, Paola. e Rossi Barilli, Gianni., Elementi di critica omosessuale Il risveglio dei Faraoni, in A. Solidago, PRIDE, Milano, dR Edizioni, Silvestri, L'ultimo M.: Oro Eros Armonia: contributi di Ivan Cattaneo e A. Veneziani, 2 ed. riveduta e corretta, Libreria Croce, De Laude, Silvia,, Mario Mieli: e adesso,  A. Pezzana. La politica del corpo. Roma, Savelli, E. Modugno. La mistificazione eterosessuale. Milano, Kaos. S. Casi. L'omosessualità e il suo doppio: il teatro di M. Rivista di sessuologia (numero speciale L'omosessualità fra identità e desiderio,Francesco Gnerre. L'eroe negato. Milano, Baldini e Castoldi, M. Philopat, Lumi di punk: la scena italiana raccontata dai protagonisti, Milano, Agenzia, Concetta D'Angeli, Teatro Talento Tenacia... Mario Mi"Atti&Sipari" Circolo di cultura omosessuale Mario Mieli Fuori! Marc de' Pasquali Movimento di liberazione omosessuale Omosessualità Queer Storia dell'omosessualità in Italia Studi di genere Teoria queer Transessualismo. Biografia, in italiano, su culturagay. Chi era M. (articolo sul  gay.tv), su gay.tv Circolo di cultura omosessuale "Mario Mieli", su mariomieli.org. Mario Mieli. Mieli. Keywords: l’uccello del paradiso; overo, la lingua perduta del desiderio. Refs. Luigi Speranza, “Grice e Mieli” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Miglio: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale -- implicatura ligure – la LIGVRIA e la PADANIA – la scuola di Como – filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Como). Filosofo Lombardo. Filosofo italiano. Como, Lombardia. Grice: “Berlin, who thought was a philosopher, ended up lecturing on the history of ideas, i..e. ideology – M. defines ideology so simply that would put Berlin to shame: an ideology is what politicians propagate to reach or buy consensus!” --  essential Italian philosopher. Sostenitore della trasformazione dello Stato italiano in senso federale o, addirittura, confederale, fra gli anni ottanta e i novanta è considerato l'ideologo della Lega Lombarda, in rappresentanza della quale fu anche senatore, prima di "rompere" con Umberto Bossi dando vita alla breve stagione del Partito Federalista.   Polo scolastico "M." ad Adro. Costituzionalista e scienziato della politica, fu senatore della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.  Ha insegnato presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, ove fu preside della Facoltà di Scienze politiche. È stato allievo d’Entrèves e Pallieri, sotto la cui docenza si è formato sui classici del pensiero giuridico e politologico.  Colpito da ictusnon si riprese e morì ottantatreenne nella sua stessa città natale, Como, circa un anno dopo. Il funerale si tenne a Domaso, sul Lago di Como, comune d'origine del padre e sede di una villa nella quale il professore si rifugiava spesso; in seguito M. è stato tumulato nel locale cimitero, a fianco dei membri della sua famiglia. Laureatosi in Giurisprudenza all'Università Cattolica con la tesi, “Origini e i primi sviluppi delle dottrine giuridiche internazionali pubbliche nell'età moderna”, evitò l'arruolamento per la Seconda guerra mondiale a causa di un difetto uditivo congenito, e poté divenire assistente volontario alla cattedra di Storia delle dottrine politiche, che d'Entreves tenne sino alla fine degli anni quaranta nella medesima università.  Libero docente, si dedicò negli anni cinquanta allo studio delle opere di storici e giuristi, soprattutto tedeschi: dai quattro volumi del Deutsche Genossenschaftsrecht di Gierke, ai saggi di storia amministrativa di Otto Hintze, alcuni dei quali, negli anni seguenti, vennero tradotti in italiano dal suo allievo e ferrato germanista  Schiera (O. Hintze, Stato e società, Zanichelli).  Fu di quegli anni l'incontro di M. con l'immensa produzione scientifica di Weber: il professore comasco fu uno dei primi ad aver studiato a fondo “Economia e Società”, l'opera più importante del sociologo tedesco che era stata completamente trascurata in Italia.  Sviluppo del lavoro scientifico Miglio storico dell'amministrazione Alla fine degli anni cinquanta, M. fonda con il giurista Benvenuti l'ISAP Milano (Istituto per la Scienza dell'Amministrazione Pubblica), ente pubblico partecipato da Comune e Provincia di Milano, di cui ricopri per alcuni anni la carica di vicedirettore. In un saggio memorabile intitolato Le origini della scienza dell'amministrazione, il professore comasco descriveva con elegante chiarezza le radici storiche della disciplina. L'interesse per il campo dell'amministrazione era dovuto in quegli anni alle politiche pianificatrici che gli stati andavano conducendo per l'incremento della crescita economica.  La Fondazione italiana per la storia amministrativa Ben presto M. sente tuttavia l'esigenza di studiare in modo più sistematico la storia dei poteri pubblici europei e, negli anni sessanta, costituì la Fondazione italiana per la storia amministrativa: un istituto le cui ricerche vennero condotte con rigoroso metodo scientifico. A tal proposito, il professore aveva appositamente preparato per i collaboratori della fondazione uno schema di istruzioni divenuto famoso per chiarezza e organicità. In realtà, fondando la F.I.S.A. M. si era posto l'ambizioso obiettivo di scrivere una storia costituzionale che prendesse in esame le amministrazioni pubbliche esistite in luoghi e tempi diversi: in tal modo egli sarebbe riuscito a tracciare una vera e propria tipologia delle istituzioni dal medioevo all'età contemporanea, al cui interno sarebbero stati indicati i tratti distintivi o, viceversa, gli elementi comuni di ogni potere pubblico. Ma v'era un'altra ragione che aveva indotto M. a studiare i poteri pubblici in un'ottica, come scriveva lui stesso, analogico-comparativa. Servendosi di un metodo scientifico che Hintze aveva parzialmente seguito nella prima metà del Novecento, il professore comasco intendeva definire l'evoluzione storica dello stato moderno, storicizzando in tal modo le stesse istituzioni contemporanee.  La fondazione pubblica tre collezioni: gli Acta italica, l'Archivio (diviso in due collane: la prima riguardante ricerche e opere strumentali, la seconda dedicata alle opere dei maggiori storici dell'amministrazione) e gli Annali. Tra i più autorevoli lavori storici pubblicati nell'Archivio, si ricordano il volume sui comuni italiani di Goetz e il famoso saggio di Vaccari sulla territorialità del contado medievale. Nella prima serie alcuni giovani studiosi poterono invece pubblicare le loro ricerche di storia delle istituzioni: Rossetti, allieva dello storico Violante, vi diede alle stampe un approfondito studio sulla società e sulle istituzioni nella Cologno Monzese dell'Alto Medioevo; Petracchi pubblicò la prima parte di un'interessante ricerca sullo sviluppo storico dell'istituto dell'intendente nella Francia dell'ancien régime; occorre inoltre ricordare il poderoso volume di Pierangelo Schiera sul cameralismo tedesco e sull'assolutismo nei maggiori stati germanici. Su tutt'altro piano si poneva invece la collezione della F.I.S.A. denominata Acta italica: al suo interno dovevano essere pubblicati i documenti relativi all'amministrazione pubblica degli stati italiani preunitari: è probabile che l'ispirazione per quest'ultima serie fosse venuta a M. dallo studio delle opere di Hintze: lo storico tedesco aveva infatti scritto alcuni saggi sull'amministrazione prussiana pubblicandoli negli Acta borussica, un'autorevole collana che raccoglieva le fonti storiche dello stato degli Hohenzollern.  L'edizione dei lavori della commissione Giulini Tra i volumi degli Acta italica, occorre ricordare l'edizione dei lavori della Commissione Giulini curata da Raponi uno studio cui M. tenne molto e di cui si servì, molti anni dopo, per la stesura del celebre saggio su “Vocazione e destino dei lombardi” (in  La Lombardia moderna, Electa, ripubblicato in Miglio, Io, Bossi e la Lega, Mondadori). La commissionei cui lavori avevano avuto luogo a Torino sotto la presidenza del nobile milanese Cesare Giulini della Portaaveva il compito di elaborare progetti di legge che sarebbero entrati in vigore in Lombardia nel periodo immediatamente successivo alla guerra. Cavour, che in quegli anni ricopriva la carica di primo ministro, voleva che il governo, nel sancire l'annessione dei nuovi territori al Piemonte di Vittorio Emanuele, mantenesse separati gli ordinamenti amministrativi delle due regioni, lasciando che in Lombardia continuassero a sussistere una parte delle istituzioni austriache esistenti.  Il saggio Le contraddizioni dello stato unitario Nel saggio magistrale Le contraddizioni dello stato unitario scritto in occasione del convegno per il centenario delle leggi di unificazione, M. prese in esame gli effetti devastanti che l'accentramento amministrativo aveva provocato nel sistema politico italiano. La classe politica italiana non fu capace di elaborare un ordinamento amministrativo che consentisse allo stato di governare adeguatamente un territorio esteso dalle Alpi alla Sicilia. Ricorrendo a una felice similitudine, il professore scrisse che la scelta di estendere le norme piemontesi a tutta Italia fu come "far indossare a un gigante il vestito di un nano". Secondo M., i nostri "padri della patria", spaventati dalle annessioni a cascata e dalle circostanze fortunose in cui era avvenuta l'unificazione, preferirono conservare ottusamente gli istituti piemontesi, costringendo la stragrande maggioranza degli italiani ad essere governati da istituzioni che, oltre ad essere percepite come "straniere", si rivelarono palesemente inefficienti.  Nel saggio, M. ha però messo in luce un altro dato fondamentale; il professore scrisse che il paese, quantunque fosse stato formalmente unito dalle norme piemontesi, continuò nei fatti a restare diviso ancora per molti anni: le leggi, che il Parlamento emanava dalle Alpi alla Sicilia, venivano infatti interpretate in cento modi diversi nelle regioni storiche in cui il Paese continuava, nonostante tutto, ad essere naturalmente articolato. Era il federalismo che, negato alla radice dalla classe politica liberal-nazionale in nome dell'unità, si prendeva ora la rivincita traducendosi in forme evidenti di "criptofederalismo".[senza fonte]  Sono inoltre fondamentali, nella sua formazione i saggi di Brunner. Di Brunner fa tradurre svariati saggi, Per una nuova storia costituzionale e sociale (Vita e Pensiero), ma promosse anche la pubblicazione dell'opera monumentale Land und Herrschaft: in questo lavorouscito per la prima volta Brunner aveva preso in esame la costituzione materiale degli ordinamenti medievali, ponendo in evidenza i numerosi elementi di diversità tra la civiltà dell'età di mezzo e quella moderna, soprattutto nel modo di concepire il diritto.  La traduzione di Land und Herrschaft, affidata inizialmente alle cure di Emilio Bussi, sarebbe dovuta comparire nell'elegante collana della F.I.S.A. già negli anni sessanta. Interrotto negli anni seguenti, il lavoro venne invece portato a compimento solo nei primi anni ottanta dagli allievi Schiera e Nobili. Pubblicato da Giuffré con il titolo di "Terra e potere", il capolavoro di Brunner apparve negli Arcana imperii, la collana di scienza della politica di cui M. era divenuto direttore. Il professore comasco si occupò inoltre dei contributi recati alla scienza dell'amministrazione da parte di altri due storici e giuristi tedeschi: Stein e Gneist.  La chiusura della FISA Negli anni Settanta la F.I.S.A. dovette chiudere i battenti per mancanza di fondi. Il professor M., ricordando a distanza di tempo la fine di quell'autorevole collana di storia delle istituzioni, ne espose le ragioni con un breve commento: "Malgrado la sua efficienza, la F.I.S.A. ebbe vita breve: gli enti che provvedevano al suo finanziamento, non scorgendo l'utilità politica immediata della sua attività, strinsero i cordoni della borsa.  M. scienziato della politica e costituzionalista Negli anni ottanta, il degenerarsi del clima politico in Italia indusse il professor M. ad occuparsi di riforme istituzionali; egli intendeva contribuire in tal modo alla modernizzazione del paese. Fu così che, raggruppando un gruppo di esperti di diritto costituzionale e amministrativo stese un organico progetto di riforma limitato alla seconda parte della costituzione. Ne uscirono due volumi che, pubblicati nella collana Arcana imperii, vennero completamente trascurati dalla classe politica democristiana e socialista. Tra le proposte più interessanti avanzate dal "Gruppo di Milano"così venne definito il pool di professori coordinati da M. v'era il rafforzamento del governo guidato da un primo ministro dotato di maggiori poteri, la fine del bicameralismo perfetto con l'istituzione di un senato delle regioni sul modello del Bundesrat tedesco, ed infine l'elezione diretta del primo ministro da tenersi contemporaneamente a quella per la camera dei deputati.  Secondo il gruppo di Milano, queste e numerose altre riforme avrebbero garantito all'Italia una maggiore stabilità politica, cancellando lo strapotere dei partiti e salvaguardando la separazione dei poteri propria di uno stato di diritto. Diversamente dalla F.I.S.A., la collana Arcana imperii era incentrata esclusivamente sullo studio scientifico dei comportamenti politici. Il citato volume di Brunner costituì pertanto un'eccezione perché, come si è avuto modo di accennare, esso doveva essere pubblicato negli eleganti volumi della F.I.S.A. All'interno della collana Arcana imperii vennero invece inseriti saggi e contributi di psicologia politica, di etologia, di teoria politica, di economia, di sociologia e di storia. Intende costituire un vero e proprio laboratorio dove lo scienziato della politica, servendosi dei risultati portati alla disciplina dalle diverse scienze sperimentali, e in grado di conseguire una formazione che si ponesse all'avanguardia. Vi vennero pubblicati più di trenta saggi. Si ricordano, tra gli altri: il saggio di Ornaghi sulla dottrina della corporazione nel ventennio fascista, l'edizione degli scritti schmittiani su Hobbes, la pubblicazione interrotta di alcune opere di Stein, il trattato di diritto costituzionale di Smend. Degni di nota anche i saggi di Mises e Hayek. I saggi di squisita fattura, non poterono tuttavia eguagliare l'elegante veste tipografica di quelli pubblicati dalla F.I.S.A., ed un identico destino parve accomunare le due collane: anche in questo caso, e infatti costretto a sospendere le pubblicazioni.  Alla sua formazione contribuirono i saggi di Stein e Schmitt sulle categorie del politico. In ogni comunità sono presenti due realtà irriducibili: lo “stato” e la “società”. La società è il terreno della libera iniziativa, ove gli uomini forti vincono sui deboli e tentano di stabilizzare le loro posizioni attraverso l'ordinamento giuridico. Lo stato è invece il luogo ove regna il principio di uguaglianza. Lo stato italiano o non può che identificarsi con la monarchia. Il re d’Italia è infatti l'unica autorità in grado di intervenire a sostegno dei più deboli. Un monarca, attraverso il potere di ordinanza, e in grado di modificare la costituzioni giuridiche cetuali all'interno del suo territorio, una politica che il re d’Italia puo condurre in porto non senza grosse difficoltà, a vantaggio del BENE COMUNE. Questo e accaduto nel granducato di Toscana e in Lombardia. Quando si sostene che il ruolo dello stato italiano dove contro-bilanciare quello della società, si ha in mente il riformismo illuminato. Ma la sua filosofia si pone all'interno di uno “stato liberale” e parte dal presupposto che la monarchia, lungi dall'essere un potere assoluto, dove comunque fare i conti con il potere della “società” attestato nel parlamento. La omunità prospera solo quando stato e società sono in equilibrio, ugualmente vitali ed operanti. Una comunità e dominata da due realtà irriducibili. Lo stato italiano è una realtà storica inserita nel tempo e, come tutte le creature e specie viventi, destinata a decadere, a scomparire ed essere sostituita da altre forme di aggregazione politica. La società non e solo economico-giuridica. E senza dubbio decisivo l'incontro con Schmitt, i cui saggi sono trascurate dagli intellettuali italiani. L'aiuto che Schmitt presta al regime hitleriano, in particolare nel sostenere la legalità delle leggi razziali in un sistema di diritto internazionale, sono più che sufficienti per oscurare in Italia la sua imponente produzione. I rapporti di Schmitt con il nazismo sono di breve durata. Prende definitivamente le distanze da Hitler. Di Schmitt apprezza i saggi di scienza politica e di diritto internazionale. Cura assieme a Schiera l'edizione italiana di alcuni saggi pubblicati dal Mulino con il titolo Le categorie del politico. Nella prefazione, si sofferma sui decisivi contributi portati da Schmitt alla scienza politologica. L'antologia desta scalpore nel mondo accademico. Bobbio sostenne che destabilizza la sinistra italiana. È dall'incontro con la produzione di Schmitt che riusce quindi a fabbricarsi gli strumenti per costruire una parte importante del suo modello sociologico. L’essenza del politico è fondata sul conflitto tra amico e nemico. E uno scontro all'ultimo sangue perché la guerra politica porta normalmente all'eliminazione fisica dell'avversario. L’esempio più emblematico di scontro politico fosse la guerra civile nella storia dell aroma antica -- tra fazioni partigiane. Qui il tasso di conflittualità tra amico (Catone) e nemico (Giulio Cesare) è sempre stato altissimo. Chi ha lo stesso amico non può che avere lo stessi nemico del proprio compagno di lotta. Si crea la solidarietà tra due membri (un gruppo) che è decisivo nella guerra contro l’altro gruppo di nemici. Il rapporto politico è sempre esclusivo. Marca l'identità del gruppo in opposizione a quella degli altri. L’avvento dello stato italiano portato a due risultati di eccezionale portata storica. Primo: la fine della guerre civile all'interno del territorio (le faide e le guerre confessionali) con l'annientamento del ruolo politico detenuto sino a quel momento dalle fazioni in lotta (dai partiti confessionali ai ceti). Da quel momento il sovrano e il supremo garante dell'ordine all'interno dello stato, territorio sempre più esteso ch'esso governa servendosi di un apparato amministrativo regolato dal diritto. Il secondo grande risultato e per certi versi una conseguenza del primo: l'avvento dello stato porta all'erezione di un sistema di diritto pubblico europeo (ius publicum europeum) assolutamente vincolante per i paesi che vi aderirono. Anche in questo caso, il tasso di politicità (cioè l'aggressività delle parti in lotta, gli stati) venne fortemente limitato. La guerra legittima, intraprese solo dagli stati, vennero condotte da quel momento in base alle regole dello ius publicum europaeum. Si tratta quindi di un conflitto a basso tasso di politicità, non foss'altro perché la vittoria di una delle parti in lotta non puo portare in alcun modo all'annientamento dell'avversario, il cui diritto di esistenza era tutelato dal diritto e accettato da tutti gli stati.  La crisi dello ius publicum europaeum, divenuta palese alla fine della Grande Guerrae acuitasi ulteriormente con lo scoppio delle guerre partigiane nei decenni successivi, resero palese a lui la fine della regle de droit su cui si e fondato l'universo giuridico occidentale nei rapporti internazionali tra stati sovrani. La guerra civile e, in modo particolare, l'estrema politicizzazione avvenuta durante le guerre mondiali con la criminalizzazione degli avversari lo persuasero che la fine dello ius publicum europaeum era ormai compiuta. In questo, vide soprattutto il fallimento della civiltà giuridica occidentale nel suo supremo tentativo di fondare i rapporti umani unicamente sulle basi del diritto.  Prende atto della fine dello ius publicum europaeum ma non crede che tale processo segna la fine del diritto e la vittoria definitiva delle leggi aggressive della politica. Fondando il suo originale modello sociologico, sostenne che la comunità e sempre rette su due tipi di rapporti: l'obbligazione politica e il contratto-scambio. Lo stato e un autentico capolavoro perché, apportando un contributo decisivo alla sua costituzione, il giurista e riuscioi a regolare la politica inserendola in una norma fondata sulla RAZIONALITA del diritto, sull'IM-PERSONALINTA del comando e sui concetti di CON-TRATTO e rappresentanza -- elementi appartenenti alla sfera del contratto/scambio. Il crollo dello ius publicum europeum ha però messo in crisi la stessa impalcatura su cui si regge lo stato, che ora dimostra tutta la sua storicità. Non rimane legato all'idea dell'organizzazione statale. La civiltà occidentale, stesse attraversando una fase di transizione al termine della quale lo stato e probabilmente sostituito da altre forme di comunità ove obbligazione politica e contratto/scambio si reggeranno in un nuovo equilibrio. Lo stato e e giunto al capolinea. Il progresso tecnologico e, in modo particolare, il più alto livello di ricchezza cui erano giunti i paesi occidentali lo convinsero che negli anni successivi sono avvenuti cambiamenti di portata radicale, tali da coinvolgere anche la costituzione degli ordinamenti politici. Lo stato ha difficoltà nel garantire servizi efficienti alla popolazione. Ciascun cittadino, vedendo accresciuto il proprio tenore di vita in forza dell'economia di mercato, sarà infatti portato ad avere sempre meno fiducia nei lenti meccanismi della burocrazia pubblica, ch'egli riterrà inadeguata a soddisfare i suoi standard di vita.  L'elevata produttività dei paesi avanzati e la vittoria definitiva dell'economia di mercato su quella pubblica porterà in altri termini a nuove forme di aggregazione politica al cui interno i cittadini saranno desti contare in misura molto maggiore rispetto a quanto non lo siano oggi nei vasti stati in cui si trovano inseriti. Secondo il professore gli stati democratici, ancora fondati su istituti rappresentativi risalenti all'Ottocento, non riusciranno più a provvedere agli interessi della civiltà tecnologica. Con il crollo del muro di Berlino e la fine della guerra fredda, si creano in altri termini le premesse perché la politica cessi di ricoprire un ruolo primario nelle comunità umane e venga invece subordinata agli interessi concreti dei cittadini, legati alla logica di mercato.  La fine degli stati moderni porterà secondo Miglio alla costituzione di comunità neofederali dominate non più dal rapporto politico di comando-obbedienza, bensì da quello mercantile del contratto e della mediazione continua tra centri di potere diversi: sono i nuovi gruppi in cui sarà articolato il mondo di domani, corporazioni dotate di potere politico ed economico al cui interno saranno inseriti gruppi di cittadini accomunati dagli stessi interessi. Secondo il professore, il mondo sarà costituito da una società pluricentrica, ove le associazioni territoriali e categoriali vedranno riconosciuto giuridicamente il loro peso politico non diversamente da quanto avveniva nel medioevo. Di qui l'appello a riscoprire i sistemi politici anteriori allo stato, a riscoprire quel variegato mosaico medievale costituito dai diritti dei ceti, delle corporazioni e, in particolar modo, delle libere città germaniche.  Il professore studiò a fondo gli antichi sistemi federali esistiti tra il medioevo e l'età moderna: le repubbliche urbane dell'Europa germanica, gli ordinamenti elvetici d'antico regime, la Repubblica delle Province Unite e, da ultimo, gli Stati Uniti. Ai suoi occhi, il punto di forza risiedeva precisamente nel ruolo che quei poteri pubblici avevano saputo riconoscere alla società nelle sue articolazioni corporative e territoriali. M. si dedica allo studio approfondito di questi temi, progettando di scrivere un volume intitolato l'Europa degli Stati contro l'Europa delle città. Il libro è rimasto incompiuto per la morte del professore.  L'impegno politico diretto e il federalism. S iscrisse alla neonata Democrazia Cristiana, che lascia quando divenne preside della Facoltà di Scienze politiche dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. M.  rimase comunque legato culturalmente alla DC fnell'immediato domani della Liberazione, fu tra i fondatori, a Como, del movimento federalista Il Cisalpino, con altri docenti dell'Università Cattolica di Milano. Ispirato alle idee di Cattaneo, il programma del “Cisalpino” prevedeva la suddivisione del territorio italiano su base cantonale, secondo il modello svizzero, con la costituzione di tre grandi macro-regioni (“nord”, “sud” e “centro”).  Il suo nome e proposto per il conferimento del titolo di Commendatore dell'Ordine al Merito della Repubblica Italiana, ma una volta informato del fatto rifiuta di accettare l'onorificenza, che venne annullata con un successivo decreto presidenziale. Si avvicina alla Lega Nord. Eletto al Senato della Repubblica come indipendente nelle liste della “lega nord” “lega lombarda” (da allora a lui fu attribuito l'appellativo lombardo di Profesùr) lavora per il partito con l'intento di farne un'autentica forza di cambiamento. Elabora un progetto di riforma federale fondato sul ruolo costituzionale assegnato all'autorità federale e a quella delle tre macro-regioni o cantoni (del Nord o, “Padania”, del Centro o Etruria, del Sud o Mediterranea, oltre alle cinque regioni a statuto speciale). Questa architettura costituzionale prevedeva l'elezione di un governo direttoriale composto dai governatori delle tre macroregioni, da un rappresentante delle cinque regioni a statuto speciale e dal presidente federale. Quest'ultimo, eletto da tutti i cittadini in due tornate elettorali, avrebbe rappresentato l'unità del paese.  I puntisalienti del progetto, esposti nel decalogo di Assago vennero fatti propri dalla Lega Nord solo marginalmente: il segretario federale, Bossi, preferì infatti seguire una politica di contrattazione con lo stato centrale che mirasse al rafforzamento delle autonomie regionali. Il dissenso di Miglio, iniziato al congresso leghista di Assago, si acuì dopo le elezioni politiche, dove fu rieletto al Senato, quando il professore si disse non d'accordo sia ad allearsi con Forza Italia, sia a entrare nel primo governo Berlusconi. Soprattutto M. non gradì che per il ruolo di ministro delle Riforme istituzionali fosse stato scelto Francesco Speroni al suo posto.  Bossi reagì spiegando: «Capisco che Miglio sia rimasto un po' irritato perché non è diventato ministro, ma non si può dire che non abbiamo difeso la sua candidatura. Il punto è che era molto difficile sostenerla, perché c'era la pregiudiziale di Berlusconi e di Fini contro di lui. Di fatto, il ministero per le Riforme istituzionali a lui non lo davano. (Se M. vorrà lasciare la strada della Lega, libero di farlo. Ma vorrei ricordargli che è arrivato alla Lega e che, a quell'epoca, il movimento aveva già raggranellato un sacco di consiglieri regionali». In conclusione per Bossi, M. «pare che ponga solo un problema di poltrone e la difesa del federalismo non è questione di poltrone. In aperto dissidio con Bossi, lascia la Lega Nord dicendo di Bossi. Spero proprio di non rivederlo più. Per Bossi il federalismo è stato strumentale alla conquista e al mantenimento del potere. L'ultimo suo exploit è stato di essere riuscito a strappare a Berlusconi cinque ministri. Tornerò solo nel giorno in cui Bossi non sarà più segretario.  Nonostante ciò, moltissimi militanti e sostenitori leghisti continuarono a provare grande simpatia e ammirazione per il professore e per le sue teorie. Alcuni dirigenti della Lega tennero comunque vivo il dialogo con Miglio, in particolar modo Pagliarini, Francesco Speroni e il presidente della Libera compagnia padana Oneto, al quale il professore era particolarmente legato. In particolare M. fu in stretti rapporti con l'ex deputato leghista Negri, col quale fonda il Partito Federalista. Eletto ancora una volta al Senato, nel collegio di Como per il Polo per le Libertà, iscrivendosi al gruppo misto.  Negli anni in cui la Lega si spostò su posizioni indipendentiste, il professore si riavvicinò alla linea del partito, sostenendo a più riprese la piena legittimità del diritto di secessione della Padania dall'Italia come sottospecie del più antico diritto di resistenza medievale. Nella sua originale riflessione sul contrasto tra i regimi giuridici freddi e caldi M. sostenne la necessità di sviluppare, all'interno delle diverse società e culture, ordini giuridici in grado di rispondere alle specifiche esigenze. In maniera provocatoria, egli giunse a dichiararsi favorevole al «mantenimento anche della mafia e della 'ndrangheta. Il Sud deve darsi uno statuto poggiante sulla personalità del comando. Che cos'è la mafia? Potere personale, spinto fino al delitto. Io non voglio ridurre il Meridione al modello europeo, sarebbe un'assurdità. C'è anche un clientelismo buono che determina crescita economica. Insomma, bisogna partire dal concetto che alcune manifestazioni tipiche del Sud hanno bisogno di essere costituzionalizzate». La sua riflessione puntava a cogliere quali fossero le ragioni profonde alla base di mafia, camorra e 'ndrangheta (insieme a ciò che genera il consenso attorno a queste organizzazioni criminali), perché solo istituzioni che sono in sintonia con la comunitànel caso specifico, che non dimentichino la centralità del rapporto personale piuttosto che impersonale nella società meridionalepossono creare una vera alternativa al presente. Altre saggi: “La controversia sui limiti del commercio neutrale: ricerche sulla genesi dell'indirizzo positivo nella scienza del diritto delle genti,” Milano, Ispi, La crisi dell'universalismo politico medioevale e la formazione ideologica del particolarismo statuale moderno, Pubbl. Fac. giurispr. Univ. Padova, La struttura ideologica della monarchia greca arcaica ed il concetto patrimoniale dello stato nell'eta antica, Jus. Rivista di scienze giuridiche, Le origini della scienza dell'amministrazione, Milano, Giuffrè,  L'unità fondamentale di svolgimento dell'esperienza politica occidentale, in: "Rivista internazionale di scienze sociali", “I cattolici di fronte all'unità d'Italia, Vita e pensiero, “L'amministrazione nella dinamica storica, in: Istituto per la Scienza dell'Amministrazione Pubblica, Storia Amministrazione Costituzione, Bologna, Mulino, Le trasformazioni dell'attuale regime politico, in: "Jus. Rivista di scienze giuridiche", “ Il ruolo del partito nella trasformazione del tipo di ordinamento politico vigente. Il punto di vista della scienza della politica, Milano, La nuova Europa editrice, L'unificazione amministrativa e i suoi protagonisti, Vicenza, Neri Pozza, La trasformazione delle università e l'iniziativa privata, in: Atti del I Convegno su: Università: problemi e proposte, promosso dal Rotary Club di Milano, Centro Una Costituzione in corto circuito, Prospettive nel mondo", Ricominciare dalla montagna. Tre rapporti sul governo dell'area alpina nell'avanzata eta industriale, Milano, Giuffrè,  La Valtellina. Un modello possibile di integrazione economica e sociale, Sondrio, Banca Piccolo Credito Valtellinese, Utopia e realtà della Costituzione, in "Prospettive del mondo", Posizione del problema. Ciclo storico e innovazione scientifico-tecnologica. Il caso della tarda antichità, in Tecnologia, economia e società nel mondo romano. Atti del Convegno di Como, Como, Genesi e trasformazioni del termine-concetto Stato, in Stato e senso dello Stato oggi in Italia. Atti del Corso di aggiornamento culturale dell'Università cattolica, Pescara, Milano, Vita e pensiero, Guerra, pace, diritto. Una ipotesi generale sulle regolarità del ciclo politico, in Curi, Della guerra, Venezia, Arsenale, Una repubblica migliore per gli italiani. Verso una nuova costituzione, Milano, Giuffrè, Le contraddizioni interne del sistema parlamentare integrale, Rivista italiana di Scienza Politica, Considerazioni sulle responsabilità, Synesis, periodico dell'Associazione italiana centri culturali", Le regolarità della politica. Scritti scelti raccolti e pubblicati dagli allievi, Milano, Giuffrè,  Il nerbo e le briglie del potere. Scritti brevi di critica politica, Milano, Edizioni del Sole 24 ore, Una Costituzione per i prossimi trent'anni. Intervista sulla terza Repubblica, Roma-Bari, Laterza, Per un'Italia federale, Milano, Il Sole 24 ore, Come cambiare. Le mie riforme, Milano, Mondadori, Italia. Così è andata a finire, con "Il Gruppo del lunedì", Collezione Frecce, Milano, Mondadori, ed. Oscar Saggi, Disobbedienza civile,  Milano, Mondadori, Io, Bossi e la Lega. Diario segreto dei miei IV anni sul Carroccio, Milano, Mondadori, Come cambiare. Le mie riforme per la nuova Italia, Milano, Mondadori, Modello di Costituzione Federale per gli italiani, Milano, Fondazione per un'Italia Federale, Federalismi falsi e degenerati, Milano, Sperling e Kupfer, Federalismo e secessione. Un dialogo, con Barbera, Milano, Mondadori, Padania, Italia. Lo stato nazionale è soltanto in crisi o non è mai esistito?, con M. Veneziani, Firenze, Le Lettere, Le barche a remi del Lario. Da trasporto, da guerra, da pesca, e da diporto, con Gozzi e Zanoletti, Milano, Leonardo arte,  L'Asino di Buridano. Gli italiani alle prese con l'ultima occasione di cambiare il loro destino, Vicenza, Pozza, L'Asino di Buridano. Gli italiani alle prese con l'ultima occasione di cambiare il loro destino. Nuova edizione, pref. Di Formigoni, postf. di Romano, Varese, Lativa, M.: un uomo libero, coll. Quaderni Padani, La Libera Compagnia Padana, Novara, Un M. alla libertà, audiolibro, coll. Laissez Parler, Treviglio, La Libera Compagnia Padana Facco Editore); li articoli, coll. Quaderni Padani, La Libera Compagnia Padana, Novara, Gianfranco le interviste, coll. Quaderni Padani, La Libera Compagnia Padana, Novara,  L'Asino di Buridano. Gli italiani alle prese con l'ultima occasione di cambiare il loro destino, pref. di Formigoni, coll. I libri di Libero M., Firenze, Libero); “Padania, Italia. Lo stato nazionale è soltanto in crisi o non è mai esistito? Firenze, Libero; Federalismo e secessione. Un dialogo, con Barbera, coll. I libri di Libero M. Firenze, Editoriale Libero, Disobbedienza civile, coll. I libri di Libero; Firenze, Libero, La controversia sui limiti del commercio neutrale fra Lampredi e Ferdinando Galiani, pref. di Ornaghi, Torino, Aragno, M.: scritti brevi, interviste, coll. Quaderni Padani, La Libera Compagnia Padana, Novara, Lezioni di politica. Storia delle dottrine politiche. Scienza della politica Bologna, Il Mulino; Bianchi e Vitale, Bologna, Mulino,Discorsi parlamentari, con un saggio di Bonvecchio, Senato della Repubblica, Archivio storico, Bologna, Mulino,  L'Asino di Buridano. Gli italiani alle prese con l'ultima occasione di cambiare il loro destino -- Opere scelte” (Milano, Guerini); Considerazioni retrospettive e altri scritti, coll. Opere scelte, Milano, Guerini e Associati,  Lo scienziato della politica, coll. Opere scelte di M., a cura di Galli, Milano, Guerini, Guerra, pace, diritto, La Nuova Guerra, S.l. Milano, La Scuola, 1 Scritti politici, Bassani, coll. I libri del Federalismo, Roma, Pagine, Modello di Costituzione Federale per gli italiani Torino, Giappichelli; “La Padania e le grandi regioni, L'unità economico-sociale della Padania Fano, Associazione Oneto); “Il Cerchio, Schmitt. Saggi, Palano, Brescia, Scholé  Morcelliana); “Le origini e i primi sviluppi delle dottrine giuridiche internazionali pubbliche Torino, Aragno; “Vocazione e destino dei Lombardi” (S.l.Milano); “Regione Lombardia, Prefazioni Oneto, Bandiere di libertà: Simboli e vessilli dei Popoli dell'Italia settentrionale. In appendice le bandiere dei popoli europei in lotta per l'autonomia, Effedieffe, Milano, Morra, Breve storia del pensiero federalista Milano, Mondadori; Governo della Padania, Manuale di resistenza fiscale” (Gallarate, Oneto, “Croci draghi aquile e leoni. Simboli e bandiere dei popoli padano-alpini; Roberto Chiaramonte EditoreLa Libera Compagnia Padana, Collegno; Sensini, Prima o seconda Repubblica? A colloquio con Bozzi e M., Napoli, Edizioni scientifiche italiane, Ornaghi e Vitale, Multiformità e unità della politica. Atti del Convegno tenuto in occasione del compleanno, Milano, Giuffrè, Ferrari, “Storia di un giacobino nordista Milano, Liber internazionale); Bevilacqua, Insidia mito e follia nel razzismo; Il rinnovamento, Campi, “Figure e temi del realismo politico europeo, Firenze, Akropolis La Roccia di Erec, Capua, Scienziato impolitico Soveria Mannelli Catanzaro Rubbettino, Vitale, La costituzione e il cambiamento internazionale. Il mito della costituente, l'obsolescenza della costituzione e la lezione dimenticata, Torino, CIDAS, Luca Romano, Il pensiero federalista una lezione da ricordare. Atti del Convegno di studi, Venezia, Sala del Piovego di Palazzo Ducale, Venezia, Consiglio regionale del Veneto-Caselle di Sommacampagna, Cierre, Lanchester, M. costituzionalista, Rivista di politica: trimestrale di studi, analisi e commenti,  Soveria Mannelli Catanzaro, Rubbettino. Damiano Palano, Il cristallo dell'obbligazione politica in ID., Geometrie del potere. Materiali per la storia della scienza politica italiana, Milano, Vita e Pensiero. Maroni: voglio riprendere l'eredità di M. M. Verde, su miglio verde. eu. Bossi a sorpresa al convegno su M. a Domaso:"Un grande"Ciao Como, su Ciao Como, la Repubblica/politica: È morto su repubblica. Ticino COMO: Lunedì a Domaso i funerali. Riletture. Arianna. il ricordo. Terre di Lombardia, su terredilombardia. Alessandro, Cristianesimo e cultura politica: l'eredità di otto illustri testimoni, Paoline, Morra, La vita e le opere, La Voce di Romagna Il silenzio di M. fa paura alla Lega  Bossi: Pensa solo alla poltrona. "Con Bossi è un amore finito"  Miglio torna nell'arena: è l'occasione buona  M., Una repubblica mediterranea?, in  Un'altra Repubblica? Perché, come, quando, Laterza, Roma-Bari, U. Rosso, M. l'antropologo. 'Diverso l'uomo del Sud', in la Repubblica, Non mi fecero ministro perché avrei distrutto la Repubblica Treccani Istituto dell'Enciclopedia. Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Dizionario biografico degl’italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. su senato, Senato della Repubblica. Associazione Openpolis.  Istituto per la scienza dell'amministrazione pubblica, su isapistituto. Interviste Intervista sulla Secessione della Padania, su prov-varese. Lega nord. Commemorazione di M. nell’anniversario della scomparsa di Campi, su giovani padani. lega nord. Non mi fecero ministro perché avrei distrutto la Repubblica, Il Giornale, su new rassegna.camera. Interviste a M. sui "Quaderni della Libera Compagnia Padana" su la libera compagnia. Documenti politici Sezione di approfondimento sul pensiero di M., dal sito ufficiale della Lega Nord. Gianfranco Miglio. Miglio. Keywords: implicatura ligure. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Miglio,” per il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. Speranza “Saturdays and Mondays” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Millia: la ragione conversazionale della setta dell’ottimati a Crotone -- Roma – filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotone). Filosofo italiano. Pythagorean according to Giamblico. He is said to have been one of a group of Pythagoreans who were ambushed but found their escape route blocked by a field of beans. Being prohibited by Pythagoreans precepts from even touching beans, he preferred death to betraying his principles. Millia.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Milone: la ragione conversazionale e la setta d’ottimati di Crotone – Roma –  filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotone). Filosofo italiano. According to Giamblico, a Pythagorean. He studied with Pythagoras himself. He died when an anti-Pythagorean mob burnt his house down when he was inside it.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Minicio: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale d’Adriano nel diritto romano e Plinio minore-- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Rescritto di Adriano a Gaio M. Fundano. L'imperatore Adriano, autore del rescritto a Gaio M. Fundano. Il rescritto di Adriano a Gaio Minucio Fundano è un rescritto imperiale inviato dall'imperatore romano Adriano a Gaio Minucio Fundano, proconsole d'Asia. Il documento giuridico, scritto originariamente in latino, fu tradotto e tràdito in greco ellenistico da Eusebio di Cesarea che si rifaceva a Giustino.  Il testo è noto agli storici e agli studiosi di Storia del Cristianesimo per essere uno dei più antichi scritti pagani sul cristianesimo. Il documento di Adriano, pur indirizzato a Minucio Fundano, rispondeva in realtà a un'istanza sollecitata da Quinto Licinio Silvano Graniano, predecessore del destinatario: Graniano aveva chiesto lumi sul comportamento da tenere nei confronti dei cristiani e delle accuse che venivano loro rivolte.  Adriano rispose al proconsole di procedere nei loro confronti solo in presenza di eventi circostanziati, emergenti da un procedimento giudiziario e non sulla base di accuse generiche, petizioni o calunnie: veniva stabilito così il principio dell'onere della prova a carico dei promotori delle accuse. Eventuali azioni promosse a scopo di calunnia dovevano, al contrario, essere duramente perseguite e punite, affinché non fosse permesso ai calunniatori di procurare del male. Il rescritto, che è una delle prime fonti pagane sul cristianesimo, è anche di somma importanza per la comprensione della politica tenuta da Adriano e dal suo predecessore Traiano nei confronti dei cristiani: Adriano, infatti, si mosse su un piano analogo, e anche più garantista, rispetto a quello del suo predecessore che si era espresso sull'argomento in un precedente rescritto sollecitato da una specifica richiesta di Plinio il Giovane che era a quel tempo legatus Augusti pro praetore in Bitinia e Ponto. Giustino sostenne l'interpretazione più favorevole del rescritto, accettata da una parte della storiografia moderna. Dubbi esegetici Il significato esatto del rescritto adrianeo, pur confrontato con quello di Traiano, rimane per alcuni studiosi controverso. Se è assodata, infatti, l'affermazione del principio dell'onere della prova da cui, in definitiva, far dipendere la perseguibilità dei cristiani che avessero agito «contro la legge», non è per tutti chiaro, invece, fino a qual punto dovesse spingersi l'assolvimento di quell'onere, se fosse cioè sufficiente provare la sola fattispecie della professione di fede (quello che Plinio, nella sua epistola a Traiano, chiama il nomen ipsum) o si rendesse invece necessario circostanziare anche la contemporanea presenza di reati ascrivibili all'essere cristiani (flagitia cohaerentia nomini), la distinta fattispecie che Plinio già individuava e intendeva suggerire all'imperatore nell'indirizzargli la sua richiesta.  Tesi di Marta Sordi Marta Sordi, storica dell'antichità greco-romana e del cristianesimo delle origini, propendeva per l'interpretazione più favorevole ai cristiani, una posizione esegetica a cui peraltro già aderiva l'apologetica cristiana, da Giustino in poi. Secondo la Sordi, Adriano, in linea con la politica del suo predecessore Traiano, avrebbe non solo confermato il divieto di perseguibilità d'ufficio[8] ma vi avrebbe anche aggiunto, di suo, due nuovi elementi:  Il primo di essi la Sordi lo individua in quel passo in cui Adriano afferma la necessità di dover giudicare «secondo la gravità della colpa» (sempre nel caso - beninteso - di una denuncia sorretta da prove). Il riferimento a una graduabilità della colpa escluderebbe, secondo Marta Sordi, che quest'ultima potesse ridursi al solo 'essere cristiani', una fattispecie che poteva rivelarsi vera o falsa, ma che non poteva ammettere graduazioni: seguendo questa interpretazione, bisogna quindi ritenere necessaria l'associazione a un diverso reato, ascrivibile allo status religioso ma non coincidente semplicemente con questo. Questa interpretazione, inoltre, sempre secondo la studiosa, sarebbe in sintonia con il tono generale della prosa dell'imperatore, da cui trapela, infine, persino insofferenza nei confronti di possibili derive intolleranti. L'espressione di questa insofferenza, sottolineata anche da un'interiezione, è contenuta nella frase «ma, per Ercole, se qualcuno accampa pretesti per calunniare, tu, stabilitane la gravità, devi senza indugio punirlo». E proprio in questa frase si rinviene, secondo Sordi, il secondo elemento di novità rispetto all'atteggiamento del predecessore:  la necessità che le conseguenze di azioni prive di prova, e pertanto temerarie e calunniose, dovessero ritorcersi contro gli stessi proponenti. Gianluigi Bastia, Lettera di Adriano,  Eusebio di Cesarea, Storia Ecclesiastica, Giustino Martire, Apologia  Il testo greco, in Giustino, è riportato in calce (v. Apologia. Rescritto di Adriano a Caio M. Fundano, proconsole d'Asia  (o su Giustino, Apologia Plinio il Giovane, Epistulae Plinio il Giovane, Epistulae. CIL Sordi, I Cristiani e l'impero romano, Jaca Book, Milano. Sordi, I Cristiani e l'impero romano, Jaca, Milano, Bastia, Lettera di Adriano. Eusebio di Cesarea, Storia Ecclesiastica,  Giustino Martire, Apologi, Plinio il Giovane, Epistulae, CIL, M. Fundano, Gaio, in Treccani Enciclopedie on line, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Voci correlate Rescritto di Traiano a Plinio il Giovane Fonti storiche non cristiane sul cristianesimo Gesù storico Storiografia su Gesù Ricerca del Gesù storico Storicità di Gesù Onere della prova Ius puniendi Portale Antica Roma Portale Cristianesimo Portale Diritto Portale Gesù Categorie: Fonti del diritto romanoStoria antica del cristianesimo Adriano [altre] Military diploma (CIL) attesting his consulship suffect consul. In office Nationality: Roman; Occupation: politician. A Roman senator who holds several offices in the Emperor's service, and is an acquaintance of PLINIO MINORE. He is suffect consul with Tito Vettenio Severo as his colleague. He is best known as being the recipient of an edict from ADRIANO (si veda) about conducting trials of Christians in his province. This is known from an inscription recovered at Baloie in Bosnia. The first office listed is military tribune with Legio XII Fulminata. Next is quaestor, and, upon completion of this traditional Republican magistracy, he would be enrolled in the Senate. Two more of the traditional Republican magistracies follow: plebeian tribune and praetor. The last appointment, before the inscription breaks off, is his commission as legatus legionis or commander of Legio XV Apollinaris. Other sources attest that he was governor of Achaea. The terminus post quem his governorship is when Gaio Caristanio Giuliano is known to have governed. The terminus ante quem he leaves his post is the year of his consulate, although the letters he receives from PLINIO MINORE (si veda) indicate he is no longer in Achaea. The inscription from Baloie mentions he has been admitted to the Septem-viri epulonum, one of the four most prestigious ancient Roman priesthoods. Because this inscription does not mention his consulate, it can be assumed his entrance precedes that office.  Most, if not all, of the letters PLINIO MINORE (si veda) writes to M. fall before is suffect consul. In the first letter of his collection, PLINIO declares that living on his rural estate is preferable to living in Rome, where he is subject to constant pleas for assistance. The second letter petitions him to appoint the son of Plinio’s friend ASINIO RUFO as M’s quaestor for M.’s upcoming consulate; The last letter is another petition to M., canvassing him on behalf of GIULIO NASONE, who is running for an unnamed office. While all of these letters demonstrate M. And PLINIO MINORE are acquainted, they fail to show the warmth of a friendship.  Following his consulate, during the reign of TRAIANO, M. is governor of Dalmatia.  It is through a rescript the historian EUSEBIO preserves at length in his Ecclesiae Historia that we know M. is proconsul of Asia. M.' predecessor, QUINTO LICINIO SILAVNO GRANIANO, asks ADRIANO how to handle legal cases where some inhabitants are accusing their neighbours of not following the Roman cult through informers or mere clamour. ADRIANO’s reply is to state that any such accusations had to be through a law court, where the matter may be properly investigated, and if they are guilty of any illegality, thou M., must pronounce sentence according to the seriousness of the offence. This rescript is important as an independent witness to the existence of one or more non-Roman sects in this part of Anatolia. The only other contemporaneous evidence we have for these communities is the list of the VII churches of Asia in the book of Revelation.  M.’s wife is the daughter of a MARCO STATORIO. We know her name from a funerary inscription, which suggests that she died before M.’s consulship. The name of their daughter, Minicia Marcella, comes from two independent sources. Minicia dies young. Her funerary vase has been identified, which states her age at death as XII years, XI months, and VII days. PLINIO MINORE also attests to her existence, revealing information about the girl that shows that he and M. are better friends than the surviving letters he writes to M. suggest. In the letter, addressed to one EFULANO MARCELLINO, Pliny notes that, although she was not yet XIV years old, she was betrothed. Pliny describes the preparations for her wedding, with which M. was busy; and he asks Marcellinus to send M. a letter consoling him for his loss. It is not known if M. has any other children.  Smallwood, Principates of Nerva, Trajan and Hadrian, Cambridge, CIL, ILJug., Talbert, The Senate of Imperial Rome, Princeton; Wheeler, "Legio XV Apollinaris: From Carnuntum to Satala—and beyond", in Bohec and Wolff, eds. Les Légions de Rome sous le Haut-Empire, Paris; Eck, "Jahres- und Provinzialfasten der senatorischen Statthalter”, Chiron; Pliny, Epistulae, I.9  Syme, Tacitus, Clarendon; Eusebius, Ecclesiae Historia; Williamson, Eusebius: The History of the Church, Harmondsworth: Penguin; Political offices Preceded by Acilius Rufus, and Quintus Sosius Senecio II Consul of the Roman Empire with Titus Vettennius Severus Succeeded by Gaius Julius Longinus, and Gaius Valerius Paullinus Categories: Roman governors of AchaiaSuffect consuls of Imperial RomeRoman governors of DalmatiaRoman governors of Asia Epulones of the Roman Empire Minicii. Keywords: Roman law, Adriano a Minicio -- Gaio Minicio Fundano. Minicio.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Minnomaco: la ragione conversazionale della diaspora di Crotone -- Roma – filosofia pugliese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano. Taranto, Puglia. A Pythagorean according to Giamblico. Grice: “Cicerone argues: Minnomaco speaks Greek; therefore he is no Roman!” Minnomaco.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Minucio: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’eulogio ad Ottavio da Frontone -- Roma – filosofia lazia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. He writes “Ottavio” – draws on a speech by Frontone. La gente: Minucia  Marco Minucio Felice Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Marco M. Felice (in latino; Marcus M. Felix; Cirta, filosofo,  scrittore e avvocato romano. Non è noto con certezza quando visse. Il suo Octavius è simile all'Apologeticum di Quinto Settimio Fiorente Tertulliano, e la datazione della vita di Felice dipende dal rapporto tra la sua opera e quella dello scrittore africano morto nel 230. Nelle citazioni degli autori antichi (Seneca, VARRONE, CICERONE) è considerato più preciso di Tertulliano e questo concorderebbe col suo essere anteriore ad esso, come afferma anche Lattanzio;[1] Girolamo lo vuole, invece, posteriore a Tertulliano, sebbene si contraddica dicendolo posteriore a Tascio Cecilio Cipriano in una lettera e anteriore in un'opera Per quanto riguarda gli estremi della sua esistenza, Felice menziona Marco Cornelio Frontone; il trattato Quod idola dii non sint è basato sull'Octavius; dunque se quello è di Cipriano, M. Felice non fu attivo oltre il 260, altrimenti il termine ante quem è Lattanzio. Anche la zona d'origine di M. è sconosciuta. Lo si ritiene talvolta di origine africana, sia per la sua dipendenza da Tertulliano, sia per i riferimenti alla realtà africana: la prima ragione, però, non è indicativa, in quanto dovuta al fatto che all'epoca i principali autori di lingua latina erano africani, e dunque il loro era lo stile cui ispirarsi; la seconda, inoltre, potrebbe dipendere esclusivamente dal fatto che il personaggio pagano dell'Octavius, Cecilio Natale, era africano, come attestato da alcune iscrizioni. Cionondimeno, è significativo che entrambi i personaggi dell'Octavius abbiano nomi citati in iscrizioni africane, e che lo stesso valga per il nome M. Felice.Octavius L'Octavius è un dialogo che ha per protagonisti lo stesso scrittore, Cecilio e Ottavio e che si svolge sulla spiaggia di Ostia. L'opera si è conservata per errore dopo i sette libri dell'Adversus nationes di Arnobio come (liber) octavus. Mentre i tre passeggiano sul litorale, Cecilio, di origine pagana, compie un atto di omaggio nei confronti della statua di Serapide. Da ciò nasce una discussione in cui Cecilio attacca la religione cristiana ed esalta la funzione civile della religione tradizionale, mentre Ottavio, cristiano, attacca i culti idolatrici pagani ed esalta la tendenza dei cristiani alla carità e all'amore per il prossimo. Alla fine del dialogo Cecilio si dichiara vinto e si converte al Cristianesimo, mentre Minucio, che funge da arbitro, assegna ovviamente la vittoria ad Ottavio. Il Cristianesimo di M. è lo stesso dei ceti dirigenti, che non vogliono che il cambiamento di religione sia accompagnato da sommovimenti sociali e sono convinti che debbano, comunque, sopravvivere la finezza e l'equilibrio costruiti da secoli di civiltà greco-latina. Del resto, di questo ceto sono i personaggi dell'Octavius, tutti e tre avvocatiː il pagano, Cecilio Natale, era nativo di Cirta (dove l'omonimo registrato dalle iscrizioni aveva ricoperto cariche sacerdotali) e viveva a Roma, come Minucio, di cui seguiva l'attività forense; Ottavio, invece, è appena arrivato nella capitale all'epoca in cui è ambientata l'opera, e ha lasciato la propria famiglia nella provincia d'origine. Girolamo gli attribuisce una seconda opera, De fato, di cui però non vi sono tracce. Divinae Institutiones, De viris illustribus, Ottavio Ianuario a Saldae, CIL, e Cecilio a Cirta. A Tébessa e Cartagine. Bracci, Il linguaggio di M. Felice. Fra dialogo filosofico e disputa religiosa, in Controversie: dispute letterarie, storiche, religiose dall'Antichità al Rinascimento, a cura di G. Larini, Padova, Libreriauniversitaria Vecchiotti, La filosofia politica di M. Felice. Un altro colpo di sonda nella storia del cristianesimo primitivo, Urbino, Università degli Studi, De viris illustribus L'Ottavio di Marco M. Felice in italiano: play. google. com/ books/ reader?id=xj GOJAAAAEAJ& pg=GBS.PA0 Paul Lejay, «Minucius Felix», in Catholic EncyclopediaBracci, Il linguaggio di Minucio Felice. Fra dialogo filosofico e disputa religiosa, in Controversie: dispute letterarie, storiche, religiose dall'Antichità al Rinascimento, a cura di G. Larini, Padova, Libreriauniversitaria.it, M. Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Marco M. Felice, su Internet Encyclopedia of Philosophy. Marco M. Felice, Cyclopædia of Biblical, Theological, and Ecclesiastical Literature, Harper. Opere di Marco M. Felice, su MLOL, Horizons Unlimited. Modifica su Wikidata (EN) Audiolibri di Marco M. Felice Marco M. Felice (altra versione), su LibriVox. Marco M. Felice, Catholic Encyclopedia, Robert Appleton, Higgins, Felix, M., Encyclopedia of Philosophy. Opera Omnia dal Migne, Patrologia Latina, con indici analitici, su documenta catholica omnia. eu.. V D M Padri e dottori della Chiesa cattolica Portale Antica Roma Portale Biografie Portale Cristianesimo Portale Letteratura Categorie: Scrittori romaniAvvocati romaniScrittori Scrittori Romani Romani Nati a Cirta Apologeti Padri della Chiesa Scrittori africani di lingua latina Scrittori cristiani antichi [altre] M. – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. CONGRESSO DI SCIENZE STORICHE, Roma. Sezione Storia della Filosofìa Storia delle Religioni. L’APOLOGETICO DI TERTULLIANO E L’OTTAVIO DI M. COMUNICAZIONE di RAMORINO ROMA LINCEI SALVIUCCI. Ancora non è stata risolta in modo definitivo la questione dei rapporti che intercedono tra il discorso di Tertulliano in difesa de’ Cristiani e il dialogo di M. Felice, dove alle accuse formolate in un discorso d' ispirazione pagana messo in bocca a Cecilio Natale, op- ponesi una eloquente difesa del Cristianesimo per bocca di Ottavio dal quale il dialogo prende nome. Ancora non sono state date sufficienti ragioni per stabilire se Tertulliano abbia avuto sott’ occhio M., o se invece questi abbia tratto da quello come da sua fonte, e quindi quale dei due abbia da considerarsi come cronologicamente anteriore. La questione ha un vero interesse per la storia del Cristianesimo in Occidente perchè trattasi delle prime scritture latine d' ispirazione cristiana, e dipende di qui il sapere chi primo abbia divulgato fra le genti di parlata latina le ragioni addotte dagli Apostoli del Cristianesimo, già da più decenni diffuse tra i Greci. Tale questione sorge dal fatto che tra le due opere corrono tali e tante analogie di pensiero e di frase, da dover senz’altro ritenere che l’un dei due abbia avuto sott’occhio l’altro. Si può ben congetturare anche, e s’ è in fatto congetturato, abbiano entrambi attinto a una fonte comune, che per noi sarebbe perduta. Primo propose quest’ ipotesi l’ Hartel, poi cercò sostenerla in apposita monografia il Wilhelm. Più tardi De Lagarde pensa a dirittura a un’apologià scritta da papa Vittore I da cui Tertulliano e M. avrebbero copiato a man salva; infine l’Agahd in una sua ricerca di cose Varroniane, voi. supp. dei Jahrbiicher di Fleckeisen, ammettendo anche egli un’apologià cristiana latina anteriore a Tertulliano e M., ne investigò le fonti in VARRONE e in qualche altro libro dell’età alessandrina. Ma noi vedremo che i riscontri verbali tra l’Apologetico e l’Ottavio sono tanti e tali da escludere l’ipotesi d'una terza fonte co- mune, se non forse per uno speciale punto di dottrina derivato dalla scuola di Euemero. Tra quelli che rinunziando all’ipotesi di una terza fonte comune, riducono la questione ai soli Tertulliano e M., gli uni credono anteriore M., gli altri Tertulliano, e le due schiere sono egual- mente notevoli per numero e autorità di aderenti. I fautori della prio- rità di M., come si fan forti di una espressione di Lattanzio, così vantano l’adesione di uomini quali Eber, Baehrens, Norden, ecc. Gli altri si rifanno dall’attestazione di Gerolamo, e hanno compagni uomini di incontestato valore come Schultze, Neumann, Harnack, nome che vai da solo per molti. Ultimamente si schierò da questa parte anche il francese Monceaux che con tanto studio e dottrina s’ è occupato della letteratura affricana. Non è qui il luogo di ripetere le ragioni addotte da tutti questi studiosi, nè di discuterle. Intendo qui di istituire un confronto, il più completo possibile, di luoghi Minuciani e Tertullianei, presentandoli in modo che ne riesca chiaro il contenuto e sia facile ai lettori di trarne le debite conclusioni. Prendo per base il discorso di Tertulliano, seguendone l’argomento come filo conduttore, e additando via via i luoghi paralleli di M. Nei primi tre capitoli del suo Apologetico, mira Tertulliano a far vedere, come fosse iniquo l’odio che si aveva contro i Cristiani. Vol- gendo nell’esordio la parola ai reggitori del Romano Impero, dice che, se non era loro lecito fare una pubblica inchiesta intorno alla causa dei Cristiani, se a questo solo fattispecie o temevano o arrossivano di volgere l’attenzione pubblicamente, e se le troppe condanne private avevano compromesso la difesa della setta cristiana, doveva pur essere lecito a lui cercar di giungere alle loro orecchie per la via letteraria; la verità cristiana ben sapere di essere peregrina sulla terra e di trovar facilmente nemici tra gli estranei, ma non voler essere condannata senza essere conosciuta. Condannarla inascoltata essere una iniquità, e far nascere il sospetto che i governanti non vogliano ascoltare ciò che non potrebbero più condannare conoscendolo. La scusa dell’ignoranza non essere che apparente, anzi aggravare il carico dell’iniquità; perchè qual più trista cosa che l’odiare quel che si ignora, anche se la cosa meriti effettivamente odio? Se poi si viene a sapere che la cosa non meritava odio, chi era solo colpevole d’ignoranza, cessata questa, cessa anche di odiare; come fanno appunto i convertiti al Cristianesimo, i quali cominciano a odiare quel che erano e a professare quel che prima odiavano. Invece, dice Tertulliano, gli avversari nostri segnalano bensì il fatto delle molte conversioni, ma, anziché arguire che ci sia sotto qualche gran bene, seguitano a ignorare e a odiare. Si dirà che le molte conversioni non vogliono dir nulla, perchè ci si volge anche al male. Ma il male, avvertasi, per natura o si teme o se ne ha vergogna; ed è perciò che i malvagi voglion rimanere nascosti; sorpresi trepidano, accusati negano, anche tormentati non sempre confessano, e condannati poi n’han dolore. I Cristiani non si vergognano, non si pentono; si gloriano d’ esser notati ; accusati non si difendono ; interrogati confessano ; anzi confessano spontaneamente, e condannati ringraziano. Non è dunque questo un male se non ha le circostanze connaturate al male, il timore, il rossore! il pentimento, il rimpianto. Anche la procedura che si segue con noi Cristiani, continua Tertulliano, è iniqua. Non ci si concede libertà di difesa, e si vuol da noi soltanto la con- fessione del nome, senza poi esaminare il crimine. E mentre per un omicida, per un incestuoso, per un nemico pubblico si indagano le cir- costanze dei fatti, il numero, il luogo, il tempo, i complici dei delitti, per noi non si procede così ; anzi un famoso editto di Traiano ha proi- bito che si inizino processi contro noi, mentre poi ha disposto che data una denunzia, ci si deva punire ; disposizione contradittoria ed ingiusta. Si viene così ad applicare per noi un’assurda procedura, quella di torturarci, non per farci confessare come gli altri, sì perchè neghiamo, mentre se si trattasse di male, noi staremmo sulla negativa, e la tor- tura ci si applicherebbe per farci confessare. È evidente che non un delitto è in causa nel caso nostro, ma solo il nome. Si arriva al punto di biasimare uno che si riconosce come un galantuomo, solo perchè è cristiano; si cacciano via dalle case, anche contro ogni interesse, le mogli pudiche e i buoni servi, solo perchè cristiani; è tutto in odio al nome. Ma che cos’ ha di male questo nome che significa « unti » o, se si piglia la forma « Crestiani » usata talvolta per errore, ha a connettersi con « buono » ? Odiasi forse ia setta per il nome del suo autore ? Ma anche le sette dei filosofi sono denominate dai loro autori, e niuno se n’offende. Prima di odiare il nome, conveniva indagare e riconoscere dalle qualità della setta l’autore o da quelle dell’autore la setta ; invece non si è fatto e non si fa nulla di questo, e si seguita a far ingiusta guerra al nome. Fin qui l’ introduzione dell’Apologetico Tertullianeo. Con le idee qui espresse si ha qualche riscontro nell’Ottavio, a metà circa del discorso in difesa della nuova dottrina. Accenna Ottavio all’opera dei cattivi spiriti che insinuano l’odio contro i Cristiani anche prima che siano conosciuti. Il capitolo seguente tocca la procedura usata coi Cristiani, e Ottavio ricorda che anche egli prima, credendo alle solite calunnie, usava le stesse arti diaboliche contro i Cristiani. I demonii appunto ispirano quelle dicerie sciocche le quali, se mai, hanno un fondo di verità per i pagani non per i Cristiani. La confu- tazione di tali calunnie si estende. Si chiude con l’ affermazione delle virtù cri- stiane, la pudicizia, la temperanza, la serietà. L’aumentare del nostro numero, dice, non è accusa di errore, ma testimonio di lode, e non è meraviglia se noi ci riconosciamo al segno dell’ innocenza e della modestia, e se ci amiamo a vicenda chiamandoci fratelli. Ecco alcuni riscontri verbali: Min.: nec in angulis garruli sumus si audire nos publice aut erubesciti s aut timetis » (intendi: non è vero che noi facciamo pettego- lezzi di nascosto, se invece siete voi che pubblicamente rifiutate di darci ascolto o perchè arrossite o perchè temete di farlo. : ic occupant animos (im- puri spiritus) ... ut ante nos incipiant homines odisse quam nosse, ne cognitos, aut imitari possint, aut damnare non possint. Anche noi, prima della conversione, credevamo alle calunniose voci sparse contro i Cristiani, e non ci accorgevamo che eran tutte dicerie sen- za fondamento ; « malum autem adeo non esse, ut Cliristianus reus nec eru- besceret nec timeret, et unum solum- modo quod non ante fuerit paeniteret. Tertull. Apolog. I princ.: .si ad hanc solam speciem auctoritas vestra de iustitiae diligentia in publico aut timet aut erubescit inquirere inauditam si damnent, praeter invidiam iniquitatis etiam suspicionem merebuntur alicuius conscientiae, noleutes audire quod auditum dan- nare non possint. Quod vere malum est, ne ipsi quidem quos rapit defendere prò bono audent. Omne malum aut timore aut pudore natura perfudit. Denique malefici gestiunt latere, devitant appa- rere, trepidant deprehensi, negant accu- sati, ne torti quidem facile aut semper continentur, certe damnati maerent. Dinumerant in semetipsos mentis malae impetus, vel fato vel astris imputant, nolunt enim suum esse quia malum agnoscunt. Christianus vero quid simile? Neminem pudet, neminem paenitet nisi piane retro non fuisse. Si denotata gloriata, si accusata non defendit, interrogatns vel ultro confi- tetur, damnatus gratias agit. Quid hoc mali est quod naturalia mali non habet, fimorem, pudorem, tergiversationem, paenitentiam, deplorationem? Quid? hoc malum est cuius reus gaudet? cuius .accusatio votum est et poena felicitas ? Qui si osservi come a un cenno fuggevole di Minucio rispetto al non essere un male il cristianesimo, corrisponde in Tertulliano tutta una spiegazione psicologica della natura del male e del contegno dei malvagi col quale si confronta quello dei Cristiani. Apolog. c. IL Si critica la procedura usata coi Cristiani. Tra l’altro, si dice. Ceteris negantibus tormenta udhibetis ad confitendum, solis Chri- stianis ad negandum. Quo perversine cum praesumatis de sceleribus no stris ex nominis confessione, cogitis tormentis de confessione decedere, ut negantes nomen pariter utique negemus et scelera... Sed, opinor non vultis noe perire, quos pessimos creditis. Si non ita agitis circa nos nocentes ergo nos innocentissimos iudicatis cum quasi innocentissimos non vultis in ea confessione perseverare, quam necessitate non iustitia damnandam sciatis. Vociferata homo: Christianus sum. Quod est dicit; tu vis audire quod non est. Veritatis extorquendae praesides de nobis solis mendacinm elaboratis audire. Oct.: Noi prima della conversione, mentre assumevamo la difesa di sacrilegi e incestuosi e anche di parricidi, hos i Cristiani nec audiendos in toto putabamus, nonnunquam etiam miserantes eorum crudelius saeviebamus, ut torqueremus confitentes ad negandum, videlicet ne perir ent, exercentes in his, perversam quaesti onem nòn quae verum erueret sed quae mendacium cogeret . Et si qui infìrmior malo pressus et victus Christianum se negasset, favebamus ei quasi, eierato nomine, iam omnia facta sua illa negatione pur- gata ». Dopo avere nell’Apologetico confutato il pregiudizio che il Cristianesimo non fosse permesso dalle leggi romane, facendo vedere come le leggi potessero essere benissimo pattate, e mu- tate furono tante volte attraverso ai secoli, Tertulliano passa a confutare le calunnie lanciate contro i Cristiani, d’ infanticidio e di cene incestuose. Queste cose si dicono sempre, ma nessuno mai si cura d’ indagare so sono vere. La verità è odiata, e ha nemici da tutte le parti. Chi ha mai visto a spargere sangue di bambini, e abbandonarsi, dopa il pranzo e dopo fatti spegnere i lumi da cani lenone s tenebrarum, a orgie incestuose? Se i nostri ritrovi son segreti, chi può rivelare quel che vi si fa? non gli iniziati che hanno interesse a non si tradire; non gli estranei, appunto perchè non penetrarono mai. È dunque tutto opera' della fama. E qui Tertulliano ha una bella pagina sulla natura della fama o si dice. È antico il motto : fama malum quo non aliud velocius ullum Virgilio. Perchè è un male la fama? perchè veloce? o non anzi perchè essa è per lo più menzognera? anche quando ha del vero, non è mai senza bugia, togliendo, aggiungendo, mutande dal vero. Ed è di tal natura che non persiste a essere se non in quanto mentisce, e vive solo fin quando non si arriva alla prova dei fatto vero. Quando si ha il fatto, cessa ogni « si dice », e rimane la notizia del fatto. La fama, nomen incerti > non ha più luogo dov’ è la certezza. Ora alla fama uom savio non deve credere. Si sa come na- scono le dicerie. Hanno principio da qualcuno che è mosso o da ge- losia o da dispetto o da mania di dir bugie; e poi passate di bocca in orecchio, e via ripetute, nascondono sempre più la verità. Meno male, che il tempo poi rivela ogni cosa, per felice disposizione della natura- per cui il vero si fa strada. Le accuse sono nient’ altro che dicerie, ma non hanno fondamento di verità. Si soggiunge che noi promettiamo la vita eterna a chi uccide bambini e commette incesti. Ma anche se tu credi a questo, dice Tertulliano, io chiedo se tu stimeresti tanto questa eternità da arrivarci con simili infamie. Tu nè vorresti farle queste cose, nè potresti ; dunque perchè crederai che vogliano e possano farle i Cristiani, che sono uomini come te ? Si dirà che sono iniziati a tali cerimonie quando non ne sanno ancor nulla; ma in tal caso, una volta conosciute tali infamie, non continuerebbero a parteciparvi, per la stessa avversione che avrebbe impedito loro d’ iniziarsi nel caso che ne fossero informati. Tale il contenuto dell’Apologetico. Vi corrispondono il M., ove con le accuse d’ infanticidio e di cene incestuose si confutano anche quelle di adorazione d’una testa d’asino, o dei genitali di sacerdoti, o di un uomo crocifisso, o della croce stessa. E siccome di queste accuse si parla anche dove Cecilio Natale le espone facendo eco alla voce comune, così è da tener conto anche di questo capo per taluni riscontri verbali: Apolog.: quod eversofes luminum canes, lenones scilicet tenebrarum, libidinum impiarum inverecundiam procurent candelabra et lucernae et canes aliqui et offulae quae illos ad eversionem luminum extendant. Veni, demerge ferruin in infantem, nullius inimicum, nullius reum, omnium filium, vel tu modo adsiste morienti komini antequam vixit... excipe rudem sanguinem, eo panerai tnum satia, vescere libenter Nego te velie ; etiamsi volueris, nego te posse. Cur ergo alii possint si vos non potestis?... qui ista credis de homine potes et tacere. Quis talia facinora cum invenisset celavit?... Si semper latemus quando proditum est quod admittimus? immo a quibus prodi potuit? Natura famae omnibus nota est (v. il riassunto precedente)... quae ne tunc quidem cum aliquid veri offerti sine mendacii vitio est Tam- diu vivit quam diu non probat, siquidem ubi probavit cessat esse et quasi officio nunciandi functa rem tradit et exinde res tenetur, res nominatur. Nec quisquam dicit verbi gratia: 'hoc Romae aiunt factum 1 aut : ‘ fama est illuni provinciam sortitum sed: sortitus est ille provinciam ’, et : hoc fa- ctum est Romae \ Fama, nomen incerti, locum non habet ubi certum est. Min. Oct.: canis qui cande- labro nexus est, iactu offulae ultra spatium lineae qua vinctus est, ad impetum et saltum provocatur. Sic everso et exstincto conscio lumine impuden- tibus tenebris etc. Illuni velim convenire, qui initiari nos dicit aut credit de caede infantis et sanguine. Putas posse fieri, ut tam molle corpus, tam parvulum corpus fata vulnerum capiat? ut quis- quam illum rudem sanguinem novelli et vixdum hominis caedat f fundat, exhauriat? nemo hoc potest credere nisi qui possit audere nec tanto tempore aliquem existere qui proderet nec tamen mirum, cum omnium (quoniam, Vahlen) fama quae semper insparsis mendaciis alitur, ostensa ventate consumitur. Anche qui si noti che il modo di esprimersi di Minucio intorno alla fama non solo è conciso, ma chi legge quell’ostessa ventate consu- mitur non lo intende se non quando lo confronta con la pagina di Ter- tulliano, la quale può servire assai bene di commento. I Cristiani non si contentavano di scagionarsi dalle accuse calun- niose mosse loro, ma le ritorcevano contro gli avversari, facendo ve- dere come essi, all’ombra della religione, molti infanticidi e incesti davvero commettevano. Di ciò tratta l’Apologetico, da confrontarsi con alcuni passi dell’Ottavio. Ricordano entrambi i sacrifizi di bambini fatti in Africa in onor di Saturno, divoratore dei propri figli: Apolog.: cum propriis filiis Saturnus non pepercit, extran eis utique non parcendo perseverabat, quos quidem ipsi parentes sui offerebant et libenter respondebant, et infantibus blan - diebantur, ne lacrimante s immolarenturi. Oct.: Saturnus fìlios suos non exposuit sed voravit ; merito ei in nonnullis Africae partibus a parentibus infantes immolabantur y blanditile et osculo comprimente vagitum, ne flebilis hostia immolar etur. Ma Tertulliano ha maggiori informazioni su questi sacrifizi d’infanti in Affrica, durati ufficialmente fino al proconsolato di TIBERIO, poi vietati ma seguitati a praticare occultamente: et nunc in occulto per - severotur hoc sacrum facinuSj perchè nessuna costumanza delittuosa si può sradicare per sempre, nè gli Dei mutano costume. Oltre questo poi altri sacrifizi umani vanno imputati alla religione antica. Entrambi i nostri scrittori ricordano i sacrifizi umani fatti in Gallia in onor di Mercurio, e nella Taurica (M. aggiunge anche, da CICERONE. Rep., e da LIVIO (si veda), il ricordo di Busiride Egi- ziano e di antichi riti romani), e l’uso ancor vigente di sacrificare con- dannati a morte nelle feste di Giove Laziale. E all* infuori della religione, rinfacciano entrambi agli avversari l’abitudine di esporre i bambini ap- pena nati o ucciderli, o quello più tristo di spegnere la vita appena iniziata nell’utero materno. b) Apolog . IX: « conceptum utero dum adhuc s angui s in hominem deli- batur, dissolvere non licet. Homicidii festinatio est prohibere nasci ; nec refert ratam quis erìpiat animam an nascentem disturbet. Quanto poi al bevere uman sangue, Tertulliano ricorda da Erodoto (est apud Herodotum, opinor) alleanze strettesi fra alcuni popoli col ferirsi a sangue le braccia e bevere gli uni il sangue degli altri; (ISO) Oct.: u snnt quae in ipsis vi- sceribus medicaminibus epotis originem futuri hominis extinguant et parricidium faciant antequam pariant ricorda poi Catilina, e alcune genti Scitiche divoratrici dei proprii morti, e il rito dei sacerdoti di Bellona consistente nel ferirsi la coscia, rac- cogliere il sangue nel cavo della mano e darlo a bere. M., più conciso, non menziona che la congiura di CATILINA e Bellona con brevi cenni. L’uno e V altro poi fanno menzione dell’uso di dare a bere sangue umano agli epilettici, ma Tertulliano solo adduce il particolare, che ai raccoglieva a tal fine il sangue scorrente dalle ferite dei delinquenti .sgozzati nell’arena. In tutto ciò è strano il modo come Minucio mette questi ricordi in relazione con la menzione fatta avanti delle cerimonie in onor di Giove Laziale: ipsum credo docuisse san - guinis foedere coniurare Catilinam et Bellonam sacrum suum J ecc.; quasi che proprio Giove Laziale abbia insegnato a Catilina e ai Bellonari i lor sanguinosi usi ; il che è del tutto fuor di proposito. Infine, sempre intorno alle bibite di sangue, entrambi gli apologeti ricordano l’avidità con che solevano alcuni acquistare, per cibarsene, la carne delle bestie uccise nell’arena, dopo che quéste s’ erano empite le viscere di membra umane. Ma Tertulliano è più ricco di particolari, come è più immaginoso ed energico nell’espressione. Confrontisi: Tertull.: Item illi qui de harena Min. : non dissimiles ei qui de haferinis obsoniis cenant, qui de apro qui rena feras devorant inlitas et infectas se est quandoque memoriara dissipari, et simili error impegerit, exinde iam tradux proficiet incesti serpente genere cum scelere. Tunc deinde quocumque in loco, domi, peregre, trans freta Comes et libido, cuius ubique sal- tus facile possunt alicubi ignaris filios pangere vel ex aliqua seminis portione, ut ita sparsum genus per commercia humana concurrat in memorias suas, neque eas caecus incesti sauguinis agnoscat. Min.: etiam nescientes, miseri, potestis in inlicita proruere, dum Venerem promisce spargitis, dum passim liber os seritis, dum etiam dorai natos alienae misericordiae frequenter exponitis, necesse est in vestros recurrere t in filios inerrare. Nella diversa disposizione dei pensieri, pur si riconosce l’affinità dei due scrittori, dei quali Tertulliano è più ricco e compiuto, aggiun- gendo qui tra le ragioni di figliuoli dispersi anche l’adozione. Alla corruttela pagana poi opponesi la continenza cristiana la quale o si contenta di legittimo matrimonio, o aspira anche alla verginità. Tertull.: quidam multo secu- Min : plerique inviolati corporia riores totam vim huius erroris virgine virginitate perpetua fruuntur potiua continentia depellunt, senes pueri. quam gloriantur. Dove non isfugga l’esagerazione del plerique minuciano di fronte all’espressione tertullianea più conforme al vero. Gli Dei pagani erano in origine uomini. Nell’ Apologetico, passa Tertulliano a ragionare di un’altra recriminazione fatta ai Cristiani, quella che non venerassero gli Dei e non sacrificassero per gli imperatori ; onde erano fatti rei di sacrilegio e di lesa maestà. Ora egli dice che i Cristiani cessarono dal prestar culto agli Dei pagani dacché conobbero che tali Dei non esistevano; e non esser giusto il punirli se non quando tale esistenza fosse dimostrata. E questa convinzione soggiunge che i Cristiani ricavavano dalle stesse testimonianze pagane, concordi nel lasciar chiaramente vedere che i pretesi Dei non erano altro che uomini di- vinizzati. Infatti se ne adducevano i luoghi di nascita, le regioni ove avevano vissuto e lasciato tracce dell’opera loro, e si mostravano anche i loro sepolcri. Serva d’esempio per tutti Saturno, cui gli scrittori come Diodoro e Tallo fra i Greci, Cassio e Nepote fra i Latini attestarono essere stato uomo. La qual cosa è comprovata anche da prove di fatto, verificatesi sopratutto in Italia, ove egli fu accolto da Giano, ove il monte che abitò fu chiamato Saturnio, la città che fondò ebbe pari- mente nome Saturnia, e anzi tutta l’Italia dopo il nome di Enotria ricevette quello di Saturnia. Da lui l’origine delle legali scritture e del conio monetario, onde la sua presidenza dell’erario. Dunque era uomo, è nato da uomini, non dal cielo e dalla terra. Ignorandosene la pa- rentela, fu detto esser figlio di quelli onde tutti possiamo esser figli, chiamandosi per venerazione il Cielo e la Terra padre e madre, e figli della terrà denominando il volgo quelli la cui parentela è incerta. Sa- turno dunque era uomo; e lo stesso si può dir di Giove e di tutto l’altro sciame di divinità pagane. Si dice che furono tutti divinizzati dopo morte. Da chi? Bisogna vi fosse un altro Dio più sublime, ca- pace di regalare la divinità, giacché da sé questi uomini non si po- tevan certo crear Dei. Ma perchè il Dio Magno avrebbe donato la divinità ad altri esseri? Forse per esserne aiutato nel grande còmpito di dirigere l’universo? Ma che bisogno vi poteva essere di ciò, se il mondo o era ab aeterno, come volle Pitagora, o venne fatto da un essere ragionevole, come disse Platone? Del resto questi uomini si lo- dano per aver trovato le cose utili alla vita, ma non le hanno create, perchè già c’erano. Si dirà egli che la divinizzazione fu un premio alle loro virtù? Ma, a dir vero, anziché virtuosi, erano costoro pieni di vizi e piuttosto da cacciar giù nel Tartaro che accogliere nel Cielo. Ma mettiamo anche fossero buoni, o perchè allora non s’ è dato lo stesso premio a uomini lodatissimi come Socrate, Aristide, Temistocle, ecc.P Di tutta questa dimostrazione ragionata a fil di logica, Minucio non ha nell’Ottavio che un punto solo, l’affermazione che i pretesi Dei erano uomini. E questa si contiene nel cap. 21 del dialogo, il quale fa seguito alla parte fisolofica del discorso di Ottavio e alla sentenza che le favole mitologiche erano tutte finzioni poetiche, da spiegarsi seconde la teoria di Evemero, della quale cita altri rappresentanti antichi come Prodico, Perseo, lo stesso Alessandro il Macedone. Connettesi con tale ordine di idee il ricordo di Saturno già uomo. E qui diversi riscontri: Tertull. Apol.: Saturnum ita- que, si quantum litterae docent, neque Diodorus Graecus aut Thallus neque Cassius Severus aut Comelius Nepos neque ullus commentator eiusmodi anti - quitatem aliud quam hominem promul- gaverunt. Min. Oct.: Saturnum enim omnes scriptores vetustatis Graeci Ro- manique hominem prodiderunt. Scit hoc Nepos et Cassius in historia ; et Thallus et Diodorus hoc loquuntur. È questo il passo che all’Ebert e a’ suoi seguaci parve e pare dimostrativo della priorità di Minucio, per la ragione che il Cassius Severus di Tertulliano in luogo del semplice Cassius (ossia Hemina) è un errore, e per la presunzione che chi sbaglia copii. Se tale indu- zione sia giusta, vedremo in seguito. Per ora notiamo solo che Ter- tulliano aveva fatto lo stesso sbaglio in Ad Nationes: Legimus apud Cassium Severum, apud Cornelios Nepolem et Ta- citurna ecc. Tertull. ibid.: in qua Italia Saturnus post multas expeditiones postque Attica hospitia consedit, exceptus a Iano vel lane ut Salii volunt. Mons quem incoluerat Saturnius dictus, civitas quam depalaverat Saturnia usque nunc est, tota denique Italia post Oe- notriam Saturnia cognominabatur. Ab ipso primum tabulae et imagine signa- tus nummus et inde aerarlo praesidet. Si homo Saturnus utique ex homine, et quia ab homine, non utique de caelo et terra. Sed cuius parentes ignoti erant facile erat eorum fìlium dici quorum et omnes possumus videri. Quis enim non caelum ac terrai matrem ac Min.: Saturnus Creta profugus Italiana metu filii saevientis accesserat et Iani susceptus hospitio rudes illos homines et agrestes multa docuit ut Graeculus et politus, litteras imprimere, nummos signare, instrumenta conficere. Itaque latebram suam, quod tuto latuisset, vocari maluit Latium, et ur.bem Saturniam idem de suo nomine ut laniculum Ianus ad memoriam uterque posteritatis reliquerunt. Homo igitur utique qui fugit, homo utique qui latuit, et pater ho- minis et natus ex homine. Terrae enim vel caeli filius (se. est dictus) quod apud Italos esset ignotis parentibus proditus, ut in hodiernum inopinato visos patrem venerationis et honoris grati a appellet? vel ex consuetudine humana, qua ignoti vel ex inopinato adparentes de caelo supervenisse dicuntur. Proinde Saturno repentino utique caelitem contigit dici; nam et terrae filios vulgus vocat quorum genus incertum est. Etiam Iovera ostendemus tam hominem quam ex homine, et deinceps totum generis examen tam mortale quam seminis sui par. Nunc ego per singulosdecurram? Otiosum est etiam titulos persequi totum generis examen caelo missos, ignobiles et ignotos terrae filios nominamus. Eius fìlius Iuppiter Cretae excluso parente regnavit, illic obiit, illic filios habuit; adhuc antrum Iovis visitur et sepulcrum eius ostenditur et ipsis sa- cris suis humanitatis arguitur. Otiosum est ire per singulos. Saturnum principem huius generis et examinis. Per la divinizzazione dopo morte, M. ha considerazioni diverse dai ragionamenti di Tertulliano. Ricorda Romolo fatto Dio per lo spergiuro di Procolo, e il re Giuba per il consenso dei Mauri ; furono consacrati Dei come si consacrano gli altri re, non per attestare la divinità loro, ma per onorare la potestà che hanno esercitato in terra. Queste stesse persone che si divinizzano, dice, non ne vorrebbero sapere, e sebbene già vecchi declinano quell’onore. Rileva poi l’assurdo di far Dei esseri già morti o nati destinati a morire. E perchè non nascono ora più Dei? Porse s’ è fatto vecchio Giove o s’ è esaurita Giunone? 0 non è da dire anzi che è cessata questa generazione perchè nessuno ci crede più ? E del resto se si creassero nuovi Dei, i quali di poi non potreb- bero morire, s’avrebbero più Dei che uomini, da non poter essere più contenuti nè in cielo, nè nell’aria, nè sulla terra. Tutte queste riflessioni di Minucio sono differenti da quelle che fa Tertulliano ; sicché in questo punto non vi possono essere riscontri. Però confronta: Ad Nationes: qui deum Caesarem dicitis et deridetis dicendo quod non est, et maledicitis quia non vult esse quod dicitis. Mavult enim vivere quam deus fieri. Min.: Invitis his hoc nom.en adscribitur: optant in homine perseverare, fieri se deos metuunt, etsi iam senes nolunt. Tertulliano passa a considerare che cosa sieno effettivamente i supposti Dei pagani. E prima parla dei loro simulacri, i quali son fatti di materia identica a quella dei vasi e strumenti comuni, o forse dai vasi medesimi artisticamente elaborati. Son dunque Dei foggiati per mezzo di battiture, di raschiature, di arroventature; proprio il trattamento che si fa ai Cristiani, di che questi possono avere qualche conforto. Se non che questi Dei non sentono i maltrat- tamenti della loro fabbricazione, come non sentono gli ossequi dei loro fedeli. Tali statue di morti, cui intendono solo gli uccelli e i topi e i ragni, non è egli giusto non adorare? Come sembrerà che offendiamo tali esseri, mentre siam certi che non esistono affatto? Riflessioni analoghe fa M.. Detto delle favole mitologiche irriverenti e corrompitrici, nota che le immagini di tali Dei adora il volgo, più abbagliato dal fulgore dell’oro e dell’argento che ispirato da fede vera; e richiama l’attenzione sul fatto che tali simulacri sono formati dalla mano d’un artista, e se di legno, forse reliquia di un rogo o di una forca; sono sospesi e lavo- rati con l’accetta e la pialla, se d’oro o d’argento, magari tolto da vaso immondo, sono pesti, liquefatti, contusi tra il martello e l’ incudine, ecc. Ecco riscontri: Tertull. Apoi.: reprehendo... materias sorores esse vasculorum instrumentorumque communium vel ex isdem vasculis et instrumentis quasi fatum consecratione mutantes. Min.: deus aereus vel argenteus de immundo vasculo, ut accicipimus factum Aegyptio regi (Amasi, Erodoto) conflatur, tunditur malleis et incudibus figuratur nisi forte nondum deus saxum est vel lignum vel argentum. Quando igitur hic nascitur? ecce funditur, fa- bricatur, sculpitur, nondum deus est; ecce plumbatur construitur, erigitur, nec adhuc deus est; ecce ornatur consecratur oratur, tunc postremo deus est, cum homo illum voluit et dedicavit. Piane non sentiunt has iniurias nec sentit lapideus deus suae et contumelias fabricationis suae dei nativitatis iniuriam ita ut nec postea, vestri sicut nec obsequia ». de vestra veneratione culturam. Statuas milvi et mures et Quam acute de diis vestris attinane ae intellegunt. malia muta naturali ter iudicant ! mures, hirurrdines, milvi non sentire eos sci uni; rodunt inculcant insident, ae, nisi abigatis, in ipso dei vestii ore nidificant; araneae vero faciem eius intexunt et de ipso capite sua fila suspendunt. Vos tergetis mundatis eraditis et illos qoos facitis, protegitis et timetis. Si noti qui la maggior quantità di particolari in M., il che come deva spiegarsi diremo in seguito. Tertulliano invece è poi solo nel notare che i pagani stessi prendono a gioco illudunt e offendono le loro divività, non riconoscendo tutti le stesse, e trat- tando alcuni Dei come i Lari domestici con compre- vendite, pignora- menti, incanti, tal quale s’usa per le case cui sono annessi, altre volte tsasformando, poniamo, un Saturno in una pentola e una Minerva in un mestolo. Di nuovo entrambi ricordano, di passata, le strane cerimonie del culto pagano (Tertull. in., Min. e rilevano le invereconde leggende dai poeti ripetute intorno agli Dei, auspice Omero, e l’aver gli Dei combattuto o pei Greci o pei Troiani, e Venere ferita, e Marte incarcerato, e Giove liberato per opera di Briareo, ecc., ecc. Tertull.: Quanta inverno ludi- Min.: hic enim Homerus bria! deos inter se propter Troianos et praécipuus bello Troico deos vestros, Achivos ut gladiatorum paria congres - etsi ludos facit, tamen in hominum resos depugnasse, Venererà humana sa- bus et actibus miscuit, hic eorum pagitta sauciatam, quod filium suum Ae- ria composuit, sauciavit Venererà, Mar - nean paene interfectum ab eodem Dio- . tem vinooit vulneravit fugavit. Iovem mede rapere vellet, Martem tredecim narrat Briareo liberatum, ne a diis cemensiìms in vinculis paene consumptum, teris ligaretur, et Sarpedonem filium, Iovem ne eandem vim a ceteris caeli- quoniam morti non poterat eripere, tibus experiretur, opera cuiusdam moncruentis imbribus flevisse, et loro Ver stri liberatum, et nunc flentem Sarpe - neris inlectum flagrantius quam in aduldonis casum, nunc foede subantem in teras soleat cum Iunone uxore consororem sub commemoratione non ita cumbere. dilectarum iampridem amicarum. L’esempio d’Omero indusse altri poeti a irriverenti invenzioni: Quis non poeta ex auctoritate Alibi Hercules stercora egerit, principis sui dedecorator invenitur Dee- et Apollo Admeto pecus pascit. Laorum ? Hic Apollinem Admeto regi pa- medonti vero muros Neptunus instituit scendis pecoribus addicit, ille Neptuni (forse: construit) nec mercedem operis structorias operas Laomedonti locat. Est infelix structor accipit. Illic (Vulcanus, et ille de lyricis (Pindarum dico) qui aggiunge TUrsinus) Iovis fulmen cum Aesculapium canit avaritiae merito, quia Aeneae armis in ineude fabricatur, cum avaritiam nocenter exercebat, fulmine caelum et fulmina et fulgura longe ante iudicatum. Malus Iuppiter si fulmen il- fuerint quam Iuppiter in Creta nasce- lius est, impius in nepotem, invidus in retur artifìcem. Dal contesto di Tertulliano apparirebbe ch’egli attribuisse le leggende di Apollo pastore presso Admeto e di Posidone operaio al soldo di Laomedonte ad altri poeti che ad Omero, mentre è noto che già in Omero vi è un cenno di queste leggende. Ma forse Tertulliano aveva in mente ulteriori elaborazioni di dette leggende forse in drammi (ad es., per Apollo pastore, l’Alcestide d’ Euripide), come dopo fa espressa menzione di Pindaro. In Minucio invece tutte le ri- cordate leggende par si attribuiscano ancora ad Omero, il che viene a essere inesatto per il racconto di Ercole che scopa le stalle d’Augia, in Omero non menzionato, e per il ricordo delle armi di ENEA opera di Vulcano, tolto da VIRGILIO (si veda) non da Omero. In connessione col precedente argomento, Tertulliano ricorda an- cora le irriverenze contro gli Dei scritte dai filosofi, specie dai cinici (tra cui pone Varrone, che chiama il Cinico Romano e a cui rimprovera l’aver introdotto ter centos foves sive Jupitros sine capitibus), e quelle peggiori contenute nei mimi e nella letteratura istrionica, aggravati dalla circostanza che gli istrioni spesso rappresentano essi stessi la divinità, e, dice: vidimus aliquando castratura Attin, Mura Deum ex Pessinunte, et qui vivus ardebat Eerculem in - dueraL Di tutto ciò nulla in M.. Invece di nuovo vanno di con- serva nel rinfacciare al paganesimo i sacerdoti corrotti e corruttori. Apoi.: in templis adul - Oct.: dopo ricordati i molti teria componi, inter aras lenocinia incesti delle Vestali, continua: «ubi tractari, in ipsis plerumque aedituo- autem magis a sacerdotibus quam inter rum et sacerdotum tabernaculis sub aras et delubra condicuntur stupra, isdem vittis et apicibus et purpuris tractantur lenocinia, adulterio medithure flagrante libidinem expungi. tantur? frequentius denique in aedituorum cellulis quam in ipsis lupana- ribus flagrans libido defungitur. Si avverta nel latino di Minucio il meditantur usato passivamente con una ripetizione inutile di concetto dopo il condicuntur stupra ; si noti [Salvo se V alibi di M. voglia interpretarsi: «presso altri autori. Ma tale interpretazione ripugna al contesto, perchè poco di poi, ricordato ancora Tadulterio di Marte e Venere, e i rapporti di Giove e Ganimede, soggiunge : quae omnia in hoc (scil. Homero) prodita ut vitiis hominum quaedam auctoritas pararetur. pure l’esagerazione del frequentius quam inipsìs lupanaribus che guasta il concetto espresso dal plerumque di Tertulliano ; in terzo luogo si avverta l’epiteto flagrans attribuito alla libido, in luogo del thure fla- grante così significativo di Tertulliano. Infine quel defmgitur, usato assolutamente, e con soggetto di cosa in senso di « si sfoga » o in quello passivo di viene saziata è tanto poco giustificato da altri esempi di scrittori latini (*), che fa pensare a un errore del testo. Forse in luogo di defmgitur, va letto: expungitur . Tertulliano dopo le cose dette, si dispone a venire alla parte po- sitiva della sua Apologia, ma prima confuta ancora le dicerie sparse sul conto de’ Cristiani, che essi adorassero una testa d’asino e avessero in venerazione la Croce. Quanto alla prima, ne attribuisce l’origine a Tacito, che avendo narrato nel quinto delle Storie l’esodo degli Ebrei dall’Egitto, e la sete patita nel deserto, e il fatto che una fontana era stata indicata da alcuni asini selvatici, aveva soggiunto che gli Ebrei grati a queste bestie del beneficio ricevuto avevano preso a venerarle. Di poi la stessa cosa sarebbe stata attribuita ai Cristiani come setta affine ai Giudei. Eppure, dice Tertulliano, lo stesso Tacito narra bene che quando Pompeo presa Gerusalemme entrò nel tempio, non vi trovò alcun simulacro. Piuttosto ai pagani possono i Cristiani rinfacciare che i giumenti e gli asini intieri venerano insieme colla dea Epona. Quest’ultimo punto, e solo questo, trovasi anche in Minucio onde può riscontrarsi: Tertull. Apoi.:Tostameli Min.: vos et totos asinos non negabitis et iumenta omnia et totos in stabulis curri vestra \jveT} Epona concantherios curri sua Epona coli a vobis secratis, et eosdem asinos cum Iside (cfr. ad Nationes: sane vos totos religiose decoratis. asinos colitis et cum sua Epona et omnia iumenta et pecora et bestias quae perinde cum suis praesepibus consecratis. Impersonalmente trovasi usato defungor in Tee. Adelph.: utinam hic sit modo defunctum, purché la finisca qui » ; e con soggetto di cosa pub ricordarsi il barbiton defunctum bello di Orazio, la lira ha finito le sue battaglie d’amore ». Abbastanza frequente è il defungor usato assolutamente ma con soggetto personale come in Ter. Phorm.: cupio misera in hac re iam de- funger e in Ovid. Am.: me quoque qui toties merui sub amore puellae, defunctum placide vivere tempus erat . Sempre defungi ha senso di « finire la parte sua, esaurire il proprio mandato. Il ricordo degli asini nel culto d’ Iside è solo minuciano, e si aggiuuge ancora menzione di altri culti strani, come quello del bue Api e di altre bestie venerate dagli Egiziani (forse dal De Nat. Deor. di CICERONE. Quanto al culto della Croce, osserva Tertulliano che anche i pa- gani adorano i loro idoli di legno ; sarà dunque question di linee, ma la materia è la stessa, sarà question di forma, ma è sempre il corpo del creduto Dio. Del resto, dice, le immagini in forma di semplice palo della Pallade Attica e della Cerere Paria, che gran differenza hanno dal legno della croce? poiché ogni palo piantato verticalmente è una parte della croce. Poi gli statuari, quando fabbricano un Dio, si ser- vono d’uno scheletro ligneo a croce, tale in fondo essendo la figura del corpo umano ; e un sopporto di legno della stessa foggia usasi pure nei trofei e nelle insegne militari. M. parla di ciò. Ecco alcuni riscontri: Tertull.: Qui crucis nos reli- giosos putat, consecraneus (correligionario) erit noster. Cum lignum aliquod propitiatur, viderit habitus dura materiae qualitas cadera sit, viderit for- ma dum id ipsum Dei corpus sit. Diximus originem deorum vestrorum a plastis de cruce induci » (allusione a Ad Nationes dove la fabbricazione degli idoli con uno scheletro ligneo a forma di croce è ampiamente descritta. Sed et Victorias adoratis cum in tropaeis cruces intestina sint tropaeorum. Religio Romanorum tota castrensis signa veneratur... Omnes illi imaginum suggestus in signis monilia crucum sunt; sipbara illa vexillorum et cantabrorum stolae crucum sunt. Laudo dili- gentiam. Noluistis incultas et nudas cruces consecrare. Ad Nationes: Si statueris hominem manibus expansis, imaginem crucis feceris. Tertulliano poi parla ancora della venerazione del Sole attribuita da alcuni ai Cristiani per l’uso loro di pregare rivolti ad Oriente Ma anche questo, dice, non è rimprovero che si possa fare ai Cristiani, Min.: Cruces... nec colimus nec optamus. Yos sane qui ligneos deos consecratis cruces ligneas ut deorum vestrorum partes forsitan adorates. Nani et signa et cantabra et ve - xilla castrorum quid aliunt quam inauratae cruces sunt et ornatae? tropaea vestra victricia non tantum simplicis crucis faciem verum et adfixi hominis imitantur. Signum sane crucis naturaliter visimus in navi cum velis tumentibus vehitur, cum expansis palmulis labitur; et, cum erigitur iugum, crucis signum est,* et cum homo porrectis manibus deum pura mente veneratur. praticando anche i pagani la preghiera al levar del sole. E se i Cri- stiani fanno festa il giorno del sole (la domenica), fanno ciò per ben altra causa che la religione del sole : pure i pagani nel dì di Saturno (il sabato) si davano all’ozio e al mangiare, scimiottando, a sproposito, i Giudei. Di ciò nulla in M.. Infine nell’Apologetico ricordasi la pittura da un miserabile mu- lattiere messa in pubblico, a Roma, rappresentante una figura umana con orecchie d’asino, e l’un dei due piedi ungulato, vestito di toga e con un libro in mano, appostavi la iscrizione: Deus Christianorum òvoxoirjtrjQ. Era un Giudeo l’autore di questo indecente scherzo (ad Nat.); e la gente ci credette e per tutta la città scorreva sulle bocche quell’ Onocoetes. Ma di tali mostri, soggiunge, veneransi più fra i pagani che tra cristiani; chè essi hanno accolto tra i loro Dei esseri con testa di cane e di leone, e corna di capri e d’ariete, e coda di serpenti, alati le spalle o i piedi. Un fuggevole ricordo di tali mostri è anche in M., che del resto si tace: d) Tertull. : « Illi debebant adorare statim biforme numen, quia et canino et leonino capite commixtos, et de ca- pro et de ariete cornutos, et a lumbis hircos et a cruribus serpentes et pianta vel tergo alites deos receperunt. Solo è invece M. a scagionare i Cristiani dell’accusa di adorare sacerdoti virilia; alla quale occasione ritorce contro gli avversari la taccia di impudicizia, ricordando le licenze sessuali onde quei cinedi si disonoravano. Min.: item bonra capita et capita vervecum et immolatis et colitis, de capro etiam et de homine mixtos Deos et leonum et canum vultn deos dedicatis. Ma venendo ornai alla parte positiva della dottrina, Tertulliano celebra il Dio unico, creatore del cosmo, invisibile sebben si veda, incomprensibile sebbene in via di grazia divenga presente, inestimabile sebbene coll’umano sentimento si stimi. E in quanto si vede, si comprende, si stima, Egli è minore dei nostri occhi, delle nostre mani, dei nostri sensi; ma in quanto immenso, a sè solo è noto. Così la sua stessa grandezza lo rende noto e ignoto insieme a noi. Ecco appunto il gran delitto, consistente nel non voler riconoscere Dio, mentre non si può ignorare. Non lo attestano le sue opere? non lo attesta la stessa anima? la quale sebbene incarcerata nel corpo, svigorita dalla concupiscenza, fatta ancella di falsi Dei, pure quando rientra in sè e sente la sua sanità naturale, esce fuori in esclamazioni, quali: Dio buono e grande!, e: ci sia propizio Iddio!, e : Dio vede, e : a Dio ti raccomando e simili; e queste cose, esclama, non rivolta al Campidoglio, ma al Cielo, sede naturale del Dio vivo. In Minucio la parte positiva del discorso, per quel che riguarda la filosofia o teologia razionale, precede la parte polemica o negativa. Del Dio unico parla Ottavio in principio del suo discorso, e trovansi diversi luoghi paralleli a passi di Tertulliano. Eccoli: Tertull.: deus ... totam molem istam verbo quo iussit, ratione qua disposuit, virtute qua potuit de nihilo expressit. Per il dispensare in confronto col disponere, vedi CICERONE. Orai.: inventa non solum ordine sed edam momento quodam atque iudicio dispensare atque disponere . Invisibilis est incomprehensibilis... inaestimabilis. quod immensum est, soli sibi notus est. Anima cum sanitatem suam patitur, deum nominat. Deus bonus et magnus et quod Deus dederit 1 omnium vox est. Iudicem quoque contestato illum ‘ Deus videt ’ et Deo commendo, et Deus mihi reddet \ 0 testimonium animae naturaliter Christianae! Denique pronuntians haec non ad Capitolium sed ad caelum respicit». Su questo tema dell’anima naturalmente cristiana è noto che Tertulliano scrisse più tardi un opuscoletto a parte intitolato appunto De testimonio animae, dove le stesse idee sono esposte con maggiore ampiezza ed efficacia. Min.: Qui Deus universa quaecumque sunt verbo iubet, ratione dispensai, virtute consummat hic non videri potest... nec comprendi potest nec aestimari. Immensus et soli sibi tantus quan- tus est notus ». « Audio vulgus; cum ad caelum ma* nus tendunt, nihil aliud quam * o Deus ’ dicunt et ‘Deus magnus est’ et * Deus verus est’ et ‘ si Deus dederit’. Yulgi iste natoalis sermo est an Christiani confidente oratio ? L’Apologetico e importante per le indicazioni delle fonti letterarie della dottrina cristiana. Ricordati i primi storici ispirati dall’Ebraismo e i profeti e i libri ebraici tradotti in greco dai Settandue per suggerimento di Demetrio Falereo al tempo <ìi Tolomeo Filadelfo, ricordata l’antichità dei primi scrittori ebraici molto maggiore di qualsiasi memoria greca, e fatto anche un cenno di altre fonti storiche greche, egiziane, caldee, fenicie fino a Giuseppe Ebreo, notata la concordia e completezza delle profezie che pronunziarono gli avvenimenti secondo verità, e hanno acquistata autorità sicura anche per le cose ancora da venire, Tertulliano espone la dottrina di Cristo uomo e Dio. La teoria della Trinità divina in unità di sostanza è qui già chiara- mente formolata, e confermasi l’idea del Àóyog, o parola o ragion divina artefice dell’universo, con testimonianze di antichi filosofi. Poi si riassume la storia di Gesù e ricordasi la divulgazione della dottrina di lui fatta dagli Apostoli, fino alla persecuzione neroniana. Ecco dunque, conchiude, qual’ è la nostra fede, che noi sosteniamo anche fra i tormenti : Deum colimus per Christum . Cristo è uomo ma in lui e per lui Dio vuol essere riconosciuto e adorato. Di questa, che è la sostanza del Cristianesimo, Minucio tace affatto; non nomina neppur Cristo, pur parlando a ogni piè sospinto de’ Cristiani. È questo il lato debole dell’ Ottavio. Solo in un punto uvvi una non chiara allusione alle dottrine dell’uomo-Dio, uve per iscagionare i correligionari dall’accusa di venerare un delin- quente dice : « molto siete lungi dal vero, se ritenete si creda da noi deum aut meridie ìioxium aut potuisse terrenum, che un Dio o si rendesse colpevole da meritar supplizio o potesse come cosa terrena subirlo; parole non abbastanza chiare nel testo latino, e che diedero luogo a ben disparate interpretazioni. Minucio in questo luogo è rimasto inferiore a sè stesso, nè s’avvide come questa dottrina fondamentale meritava più ampio svolgimento in una difesa del resto eloquente e sentita della nuova religione. Continuando Tertulliano la esposizione sua, parla dell’esistenza di sostanze spirituali, esistenza ammessa già dai filosofi e poeti antichi come dal volgo; e, ricordata la caduta di alcuni angeli e l’origine dei demoni, parla dell’opera di costoro tutta rivolta a dannar l’uomo; son essi che eccitano le più strane passioni u pazzi capricci e corruttele dell’anima; son essi che ingenerano la fede negli Dei falsi e bugiardi, e, colla loro rapidità di movimenti e parziale notizia del vero anche futuro, ispirano oracoli e vati, e in tutto contribuiscono a ingenerare inganni e deviar la mente dal vero Dio. I miracoli dei maghi son da loro ; da loro spesso i sogni e ogni specie di divinazione. La più bella prova di ciò, dice Tertulliano, è questa che se uno invaso da un demone si trovi in faccia a un Cristiano, e questi dia ordine al demone di parlare, quegli senz’altro si confesserà, quel che è ; e così pure quelli che son creduti invasi da un Dio, in presenza d’un cristiano confessano di essere nient’ altro che demoni. Il nome di Cristo basta ad atterrire questi esseri ; una prova di più cho il nostro è l’unico Dio e vero, e che non esistono gli Dei pagani. Sicché si vede quanto poca regga l’accusa di lesa religione romana, mentre di vera irreligiosità si macchiano gli avversari coll’ adorare i falsi Dei, e diversi nelle diverse regioni, e altresì coll’ impedire a noi il culto del vero Dio. Tali pensieri trovansi su per giù anche in M.. Ottavio discorre degli spiriti mali, degradati dalla loro primiera innocenza e tutti intenti a perdere anche gli altri. Tale discorso continua r offrendo vari luoghi paralleli a Tertulliano. Tertull. Apolog,:Sciunt daeraones philosophi, Socrate ipso ad daemonii arbitrium exspectante. Quidni? cum et ipsi daemonium a pueritia adhaesisse dicatur, dehortatorium piane a bono. Omnes sciunt poetaen. Min.: eos spiritus daemones- esse poetae sciunt, philosophi disserunt, Socrates novit, qui ad nutum et arbitrium adsidentis sibi daemonis vel deeli nabat negotia vel petebat. Il demonio socratico è da Tertulliano giustamente detto debortatorium a borio; meno esattamente Minucio gli attribuisce efficacia e positiva e negativa contro la nota verità storica. Quid ergo de ceteris ingeniis vel etiam viribus fallaciae spiritalis edisseram? phantasmata Castorum, et aquam cribro gestatara, et navem cingalo promotam f et barbam tactu inrufatam, ut numina lapides crederentur et deus verus non quaereretur ? Min.: de ipsis daemonibus etiam illa quae paullo ante tibi dieta sunt, ut Iuppiter ludos repeteret ex somnio, ut cum equis Castores viderentur, ut cingulum matronae navicula sequeretur. Tali esempi di miracoli erano conosciuti volgarmente dai libri relativi all’arte divinatoria, e in riassunti dottrinali non fa meraviglia di veder citati or gli uni or gli altri. Tertull.: « Iussus aquolibet chrifitiano loqui spiritus ille tam se daerannem confitebitur de vero quam alibi dominum de falso. Aeque producatur aliquis ex his qui de deo pati existiraantur Ista ipsa Virgo caelestis pluviarum pollicitatrix, ipse iste Aesculapius medicina- Tum demonstrator nisi se daemones confessi fuerint Christiano mentiri non audentes etc. vobis praesentibus erubescentes. Credite illis, cura verum de se lo- quuntur, qui mentientibus creditis. Nemo ad suum dedecus mentitur, quin potius ad honorem de corporibus nostro imperio «xcedunt inviti et dolentes sciunt pleraque pars vestrum ipsos daemonas de se met ipsis confiteri, quotiens a nobis tormentis verborura et oratìonis incendiis de corporibus exiguntur. Ipse Saturnus et Serapis et Iuppiter... vieti dolore quod sunt eloquuntur. nec utique in turpitudinem sui, nonnullis praesertim vestrum adsisten- tibus mentiuntur . Ipsis testibiis esse eos daemonas credite fassis adiurati per deum verum et solum inviti miseri corporibus inhorre- scunt et... exsiliunt. Un altro riscontro ancora notasi volgendo rocchio a Tertulliano ove si riprende il discorso degli angeli e dei demoni. Licet subiecta sit nobis tota vis daemonum et eiusmodi spirituum, ut nequam tamen servi metu nonnunquam contumaciam miscent, et laedere gestiunt quos alias verentur. Odium enim etiam timor spirat. Inserti mentibus imperitorum odium nostri serunt occulte per timorem ; naturale enim est et odisse quem timeas et quem oderis infestare si possis. In Tertulliano sono i demoni che temendo i Cristiani, appunto per ciò qercano di offenderli, perchè il timore partorisce odio. In Minucio si fa che i demoni insinuino nei pagani Todio contro i Cristiani per mezzo del timore. Ma ciò, si noti, è meno naturale, perchè i pagani non avevano nessuna ragione di temere i Cristiani. Li odiavano invece senza conoscere la loro dottrina ; ma ciò non ha a che fare col timore. Non a proposito dunque Minucio fece sua quest’osservazione psicologica dell’odio figlio del timore. Infine a riguardo della varietà politeistica, Tertulliano ricorda le bestie venerate in Egitto ; e qui è da fare un raffronto con M. Tertull.: Aegyptiis permissa est tam vanae superstitionis po- testas avibus et bestiis consecrandis et capite damnandis qui aliquem huiusmodi deum occiderint. Min.: nec eorum (Aegyptiorum) sacra damnatis instituta serpentibus, crocodilis, belluis ceteris et avibus et piscibus, quorum aliquem deum si quis occiderit etiam capite punitur. Una delle ragioni che i pagani opponevano più frequentemente alle censure dei loro Dei fatte dai seguaci del Cristo, era questa che a buon conto Roma doveva la sua grandezza alla religiosità tradizio* naie e al rispetto degli Dei e delle cerimonie istituite in loro onore. Di questa idea appunto si fa interprete Cecilio Natale presso M. nel suo discorso in difesa del paganesimo. I Cristiani dovettero ribattere queste ragioni, mostrando che Roma se era grande non doveva nulla ai falsi Dei. Tertulliano svolge questo punto nell’Apologetico. Con ironia comincia a chiedere se Dei quali Stercolo e Mutuno e Larentina hanno potuto promuovere l’imperio ; poiché, dice, non è da supporre che Dei forestieri, come la Gran Madre, favorissero Roma, a detrimento dei loro fedeli indigeni. Del resto, soggiunge, molti Dei romani furono prima re ; da chi ebbero la podestà regia? Forse da qualche Stercolo. E il potere di Roma già era, molto prima che si costituisse il culto ufficiale, e che di idoli greci ed etruschi fosse inondata la città. Ma poi tutta la storia romana è prova di irreligiosità piuttostochè di religiosità. Guerre e conquiste di città come si fanno senza ingiuria agli Dei, senza distruzione di templi e stragi di cittadini e di sacerdoti, e rapine di ricchezze sacre e profane? E come può essere che gli Dei delle città vinte tollerino poi d’essere adorati dai conquistatori ? Non possono dunque essersi fatti grandi per merito della religione quelli che crebbero coll’offenderla o crescendo l’offesero. Anche Ottavio in M., svolge questi pensieri, ricordando le scelleratezze compiute da Romolo in poi, e mostrando la improbabilità che i Romani siano stati aiutati dai loro Dei vernacoli come Quirino, Pico, Tiberino, Conso, Pilunno, Volunno, Cloacina, il Pavor e il Pallor, la Febbre, Acca Laurenzia e Flora; tanto meno li aiuta- rono gli Dei forestieri come Marte Tracio, Giove Cretese, Giunone o Argiva o Samia o Punica che dir si voglia, Diana Taurica, la madre Idea, o le non divinità ma mostruosità egiziane, (ricordi attinti a CICERONE e Seneca, v. ediz. Waltzing. Ecco qualche riscontra con Tertulliano: Tertull.: Tot igitur sacrilegia Min.: totiens ergo Romania Romanorum quot tropaea, tot de deis impiatum est quotiens triumphatum, quot de gentibus triumphi, tot manu- tot de diis spolia quot de gentibus et biae quot manent adhuc simulacra capti- tropaea. vorum Deorum. Omne regntim vel imperium bellis quaeritur et victoriis propagata. Porro bella et victoriae captis et eversis plurimum urbibus Constant. Id negotium sine deorum ini uria non est. Eadem strages moenium et templorum pares caedes civium et sacerdotum, nec dissimiles rapinae sacrarum divitiarum et profanarum. Tertull.: Videte igitur ne ille regna dispenset cuius est et orbis qui regnata et homo ipse qui regnat... Regnaverunt et Babylonii ante ponti - fices et Medi ante XVriros et Aegyptii ante Salios et Assyrii ante Lupercus, et Amazones ante Virgines V est ale s. civitates proximas evertere cum templis et altaribus disciplina com- raunis est Ita quicquid Romani tenent colunt possident, audaciae praeda est: tempia omnia de manubiis, i. e. de ruinis urbium, de spoliis deorum, de caedibus sacerdotum. Hoc insultare et inludere est.... adorare quae manu ceperis, sacrilegium est consecrare non numina. Min.: ante Romanos deo dispensante diu regna tenuerunt Assyrii, Medi, Persae, Graeci etiam et Aegyptii, cum pontifices et arvales et salios et vestales et augures non haberent nec pullos caveas reclusos quorum cibo vel fastidio reip. summa regeretur. Per non volere i Cristiani sacrificare agli idoli, erano tacciati sì di irreligiosità, ma non potevano essere processati per questo, essendo ciascuno libero di avere, come gli piaccia, favorevoli o sfavorevoli gli Dei. Formale accusa invece si moveva loro per non volere sacrificare in onore dell’ imperatore divinizzato, e chiamavan questo lesa maestà. Di ciò parla Tertulliano. La cosa si capisce, die egli ; voi avete più paura e usate furbescamente più riguardi a Cesare che a Giove stesso in Cielo. In fondo avete ragione; perchè un vivo vai più dun morto. Ma commettete voi in questo colpa d’irreligiosità, dando la preferenza a una dominazione umana; e più presto si sper- giura da voi per tutti gli Dei che per il solo genio di Cesare. A questo punto è a notare una lieve somiglianza col discorso di Ottavio presso Minucio, là dove rimprovera i pagani del prestar culto divino ad un uomo, e dell’ invocare un nume che non c’ è ; pure, dice, è per loro più sicuro spergiurare per il genio di Giove che per quello del re. Tertull.: citius de- Min.: et est eis tutine per nique apud vos per omnes Deos quam Ioyìs genium peierare quam regis. per unum genium Caesaris peieratur. Segue in Tertulliano un gruppo di capitoli bellissimi in cui con calorosa eloquenza si fa vedere quanto più onesti ed efficaci voti facessero i Cristiani pregando per la salute dell’imperatore il Dio uno e vero, e a cbi solo può dare chiedendo per lui lunga vita, securo imperio, casa tranquilla, forte esercito, senato fedele, popolo probo, mondo quieto; e ciò non con apparati di culto esterno, ma con sincerità d’anima e innocenza di vita. I Cristiani, dice, hanno imparato dal loro Maestro a pregare anche per i nemici e i persecutori; e nel far voti per la diutur- nità dell' impero, sanno di ritardare quel cataclisma che minaccia all’orbe universo la fine. Ma non possono chiamare Dio l’ imperatore senza derisione di lui e ingiuria al vero Dio. Perchè dunque saranno qualificati come nemici pubblici? Forse perchè si astengono dalle licenziose feste pubbliche celebrate a solennizzare qualche lieto avvenimento della casa imperiale? A buon conto, non dai Cristiani, ma dal novero dei Komani escono e i Cassii e i Nigri e gli Albini, cioè i ribelli all’autorità imperiale; i quali pure avevan preso manifesta parte alla feste pubbliche e ai pubblici voti per la salvezza dell’ imperatore. La vera sudditanza e fede dovuta all’autorità sta nei buoni costumi e nei rapporti d’onestà quali noi Cristiani serbiamo con tutti. Amando noi i nostri nemici, chi possiamo ancora odiare? Inibita a noi la vendetta, chi possiamo offendere? Quando mai i Cristiani pensarono a vendi- carsi neppure del volgo che li malmenava, non rispettando nemmeno i morti? Eppur quanto facimente avrebber potuto preparare le loro vendette in segreto, o anche dichiarare aperta guerra, tanto numerosi essi già sono in tutte le città, nelle isole, nei municipi, nei campi militari, nel senato stesso e a corte ! Potevano anche senz’armi pugnare, ritirandosi in qualche angolo remoto del mondo e lasciando dietro sè una spaventosa solitudine. Eppure ci avete chiamati nemici del genere umano, anziché « dell’errore umano. Che ragion vi era di non considerare la nostra setta come una factio licita, dal momento che non facciamo nulla che turbi la società, e produca divisioni, attriti, violenze? Una repubblica sola noi riconosciamo, il mondo. Ai vostri spettacoli rinunziamo, perchè ne conosciamo l’origine dalla falsa religione. In che v’offendiamo, se abbiamo altri gusti e piaceri? L’unità della fede e della speranza ci unisce e ci affratella. Ci aduniamo a pregare e a leggere i libri santi; ivi ci esortiamo a far bene, e ci rimproreriamo se manchiamo ai nostri doveri. Si contribuisce un tanto al mese per alimentare i poveri e so- stenere le spese delle sepolture e dei derelitti. Il nostro mutuo amore 4, dà noia agli avversari, perchè essi si odiano, noi siamo pronti a morire l’un per l’altro, quelli ad uccidersi l’un l’altro. Ci riconosciamo fratelli, perchè abbiamo lo stesso padre Iddio,, e come si mescolano le nostre anime, così mettiamo in comune le sostanze. Tutto è da noi accomunato, salvo le mogli. Le nostre cene sono parche e denominate con parola significante amore, e lì si prega prima di mangiare come dopo, e si canta, chi sa farlo, in onor di Dio. Che male c’ è, o a chi torna di danno tutto ciò, da parlare di factìo illicita? A questo punto, il dialogo di M. offre qualche possibilità di riscontro con l’Apologetico. Giacché, dopo confutata l’accusa di cene incestuose, Ottavio nel suo discorso prende subito a celebrare l’ innocenza dei costumi cristiani, e qua e là il suo pensiero corre parallelo a quel di Tertulliano. Tertull., fin.: haec Min.: nec factiosi (così coitio Christianorum merito damnanda THerald; il cod. ha: ‘fastidiosi 1 ) su- I si quis de ea queritur eo titillo quo de mus, si omnes unum bonura sapimus factionibus querela est. In cuius perni- eadem congregati quiete qua singuli. ciem aliquando convenimus? Hoc su- mus congregati quod et dispersi, hoc universi quod et singuli, neminem lae- dentes, neminem contristantes. Sed eiusmodi vel maxime dile- sic mutuo, quod doletis amore ctionis operatio notam nobis inurit pediligimus, quoniam odisse non novimus, nes quosdam. Vide, inquiunt, ut in vicem sic nos, quod invidetis, frati es vocamus, se diligant; ipsi enim invicem oderunt; ut unius dei parentis homines, ut con- et ut prò alterutro mori sint parati; sortes fidei, ut spei coheredes. Yos enim ipsi enim ad occidendum alterutrum pa- nec invicem adgnoscitis, et in mutua ratiores erunt. Sed et quod fratres nos odia saevitis, nèc fratres vos nisi sane vocamus, non alias opinor, insaniunt ad parricidium recognoscitis. quam quod apud ipsos omne sanguinis nomen de affectione simulatum est. Fra- y tres autem etiam vestri sumus at quanto dignius fratres et dicuntur et habentur qui unum patrem Deum agnoverunt, qui unum spiritum biberunt sanctitatis, qui de uno utero ignorantiae eiusdem ad unam lucem exspiraverunt Veritatis. Tertull.: Deo offero opimam et maiorem hostiam... orationem de carne pudica, de anima innocenti, de spiritu sancto profectam. Tertull.: Aeque spectaculis vestris in tantum renuntiamus in quantum originibus eorum, quas scimus de superstitione conceptas, cupi et ipsis rebus de quibus transiguntur praetersumus. Nihil est nobis dictu, visu, auditu cum insania circi, cum impudicitia theatri, cum atrocitate arenae, cum xysti vanitate. Min.: qui innocentiam colit Deo supplicat, qui iustitiam Deo libat... qui hominem periculo subripit, opimam (il cod. ha optimam) vidimavi caedit: a nos. . merito malis voluptatibus et pompis et spedaculis ve- stris abstinemus, quorum et de sacris originem novimus, et noxia blandimenta damnamus. Nam in ludis circensibus (così leggo io, il cod. ha: currulibus) quis non horreat populi in se rixantis insaniam ? in gladiatoriis homicidii di- sciplinami? in scenicis etiam non minor furor et turpitudo prolixior ; nunc enira mimus yel exponit adulteria vel monstrat, nunc enervis histrio amorem dum fingit infigit I capitoli XL e XLI dell’Apologetico contengono la confutazione dell’accusa che delle pubbliche calamità fossero causa i Cristiani, come 8’ andava già fin d’allora vociferando, e si seguitò a dire per molte ge- nerazioni. Tertulliano ricorda molti cataclismi, isole scomparse, terre- moti e maremoti, e il diluvio, e l’ incendio di Sodoma e Gomorra, di- sastri avvenuti tutti avanti al Cristianesimo. E col distruggersi delle città, dice, si distruggevano anche i templi degli Dei; prova che non veniva da loro ciò che anche a loro accadeva. Bensì il Dio unico e vero non poteva essere propizio a chi ne disconosceva i favori. Del resto, i mali ora sono minori di prima, e ciò è dovuto alle preghiere dei Cristiani che disarmano l’ira divina. Che se il nostro Dio per- mette i disastri anche a danno de' suoi cultori, ciò non ci stupisce nè sgomenta, aspirando noi a vita più alta e migliore. Di tutto questo in Minucio non v’ è parola. Altro titolo d’ ingiurie contro i Cristiani era il ritenerli alieni dagli affari e disutili al commercio locale. Tertulliano dedica a questo argomento i capitoli XLII e XL1II, dove fa vedere l' insussistenza di questo rimprovero. Vivevano bene i Cristiani come gli altri, serven- dosi e dei mercati e delle botteghe e delle officine e dei bagni pubblici. Che se si astenevano da certi usi, se non si coronavano di fiori la testa, se non intervenivano agli spettacoli, se non sovvenivano i templi pagani coi loro contributi, avevano bene ragione di farlo. E del pari certo quattrini non ricevevano da loro nè i lenoni, nè.i sicari, nè i magi, nè gli aruspici, nè altri tali ; ma in compenso i Cristiani eran tutte persone innocue da non dar ombra a nessuno. Qui, rispetto alluso di portar corone di fiori in capo, si può con- frontare : Tertull.: non amo capiti coronam. Quid tua interest, em- ptÌ8 nihilominus floribus quomodo utar ? Puto gratius esse liberis et solutis et undique vagis. Sed etsi in coronam coactis, nos coronam nariòus novimus, viderint qui per capillum odorantur. Min. c. 38, 2 : « quis autem ille qui dubitat vernis indulgere nos floribus, cum capiamus et rosam veris et lilium et quicquid aliud in floribus blandi co- loris et odoris est? his enim et sparsis utimur, mollibus ac solutis, et sertis colla complectimur. Sane quod caput non coronamus, ignoscite; auram bo- nam floris nariòus ducere non occipitio capillisve solemus haurire. 1 due capitoli che seguono in Tertulliano, il XLIV e il XLY, sono rivolti a segnalare l’ innocenza dei Cristiani, proveniente dal se- guire essi una legge non umana ma divina, e dal considerarsi come in presenza di Dio sempre, di Dio scrutatore, giudice e vindice. Terlull. Tot a vobis nocentes variis criminum elogiis recen- sentur; quis illic sicarius, quis manti- cularius, quis sacrilegus aut corruptor aut lavantium praedo, quis ex illis etiam Christianus adscribitur? aut cum Chri- stiani suo titulo offeruntur, quis ex illis etiam talis qttales tot nocentes? De vestris semper aestuat career, de vestris semper metalla suspirant, de vestris semper bestiae saginantur, de vestris semper munerarii noxiorum greges pascunt. Nemo illic Christianus nisi piane tantum Christianus, aut si et aliud iam non Christianus. : quid perfectius, prò- hibere adulterium, an etiam ab oculorum solitaria concupiscentia arcere ? : u Christianus uxori suae soli masculus nascitur. Min.: de vestro numero career exaestuat, Christianus ibi nullus nisi aut reus suae religionis aut'profugus: vos enim adulteria pròhibetis et facitis, nos uxoribus nostris solummodo viri nascimur. Pur vinti da tanta copia di fatti e bontà di ragioni, non si arrendevano gli avversari de’ Cristiani, e, a corto d’altri argomenti, finivano con dire che in sostanza le massime cristiane non erano cosa nuova, ma erano già state professate e praticate dai filosofi. Di ciò Tertulliano nel capitolo XLYI, dove istituisce un eloquente confronto tra le massime e la vita pagana da una parte e i precetti e costumi cristiani dall’ altra, per dimostrare la superiorità dei secondi. Qui un riscontro con M.: Tertull. c. XLVI: a ... licet Plato Min. c. 19, 14: u Platoni... in Ti- adfirmet factitatorem universitatis ne- maeo deus est ipso suo nomine mundi que inveniri facile et inventum enar- parens, artifex animae, caelestium ter- rari in omnes difficile. Cfr. Plat. Tim. renorumque fabricator, quem et inve-: « Tòv fxhv noirjrijy xai nire difficile praenimia et incredibili naréga tovóe tot) navròg eògeìv re eg- potestate (cfr. Plato qui inve- lo!', xai etigóvia elg ndvrag àóvvarov nire Deum negotium credidit, et Xéyeivn. cum inveneris in publicum praedicere impossibile praefatur. Non può negarsi, riconosce Tertulliano, che i filosofi antichi hanno espresso molte cose vere, ma queste son derivate dalla fonte dei nostri profeti. E queste stesse verità sono involute e com- mescolate a ipotesi e opinioni disparatissime, sicché poi questi filosofi sono in completo disaccordo gli uni cogli altri. Tale varietà d’opinioni pur troppo venne anche introdotta nella setta cristiana, sicché bisognò prescrivere ai nostri adulteri, quella essere regola di verità la quale venga a noi trasmessa da Cristo per mezzo de’ suoi compagni. Per queste adulterazioni della verità, insinuate dagli spiriti dell’errore, certi prin- cipii già si trovano tra i pagani, come il giudizio finale delle anime, le pene dell’inferno e il soggiorno delizioso degli Elisi, ma tali prin- cipii in quanto hanno del vero, sono di origine nostra. Tertull.: quis poetarum, quis Min.: animadvertis philososophistarum,qui non omnino de prò- pbos eadem disputare quae dicimus, pbetarum fonte potaverit? non quod nos simus eorum vestigia u Unde baec ... nonnisi de nostris sasubsecuti, sed quod illi de divinis praecramentis? Si de nostris sacramentis, dictionibus profetarum umbram inter- ut de prioribus, ergo fideliora sunt no- polatae veritatis imitati sint ». stra magisque credenda, quorum imagines quoque fìdem inveniunt. Una delle credenze cristiane più combattute e derise dagli avversarli, era quella della resurrezione finale dei corpi e del ritorno delle anime in que’ corpi che già avvivarono. A questo dogma dedica Ter- tulliano il cap. XLYIII, adducendo la ragione della divina onnipo- tenza, che come ha dal nulla creato il mondo, così può far risuscitare i corpi morti. Non è quotidianamente sotto gli occhi nostri il segno della resurrezione nell’alternativa della luce e delle tenebre, nel tramontare e rinascere delle stelle, nel rifarsi delle stagioni e dei prodotti della natura? Se a Dio fosse piaciuta altresì l’alternativa della morte e della resurrezione, chi l’avrebbe impedito? Volle invece che alla condizione presente di vita passeggera, si contrapponesse un’altra vita eterna, e a questa passassero tutti risorgendo coi corpi, per vivere un’eternità di premio o di pena secondo i meriti di ciascuno. E il fuoco eterno che aspetta i dannati, è di natura ben diversa dal nostro; come altro è il fuoco che serve agli usi umani, altro quello che apparisce nei fulmini del cielo o nelle eruzioni dei vulcani, perchè questo non consuma quello che brucia, e mentre disfa, ripara. Tali principii se sono professati da filosofi e da poeti, si tollerano e si lodano; perchè noi Cristiani dobbiamo esserne derisi e anche puniti? Infine queste credenze sono utili, perchè allontanano dal mal fare colla paura dei divini castighi, e, alla peggio, non fan male a nessuno. Anche M. mette in bocca al suo Ottavio alcune considera- zioni sulla fine del mondo e la risurrezione dei morti, dedicandovi tutto il capo 34 e parte del 35. Sulla fine del mondo ricorda le opinioni degli Stoici e degli Epicurei e anche di Platone circa la conflagrazione finale dell’universo, e giustifica così la credenza cristiana. Per la risurrezione pure cita Pitagora e Platone, ma solo per dimostrare che i saggi pagani in questo vanno in qualche modo d'accordo coi Cristiani. Ricorre anch’egli all’argomento dell’onnipotenza divina e alla possibi- lità che rinasca dal nulla quello che dal nulla ebbe origine, come accenna pure ai segni di risurrezione dati dalla natura, e alle condizioni del fuoco eterno. Qui alcuni riscontri: Tertull.: sed quomodo, inquis, dissoluta materia exhiberi potest? Considera temetipsum, o homo, et fidem rei invenies. Kecogita quid fueris antequam esses. Utique nihil; Min.: quis tam stultus aut brutus est, ut audeat repugnare, hominem a Deo ut primum potuisse fingi, ita posse denuo reformari? Sicut de nihilo nasci licuit, ita de nihilo limeminisses enim si quid fuisses. Qui cere reparari? porro difficilius est id ergo nihil fueras priusquam esses, idem quod non sit incipere, quam id quod nihil factus cum esse desieris, cur non fuerit iterare. Tu perire et Deo credis possis rursus esse de nihilo eiusdem si quid oculis nostris hebetibus subipsius auctoris voluntate qui te voluit trahitur ? » esse de nihilo ? Quid novi tibi eveniet ? Qui non eras factus es; cum iterum non eris fies. Et tamen facilius utique fies quod fuisti aliquando, quia aeque non difficile factus es quod nunquam fuisti aliquando. Lux coti die interfecta Min. ib. 11: «in solacium nostri resplendet et tenebrae pari vice dece- resurrectionem futuram natura omnis dendo succedunt, sidera defuncta vive- meditatur. Sol demergit et nascitur, scunt, tempora ubi finiuntur incipiunt, astra labuntur et redeunt, flores occi- fructus consummantur et redeunt, certe dunt et revirescunt, post senium ar- semina non nisi corrupta et dissoluta busta frondescunt, semina nonnisi cor fecundius surgunt, omnia pereundo ser- rupta revirescunt». vantar omnia de interitu reformantur. Tertull. ibid.: « Noverunt et phi- : Illic sapiens ignis losophi diversitatem arcani et publici membra urit et reficit, carpit et nutrit. ignis. Ita longe alius est qui usui hu- Sicut ignes fulminum corpora tangunt mano, alius qui iudicio Dei apparet, nec absumunt, sicut ignes Aetnaei monsive de caelo fulmina stringens, sive de tis et Vesuvi montis et ardentium ubi- terra per vertices montium eructans: que terranno flagrant nec erogantur, non enim absumit quod exurit, sed dum ita poenale illud incendium non damnis erogat reparat. Adeo manent montes sem- ardentium pascitur, sed inexesa corpo- per ardentes, et qui de caelo tangitur, rum laceratione uutritur. salvus est, ut nullo iam igni decinerescat. Et hoc erit testimonium ignis aeterni, hoc exemplum iugis iudicii poenam nutrientis. Montes uruntur et durant. Quid nocentes et Dei hostes? Eccoci all’ultimo capitolo dell’Apologetica, dove il grande scrittore africano giustifica l’atteggiamento dei Cristiani, esultanti di essere perseguitati e di soffrire anche la morte per la confessione di Cristo. Tale atteggiamento era oggetto di vive censure; eran considerati i Cristiani come gente disperata e perduta. Pure gli antichi avevano celebrato invece come eroi gloriosi alcuni uomini che avevano patito, senza scomporsi, i più atroci dolori, quali un Mucio Scevola, un Attilio Regolo, ecc. Perchè han da stimarsi pazzi i Cristiani che fan lo stesso? Del resto, conchiude Tertulliano, fate pure, o buoni governanti, contentate la plebe tormentandoci, condannandoci, uccidendoci; codesta crudeltà non servirà che ad aumentare il nostro numero; il nostro sangue è seme; il nostro esempio e l’ostinazione che ci rinfacciate, fa scuola ; perchè chi ci vede e ammira, sente di dover ricercare che cosa ci sia sotto, e conosciuto vi si converte, e convertito desidera patire alla sua volta per redimere la sua vita anteriore e ottenere Feterno premio. Di analogo argomento, della resistenza dei Cristiani al dolore e della lotta loro contro le minaccie e i tormenti dei carnefici, discorre pure Ottavio in Minucio. Anche per lui il soffrire non è castigo, è milizia, e non è vero che Dio abbandoni chi soffre, anzi lo assiste e a sè trae. Che bello spettacolo per Dio quando il cristiano scende in lizza col dolore e le minacce e le torture, e contro re e principi difende a testa alta la libertà della sua fede, non cedendo che a Dio, vincitore anche di chi lo condanna e uccide. Glo- rioso ritiensi colui che tormenti ha sostenuto con costanza; ma altret- tali e peggiori soffrono col sorriso sulle labbra i fanciulli e le donnicciuole cristiane, evidentemente perchè li aiuta Iddio. In manifesta affinità di pensieri, non mancheranno riscontri di parole: Tertull. c. L: Victoria est... prò quo certaveris obtinere. Haec desperatio et perditio penes vos in causa gloriae et famae vexillum virtutis extollunt. Mucius dexteram suam libens in ara reliquit: o sublimitas animi ! Empedocles totum sese Catanensium Aetnaeis incendiis do- navit : o vigor mentis! Aliqua Cartaginis conditrix rogo se secundum matrimonium dedit : o praeconium castitatis! Regulus ne unus prò multis hostibus viveret, toto corpore cruces patitur: o virum fortem et in captivitate victorem! etc. Min.: vicit qui quod contendi obtinuit. vos ipsos calamitosos vi- ros fertis ad coelum, Mucium Scaevolam, qui cum errasset in regem perisset in hostibus nisi dexteram perdidisset. Et quot ex notfris non dextram solum sed totum corpus uri, cremari, sine ullis eialatibus,pertulerunt,cum dimitti prae- sertim haberent in sua potestate! Viros cum Mucio aut cum Aquilio aut Regulo Comparo? pueri et mulierculae nostrae cruces et tormenta, feras et omnes suppliciorum terriculas inspirata patientia doloris inludunt. Messoci sott’occhio ordinatamente e nel modo più compiuto possibile il materiale di raffronto fra Tertulliano e M., possiamo risolvere il problema, quale dei due abbia avuto sott’occhio l’opera dell’altro. A questo fine chi ci ha seguito fin qui voglia con noi fare due osservazioni. La prima è che in molti luoghi si trova la stessa materia trattata con ampiezza e originalità di vedute da Tertulliano, e accennata brevemente da Minucio; ad es. al § 1 c, come già s’è osservato, a tutta una teoria tertullianea sulla natura del male morale e sull’atteggiamento del malvagio, teoria addotta per mostrare che non era un male Tesser cristiano, corrisponde in Minucio un cenno fuggevole della stessa sentenza; così al § 2 d, la natura della fama o diceria è rilevata con minuziosa analisi da Tertulliano, ed è, in frase inci- dente, come per transenna, e con parole per sè sole non chiare, toccata da Minucio; lo stesso dicasi al § 6 i, sullo scheletro ligneo a forma di croce adoperato nel fabbricare gli idoli; e ‘al § 13 b, sull’essere i delinquenti in massima parte pagani e d’altri brani ancora. In tutti questi casi si ha egli a pensare che Tertulliano, visto il breve cenno minuciano, n’ abbia preso occasione per ampliare e a volte costruire una teoria intiera basata sull’osservazione psicologica? o non si presenta anzi spontanea l’ipotesi che M. abbia conosciute e fatte sue le spiegazioni tertullianee, riassumendole dov’ e’ credeva opportuno? A chi non parrà questo secondo processo ben più naturale del primo? Non è questo il modo comune di lavorare in opere letterarie, quando non si tratta di amplificazioni rettoriche e luoghi comuni? Chi potrà credere il rapporto inverso, se tenga conto dell’ ingegno vigoroso, del ragionamento serrato e a fil di logica di Tertulliano, in comparazione dei discorsi alquanto rettorici da M. messi in bocca agli inter-locutori del suo dialogo? La seconda osservazione che noi vogliamo si faccia, ci conferma nell’ ipotesi della priorità di Tertulliano; e questa riguarda i passi dove Minucio presenta lo stesso pensiero e la frase tertullianea, ma o in luogo meno opportuno per la concatenazione delle idee, o con aggiunta od uso di parole che alterano il concetto esagerandolo. Fin dal prime riscontro segnalato al § 1 a, il cenno del non volere i pagani udire pubblicamente i Cristiani desiderosi di difendersi, vien fuori poco opportunamente come argomento del non essere essi Cristiani in angulis garruli Così al § 3, già s’è notata la stranezza del derivare dalle cerimonie di Giove Laziale gli usi sanguinarii di Catilina e di Bellona. Nello stesso § 3, il riscontro f ci dà un esempio di esagerata espressione in quel plerique sostituito al quidam di Tertulliano; come al § 4 g, è fuor di squadra il frequentius. Inesattezze pure riscontrammo al § 5 f, dove è attribuita ad Omero una leggenda che non gli appartiene, e ove del demonio socratico si parla men corretene)] tamente che in Tertulliano. Ma il passo più significativo è al § 9 g, ove poco a proposito, come già s’ è rilevato, Minucio fece sua l’osser- yazione psicologica del timore che partorisce odio. Tali difetti dell’esposizione minuciana sono una evidente conferma della priorità ter- tullianea ; è nella natura delle cose che l’ imitatore non afferrando con precisione i concetti dello scrittore che gli serve di modello, alteri i rapporti delle idee e le renda in modo difettoso ; mentre è ben più raro, se non impossibile, che un imitatore, prendendo le mosse da un lavoro altrui, ne emendi tutti i difetti, raggiungendo una precisa coe- renza e spontaneità, quale spicca in Tertulliano. Vi sono però due luoghi che paiono far contro la nostra tesi. Uno è al § 5, b e d, ove a una semplice parola o proposizione tertullianea: consecratione; d: statuas milvi et mures et araneae in - ielligunt) corrisponde in Minucio una descrizione più ampia e ricca di particolari. Ma, se ben si guardi, ciò non vuol dir nulla contro la tesi che sosteniamo. Già prima si può pensare che Minucio, come per altre parti del suo dialogo prese da Cicerone e da Seneca, così per questa abbia attinto ad altra fonte oltre l’Apologetico, desumendone sia la descrizione dell’ idolo che finché vien lavorato non è Dio e lo diventa appena è consacrato dall’uomo, sia quella dei topi, delle rondini, dei ragni che rodono e fanno il nido e le ragnatele nelle statue dei templi. Ma può anche darsi che qui s’abbia a fare con una semplice amplificazione del pensiero suggerito dall’espressione di Tertulliano, amplificazione non contenente altro che osservazioni semplicissime e di dominio comune. Tanto più è probabile che tale lavoro si deva attribuire a M., quanto che la caratteristica del suo stile, cioè l’uso degli asindeti trimembri con omeoteleuto, si trova qui più volte: funditur fabricatur sculpitur; plumbatur conslruilur erigitur; ornatur eonsecratur oratur; rodunt inculcant insident; tergetis mundaiis eraditis, ecc. L’altro punto che deve qui discutersi riguarda il fatto già segnalato, a, pel quale Ebert e molti altri conchiusero senz’altro per la priorità di M., vale a dire l’errore commesso da Tertulliano completando in Cassius Severus il nome dello storico Cassius così letto da lui nelle sue fonti. Pur riconoscendo che Tertulliano ha qui commesso un errore, era proprio necessario di supporre che l’indicazione di quelle fonti storiche, Diodoro e Tallo Greci, Cassio e Cornelio Romani, egli l’avesse presa da M.? Si noti che il discorso si aggira intorno alla spiegazione euemeristica degli Dei pagani, e si ricercano le vicende di Saturno e di Giove per conchiuderne che costoro in origine erano nomini. Ora questa tesi non era solo degli apologeti cristiani, ma da secoli era di dominio comune in molte scuole filosofiche. Può dunque ben darsi che in qualche libro euemeristico del primo o del secondo secolo dell’era volgare già si citassero Diodoro Siculo e Tallo, Cassio e Cornelio Nipote, e anche Varrone, a conferma della dottrina ; può essere che la citazione di quei nomi fosse diventata come un luogo comune; tant’ è vero che un secolo dopo Tertulliano, ancor la ripete con poche varianti Lattanzio. Questo è l’unico punto in cui ritengo vera l’ipotesi di una fonte comune anteriore a Tertulliano e M.. Il che se si ammette, l’errore di Tertulliano non dice più nulla a favore della priorità di Minucio e contro la tesi inversa da noi propugnata. Da questa stessa fonte euemeristica potrebbero supporsi derivati i particolari minuciani che sopra avvertimmo non trovarsi in Tertulliano, come pure ne derivarono le tradizioni simili a quella che si legge nel De origine gentis Romanae e nei breviari storici concernenti le origini di Eoma. Sia dunque lecito di conchiudere che l’ Ottavio di M. è posteriore all’Apologetico; di non molto forse, se al tempo della sua comparizione era ancora sì viva la memoria dell’oratore Frontone da ricordarlo nel modo che fanno i due interlocutori del dialogo: Girtensis noster, : Pronto tuus. Non andarono forse errati quelli che supposero composto il dialogo nel primo o al più nel secondo decennio del terzo secolo, come certo l’Apologetico è degli ultimi anni del secondo. Insù . : omnes ergo non tantum poetae sed historiarum quoque ac rerum antiquarum scriptores hominem fuisse consentiunt Saturnum. Qui res eius in Italia gestas prodiderunt, Graeci Diodorus et Thallus t Latini Nepos et Gassius et Varrò. V. il Minucio del Waltzing. Marco Minucio Felice – He wrote “Ottavio” – draws on a speech by Frontone. – cf. Marco Minucio Felice. Refs. : Luigi Speranza, « Grice e Minucio, » The Swimming-Pool Library. Minucio.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Miraglia: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale di CICERONE – la scuola di Reggio -- filosofia emiliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Reggio). Filosofo italiano. Reggio, Emilia. Grice: “Miraglia is the type of philosopher beloved by the Oxford hegelians; but then he is a Neapolitan Hegelian!” Grice: “I always found Kant easier, but there’s nothing like a ‘filosofia del diritto’ in Kant! And Hegel’s ethics itself, compared to Kant’s is mighty more complex – that’s why I taught Kant!” Si laurea a Napoli, dopodiché insegna filosofia del diritto nella stessa università, ed economia politica alla scuola superiore di agricoltura di Portici.  Segue una corrente di pensiero eclettica, ad esso contemporanea, che mira all'integrazione di pratiche giuridiche ed ispirazioni filosofiche. Sindaco di Napoli. Tra le più famose si ricordano: “Condizioni storiche e scientifiche del diritto di preda (Napoli); “Un sistema etico-giuridico” (Napoli); “Filosofia del diritto” (Napoli). Nella sua biografia ufficiale per la Treccani è nato a Reggio nell'Emilia, mentre nella sua scheda storico-professionale sul sito del Senato si riporta a Reggio di Calabria. Giuseppe Erminio. Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, (latinista) Sindaci di Napoli Senatori della legislatura del Regno d'Italia  Luigi Miraglia, su Treccani Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Opere su open MLOL, Horizons Unlimited srl.  su Senatori d'Italia, Senato della Repubblica. I sistemi filosofici ed i principi del diritto. La speculazione greca e LA DOTTRINA ROMANA. Fichte. Spedalierie Romagnosi. Gli scrittori della reazione. La scuola storica e la scuola filosofica. Schelling e Scleiermacher. Hegel Rosmini. Herbart, Trendelenburg e Krause.Le varie fasi della filosofia di Schelling. Sthal e Schopenhauer Il materialismo, il positivismo ed il criticismo. L'idea della filosofia del diritto. La Filosofia e le scienze. Il carattere della Filosofia mo.  L'idea del Diritto ed i metodi logici. L'induzione e la deduzione. L'induzione, l'osservazione e l'esperimento. L'idea del Diritto naturale e quella del buono civile di AMARI ricavate dall'induzione. L'importanza del metodo storico-comparativo secon do VICO Amari, Post e Sumner-Maine. Parallelo fra lo sviluppo della lingua e lo sviluppo del Diritto. L'induzione statistica. Il compito della deduzione. L'universale astratto e l'universale concreto come principi. Moderna divinato da VICO. La Filosofia del Diritto come parte della Filosofia. L'idea umana del Diritto se condo la dottrina di VICO, e le definizioni di Kant, di Hegel, di Trendelenburg, di ROMAGNOSI e di SERBATI. La teoria sociale e la teoria giuridica. Il Diritto e la Filosofia positiva. L'idea induttiva del Diritto. Lo studio della coscienza etico-giuridica dei vari popoli. Il contributo della razza ariana e della razza semi tica nella storia della civiltà. L'idea del diritto come misura in LA RAZZA ARIANA. La misura riposta nel l'ordine fisico, nella legge positiva e nella ragione. Il principio della personalità. Gl’elementi organici e spi rituali della persona e la loro corrispondenza. La spiegazione del materialismo. La teorica dell'evoluzione. La critica dell'evoluzionismo meccanico La teorica dell'evoluzione e la Psicologia. Il sentimento fondamentale e le sensazioni. La coscienza e la sua origine. Le rappresentazioni sensibili e le rappresentazioni coscienti. Il  pensare e le categorie. La cognizione secondo l'empirismo oggettivo. La critica di questa teoria. I presupposti pratici dell'idea deduttiva del Diritto. Sviluppo e partizione. L'istinto, il desiderio e la volontà. L'arbitrio e la libertà morale. La costanza degl’atti umani rivelata dalla Statistica. Il fine dell'uomo ed il bene. Il bene umano ed il Diritto. La forma imperativa, proibi.  I presupposti teoretici dell'idea deduttiva del Diritto. Seguito dei presupposti teoretici. tiva e permissiva del Diritto. Il Diritto come principio di co-azione, di coesistenza e di armonia. La tri-partizione razionale del Diritto. La divisione di Gaio. Analisi critica delle principali definizioni del Diritto. Le dottrine che riguardano a preferenza il contenuto sensibile del diritto: Hobbes, Spinoza, Roussean, Mill e Spencer. Le dottrine che considerano il diritto come astratta forma razionale: Kant, Fichte ed Herbart. Le definizioni di Krause e di Trendelenburg. Ciò che vi è di vero nelle dottrine esaminate. Il Diritto, la Morale e la Scienza sociale. Il Diritto come disciplina etica. I rapporti fra Morale e Diritto nella storia. Critica della confusione e della separazione dei due termini. Il fondamento comune e la differenza reale. L'Etica e la vita sociale.VICO, Süssmilch ed i fisiocrati precursori della Scienza sociale. La Sociologia di Comte ed i vari indirizzi. La Sociologia di Spencer. La Sociologia come Filosofia delle scienze sociali. Le analogie tra la società e l'organismo. Le relazioni fra il Diritto e la Scienza sociale. Il Diritto, l'Economia sociale e la Politica. L'ordinamento sociale-economico ed i filosofi del Diritto antichi e moderni. L'Etica, la Sociologia fondata sulla Biologia, la Politica e la Storia come presupposti dell'Economia. Il carattere del fatto economico. I rapporti tra il Diritto e l'Economia. Il concetto della Politica. La Politica, la Scienza sociale, l'Etica ed il Diritto. L'idea compiuta dello Stato. Il Diritto razionale ed il Diritto positivo. Fonti ed applicazioni. La distinzione del Diritto razionale dal Diritto positivo in sé e nella storia. La consuetudine ed il costume primitivo. La giurisprudenza ed i suoi uffici. La legislazione ed i codici. L'efficacia della legge nello spazio.L'efficacia della legge nel tempo. Esame delle diverse teorie sulla retroattività . Diritto Privato. La persona. I diritti essenziali o innati ed i diritti accidentali o acquisiti. Il principio dei diritti. Il diritto alla vita fisica e morale. Il diritto alla libertà. I diritti all'eguaglianza, alla sociabilità ed all'assistenza. Il diritto di lavoro . Il concetto storico dei diritti innati. I diritti dell'uomo nello stato di natura.Lo stato di na. tura dei filosofi del secolo decimottavo in rapporto. La persona ed i suoi diritti. Le persone incorporali. Lo scopo delle persone incorporali. La teoria della fin. La proprietà e i modi di acquisto. La proprietà e dil suo fondamento razionale. Dottrine in torno a questo fondamento. Le limitazioni ed i temperamenti della proprietà. I modi originari e deri vativi di acquisto La storia della proprietà e dei modi di acquisto. L'attività procacciatrice dell'animale e dell'uomo. La storia della proprietà e la storia della persona. La proprietà collettiva. La comunità di famiglia. Il Cristianesimo ed il valore della persona individua. Il feudo. La riforma ed il diritto naturale.La com piuta individuazione ed itemperamenti della proprie tà privata. I modi di acquisto primitivi. Le distin zioni dei beni. L'usucapione, l'equità e la procedura civile.. ! all'ordine di natura dei giureconsulti romani e dei filosofi greci.La teorica della conoscenza ed ilmodo di concepire i diritti essenziali della persona. I diritti innati e la Filosofia moderna. Il regime dello status e del contratto . zione e dell'equiparazione. La teoria che riguarda la persona incorporale come veicolo. La teoria del patrimonio sui juris. Le idee dei pubblicisti tedeschi.Il soggetto reale nella corporazione e nella fon dazione. I diritti delle persone incorporali ed il jus confirmandi dello Stato. La teoria di Giorgi. La proprietá prediale. Il collettivismo territoriale. La teoria di Wagner sulla proprietà dei fabbricati. La teoria di Spencer sulla proprietà del suolo. La proprietà privata del suolo e la rendita. Le dottrine di George e di Loria sul la terra La proprietà forestale e mineraria. Le funzioni dei boschi. La libertà del taglio. Il vincolo e le sue ragioni. La proprietà mineraria e le fasi della industria. La critica degli argomenti in favo re del proprietario del suolo. La dottrina che attribuisce la miniera allo scopritore . La merce lavoro ed il suo prezzo. Il lavoro come pro prietà. La coalizione e lo sciopero. La giuria industriale.La proprietà del capitale ed il profitto. Il collettivismo ed il mutualismo. La teoria di Marx. La critica del collettivismo e della teoria di Marx. Le coalizioni degl'intraprenditori. La proprietà commerciale, il diritto di autore e di scopritore. Il concetto della proprietà commerciale. La libertà dello scambio. La concorrenza. La nozione primitiva del commercio. Il diritto di autore prima e dopo l'in  La propriatà industriale. La classificazione dei diritti sulla cosa altrui. Le servitù gimento dell'istituto nelle legislazioni. Esposizione critica delle varie dottrine assolute e relative. Il fon damento razionale. La critica della teoria di Ihering sulla volontà di possedere. Le obbligazioni. zioni. Le loro varie specie e modalità. I differenti modi di estinzione . Il contratto e le sue forme.  L'indole del possesso. La sua origine storica. Lo svol L'obbligazione. La sua origine. Le fonti delle obbliga La nozione del contratto. Le sue fasi ed il suo fonda. mento. I requisiti essenziali. I vizî del consenso ed alcune recenti teorie. L'interpretazione dei contratti. Le loro classificazione e le dottrine di Kant e di Trendelenburg. venzione della stampa. Il suo fondamento ed il suo carattere. La garentia del diritto dello scopritore I diritti reali particolari. e le loro specie. In quali modi le servitù nascono, si esercitano e si estinguono. L'enfiteusi. La superficie. Il pegno e l'ipoteca. Il carattere del diritto di ritenzione Il possesso. La libertà di contrarre ed il contratto di lavoro. La libertà di contrarre, i suoi limiti e la sua guarentigia.. L'interesse e la sua limitazione. La libertà dell'interesse. L'usura ed i suoi procedimenti. L'usura come forma dell'ingiusto civile ed i modi di combatterla. L'usura come delitto. Critica della teoria di Stein. La figura specialedeldelittodiusura.La leggeela vita. La società, la cambiale, il trasporto e alcuni contratti aleatori. Il contratto di società e le sue forme. La società e la. Il prestito usurario. persona incorporale. Il regime dell'autorizzazione e della vigilanza. La cambiale antica e la moderna. L'indole del contratto di trasporto. L'assicurazione e le nuove teorie. Il giuoco. La missione sociale del diritto privato. L'eguaglianza delle parti nella locazione di opera. I sistemi che regolano la responsabilità dell'intraprenditore negli infortuni del lavoro. La famiglia primitiva. L accoppiamento e l'istinto di riproduzione fra gli animali. Le teoriedi LUCREZIO e di VICO. Le unioni pri mitive. La famiglia femminile. L'erogamia ed il ratto. Gl'inizi e lo sviluppo della famiglia patriar   . matrimonio. Le sue condizioni.Il matrimonio civile. La precedenza del matrimonio civile. I rapporti fra i coniugi. L'autorizzazione maritale. Il libro di Bebel e le idee di Spencer. I sistemi con cui si regolano i beni nel matrimonio. L'indissolubilitá matrimoniale ed il divorzio. L'ideale dell'indissolubilità. Le esigenze concrete della vita.La quistione del divorzio in rapporto ai diritti individuali ed alle ragioni sociali e storiche. Il divorzio e la Chiesa. Le cause di divorzio.Le cautele. La tendenza a rivivere in altri. Il fondamento e le fasi della patria potestà. La tutela,le sue specie e la cura. L'adozione. I figli nati fuori del matrimonio. La ricerca della paternità. La legittimazione . Idea, storia e fondamento della successione. Il concetto dell'eredità. La successione legittima e la te. stamentaria nella storia. La successione ed il culto degli antenati. Le dottrine intorno al fondamento  cale. La progressiva individuazione della parentela. Il processo di specificazione e la fine della famiglia. L'amore come fondamento del matrimonio. L'idea del La societá coniugale.. La società parentale. della successione. Il condominio domestico ed il diritto di proprietà come basi della successione. La successione legittima e la testamentaria. La prossimità della parentela e del grado. La capacità   di succedere. Le classi degli eredi. La rappresentazione. La capacità di testare e di ricevere per testamento. Le specie di testamenti, La legittima. Il diritto di rappresentazione e la successione testamentaria. L'errore nella causa finale ed impulsiva, e le condizioni.Il diritto di accrescere. La sostituzione e la fiducia. I principi comuni ad ogni specie di successione. Il mondo romano è il mondo del volere, e quindi del diritto e della politica. Il volere in siffatto mondo da un lato continua a mostrarsi negli ordini superiori ed inflessibili dello stato, e dall'altro comincia a svolgersi in forma di diritto individuale. Con il principio del volere, di sua natura soggettivo, il diritto privato non può non sorgere, e lo stato non può più per lunghissimo tempo conservare le rozze sembianze d'una organica oggettività naturale. In Roma, il diritto privato ė nei suoi primi momenti stretto, ferreo ed arcano. Poi è ampliato, oltre al divenire palese, giovato, supplito e corretto dall'equità, ch'è lo stesso diritto in opposizione ad una legge, la quale non ha saputo attuarlo. Alla fine è diritto umano, e per conseguenza proclama il principio, che la schiavitù, istituto delle genti e contronatura, non riguarda l'anima, echegliuomi ni innanzi al diritto naturale sono liberi ed eguali. CICERONE, il filosofo più alto del mondo romano, non avendo coscienza scientifica della manifestazione del diritto soggettivo, come atto dell'astratta potenza del volere, ė inferiore alla stessa realtà romana. CICERONE non è autore di una filosofia propria, e segue d’ecclettico gli scrittori greci. CICERONE professa il dubbio, non crede che la mente possa  Il vuoto soggetto, rappresentato dall’accademici come oggetto, riceve ora tutta la sua concretezza, ed è in seno del Cristianesimo determinato quale Verbo o mente assoluta. La filosofia quinci innanzi s'informa al principio soggettivo. L'uomo, immagine di Dio ed in carnazione del verbo, si riabilita; e lo stato antico, perdendo il suo alto significato, è costretto a rimpiccolirsi. La parte più intima dell'individuo non è più sottoposta alla potestà politica, sibbene alle nuove credenze, che in origine si mantengono in quell'ambiente ce leste in cui sono nate, e si oppongono al mondo ancora pagano. L'Apostolo scorge una contraddizione tra gli stimoli della carne e gl’impulsi dello spirito. LATTANZIO crede che la vera giustizia sia nel culto di un divino unico, ignoto ai gentili. AGOSTINO parla di una città celeste, sede di verità e di giustizia, in antitesi alla città terre stre, fondazione di fratricidi e prodotto del peccato pri  6 essere assolutamente certa, é pago della semplice verosimiglianza. Nell'etica elimina il dubbio per leconseguenze dannose, e fa appello alla coscienza immediata, in cui si ritrovano i germi della virtù, ed al consenso del genere umano, per definire l'onesto e per stabilire alcuni pre supposti speculativi di esso. Preferisce il principio etico del PORTICO, che tempera da uomo pratico. Trae il diritto non dalle leggi di le XII tavole o dall'editto, ma dalla natura umana. Riproduce la teoria aristotelica del lo stato, e si attiene alla forma mista, propria degl’ordinamenti politici di Roma. Luigi Miraglia. Miraglia. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Miraglia” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Misefari: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale --  implicatura anarchica – la scuola di Palizzi -- filosofia calabrese – filosofia italiana -- Luigi Speranza (Palizzi). Filosofo italiano. Palizzi, Reggio Calabria, Calabria.  ‘Io non sono italiano; io sono calabrese!” Fratello di Enzo (politico calabrese del P.C.I., storico e poeta), di Ottavio (calciatore reggino tra i più conosciuti nei primi anni del secolo; giocò nella Reggina e nel Messina) e di Florindo (biologo, attivista della Lega Sovversiva Studentesca e del gruppo "Bruno Filippi").  Dopo aver frequentato la scuola elementare del piccolo paese di nascita in provincia di Reggio Calabria, a undici anni si trasferì con lo zio proprio a Reggio Calabria. Già da adolescente, influenzato dalle frequentazioni di socialisti e anarchici in casa dello zio, partecipò attivamente alla fondazione e allo sviluppo di un circolo giovanile socialista (intitolato ad A. Babel, rivoluzionario tedesco dell'Ottocento). Iniziò a collaborare al giornale Il Lavoratore, organo della Camera del Lavoro di Reggio Calabria, firmando gli articoli come "Lo studente". Collaborò nello stesso periodo a Il Riscatto, periodico socialista-anarchico stampato a Messina; e con Il Libertario, stampato a La Spezia e diretto da Binazzi. A causa della sua attività anti-militarista esercitata all'interno del Circolo contro la Guerra italo-turca, fu arrestato e condannato a due mesi e mezzo di carcere per «istigazione alla pubblica disobbedienza».  Fu nei due anni successivi che M. si convertì dal socialismo all'anarchia. Ciò avvenne soprattutto con la frequentazione da parte di  Berti, suo professore di fisica presso l'"Istituto Tecnico Raffaele Piria".  Si trasferì a Napoli e si iscrisse al Politecnico, dopo avere studiato fisica e matematica alle superiori, e anche per non dispiacere al padre, proseguì tali studi. Pesò inoltre su questa decisione il fatto che in quegli anni, dopo la tragica distruzione della città di Reggio Calabria a causa del terremoto del 1908, il lavoro che garantiva le maggiori certezze era proprio quello dell'ingegnere. Nondimeno continuò per proprio conto gli studi a lui prediletti: politica, filosofia, letteratura, come aveva fatto fino ad allora. A Napoli si fece subito avanti nell'ambiente anarchico. Il movimento a Napoli contava allora di un centinaio di aderenti.  Si rifiuta di partecipare al corso allievi ufficiali a Benevento e fu condannato a quattro mesi di carcere militare. Diserterà una seconda volta, trovando rifugio nella campagna del beneventano in casa di un contadino. Tornato a Reggio Calabria, interruppe una manifestazione interventista nella centrale Piazza Garibaldi, salendo sul palco e pronunciando un discorso antimilitarista. Venne per questo motivo arrestato e condotto presso il carcere militare di Acireale; sette mesi dopo venne trasferito presso quello di Benevento. Da lì riuscì ad evadere grazie alla complicità di un amico secondino. Fu tuttavia intercettato alla frontiera del confine svizzero; ancora incarcerato, riuscì nuovamente nella fuga. Tocca il territorio svizzero, ma i gendarmi lo condussero al carcere di Lugano. Giunte dalla Calabria le informazioni su di lui, essendo un uomo politico, dopo quindici giorni fu lasciato libero con la facoltà di scegliere il luogo di residenza. Indicò subito Zurigo, dove sapeva di potere rintracciare Misiano, suo caro amico e noto esponente politico socialista, anche lui accusato di diserzione. A Zurigo trovò ospitalità presso la famiglia Zanolli, dove si innamorò della giovane Pia, che diventerà sua compagna di vita.  Durante il periodo di esilio in Svizzera, Bruno svolgeva attività politica tenendo i contatti con Luigi Bertoni e con altri gruppi anarchici elvetici, collaborando anche al giornale: Il Risveglio Comunista Anarchico. Svolse una serie di conferenze in varie città della Svizzera. M. si autoannunciava con un suo pseudonimo anagrammatico Furio Sbarnemi. A Zurigo frequenta la Cooperativa socialista di Militaerstrasse 36 e la libreria internazionale di Zwinglistrasse gestita dai disertori Monnanni, Ghezzi e Arrigoni; in questi ambienti conosce anche Angelica Balabanoff.  Venne arrestato per un complotto inventato dalla polizia. Fu incolpato innocentemente con l'accusa di avere fomentato una rivolta nella città e di «aver fabbricato bombe a scopo rivoluzionario». Con lui furono arrestati diversi attivisti politici, tra i quali lo stesso Francesco Misiano (che fu poi rilasciato perché socialista e non anarchico). Rimase in carcere per sette mesi, e venne poi espulso dalla Svizzera. Grazie ad un regolare passaporto per la Germania, ottenuto per ragioni di studio, si recò a Stoccarda.Lì entrò in contatto con Zetkin (che gli rilascia una lunga intervista sul movimento rivoluzionario in Germania) e Vincenzo Ferrer. Poté rientrare in patria, in seguito all'amnistia promulgata dal governo Nitti. -- è a Napoli e poi a Reggio Calabria. E un periodo intenso per la sua vita militante di M. A Napoli partecipò come oratore a molte manifestazioni, si prodigò a favore dei suoi compagni colpiti dalla repressione, denunciò le provocazioni della polizia; tenne numerose conferenze e comizi. Con il dentista anarchico Giuseppe Imondi, stampò alcuni numeri del giornale: L'Anarchia. In autunno fu chiamato a Taranto a svolgere il compito di segretario propagandista presso la locale Camera del Lavoro Sindacale. Ha stretti contatti con Malatesta, Berneri, Binazzi, Borghi, Vittorio e altri esponenti dell'anarchismo e del sovversivismo italiano. Si impegnò su più fronti per la campagna a favore degli anarchici Sacco e Vanzetti. Nello stesso periodo e corrispondente di: Umanità Nova, settimanale anarchico diretto da Malatesta e collaborò al periodico: L'Avvenire Anarchico di Pisa. Continuò i suoi studi a Napoli con qualche salto a Reggio Calabria con la sua compagna  Zanolli, che sposò. Si laureò a Napoli. Successivamente si iscrisse anche alla facoltà di filosofia.  Nonostante l'avvento del fascismo, fondò un giornale libertario, “L'Amico del popolo,” che però dopo il quarto numero fu soppresso dalle autorità. Nel primo numero del giornale,scrisse un editoriale dal titolo “Chi sono e cosa vogliono gli anarchici.” Lo scritto è l'espressione del suo pensiero libertario:  «L'anarchismo è una tendenza naturale, che si trova nella critica delle organizzazioni gerarchiche e delle concezioni autoritarie, e nel movimento progressivo dell'umanità e perciò non può essere una utopia.»  Da esperto di geologia, progettò per primo in Calabria l'industria del vetro e fondò a Villa S.Giovanni, la prima vetreria in Calabria (Società Vetraria Calabrese). In quegli stessi anni subì però persecuzioni continue da parte del regime. E cancellato dall'Albo di categoria e non poté più firmare progetti. Gli venne mossa l'accusa di avere «attentato ai poteri dello Stato, per il proposito di uccidere il re e Mussolini». Fu prosciolto dopo venticinque giorni di carcere. La polizia ravvisò in un discorso di commemorazione durante il funerale di un amico (tra l'altro un industriale fascista, Zagarella) un'ispirazione anarchica e pertanto lo propose per l'assegnazione al confino. Fu arrestato, in carcere si sposa con Pia Zanolli, fu inviato per il confino, prigioniero a Ponza. Tuttavia sembra che tale provvedimento fosse stato determinato da altri motivi. M., che era ingegnere minerario, si era attivamente impegnato nello sfruttamento su larga scala di giacimenti di quarzo, materia prima per l'industria vetraria, che fino a quell'epoca dipendeva, in gran parte, dai silicati stranieri.  Assunto come direttore tecnico della Società Vetraria Calabrese (di cui era stato finanziatore e Presidente il succitato Zagarella) egli si era dovuto ben presto scontrare con l'assenteismo e l'inettitudine del consiglio di amministrazione che si schierò contro di lui con l'intenzione di eliminarlo in qualsiasi modo, ricorrendo anche ad espedienti politici. Giustizia e Libertà, in un articolo anonimo ddal titolo «Politica e affarismo. Il caso di un ingegnere libertario», attribuisce la causa del confino alle manovre dei suoi ex soci. Durante il confino stringe amicizia con Torrigiani, Gran Maestro del Grande Oriente d'Italia, il quale lo affilia alla Massoneria.  L'amnistia del decennale del fascismo lo liberò dal confino dopo due anni. Ma tornato in Calabria vide il vuoto intorno a sé; scrive infatti a sua moglie: "Amnistiato sì, però a quale prezzo: la salute sconquassata, senza un soldo, senza prospettive per l'avvenire". Gli viene diagnosticata l'esistenza di un tumore alla testa. Va e viene con la moglie da Zurigo a Reggio Calabria. Riesce a trovare il capitale necessario per l'impianto di uno stabilimento per lo sfruttamento della silice a Davoli (in provincia di Catanzaro).  Le sue condizioni di salute peggiorano a causa del tumore. Perde conoscenza, viene ricoverato in stato gravissimo nella clinica romana del Senatore Giuseppe Bastianelli, e lì si spense la sera stessa. Ancora ragazzo, studente, cominciò a ribellarsi contro l'ingiustizia del mondo che lo circondava: Palizzi Superiore, un paese tra i monti dove il castello feudale dei signori locali dominava la valle, dove si ammucchiavano piccole e povere case desolate di contadini. E si ribellò a quel mondo, costruito secondo quell'immagine topografica che portava impresso nella memoria: sopra, chi comanda e non lavora, sotto, chi subisce e lavora. E ancora ragazzo cominciò a sognare un mondo in cui quella gerarchia fosse sovvertita prima, distrutta poi. Poteva scegliere di ispirarsi al socialismo marxistico o al socialismo libertario. Del primo apprezzava l'analisi dell'antagonismo tra le classi, ma mostrava perplessità circa i mezzi proposti dalla diagnosi marxistica per fronteggiare il pericolo di una rivincita dell'avversario di classe. Inclinò perciò verso il socialismo libertario.  «Nel comunismo libertario io sarò ancora anarchico? Certo. Ma non di meno sono oggi un amante del comunismo. L'anarchismo è la tendenza alla perfetta felicità umana. esso dunque è, e sarà sempre, ideale di rivolta, individuale o collettivo, oggi come domani. M., Taccuino personale. La scelta della diserzione fu coerente con il suo obiettivo di combattere non la guerra degli stati, ma a fianco degli oppressi di tutto il mondo contro il loro nemico, tenendo alta la bandiera dell'internazionalismo. Pur sottoposto senza tregua alla persecuzione della polizia e all'inquisizione della magistratura, fu sempre al suo posto accanto a coloro che lavoravano e soffrivano. Come ogni rivoluzionario sincero e coerente, pagò col carcere e col confino la sua fede in un ideale.  Chi sono gli anarchici. Secondo M., essere anarchici voleva dire per prima cosa proclamare, contro ogni violenza, l'inviolabilità della vita umana. Inoltre significava lottare per l'abolizione della proprietà privata e a favore della socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio. Proprio per questo gli anarchici sono, di fondo, dei socialisti. A questo esperimento di vita sociale andava affiancata la lotta contro lo Stato, che ne impediva la realizzazione. E la lotta contro lo Stato non poteva essere vittoriosa se non con la rivoluzione. Dunque gli anarchici sono socialisti, antistatali e rivoluzionari. Elemento fondamentale della lotta, secondo Misefari, era l'allargamento di essa alla sfera internazionale. È comunque una lotta che non si fa violenta. M. è fortemente pacifista, contrario all'uso della forza e della violenza armata. L'anarchico è inoltre antireligioso: la religione infatti è considerata "fattore di abbrutimento per l'umanità".  Antimilitarismo Per M. la guerra è pura barbarie, speculazione capitalistica consumata in nome dello Stato.  «L'esistenza del militarismo è la dimostrazione migliore del grado di ignoranza, di servile sottomissione, di crudeltà, di barbarie a cui è arrivata la società umana. Quando della gente può fare l'apoteosi del militarismo e della guerra senza che la collera popolare si rovesci su di essa, si può affermare con certezza assoluta che la società è sull'orlo della decadenza e perciò sulla soglia della barbarie, o è una accolita di belve in veste umana.»  Religione La religione è considerata come un anestetico delle facoltà critiche della mente umana. Sarebbe proprio la religione a imprigionare le energie morali dell'uomo, a inebetire lo spirito critico e di riflessione. Perciò i popoli più religiosi sarebbero i meno progrediti e i più afflitti dalla tirannia, mentre, laddove la religione sparisce, lì è florida la libertà e il benessere.  «È il più solido puntello del capitalismo e dello Stato, i due tiranni del popolo. Ed è anche il più temibile alleato dell'ignoranza e del male.»  È forte nel pensiero di M. la volontà di sottolineare l'uguaglianza sociale tra uomo e donna. In anni difficili e lontani dalle battaglie del femminismo di metà Novecento, egli afferma che la donna nobilita e abbellisce la condizione di vita umana. È dovere della donna lottare per risollevarsi da una condizione di inferiorità, che è tale in virtù di un "delitto sociale" e non dovuta a leggi di natura.  «Donne, in voi e per voi è la vita del mondo: sorgete, noi siamo uguali!»  M. vive di sogni, di ideali. Nella sua concezione non esiste un artista, che sia poeta, filosofo, persino scienziato, che si sia mai messo al servizio della menzogna. Se tutti potevano essere vili, un artista non poteva.  «Un poeta o uno scrittore, che non abbia per scopo la ribellione, che lavori per conservare lo status quo della società, non è un artista: è un morto che parla in poesia o in prosa. L'arte deve rinnovare la vita e i popoli, perciò deve essere eminentemente rivoluzionaria. Poesia composta da M.:  FALCO RIBELLE. Un giovane falco che drizza il libero volo Ne l'alto, ove sono i fulgori di soli immortali Un giovane falco ribelle o piccoli, io sono. Mi spinge ne' campi ignorati, un acre desio Di sante ideali battaglie, di luce e di gloria. Mi splende nell'occhio la speme di certe vittoria, Mi parla nel core la voce sinfonica, dolce D'un caro sublime Pensiero, ch'è Bene ed Amore. Ho giovini l'ale e robuste, o venti, o cicloni, O fulmini immani feroci, vi lancio la sfida. Voi soli potete pugnare col giovine falco, Chè Luce, chè Forza, chè Vita multanime siete. Ma voi, piccoli, no. Coi vermi guazzate nel fango, Dal fango mirate del falco il libero volo.»  Frammenti «Prima di pensare di rivoluzionare le masse, bisogna essere sicuri di aver rivoluzionato noi stessi»  «Ogni uomo è figlio dell'educazione e della istruzione che riceve da fanciullo. Gli Anarchici non seguono le leggi fatte dagli uominiquelle non li riguardanoseguono invece le leggi della natura»  «Prima l'educazione del cuore, poi l'educazione della mente»  «Socialismo vuol dire uguaglianza, vuol dire libertà. Ma l'uguaglianza non può essere senza libertà; come la libertà non può essere senza l'uguaglianza: dunque socialismo e anarchia sono due termini dello stesso binomio, sono i due inseparabili fattori della redenzione proletaria.»  «Quando la giustizia non sarà la durda infame delle tirannidi, quando l'amore non sarà deriso, quando il ferro non sarà legge e l'oro non sarà dio, quando la libertà sarà religione e sola nobiltà il lavoro, allora, solo allora, il mio rifiuto della guerra sarà benedetto.»  «M'è questa notte eterna assai men grave del dì che mi mostrò viltà dei forti e pecorilità di plebi schiave. Lungi da quì il pianto: sto ben coi morti!  (epitaffio) Opere complete M., Schiaffi e carezze, Roma, Morara, M., Diario di un disertore, La Nuova Italia, Entrambi i testi sono stati pubblicati postumi sotto lo pseudonimo Furio Sbarnemi.  Le schede biografiche di alcuni esponenti anarchici calabresi, A/Rivista Anarchica, Antonioli, Antonioli, E. Misefari.  Antonioli,  Pia Zanolli era nata a Belluno. Dopo il matrimonio con Misefari, fu iscritta nell'albo dei sovversivi pericolosi, venendo poi arrestata col marito a Domodossola (cfr.: A/Rivista Anarchica)  Chi sono e cosa vogliono gli anarchici, ed. settembre.  Antonioli, Pia Zanolli, L'Anarchico di Calabria, Roma, La Nuova Italia, Utopia? No, Pia Zanolli, Roma, ALBA Centro Stampa, E. Misefari, biografia di un fratello, Milano, Zero in condotta, M. Antonioli, Gianpietro Berti, Santi Fedele, Pasquale Luso, Dizionario biografico degli anarchici italianiVolume 2, Pisa, Biblioteca Franco Serantini, Bruno Misefari, Schiaffi, Carezze e altro, Pino Vermiglio, Laureana di Borrello, Ogginoi, Furio Sbarnemi, Diario di un disertore, Camerano (AN), Gwynplaine, Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Horizons Unlimited srl. Bruno Misefari presso l'International Institute of Social History di Amsterdam, su iisg.amsterdam, Fondo M. presso la Fondazione Lelio e Lisli Basso di Roma, su fondazione basso. Gli anarchici contro il fascismo, celebre articolo di Giorgio Sacchetti. Bruno Misefari. Misefari. Keywords: implicatura. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Misefari” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Moderato: la ragione conversazionale -- da Crotone a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza.  (Roma). Filosofo italiano. Scuole Pitagoriche. Attivo in epoca neroniana.  Scrisse Lezioni pitagoriche, un'opera articolata in dieci libri, in cui l'autore, rappresentante di quella scuola di pensiero che assommava nel sincretismo ellenistico temi platonici, pitagorici, greci e orientali, pone in antitesi la «Triade» spirituale, rappresentata dall'Uno, l'Intelletto, l'Anima, alla «Diade» rappresentata dalla materia. Di tale opera ci restano solo alcuni frammenti tramandatici da Stobeo. Sembra che le sue Lezioni ebbero una certa influenza sul Neoplatonismo. Calle, Un pitágorico en Gades (Philostr., VA). Uso, abuso y comentario de una tradición, Gallaecia. Collegamenti esterni Moderato di Gades, su Treccani.it – Enciclopedie Istituto dell'Enciclopedia Calogero, M, Enciclopedia; M. Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia M., su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Categorie: Filosofi romani Persone legate a Cadice Neopitagorici. Moderato.

 

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